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DOCENTE

ROSA MONTANO
1 luglio 2019

STORIA DEL JAZZ


BIENNIO JAZZ - 1° ANNO

JOHN TCHICAI

Il sassofonista afro-danese John Tchicai (1936), figlio di una madre danese e padre
congolese, fu l'importante anello di congiunzione tra la scena di free-jazz originale di New
York e la scena europea che si sviluppò negli anni '70. Tchicai seguì Albert Ayler a New York
nel 1962 ed era onnipresente nei primi esperimenti pionieristici di improvvisazione di gruppo
libera, in particolare i New York Contemporary Five, un quintetto con Don Cherry su
cornetta e Archie Shepp su sassofono tenore che implementò i principi di Ornette Coleman's
Free Jazz (1960) sulle loro conseguenze (ottobre 1963), in particolare Conseguenze(l'unica
traccia con Cherry); e il New York Art Quartet con Roswell Rudd al trombone, Milford
Graves alla batteria e Lewis Worrell al basso, che ha sperimentato ampie gamme timbriche e
assoli polifonici al New York Art Quartet (novembre 1964) e Mohawk (luglio 1965).
Ha suonato su diverse pietre miliari del free jazz: New York Eye And Ear Control di
Albert Ayler (1964), Four For Trane di Archie Shepp (1964), John Coltrane's Ascension (1965)
e Roswell Rudd di Roswell Rudd (1965).

Tchicai tornò in Danimarca nel 1966 e formò la Cadentia Nova Danica (ottobre 1968),
inizialmente un gruppo free-jazz di nove pezzi che divenne un'orchestra "creativa" di 24
elementi per Afrodisiaca (luglio 1969). Tchicai, convertito alla spiritualità indiana, rimase in
gran parte silenzioso fino al 1977. Quindi formò gli Strange Brothers, un quartetto con un
sassofonista tenore che pubblicò Strange Brothers (ottobre 1977), che documenta
un'esibizione dal vivo, e Darktown Highlights (marzo 1977) e divisi nel 1981.

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Nel frattempo, Tchicai aveva anche pubblicato Solo (febbraio 1977) per soprano,
contralto e flauto, che comprendeva anche un duetto con il trombonista Albert Mangelsdorff,
e in particolare Real (marzo 1977), dodici vignette di lunghezza compresa tra due minuti e
otto minuti ( Nothing Doing in Krakow ) per un trio con il chitarrista Pierre Dorge e il
bassista Niels Henning Orsted Pedersen. Questi lavori hanno affermato uno stile fluido,
intimo, controllato e altamente razionale che sembrava più vicino all'atmosfera della musica
classica rispetto al free jazz. la world music (e non solo quella africana) gli è stata naturale e ha
intriso molte delle sue composizioni con sfumature ritmiche e liriche insolite per il free jazz.

Passando al sax tenore, Tchicai si unì alla New Jungle Orchestra di Pierre Dorge. Ha
anche formato un Orkester per registrare Merlin Vibrations (marzo 1983).

Cassava Balls (maggio 1985) fu una collaborazione tra Hartmut Geerken (pianoforte
preparato, tutti i tipi di percussioni, radio ad onde corte, corno tibetano, violoncello) e Don
Moye (tutti i tipi di percussioni) e Tchicai su tenore, flauto e alcune percussioni, ripresi per
The African Tapes (aprile 1985).

Oltre a queste collaborazioni, le registrazioni principali degli anni '80 consistevano in


diverse sessioni di quartetti: Timo's Message (maggio 1983) per un quartetto con due
contrabbassisti, Put Up The Fight (ottobre 1987), che lo ricongiungeva con la sezione ritmica
degli Strange Brothers plus vibrafonista e synth-man Bent Clausen per suonare la world-
music, Grandpa's Spells (marzo 1992) per un quartetto con la pianista Misha Mengelberg.

Nel 1991 Tchicai si trasferì in California e formò un septet di Afro-fusion, gli Archetypes
(due chitarre, tastiere, basso, batteria, percussioni), che registrarono Love Is Touching (giugno
1994). Più serio è stato Moonstone Journey (maggio 1999), con l'ensemble Ok Nok Kongo e
Tchicai su soprano e tenore che hanno creato una sorta di jazz funk d'avanguardia ( A Chaos
With Some Kind of Order e Spirals of Ruby ). Ma Tchicai ha ripetutamente sprecato il suo
talento in registrazioni mediocri e radiofoniche come Life Overflowing (1998), Infinitesimal
Flash (gennaio 2000), Hope is Bright Green Up North (ottobre 2002), Big Chief Dreaming
(aprile 2005), la maggior parte di loro è davvero imbarazzante, raramente presenta
composizioni Tchicai.

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Anybody Home (2001) ha raccolto due opere neoclassiche di Tchicai: Hulemusik
(giugno 2000), un concerto da camera in una grotta (che può essere raggiunta solo in barca), e
Forwards and Backwards (settembre 1990).

Il vero momento clou del nuovo decennio è stata la gioiosa cantata Hymne Ti Sofia
(maggio 2001), un'improvvisazione per organo a canne, sassofono e percussioni che mescolava
elementi di musica liturgica cristiana e free jazz.

Spring Heel Jack ha collaborato con Tchicai al suo With Strings (maggio 2005).

The All Ear Trio (luglio 2006) è stato Tchicai con il batterista Peter Ole Jorgensen e il
giocatore di canna Thomas Agergaard (Sirone ha suonato il basso su cinque tracce).

One Long Minute (febbraio 2008) presenta Alex Weiss (sax tenore, sax alto, percussioni),
Garrison Fewell (chitarra, percussioni, arco), Dmitry Ishenko (basso) e Ches Smith (batteria).
Look To The Neutrino (agosto 2008) presenta Greg Burk (piano, flauto), Marc Abrams
(contrabbasso, voce) ed Enzo Carpentieri (batteria).

John Tchicai e The Engines erano Dave Rempis (sax alto e tenore), Jeb Bishop
(trombone), Nate McBride (basso) e Tim Daisy (batteria) per Other Violets (maggio 2011),
che contiene i 20 minuti Cool Copy / Looking .

Tribal Ghost (febbraio 2007) documenta esibizioni dal vivo di John Tchicai (sax tenore e
clarinetto basso), Charlie Kohlhase di Dead Cat Bounce (sax alto, tenore e baritono),
Garrison Fewell (chitarra e percussioni), Cecil McBee (basso) e Billy Hart (batteria).

Hindukush Serenade (maggio 1977), una collaborazione dal vivo con Hartmut Geerken,
contiene Invocations for Angels And Demons di 24 minuti .

Clapham Duos (maggio 2005) documenta un'improvvisazione tra John Tchicai e Evan
Parker.

John Tchicai è morto nel 2012 all'età di 76 anni.

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JAZZ SUDAFRICANO

La scena jazz in Sud Africa è cresciuta molto come negli Stati Uniti. Attraverso esibizioni in
discoteche, balli e altri luoghi, i musicisti hanno avuto l'opportunità di suonare spesso musica.
Musicisti come il cantante Sathima Bea Benjamin hanno imparato andando in discoteche e
jam session e aspettando opportunità per offrire i loro talenti. Un aspetto unico della scena
jazz sudafricana è stata la comparsa di individui che imitavano gli artisti popolari il più vicino
possibile perché il vero musicista non era lì per esibirsi nella zona. Ad esempio, si potrebbe
trovare un "Cape Town Dizzy Gillespie" che imiterebbe non solo la musica, ma l'aspetto e lo
stile di Dizzy . [1]Questa pratica ha creato un ambiente forte per coltivare alcuni artisti che
alla fine lascerebbero il Sudafrica e diventare legittimi contributori alla scena jazz
internazionale.

Uno dei primi grandi gruppi di bebop in Sud Africa negli anni '50 fu il Jazz Epistles . [2]
Questo gruppo era composto dal trombonista Jonas Gwangwa , dal trombettista Hugh
Masekela , dal sassofonista Kippie Moeketsi e dal pianista Abdullah Ibrahim (allora noto
come Dollar Brand). Questo gruppo ha portato i suoni del bebop degli Stati Uniti, creati da
artisti come Dizzy Gillespie, Charlie Parker e Thelonious Monk , a Città del Capo con
Moeketsi che modella il suo sound e il suo stile su Parker's. Questo gruppo è stato il primo in
Sud Africa a tagliare un record nello stile bebop, ma i loro contemporanei, i Blue Notes,
guidati dal pianista Chris McGregor , non erano meno coinvolti nella scena jazz locale.
Insieme, questi due gruppi formarono la spina dorsale del bebop sudafricano.

Un uso precoce del jazz come strumento anti-apartheid fu la produzione di un musical


intitolato King Kong . [2] Scritto come un commento sociale su giovani sudafricani neri, gran
parte della musica è stata arrangiata ed eseguita da famosi musicisti jazz sudafricani, compresi
tutti i membri delle Jazz Epistles, meno il capobanda Abdullah Ibrahim. Il musical è stato
presentato in anteprima ad un pubblico integrato presso l' Università di
Witwatersrandnonostante gli sforzi del governo per impedirne l'apertura. L'università aveva
giurisdizione legale sulla sua proprietà ed era in grado di consentire la raccolta di un pubblico
integrato. Da questo punto in poi, mentre la tournée era in tournée in Sud Africa, ha portato
con sé questo sottotono di sfida. Il successo della commedia alla fine lo portò alla premiere a
Londra, e mentre falliva finanziariamente fuori dal Sud Africa, permise a molti musicisti jazz
locali di ottenere i passaporti e di lasciare il paese.

Nel marzo del 1960, si verificò il primo di una serie di piccole insurrezioni, in un evento che
ora è noto come il massacro di Sharpeville . [2] La censura è stata drammaticamente
aumentata dal governo dell'apartheid, che ha portato alla chiusura di tutte le sedi e gli eventi

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che si occupavano o impiegavano individui in bianco e nero. Anche le riunioni di oltre dieci
persone sono state dichiarate illegali. Di conseguenza, è stato creato un esodo di massa di
musicisti jazz che hanno lasciato il Sudafrica in cerca di lavoro. Tra questi il pianista Abdullah
Ibrahim, sua moglie e la cantante jazz Sathima Bea Benjamin, il trombettista Hugh Masekela
e la cantante Miriam Makeba . [1]

Per alcuni, la mossa si è rivelata fortuita. Ibrahim e Benjamin si trovarono in compagnia del
grande jazz americano Duke Ellington in un locale notturno di Parigi all'inizio del 1963.
L'incontro ebbe come risultato una registrazione del trio di Ibrahim, Duke Ellington presenta
il Dollar Brand Trio e una registrazione di Benjamin, accompagnata da Ellington, Billy
Strayhorn , Ibrahim e Svend Asmussen , chiamato A Morning in Paris . Artisti come
Masekela si recarono negli Stati Uniti e furono esposti di prima mano alla scena jazz
americana.

Uno dei più importanti sottogeneri del jazz della regione è Cape Jazz . La musica proviene da
Città del Capo e dalle città circostanti e si ispira alla musica carnevalesca della zona, a volte
indicata come Goema.

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KWELA

Il kwela è una gioiosa e divertente musica da ballo nata in Sudafrica negli anni quaranta, che
ebbe origine dalla musica tradizionale africana e dal jazz. Nacque nelle strade delle township,
i ghetti neri delle città, come musica di protesta contro l'apartheid.[1]

La parola kwela viene dalla parola khwela delle lingue xhosa e zulu, che significa "salire su",
un termine spesso usato dai musicisti kwela per invitare i presenti ad unirsi alle danze. Lo
stesso termine viene usato dai poliziotti sudafricani per spingere le persone arrestate a salire
sui furgoni della polizia.[2]

Storia
Il kwela trae le sue origini dal marabi, la musica suonata fin dagli anni venti nelle township
sudafricane, e dal swing proveniente dalle comunità afroamericane degli Stati Uniti.
Raggiunse una popolarità tale da far conoscere la musica sudafricana nel mondo.[3] Secondo
alcuni, un ruolo importante nella diffusione del kwela nel paese lo ebbe un gruppo di
musicisti del Malawi, in trasferta in Sudafrica.[4]
Il jazz, che da qualche decennio si poteva ascoltare anche in Sudafrica, rappresentava una
forma di riscatto dei neri su scala mondiale. Era musica "nera" suonata da "neri", e
l'accostamento di esso con le festose melodie della tradizione sudafricana diede vita ad un
originale fenomeno proprio delle comunità africane soggiogate dalle leggi razziali.[1] Vi
aderirono larghi strati delle fasce sociali più basse, felici di poter cantare, ballare ed affermare
i propri diritti. Il governo dei bianchi vide il kwela come un pericoloso elemento di disordine,
lo bandì dai programmi radiofonici e ne ostacolò il diffondersi.[1]
Era suonato da musicisti di colore e lo strumento principale su cui si basava era inizialmente il
tin whistle, un piccolo ed economico flauto di latta o di legno. Altri strumenti che
accompagnano il tin whistle sono la chitarra, il basso e la batteria.[5] Si dice che i suonatori
dei tin whistle di kwela fossero anche delle vedette che avvisavano dell'arrivo della polizia chi
beveva alcohol illegalmente durante i concerti.[3]

Influenze
Così come altri generi di musica africana, il kwela ha avuto grande influenza sulla musica
occidentale, come nei casi degli album A Swingin' Safari, della Bert Kaempfert Orchestra
(1962), e Graceland di Paul Simon (1986). Fu alla base delle musiche mbaqanga e kwaito
sudafricane e della musica benga del Kenya.

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Artisti
Tra i più famosi suonatori sudafricani kwela di tin whistle ci furono Lemmy Mabaso e Spokes
Mashiyane. Una particolare importanza ebbero diversi degli artisti sudafricani che formarono
i Brotherhood of Breath, tra i quali Mongezi Feza, Dudu Pukwana e Johnny Dyani. Cresciuti
nelle atmosfere kwela delle township, si trasferirono nel 1964 nel Regno Unito per sfuggire ai
problemi legati all'apartheid. Ebbero un ruolo principale nel ravvivare la stagnante atmosfera
che gravava sul jazz britannico con la loro township music, che potevano felicemente suonare
per tutta la notte.[6] Nel 1961 si era già trasferito a Londra Gwigwi Mrwebi, che sei anni
dopo pubblicò il disco Kwela, insieme a Dudu Pukwana, Chris McGregor, Laurie Allan,
Ronnie Beer e Coleridge Goode. Il disco doveva originariamente intitolarsi Mbaqanga Songs,
ma il termine mbaqanga venne forse ritenuto troppo difficile da pronunciare per il pubblico
londinese, per cui si optò per il più abbordabile kwela.
Tra le più recenti evoluzioni del kwela, da segnalare gli album dei Mafikizolo, vincitori di
importanti riconoscimenti in ambito sudafricano,[7] e dei Freshlyground, band sudafricane
degli anni duemila.

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THE BLUE NOTES

The Blue Notes era un gruppo sudafricano che fondeva il jazz alla tradizionale musica kwela
sudafricana. Fu fondato a Città del Capo nel 1962 dal pianista e compositore sudafricano
bianco Chris McGregor (1936-1990), che mise assieme un gruppo di musicisti di colore. Fu
un riuscito esperimento di coniugare le sonorità africane con il free jazz americano. Dopo il
trasferimento in Europa, divennero uno dei gruppi di punta del free-jazz britannico.

Indice
Gli inizi in Sudafrica
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Affascinato dalla musica dei ghetti neri sudafricani, in particolar modo dalla kwela e dal free
jazz di Cecil Taylor, McGregor formò nel 1963 The Blue Notes, un sestetto con locali
musicisti di colore: il trombettista Mongezi Feza, il contrabbassista e pianista Johnny Dyani, i
sassofonisti Dudu Pukwana e Nikele Moyake ed il batterista Louis Moholo.[1]

Con il loro talento e con l'eccitante mix di musica africana e jazz che proponevano, riscossero
grande successo ed ottennero il premio come miglior gruppo al festival nazionale sudafricano
di jazz del 1963 che si tenne a Johannesburg.[1] Dopo il festival, il gruppo si trattenne in città
per un breve periodo suonando in club locale. Parallelamente ai Blue Notes, McGregor
formò l'orchestra jazz Castle Lager Big Band, sponsorizzata da una birra locale, che incise il
disco Jazz - The African Sound, a cui parteciparono alcuni dei Blue Notes.

Tornati a Città del Capo, registrarono i loro primi brani in studio alla radio nazionale South
African Broadcasting Corporation. Queste registrazioni sarebbero state pubblicate nel 2002
dalla Proper Music con il titolo Township Bop. Nei primi brani facevano parte della
formazione tre musicisti che uscirono subito dal gruppo lasciando il posto a Dyani, Feza e
Moholo, i quali suonarono nelle restanti tracce ed entrarono così in quella che è considerata
la formazione originale dei Blue Notes.

La registrazione di un concerto a Durban nel 1964 sarebbe stata pubblicata nel 1995 dalla
Ogun Records nell'album Legacy: Live in South Africa 1964. Questa etichetta, che pubblicò
la maggior parte degli album dei Blue Notes, fu fondata dal connazionale bianco Harry
Miller, un bassista trasferitosi in Europa. Nel concerto di Durban, i Blue Notes esibirono con
successo un hard bop aggressivo, offrendo un assaggio di quella che sarebbe stata la loro
brillante, seppur breve carriera.[2]

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Le dure leggi dell'apartheid allora vigenti in Sudafrica proibivano a bianchi e neri di esibirsi
insieme e The Blue Notes erano costretti a suonare clandestinamente. Fu questo il principale
motivo che spinse la band a lasciare il paese nel 1964.[3]

Il trasferimento in Europa
La prima tappa fu il Jazz Festival di Antibes, nel quale si esibirono per poi rimanere in
Francia per qualche tempo. Si trasferirono poi in Svizzera, dove restarono un anno
spostandosi tra Zurigo e Ginevra. Nell'aprile del 1965, si stabilirono a Londra, grazie a un
ingaggio per suonare nel club del jazzista Ronnie Scott. In quel periodo, l'ondata di interesse
per il jazz che aveva scosso la capitale stava scemando e, visti gli scarsi introiti, i Blue Notes
lasciarono Londra per andare a Copenaghen.

Dopo un breve periodo in Danimarca, ritornarono a Londra per suonare nel locale The Old
Place, il vecchio club di Scott trasformato in laboratorio per artisti emergenti di jazz
d'avanguardia. Qui fecero la conoscenza ed impressionarono fortemente giovani jazzisti
britannici come Keith Tippett, Evan Parker, John Stevens e John Surman, i quali avrebbero
in seguito riconosciuto la grande influenza che i Blue Notes ebbero su di loro.

L'arrivo di questi artisti sudafricani aprì nuovi spiragli per i jazzisti britannici, che fino a quel
momento si esibivano in un jazz serioso e sperimentale o nelle orchestrine da ballo.
Personaggi come Feza e Pakwana, con la loro incredibile capacità di passare con disinvoltura
dal più sfrenato free jazz ad una gioiosa e divertente musica da ballo, colmarono questo gap
con la loro meravigliosa township music, la musica dei ghetti sudafricani, che potevano
felicemente suonare per tutta la notte.[4]

Il loro apporto fu importante non solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello
temperamentale, con la gran gioia di vivere che trasmettevano. Si rivelarono un toccasana per
la stagnante atmosfera europea e divennero oggetto di ammirazione da parte dei maggiori
interpreti del jazz e della fusion di oltremanica, spazzando via i pregiudizi tipici dei londinesi
verso i nuovi arrivati, ed il clima di competitività che si era instaurato.[4]

Problemi legati allo status di rifugiati, al razzismo ed alla mancanza di ingaggi portarono però
alla disgregazione progressiva del gruppo.[1] Verso la fine del 1965, Feza tornò a
Copenaghen, mentre Dyani e Moholo vennero ingaggiati da Steve Lacy per un tour
sudamericano. Prima del loro ritorno, Moyake tornò in Sudafrica, dove morì di tumore nel
1966.

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Gli altri componenti si riunirono a Londra, con il sassofonista Ronnie Beer al posto di
Moyake, e nel 1968 registrarono il loro primo album, Very Urgent, prodotto da Joe Boyd e
pubblicato quello stesso anno dalla Polydor Records a nome di 'The Chris McGregor Group'.
[5] Poco dopo, una simile formazione registrò per la Polydor Up To Earth, che verrà
attribuito a 'The Chris McGregor Septet' e pubblicato però dalla Fledg'ling solo nel 2008.[6]
In questi due lavori è evidente l'evoluzione della band, il cui sound è più indirizzato al free
jazz.
Lo scioglimento dei Blue Notes e la nascita dei Brotherhood of Breath
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Brotherhood of
Breath.
Nel 1969 McGregor fu invitato in Nigeria per comporre con musicisti locali la colonna
sonora di un film. Venne così notato dall'"Arts Council of Great Britain", un ente statale che
finanzia artisti meritevoli, e grazie ai fondi che ricevette fondò la big band Brotherhood of
Breath, che all'inizio prese il nome di Chris McGregor's Brotherhood of Breath.[7]
Fondato nel 1969, il super-gruppo si stabilì a Londra e vide confluire buona parte dei
componenti dei Blue Notes con personaggi di spicco del jazz britannico. Questi ultimi
facevano sostanzialmente capo ad un altro ambizioso progetto jazz, quello dei Centipede di
Keith Tippett. Con la costituzione dei Brotherhood of Breath, il progetto Blue Notes venne
abbandonato. Solo in seguito, alcuni dei componenti si sarebbero ritrovati occasionalmente
per suonare come Blue Notes.
Dopo lo scioglimento
Il 23 dicembre del 1975, a soli 9 giorni dalla morte di Feza, The Blue Notes si riunirono per
commemorarlo, dalla registrazione di questa esibizione fu realizzato il disco Blue Notes for
Mongezi, pubblicato l'anno dopo dalla Ogun.[8] La tensione emotiva e la commozione con
cui gli ex compagni gli resero omaggio è particolare, e la musica si differenzia da quelle dei
lavori precedenti per il forte richiamo alle comuni radici africane.[9]
Dopo un'ottima carriera solista in Europa, Johnny Dyani morì a Berlino nel 1986. Anche per
lui i superstiti di The Blue Notes si riunirono a suonare per onorarne la memoria, e da questo
incontro venne realizzato l'album Blue Notes For Johnny.
Il 21 settembre 2007, il presidente sudafricano Thabo Mbeki conferì ai Blue Notes
l'onorificenza nazionale dell'Ordine di Ikhamanga per i meriti acquisiti nella diffusione della
musica sudafricana e per aver sfidato le tiranniche leggi razziali allo scopo di esprimere il
proprio talento, divenuto famoso in tutto il mondo. Della formazione originale era
sopravvissuto il solo Louis Moholo, che tuttora si esibisce.

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Krzysztof Komeda
Nato Krzysztof Trzciński, scelse Komeda come suo nome d' arte solo dopo la laurea
all'università come mezzo per prendere le distanze come musicista dal suo lavoro diurno in
una clinica medica. [2] [3]
È cresciuto a Częstochowa e Ostrów Wielkopolski, dove nel 1950 si è laureato in "liceo (liceo)
per ragazzi". Mentre a scuola, ha partecipato al Music and Poetry Club. Dopo la scuola
superiore è entrato all'Accademia medica di Poznań per studiare medicina. Terminò i suoi
studi di sei anni e ottenne un diploma di medico nel 1956. Scelse di specializzarsi come
medico di otorinolaringoiatria .
Ha preso lezioni di musica fin dalla prima infanzia; diventare un rinomato virtuoso era il suo
sogno. Divenne membro del conservatorio di Poznań all'età di otto anni, ma la seconda
guerra mondiale sventò i suoi piani. Komeda esplorò la teoria della musica e imparò a
suonare il pianoforte, durante questo periodo e in seguito, fino al 1950; tuttavia, era
consapevole della perdita degli ultimi sei anni. [ citazione necessaria ]
Komeda era interessato alla musica leggera e dance. Conobbe Witold Kujawski, diplomato
della stessa scuola e già noto bassista, al ginnasio di Ostrów Wielkopolski. Fu Kujawski che
conobbe Komeda-Trzciński con il jazz e lo portò a Cracovia . Il periodo romantico del jazz
polacco, chiamato le catacombe, ha avuto la sua giornata sotto i riflettori. La pubblicità del
concerto non esisteva allora. Le jam session, in cui hanno preso parte musicisti famosi come
Matuszkiewicz, Borowiec, Walasek e Kujawski, hanno avuto luogo nel leggendario piccolo
appartamento di Witold a Cracovia. [ citazione necessaria ]
Alcuni anni dopo, divenne chiaro perché Komeda era affascinato dal be-bop interpretato da
Andrzej Trzaskowski . Il fascino del jazz e l'amicizia con famosi musicisti rafforzarono i suoi
legami con la musica, anche se era un medico di professione. Ha lavorato per un certo
periodo con la prima jazz band polacca del dopoguerra, un gruppo chiamato Melomani che
era di Cracovia e Łódź, i cui pilastri erano Matuszkiewicz, Trzaskowski e Kujawski.
Successivamente, ha suonato con vari gruppi pop di Poznań. Uno di loro, il gruppo di Jerzy
Grzewiński, presto trasformato in una band dixieland. Komeda è apparso con Grzewiński
all'I Jazz Festival di Sopot nell'agosto del 1956, ma ha raggiunto il successo esibendosi con il
sassofonista Jan Ptaszyn Wróblewski e il vibrafonista Jerzy Milian, perché dixieland non
soddisfaceva le aspettative di Komeda all'epoca. Era più affascinato dal jazz moderno. Grazie
a questa passione, è stato creato il Sextet Komeda. Krzysztof Trzciński ha usato il nome
d'arte "Komeda" per la prima volta quando lavorava in una clinica laringologica e voleva
nascondere il suo interesse per il jazz ai colleghi di lavoro. Il jazz stava iniziando la sua lotta
per la rispettabilità con le autorità comuniste nell'era del "disgelo" e con la società polacca; il
jazz era considerato una musica poco costosa e sospetta nei night club. [ citazione necessaria ]
Il Komeda Sextet divenne il primo gruppo jazz polacco a suonare il jazz moderno e le sue
esibizioni pionieristiche aprirono la strada al jazz in Polonia. Suonava il jazz legato alle

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tradizioni europee e che era la sintesi dei due gruppi più popolari dell'epoca: il Modern Jazz
Quartet e il Gerry Mulligan Quartet. [ citazione necessaria ]
Nei tredici anni successivi al I Sopot Jazz Festival, la personalità artistica di Krzysztof
Trzciński divenne più matura, cristallizzata e liricamente poetica. Krzysztof era, soprattutto,
un poeta in costante ricerca che riusciva a trovare modi di espressione individuale di sé nel
jazz, nel lirismo slavo e nelle tradizioni della musica polacca. [ citazione necessaria ]

Anni '60
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aggiungendo citazioni da fonti attendibili . Il materiale non utilizzato può essere contestato e
rimosso . ( Gennaio 2016 ) ( Scopri come e quando rimuovere questo messaggio modello )
Krzysztof Komeda, frammento di targa commemorativa a Poznań
Gli anni 1956-1962 videro Komeda con il suo gruppo che prendeva parte a festival nazionali
e preparava programmi ambiziosi. Questi furono anche gli anni dei suoi primi successi
all'estero a Mosca, Grenoble e Parigi. Uno spettacolo interessante è stato creato in quel
momento; è stato chiamato "Jazz and Poetry" e mostrato su Jazz Jamboree '60, e più tardi
nella Warsaw Philharmonic. Comincia anche l'avventura di Komeda con la musica da film.
Punteggi per i film di Roman Polanski come Knife in the Water (1962), di Andrzej Wajda
come Innocent Sorcerers (1960), e di Janusz Morgenstern Good Bye, Till Tomorrow(anche
1960) sono stati creati. Questo periodo, che nella biografia artistica di Komeda può essere
definito il periodo della crescita e del miglioramento del proprio linguaggio musicale, è stato
coronato da "Ballet Etudes" su Jazz Jamboree '62. Sebbene la reazione dei critici nazionali
per gli Studi fosse piuttosto fredda, ha aperto le porte all'Europa per Krzysztof Komeda
Trzciński.
Komeda visitò la Scandinavia per la prima volta nella primavera del 1960 e tornò lì ogni
anno da allora in poi. Tutte le sue esibizioni al "Gyllene Cirkeln" (Golden Circle) a Stoccolma
e al Montmartre Jazz Club di Copenaghen, dove si esibirono le più famose celebrità del jazz
americano, si rivelarono un vero successo. Metronome, la casa discografica svedese, ha
registrato la sua musica suonata da un quintetto internazionale: Allan Botschinsky (tromba),
Jan "Ptaszyn" Wróblewski (sax tenore), Krzysztof Komeda (piano), Roman Dyląg (nome
d'arte: Gucio, contrabbasso) e Rune Carlsson (percussioni). Il famoso regista danese Hennig
Carlsen ha ordinato la musica per i suoi film Hvad Med Os e Sult (il film basato sul romanzo
di Knut Hamsun Hunger). Komeda anche scritto la musica per il film di Tom Segerberg
Kattorna e diversi punteggi Polanski. Complessivamente Komeda ha scritto più di 70 colonne
sonore. Dopo i successi in Scandinavia, arrivarono ulteriori successi: festival jazz a Praga,
Blend, Koenigsberg; toure della Bulgaria e della Germania occidentale e orientale. Il Komeda
Quartet ( Tomasz Stańko (tromba), Roman Dyląg (basso), Rune Carlsson (percussioni) e
Zbigniew Namysłowski (sassofono)) hanno registrato nel maggio 1967 "Meine süße
europäische Heimat - Dichtung & Jazz" per la casa discografica della Germania Ovest
Electrola . Komeda è rimasto a Los Angeles nel 1968 dove ha composto musiche per la

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Rosemary's Baby di Roman Polanski (con una delle sue composizioni più riconoscibili,
"Rosemary's Lullaby "cantata da Mia Farrow ) e The Riot di Kulik .
Nel dicembre 1968, a Los Angeles , Komeda ebbe un tragico incidente che portò a un
ematoma del cervello. Fu spinto via da una scarpata dallo scrittore Marek Hłasko durante
una festa alcolica . Roman Polański ha menzionato nelle sue memorie che, a seguito di un
brusco scontro con Marek Hłasko, Komeda è caduto e ha riportato ferite alla testa. Le cure
mediche nell'ospedale americano non gli hanno salvato la vita. Dopo essere stato trasportato
a casa in Polonia in coma e in uno stato terminale, è morto.
Come musicista jazz, ha esercitato un'influenza cruciale sulla creazione di uno stile originale,
spesso descritto come la scuola polacca del jazz, che successivamente ha influenzato lo
sviluppo della scena jazz polacca dopo la sua morte. Dal 1995, il Komeda Jazz Festival si tiene
regolarmente, incluso un Concorso internazionale di compositori. L'obiettivo del concorso è
promuovere giovani artisti.

AESTIGMATIC
Se parliamo di jazz, ho la presunzione di definirmi un appassionato vero. Esperto no, servono
un'altra cultura e un'altra preparazione, anche in termini di teoria della musica, ma
appassionato sì (spero di essermi meritato il titolo che di solito spetta a chi all'apparenza sa,
ma nella sostanza non sa).
Ecco, da un appassionato beccatevi questa: uno fra i dischi jazz più incredibili, e anzi spaziali
di tutti i tempi non arriva dagli Stati Uniti. Badate che stiamo parlando di un'opera somma,
da catalogarsi dopo pochi ascolti fra le cose in grado di cambiarti la giornata, e anzi la vita
intera: quindi, prima di mettevi a ridere, abbiate l'accortezza di dedicarmi due minuti.
Il disco in questione, quello che può rovesciarti l'esistenza, arriva dalla Polonia. E la mente
che si nasconde dietro l'ambizioso progetto è un sommo compositore caro anche a Roman
Polański, che ha beneficiato dalle sua creatività per diverse colonne sonore: parlo di Krysztof
Komeda.
Arrivo al dunque: “Astigmatic” di Krzysztof Komeda, genio delle sette note scomparso
prematuramente nel 1969 (a 38 anni non ancora compiuti), è un disco in grado di rovesciarti
addosso all'anima un'energia inusitata, degna delle primissime performance di tutta la storia
del jazz (siamo delle parti del Mingus e del Coltrane migliori, per intenderci). Di più,
“Astigmatic” è un disco che rompe la tua anima in due pezzi, e poi la calpesta finché non
restano solo macerie e brandelli sparsi: il classico disco da mettere in loop a tutti coloro che
ritengono il jazz una musica tecnicamente interessante, ma poco emozionante (ah ah).
Al di là delle peculiarità formali, su cui avrò dà modo di intrattenermi a breve, il capolavoro
del polacco è un'opera straordinaria perché dotata, prima di ogni altra cosa, di un senso del
drammatico senza precedenti.

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 13


E' uno di quei rari casi in cui ogni nota, ogni fuga, ogni slancio che sfuma in un momento di
calma incandescente diventa potente metafora dell'esistenza. “Astigmatic”, per dirla con
qualche critico serio, è un disco importante, ma non esigente: anche se non si è
particolarmente affini al genere, verrà abbastanza naturale entrare in sintonia con le
complesse (ma naturali) sfumature emotive del suo impasto sonoro. Verrà naturale
innamorarsi, in sostanza.
La storia di Komeda merita qualche cenno: Kryzstof, in realtà, di cognome fa Trzicinski, ma
dato che il regime sovietico non vede di buon occhio le musiche libertine che arrivano da
oltreoceano, è costretto a scegliersi un nome d'arte che possa mascherarne l'identità.
Non è il solo: la dittatura polacca mette al bando il jazz, ed è allora curioso notare come la
musica che in America serve per rampognare le storture e le costruzioni di un razzismo
ancora vivo e vegeto, nell'Europa dell'est sia invece una radicale forma di resistenza culturale
opposta a un regime di segno completamente diverso.
Komeda, che suona il piano, si forma nelle jam sessions clandestine della Polonia “indie” e,
passo dopo passo, mostrando una velocità prodigiosa anche in termini di pensiero musicale,
diventa un gigante della musica.
A metà anni '60 Kryzstof assembla un quintetto eccezionale: al sax alto scova il talento
immaginifico di Zbigniew Namysłowski, al tempo venticinquenne o giù di lì; alla tromba un
altro fuoriclasse destinato a scrivere pagine memorabili su tutti i fronti, Tomasz Stańko, ancor
più giovane e se possibie ancor più talentuoso. Il gruppo è una specie di dream team
paneuropeo, in quanto allinea anche il batterista Rune Carlsson e il bassista tedesco Günter
Lenz, il “vecchio” della banda, con i suoi ventisette anni.
Komeda è la mente e il regista (un po' il Kazimierz Deyna della situazione, per restare in
Polonia, parlando però di calcio), e con la suite che regala il titolo all'album allestisce uno fra i
brani più febbrili dell'intera storia del jazz, riultato tanto più impressionante se si pensa all'età
verdissima dei protagonisti.
Dopo la melodia sfibrata e dal sapore balcanico della tromba, prende corpo un crescendo
"modale" di proporzioni ancestrali: la batteria pulsa nervosa e a tratti rockeggiante; il piano,
con le sue prolungate linee di fuga (sempre fedeli agli schemi modali), è irrequieto e si cala nel
ruolo di vero e proprio direttore d'orchestra, incaricato di guidare il gruppo anche in termini
di coesione emotiva; la tromba, invece, assume il compito di disegnare trame cariche di colori
aspri, perse dentro un'angoscia esistenziale cristallina, celeste.
La performance di Stańko è fra le pagine più terribili e poetiche della storia dello strumento:
Tomasz cava dall'ottone una vocalità dolce ma dilaniata, a metà strada fra il Miles Davis più
inquieto e il Don Cherry più lunatico e turbolento.
A marcare la differenza, qui, è però anche il tono delle melodie, radicato nella tradizione
della musica dell'Europa orientale, il che permette di qualificare “Astigmatic” come
capostipite dei capolavori che segnano la strada europea alla musica afroamericana. Il
sassofono contralto segue con un'intereptazione altrettanto implorante, e forse ancor più

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 14


contorta, capace quasi di tradurre in chiave lirica mitteleuropea il folle rumorismo di Ayler e
di Coltrane. Il finale è da brivido: raccoglie il meglio di tutti i protagonisti in un crescendo
parossistico e pulsante.
I sette minuti di “Kattorna” non valgono di meno: il geniale tema introduttivo, esposto dai
due fiati all'unisono, si apre rapidamente in un'improvvisazione dal sapore post-bop, in cui il
melodismo rimane un distillato di efficacia comunicativa. La musica si apre in campate ariose
che consentono alle due voci di allestire un dialogo fitto e commovente, diretto e confessionale
sino all'inverosimile: sembra quasi di vedere gli strani meccanismi neuronali dei vari musicisti
tradursi in una successione ragionata di note.
I sedici minuti di “Svantetic” meriterebbero una descrizione decisamente approfondita,
perché il loro tema in calando, percorso da solenni pause “angolari” (quasi Monkiane) e da
frizioni interne sottili, è pathos insostenibile, o se vogliamo un altro pezzo di storia.
Evito però di dilungarmi oltre e mi limito a un sollecito: nobilitate un'oretta della vostra
giornata con il genio polacco, se pensate che la musica sia un'esperienza, una questione
centrale dell’esistenza.
senza la rete, un capolavoro come “Astigmatic” di Krzysztof Komeda sarebbe stato
disponibile solo ai pochi disposti a procurarselo. Su YouTube, invece, c’è tutto, e anche con
una discreta qualità audio.
Tanto per dire: se io avessi dovuto procurarmi questo disco quando cominciai ad ascoltare
jazz, nei preistorici anni Novanta, in un paesino della provincia pugliese, probabilmente ci
avrei rinunciato in partenza. Oggi, un sedicenne ci arriva in un click. (Certo: bisogna che ne
senta parlare, che abbia la sensibilità per andarselo a cercare e per capirlo. Ma questo è un
altro problema. Il disco, intanto, c’è).
Solo due parole su Komeda: vero nome Krzysztof Trzciński, è noto ai più per aver composto
le colonne sonore di molti capolavori di Roman Polanski (Il coltello nell’acqua, Rosemary’s
Baby, Cul de sac, Per favore non mordermi sul collo), ma fu anche uno dei pionieri del jazz
europeo.
Peccato sia scomparso, non ancora trentottenne, nel 1969. Morte assurda: durante una festa a
Los Angeles, dov’era andato su invito di Polanski, cominciò a scazzottarsi per gioco con
l’amico scrittore Marek Hłasko e finì spinto giù per una scarpata, procurandosi un trauma
cranico che prima lo mandò in coma e poi lo portò alla morte.
In “Astygmatic” si sente chiarissimo l’assorbimento dei coevi gruppi davisiani e del free jazz,
unito però a una sensibilità compositiva del tutto personale. I tre lunghi brani che lo
compongono – il primo, la title-track, occupava da sola tutto il lato A dell’LP – non
somigliano a nient’altro che io conosca.

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 15


JAN JOHANSSON
Söderhamn è una cittadina di circa 12 mila abitanti della Svezia orientale, la cui maggiore
attrattiva è Oskarsborg, una torre costruita nel 1895 sulla cima di una collina che domina il
centro cittadino. Il monumento celebra la visita del re Oscar II che in realtà non mise mai
piede in città. La tranquillità della popolazione fu turbata nel 2003 quando l’amministrazione
locale e il National Public Art Council Sweden decisero di trasformare il vecchio Apoteks
Park nel Jazzparken, arricchito da una moderna istallazione. Su una larga superficie circolare
coperta di ghiaia furono inseriti dodici piccoli pozzetti riempiti di biglie di vetro. Nel corso
dell’inverno il sole che si riflette sulle biglie scioglie la neve e riscalda chi si trova nelle
vicinanze. D’estate i raggi del sole rimbalzano sulla superficie di vetro e creano giochi di luce
visibili anche a distanza (http://www.ebbamatz.com/folio_img.asp?id=90&typ=txt).
A Söderhamn c’è però chi preferiva il vecchio parco della farmacia e che non riesce ad
apprezzare la moderna concezione dell’istallazione sebbene questa sia stata pensata e
dedicata a un illustre concittadino, il pianista Jan Johansson. Ancora oggi in Svezia Johansson
è più noto come l’autore del tema e della canzone sigla del telefilm Pippi Långstrump (Pippi
Calzelunghe), piuttosto che per essere stato uno straordinario interprete del pianoforte e
compositore jazz (http://www.youtube.com/watch?v=8hFFN7WXFaE). Al di fuori della
Svezia il suo nome è praticamente sconosciuto, così come è raro imbattersi nei suoi dischi che
sono decisamente interessanti e sorprendentemente innovativi e originali se contestualizzati
nel periodo della loro uscita. Johansson si esprimeva al meglio in duo o in trio ed era a suo
agio sia con i tempi velocissimi che sulle atmosfere lente. Suo il merito di aver allargato
l’ambito tematico del jazz al folklore. Il suo Jazz på svenska (Jazz in svedese) del1964, induo
con lo straordinario contrabbassista Georg Riedel fu, con oltre 250 mila copie, uno dei dischi
più venduti nella storia della discografia svedese. L’album riprende i temi popolari scandinavi
e li utilizza come base per improvvisazioni misurate, scevre da virtuosismo . L’interazione tra
il limpido pianoforte di Johansson e la profonda cavata del contrabbasso di Riedel sono
esemplari, le semplici melodie popolari sono letteralmente meravigliose e le improvvisazioni
sono in realtà delle variazioni nel senso classico del termine anche se permeate di blues. Ne
sono classici esempi Visa från Utanmyra (http://www.youtube.com/watch?
v=_8KydQTvBMk) e Visa från Rättvik (http://www.youtube.com/watch?
v=KcQ99Wt_YyY) che da sempre sono tra i brani più apprezzati dell’album.
Johansson nacque il 16 settembre 1931 e cominciò a suonare il pianoforte nel 1942. Fu
membro a Söderhamn dell’orchestra di Gunnar Hammarlund fino al 1951 anno in cui si
trasferì a Göteborg per seguire i corsi di ingegneria elettronica presso la Chalmers
Universityof Technology. Nelle pause di studio continuò a suonare e a dirigere varie
formazioni. Il richiamo della musica lo strappò ben presto agli studi. Tra il 1958 e il 1959 fece
parte del quartetto di Gunnar Johnson e a partire dal giugno 1959 suonò per sei mesi al Café
Montmartre di Copenhagen nel gruppo che accompagnava Stan Getz. Partecipò ai concerti
danesi di Oscar Pettiford del 1959 e accompagnò Helen Merrill nelle sue due settimane di
concerti al Café Montmartre. Nel 1960, Johansson fu il primo europeo a prendere parte a

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 16


una tournée del Jazz at the Philharmonic. L’anno successivo il pianista si trasferì a Stoccolma
unendosi all’orchestra di Arne Domnérus e formò il suo trio, dapprima con Gunnar Johnson
al contrabbasso e Ingvar Callmer alla batteria e successivamente con Georg Riedel e il Egil
Johansen. Saltuariamente questo secondo trio era integrato dal chitarrista Rune Gustafsson
(http://www.youtube.com/watch?v=dN74qJW6IA8). Anche se la prima session da leader
risale al 1956 è con 8 Bitar (8 bits) del 1961 che Johnasson si propone come musicista maturo
e completo. Il suo album affronta le tematiche modali del post bop con incursioni sul terreno
dell’avanguardia. Prisma (http://www.youtube.com/watch?v=RBohb6O1d0I) è un esempio
della raggiunta età matura jazzistica. L’anno successivo Johansson, con Riedel e Johansen,
diede vita all’Innertrio una formazione straordinaria per la capacità d’integrazione dei suoi
componenti. Un trio che, quello di Bill Evans con Scott LaFaro e Paul Motian, suonava come
un tutt’uno, con tre solisti al servizio della musica. L’album è un passo avanti rispetto al
precedente e, sebbene Johansson si mostri ancora intimamente legato ai brucianti bop, come
l’iniziale 3, 2, 1, go, mostra di indirizzarsi sempre più decisamente verso brani melodici dalla
accentuata cantabilità. Ne è un tipico esempio Bolles vaggvisa (http://www.youtube.com/
watch?v=rxNhkphKpmw). Nel maggio e giugno 1964 Johansson registra In pleno,
maggiormente sperimentale e per questo molto interessante, a cui fa seguito in ottobre Jazz
på svenska con cui giunge al grande successo. “Volevo solamente dare la possibilità di
ascoltare queste melodie che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute nella soffitta di una
biblioteca, dove io le ho trovate” dichiarò Johansson sulle note di copertina del disco. “Sono
stato attratto dai canti popolari svedesi, perché mi hanno ricordato di alcuni elementi del jazz.
Le blue note mi hanno attratto e le canzoni hanno un ritmo molto suggestivo costruito
all’interno della melodia. E’ sufficiente solo suonarle così come sono. Non volevo abbellirle in
alcun modo”.
All’album fecero seguito due altri lavori dedicati a temi popolari, Jazz på ryska (cf. Kvällar i
Moskvas förstäder http://www.youtube.com/watch?v=u6AFw4tbg0M e Step, min step
http://www.youtube.com/watch?v=g2j739Ig3S8&feature=related) e Jazz på ungerska, con il
violinista danese Svend Asmussen, rispettivamente dedicati alla tradizione russa e ungherese.
Si tratta di album evidentemente ispirati da motivi commerciali e purtroppo non
completamente riusciti anche per la minore versatilità del materiale folklorico scelto, rispetto
a quello svedese. Non disprezzabili alcuni momenti che raggiungono le vette artistiche di Jazz
på svenska.
Tra il 24 settembre e il 9 ottobre 1968 Johansson registrò 46 brani di folk svedese e musica
classica utilizzando formazioni allargate. Le musiche erano destinate ad essere utilizzate come
sottofondo di un quiz televisivo. L’intero corpo di questa musica fu poi raccolto in un album
triplo, intitolato Musik genom fyra sekler med Jan Johansson (Musiche di quattro secoli con
Jan Johansson) e che fu pubblicato postumo ottenendo un Grammy. Solo un mese dopo la
fine delle registrazioni, il 9 novembre 1969 Johansson morì sul colpo in un incidente
automobilistico. L’auto su cui viaggiava verso Jönköping dove doveva tenere un concerto in
una chiesa, si schiantò controla corriera E4 a Turenberg, Sullentuna. Johansson riposa nel
cimitero di Skogskyrkogården a Enskede, un quartiere di Stoccolma. (http://

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 17


www.findagrave.com/cgi-bin/fg.cgi?page=pv&GRid=13783570&PIpi=31831158). Nel 1999
gli è stato dedicato il film documentario Trollkarlan (il mago) diretto da Anders Østergaard.
E’ possibile ascoltare diversi brani dal vivo di Jan Johansson in quartetto su
http://www.youtube.com/watch?v=Lr9EdkOHbUI&feature=related

JAN GARBAREK
La musica di Garbarek costituisce una delle bandiere della casa discografica ECM, che
praticamente ha pubblicato tutti i suoi dischi. A partire dalla fine degli anni settanta,
Garbarek ha sviluppato uno stile di ispirazione lieve e lunare che utilizza toni acuti e lunghe
note sostenute (che ricordano gli inviti alla preghiera islamici) nonché l'uso sapiente delle
pause. Fece le sue prime incisioni alla fine degli anni sessanta. Seguace della prima ora del
free jazz di Albert Ayler e Peter Brötzmann, nel 1973 voltò le spalle alle aspre dissonanze del
jazz d'avanguardia.
In qualità di compositore, Garbarek si ispira profondamente alle melodie folk della
Scandinavia, una eredità dell'influenza di Albert Ayler. È un pioniere delle composizioni di
ambient jazz, degno di nota a questo proposito è l'album Dis del 1976. La sua trama, che
rifiuta le notazioni tradizionali tematiche (come possono essere esemplificate da un Sonny
Rollins), a favore di uno stile, descritto dai critici Richard Cook e Brian Morton come "di
impatto scultoreo", ha diviso la critica (una minoranza della quale lo ha definito New Age).
Dopo aver registrato una serie inaspettata di album di avanguardia, Garbarek raggiunse le
vette internazionali a metà degli anni settanta suonando jazz post-bop, sia come leader che
come componente del famoso "European Quartet" di Keith Jarrett. Raggiunse un notevole
successo commerciale in Europa con l'album Dis, una collaborazione meditativa con il
chitarrista Ralph Towner. Estratti di Dis sono stati frequentemente usati in film o
documentari. Nel 1986 la musica di Garbarek cominciò ad incorporare sintetizzatori ed
elementi di world music. Nel 1993 il disco Officium, realizzato in collaborazione con il
gruppo vocale di musica antica Hilliard Ensemble, divenne uno dei dischi in assoluto più
venduti dalla ECM, raggiungendo le vette delle classifiche in parecchi Paesi europei. Il
seguito, Mnemosyne, fu registrato nel 1999. Nel 2005, l'album In Praise of Dreams ha
ottenuto la nomina per il Grammy Award.

DIS
Ondarock / Recensioni / 1977 / Jan Garbarek - Dis
Jan Garbarek - Dis
1977 (ECM) | jazz
Un disco “strano” e non facile, un piccolo capolavoro poco conosciuto la cui analisi merita
una breve premessa.

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 18


In tre brani su sei, lo spunto della composizione è dovuto ad un’arpa eolia lasciata vibrare
nella libertà naturale di un fiordo del sud della Norvegia, particolarmente adatto a causa dei
venti che in quel luogo soffiano a quanto pare quasi ininterrottamente.
L’arpa eolia è uno strumento di origine cinese e indiana, provvisto di corde accordate
all’unisono, tese su una cassa di risonanza in legno. Opportunamente orientata, è in grado di
fornire suggestive sonorità per effetto della vibrazione delle corde messe in moto dal vento;
“tubi sonori” carichi di suoni di combinazione simili per certi versi ai bordoni tipici degli
strumenti orientali come il sitar o la tampura, ma almeno in questo caso più gravi e basse.
L’effetto “visivo” di tali sonorità è una sorta di aerografia che "disegna" l’azione del vento.
L’esemplare utilizzato in questa registrazione era stato progettato e costruito artigianalmente
dal norvegese Sverre Larssen, mentre i suoni erano stati raccolti da Jan Erik Kongshaug,
tecnico per eccellenza dell’etichetta ECM presso il Talent e il Rainbow Studio di Oslo (e buon
chitarrista semiprofessionista, che ha all’attivo qualche incisione jazzistica con altri musicisti
norvegesi).
Il risultato è un disco “atmosferico” quanto pochi, che genialmente unisce, almeno nei tre
brani in cui è presente l’arpa, la dimensione cameristica fornita dal duo Garbarek/Towner
alle sonorità quasi cosmiche e comunque “ecologiche” fornite dallo strano strumento suonato
dalla natura.
Contemporaneamente e per le stesse ragioni, è anche probabilmente il lavoro di Garbarek
che meno pare adatto a soddisfare i palati jazzofili mainstream (già solitamente poco
disponibili verso il microcosmo poetico e sonoro del sassofonista), ma contemporaneamente
ostico anche per ascoltatori orientati a musiche sul confine dell’universo rock, e
paradossalmente forse pure per cultori di world music e/o musiche a forte componente
etnica. Questo a causa della totale assenza di ritmiche esplicite e alla quasi totale di quelle
implicite, affidate saltuariamente al fraseggio di Garbarek o ai complessi e mai banali arpeggi
di Towner.
Anche a causa degli spunti di partenza quasi “stocastici”, questi brani si presentano
praticamente sempre come dei free-form, giocoforza con una forte componente modale nello
sviluppo melodico e armonico. Sarebbe interessante conoscere tra quante registrazioni e
“note di partenza” il sassofonista norvegese abbia operato le sue scelte...
Tutte le composizioni sono comunque di Jan Garbarek, mentre Ralph Towner, come spesso
succede nei lavori ECM, sostiene un ruolo di attivo ospite di lusso.
I tre brani “eolici” (il primo, il terzo e il sesto ed ultimo del disco) intitolati rispettivamente
Vandrere, Viddene e Dis, hanno quindi qualcosa di speciale; gli altri si presentano come dei
normali duo dal sapore cameristico; in un caso il duo è accompagnato da una sezione di
ottoni (probabilmente aggiunto in postproduzione).
Va detto comunque che il lavoro complessivo non sembra risentire di questa potenziale
dicotomia, anzi i brani sembrano scorrere con una certa logicità.

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 19


Vandrere è il brano più lungo e maestoso: aperto dall’arpa lasciata vibrare in una nota di
“do” iniziale che presto si sposta verso un “mi” carico di armonici, ha un incedere lento in cui
il sax tenore opera una ouverture caratterizzata da note lunghe e “soffiate”. Mentre il suono
dell’arpa si spegne progressivamente, verso la metà il brano si trasforma in un più consueto e
astratto duo tra Garbarek e Towner; l’atmosfera si fa più romantica e riflessiva, fino a
spegnersi con naturalità, dopo un lungo fraseggio di sola chitarra e la ripresa del tema da
parte del sassofono, ancora nel suono dell’arpa.
Krusning è una sorta di ballata, dove il soprano riesce a fornire una maggiore leggerezza
all’insieme; la chitarra classica si riserva alcuni momenti di rilassata partecipazione, sia
accompagnando con originalità il sax, sia con fraseggi in solitudine.
Viddene riparte con il maestoso suono dell’arpa in sottofondo; il brano, ancora con Garbarek
al soprano, ha questa volta però una sua descrittività tutta nordica; il sax sembra volare sopra
distese aride e a volte gelide, soffermandosi qua e là in momenti più riflessivi; spesso, nei
momenti più movimentati, il duetto fra il sax e la chitarra a 12 corde riesce a fornire quella
percussività di cui sopra. Il ritorno del suono dell’arpa nell’ultimo minuto segna logicamente
la fine del brano.
In Skygger è presente un sestetto di ottoni, che fa presto la sua comparsa, dopo
un’introduzione della chitarra a 12 corde, a sostenere per brevi e drammatici accordi il tema
del tenore, contemporaneamente pensoso e romantico. Sembra questo il brano più sofferto,
dall’incedere grave e quasi funereo; solo verso la fine le frasi si fanno più mosse, percussive e
chiaramente improvvisate.
Yr è l’altro duo in forma di ballad, e quello dove forse si nota maggiormente l’apporto di
Towner, che alla chitarra classica introduce e commenta costantemente gli astratti ma
cantabili voli del soprano, riservandosi naturalmente un intermezzo in solo, col suo tipico stile
nervoso e mobilissimo.
Dis chiude il cerchio: per la terza volta compare l’arpa a dare il “la” (anzi, la nota di bordone
è ancora un “do”...) a Garbarek in solitario, alle prese questa volta con un suggestivissimo
flauto di legno, avvolto in una fredda ma ovattata atmosfera, che con note lunghissime, dal
sapore arcano e misterioso, ci accompagna in ambienti questa volta più bucolici o montani, e
che si spegne piano, ritornando definitivamente nella nebbia ventosa dalla quale era partito.
Un disco quasi indefinibile, come detto di non facile fruizione, ma che può essere a buona
ragione considerato uno tra i vertici assoluti della variegata produzione del sassofonista,
praticamente tutta svolta sotto l’egida di ECM, e quindi sostanzialmente tutta ancora in
catalogo. Non esistono infatti immediati riferimenti per questo disco anche all’interno
dell’opera complessiva di Garbarek: per esempio l’unico altro album senza percussioni, o
meglio senza un percussionista di ruolo, nella sua lunga carriera (a parte i discussi esperimenti
con lo Hilliard Ensemble) è il solitario e deludente All those born with wings del 1986, dove in
effetti alcuni momenti percussivi sono affidati ad apparecchiature elettroniche.
Detto dell’importanza della presenza dell’arpa eolia nella riuscita del disco, sembrerebbe che
la cifra artistica di questo lavoro vada principalmente ricercata nel ricchissimo e

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 20


sfaccettatissimo interplay tra i sax di Garbarek e le chitarre del bravissimo Towner; elemento
che lo rende un prodotto jazzistico nell’accezione più ampia.
Non sorprenda quindi di trovare questo disco tra i “consigli per gli acquisti” operati da diversi
manuali e saggi sul jazz moderno.
Come al solito impeccabile il prodotto editoriale, e assolutamente in tema la suggestiva
copertina, opera del fotografo italiano Franco Fontana.

Guido Manusardi
(Chiavenna, 3 dicembre 1935) è un pianista e compositore italiano.
Biografia
Agli inizi della sua carriera si sposta in Svizzera, Germania, Olanda, Danimarca e alla fine in
Svezia dove risiede stabilmente per cinque anni. È a Stoccolma che Manusardi incontra Red
Mitchell con il quale stabilisce un legame di profonda amicizia e collaborazione musicale. Nel
1967, in seguito ad un primo rientro in Italia, si trasferisce a Bucarest dove vive per 7 anni,
quindi rientra definitivamente in Italia. Il suo album Live Recorded at the Lubiana Jazz
Festival vince il Premio della critica discografica e nel 1977 il suo solo Delirium vince lo stesso
premio e Manusardi viene indicato come Musicista dell'anno; quindi viene invitato col suo
quartetto al Jamboree Jazz Festival di Varsavia.

Nel 1978 viene invitato al Festival Jazz di Montreux: Guido Manusardi è il primo jazzman
italiano ad essere invitato al Festival. Manusardi ha suonato e registrato con molti grandi
jazzisti: Roy Eldridge, Bobby Hackett, Art Farmer, Don Byas, Dexter Gordon, Al Heath,
Slide Hampton, Johnny Griffin, Red Mitchell, Lee Konitz, Jimmy Cobb, Jerry Bergonzi,
Victor Lewis, Billy Higgins, Cecil Payne, Shelly Manne, Booker Ervin, Joe Venuti, Curtis
Fuller, Kay Winding, Jimmy Owens, Lou Donaldson, Joe Morello, Art Taylor, Hal Singer,
Sture Nordin, Bjorne Alke, Lennart Aborg, Petur Ostlund Island, Zbigniew Namyslowsky,
Niels Henning Orsted Pedersen.

Dal 1997 è direttore artistico del Valtellina Jazz Festival e dal 1999 di Musica Viva Jazz
Workshop e So Jazz. Il 2000 è un anno importante per Guido Manusardi: viene invitato dal
Direttore del MOCA Museo d'arte contemporanea di Los Angeles a suonare al museo con
Billy Higgins e Trevor Ware. Durante la tournée Manusardi ha suonato con Billy e Trevor al
World Stage Hot Spot di Hollywood registrando un cd Live Live at the Hot Spot. Guido
Manusardi è uno dei pochissimi artisti italiani inclusi da Leonard Feather nella sua Jazz
Encyclopaedia. Recente la collaborazione col contrabbassista russo Yuri Goloubev con il
quale ha inciso nel 2006.

STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 21


STORIA DEL JAZZ BIENNIO JAZZ - 1° ANNO 22

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