Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Chi percorra la strada panoramica che da Atene conduce a Sounio, può incontrare per ben due volte,
ai km 47 e 48, lo spirito di Mies van der Rohe. Giunti nella località denominata Anávyssos, infatti, si
trovano, a poca distanza l’una dall’altra, due case di vacanza costruite negli stessi anni (1961-64),
una su progetto di Nikos Valsamákis (Atene, 1924) e una su progetto di Aris Konstantinidis (Atene,
1913-93). Colpisce poter osservare, nello stesso straordinario paesaggio, a così breve distanza e in
posizione del tutto eccentrica rispetto ai luoghi di elaborazione della cultura architettonica moderna
europea, due edifici che, in modo del tutto differente, sono così strettamente apparentati alla ricerca
miesiana.
La matrice miesiana della casa di Valsamákis, considerato un rappresentante del purismo raziona-
lista greco, è evidente e visibile perché basata su riferimenti di natura formale. Più complesso, e forse
più interessante, è tentare di comprendere in che modo, sul piano storico come su quello teorico, il
piccolo edificio di Konstantinidis e più in generale la sua ricerca architettonica, si riconnettano ad al-
cune fondamentali indicazioni di Mies, affondando, con lui, in comuni radici della cultura architettonica
europea che dovremmo far risalire, quanto meno, a Eugène Emmanuel Viollet le Duc.
La formazione architettonica di Aris Konstantinidis – per la quale si rimanda al saggio di Helen
Fessas Emmanouil contenuto in questo stesso volume – avviene al Politecnico di Monaco tra il 1931
e il 1936; negli stessi anni egli compie viaggi di studio in Francia, Belgio, Olanda, Italia, Austria e
Ungheria. Ma il suo non è il percorso di un architetto regionale desideroso di portarsi al centro della
cultura modernista europea. Lo studio della nuova cultura architettonica mitteleuropea è vissuto
come apprendimento di una “lingua straniera” utile, secondo la sua stessa espressione, après Goethe,
solamente «per meglio apprendere la propria».
Dal suo percorso formativo in terra straniera, Konstantinidis ritorna con la convinzione che ogni in-
novazione, ogni movimento d’avanguardia, ogni tentativo di costruire un’architettura che si possa
definire nuova o moderna, è vano se non si perseguono due obiettivi: il primo è la ricerca della verità,
il secondo la ricerca della specificità. Articoleremo più avanti i due concetti riferendoli all’architettura
costruita di Konstantinidis, tuttavia è importante ricordare subito che, «fortificato», ma in alcun modo
abbagliato dai linguaggi architettonici conosciuti fuori patria, nel 1936 egli, portatosi nuovamente
sotto «il cielo luminoso» della «sua lingua», intraprende nuovi studi e, più precisamente, scopre la le-
zione dell’architettura anonima come chiave risolutiva della tormentata ricerca di «un’architettura
vera e contemporanea». Ed è certamente questo l’aspetto da sottolineare. L’incontro con l’architet-
Tavola comparativa con gli schemi strutturali
tura anonima greca non è un atto di nostalgia, da parte di Konstantinidis, ma un’illuminazione sulla via delle case:
dell’innovazione e di una modernità architettonica intesa, miesianamente, non come un bambinesco 1 Papapanaghiotou ad Anávyssos
2 Konstantinidis a Spétses
3 Wood a Spétses
4 Viktor Melás al Penteli
5 Eleni Konstantinidi a Egina
6 Iannis Móralis a Egina
7 Klaudianós a Egina
8 Klaudianós a Egina
9 casa-studio di Aris Konstantinidis
37
«gioco di forme» ma come «l’autentico campo di battaglia dello spirito», «cristallizzazione» di un’e- mentre la possibile attualità dell’architettura è affidata alla ricerca di una giustezza architettonica co-
poca, «della sua intima struttura». stante nel tempo e indipendente dai dati stilistici o dalle innovazioni formali seguite al definitivo
L’architettura anonima, greca o di altri Paesi, è un’architettura, scrive Konstantinidis, totalmente as- tramonto degli stili.
sente dagli studi fatti, ma che egli “riconosce” nella sua forza di lezione architettonica assoluta in un È una scelta, la sua, che evidentemente implica una sorta di autocondanna alla marginalità.
processo di vera e propria “rivelazione”. Nel momento in cui il movimento moderno costruisce la propria storiografia e la propria mitologia,
Konstantinidis non si ferma agli aspetti esteriori dell’architettura anonima, non è certamente inte- che sono una storiografia e una mitologia fondate sulla personalità artistica, sulla capacità individuale
ressato ad aggettivazioni vernacolari, ma ne studia la profondità «la forza generatrice che ne giustifica di inventare forme nuove e affermarle anche sul piano della comunicazione, non necessariamente
l’esistenza», quella che, citando il poeta Dionysios Solomós (1798-1857), definisce la «vera essenza». cancellando la dimensione impersonale e collettiva richiesta dai processi di costruzione e uso dell’ar-
A dimostrazione del fatto che non si tratta di un processo di natura visiva e figurativa, chitettura, ma certamente relegandola a un ruolo secondario rispetto alla forza espressiva della figura,
Konstantinidis testimonia che la sua comprensione dell’architettura anonima inizia a essere vera- Konstantinidis sceglie, ben conoscendo le nuove forme e la loro efficacia, il confronto con una dimen-
mente efficace solamente nel momento in cui egli costruisce. Solo nel corso del procedimento sione strutturale ed essenziale dell’architettura, che invece di esaltare la personalità tende a
costruttivo, mosso dal desiderio di risolvere “problemi” contemporanei, la lezione dell’anonimo si cancellarla, a lasciar prevalere l’opera sull’autore. È un destino che lo accomuna ad altri architetti della
mostra per ciò che è, non un modello da imitare sul piano figurativo per semplificare il lavoro pro- stessa generazione, operanti in diverse regioni d’Europa – Roland Rainer (1910-2004) in ambito au-
gettuale, ma lezione di semplicità, di chiarezza costruttiva e di accordo con i caratteri “scultorei” del striaco-tedesco, Antoni Coderch (1913-84) in Spagna, Jørn Utzon (1918-2008) nei Paesi scandinavi,
paesaggio greco. Fernando Távora (1923-2005) in Portogallo, per citare alcuni nomi che con Konstantinidis condivi-
L’anonimo appare a Konstantinidis come la chiave di accesso a una modernità da un lato svinco- dono un atto di consapevole superamento dei linguaggi moderni per una «terza via», come Távora la
lata dalle mitologie del moderno – dalla proiezione della ricerca di una nuova architettura in un futuro definirà, né articolazione regionale di quei linguaggi né rifiuto degli stessi in chiave storicista, ma ri-
non ancora accaduto e foriero di nuove forme –, dall’altro radicata in una concezione della storia non torno ai fondamenti oggettivi della disciplina architettonica, indagine su una dimensione sovrastorica
critica ma operativa. dell’architettura, sulla presenza di soluzioni costruttive ritornanti e costanti dovute a un rapporto, in
La «vera architettura contemporanea» – egli afferma – non consiste nella comparsa del total- parte sempre uguale nel tempo, tra uomo e mondo. Tale dimensione antropologica del progetto, che
mente nuovo, perché «non esiste nulla senza un precedente […] nulla viene dal nulla. Il che significa non può non fondarsi sul rapporto specifico con un luogo, non porta tuttavia, nella prospettiva di
che quanto facciamo oggi a modo nostro è già stato fatto in altri modi. Significa anche che la perfe- Konstantinidis come degli altri architetti citati, a risultati locali ma, al contrario, aspira a risultati di va-
zione, se mai esiste, è pre-esistita. Rilke lo intuì quando scrisse i versi: “Se anche rapido il mondo / lore universale.
come forma di nuvola si muta, / ritorna ai suoi principi / ogni cosa compiuta”1. Ecco come stanno le «Dunque, più l’architettura è genuinamente interprete di un Paese – scrive Konstantinidis – più ac-
cose, ecco come è la vera architettura contemporanea. Al di là dei sintomi accidentali di un’epoca, la quista rilievo e valore di verità per gli altri. Ne deriva un’identità, un’esistenza, un valore internazionale
vera architettura testimonia con tutta se stessa certi valori e certe verità fondamentali ed eterne perché le persone, in qualsiasi luogo della terra, hanno le stesse necessità, gli stessi legami, gli stessi
spesso comuni a molti paesi»2. amori, gli stessi sogni. Una sola umanità.
Tali affermazioni collocano la ricerca di Konstantinidis con grande chiarezza nei processi di forma- Intendo dire che probabilmente l’architettura è il fenomeno capace di mostrare il mondo interiore
zione dei nuovi linguaggi architettonici novecenteschi. Le figure proposte dalle avanguardie artistiche di ogni essere umano»3.
sono riportate, immediatamente, si può dire senza nemmeno una specifica fase di sperimentazione In tale chiave l’anonimo di Konstaninidis non è mascheratura figurativa dell’atto artificiale, non è
operativa da parte dell’architetto greco, al ruolo di linguaggi, innovativi ma non rifondativi della disci- sogno dechirichiano di un incontro divino tra uomo e natura, non è illusione di una possibile “sponta-
plina architettonica, perfettamente assimilabili a una secolare storia di variabili forme architettoniche, neità” del progetto, non è suggestione linguistica di stampo “neorealista”.
48 49
saggio se nella composizione si è compiuta la giusta stima della loro quota di partecipazione alla co- colo di vita; una costruzione che vive accanto al suo creatore, seguendolo nelle funzioni della vita, va-
struzione.»11 riabili e sempre in rapido mutamento, offrendo a ogni singola funzione una determinata forma. Una
Nessuna ideologia tradizionalista, dunque, quanto piuttosto una concezione geografica dell’archi- forma che non è mai terminata e definitiva, ma che si completa con il passare del tempo, con ripetute,
tettura che, interrogandosi sui caratteri fisici del luogo, ne saggia la capacità di sostenere una giornaliere fioriture di perfezione.»15
determinata trasformazione, ne verifica, in situ, la disponibilità ad accogliere diversi materiali e una In perfetta analogia con la ricerca di costanti costruttive sovrastoriche, Konstantinidis attribuisce
loro differente disposizione. un ruolo determinante al confronto con le costanti del rituale ripetersi di gesti della vita quotidiana.
«Fatemi spiegare il modo, sempre uguale, in cui mi sono messo all’opera ogni qual volta mi si è data Ma non si tratta di un semplice confronto. «I veri edifici – sostiene Konstantinidis – tendono ad as-
l’opportunità di costruire. Per prima cosa “corro” a osservare il luogo in questione e il paesaggio che lo somigliare agli eventi che descrivono». Il gesto, l’azione di vita non è semplicemente “ospitata”
“abbraccia”. Là, sedendo a terra o su una roccia, cerco di visualizzare come la nuova struttura – pic- nell’architettura ma genera architettura, genera forme architettoniche, e non vi è dubbio che l’abita-
cola o grande, casa singola o complesso residenziale – potrebbe collocarsi correttamente in quel zione di Anávyssos sopra analizzata possa ben rappresentare la definizione della casa come
luogo specifico. Poi mi alzo e vado a osservare il sito a distanza, ma subito ritorno alla mia roccia. Con «esistenza umana fortificata» coniata da Dom van der Laan (1904-91), architetto che possiamo cer-
il pensiero – ma anche con il pensiero del cuore – cerco di “costruire” la pianta, le sezioni e i prospetti tamente aggiungere alla costellazione di progettisti accostabili, per affinità, ad Aris Konstantinidis,
della struttura. Faccio tutto ciò nell’aria, nel cielo o nel terreno (che sia un lotto urbano oppure libero soprattutto in relazione al tema del rapporto tra ritualità e forma architettonica166.
su tutti i fronti). Fatto ciò, vado al tavolo da disegno e traccio alcuni segni sulla carta per “trascrivere”, Va sottolineato che vi è una differenza sostanziale, quasi una piena contraddizione, tra l’idea – e l’i-
ovvero disegnare, ciò che ho mentalmente costruito sul posto. Tutto riesce come deve, in maniera più deologia – funzionalista, fondata sulla concezione di un’architettura in grado di rispondere nel modo
semplice, più veloce e meno tormentata, più sicura di come sarebbe stata iniziando al contrario: prima migliore alle esigenze – necessariamente standardizzate e semplificate – dell’uomo, e questa conce-
un foglio di carta senza anima e solo dopo sul luogo con la sua anima vivente. Così gran parte del la- zione di un gesto specifico che genera una specifica forma architettonica, la quale, solo grazie alla
voro è compiuto sul posto, nel paesaggio; in situ, come si dice. Questa fase del lavoro può richiedere rituale ripetizione nel tempo del gesto generatore assurge a una tipicità densa, carica di complessità,
molto tempo o avere una brevissima durata. In ogni caso, tanto maggiore è il numero di ore, giorni o in alcun modo astratta o rarefatta.
settimane spesi in situ; tanto minore il tempo speso al tavolo da disegno, che è comunque “fuori «Esiste qualcosa in noi che agisce incessantemente per portare a perfezione ciò che chiamiamo
posto” e più o meno irreale.»12 έργο. Quando portiamo ciò a esistere, è la luce della vita, proveniente dalla nostra interiorità, e com-
La concezione geografica si estende, tuttavia, oltre la consistenza fisica del luogo, che viene visto prendiamo come un’opera vera deve essere fatta.»17
anche come il risultato dell’agire su di esso, nel tempo, dell’opera dell’uomo. È questa la dimensione Ma la giustezza dell’operare architettonico, nella concezione di Konstantinidis, non è perfezione,
sovrapersonale del paesaggio, non meno preziosa per Konstantinidis poiché pone il processo della rifinitura, compiutezza. Al contrario, la correttezza e la legittimità dell’opera architettonica si eviden-
chiarificazione dell’atto costruttivo – processo del tutto individuale per quanto rivolto alla impersona- ziano nell’imperfezione e nel non finito, carattere ricercato ed evidente nella sua architettura
lità – in confronto con una dimensione collettiva testimoniata dalla struttura del luogo e del paesaggio. costruita.
La possibilità di coniugare “individuale” e “collettivo” è, come diremo in chiusura, uno dei completa- Un eccesso di perfezione “uccide” l’opera di architettura e, muovendo da tale convinzione,
menti necessari per il suo sistema architettonico. Konstantinidis descrive una concezione del decoro architettonico fondato sulla capacità di sospen-
Infine il paesaggio – τοπίο nella terminologia di Konstantinidis –, grazie alla stratificazione di ma- dere il progetto al momento opportuno, un decoro che nasce non solo dal fare ma anche dalla
teria e atti che lo compone, ha una dimensione temporale che racchiude e visibilmente mostra – a chi sospensione del fare quando ciò è opportuno.
sappia osservare e a chi sappia, anche grazie all’architettura, scavare nella sua complessità – passato, «C’è ancora una cosa da dire derivata dalla esperienza costruttiva: un costruttore onesto dovrebbe
presente e futuro. sapere quando intraprendere un atto e quando sospenderlo. È pericoloso elaborare un progetto in
«Quando la costruzione, nella sua interezza, è emersa da uno “spirito” con profonde radici nel pae- maniera ossessiva perché l’ispirazione iniziale, che è incontrollabile, potrebbe svanire. La costru-
saggio e da memorie che creano un mondo in grado di collegare il passato con il presente e il futuro, zione rimane felice e viva solo quando l’architetto è capace di controllare la sua irrequietezza estetica
allora abbiamo una unità che, in sé rigida, lascia la parola alla bellezza, all’ethos, alla misura, all’equili- e la sua tendenza a comporre. Una creazione architettonica giunge a compimento, anche se può ap-
brio delle intenzioni […] e a tutto ciò che (imprevedibile, accidentale e legato a circostanza) può parire non finita, solo se l’architetto si trattiene dal tormentarlo fino a esaurirlo avendo per risultato di
toccare le corde di un’anima in grado di ergersi in atteggiamento giusto e senza pregiudizi.»13 “ucciderlo”. Una corda troppo tirata si rompe; anche la sostanza di un’opera architettonica si “rompe”
L’architettura, costruita secondo i principi di elementarità e rigore detti, assoggettata a un paesaggio e la carne si strappa se sottoposta a tensioni ripetute e tiranniche che, in ultima analisi, tradiscono
che riassume il tempo in una dimensione triplice – passato, presente e futuro – che equivale a eternità, solo ignoranza e scarsa confidenza con l’essenziale e il vero.»18
è pronta ad accogliere l’imprevedibile e la circostanza, ovvero la vita degli uomini al suo interno. Non si tratta quindi di una imperfezione, di un non finito che intende alludere a una naturalità della
Si tratta di uno dei concetti chiave del pensiero di Konstantinidis: l’architettura è «contenitore di vita». architettura. Al contrario è la denuncia più chiara della natura umana dell’atto architettonico. Anche a
«Architettura non è solo “coprire” (come un ombrello che copre il nostro corpo per proteggerlo tal riguardo sarebbe certamente interessante un confronto approfondito tra le “pietre” di Pikionis,
dalla pioggia, dalla neve o dal sole cocente) ma è anche, e allo stesso tempo, “rivelare” poiché rivela pezzi unici, accostati singolarmente con cura, arricchiti talvolta di figure, spesso in gioco mimetico con
la vera realtà in tutte le manifestazioni di vita e le progetta con chiarezza nei loro aspetti buoni e cat- il “naturale”, e le pietre di Konstantinidis, elementi costruttivi semplici, combinabili secondo un prin-
tivi. In questo senso l’architettura dà forma alle funzioni vitali. E in questo senso costruisce cipio di montaggio indifferente, del tutto privi di figura, particelle elementari di un elemento costruttivo
“contenitori per la vita” in cui ogni essere umano nasconde e rivela il se stesso più vero. Dall’altro assolutamente chiaro e inequivocabile.
lato, l’architettura mantiene in giusto equilibrio le possibilità offerte dalla tecnica e le disciplina per ot- Diversi sono i motivi che devono spingere l’architetto, secondo Konstantinidis, a mantenere imper-
tenere un insieme che sia visibilmente armonioso. L’opera di architettura (έργο) funziona come un fetta e non finita la propria opera nel senso detto.
τοπίο, accoglie nel suo spazio tutte le cose esistenti prodotte dalla vita e dall’uomo.»14 Innanzitutto vi è, strettamente connessa al meccanismo di rivelazione della giustezza costruttiva,
L’opera artificiale dell’uomo – έργο – assurge al valore di un paesaggio – τοπίο – ovvero giunge, ben l’idea premoderna, profondamente analizzata da Mircea Eliade nei suoi saggi sui riti del costruire, di
oltre l’impersonalità del sistema costruttivo, alla capacità di consentire e ospitare un’esistenza plurima un’imperfezione che ogni oggetto deve mantenere per essere legittimamente costruito dall’uomo,
e sovrapersonale, non determinata dal progetto, analoga a quella testimoniata dal paesaggio. poiché solo di Dio è la perfezione.19
Ciò può avvenire solamente perchè l’architettura, riportata all’essenzialità dell’atto tecnico, viene In secondo luogo, il non finito corrisponde alla necessità di mantenere visibile l’opera dell’uomo;
intesa da Konstantinidis come il risultato di gesti umani. l’architettura, afferma Konstantinidis, deve portare trascritti i gesti che sono serviti a costruirla.
«La vera opera di architettura non è un monumento (anche se la sua qualità eterna la si può trovare Infine, l’architettura non è un oggetto plastico destinato alla contemplazione, ma il risultato, in con-
nella mente di chi l’ha costruita e non nella durabilità dei materiali usati per costruirla) ma un ricetta- tinuo mutamento, in costante stato di attualizzazione, di atti vitali. Solo l’imperfezione consente alla
50 51
vita di abitare l’architettura e di trasformarla nel tempo adattandola a nuove esigenze. L’imperfezione
è dunque il ponte tra la rivelazione dell’essenza architettonica – del tipo – e la possibilità di rendere di-
sponibile tale essenzialità alla complessità della vita, dunque alla comunità. Si tratta, in realtà, della
chiusura di un circolo: la ricerca dell’essenza è percorso iniziatico, necessariamente individuale, affi-
dato allo specifico sapere dell’architetto, ma muove dalla conoscenza di fatti – il paesaggio, la
costruzione anonima – che sono il frutto di una sommatoria, nel tempo, di azioni collettive ripetute;
fatti che il sapere architettonico deve distillare per giungere al tipo e per offrire nuovamente il tipo
alla comunità. Si potrebbe descrivere il percorso come un passaggio dalla visione – il tipo – alla pro-
fezia – la articolazione della rivelazione in lingua architettonica comprensibile ai non iniziati e per essi
disponibile.
Solo tale passaggio consente di accettare, all’interno del progetto, l’alea, la circostanza, l’energia
dell’esperienza.
«Mi si lasci sottolineare che l’architettura, a differenza della scienza, non è un processo che ri-
guarda solo ciò che può essere conosciuto anticipatamente. Al contrario, l’architettura accoglie ciò
che si può inaspettatamente manifestare come dato di circostanza, casualità o coincidenza. È dunque
bene, quando ci si attrezza per le necessità di un’opera architettonica, lasciare spazio per elementi im-
previsti, incidentali e inattesi che entreranno nell’opera. L’esperienza innata e conquistata ci insegna
che quanto entra nella creazione architettonica per le vie della vita dovrebbe essere ben accolto
perché offre verità e vitalità, una vibrante compiutezza, un aspetto vivace alla struttura. Ciò non si ot-
tiene mediante la completezza scientifica anche se quest’ultima è indispensabile e non va trascurata.
Ecco come l’architettura diventa arte: con l’unione armonica di caso e necessità. Democrito lo aveva
compreso e diceva: “L’universo è il prodotto della necessità e del caso”.»20