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venerdì 4 marzo 2022

LINGUISTICA

Il testo:definizione

Dal lat. textere, ‘tessere’ e g. ‘comporre’—textum, trama del discorso e textus, narrazione,
testo.

Produzione linguistica (orale o scritta, la parte orale è stata aggiunta nell’ultimo secolo
poichè lo studio delle lingue orali è recente ) fatta con l’intenzione e con l’e etto di
comunicare, nella quale si possano individuare un emittente (da cui parte il messaggio) e un
destinatario ( per cui è stato pensato il messaggio).

Tipi di testo: lingua/linguaggio

Chi scrive e chi parla lo fa per un destinatario e dobbiamo metterci nei suoi panni per
vedere se capirebbe, facendo un’analisi di quello che scriviamo/diciamo.

La variegata produzione di testi è classi cata in vari modi da parte dei linguisti. In
particolare, si parla di varietà linguistica, ossia la caratteristica spiccata che può avere un
testo, ed è per questo che non è semplice classi care un testo, sono i pdv da cui si legge e
si analizza un testo, in merito all’italiano contemporaneo in riferimento;

-al tempo (diacronia)—conciossiacosachè vs poichè, guarda le mutazioni linguistiche


rispetto al tempo, l’italiano di bembo e di montale, studio dal punto di vista storico,
(l’italiano di oggi è sincronico, quello di prima è diacronico);

-al luogo (diatopia)—attaccapanni vs crocetta, sguardo del sociolinguista, di erenze


linguistiche nello spazio, come cambia l’italiano nei vari territori italiani, qui si riconoscono i
geosinonimi;

-alla posizione sociale del parlante (diastratica)—l’aradio vs la radio, italiano popolare vs la


forma normale della lingua;

-alla situazione comunicativa (diafasia)—timore vs fa

-al mezzo materiale (diamesia)

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Oralità (trascrizione fedele)

La modalità di trattazione più adeguata per questo tema cioè intendo trattare questo tema
secondo la seguente modalità prima darò qualche elemento sulla storia della psichiatria poi
ne spiegherò gli aspetti problematici poi passerò alla gura dello psichiatra e per
quest’ultimo punto che è molto importante parlerò della loro professionalità se andiamo un
attimo alla storia della psichiatria in Occidente ecco vediamo che è stata una storia
abbastanza di cile in particolare il riconoscimento dell’oggetto della psichiatria mi pare è
stato di cile proprio per quanto riguarda il punto di vista dell’accettazione sul piano sociale
la psichiatria poi per la sua complessità non è un argomento facile da trattare questo lo
sappiamo.

La modalità di trattazione più adeguata per questo tema cioè intendo trattare questo tema
secondo la seguente modalità prima darò qualche elemento sulla storia della psichiatria poi
ne spiegherò gli aspetti problematici poi passerò alla gura dello psichiatra e per
quest’ultimo punto che è molto importante parlerò della loro professionalità se andiamo un
attimo alla storia della psichiatria in Occidente ecco vediamo che è stata una storia
abbastanza di cile in particolare il riconoscimento dell’oggetto della psichiatria mi pare è
stato di cile proprio per quanto riguarda il punto di vista dell’accettazione sul piano sociale
la psichiatria poi per la sua complessità non è un argomento facile da trattare questo lo
sappiamo.

Il mezzo

Oralità e scrittura: di erenze di tipo testuale

1. Sequenza lineare- sequenza non obbligatoriamente lineare—-quando si parla si traccia


una linea temporale entro la quale si costituisce un testo orale che nel parlato si
interrompe e poi riprende. Per i testi scritti non vale la stessa cosa poiché si può
rileggere e correggere e quando è concluso non si riapre;

2. (Generale) non adattabilità dell’ascolto - adattabilità della lettura—-quando si ascolta un


testo orale dobbiamo farlo dall’inizio alla ne, se si ha invece un manuale si può
scegliere noi cosa e quando;

3. Progettazione frettolosa - progettazione accurata

4. Meccanismo della presupposizione - esplicitazione di tutti gli elementi—-se si fa una


presupposizione dal vivo si capisce già il contesto, mentre se dovessi farlo in modo
scritto devo speci care il contesto a cui faccio riferimento che può essere sott’inteso
oralmente.

Si tratta di questioni inerenti la deissi, dal greco dimostrazione, la deissi consiste nel
riferimento al contesto, in relazione al tempo, allo spazio o alle persone.—-meccanismo
della supposizione.

I deittici individuano un insieme e eterogeneo di forme linguistiche-avverbi, pronomi verbi-


per interpretare le quali occorre fare riferimento al alcune componenti della situazione in cui
sono prodotti—esplicitazione di tutti gli elementi.

5. Importanza degli aspetti prosodici - scarso rilievo degli aspetti prosodici—-ad esempio
le pause che nello scritto è data dalla punteggiatura che rispetto all’orale viene messa non a
orecchio ma rispettando la sintassi, inoltre nello scritto formale solitamente non vengono
inseriti i punti ? e ! poiché sembra più colloquiale;

6. Lessico generico (o gurato) - lessico puntuale—-ecco, praticamente, comunque,


cioè, cosa, roba, dire, fare, andare un attimo a vs ri ettere brevemente su;

7. Approssimazione nell’uso della morfosintassi - precisione nell’uso della morfosintassi


—- nello scritto si ha una prevalenza di uno stile paratattico con poche subordinate e frasi
molto brevi (tendenza attuale anche nel giornalismo), nell’orale invece c’è un ricorso
frequente alle ellissi (ex posso la penna?; signora, la giacca!; ti chiamo io, d’accordo?;
capito?) c’è quindi un’omissione di elementi verbali non indispensabili alla comprensione.

8. Feedback da parte del ricevente - nessun feed-back da parte del ricevente (se non
tardivo).

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Alcuni fenomeni linguistici tipici dell’oralità che in uenzano la scrittura nell’italiano
neostandard, cioè gli elementi che ci abbassano a italiano medio.

-modi che della costruzione sintattica in corso di enunciazione (ex io speriamo che me la
cavo);

-gli per loro/lei (ex ho visto i tuoi nipoti/Maria e gli ho detto di salutarti);

-reduplicazione pronominale (ex a me, che piace guardare qualche bel lm no a tardi, mi
capita non sentire la sveglia);

-lui, lei, loro come soggetto (ex ho parlato con Marco. Lui pensa che risolveremo tutto
presto); adesso la grammatica assume come tratto comune l’uso di pronomi che non erano
soggetto come tale;

-uso di articolo + nome proprio (ex La Giulia viene in vacanza con noi);

-costrutti preposizionali con il partitivo ( ex sono uscito con dei colleghi nuovi);

-aggettivo con funzione avverbiale (ex quella persona è brutta forte);

-duplicazione aggettivo o avverbio (ex dopo l’esito dell’esame Marco era triste triste; sono
uscita di casa piano piano; ora che siamo in Italia voglio un ca è ca è);

-usi “a ettivo” del pronome (ex mi mangio un panino);

-concordanza ad sensum con nomi collettivi (ex la gente crede che si possa vivere se za
pensieri; solo un centinaio di soldati, fra tutti quelli che combattevano al fronte nord,
rientrarono in base).

-povertà lessicale:

1. Frasi fatte ad espressioni standard (ex parlare a quattr’occhi);

2. Parole con alta frequenza d’uso ma generiche (ex fare ricorso al TAR; fare un nuovo
palazzo; mettere un nuovo testo d’esame nel programma);

3. Ripetizioni della stessa parola;

4. Preferenza per il sinonimo meno ricercato (ex carino vs adorabile; fare un esame vs
sostenere un esame).

-frequenti sostituzioni del futuro col presente (ex domani ti chiamo);

-frequenti sostituzioni del congiuntivo col presente (ex temo che sei);

-superlativo anche se non necessario (ex d’accordissimo; è sicurissimo);

-ricorso al CHE polivalente in luogo dei nessi relativi (ex la valigia che ho messo i vestiti;
l’amico che ho dato i libri; nelle ora che c’è italiano; sono stanco che ho corso tutto il
giorno).

-tematizzazioni: “alterazioni dell’ordine delle paro,e generalmente nella scrittura per


concentrare l’attenzione sull’elemento più importante di un enunciato”

Ordine non marcato (SVO) vs ordine marcato—-se pensiamo al latino, visto che ci si basava
sui casi delle parole, l’ordine non era importante.

In generale:

- i tratti percepiti come nuovi e talvolta scorretti, che nascono spesso in sede di oralità o di
social network (vicini alla forma orale), non vanno valutati negativamente (molti sono
documentati anche nel passato: dai Placiti campani, 960-963: “Sao ko kelle terre [...] trenta
anni le possette Sancti Benedicti”);

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- MA la consapevolezza degli usi linguistici in riferimento al mezzo (orale e scritto) porta a
una scelta corretta solo in concomitanza con il contesto comunicativo, e quindi al suo
maggiore o minore grado di formalità.

Lingua e linguaggio: una destinazione ra nata


Fra le caratteristiche comuni agli uomini di tutte le regioni della terra, troviamo l’uso della
lingua e del linguaggio come strumento di comunicazione. La lingua parlata, il linguaggio o
“parole”, è presente ovunque, mentre la lingua scritta è codi cata e attesta solo in certi tipi
e stadi di cultura.

Si può dire ancora diversamente

Il linguaggio è una facoltà intesa in senso generale e posseduta in potenza da tutti gli esseri
umani (in questo senso viene da alcuni detta universale, da altri innata). È quel qualcosa
che permette a un bambino di apprendere una speci ca lingua a seconda della comunità
sociale e dell’addestramento linguistico cui è sottoposto.

I codici sono gli insiemi di simboli usati da una comunità che li condivide per far passare la
comunicazione, per cui insieme ad altri tipi di linguaggio che non fanno direttamente
riferimento alla lingua verbale e che può riferirsi anche a animali o a oggetti è proprio del
linguaggio.

Le lingue sono invece le speci che e diverse manifestazioni attualizzate di questa facoltà
generale (italiano, inglese, russo sono lingue; non linguaggi), di queste si occupa
speci catamente la linguistica (mentre il linguaggio è anche l’oggetto privilegiato della
loso a del linguaggio, oltre che della linguistica generale).

Oralità - scrittura

Individuare i tratti più evidenti del parlato e riformulare le frasi eliminandoli.

1. Se sapevo che partivi per Cortina, venivo su in montagna a trovarti;

2. È che a Capri ci sono stata tantissime volte, altrimenti venivo con voi

L’italiano standard

La norma linguistica

La lingua ereditata dalla tradizione letteraria, descritta nelle grammatiche e insegnata nelle
scuole e agli stranieri.

Una lingua che si è livellata in modo arti ciale in seguito ai contatti con altre varietà e
all’azione normalizzatrice imposta soprattutto dal potere politico.

La lingua dei grandi del 300 (Dante, Petrarca e Boccaccio) è stata proclamata lingua della
norma letteraria da Pietro Bembo nel corso del 500.

È diventata lingua letteraria comune anche in assenza di unità politica. Tale lingua,
conservata pressoché invariata, è alla base dell’italiano scritto insegnato a scuola.

L’italiano comune ha consolidato la sa dimensione parlata solo negli ultimi decenni.

Una lingua è standard quando:

-è codi cata, quindi dotata di stabilità;

-è dotata di prestigio;

-ha una tradizione consolidata di lingua scritta;

-è utilizzabile per la produzione di testi astratti;

-ha una funzione uni catrice fra i parlanti.

La norma della pronuncia

Lo standard nel parlato è posseduto da un numero di parlanti assai ristretto (1% della
popolazione). Attori di cinema e teatro, doppiatori, annunciatori radio-televisivi che abbiano
seguito appositi corsi di dizione, alcuni maestri e professori particolarmente sensibili
all’argomento.

La pronuncia standard è il orentino emendato (ex pésca, chiusa, attività sportiva volta alla
cattura dei pesci vs pèsca, aperta, frutto del pesco).

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Che cos’è la norma?

L’errore è un concetto relativo che cambia nel tempo, l’accettabilità delle forme del
congiuntivo:

“Io credo che tu abbi in capo una mala intenzione”

La norma cambia nel tempo, come i costumi e la sensibilità collettiva. I cambiamenti nella
norma rappresentano un’ascesa no ai registri di maggior prestigio di alcuni tratti prima
relagati alle varietà basse della lingua.

(Ex lui, lei, loro per egli, ella, essi.)

Italiano standard normativo: varietà di lingua assunta come modello dai parlanti e in genere
proposta come modello nell’insegnamento insieme alle regole, precetti, imposto come
forme corrette.

Italiani d’uso comune (neo standard):varietà di lingua largamente accettato come forma
usuale; comprende anche forme non accettate delle grammatiche prescrittive, ma ricorrenti
nell’uso e ettivo della lingua.

La norma varia a seconda del tipo di contesto e di situazione comunicativa.

(Ex se lo sapevo non venivo vs se non lo avessi saputo non sarei venuto)

“Parlare come un libro stampato” in determinate situazioni può costituire un errore, non
grammaticale, ma comunicativo.

Congiuntivo vs indicativo e il registro

La scelta del congiuntivo o dell’indicativo può dipendere dal registro linguistico usato in
rapporto alla situazione.

Registri bassi:

a. Mi pare che è meglio andarsene

b. Credo che hanno tutto ciò che gli serve

c. Spero che torna presto, perché ha lui le chiavi della macchina

d. Benché non vengono, vorranno lo stesso il regalino

Registri alti:

a. Mi pare che sia meglio andarsene

b. Credo che abbiano tutto ciò che gli serve

c. Spero che torni presto, perché ha lui le chiavi della macchina

d. Benché non vengano, vorranno lo stesso il regalino.

Puntare sull’e cacia comunicativa non equivale a trascurare la correttezza linguistica,


grammaticale.

Alcuni rilievi sulla lingua degli studenti universitari:

- mancanza di capoversi,

- punteggiatura assente o errata (un centro urbano, gode di maggior prestigio),

- usi impropri dell’apostrofo (un’altro), dell’accento (si, nò, pò) e delle maiuscole (a
Novembre è previsto freddo),

- fraintendimenti lessicali (le mie speranze si sono assolte in una specie d’indignazione);

- “schizofrenia di registro” (accostamento di forme e costrutti provenienti del parlato con


espressioni auliche)

Come percepiscono la norma i parlanti stessi?

Il parlante comune è ben lungi dall’accettare la natura problematica, elastica e dinamica


della norma. Aspetta risposte chiare e univoche che distinguano ciò che è giusto da ciò che
è sbagliato, regole valide in ogni occasione.

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L’imprinting scolastico

Noi, come parlanti, cambiamo la lingua, ma cambiamo molto più lentamente la norma
interiorizzata. La “norma interiorizzata” è quella che “è andata strati candosi non tanto sulla
base della propria esperienza di parlante, quanto sull’immagine di lingua che si è formata
soprattutto negli anni di scuola

Luca Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma&Bari, Laterza, p. 43

Coloro che lavorano con la lingua dovrebbero costruirsi un’immagine meno arcaica e
libresca di quello che lo standard oggi.

In una lingua parlata e viva da quasi tutti gli italiani in quasi tutti gli usi comunicativi, non
esiste una norma unica, ma una pluralità di norme, che sono da conoscere.

“Chi parla male, pensa male e vive male” (Nanni Moretti, Palombella rossa, 1989)

La punteggiatura

La punteggiatura, tradizionalmente considerata secondaria nell’insegnamento scolastico


ma invece di importanza fondamentale per la chiarezza e l’e cacia comunicativa del testo,
ha il compito di suddividere il testo in modo da favorirne la comprensione.

La punteggiatura è legata alla sintassi del testo non alle pause e al ritmo dell’oralità e della
lettura ad alta voce (causa, come vedremo, di molti errori nell’uso della punteggiatura).

Se è vero che esistono margini per le scelte soggettive, al di fuori della narrativa, le scelte
sono molto meno libere di quanto si pensi abitualmente (qualche regola).

Un prima funzione fondamentale della punteggiatura è quella di separare.

-il punto fermo segnala la conclusione di un periodo o di una frase di senso compiuto,
separandola da quelle vicine. Quando si vuole separare un nuovo blocco si “cambia
discorso”, cioè si introducono informazioni nuove, si va a capo e si riparte dopo un rientro.
Si usa il punto anche nelle abbreviazioni (ex dott., Avv., Sig. etc…) e engli acronimi (o
single). In alcuni casi sono facoltativi (ex D.O.C o DOC).

-la virgola: ha la funzione soprattutto di separare gli elementi di un elenco (ex ho comprato
pane, latte, formaggio, verdura…; l’ultimo elemento può essere preceduto dalla virgola o da
una “e”) o le proposizioni all’interno di un periodo. Inoltre, le virgole possono evidenziare,
racchiudendoli, gli incisi (=parti di testo che possono essere cancellate senza nuocere al
senso).

Ex L’Italia, la patria di Dante [inciso], ha dato al mondo molti poeti -> L’Italia ha dato al
mondo molti poeti).

Si usano le virgole anche dopo le esclamazioni (ex “Ahi, che male!) e prima delle
proposizioni coordinate avversative (introdotte da ma, però, tuttavia) e per separare dalla
reggente le temporali, le concessive e le ipotetiche. La punteggiatura e più in particolare
l’uso della virgola è strettamente legata alla sintassi e ai rapporti fra proposizioni.

Ex ti ho cercato tutto il giorno, ma non ti ho mai trovato

Ex quando arrivi a casa, fammi una telefonata

Ex sebbene sia un po’ stanco, uscirò lo stesso

Ex se vieni a Venezia per lavoro, ricordati di telefonarmi

Il punto e virgola segnala una pausa intermedia tra quella “debole” della virgola e quella
“forte” del punto. Serve soprattutto per scandire unità complesse e in particolare per
separare due proposizioni. Pur essendo poco usato nel registro informale è ancora molto
di uso negli altri registri (non solo nel più formale, ma anche nel giornalismo). Si usa di
solito nelle enumerazioni complesse, composte non da parole o aggettivi, ma da frasi
coordinate e subordinate.

es. Di fronte alla crisi economica bisogna intervenire con le seguenti modalità: ridurre gli
sprechi; contenere le spese correnti; limitare i nuovi investimenti sul mercato.

Si usa anche per separare proposizioni autonome quanto a senso.

Es. Il nostro u cio si trova alla periferia di Padova (1^parte della frase=dove è collocato);
fornisce servizi di vario tipo, come il reinserimento lavorativo e la riquali cazione
professionale (2^parte della frase=di cosa si occupa).

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In questo caso svolge una funzione coordinante fra due principali (infatti lo potremmo
volendo sostituire con “e”, congiunzione coordinante).

È utile per non frammentare il periodo in proposizioni troppo brevi. All’interno di uno stesso
periodo, è meglio usare il punto e virgola una sola volta e ricorrere piuttosto al punto fermo,
per non far confusione tra i vari blocchi di contenuto.

2. Seconda funzione della punteggiatura: Introdurre.

-È una funzione svolta dai due punti, i quali svolgono due fondamentali funzioni: introdurre
battute in discorso diretto (es. romanzi o testi teatrali, la stessa funzione può essere svolta
dal trattino lungo) o esplicitare un rapporto logico (con una funzione dunque opposta a
quella del punto e vitgola che ha la funzione di separare). I due punti possono avere in più
una sfumatura descrittiva, quando introducono spiegazioni o esempli cazioni (illustrando,
dimostrando o chiarendo ciò che precede) :

Es. “Abbiamo deciso di nominare un tutor: si tratta di una persona che seguirà da vicino il
nuovo collaboratore” / “Forniamo vari servizi: trasporti, giardinaggio, smaltimento ri uti.”

I due punti possono anche esplicitare un rapporto di causa-e etto:

• sono certo che ti amo: (infatti) non potrei pensare alla mia vita senza di te

• non abbiamo avuto una risposta alle nostre richieste: (quindi) ci rivolgeremo a un avvocato

3. Terza funzione fondamentale della punteggiatura: enfatizzare o mettere in risalto.

Virgolette:

• Possono essere alte, basse (o a sergente) e semplici (o apici). Le prime due si usano
indi erentemente, anche se nell’uso editoriale prevalgono quelle basse; le ultime solo per
indicare singole parole e il loro signi cato. Es. ‘Patria’ fu una parola ricca di signi cati
durante la Rivoluzione francese.

• Usate in modo corretto servono a racchiudere il titolo di una rivista (per le opere si usa
preferibilmente il corsivo), un discorso diretto o una citazione.

• Es. Mi ha detto: “Addio!”, Francesca da Rimini accusa “il libro e chi lo scrisse” di essere
stati “galeotti”.

Usi delle virgolette molto di usi a livello standard e informale (es. e-mail, ma anche articoli
di giornale):

• 1. Per mettere in risalto una parola o una parte della frase: es. parliamo oggi del concetto
di “rivoluzione”

• 2. Per sottolineare che usiamo un’espressione altrui e per prenderne le distanze (es.
“L’“islamizzazione” dell’Occidente”)

3. Per indicare che una parola viene usata con un senso diverso da quello solito, a volte
esattamente opposto (cioè è impiegato in senso ironico o polemico). Es. La Vostra
“risposta” in realtà non fornisce alcuna spiegazione = non è una risposta vera, perché non
dice niente. Ricorrere con estrema parsimonia a quest’ultimo uso: spesso si marcano come
particolari usi che sono invece del tutto correnti, oppure si dà la sensazione della incapacità
a trovare un termine più e cace.

N.B. Se si usano troppo le virgolette, si nisce per vani carne l’e etto.

Punto esclamativo: si usa nelle frasi al modo imperativo (quando si danno ordini) per
esprimere sorpresa o per richiamare l’attenzione. Viene usato soprattutto per avvisi e simili:
es. Attenzione! Pericolo! ; nell’uso formale e professionale (per es. nella corrispondenza
commerciale) di solito non va usato.

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• Punto interrogativo: si usa solo nelle interrogative dirette. Nei registri standard e formale è
assolutamente vietata la reduplicazione enfatica (ciò vale anche per i punti esclamativi),
fenomeno di usissimo nelle e-mail e nelle chat.

• Tre puntini di sospensione: indicano che il discorso rimane sospeso, non concluso e
possono esprimere allusione, imbarazzo, reticenza, ecc. Sono molto usati nel registro
informale e nella narrativa perché permettono di riprodurre l’intonazione del parlato, vanno
tuttavia evitati sempre nel registro formale, fatto salvo per indicare una lista che può
proseguire (equivalgono a ecc.).

Un’altra funzione della punteggiatura è quella di isolare una parte della frase, indicando una
gerarchia di contenuto:

• Parentesi tonde: racchiudono un inciso, una spiegazione, un commento, un’informazione


secondaria. Svolgono cioè una funzione che come si è visto possono svolgere anche le
virgole, ma in questo caso la gerarchia dell’informazione (cioè il fatto che quello che è
nell’inciso è meno importante) è maggiormente esplicitato.

• Es. La nostra sede (che abbiamo da poco riaperto) è in via Monti

• La stessa funzione può essere svolta dai trattini lunghi, soprattutto quando l’inciso è
ampio (nella scrittura saggistica può occupare anche diverse righe, ma è bene non
abusarne a meno che non si abbia una perfetta padronanza della sintassi e della
punteggiatura).

• Le parentesi quadre, invece, servono nelle citazioni per segnalare che una parte del testo
citato è stata tagliata: [...]

Principali errori nell’uso dei segni dell’interpunzione:

La virgola non va mai impiegata:

1. tra soggetto e verbo

* la nostra casa, è molto grande (l’errore si commette spesso perché si tende a riprodurre i
ritmi dell’oralità).

2. tra verbo e complemento oggetto * ho comprato, una macchina nuova

3. tra verbo e soggettiva

* mi pare, di aver abusato della tua pazienza

4. tra verbo e oggettiva

* credo, di averti già detto tutto

5. Prima di una proposizione introdotta dalla congiunzione “che” con valore dichiarativo
(=introdurre un’a ermazione o simili)

* Siamo sicuri, che ci risponderete presto

6. Prima delle interrogative indirette e delle dubitative dipendenti * dimmi, che cosa vuoi

* mi chiedo, se hai capito davvero il senso del mio discorso.

* sono incerto, se chiamarlo o no

7. Prima delle relative limitative (dette così perché limitano il signi cato della reggente).

* Ho letto il libro, che mi hai consigliato.

Attenzione alle relative: spesso l’uso della virgola condiziona il signi cato:

Es1. Gli studenti del primo anno che non hanno superato la prima prova faranno il recupero.

Es2. Gli studenti del primo anno, che non hanno superato la prima prova, faranno il
recupero.

Due punti:

1. Non si mettono i due punti prima di un elenco se questo non è stato “anticipato” (e
quindi i vari elementi sono il complemento oggetto del verbo):

* ho comprato: rose, tulipani, margherite => ho comprato i ori: rose, tulipani, margherite.

* c’erano: tegami, padelle, scodelle, cucchiaini / c’erano vari oggetti di cucina: tegami,
padelle, scodelle, cucchiaini.

2 Non si separa mai con i due punti una reggente dall’oggettiva

* A Roma ho visto: il Colosseo, il Campidoglio e Trinità dei Monti.

* Marco ha continuato il suo discorso a ermando [che:] “Venezia è una città bellissima”.

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La punteggiatura prevede poche regole sse, e risponde invece in larga parte a scelte di
stile che riguardano l’impianto sintattico. Per la scrittura saggistica, nella quale vengono
espressi concetti complessi, è preferibile articolare il periodo in frasi di una certa lunghezza
e ricorrere alla subordinazione; la punteggiatura richiesta è perciò abbastanza elaborata. Se
si vuole invece ottenere un e etto di maggiore vivacità o immediatezza è opportuno
ricorrere a una punteggiatura essenziale, che spezzi il periodo in frasi brevi con preferenza
per la coordinazione.

L’italiano nel panorama delle lingue romanze

Italiano > una delle lingue romanze

< dall’avverbio lat. romanice (loqui), ‘(parlare) in una lingua volgare’ ≠ latine (loqui), ‘(parlare)
alla maniera dei latini’

> come le altre lingue romanze dunque l’italiano è l’evoluzione prodottasi sul territorio
italiano non del latino classico ma del latino volgare (lat. vulgus, plebe), detto anche
popolare (lat. populus, tutti i cittadini)

1.

L'indoeuropeo è una lingua ricostruita


perché non attestata. Dovrebbe risalire al
IV millennio a.C., parlata in Europa e Asia,
in contatto con le parlate dei popoli
conquistati.

Verso la ne del II millennio a.C., una delle


popolazioni indoeuropee si installò nella
penisola italiana.

2 e 3.

Si svilupparono, da questo ceppo


indoeuropeo, diverse

varietà del gruppo italico, fra queste il


latino.

Il latino era la varietà parlata a Roma. L’aggettivo latinus è un etnico, cioè un aggettivo che
si riferisce all’appartenenza ad una popolazione, tratto dal toponimo Latium, cioè ‘il paese
pianeggiante’ in contrapposizione alla Sabina, collinosa. Latini era la denominazione dei
popoli del Lazio.

Lazio = regione; latini = abitanti del Lazio e di Roma > latino = (lingua) degli abitanti del
Lazio e di Roma.

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Come ha fatto il latino a espandersi fuori Roma?

L’espansione del latino è la conseguenza diretta dell’espansione militare e politica di Roma.


Intorno al 240 a. C. Roma controllava un territorio compatto intorno alla città, ma nel corso
dei tre secoli seguenti arriva a dominare l’Europa occidentale e mediterranea.

MA...

I Romani non attuarono politiche di imposizione linguistica: non ostacolarono né gli idiomi
dei popoli federati italici, né l’etrusco, né il greco nell’Italia meridionale.

Il latino prevale sulle lingue dei popoli assoggettati perché è la lingua dei dominatori e del
potere, perché nelle comunità sociali dominate assume usi sempre più ampi, soprattutto
pubblici e u ciali (la scuola, il diritto, l’amministrazione, la politica ecc.), sia nell’oralità, sia
nella scrittura.

Le lingue materne dei provinciales sono ridotte sempre più a usi privati. Nel giro di alcune
generazioni esse si riducono notevolmente e il latino diventa la lingua madre della gran
parte degli abitanti dell’Impero.

Per il parlante provincialis il latino è il passaporto per vivere nella comunità ed entrare a far
parte a pieno titolo dei livelli socio-economici più alti della società. Il latino si impone in
quanto lingua del potere e della cultura, dotata di straordinario prestigio rispetto alle lingue
dei popoli vinti (eccezion fatta per il greco).

4.

Quali furono le conseguenze della di usione del latino su un territorio così vasto?

Il latino entra in contatto con idiomi diversi, e dunque esercita e subisce un in usso più o
meno notevole. Da entità linguistica compatta inizia dunque a di erenziarsi (latino volgare).
Finché il legame politico e culturale dei territori dominati con il centro della latinità rimane
forte, queste di erenze dovevano essere limitate, ma quando, tra IV e V sec. d. C., esso si
fa più debole e si rompe del tutto, le di erenze si approfondiscono.

La sua principale di erenza rispetto al latino letterario è la maggiore in uenza dei substrati
linguistici locali e la mancanza di una codi cazione legata alla scrittura.

5.

Con la crisi del III secolo le varie parlate latine volgari cominciarono ad evolversi, no a
diventare vere e proprie lingue.

In particolare è stato il latino parlato ad essere tramandato di generazione in generazione e


a trasformarsi impercettibilmente nelle lingue che alla ne si sarebbero chiamate romanze.

In latino classico, per ‘mangiare’ c’era il verbo EDĔRE. Nell’oralità si usavano invece
COMEDĔRE (originariamente ‘mangiare insieme’) e MANDŬCARE (originariamente
‘masticare dimenando le mascelle’). In epoca arcaica MANDŬCARE è tipico soltanto della
lingua della commedia; poi si di onde dalla ne dell’età repubblicana anche nel latino della
buona società, dove era usato in concorrenza con EDĔRE e COMEDĔRE. Il fatto che in
spagnolo e in portoghese abbiamo comer da COMEDĔRE, mentre in francese manger (da
cui l’it. mangiare) e in italiano antico manicare, entrambi da MANDŬCARE, dimostra che il
primo lemma è privilegiato dai parlanti delle aree più occidentali della latinitas,
diversamente dal secondo, di uso nelle aree centrali.

Per ‘bello’ in latino classico si usa l’aggettivo PULCHER, mentre nel latino parlato si diceva
FORMŌSUS oppure BĔLLUS. Le aree centrali della latinità continuano quest’ultimo lemma:
infatti abbiamo in francese beau, in italiano bello e in provenzale bel, mentre nelle laterali, a
occidente e a oriente, si continua FORMŌSUS, vedi lo spagnolo hermoso, il portoghese
formoso e il rumeno frumos.

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‘Zio’ in latino si diceva AVUNCULUS, da cui il francese oncle (che penetra anche in inglese
“uncle”) e il rumeno unchiu. La forma THIUS, da cui l’italiano zio, il sardo ziu, il castigliano e
portoghese tìo, è originariamente un prestito dal greco che si di onde nella Romània dal
sud verso ovest.

Le lingue romanze moderne di eriscono dal latino per vari aspetti:

• Mancano i casi (con l'eccezione del romeno che ne conserva alcuni tratti);

• Manca il neutro, quindi esistono solo due generi grammaticali (con qualche eccezione);

• Uso degli articoli grammaticali, a partire dai dimostrativi latini;

• Introduzione di nuovi tempi (passato prossimo) e modi verbali (condizionale);

• Sostituzione del tempo perfetto con nuove forme composte dal verbo "essere" o "avere"
più il participio passato.

Gli storici della lingua etichettano le


parlate che si svilupparono in
questo modo in Italia

come volgari italiani, al plurale, e


non

ancora lingua italiana. Le


testimonianze disponibili mostrano
infatti marcate di erenze tra le
parlate delle diverse zone mentre
manca un comune modello volgare
di riferimento.

Il primo documento u ciale giunto


sino ai nostri tempi che attesta
l'uso del volgare in Italia è il celebre
Placito capuano, conservato
nell'abbazia di Montecassino,
proveniente dal principato
longobardo di Capua e risalente al
960 d.C. Si tratta di una testimonianza giurata di un abitante circa una lite sui con ni di
proprietà tra il monastero benedettino di Capua a erente ai Benedettini dell'abbazia di
Montecassino e un piccolo feudo vicino, il quale aveva ingiustamente occupato una parte
del territorio dell'abbazia.

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In base al grado di distanziamento dal latino, tra le lingue romanze si distinguono quelle più
conservative e quelle più innovative. Si può dire schematicamente (e con qualche
approssimazione) che italiano e spagnolo sono le più conservative, dato che conservano
numerosi tratti propriamente latini, a livello sia super ciale che profondo. A confronto, il
francese è la più eccentrica e si colloca per molti aspetti al margine della famiglia (o,
secondo alcuni, addirittura fuori).

varie sfumature > per es. a causa di un lessico in larga parte di origine slava, il romeno è
un’altra lingua relativamente distante dal latino

distinguere le lingue romanze secondo che siano ‘più’ o ‘meno’ romanze, cioè che
contengano un alto o basso numero di tratti comuni alla famiglia intera

ITALIANO (due tratti distintivi)

(a) è l’unica lingua romanza ad aver estratto dal latino de due preposizioni (di e da) invece di
una, come tutte le lingue sorelle: quindi solo in italiano è possibile distinguere tra libro di

viaggio e libro da viaggio, tra tazza di ca è e tazza da ca è, ecc.;

(b) è la lingua romanza in cui sono più numerosi i derivati che hanno per base il nome di
una parte del corpo:

• braccio → abbracciare, imbracciare, sbracciare, sbracciarsi • fronte → a rontare,


fronteggiare, sfrontare

• occhio → adocchiare, inoculare

• bocca → abboccare, imboccare, sboccare

• testa → intestare

• collo → accollare, decollare, incollare • petto → impettire

• dito → additare, diteggiare, digitare

Tra le lingue romanze, l’italiano è la lingua in cui la gra a meglio lascia prevedere la
corrispondente pronuncia. Un notevole numero di grafemi (11 su 21) indica stabilmente un
solo fonema. Q

Quelli che indicano più fonemi sono pochi (‹c›, ‹g›, ‹z›, ‹s›).

Mancano i timbri di vocale nasale (presenti in francese e in portoghese) e i corrispondenti


grafemi (presenti in portoghese).

Non ci sono lettere ‘mute’ (a cui cioè non corrisponde alcuna pronuncia), salvo la h in
alcune posizioni (come all’iniziale delle voci del verbo avere: ho, ha, ecc.), sicché in italiano
quasi tutte le lettere scritte si ‘leggono’ (cioè hanno un corrispettivo fonico).

Gra a sovrabbondante

Ciò non signi ca però che la gra a italiana sia fonetica in senso proprio: alcune gra e sono
sovrabbondanti

Es. la ‹i› di scienza è solo etimologica: la parola si pronuncerebbe allo stesso modo se fosse
scritta *‹scenza›

Spagnolo: numerose alternanze grafematiche

hice «feci» e hizo «fece» per il medesimo fonema interdentale /θ/ quepo «(ci) entro» e cabe
«(ci) entra», per il medesimo /k/, ecc.

L’italiano ha inoltre un uso limitato e regolare dell’accento gra co, che usa perlopiù in ne
di parola a indicare un troncamento esempi!

Altre lingue romanze (romeno escluso)> l’accento fornisce una varietà di informazioni e
dipende da una varietà di motivi

- fr. régner «regnare» e (je) règne «(io) regno», il primo con accento acuto, il secondo con
accento grave, per indicare che la vocale è chiusa nel primo caso e aperta nel secondo

- fr. celer «celare» e (je) cèle «(io) celo», il primo senza accento

sulla e per indicare che si tratta di una [ə], il secondo con accento grave per indicare che la
vocale è aperta, ecc.

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spagnolo > l’accento, oltre che marcare l’ultima posizione, -segna le sedi accentuali più
arretrate della penultima

es. interesantísimo

- quelle in cui l’accento è diverso da quello che sarebbe prevedibile in

base alla gra a

Ess. difícil, fácil, dato che le parole terminanti in /l/ hanno di norma l’accento sull’ultima:
per l, abril, perejil, ecc.

peculiarità gra ca italiana è l’apostrofo, che ha due funzioni :

(a) segnale gra co di elisione (di parole clitiche: l’argento, s’innalza, m’accosto; di parole
con accento, specialmente dimostrativi e altri aggettivi ‘vuoti’, oltre a un gruppetto di parole
generali,

come: quest’oggi, quell’uomo, cos’altro, poc’anzi, brav’uomo, grand’uomo, pover’uomo,


ecc.) l’italiano lo adopera moderatamente (anche con poca sicurezza da parte degli
scriventi); tra le lingue romanze l’apostrofo è presente solo in francese, ma è ignoto allo
spagnolo e al portoghese;

(b) come indicatore di antichi troncamenti, l’italiano è l’unica tra le lingue romanze ad
adoperarlo: po’ (da poco), fa’ (da fai), da’ (da dai), va’ (da vai), sta’ (da stai), to’ (da togli), m
o’ (da modo), ecc.

Di coltà negli scriventi: oscillazione che si ha nei testi, insu ciente normazione nella storia
della grammatica

chi non avverte che be’ non è che il troncamento di bene scrive bè o beh; la stessa cosa
accade per to’ (troncamento dell’antico togli «prendi»; vedi spagn. toma, con ugual senso e
funzione), reinterpretato gra camente in toh, tò, ecc.

Oscillazioni nella relazione gra a/pronuncia si notano a proposito di alcuni digrammi:

•‹gn› è pronunciato /ɲ/ ma anche, in talune parole, /gn/ ([gno]seologia);

• ‹gl› è pronunciato /ʎ/ nel trigramma ‹gli›: aglio, foglia, ecc.; /gl/ in altri contesti: deglutire,
glifo, glicine;

• ‹sc› è pronunciato /ʃ/ in pesce, scimmia (il trigramma ‹sci› ha lo stesso valore in sciarpa,
sciocco) e /sk/ in scarpa, scoglio).

Per la fonetica

l’italiano è l’unica lingua romanza (e una delle poche in Europa) ad avere una distinzione tra
consonanti brevi e lunghe (tradizionalmente, tra semplici e doppie): caro è diverso da carro,
pala da palla. Le coppie minime di questo genere sono migliaia.

Francese, spagnolo e portoghese (non il romeno) hanno sì doppie gra che (in spagnolo
solo ‹ll› e ‹rr›), a cui non corrispondono lunghe fonetiche (salvo per ‹rr› spagnola).

MORFOLOGIA

italiano > lingua moderatamente essiva: pur avendo perduto il sistema latino dei casi ne
conserva qualche traccia: cioè nomi, aggettivi, pronomi e verbi hanno forme diverse per
numero, genere, tempo, modo, ecc.

La essione ha luogo mediante sostituzione di vocali e l’aggiunta, alla radice, di una varietà
di su ssi (come i casi latini), a di erenza di quel che accade in francese e in spagnolo,
dove invece ha luogo anche per aggiunta di un elemento alla parola di base.

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SUPERATIVI E COMPARATIVI

sopravvivenza di superlativi e comparativi alla latina

(ottimo, massimo, sommo; pessimo, minimo, in mo; migliore, peggiore, infer iore,
superiore, ecc.), che nelle altre lingue romanze non hanno avuto continuazione.

Esse li trattano quali aggettivi normali o li sostituiscono con altre forme (it. ottimo ~ fr.
excellent; it. pessimo ~ fr. exécrable; ecc.).

L’italiano ha invece il superlativo con su sso alla latina

(bellissimo, grandissimo, fortissimo), che è stato perduto in francese (salvo determinati casi
tipici) e che si trova in via di sparizione in spagnolo, ove, pur esistendo la forma in - ísimo
(interesantísimo), nel parlato si tende a sostituirlo col pre sso super- (un discurso
superinteresante).

La essione verbale italiana > una delle più complesse per il numero delle forme
(uguagliato solo dalla spagnola) e l’imprevedibilità degli esiti

Coniugazione in -are è più regolare e stabile dal punto di vista dell’accento, ed è l’unica
produttiva.

I verbi neologici sono formati praticamente sempre secondo questo modello:


dall’informatica, per es., viene un verbo scrollare «far scorrere l’immagine sullo schermo»
(dall’ingl. to scroll «far scorrere, srotolare»).

Un altro tipico fenomeno di derivazione latina è l’alternanza di radici in diverse forme della
essione:

a. prendere → prendo / presi b. tenere → tengo / tenni

c. correre → corro /corsi

d. tendere → tendo / tesi

togliere ha quattro allomor : tolgo, togli, tolsi, tolto.

Sempli cazione del complesso sistema verbale italiano

- Passato prossimo per il passato remoto (come per altre lingue romanze)

Es. ho comprato questa casa un anno fa

dieci anni fa abbiamo visto Carlo per l’ultima volta

spogli condotti su un campione di parlato > per parlare l’italiano usando solo clausole
principali, sono su cienti quasi solo il presente, l’imperfetto e il passato prossimo
dell’indicativo complesso sistema dei clitici.

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Clitici italiani:

1. variazione formale; così l’alternanza regolare tra -i ed -e in tutte le

particelle che hanno una -i nale

ci ha parlato Carlo ma Carlo ce lo ha detto; vi racconto la storia ma ve la

racconto

[quando ci e quando ce?]

2. vistosi fenomeni di omofonia, per cui la stessa sequenza fonica può riferirsi a entità
completamente diverse

(ci è pronome personale e avverbio locativo, come vi; gli è articolo e pronome; le è articolo
femminile, accusativo plurale femminile e dativo singolare femminile, ecc.);

3. da complessi meccanismi di ordinamento: prima del verbo di forma nita, dopo il verbo
di forma non nita

a. ve lo dico

b. diccelo

c. diccene una

d. lo puoi fare ~ puoi farlo e. stagli accanto

4.

la coesione del testo è assicurata da una rete di clitici più tta che in altre lingue romanze

- lo spagnolo non ha un equivalente di ne: ne ho due → tengo dos

- ad alcune formule con uno o due clitici il francese risponde con uno solo o senza alcun
clitico: ce l’ho → je l’ai, lo so → je sais, ecc.

A causa di questi fattori, il sistema dei clitici si è sempli cato [NEOSTANDARD]

1. la di erenza tra gli e le come dativi singolari maschile e femminile tende ad annullarsi a
vantaggio del solo gli (gli ho detto, «ho detto a lui» e «ho detto a lei»), seguendo un
processo che il francese e lo spagnolo hanno già attraversato per proprio conto (fr. lui,
spagn. le «a lui / a lei»); lo stesso fenomeno di fusione ha avuto luogo in queste due lingue
anche al plurale (fr. leur, spagn. les «a loro»);

(b) la di erenza tra gli e (a) loro, come dativi rispettivamente singolare e plurale, tende ad
annullarsi ancora una volta a vantaggio di gli, che opera come dativo plurale di tutti i generi
(ho visto i ragazzi e gli ho parlato «ho parlato a loro»);

(d) l’uso di ci avverbiale, nel parlato informale, tende a espandersi al di là delle previsioni,
no a coprire una varietà di usi che altrimenti sarebbero risolti con pronomi tonici

ho visto Carlo e ho parlato con lui > ho visto Carlo e ci ho parlato

esco con Luisa e vado al cinema insieme a lei > esco con Luisa e ci vado al cinema
(insieme), ecc.;

SINTASSI

Rispetto alle altre lingue romanze, la sintassi dell’italiano moderno è caratterizzata da alcuni
tratti evidenti

- i sintagmi hanno una notevole mobilità, più alta di quella di lingue come l’inglese, e simile
a quella dello spagnolo o del francese; questa mobilità è una visibile eredità latina, e serve a
scopo di focalizzazione;

- la posizione dell’aggettivo rispetto al nome varia secondo regole semantiche speci che, a
di erenza del francese, dove per lo più l’aggettivo tende a seguire il nome, e dello
spagnolo, dove, sia pure in minor misura, la tendenza è la stessa del francese (esempio con
vecchio)

[Il francese invece tende a collocare l’aggettivo quali cativo pressoché sempre dopo il
nome (con qualche eccezione: les beaux livres «i bei libri» e non les livres beaux), lo
spagnolo ha (sia pure meno spiccata) la stessa tendenza.]

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• nelle frasi oggettive, caratterizzate dal largo uso di modi verbali come il congiuntivo e il
condizionale, tali modi sono imposti in molti casi non dalla necessità di codi care modalità,
ma da pure questioni di concordanza dei tempi;

• il soggetto non è obbligatorio; per conseguenza, è usato solo se serve a rispondere a


particolari necessità pragmatiche;

- la posizione del soggetto rispetto al predicato non è rigida (come in inglese, dove il
soggetto sta prima del predicato e, se è costituito da un nome personale, deve precederlo
immediatamente); in italiano, quest’ordine varia secondo il tipo di enunciato e in particolare
secondo le speci cità semantiche del verbo; inoltre, il soggetto può dislocarsi anche a
notevole distanza dal predicato.

IL PASSIVO

L’italiano fa grande uso delle strutture passive, sia nel parlato che (e più ancora) nello
scritto. In ciò è abbastanza isolato rispetto alle altre lingue romanze, che pur disponendo di
questa risorsa la impiegano in misura minore. Lo spagnolo, per es., preferisce riorganizzare
l’enunciato con l’aiuto di se + forma essa del verbo:

• it. il bicchiere è stato rotto ~ spagn. se rumpió el vaso.

Il francese adopera in un caso simile un soggetto inde nito: on a cassé le verre.

soggetto inde nito, generico o ipotetico

In questo l’italiano è tra le lingue romanze con più mezzi, benché le risorse più frequenti per
indicare un soggetto generico siano principalmente due:

• III persona plur. del verbo: dicono che pioverà • si soggetto: si dice che domani pioverà

Vanno tenute in conto anche quelle che servono più speci camente a indicare un soggetto
ipotetico o ttizio:

• a. uno: se uno ti urta, tu come rispondi?

• tu: se tu vuoi diventare ricco, devi avere gli amici giusti

• si arbitrario: se si vuol diventare ricchi, bisogna avere gli amici giusti.

Dante e la Commedia

Dante fu uomo del suo tempo e archetipo del letterato; fu grande autore di poesia amorosa
e lirica ma anche superba voce politica; sperimentatore e fondatore di canoni e metri;
grandissimo inventore di nuove parole del volgare. Dopo Dante il panorama letterario sarà
profondamente mutato: il suo esempio, seppure con fortuna variabile nel corso dei secoli, è
insuperato ancora ai nostri giorni.

Dante nacque nel 1265, tra il 14 maggio e il 13 giugno, con il nome di Durante (Dante è
infatti un diminutivo), nella famiglia Alagheri, Alaghieri, Alleghieri, Aldighieri (con Boccaccio
si a ermerà de nitivamente la forma Alighieri). Dei primi anni di vita vanno ricordati
l’incontro con Beatrice (che pare identi cabile in Bice di Folco Portinari), quando il poeta
aveva 9 anni, e il matrimonio con Gemma di Manetto Donati (forse attorno al 1285), da cui
Dante ebbe almeno tre gli (tra i quali Iacopo, che scrisse un commento alla Commedia),
forse cinque.

Dante studiò nelle scuole laiche orentine, frequentando intellettuali e rimatori della città:
scrisse a 18 anni la prima poesia, A ciascun’alma presa e gentil core, apprezzatissima da
Cavalcanti, “primo de li miei amici”, a cui Dante dedicò la Vita nuova. Dante viaggiò, si dice,
a Parigi e a Bologna: non ci sono notizie del viaggio in Francia, ma a Bologna Dante fu tra il
1286 e il 1287, assai probabilmente per entrare in contatto con l’ambiente letterario.

Svolta fondamentale nella vita del poeta è la morte di Beatrice (1290), che gli causò un
profondo turbamento, nonché l’avvicinamento alle letture loso che, consigliato da
Brunetto Latini, che fu suo veneratissimo maestro spirituale. Nasce da qui il personaggio
dantesco, che inizia a scrivere opere strutturate e a diventare protagonista politico della vita

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cittadina: iscritto all’Arte Maggiore dei Medici e Speziali, dal 1° novembre 1295, poté
accedere anche se nobile a cariche pubbliche: fu nel Consiglio dei Trentasei del Capitano
del Popolo, e anche nel Consiglio dei Savi o delle Capitudini e nel Consiglio dei Cento, il
massimo organo amministrativo comunale.

Il 13 giugno 1300, a 35 anni, Dante viene eletto Priore (erano sei a Firenze) per un bimestre,
nuova massima carica dello Stato; ma il periodo è molto turbolento, per le rivalità tra Guel
Bianchi e Neri e la continua ingerenza di papa Bonifacio VIII. Dante ricopre altre cariche, e
dai pochi dati residui si può intuire che abbia perseguito una linea di difesa dell’autonomia
comunale rispetto alla Chiesa. Il ponte ce però decide per il colpo di mano, e invia a
Firenze Carlo di Valois, che lascia ai Neri, esiliati l’anno prima, libertà di saccheggio e di
vendetta in città.

Anche la famiglia Alighieri, di parte Bianca, cade in disgrazia. Dante si trovava


probabilmente in ambasceria a Roma, e non tornò a Firenze. Fu condannato a morte come
esponente di una famiglia ribelle, ma la condanna fu poi convertita nel pagamento di una
somma di denaro, due anni di con no e interdizione dalle cariche pubbliche.

L’accusa mossagli era di baratteria, lucro illecito ed estorsioni durante l’incarico,


opposizione a Carlo d’Angiò e al papa, turbamento della quiete cittadina e congiure contro
Pistoia. Dante non si presenta neppure alla seconda condanna e viene nuovamente
condannato a morte (14 marzo 1302). Non sarebbe più tornato in città, mentre vi rimase la
moglie, appartenente a una famiglia di parte Nera. Restò forse per un po’ in Toscana, poi fu
a Verona, presso la corte di Bartolomeo della Scala, per chiedere un suo intervento in difesa
dei Bianchi.

Il nuovo papa Benedetto XI, eletto il 22 ottobre 1303, di famiglia ghibellina, tenta di
paci care la situazione orentina, ma i Neri ri utano la mediazione; i Bianchi tentano in ne
un’impresa militare (battaglia della Lastra, 20 luglio 1304), che si risolve nella sanguinosa e
de nitiva scon tta.

L’illusione del rientro in patria svanisce con il passare degli anni: Dante è esule a Verona,
Treviso (presso Gherardo da Camino), Padova (dove pare che abbia incontrato Giotto
mentre dipingeva la Cappella degli Scrovegni) e Bologna; poi in Lunigiana, presso i
marchesi Malaspina; nel Casentino, a Lucca (dove pare che si fosse trasferita la moglie con
i gli e da dove un editto cacciò i orentini esuli nel 1309).

Dante si era allontanato dalla fazione, ormai sempre più facinorosa, per a darsi alle lettere
e conquistare un prestigio che avrebbe potuto valergli l’amnistia: scrisse in questi anni il
Convivio e il De vulgari eloquentia, che rimasero incompiuti quando si aprì l’immenso
cantiere della Commedia.

La Commedia

Come tanti altri autori antichi, e forse come tutti, Dante ha usato più lingue e non una lingua
unica: la sua lingua si trasforma secondo il genere a cui deve adattarsi, dalla lirica erotica
alla prosa loso ca, no allo straordinario plurilinguismo della Commedia. Dante è stato il
primo autore a cimentarsi in generi tanto diversi e a provare con il suo sperimentalismo la
duttilità del volgare, creandosi personalmente il lessico di cui necessitava. Da che cosa è
composta allora la lingua di Dante?

Innanzitutto da una base orentina, e precisamente dal orentino in uso tra la ne del Due
e l’inizio del Trecento, o per meglio dire di ne Duecento per quanto riguarda le strutture
grammaticali. Ma nella Commedia, è frequente l’impiego di forme extra orentine, che le
strade culturali avevano portato all’orecchio di Dante, o che il poeta aveva appreso nel
corso dei suoi viaggi e pellegrinaggi in Italia settentrionale, durante il lungo esilio.

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Trattandosi di un’opera poetica, la Commedia contiene molte forme canonizzate dalla
scuola siciliana: per esempio, quelle senza dittongo quali core, foco, vène ‘viene’, o i
condizionali con desinenza -ia (porìa). Inoltre, la lingua viene sovente adattata al
personaggio che entra in scena: così, Bonagiunta sarà caratterizzato da forme di pisano-
lucchese, Arnaut Daniel pronuncerà alcune parole in provenzale, in Paradiso echeggierà
spesso il latino, e così via.

N.B. Scuola siciliana: prima metà del XIII secolo, presso la corte

di Federico II di Svevia. La poesia lirica dei "Siciliani" (come li chiamava Dante) contiene in
sé un linguaggio sovrarregionale, qualitativamente e quantitativamente ricco, data anche la
sua capacità di coniare parole nuove, assimilando rapporti dialettali italiani e francesi alle
lingue d'oltralpe.

Il lessico è ancor più segnato da elementi non orentini, soprattutto latini e di area
galloromanza (vale a dire francesi e provenzali), ma anche orentini popolari e locali (termine
questo che è preferibile usare al posto di ‘dialettali’, dato che a quest’altezza cronologica
sarebbe scorretto individuare come ‘dialetti’ quelli che sono ancora ‘volgari’ italiani).

Molte parole usate da Dante appartengono poi ad aree extra-toscane, e nel Cinquecento
questo aspetto della lingua dantesca sarà duramente criticato dagli esponenti della
corrente “puristica” dei partecipanti al dibattito linguistico, che si riferiranno a elementi di
“dialettalità”, di “ orentinità popolare” (sirocchia, allotta ecc.), di “italianità” (cioè di uso di
parole di lingua ‘cortigiana’, comuni a vasti territori della penisola).

Paradossalmente, quindi, l’autore che viene celebrato come “padre” della lingua italiana
non fu scelto come modello per stabilire la norma grammaticale. Tuttavia, le parole da lui
coniate (si parla addirittura di conio dantesco) e rimaste nell’uso sono tantissime, per non
parlare delle espressioni fraseologiche.

E molti neologismi danno conto della sua fantasia linguistica, come i verbi parasintetici
formati con il pre sso in-: incielare, indiarsi, indonnarsi, intuarsi e immiarsi (“s’io m’intuassi
come tu t’immii”), indovarsi, ma anche, ad esempio appulcro nell’espressione “parole non
ci appulcro”, oggi usata scherzosamente per indicare la super uità di un commento a una
situazione che appare chiara, o a una de nizione già esauriente. Non è poi raro sentire
usare “nel mezzo del cammin di nostra vita”, “selva selvaggia”, “tremar le vene i polsi”,
“color che son sospesi”, “il ben dell’intelletto”, “senza infamia e senza lode”, tutte
espressioni che dalla Commedia sono transitate nel linguaggio comune, di registro medio-
alto.

Il problema della lingua della Commedia è inoltre acuito dalla mancanza di un originale
dantesco: non solo non possediamo la versione del poema di pugno di Dante, ma del poeta
non è giunta no a noi nemmeno una riga di testo, un verso. Bisogna dunque a darsi alle
testimonianze dei copisti, e la questione scon na ben presto nell’ambito della lologia,
attraverso le cui tecniche gli studiosi hanno negli ultimi decenni tentato di mettere ordine in
una tradizione manoscritta davvero ampia (oltre 600 codici riportano il testo della
Commedia) e caratterizzata dalle in uenze locali dovute ai copisti, originari di tutte le zone
d’Italia.

Per lungo tempo i critici hanno preferito considerare migliori le versioni conservate dai
codici orentini, considerati più vicini alla lingua di Dante, e anche cronologicamente più
antichi; ma gli ultimi approfondimenti, compiuti da Federico Sanguineti e da Paolo Trovato,
mostrano come la lezione dei manoscritti settentrionali, anche se spesso più recenti di
qualche decennio, sia spesso preferibile.

Del resto, Dante ha scritto la Commedia in esilio, e dunque la propagazione del poema
avrà presumibilmente seguito varie strade da fuori Toscana verso la Toscana: poi la
maggiore organizzazione dei centri di copia toscani ha dato luogo a una di usione enorme
del poema, ma gli sparuti testimoni settentrionali conservano a volte tracce di toscanismi

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scomparsi nei manoscritti orentini (che nella migliore delle ipotesi hanno “ritoscanizzato” la
lingua secondo l’uso primotrecentesco, più moderno dunque rispetto alla lingua dantesca).

Venendo al metro, Dante sceglie la terzina incatenata, che consente di allungare


potenzialmente all’in nito la successione dei versi, ed è adatta per un testo poetico di tipo
narrativo come la Commedia, i cui toni non possono essere appiattiti e uniformati sull’epica.

Nel computo totale gli endecasillabi del poema sono 14.233, distribuiti uniformemente nelle
tre cantiche (ogni canto ha un numero di versi variabile da 115 a 160, con una media di
120- 130).

La terzina incatenata è un’altra invenzione di Dante, che contiene in sé la simbolica


progressione del viaggio, dato che è costruita come una vite perpetua e tende al continuo
sviluppo di sé stessa. Il tre è inoltre uno dei numeri simbolici su cui è costruita la
Commedia, e qui ogni rimante interno della terzina rima con i due esterni della terzina
successiva, con perfetto e armonico sviluppo dell’architettura testuale.

Tornando però alla lingua, Parodi aveva ben de nito lo strato principale del orentino
dantesco con queste parole: “pare che Dante, piuttosto che l’uso dei lirici, abbia seguito qui
pure [nella Commedia] l’uso toscano di poco più che una generazione innanzi alla sua,
attingendo in quel moderato arcaismo nobiltà e solennità di linguaggio”. Dante è dunque
anche il primo autore che non solo si richiama alla tradizione per i fatti di lingua (benché ne
sia anche un fecondissimo inventore), ma che si serve di forme meno usate per patinare
appena di arcaismo la propria poesia: ricetta che diverrà tipicissima della tradizione lirica
italiana.

Castellani ha poi aggiunto che certe forme rintracciate nel poema potevano essere ancora
vive durante la giovinezza di Dante, ma “certo all’epoca in cui fu scritta la Divina Commedia
erano in piena dissoluzione”: un esempio è l’alternanza tra vederai (forma arcaica) e vedrai
(forma più recente).

Boccaccio e il Decameron

Giovanni Boccaccio lavorò alla costruzione di una propria autobiogra a ideale, ispirandosi
a modelli letterari e culturali romanzeschi. Narrò di essere glio illegittimo di una glia del re
di Francia, e di padre mercante, che contrastò in ogni modo la sua vocazione alla
letteratura; narrò di una passione per una donna di ceto superiore nascosta sotto il senhal
di Fiammetta.

La critica ha poi condotto tte indagini su questi elementi autobiogra ci di ction,


scoprendo fonti e modelli a cui Boccaccio aveva ispirato il romanzo della propria vita. Resta
invece incerta la cronologia delle opere di Boccaccio, e anche sugli eventi certi della sua
esistenza.

Nacque in Toscana, forse a Certaldo, nel giugno-luglio 1313: il padre si chiamava


Boccaccio (detto Boccaccino) di Chelino, mentre della madre non è nota l’identità. Giovanni
fu legittimato prima che il padre sposasse Margherita de’ Mardoli; Boccaccino era uomo
d’a ari della compagnia dei Bardi, e il giovane glio fu avviato alla pratica della mercatura.

Da Firenze Boccaccio si trasferì con il padre a Napoli per a ari dal 1327 al 1340, e questa
esperienza fu estremamente formativa per l’esperienza di narratore, poiché Giovanni
conobbe persone di ogni strato sociale; e la pratica di una professione che richiedeva
capacità di scrittura e precisione di calcolo inciderà moltissimo sulla scrittura delle novelle
che saranno raccolte nel Decameron. Inoltre, alla corte di re Roberto l’interesse per la
letteratura francese e provenzale è accompagnato dal sostegno alla cultura laica e
scienti ca.

Boccaccio leggeva con grande intensità di studio. A Napoli Boccaccio ebbe anche
l’avventura amorosa che segna tutta la sua produzione letteraria; resta tuttavia sconosciuta

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la vera identità di chi è celata dietro il senhal Fiammetta, personaggio che compare nel
Filocolo, nell’Ameto, nell’Amorosa visione e nel Decameron, oltre a essere protagonista
dell’Elegia di madonna Fiammetta.

l ritorno a Firenze, probabilmente nell’inverno tra 1340 e ’41, segna un regresso deciso
nella vita sociale di Boccaccio: Firenze vive infatti un periodo di incertezza politica, e la
famiglia è in di coltà economiche; oltre a questo, il poeta è in perenne contrasto con il
padre e abita una casa “oscura e muta e molto trista”. Degli anni ’40 sono note ben poche
informazioni, se non che viaggiò presso le corti di Ravenna e Forlì.

Al sopraggiungere della peste, nel 1348, Boccaccio è a Firenze, e vive da spettatore la


terribile epidemia che uccide il padre e molti amici. Nel ’51 è eletto tra i Camerlenghi del
Comune e rappresenta la Repubblica presso la Regina di Napoli per acquistare Prato. È
anche ambasciatore presso Ludovico il Bavaro, e tre volte sarà presso i papi: ad Avignone
da Innocenzo VI, ad Avignone e poi a Roma presso Urbano V.

Torna alcune volte presso la corte napoletana, dove cerca di trovare sostegno economico,
ma l’esperienza non è soddisfacente, e così decide di ritirarsi prima a Firenze e in ne a
Certaldo (1371), che diventa l’eremo dei suoi ultimi anni, un luogo dove meditare.

Boccaccio ha svolto anche un ruolo decisivo nella fondazione del mito dantesco: scrisse
infatti un Trattatello in onore di Dante (1351 circa), e contribuì alla “certi cazione” di una
prima ‘vulgata’ del testo della Commedia (cioè preparò un testo a cui tutti faranno
riferimento, tra le migliaia di varianti che circolavano). Scrisse inoltre le Esposizioni sopra la
Comedia di Dante, interrotte però a If XVII.

Il Decameron

Nel 1360 Boccaccio prese gli Ordini sacri, e forse la sua produzione letteraria piegò in parte
verso una ri essione religiosa; in realtà, anche se tenta di nasconderlo, Boccaccio lavorò al
perfezionamento del Decameron no agli ultimi anni della sua vita, subendo anche le
critiche di chi lo riteneva opera ormai inadatta alla sua età. Soprattutto, Boccaccio si
interessa alle scelte formali della sua opera, che ricopia accuratamente ancora intorno al
1370 in quello che oggi è conosciuto come codice Hamilton 90 della Staatsbibliothek di
Berlino.

Morì, pare improvvisamente, il 21 dicembre 1375.

Hamilton 90

Riproduzione di un dettaglio dell'Hamilton 90 con varie tipologie di iniziali maiuscole

È considerata una delle opere più importanti della


letteratura del Trecento europeo, durante il quale esercitò
una vasta in uenza sulle opere di altri autori (si pensi ai
Canterbury Tales di Geo rey Chaucer), oltre che la
capostipite della letteratura in prosa in volgare italiano.
Boccaccio

nel Decameronra gura l'intera società del tempo,


integrando l'ideale di vita aristocratico, basato sull'amor
cortese, la magnanimità,

la liberalità, con i valori della mercatura: l'intelligenza,


l'intraprendenza, l'astuzia.

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Decameron è parola composta dal greco δέκα, déka, "dieci" e ἡμερῶν, hēmerṓn, genitivo
plurale di

ἡμέρα, hēméra, "giorno", letteralmente "di dieci giorni", nel senso di "[opera] di dieci
giorni").

Nulla si sa dell’inizio della lunga elaborazione dell’opera, di certo iniziata dopo la peste del
1348, che fa da pretesto all’avvio della narrazione, e conclusa prima del 1360, data in cui è
testimoniata un’ampia circolazione del testo. Ma Boccaccio, come si diceva, continuò a
introdurre correzioni e copiò la versione de nitiva solo attorno al 1370.

Il Decameron, con il sottotitolo Il principe Galeotto (ad indicare la funzione che il libro avrà
di intermediario tra amanti) narra di un gruppo di giovani (sette ragazze e tre ragazzi) che,
durante l'epidemia di peste del 1348, incontratisi nella chiesa di Santa Maria Novella,
decidono di rifugiarsi sulle colline presso Firenze. Per due settimane l'«onesta brigata» si
intrattiene serenamente con passatempi vari, in particolare raccontando a turno le novelle,
raccolte in una cornice narrativa dove si intercavallano più piani narrativi: ciò permette a
Boccaccio di intervenire criticamente su varie tematiche connesse ad alcune novelle che
già circolavano liberamente.

I nomi dei dieci giovani protagonisti sono Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta,
Nei le, Pampinea, Dioneo, Filostrato e Pan lo. Ogni giornata ha un re o

una regina che stabilisce il tema delle novelle; due giornate però, la prima e la nona, sono a
tema libero. L'ordine col quale vengono decantate le novelle durante l'arco della giornata
da ciascun giovane è prettamente casuale, ad eccezione di Dioneo, che solitamente narra
per ultimo e non necessariamente sul tema scelto dal re o dalla regina della giornata,
risultando così essere una delle eccezioni che Boccaccio inserisce nel suo progetto così
preciso e ordinato.

L'opera presenta una grande varietà di temi, di ambienti, di personaggi e di toni; si possono
individuare come centrali i temi della fortuna, dell'ingegno, della cortesia e dell'amore.

La novella era un genere molto amato nella Firenze del ’300, per via della cultura borghese
dominante; nel libro prevalgono i mercanti e le scene cittadine, mentre perde terreno il
genere medievale dell’exemplum.

Eppure, per essere considerata opera d’arte, la raccolta necessitava per lo meno di uno
sfondo nobilitante, che Boccaccio costruì con la “cornice” introduttiva alla vicenda e a
ciascuna delle dieci giornate. La sintassi della “cornice” è assai elaborata, latineggiante,
ipotattica, a atto diversa dalla freschezza e spontaneità delle novelle. La cornice, come
ampio paratesto, consente poi all’autore di ritagliarsi uno spazio proprio e separato da
quello dei narratori.

codice Hamilton 90

note marginali di un Boccaccio, ormai anziano, che ritorna alla sua opera giovanile e la
perfeziona

Rispetto alle copie precedenti, nell’autografo si nota un incremento di moduli


espressionistici e di tendenze linguistiche dialettali e idiomatiche, che sostituiscono forme
auliche e latineggianti.

Similmente prevale su similemente e senza regna indiscusso, forse come spinta


anti orentina

il testo dell’autografo ‘fotografa’ la situazione linguistica del orentino del secondo


Trecento, che presenta sia elementi linguistici di una generazione precedente a quella di
Boccaccio — e, infatti, nelle trame della lingua il testo è intriso di Dante — sia elementi più
moderni che si a ermeranno nel Quattrocento

Alcuni usi, come per esempio diece, indicano una volontà di conservazione della lingua,
quando difatti il tipo dieci si era già a ermato.

Polimor a, plurilinguismo, diversi registri > come la Commedia, ma in prosa

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La sintassi > nonostante la dichiarazione di umiltà dello stile, è in realtà ben ponderata e
altamente elaborata

Divisa fra richiamo delle strutture latine, spinte innovative destinate a ssarsi nel secolo
successivo e presenza dell’oralità determinata dal genere della novella e dal cospicuo
numero di dialoghi

Fenomeni rivolti a una maggiore colloquialità e mimesi del parlato sono la paraipotassi, che
presenta una grande vitalità sia nella narrazione sia nel discorso diretto per la sua capacità
di ra orzare la continuità del discorso, la constructio ad sensum, la dislocazione a destra e
a sinistra, i costrutti anacolutici e i cambiamenti di progetto con una forte valenza
espressiva e stilistica, pronome relativo polivalente che

La questione della lingua:


Bembo e le Prose della volgar lingua (con una parentesi su Francesco Petrarca)

Con l'espressione 'questione della lingua' si indica la disputa linguistica sul problema
legata al modello linguistico da adottare nella penisola italiana; sorta in ambito letterario,
ebbe la sua fase più acuta agli inizi del Cinquecento, per poi protrarsi con alterne vicende
(almeno) no

ad Alessandro Manzoni.

L'origine del dibattito può ricercarsi nel De vulgari eloquentia di Dante: identi cava

la lingua volgare con lo sviluppo delle varietà plebee locali già parlate nell'antichità a
seguito dell'episodio della Torre di Babele (in cui Dio avrebbe punito gli uomini facendo sì
che le lingue da essi parlate si di erenziassero tra loro).

Il latino, lingua d'uso internazionale (allora generalmente adoperata nelle scritture e nei
discorsi u ciali), era de nito da Dante

come gramatica per antonomasia, cioè lingua convenzionale creata arti cialmente perfetta.

Tuttavia il volgare d'Italia, suddiviso al suo interno in quattordici principali ripartizioni


dialettali, grazie alla Scuola poetica siciliana aveva meritato di elevarsi all'uso scritto.

Restava però aperto il problema sulla conformazione di quel volgare illustre, il quale,
secondo Dante, avrebbe dovuto avvalersi del concorso di tutti i dialetti d'Italia.

Dante non tentò di 'inventare' un volgare panitaliano, ma anzi adottò il nativo orentino.

In pieno Umanesimo la questione della lingua si fece più accesa, anche in conseguenza
dell'avvento della stampa, la quale rendeva necessaria la presenza di una norma coerente e
omogenea a livello nazionale.

A quel tempo Venezia era la capitale europea dell'editoria, in contrasto con Firenze. Fu
proprio da queste due città che nacquero le due maggiori scuole di pensiero, veneta e
toscana: la prima a ermava il suo predominio a

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livello europeo nell'editoria e quindi nella comunicazione, la seconda rivendicava la
cittadinanza dei grandi letterati trasformatori della lingua (Dante, Petrarca, Boccaccio). Di
Petrarca parlermo poi.

Tiziano, Ritratto di Pietro Bembo (1539) Washington,

National Gallery of Art

Pietro Bembo nacque

a Venezia nel 1470 dall'antica famiglia

patrizia dei Bembo, da Bernardo e da Elena Morosini. Ancora bambino, seguì il padre,
senatore della Serenissima, a Firenze, dove imparò ad apprezzare il toscano, che avrebbe
preferito

alla lingua della sua città natale per tutta la vita. Dal 1492 al 1494 studiò il greco a Messina
con il famoso ellenista Costantino Lascaris. Vi si recò con l'amico e condiscepolo Angelo
Gabriel, e arrivarono a Messina il 4 maggio 1492.

Ritornato a Venezia, collaborò attivamente con Aldo Manuzio, inserendosi nel suo
programma editoriale con varie pubblicazioni.

Il suo esordio letterario avvenne con la pubblicazione del dialogo latino De Aetna ad
Angelum Gabrielem liber (da A. Manuzio, Venezia, 1495), dove raccontò del suo soggiorno
siciliano e della sua ascensione sull'Etna.

Pietro Bembo si laureò all'Università degli Studi di Padova e fece ulteriori studi (1497-1499)
alla corte

di Ferrara, che allora gli Este avevano trasformato in un importante centro letterario e
musicale.

A Ferrara nel 1502 conobbe Lucrezia Borgia, all'epoca moglie di Alfonso d'Este, con la
quale ebbe una relazione. In quel

periodo Ferrara era in guerra con Venezia per il controllo del Polesine, di Rovigo e del
mercato del sale ("guerra del sale"). Bembo fuggì nel 1505 quando la peste decimò la
popolazione della città.

Fra 1506 e 1512 visse a Urbino, dove iniziò a scrivere una delle sue opere maggiori, le
Prose nelle quali si ragiona della volgar

lingua (pubblicata solo nel 1525) e il suo lavoro assurse ai livelli più alti della sua carriera di
umanista. Nel 1513 seguì a Roma Giulio de' Medici, futuro papa Clemente VII. A Roma
papa Leone X lo volle suo segretario.

Dopo la morte del ponte ce nel 1521, si trasferì a Padova, dove abitava la sua amante
Faustina Morosina della Torre, dalla quale ebbe anche un glio. Durante il suo soggiorno

a Padova pubblicò a Venezia le Prose della volgar lingua, 1525. Nel 1529 ritornò a Venezia
dove ricoprì l'incarico di storiografo della Repubblica di Venezia e bibliotecario della
Biblioteca Marciana.

Nel 1539 papa Paolo III lo creò cardinale diacono, con titolo di San Ciriaco in thermis e
questo fatto lo riportò a Roma, dove, sempre nel 1539 fu ordinato sacerdote. Rinunciò agli
studi di letteratura classica, dedicandosi

alla teologia e alla storia classica.

Morì a Roma, all'età di 76 anni, il 18

gennaio 1547. Fu sepolto a Roma nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva; la sua lastra
tombale è collocata sul pavimento, dietro l'altare maggiore. Anche nella Basilica di
Sant'Antonio a Padova si trova un monumento dedicato al cardinale, opera del grande
architetto Andrea Palladio.

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Francesco Petrarca

Canzoniere, meno comunemente conosciuto con il titolo originale in latino Rerum vulgarium
fragmenta (o, comprensivo del nome dell'autore, Francisci Petrarchae laureati poetae
Rerum vulgarium fragmenta, "Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca,
poeta coronato d'alloro"), è la storia, raccontata attraverso la poesia, della vita interiore

di Francesco Petrarca. Composto a più riprese nel corso di tutta la vita del poeta,

il Canzoniere comprende 366 componimenti

in versi.

Il «codice degli abbozzi» è un


manoscritto formato da venti
carte che Petrarca vergò per
quasi quarant' anni, dal 1336
al 1374, anno della sua morte.
Si può de nire anche, con un
termine assurto agli onori
degli studi dopo l' uso che ne
fece Contini, uno scartafaccio,
cioè un quaderno usato per
minute. Queste carte sono
dunque importantissime
perché testimoniano in diretta
il continuo lavorio di Petrarca
sui componimenti destinati al
Canzoniere in lode di Laura
(tramandato nella sua forma
de nitiva da un altro codice
autografo: il Vaticano 3195).

I.

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond'io nudriva 'l core

in sul mio primo giovenile errore,

quand'era in parte altr'uom da quel ch' i' sono,

del vario stile in ch'io piango e ragiono, fra le vane speranze e 'l van dolore, ove sia chi per
prova intenda amore, spero trovar pietà, non che perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente

di me medesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,

e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.

Presso i suoi contemporanei Petrarca fu famoso soprattutto per le opere in latino che
determinarono lo sviluppo di generi letterari come la biogra a, la storiogra a, la poesia
bucolica e gli epistolari. Il successo

del Canzoniere inizia nel ‘400, quando diviene oggetto di imitazione per molti poeti che
scrivono in volgare.

Bembo e Petrarca

Pietro Bembo contribuisce moltissimo al grande successo di Petrarca. Nel 1501 cura
l’edizione

del Canzoniere nella forma destinata a diventare canonica. Ma soprattutto, nelle Prose della
Volgar lingua, esalta la classicità del linguaggio

del Canzoniere e lo indica come eccellente e unico modello per tutti i generi della poesia
colta. Con Bembo inizia il petrarchismo, cioè l’imitazione incondizionata della poetica di
Petrarca, un fenomeno che investe anche l’Europa.

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Col petrarchismo il sonetto si a erma in modo particolare in Francia, con Ronsard e i poeti
della Pléiade, e in Inghilterra, con Thomas Wyatt, Edmund Spenser e Shakespeare, anche
se con una diversa struttura metrica e ritmica.

Il Canzoniere viene analizzato con un’attenzione che no a quel momento era stata
riservata soltanto a opere con profonde implicazioni loso che e dottrinali, come la
Commedia di Dante e diviene non solo un modello per lo stile poetico, ma anche per lo stile
di vita, si trasforma in una moda: nelle eleganti corti del ‘500, gentiluomini e dame scrivono
versi e parlano alla maniera di Petrarca.

Francesco Petrarca, Le cose


volgari, Venezia, Aldo Manuzio,
1501

Nel colophon dell'edizione de Le


cose volgari di Petrarca, Aldo
Manuzio dichiara che fu tratta
«con sommissima diligenza dallo
scritto di mano medesima del
Poeta, havuto da M. Pietro
Bembo», volendo con ciò
sottolineare l'autorevolezza della
fonte manoscritta e il prestigio
dello studioso che aveva
collaborato alla cura del testo,
aggiungendo per gli esemplari
stampati in pergamena «dallui
doue bisogno è stato, riueduto et
racconosciuto».

L'edizione aldina curata da Bembo, suscitò immediate voci di disaccordo, se non di


scontento, tali da indurre Bembo stesso a spiegare e a difendere il proprio lavoro attraverso
le parole di Manuzio nella lunga dedica «Aldo a gli lettori» posta nell'ultimo fascicolo e
quindi aggiunta già in corso di stampa, in cui si legge: «io mi credea per certo havere a
bastanza dato fede della correttione di questo libro [...] sono alcuni che dicono non essere
perciò così compiutamente corretta questa forma che io v'ho data».

Dall'autografo di Petrarca, Bembo si discostò soprattutto per la regolarizzazione delle gra e


latineggianti, per i troncamenti e le elisioni, ma il suo lavoro rappresentò un modello di stile
formale e linguistico per secoli.

Prose della volgar lingua (1525)

Le "Prose" ebbero un'in uenza decisiva sullo sviluppo della lingua italiana. Bembo vi
propose di utilizzare la lingua usata da Petrarca per le opere in versi e quella di Giovanni
Boccaccio per i testi in prosa.

A livello storico il trattato può essere considerato come uno dei primi tentativi di storia
letteraria italiana.

È un trattato in forma dialogica, sul modello classico di Platone. È dedicato a Giulio dei
Medici prima che fosse eletto papa con il nome di Clemente VII (1523). L'opera è composta
da tre libri, in cui quattro personaggi storici (Carlo Bembo, fratello di Pietro, Ercole Strozzi,
umanista di

Ferrara, Giuliano de' Medici duca di

Nemours e Federigo Fregoso, futuro cardinale) discutono sulla lingua volgare.

I libro. A casa di Bembo incomincia la discussione sulla lingua da adottare: il latino è


preferibile al volgare? Qual è il volgare da prediligere? Di fronte alle a ermazioni di umanisti

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come Ercole Strozzi, che sviliscono il ruolo del volgare, gli altri personaggi ne difendono
invece il valore. Il libro presenta quindi una storia del volgare e, a rontando il problema di
quale volgare italiano usare per la scrittura, propone i due modelli fondamentali di Bembo:
per la prosa il volgare della Cornice del Decameron boccacciano, (il linguaggio delle novelle
è ritenuto troppo basso e colloquiale), per la poesia la lingua di Petrarca. Nel libro è trattato
anche il rapporto tra l'italiano e il provenzale, a livello sia linguistico che letterario.

II libro. La trattazione a ronta prevalentemente questioni metriche e di retorica del volgare,


sempre nell'intento di dimostrare l'eccellenza di Petrarca e Boccaccio. Vengono evidenziate
le qualità che rendono bella la scrittura, ovvero la piacevolezza e la gravità.

III libro. In questo libro - che da solo occupa metà dell'opera - Bembo presenta una sua
grammatica del volgare, ovvero la descrizione morfologica del toscano trecentesco sulla
base del principio di imitazione dei "classici". La trattazione non è sistematica, e il libro è
stato de nito come “una meravigliosa selva dove l'esempli cazione della parola e del suo
uso prevale sulla classi cazione e sulle regole” (Carlo Dionisotti). A rendere più di cile la
lettura è anche l'abbondanza di esempi e il mancato utilizzo dei termini tecnici codi cati
dalla tradizione grammaticale latina. Bembo preferisce infatti ricorrere a perifrasi anche per
le de nizioni di base (per cui il “singolare” e il “plurale” diventano rispettivamente il “numero
del meno” e il “numero del più”, il presente è il “tempo che corre mentre l'uom parla”, e così
via).

Libro primo, capitolo terzo

Allora mio fratello, vedendo gli altri star cheti, cosí rispose: - Io mi credo che a ciascuno di
noi che qui siamo, sarebbe vie piú agevole in favore di questo lodare e usare la volgar
lingua che noi sovente facciamo, la quale voi parimente e schifate e vituperate sempre,
recarvi tante ragioni che voi in tutto mutaste sentenza, che a voi possibile in alcuna parte
della nostra openione levar noi. Nondimeno, messer Ercole, io non mi maraviglio molto, non
avendo voi ancora dolcezza veruna gustata dello scrivere e comporre volgarmente, sí come
colui che, di tutte quelle della latina lingua ripieno, a queste prendere non vi sete volto
giamai, se v’incresce che messer Pietro mio fratello tempo alcuno e opera vi spenda e
consumi, del latinamente scrivere tralasciandosi come dite. Anzi ho io degli altri ancora,
dotti e scienziati solamente nelle latine lettere, già uditi allui medesimo dannare questo
stesso e rimproverargliele, a’ quali egli brievemente suole rispondere e dir loro, che a sé
altrettanto incresce di loro allo ’ncontro, i quali molta cura e molto studio nelle altrui favelle
ponendo e in quelle maestrevolmente essercitandosi, non curano se essi ragionar non
sanno nella loro, a quegli uomini rassomigliandogli, che in alcuna lontana e solinga
contrada palagi grandissimi di molta spesa, a marmi e ad oro lavorati e risplendenti,
procacciano di fabricarsi, e nella loro città abitano in vilissime case.

DOPO BEMBO
Le prime reazioni dopo le proposte di Bembo

Gian Giorgio Trissino, Il Castellano (1529) e Baldassar Castiglione, Il Cortegiano (1528)

Ripresa parziale della proposta dantesca.

Ricerca di una lingua per l'uomo di corte del tempo, lontana dal orentinismo letterario del
Bembo.

Proposta di una lingua mista, mélange delle lingue parlate nelle corti italiane del tempo.

Trissino (Vicenza, 8 luglio 1478 – Roma, 8 dicembre 1550)

I testi linguistici: Epistola, Castellano, Dubbi, Grammatichetta,

Poetica.

Accese discussioni suscitò il suo esordio letterario, cioè la proposta di riformare l'alfabeto
italiano contenute nell'Ɛpistola del Trissinω de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua
Italiana (1524; nel 1529 esce la seconda versione, corretta e rivista) dove Trissino
suggerisce l'adozione di alcune vocali e consonanti dell'alfabeto

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greco al ne di disambiguare suoni diversi resi allora (e ancor oggi) con la medesima gra a:
e e o aperte (ε e ω) e chiuse, z sorda e sonora (ζ), nonché la distinzione

delle i e u con valore di vocale o di consonante (j, v).

Accolta fu nei secoli a venire, invece, la proposta del Trissino di utilizzare la z al posto

della t nelle parole latine che niscono in - tione (oratione > orazione) e di distinguere
sistematicamente nella scrittura la u da v (uita > vita).

I punti principali dell'alfabeto riformato sono i seguenti (alcuni accettati, altri no: oratione >
orazione; uita > vita):

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Trascrizione diplomatica

Se le lettere de l’alphabeto latino sono bastanti ad exprimere tutte le voci de la lingua


Italiana, o nò.

Dico adunque, che manifesta cosa è, che sì come le parole sono dimostratrici, e
rappresentatrici de i concetti de l’homo; così le lettere sono dimostratrici, e rappresentatrici
di esse parole, e si come quella lingua è stimata miljore, che ha le parole più proprie, e più
atte ad exprimere e dichiarire i concetti humani, così di quella scrittura si fa più stima, che
ha le lettere più distinte, e più habili a dinotare, e rappresentare esse parole, e tanto hanno
quelle lettere più di perfezione, quanto, che più distintamente, e meljo la pronunzia de le
parole referiscono, si come quella pintura è più perfetta, che più naturalmente rappresenta
la cosa dipinta.

Tali idee vengono confermate nei testi del 1529: nel Castellano, il Trissino propone il
modello di una lingua "cortigiana-italiana" formata dagli elementi comuni a tutte le parlate
dei letterati

della Penisola, questo sotto l'aspetto anche lessicale e fonetico (visibile ormai grazie
all'alfabeto riformato).

Niccolò Machiavelli, Discorso della nostra

lingua (1524?); Pier Francesco Giambullari, De la lingua che si parla et scrive a Firenze
(circa 1552)

Posizione " orentinista": si a erma la supremazia della lingua orentina dell'uso vivo delle
persone colte del tempo contro la proposta arcaizzante del Bembo.

Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527).

L’opera Il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua è stata composta, secondo gli
studiosi, nel 1524 o 1525. Di non sicura attribuzione.

Secondo Machiavelli la lingua da preferirsi è il orentino contemporaneo, come idioma per


natura superiore a tutti gli altri, rivendicando le origini orentine del volgare italiano.

Del resto - egli argomenta - Dante nel suo poema non usò una lingua "illustre" con caratteri
sovraregionali (come Dante stesso aveva teorizzato nel De vulgari eloquentia), bensì il
orentino parlato del suo tempo.

Machiavelli dà un giudizio severo su Dante, col quale inscena un dialogo nell'opera. Il passo
assume i caratteri dell'invettiva contro il poeta concittadino, accusato di aver infangato la
reputazione di Firenze:

«[...] Dante il quale in ogni parte mostrò d'esser


per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo
eccellente, eccetto che dove egli hebbe a
ragionare della patria sua, la quale, fuori d'ogni
humanità et loso co instituto, perseguitò con
ogni spetie d'ingiuria. E non potendo altro fare
che infamarla, accusò quella d'ogni vitio, dannò
gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi
et delle legge di lei; et questo fece non solo in
una parte de la sua cantica, ma in tutta, et
diversamente et in diversi modi: tanto l'o ese
l'ingiuria dell'exilio, tanta vendetta ne desiderava!
[...] Ma la Fortuna, per farlo mendace et per
ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di
quello, l'ha continuamente prosperata et fatta
celebre per tutte le province cristiane, et condotta
al presente in tanta felicità et sì tranquillo stato,
che se Dante la vedessi, o egli accuserebbe sé
stesso, o ripercosso dai colpi di quella sua innata
invidia, vorrebbe essendo risuscitato di nuovo morire»

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Non fu pubblicato, ma circolò in forma manoscritta negli ambienti letterari impegnati nella
discussione sulla lingua. L'opera fu pubblicata solo nel 1730, come appendice all'Ercolano
di Benedetto Varchi (di cui diremo subito).

Benedetto Varchi, curatore dell'edizione orentina delle Prose della volgar lingua del
Bembo (1549) e autore del dialogo L'Hercolano (elaborato tra 1560 e 1565 e pubblicato
postumo nel 1570).

Fa da mediatore tra le posizioni " orentiniste" dei precedenti e quelle bembiane. Favorisce
la ricezione della proposta bembiana a Firenze, dove nel 1582 viene fondata l'Accademia
della Crusca.

Varchi (Montevarchi, 19 marzo 1503 – Firenze, 18 dicembre 1565)

L'Ercolano è un dialogo tra Varchi e il conte Ercolano sulla natura del volgare toscano
(anche se il primo dimostra che andrebbe piuttosto chiamato orentino).

Le tesi di Varchi prendono le mosse da quelle di Pietro Bembo, con cui era entrato in
contatto negli anni trascorsi a Padova. Al suo ideale di lingua cristallizzato sull'esempio dei
classici del Trecento (Petrarca, Boccaccio e, in misura

minore, Dante), tuttavia, Varchi oppone una sua propria teoria in cui, accanto ai classici,
potevano trovare asilo nella lingua letteraria anche forme più popolari in uso tra i orentini.

Dall’Ercolano

C. Ditemi dunque, per lo primo quesito, che cosa Lingua sia. Che cosa sia lingua

Quesito primo

V. Lingua, ovvero Linguaggio, non è altro che un favellare d'uno, o più popoli, il quale, o i
quali usano, nello sprìmere i loro concetti, i medesimi vocaboli nelle medesime
signi cazioni, e co' medesimi accidenti.

C. Perché dite voi d'un popolo?

V. Perché, se parecchi amici, o una compagnia, quantunche grande, ordinassero un modo


di favellare tra loro, il quale non fosse inteso, né usato, se non da sé medesimi, questo non
si chiamerebbe lingua, ma gergo, o in alcuno altro modo, come le cifere non sono
propriamente scritture, ma scritture in cifera.

C. Perché dite di più popoli?

V. Perché egli è possibile, che più popoli usino una medesima lingua, se non naturalmente,
almeno per accidente, come avvenne già della Latina, e oggi avviene della Schiavona, e di
molte altre.

C. Oh state cheto, anzi m'hanno raddoppiato la voglia di sapere così feconda lingua, però
dichiaratemi.

Da chi si debbano imparare a favellare le lingue, o dal volgo, a da' maestri, o dagli scrittori

Quesito ottavo

V. Le parole di questa dimanda dimostrano apertamente che voi intendete delle lingue,
parte vive, cioè che si favellino naturalmente, e parte nobili, cioè che abbiano scrittori
famosi. Per dichiarazione della quale vi dirò pri mieramente, come tutte le lingue vive, e
nobili consistono (come ne mostra Quintiliano) in quattro cose; nella ragione, nella vetustà,
ovvero antichità, nell'autorità, e nella consuetudine, ovvero nell'uso. L'uso, per farci dalla
principale, e più importante, ultimo in numero, ma primo in valore, è di due maniere; o del
parlare, o dello scrivere. [...]

L’Accademia della Crusca e il primo Vocabolario

L'Accademia della Crusca (spesso anche solo la Crusca) è un'istituzione italiana che
raccoglie studiosi ed esperti

di linguistica e lologia della lingua italiana. Rappresenta una delle più prestigiose istituzioni
linguistiche d'Italia e del mondo.

La Crusca è la più antica accademia linguistica del mondo (1583).

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Fa oggi parte della Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali, il cui
compito è quello di elaborare una linea comune di protezione di tutte le lingue

nazionali europee. Per l'Italia partecipano alla Federazione l'Accademia della Crusca e
l'Opera del Vocabolario Italiano del CNR (iniziativa avviata dal Consiglio Nazionale delle
Ricerche, peraltro proprio in collaborazione con l'Accademia della Crusca).

Nata a Firenze come informale gruppo di amici (la "brigata dei crusconi") dediti, in
contrapposizione alla pedanteria dell'Accademia orentina, a discorsi giocosi (le
"cruscate"), l'Accademia si costituì u cialmente il 25 marzo 1585, con una cerimonia
inaugurale che seguiva di due anni il periodo in cui i suoi membri iniziarono a pensare alla
possibilità di organizzarsi intorno a uno statuto (adunanza del 25 gennaio 1583).

Gli Accademici della Crusca lavorarono per distinguere la parte buona e pura della lingua
(la farina) dalla parte cattiva ed impura (appunto, la crusca). Da qui la simbologia e
l'apparato: lo stemma è un frullone o buratto con il motto petrarchesco Il più bel or ne

coglie come insegna.

La prima edizione del Vocabolario della Crusca (1613) servì da

esempio lessicogra co anche per le lingue francese, tedesca e inglese (ma non per la
lingua spagnola, che aveva pubblicato il Tesoro de la lengua castellana o española nel
1611, scritto da Sebastián de Covarrubias, il primo lessicogra co di una lingua moderna in
Europa).

La concezione linguistica va oltre le


posizioni di Pietro Bembo: risale a
un ideale di lingua orentina pura,
naturale, popolare, legittimata
dall'uso degli scrittori sommi come
di quelli minimi.

Il vocabolario registrava anche le


parole del orentino vivo purché
testimoniate e quindi legittimate in
autori antichi o testi minori, anche se
sconosciuti.

Scompare la distinzione tra uso


della poesia e della prosa, il
riferimento agli usi regionali o
dialettali, l'abitudine ad inserire
osservazioni grammaticali all'interno
delle voci. Furono abbandonati gli
usi ancora legati al latino. > critiche,
4 edizioni successive

Sede di oggi

Villa medicea di Castello (dal 1974)

L'Accademia attualmente persegue le seguenti nalità statutarie, dedicando speciali cure:

• al mantenimento e al rinnovamento delle sue antiche tradizioni nella lessicogra a,


collaborando particolarmente con l’Opera del Vocabolario Italiano, istituto del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, e con altre grandi imprese lessicogra che italiane ed estere;

• alla preparazione di edizioni critiche di testi signi cativi, e alla promozione e pubblicazione
di ricerche originali in ambito storico-linguistico, dialettologico, lologico, grammaticale,
lessicogra co;

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• allo studio delle strutture grammaticali dell’italiano considerate dal punto di vista
sincronico e diacronico, storico e comparato;

• allo sviluppo e all’applicazione delle nuove tecnologie informatiche necessarie per le


ricerche nei settori sopra precisati e per la più ampia fruibilità del proprio patrimonio
archivistico e bibliogra co.

In collaborazione anche con altre istituzioni pubbliche e private, italiane ed estere,


l’Accademia può:

• promuovere, elaborare e realizzare progetti di ricerca e di studio nei settori in precedenza


indicati, coinvolgendo giovani studiosi per mezzo di borse di studio, assegni di ricerca,
contratti o altre forme di collaborazione;

• promuovere e organizzare corsi di formazione, specializzazione, perfezionamento e


aggiornamento rivolti in specie al mondo della scuola e dell’università;

• istituire e assegnare borse di studio, premi e altri incentivi destinati in particolare agli
studenti delle scuole medie superiori e delle università;

• fornire consulenze, pareri e altri servizi in campo linguistico a favore di enti pubblici e
privati, società e privati cittadini, dedicando particolare attenzione alla scuola;

• organizzare convegni di studio, seminari, mostre e altre manifestazioni culturali, anche di


carattere divulgativo;

• stipulare accordi di collaborazione e convenzioni con università e altre istituzioni culturali e


accademie italiane ed estere;

• collaborare con lo Stato, l’Unione Europea, le Regioni e gli Enti locali in ordine a progetti e
manifestazioni sul tema delle lingue e dei linguaggi;

• favorire l’attività di quegli enti che dall’esterno sostengono i suoi stessi ideali e programmi.

La sociolinguistica e i dialetti: la varietà diatopica

La sociolinguistica è il settore delle scienze del linguaggio che si occupa dei rapporti fra
lingua e società.

L’assunto fondamentale che ha portato allo


sviluppo della prospettiva sociolinguistica sui
fatti di lingua sta nella constatazione che il
linguaggio verbale, oltre a essere una delle
capacità innate degli esseri umani, dotato su
queste basi di una propria strutturazione
autonoma, allo stesso tempo si realizza nella vita
sociale e nei comportamenti interazionali degli
individui.

Si rende quindi necessario, per una comprensione globale dei fenomeni linguistici, tenere
conto delle interrelazioni fra la lingua e l’ambiente sociale in cui questa viene impiegata.

La lingua è per più aspetti un fenomeno sociale; e tale sua natura si manifesta sia
nell’azione che fattori sociali, anche in senso lato, esercitano sulla lingua condizionando vari
fenomeni linguistici, sia nella partecipazione della lingua a costruire essa stessa realtà
sociali.

Realtà empirica concreta

Dal punto di vista metodologico la sociolinguistica è fortemente orientata verso la realtà


empirica concreta. I dati empirici sono costituiti da fatti linguistici, le produzioni e ettive dei
parlanti nei loro comportamenti linguistici con i caratteri speci ci con cui queste si
presentano nelle diverse situazioni.

La sociolinguistica quindi si procura dati essenzialmente con indagini sul campo:


registrazioni di produzioni verbali autentiche e conversazioni spontanee ed elicitazioni, con
diverse tecniche, di materiali linguistici, nonché raccolta di testi scritti, osservazioni

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partecipanti, interviste, raccolta di documentazioni, rilevamenti con questionari su
comportamenti, atteggiamenti e rappresentazioni dei parlanti.

Le indagini con questionari, e in particolare quelle, consuetudinarie nella ricerca


sociolinguistica, che chiedono ai soggetti interpellati autodichiarazioni del comportamento,
presentano alcuni problemi in relazione all’a dabilità delle risposte e alla loro
interpretazione, ma sono insostituibili se si vogliono avere dati quantitativamente
apprezzabili e signi cativi anche dal punto di vista statistico, che permettano conclusioni
generalizzabili.

Temi della sociolinguistica

Temi rilevanti nella sociolinguistica italiana sono stati (e sono):

il rapporto fra la lingua nazionale e i dialetti; le dinamiche linguistiche connesse ai


mutamenti sociali; l’articolazione dell’italiano in varietà secondo diversi fattori di variazione; i
cambiamenti nella lingua italiana dovuti alla rapida di usione dei nuovi mezzi di
comunicazione (prima la televisione e poi, alle soglie del nuovo secolo, Internet e la
comunicazione mediata dal computer; lingua e media); il rimescolamento delle classi sociali
e il condizionamento della collocazione sociale (per gruppo di appartenenza, età, sesso,
ecc.) dei parlanti sui loro usi e comportamenti linguistici; il ruolo della lingua nell’educazione
scolastica e la discriminazione attraverso la lingua; la funzione del linguaggio nel regolare
l’interazione e nel costruire rapporti sociali; le sorti delle lingue tagliate (come venivano
designate negli anni Settanta le lingue delle minoranze linguistiche); i problemi linguistici e
sociali della recente immigrazione.

La quantità di conoscenze si è moltiplicata e la consapevolezza delle interrelazioni fra


lingua e società si è precisata, dando corpo a una dettagliata immagine dell’Italia come un
territorio sociolinguisticamente molto di erenziato e con persistenti diseguaglianze anche
linguistiche fra i cittadini.

La situazione sociolinguistica italiana

Di usione di italiano e dialetto

Il carattere essenziale del panorama sociolinguistico italiano è costituito dalla compresenza


della lingua standard nazionale con numerose varietà dialettali dotate di una loro tradizione
autonoma.

La lingua è generalmente collegata al concetto di ‘stato’ e di ‘nazione’, al contrario del


dialetto.

Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia, s.v. ‘Nazione’: «Gruppo umano di
presunta origine comune ed e ettivamente caratterizzato da comunanza di lingua, di
costumi e di istituzioni sociali ed eventualmente (ma non necessariamente) uni cato o
consociato (più o meno stabilmente e strettamente) in forma politica o prepolitica; comunità
umana etnicolinguistica».

Una lingua generalmente è la varietà u ciale o una delle varietà u ciali di una data
nazione, al contrario del dialetto; nei paesi moderni esiste comunque una scala con vari
gradi di ‘u cialità’ linguistica:

• lingua u ciale (tedesco in Germania, francese in Francia);

• lingua u ciale paritaria aggiunta (tedesco e ammingo in Belgio, italiano, tedesco e


francese in Svizzera);

• lingua u ciale regionale (catalano in Spagna);

• lingua promossa non si riconosce lo stato di lingua u ciale, ma le istituzioni si impegnano


a promuoverla (come lo spagnolo negli Stati Uniti);

• lingua tollerata cioè né promossa né u ciale, ma che può essere liberamente impiegata
(basco in Francia);

• lingua proscritta, verso la quale esistono sanzioni o delle restrizioni (basco e catalano in
Spagna durante il franchismo, dhimotikì in Grecia durante la dittatura dei colonnelli).

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Nelle varie regioni italiane coesistono con l’italiano nell’uso dei parlanti da un lato varietà
strettamente imparentate con la lingua standard a base orentina emendata: vale a dire gli
attuali dialetti italiani derivanti dai volgari medievali; e dall’altro varietà non imparentate con
l’italiano e portatrici di eredità culturali diverse: le lingue e parlate alloglotte minoritarie.

Per molti secoli l’italiano è rimasto una


lingua di élite posseduta da una netta
minoranza della popolazione: le stime
su quanti fossero gli italofoni al
momento dell’unità d’Italia variano dal
2,5% al massimo di un 10% circa.

Sino a ne Ottocento/inizio Novecento


l’italiano era dunque una lingua alta,
poco usata, e da pochi, nella
conversazione ordinaria, e si trovava in
regime di diglossia con il dialetto.

Quest’ultimo era infatti la lingua


dell’uso parlato quotidiano, mentre
l’italiano, per la parte della popolazione
che lo possedeva, era riservato agli usi
scritti e formali.

Con il progressivo di ondersi


dell’istruzione scolastica, con eventi
quali l’introduzione del servizio militare
obbligatorio e le due guerre mondiali,
con trasformazioni (con funzione
uni cante e antidialettale dal punto di
vista linguistico) quali il passaggio da
società agricola a società industriale e
postindustriale e l’avvento delle
moderne comunicazioni di massa
avutesi durante l’ultimo secolo,
l’italiano si è via via esteso a fasce
della popolazione che di fatto non lo
conoscevano o non lo praticavano se non in situazioni particolari, e a domini di impiego in
precedenza tipico territorio del dialetto.

Negli ultimi cinquant’anni la situazione di diglossia protrattasi per secoli si è quindi mutata
in una situazione che tecnicamente si direbbe di dilalìa: l’italiano è oggi impiegato da una
fascia consistente della popolazione anche nella conversazione quotidiana, accanto al
dialetto. Anzi, si nota un uso molto più marcato dell’italiano contro il dialetto.

N.B. dilalia, s.f., forma di bilinguismo a ne alla diglossia, ma con una di erenziazione meno
netta degli ambiti d'uso

diglossia, s.f., forma di bilinguismo consistente nell'uso alternato di due lingue, di diverso
prestigio socioculturale, a seconda dei contesti e delle situazioni

L’uso maggiore o minore di italiano e dialetto è poi in correlazione con i principali fattori
sociali. Le classi d’età giovani sono assai più propense all’italiano che gli anziani.

Evidenti sono anche le di erenze in base alla condizione professionale e al grado


d’istruzione.

Il luogo elettivo di impiego del dialetto sono la famiglia (in particolare i membri delle vecchie
generazioni) e la cerchia di amicizie.

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Multilinguismo

Nel patrimonio linguistico storico del nostro paese si trovano anche, accanto al bilinguismo
italiano/dialetto di parte della popolazione, situazioni di multilinguismo.

È il caso di molte delle comunità alloglotte, e in modo particolare delle isole linguistiche, in
cui viene spesso usato, oltre all’italiano e alla lingua o varietà minoritaria tradizionale del
luogo, anche il dialetto italoromanzo dell’area circostante.

Costituzione, Art. 6: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”

Le minoranze linguistiche storiche in Italia e la costituzione Legge n. 482 del 15.12.99


“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”: promuove la
“valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge” (Art. 1, punto 2) e
cioè: “delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, e croate e di
quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.”
(Art. 2)

Un esempio: a Timau (Tischlbong/Tamau), una località dell’Alta Carnia, frazione con circa
700 abitanti del comune di Paluzza (provincia di Udine), alla parlata tradizionale tedesca, il
timavese (gruppo dialettale carinziano), si sono sovrapposti l’italiano e il friulano.

Albanese: Calabria (CZ, CS, KR), Campania (AV), Molise (CB), Basilicata (PZ), Puglia (FG,
TA), Sicilia (PA), Abruzzo (PE). Circa 80.000 parlanti

Catalano: Alghero (SS, Sardegna). Circa 20.000 parlanti

Tedesco: no comunità compatta. Alto Adige (280.000 parlanti ); AO, VC, NO (walser); TN
(mòcheno); pusterocarinziano (BL); cimbrico (VR, VI); carinziano (UD) [tot. Circa 10.000
parlanti]

Greco: Salento (LE) nella varietà detta grico; Aspromonte (RC, Calabria), nella varietà detta
romaico. Circa 35.000 parlanti

Sloveno: Friuli Venezia Giulia (GO, TS, UD). I parlanti sarebbero compresi tra 80.000 e
120.000

Croato: Molise (CB). Circa 2.500 parlanti

Francese: Valle D’Aosta, Piemonte (TO, CN, come linguatetto per i parlanti dialetti franco-
provenzali e occitani: per questo motivo non vi sono dati sul numero dei parlanti come L1)

Franco-provenzale: Valle D’Aosta (circa 70.000 parlanti); Piemonte (TO, circa 20.000
parlanti); Puglia (comuni di Faeto e Celle S. Vito (FG), poche centinaia di parlanti)

Friulano: Friuli Venezia Giulia (UD, GO, PN). Circa 700.000 parlanti

Ladino: Trentino Alto Adige, Veneto (valli montane di BL, TV, PN). Circa 35.000 parlanti

Occitano: Piemonte (valli montane TO, CN); Calabria (Guardia Piemontese (CS)). Circa
40.000 parlanti

Sardo: Sardegna. Circa 1.000.000 di parlanti

I prestiti

Il lessico italiano è storicamente molto stabile, principalmente perché l’uso parlato era
davvero scarsamente di uso no al XX secolo. Delle parole presenti in uno dei dizionari
migliori e più di usi, il Sabatini- Coletti, 5338 sono attestate già nel Duecento e 13961 nel
Trecento; queste parole, seppure insieme costituiscono circa un decimo delle presenze in
un dizionario medio, tuttavia salgono al 52% se si considera il lessico di base, cioè le parole
più usate dai parlanti. In sostanza, a erma Tullio De Mauro, allorché Dante inizia a scrivere
la Commedia il vocabolario fondamentale dell’italiano è già formato per il 60%; a ne ’300
arriva al 90%.

Eppure, le funzioni sempre più allargate della lingua, l’importanza crescente delle lingue
speciali, il contatto sempre più frequente con altre lingue europee e mondiali spinge a
indagare sui lessemi esogeni, provenienti in italiano da altri codici e diversamente
ambientati nella nostra lingua.

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Nel Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT) di De Mauro sono registrate 8354 parole di
origine greca; 6292 di origine inglese; 4944 francesi; 1055 spagnole; 648 tedesche; 633
arabe; 240 provenzali; 234 russe; 212 giapponesi; 208 portoghesi; 172 turche; 114
longobarde; 113 ebraiche; 92 sanscrite; 79 hindi; 62 cinesi; 48 persiane ecc.

Lo spagnolo è stato molto in uente nel Cinque-Seicento; il francese nel Sette-Ottocento;


l’inglese nel Novecento e nel nostro secolo.

Il prestito linguistico è strettamente connesso a fattori extralinguistici, come i rapporti


culturali fra i paesi, gli scambi economici, i viaggi, le scoperte, le invenzioni. Paesi con nanti
sono sempre spinti al confronto linguistico e quindi anche allo scambio lessicale: nel caso
dell’italiano, la vicinanza con la Francia, e la comune origine dal latino, ha stimolato un
costante a usso di gallicismi: l’in usso delle lingue africane od oceaniche, invece, è nei
fatti quasi nullo per la lontananza geogra ca ed economica da quelle realtà. Ma è
importante anche il prestigio linguistico: giapponese e cinese sono state più in uenti
sull’italiano di altre lingue di paesi vicini, per esempio quelli di lingua slava (se si eccettua il
russo).

Il grande sviluppo dei tra ci commerciali tra Settecento e Ottocento, da cui conseguono
scambi linguistici e a usso in Italia di nuovi prodotti e di nuove invenzioni, porta con sé
molto materiale lessicale allogeno (cioè, ‘creato in altre lingue’). In italiano l’in usso è
principalmente francese (di qui il grande numero di gallicismi entrati nella nostra lingua) no
a metà del Novecento, quando il ruolo-guida degli Stati Uniti d’America nell’economia
mondiale (e nella ricerca tecnologica e scienti ca) favorisce l’inglese nell’ascesa al primo
posto delle lingue in uenti.

È poi tipica, nell’ambito delle critiche di costume, la lamentela circa l’elevato numero di
parole straniere presenti e usate nella lingua italiana al posto delle parole “nostrane”;
parallelamente, si invoca un intervento di controllo (delegato, generalmente, all’Accademia
della Crusca) che arresti questo a usso e promuova la lingua nazionale, magari forte di un
appoggio di un provvedimento governativo, come avvenuto in Francia (o anche in Italia, da
parte del governo Mussolini durante il regime fascista).

Da una parte questi provvedimenti sono del tutto velleitari: è ormai riconosciuto che è l’uso
dei parlanti a determinare la sionomia di una lingua, e sarà ben di cile che un termine
tecnico di uso collettivo (di solito in inglese) venga tradotto perché sia imposto all’uso
mondiale. Dall’altro, l’incidenza e ettiva degli anglismi nell’uso è assai minore di quanto si
potrebbe pensare: il più usato è ok (okay), assai attardato nelle liste di frequenza delle
parole nella lingua parlata.

È interessante notare che generalmente i prestiti entrano in italiano al singolare, e


generalmente rimangono invariati al plurale, indipendentemente dalla morfologia della
lingua “prestante”: gol, computer, cognac non prendono la -s indicatrice del numero; al
contrario, alcuni prestiti sono stati assunti al plurale, come cherubino e sera no
(dall’ebraico kerubim e sera m, appunto plurali) e silos, dallo spagnolo.

L’acquisizione di prestiti avviene essenzialmente attraverso il parlato, benché non


manchino esempi di parole giunte certamente attraverso lo scritto: l’esempio più ovvio è
tunnel, pronunciato secondo la scrittura e non secondo la corretta versione inglese; oppure
bungalow.

Ma un altro esempio è il dialettale veneziano schei, che indica le monete: si tratta di


un’abbreviazione delle ottocentesche Scheidemünze austriache, che i veneziani dominati
chiamavano con il nome scritto sul denaro e non secondo la pronuncia.

I prestiti possono essere distinti per motivazione e per forma. Per motivazione si
distinguono prestiti di necessità e prestiti di lusso. Per forma si hanno prestiti adattati e
prestiti non adattati (al sistema fonomorfologico della lingua italiana).

I prestiti di necessità riguardano lessemi stranieri che designano concetti e oggetti non
presenti nella lingua che li accoglie: la parola entra quindi nell’uso assieme all’oggetto,

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concetto, ecc. (al referente). Si tratta per lo più di designazioni di scoperte oppure
invenzioni: patata, ca è, zero, juke- box.

I prestiti di lusso riguardano invece lessemi stranieri dei quali esiste già nella lingua
ricevente un termine vicino per signi cato (semanticamente coesteso). Il ne di questi
prestiti è eminentemente espressivo e stilistico, o evoca uno stato sociale superiore, legato
a una civiltà o cultura di prestigio. Sono esempi di prestito di lusso baby-sitter, leader,
weekend.

Questa distinzione tradizionale è anche piuttosto semplicistica: in realtà ogni lingua


possiede uno o più sistemi di formazione interna delle parole, e potrebbe sempre sopperire
alla “necessità” di un prestito con composti, polirematiche, derivati.

D’altro canto, molto spesso il “lusso” possiede marche semantiche (siano pure soltanto il
prestigio del termine) che l’equivalente italiano (bambinaia, capo, ne settimana) non
possiede. Il prestito di lusso assume carattere distintivo anche per chi lo usa, nel caso di
tecnicismi che tendono a impressionare il parlante o il lettore semicolto: scal drag, spoil
system, ministero del welfare.

Dal punto di vista formale i prestiti possono essere adattati oppure non adattati

- isecondimantengonoanchenell’usoitalianolagra ae,inmisuravariabile,lapronuncia
dell’originale: bar, computer, server; boutique, equipe, banlieue; lager, hinterland; sushi,
kimono, e così via. Queste parole sono immediatamente riconoscibili come straniere per il
parlante,

- mentrenonèaltrettantosempliceidenti careiprestitiadattati,proprioperchésono
perfettamente assimilati a vocaboli italiani. Dall’inglese beefsteak deriva bistecca, da train
viene treno; dal francese abbiamo ingaggiare < engager e mitraglia < mitraille, dal tedesco
ad esempio lanzichenecco < Landsknecht. Il nome italiano viene sempre dotato di una
desinenza con valore morfologico e di genere (qualità non rilevante nelle lingue germaniche)
e la fonetica è adattata alla pronuncia, con frequenti assimilazioni consonantiche e
sempli cazioni vocaliche (dittonghi, iati, vocali lunghe vengono ricondotte al vocalismo
dell’italiano).

Alcune parole, tuttavia, sono usate sia in forma adattata sia non adattata: gilè e gilet, blu e
bleu, roastbeef e rosbif(fe).

I nomi rappresentano il più frequente oggetto di prestito linguistico; verbi e aggettivi


passano di lingua in lingua in quantità rilevantemente inferiore, e solo tra lingue molto a ni
tra loro (o dove la situazione linguistica prevede un bilinguismo a ermato).

In verità, anche i morfemi possono essere “prestati”: il fenomeno si dice induzione di


morfemi. Sono per esempio di origine germanica -ingo (solingo, casalingo), -ardo (bugiardo,
codardo) e -aldo (spavaldo), in parte anche il su sso -esco (burlesco). Francese è -iere
(cavaliere), greci sono -essa (ostessa), e inoltre -ista, -ismo, -ico, -izzare. Per non parlare di
alcuni modi sintattici, che spesso sono modellati su strutture linguistiche alloglotte: vado a
presentare, vengo di dire, ecc. >> da che lingua??

GERMANISMI.

I contatti tra Impero Romano e popolazioni germaniche risalgono al I secolo a.C. L’in usso
sul latino ha riguardato soprattutto parole materiali, poiché culturalmente l’egemonia
romana prevalse. Alcuni germanismi sono di età antica e imperiale: sapone ‘tintura per
capelli’, guerra, brace, più tardi elmo, rocca, guardare, rubare, fresco, bianco. Altri sono di
epoca gotica, penetrati dopo la ne dell’Impero e no all’inizio della dominazione bizantina
del VI sec.: albergo, asco, guardia, tappo, melma, nastro, stecca.

Una terza sezione riguarda i germanismi di età longobarda (568-774): qualche esempio può
essere guancia, stinco, milza, schiena, anca, balcone, federa, panca, zolla, russare,
scherzare, spaccare, tregua, ecc. I Longobardi si fusero con i nativi della penisola e diedero
luogo a una sensibile divisione fra Italia longobarda e Italia bizantina, grecofona. I Franchi,
che succedettero ai Longobardi no all’887, portarono alcuni termini della classe dirigente:
bosco, dardo, guanto, galoppare, guadagnare. Nella toponomastica (cioè nei nomi di
luogo), uno dei settori più conservativi del lessico, l’apporto germanico è visibile nei nomi

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con Fara/Farra ‘corpo di spedizione’, Sala ‘residenza padronale’, Gualdo ‘insieme di fondi’,
Brera/Braida ‘pianura’. Più che prestiti, considerata la precocità di contatto con il latino
volgare, le parole germaniche sono una vera e propria componente di base. Nei secoli
seguenti, quando l’italiano aveva ormai assunto una propria sionomia, i contatti tra la
nostra lingua e il tedesco hanno permesso l’ingresso di guelfo, ghibellino, bunker, kitsch,
krapfen, strudel, vermut, würstel. Da altre lingue germaniche arrivano stocca sso
(nederlandese), ordo, sci (norvegese).

GRECISMI.

Antichissimo è anche l’apporto dei grecismi entrati in uso al tempo della dominazione
bizantina sulla penisola ( no al 751, ne dell’esarcato di Ravenna, e al 1071, conquista di
Bari): galea, gondola, molo, anguria, basilico, bambagia, paragone, duca, catasto.

ARABISMI.

Di poco successiva è la dominazione araba, che riguardò tutto il mondo mediterraneo: in


Sicilia durò dall’827 al 1070, con l’arrivo dei Normanni. Gli Arabi, però, non si fusero alle
popolazioni locali e portarono solo alcuni termini, soprattutto di piante e di elementi
culturali: arancia, limone, carciofo, melanzana, spinaci, za erano, zucchero, cotone,
dogana, magazzino, tara, zecca, arsenale, scirocco, libeccio, algebra, cifra, zero, zenit,
elisir, talco, al ere, azzurro, ragazzo. Più recenti sono invece tazza e moschea. Risalgono al
Cinquecento alcool, ca è, sorbetto, divano, chiosco; contemporanee sono ayatollah,
hezbollah, intifada, jihad, sharia, taliban (o talebano).

GALLICISMI.

Il termine gallicismi comprende sia i francesismi (provenienti dalla lingua d’oïl), sia i
provenzalismi (dalla lingua d’oc). Il primo in usso venne dai Franchi (774), che parlavano
una lingua germanica (il francone) e il francese; poi seguirono i Normanni, popolazione
germanica che parlava però il francese e occupò l’Italia meridionale in un’epoca in cui
orirono le letterature francese e provenzale. Alcuni esempi di prestito, fra i tantissimi:
cavaliere, dama, gioiello, cuscino, dozzina, passaggio, viaggio, pensiero, preghiera,
bisogno, giorno, mangiare, troppo. Sono francesi i su ssi - iere e -aggio, -ardo; sono
provenzali -anza/-enza: credenza, erranza. Nel Settecento il “secolo dei lumi” riporta il
francese alla ribalta internazionale: ragione, progresso, losofo, analisi, civilizzare,
democrazia, patriota, monopolio, esportare, importare, cotoletta, letto, belle arti, sangue
freddo, controllare, organizzare, liberale, radicale, comunismo, socialismo.

IBERISMI.

Anche per gli iberismi è necessario distinguere tra ispanismi, lusitanismi o portoghesismi e
anche catalanismi. Gli aragonesi dominarono Napoli e alcune sparse piazzaforti (si ricorderà
il caso di Alghero, dove ancora oggi si parla catalano) già nel Quattrocento; gli spagnoli
dominarono buona parte della penisola dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) alla pace dei
Pirenei (1659); il Regno delle Due Sicilie resistette no all’unità nazionale sotto il dominio dei
Borboni di Spagna. Alcuni esempi di iberismi sono: baciamano, complimento, etichetta,
baia, otta, guerriglia, parata, zaino, vigliacco, emma, signore. Attraverso lo spagnolo sono
giunte in italiano molte parole esotiche, come cacao, cioccolata, caimano, mais, patata,
uragano. Parole lusitane, numericamente meno incidenti, sono casta e marmellata.
Esotiche, ma di tramite portoghese, sono bambù, banana, cavia, mandarino, samba.

LATINISMI.

Se è vero che la maggioranza delle parole italiane è di tradizione continua dal latino volgare
all’italiano, è altrettanto vero che il latino costituisce ancora oggi un serbatoio
importantissimo di termini che possono essere rimessi in uso come parole dotte, o
latinismi. A volte alcune parole vengono rimesse in circolo pur essendo già rappresentate
dal loro continuatore: questi doppioni si dicono allotropi: vizio/vezzo, plebe/pieve, circolo/
cerchio, solido/soldo. In ogni coppia, il primo termine è dotto, il secondo popolare. Alcuni
esempi di latinismi sono: scienza, specie, repubblica, esercito, arbusto, insetto, pagina,
continente, antenna, cellula, condominio, società. Importantissimo è anche l’apporto del

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latino alle altre lingue e alle lingue speciali, perché il linguaggio tecnico- scienti co si
alimenta soprattutto dalle lingue di cultura del passato. È questo un elemento europeo
uni cante di tutte le lingue, anche di quelle non romanze.

ANGLISMI.

Durante XVIII e XIX secolo le parole inglesi giungono in Italia soprattutto attraverso il
francese: sono di origine latina ma di uso inglese costituzionale, legislatura, sessione. Tra
Otto e Novecento giungono acquario, idrante, selezione, in azione. Dal secondo
dopoguerra l’in usso complessivo è anglo-americano, e vista la vicinanza temporale del
prestito prevalgono le forme non adattate.

DIALETTISMI.

In ne, una parte consistente dei prestiti ha origine interna, a partire dagli idiomi locali: ne
sono un esempio vocaboli come abbaino, acciuga, lavagna, prua, scoglio (ligure); bocciare,
grissino, fonduta, passamontagna, ramazza (piemontese); barbone, corazza, bolletta,
fedina, fa, lavandino, risotto, panettone, scarto a, schiappa, tapparella (lombardo);
arsenale, ciao, contrabbando, gazzetta, ghetto, giocattolo, gondola, grazie, grezzo, laguna,
lido, pettegolezzo, scontrino, zattera (veneziano); naia (veneto di montagna); scalogna
(triestino); lavativo, mezzadro (emiliano); burino, pennichella, racchia, ragazzo ‘ danzato’,
tintarella (romanesco); iettatore, inciucio, mozzarella, pizza, s zio, sommozzatore
(napoletano); trullo (pugliese); cannolo, cassata, incazzarsi, intrallazzo, rimpatriata, solfatara
(siciliano), nuraghe (sardo).

Dialetti in “enciclopedia dell’italiano’ 2010, Francesco Avolio


1. Le principali classi cazioni

L’esigenza di ordinare in base a precisi parametri il panorama delle parlate dialettali d’Italia
è stata avvertita n dagli albori della dialettologia scienti ca, anche se i tentativi compiuti in
tal senso hanno risposto solo in parte a due cruciali di coltà: da un lato l’irriducibile
arbitrarietà nella scelta dei tratti caratterizzanti i vari gruppi, dall’altro il ricorso a criteri
diversi e spesso eterogenei.

1.1 La classi cazione di Graziadio Isaia Ascoli

Il primo ad avanzare (1882-1885) una circostanziata proposta di classi cazione fu ➔


Graziadio Isaia Ascoli, il quale nella rivista «Archivio glottologico italiano» da lui stesso
fondata elaborò una ripartizione in quattro gruppi, di natura tanto tipologica (sincronica)
quanto diacronica. Il criterio di base era infatti la maggiore o minore distanza linguistica
rispetto al toscano, considerato come il tipo dialettale meno distaccato dalla comune base
latina. Abbiamo così:

(a) dialetti appartenenti a sistemi neolatini «non peculiari» all’Italia, perché, in gran parte,
allora, fuori dai suoi con ni (dialetti provenzali e franco-provenzali, dialetti ladini centrali e
ladini orientali o friulani);

(b) dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma non entrano a far parte
di alcun «sistema neolatino estraneo all’Italia» (dialetti gallo-italici – distinti in ligure,
‘pedemontano’, cioè piemontese, lombardo ed emiliano – e dialetti sardi);

(c) dialetti che «si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur
possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini» (veneziano, corso,
dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana, dialetti di Sicilia e delle
«provincie napolitane»);

(d) il toscano e il «linguaggio letterario degli Italiani».

Lo schizzo ascoliano, per precisione e sintesi, conserva ancora oggi gran parte della sua
validità, anche se, inevitabilmente, mancano alcune questioni di dettaglio nonché i risultati
che, di lì a qualche decennio, sarebbero stati raggiunti con l’analisi delle carte degli atlanti
linguistici.

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1.2 La classi cazione di Clemente Merlo

Nel 1924, sul primo numero della sua nuova rivista «L’Italia dialettale», Clemente Merlo
propose uno schema classi catorio che, oltre a tener conto delle caratteristiche (soprattutto
fonetiche) delle parlate delle varie zone, chiamava in causa il concetto di ➔ sostrato.
Secondo Merlo, cioè, il principale fattore alla base dell’odierna ripartizione dialettale era
l’in usso esercitato sul latino dalle lingue dell’Italia antica. I gruppi principali de niti dal
Merlo sono quindi tre:

(a) dialetti settentrionali (di sostrato celtico), che includono i gallo-italici di Ascoli, più il
veneziano;

(b) dialetti toscani (di sostrato etrusco);

(c) dialetti centro-meridionali (di sostrato italico o umbro-sannita).

A parte stanno i dialetti sardi, a sostrato mediterraneo, e quelli della Corsica, che lo stesso
sostrato distanzia dai toscani; ai dialetti ladini (che includono i friulani), anch’essi gruppo a
sé, Merlo associa il dalmatico dell’isola adriatica di Veglia, che ai tempi di Ascoli non era
ancora stato descritto (e che è ormai estinto da oltre un secolo). E sono ancora i sostrati a
spiegare le di erenze fra il veneziano (a sostrato venetico) e il lombardo, fra il ligure (a
sostrato antico ligure) e il piemontese, e fra il siciliano, il calabrese e il pugliese (a sostrato
mediterraneo) e il resto del Mezzogiorno.

Questo schema aveva certamente un’impostazione a volte troppo rigida e meccanica e


so riva di alcune ingenuità, ma ha il merito di mettere a fuoco importanti elementi di
continuità che nella classi cazione ascoliana erano appena accennati. Da esso, inoltre, si
ricava che possono essere fondatamente ricollegati al sostrato non solo singoli tratti
fonetici, lessicali, ecc., ma anche fatti di altra natura, come i rapporti di tipo geolinguistico
(➔ geogra a linguistica) e, più precisamente, il fatto che, sotto forma di area dialettale,
sussista un antico ‘spazio storico’.

1.3 La classi cazione di Gerhard Rohlfs

E fu proprio la geolinguistica a o rire il criterio applicato da Gerhard Rohlfs, che, nel 1937,
sfruttava appieno la sua lunga esperienza di raccoglitore per l’AIS (➔ atlanti linguistici) e
l’analisi approfondita delle sue carte. Sulla base dei dati dell’AIS, Rohlfs individuava i due
principali ‘spartiacque’ linguistici della penisola: la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-
Ancona (➔ isoglossa; ➔ aree linguistiche; ➔ con ne linguistico). Il primo di questi con ni, la
linea La Spezia-Rimini (che ai margini si spinge anche più a Sud), riunisce i limiti meridionali
dei principali tratti linguistici dell’Italia del Nord (e del romanzo occidentale), separandola
dalla Toscana; mentre nel secondo, la linea Roma-Ancona, con uiscono i limiti settentrionali
dei tratti linguistici più tipici del Centro-Sud, che a sua volta viene così distinto dall’area
toscana o toscanizzata (cfr. § 2).

Entrambi i con ni non hanno solo valore linguistico, ma coincidono con fattori geogra ci e
storici. La linea La Spezia-Rimini corrisponde alla catena dell’Appennino tosco-emiliano,
che, essendo impervia nel suo tratto centrale, fu nella storia la frontiera settentrionale
dell’Etruria verso i territori di etnia celtica del Nord Italia e, nella tarda antichità, quella fra
l’Italia cosiddetta annonaria (con capitale Milano) e l’Italia suburbicaria (con capitale Roma).
La stessa linea, nel medioevo, separava i territori bizantini dell’arcidiocesi di Ravenna da
quelli dell’arcidiocesi di Roma. La linea Roma-Ancona, corrispondente per buona parte al
corso laziale e umbro del Tevere, fu invece, nell’antichità, la frontiera fra Etruschi (a ovest) e
Italici (a est) e, nel medioevo, fra il Patrimonium Petri e i territori longobardi.

1.4 La classi cazione di G.B. Pellegrini

L’adozione dell’italiano come riferimento, unico possibile criterio di distinzione fra il vasto
insieme de nito italo-romanzo e gli altri gruppi neolatini, è stato ripresa, nel 1975, da
Giovan Battista Pellegrini, come base per la sua proposta di classi cazione in cinque
sistemi (italiano settentrionale, friulano o ladino-friulano, toscano o centrale, centro-

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meridionale, sardo), sulla quale oggi converge, pur con qualche di erenza, la maggior parte
degli studiosi (per approfondimenti e dettagli si rinvia alle voci sulle singole aree
linguistiche).

Tutti i dialetti italo-romanzi sono de niti primari (➔ varietà), in quanto formatisi


contemporaneamente a quello che poi sarebbe diventato l’➔italiano standard.

2. Le caratteristiche principali

2.1 Sistema settentrionale

Comprende i dialetti parlati in tutto il Nord Italia (Piemonte centro-orientale, con i sette
capoluoghi, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, parte del Friuli e della Venezia Giulia,
Emilia-Romagna), nonché nelle zone contigue delle Marche ( n circa a Fano e a Senigallia)
e della Toscana (la Lunigiana, in provincia di Massa, parte della Garfagnana, in provincia di
Lucca, e l’alta valle del Senio, in provincia di Firenze, tutte a Nord della La Spezia-Rimini) e,
all’estero, in Francia (dialetti di tipo ligure di Mentone e del principato di Monaco), Svizzera
(nel canton Ticino e in alcune valli grigionesi, linguisticamente lombarde), Slovenia e Croazia
(fra le residue comunità italofone, di dialetto veneto-giuliano e istriano).

La più importante distinzione interna è quella fra dialetti del Nord-Ovest (➔ piemontesi,
dialetti), chiamati galloitalici n dall’Ottocento per via del sostrato celtico (cfr. § 2.2:
Piemonte, Liguria, Lombardia e Ticino, Trentino occidentale, Emilia-Romagna, parte
settentrionale delle Marche e della Toscana) e dialetti del Nord-Est (veneti e istriani o istrioti:
Veneto, Trentino orientale, Venezia Giulia, Istria; ➔ veneti, dialetti; ➔ friulani, dialetti). I
dialetti galloitalici delle Marche (Urbino, Pesaro, Fano) sono detti anche gallo-piceni (➔
umbro-marchigiani, dialetti).

I tratti più caratteristici di questo vasto insieme di parlate, che giungono verso Sud no alla
linea La Spezia-Carrara-Rimini-Fano (cfr. § 2.3), sono:

(a) il passaggio, fra vocali, di /-t-/ a /-d-/ (milanese [fraˈdɛl] «fratello», nel Veneto [maˈrido]
«marito»), di /-p-/ a /-v-/, attraverso una fase /-b-/ (in Liguria [kaˈvɛli] «capelli», in Emilia [nə
ˈvoda] «nipote») e di /-k-/ a /-g-/ (in Lombardia [urˈtiga] «ortica», nel Veneto [ˈ go] « co»). È la
nota sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, detta anche lenizione. Non di
rado /d/ e /g/ possono poi cadere ([maˈrio], [urˈtia], ecc.);

(b) la sempli cazione (o scempiamento) delle consonanti doppie o intense: in Piemonte


[ˈfjama] « amma», veronese [ˈspala] «spalla», ecc.;

(c) il cosiddetto «avanzamento» di /ʧ/ e /ʤ/, che diventano prima /ʦ/ e /ʣ/ e poi, spesso /s/
e /z/ (in Piemonte [ˈsiŋa] «cena», in Liguria [ˈzena] «Genova», nel Veneto [ˈsenere] «cenere»);

(d) il nesso -cl- diviene spesso /ʧ-/ e il corrispondente gl- passa a /ʤ-/ (palatalizzazione):
«chiave» è [ʧaf] in Lombardia, [ʧav] a Torino e in Emilia, [ˈʧave] nel Veneto; a Milano, Torino e
Genova [ˈʤaŋda] «ghianda», ecc.;

(e) l’uso di mi e ti come pronomi personali soggetto, a cui si aggiungono spesso dei
pronomi clitici, cioè privi di accento: milanese [mi ˈgwardi] «io guardo», [ti te ˈgwardet] «tu
guardi», [ly l ˈgwarda] «lui guarda», veneziano [mi gɔ ˈdito] «ho detto». La presenza di
complessi sistemi di clitici soggetti, obbligatori o facoltativi a seconda della persona
verbale, caratterizza gran parte dei dialetti settentrionali: torinese [a ˈvarda] «(lui) guarda»,
milanese [i ˈmaŋʤen] e veneziano [i ˈmaɲa] «(loro) mangiano».

Le di erenze maggiori fra i dialetti galloitalici e quelli veneti sono le seguenti:

(a) la gran parte dei primi ha vocali di tipo ‘misto’ (anteriori arrotondate), come /y/ (identica
alla u francese di lune «luna»: torinese [fys] «fuso», [myr] «muro») e /ø/ (come nel francese
peu «poco»: milanese [føk] «fuoco», [øʧ] «occhio»), ignote ai secondi (veneziano [ˈmuro],
[ˈfɔgo] «fuoco»);

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(b) nei primi, tranne che in Liguria, è frequente la caduta delle vocali latine non accentate,
nali e non, eccetto che per /-a/, con una vistosa riduzione del numero delle sillabe (in
Lombardia [kaˈval] «cavallo», in Piemonte [dne] «denaro», in Emilia [tlɛr] «telaio», in
Romagna [ˈdmeŋga] «domenica», ecc.): nei secondi, invece, esse resistono in varia misura:
in veneziano, ad es., si ha la caduta solo dopo /n/ e /r/ ([kan] «cane», [ndar] «andare»), ma
altrimenti [ˈgato] «gatto», [doˈmenega] «domenica»;

(c) elemento discriminante di un certo rilievo è rappresentato dalla palatalizzazione di /a/


tonica, evidente soprattutto in Piemonte (ad es., negli in niti della coniugazione e in alcuni
su ssi: [kanˈte] «cantare», [tle] «telaio») e in Emilia-Romagna (a Bologna si ha una netta /ɛ/,
come in [sɛl] «sale», [aˈmɛr] «amaro»), ma ignota nel Veneto;

(d) anche il trattamento del nesso latino -ct- individua ulteriori sottodistinzioni: nel Piemonte
centro-occidentale esso si sviluppa in /-jt/ ([fajt] «fatto» < factu(m), [lajt] «latte» < lacte(m)),
nelle zone più orientali e in Lombardia diventa /ʧ/ ([faʧ], [laʧ]), ma nel Veneto /-tː-/ derivante
dall’assimilazione regressiva di -ct- si sempli ca, come le altre consonanti doppie, dando /-
t-/ ([ˈfato] «fatto», [ˈlate] «latte»);

(e) i dialetti galloitalici (ma non il ligure) hanno la negazione postverbale: torinese [i ˈvardu
nɛŋ] «non guardo», lombardo [el ˈmaŋʤa ˈmia (ˈmiŋga)] «non mangia»), mentre in veneto la
particella negativa sta in posizione preverbale ([mi nɔ ˈmaɲo] «io non mangio».

2.2 Sistema centrale

Situato fra la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona, ne fanno parte i dialetti parlati
in quasi tutta la Toscana (tranne che nelle zone linguisticamente settentrionali indicate al §
2.1) e nelle aree con nanti delle regioni vicine: l’Umbria nord-occidentale (Perugia, Gubbio,
Orvieto), le Marche centrali (Fabriano, Ancona) e l’alto Lazio (Viterbo).

I dialetti della Toscana sono di solito distinti in quattro gruppi (➔ toscani, dialetti). La
vicinanza strutturale con la lingua italiana è molto forte; molti tratti tipici toscani, ignoti alle
altre aree, sono infatti passati all’italiano, e tra questi possiamo ricordare:

(a) il dittongamento di /ɛ/ accentata in /jɛ/ in sillaba libera (o dittongamento toscano):


[ˈpjɛde], [ˈvjɛni], ma [ˈsɛtːe]; quello parallelo di /ɔ/ in /wɔ/ è ormai scomparso dall’uso
regionale, pur restando ben vivo nella lingua comune (a Firenze, infatti, oggi si dice [ˈbɔno]
«buono»);

(b) l’➔anafonesi, originariamente orentina, cioè la chiusura di /e/ in /i/ se seguita da /ʎː/ e /
ɲː/ derivanti, rispettivamente, da -lj- e -nj- latini: [faˈmiʎːa] < famĭlia(m) (e non *[faˈmeʎːa]), [ma
ˈliɲːa] (e non *[maˈleɲːa], come in altre regioni), ma [ˈleɲːo] «legno» < lĭgnu(m); oppure la
chiusura di /e/ in /i/ e di /o/ in /u/, se seguite da nasale + /g/ o (più raramente) /k/ ([ˈliŋgwa]
contrapposto a [ˈleŋgwa], e simili, del resto d’Italia);

(c) il passaggio di -rj- a /j/ ([forˈnajo] < fornariu(m)), che oppone la Toscana al resto d’Italia;

(d) il ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkːasa] «a casa»), che la oppone, invece, ai dialetti
settentrionali;

(e) la tripartizione dei dimostrativi e di alcuni avverbi di luogo (questo, codesto e quello; qui,
costì e lì), che scon na in Umbria e nel Lazio, ma è ormai uscito dall’uso nell’italiano anche
scritto delle altre regioni.

Esistono, comunque, tratti solo toscani e non italiani, fra cui spiccano:

(f) la cosiddetta ➔ gorgia toscana, cioè la pronuncia spirante di /-k-/, /-t-/ e /-p-/ tra vocali
(a Firenze [la ˈχaza] «la casa», [anˈdaθo] «andato», [ilˈlu o] «il lupo»);

(g) la sostituzione della prima persona plurale del presente indicativo con il costrutto si +
terza persona sing. (noi si va a Roma «andiamo a Roma»);

(h) le interrogative introdotte da o (o cche aspettano ad avanzare?).

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Il romanesco moderno rappresenta l’originale esito di un processo di toscanizzazione
piuttosto intenso, subito a partire dal Cinquecento da una varietà, quella romana medievale,
che era molto vicina ai dialetti mediani (cfr. § 2.3), e che è comunque riuscita a trasmettere
alcune delle sue caratteristiche di base ignote al toscano, ad es.: la mancata chiusura di /e/
prima dell’accento ([de ˈroma] «di Roma»); lo sviluppo di -rj- a /-r-/ ([karʦoˈlaro] «calzolaio»);
le assimilazioni consonantiche progressive ([ˈmonːo] «mondo»; ➔ assimilazione; ➔ laziali,
dialetti); la distinzione fra [kanˈtamo] «cantiamo», [veˈdemo] «vediamo» e [senˈtimo]
«sentiamo».

Pellegrini (1977) non prende in considerazione la linea Roma-Ancona individuata dal Rohlfs
e inserisce le parlate del sistema centrale esterne alla Toscana, ma poste a nord della linea
stessa, fra i dialetti «mediani» (che così spazierebbero, nel loro complesso, dall’Umbria
settentrionale no al basso Lazio e all’Aquilano). A volte queste parlate vengono anche
de nite «dialetti mediani di transizione» (così in Sabatini 1997: 4), mentre Castellani li indica
come «area mediana non metafonetica». Data però la rilevanza della linea in questione e dei
fenomeni che la identi cano – i quali rendono oggettivamente di cile procedere a un
accorpamento fra varietà molto diverse fra loro – sembra più corretto, per evitare equivoci,
attribuire la de nizione di mediani esclusivamente ai dialetti che si trovano a sud di essa
(cfr. § 2.3).

2.3 Sistema centro-meridionale

Si estende dalla linea Roma-Ancona no alla Sicilia, e si può ripartire in tre aree: l’area
mediana, che include il Lazio a est e a sud del corso del Tevere (da Amatrice e Rieti no ad
Anagni, Priverno e Sonnino), l’Umbria sud-orientale (con Foligno, Spoleto, Terni, Norcia), le
Marche centro-meridionali (il Maceratese e le sezioni con nanti delle province di Ancona e
Ascoli Piceno) e la parte settentrionale dell’Abruzzo aquilano (dall’Aquila ed Avezzano verso
ovest e nord); l’area meridionale, detta anche altomeridionale o meridionale intermedia, che
include tre regioni per intero (Molise, Campania, Basilicata), altre cinque in grande o in
piccola parte: le Marche meridionali fra l’Aso e il Tronto (inclusa Ascoli Piceno), il Lazio
meridionale un tempo campano (con Fondi, Gaeta, Sora, Cassino), quasi tutto l’Abruzzo
(tranne le zone mediane dell’Aquilano), la Puglia centro-settentrionale, no alla linea
Taranto-Brindisi, la Calabria più settentrionale, no alla linea Diamante-Cassano; l’area
meridionale estrema, che comprende la Sicilia, gran parte della Calabria e il Salento (la
Puglia a sud della linea Taranto-Brindisi) (➔ meridionali, dialetti).

I fenomeni comuni a questi dialetti che si arrestano, verso nord, alla linea Roma-Ancona
sono:

(a) la metafonesi, cioè l’innalzamento delle vocali accentate /e/ e /o/, che diventano
rispettivamente /i/ e /u/ per in usso delle vocali nali -i e -u latine originarie (a Napoli [aˈʧitə]
«aceto», [ˈpilə] «pelo/-i», [ˈmunːə] «mondo», ecc.), e di /ɛ/ e /ɔ/, che invece, nelle stesse
condizioni, possono dittongarsi (dittongamento napoletano: [ˈpjetːə] «petto, -i», [ˈdjendə]
«denti», [ˈwosːə] «osso»; ➔ dittongo) oppure chiudersi in /e/ e /o/ (a L’Aquila [ˈpetːu], [ˈdendi],
[ˈosːu]);

(b) il ➔ betacismo, cioè il doppio esito di /v-/ e /b-/ , che è /v-/ in posizione iniziale e tra
vocali, /bː/ dopo consonante o in posizione di raddoppiamento sintattico: a Napoli [na ˈvɔtə]
«una volta», ma [tre ˈbːɔtə] «tre volte», [ˈvatːərə] «battere, picchiare», ma [ʒbaˈtːutə]
«sbattuto»;

(c) le assimilazioni consonantiche progressive dei nessi originari -nd-, -mb-, e spesso -ld-
(nel Molise [ˈtunːə] per «tondo», [ˈ amːə] per «gamba», [ˈkalːə] per «caldo»), che comunque
includono tutto il Lazio settentrionale;

(d) la cosiddetta lenizione postnasale, cioè il passaggio dei suoni /-k-/, /-t-/, /-p-/
rispettivamente a /-g-/, /-b-/, /-d-/ dopo /-n-/ (un po’ ovunque [ˈbːangə] «banco», [ˈmondə]
«monte», [ˈkambə] «campo», ecc.);

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(e) il possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela,
soprattutto nelle prime due persone (a Norcia, ad es., si ha [ˈ jːimu] «mio glio», [ˈfratetu]
«tuo fratello»), anch’esso noto nell’alto Lazio e nelle parlate salentine, e, un tempo, anche a
Roma e in Toscana;

(f) la conservazione, con ulteriori sviluppi, del ➔ neutro latino, mediante un particolare
articolo determinativo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e
che spesso erano neutri già in latino), e poi con aggettivi e verbi sostantivati: napoletano [o
ˈkːasə] «il formaggio» < caseum, [o ˈfːjerːə] «il ferro (metallo)» < ferrum (ma [o ˈfjerːə] «il ferro
da stiro», maschile e pluralizzabile, senza raddoppiamento), reatino [lo ˈranu] «il grano» <
granum, neutro, ma [lu ˈkane] «il cane», maschile, e poi [lo ˈbːelːu] «ciò che è bello», [lo kam
ˈpa] «il vivere», ecc.;

(g) l’uso di tenere per avere non ausiliare (in Sabina [ˈtɛngo tre ˈfːijːi] «ho tre gli»).

Le principali di erenze fra area mediana e meridionale sono:

(a) il trattamento delle vocali nali non accentate; nella gran parte delle parlate meridionali
queste passano alla cosiddetta e muta o indistinta /ə/ (napoletano [ˈadːʒə] «ho» < habeo,
[ˈnirə] «nero» < nĭgru(m), [ˈsɛtːə] «sette» < septe(m), [ˈunːəʧə] «undici» < undeci(m), [ˈfemːənə]
«femmina, donna» < femina(m)), sconosciuta a quelle mediane, che invece mantengono
vocali simili a quelle standard e, spesso, anche la distinzione latina fra -o e -u (ad es., a
Foligno [diˈʃɛnːo] «dicendo», ma [kaˈpilːu] «capello», a Rieti [ˈsatːʃo] «so», ma [ˈporku]
«maiale», ecc.);

(b) gli sviluppi dei nessi latini pl- e -, che in area mediana diventano /pj-/ e /fj-/ come in
italiano, ma che, in diversi dialetti meridionali, e anche meridionali estremi, si trasformano,
rispettivamente, in /kj-/ e /ʃ-/ (/ʧ-/): a Castel di Sangro (L’Aquila) [ˈkjanə] «piano», [ˈʃatə]
« ato», catanese [ˈkjɔvi] «piove», [n ˈʃuri] «un ore».

I dialetti meridionali estremi (➔ siciliani, calabresi e salentini, dialetti), invece, si


di erenziano, nel loro complesso, dal resto del sistema centro-meridionale per una serie di
caratteristiche fra cui:

(a) un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi /i/, /ɛ/, /a/, /ɔ/, /u/: [ˈ lu] « lo» < fīlu(m),
come [ˈnivi] «neve» < nĭve(m) e come [ˈstiɖːa] «stella» < stēlla(m), ma [ˈbːɛɖːa] «bella» <
bĕlla(m); [ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ˈkruʧi] «croce» < crŭce(m) e [ˈsuli] «sole» < sōle(m);
ma [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m);

(b) la presenza nella maggior parte dei dialetti di tre vocali nali (in Sicilia [ˈkɔri] «cuore»,
[ˈsatːʃu] «so», [ˈ mːina] «donna»);

(c) la pronuncia cacuminale (o retro essa, cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi)
di /-dː-/ derivante da -ll-, come in [ˈbːɛɖːu] «bello», [kaˈvaɖːu] «cavallo» (tale pronuncia,
secondo alcuni molto antica, è nota anche alle varietà sarde e a parte di quelle corse e
lunigianesi), e di nessi consonantici come /-tr-/ e /-str-/, che diventano, spesso, /-ʈɽ-/ e /-
sʈɽ-/ ([paʈɽi] «padre», quasi [ˈpaʧi]);

(d) l’assenza della lenizione postnasale ([ˈsantu], [aŋˈkɔra], e non [ˈsandə], [aŋˈgɔrə]);

(e) la mancanza degli in niti tronchi, assai di usi, invece, nell’alto Mezzogiorno e no alla
Toscana ([kanˈtari] e non [kanˈta], [ˈdːiʧiri] e non [ˈdiʧe] «dire»);

(f) l’uso del passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non
si osservi nell’alto Mezzogiorno.

2.4 Sistema sardo

La Sardegna viene suddivisa dagli specialisti in quattro aree linguistiche principali:


campidanese, logudorese, gallurese, sassarese (le ultime due sono ritenute di tipo non
sardo da molti studiosi; ➔ sardi, dialetti).

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Sull’intera isola è presente un sistema di vocali accentate di tipo conservativo, in cui non si
sono avute fusioni tra suoni vocalici originariamente diversi: [ˈ lu] « lo» < fīlu(m), come [ˈpilu]
«pelo» < pĭlu(m); [ˈtɛla] «tela» < tēla(m), come [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈmɔrta] «morta» <
mŏrtua(m) come [ˈsɔle] «sole» < sōle(m); [ˈgula] «gola» < gŭla(m) come [ˈluna] «luna» <
lūna(m).

Altri notevoli tratti arcaici – propri, però, soprattutto della Barbagia e del Logudoro – sono:

(a) la conservazione di /k/ e /g/ davanti a vocale anteriore: [ˈkentu] «cento», [ˈnuke] «noce»,
[ˈlɛgere] «leggere», a Nuoro [ˈpiske] «pesce», ecc.;

(b) lo sviluppo del nesso consonante + /l/ a consonante + /r/, tipico anche del campidanese
(ˈ[framːa] « amma»);

(c) la conservazione delle consonanti nali, con -s che resta, come in latino, marca del
neutro ([ˈtempus] «tempo») e dei plurali ([pɛjs] o [ˈpɛdes] «piedi», [ˈfeminas] «donne»; ma in
gallurese e sassarese [ˈpedi], [ˈfemini]).

Sviluppi particolari del sardo sono invece:

(d) il passaggio dei nessi qu- e gu- a /bː/ ([ˈabːa] «acqua», [ˈlimba] «lingua»), che avvicina la
Sardegna alla Romania;

(e) l’assimilazione del nesso latino -gn- in /-nː-/: [ˈlinːa] «legna» < ligna(m), [ˈmanːu] «grande»
< magnu(m);

(f) gli articoli determinativi derivanti non da illu(m) e illa(m), bensì da ipsu(m) e ipsa(m): a Bitti
(Nuoro), [su ˈmastru de ˈlinːa] «il falegname», [sa koberˈtura] «il tetto» (e, al plurale, [sos
ˈtempos] «i tempi»; a Cagliari [is ˈtempus] «i tempi»); ecc.

Tra le parole latine che si sono conservate solo in Sardegna si ricordano [ˈakina] «uva»,
[ˈdɔmu] «casa», [ˈɛbːa] «cavalla» < equa(m), [ˈinteri] «frattanto» < interim, [ˈmanːu] «grande»,
[kojuˈare] «sposarsi» < coniugare, [imˈbɛnːere] «trovare» < invenire. Concordanze con la
penisola iberica e anche con la Romania sono individuate da [ˈɛdu] «capretto» < haedus, [i
ˈskire] «sapere» < scire, [pregonˈtare] «domandare» < percontare.

2.5 Sistema ladino-friulano

Associato da alcuni studiosi – ma su ciò non c’è accordo – al romancio del cantone
svizzero dei Grigioni, sotto l’etichetta comune di retoromanzo, esso si distingue per la
conservazione di tratti che un tempo erano tipici anche di aree più o meno estese della
restante Italia settentrionale, con cui, del resto, condivide tuttora alcuni fenomeni di rilievo
(quali la sonorizzazione delle consonanti sorde fra vocali, la sempli cazione delle
consonanti doppie, la caduta delle vocali nali diverse da /-a/).

Le varietà ladine sono parlate in quattro valli dolomitiche intorno al gruppo del Sella (➔
ladina, comunità), anche se le loro caratteristiche sfumano all’interno di un territorio che
include una parte del Trentino orientale e la regione veneta del Cadore. I dialetti friulani sono
parlati in buona parte della regione Friuli (➔ friulani, dialetti).

La maggior parte delle varietà del sistema è oggi caratterizzata da:

(a) palatalizzazione dei nessi /ka-/ e /ga-/, che diventano (in accordo col francese antico,
ma anche col veneto) /ʧa-/ e /ʤa-/] ([ˈʧar] «caro» e «carne», [ˈʤal] «gallo»);

(b) mantenimento di -s nella formazione dei plurali maschili (di nuovo come il francese e il
veneto antichi: [ˈʧans] «cani», [ˈmurs] «muri»);

(c) conservazione del nesso di consonante + /l/ ([ˈblank] «bianco», [ˈklama] «chiama»),
sempli cato in /-l-/ all’interno di parola ([oˈrɛla] «orecchio» < auric(u)la(m), ecc.).

Le varietà friulane si caratterizzano anche per:

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(d) la sopravvivenza della distinzione fra vocali lunghe e brevi, che produce un certo numero
di coppie minime (➔ coppia minima) (come [lāt] «andato» e [lat] «latte», [pās] «pace» e [pas]
«passo»)

(e) la dittongazione delle vocali accentate, in particolare di /ɛ/ e /ɔ/, con esiti vari (per es.
[ˈbjel] «bello» e [ˈkwarp] «corpo»);

(f) i diminutivi in /-ut/ ([arbuˈlut] «alberello», [taˈjut] «taglietto» e anche «bicchiere di vino»);

(g) il passato prossimo bicomposto ([o aj vut vjoˈdut] letteralm. «io ho avuto visto», cioè «ho
visto»).

Tipi lessicali caratteristici del Friuli sono, fra gli altri, [kaj] «lumaca», [frut] «bambino», [soˈreli]
«sole» (derivato da soliculu(m), come il franc. soleil), [feveˈla] «parlare», [kuˈmɔ] «adesso».

La legge 482 del 1999 ha riconosciuto al sardo e al friulano lo status di lingue di minoranza,
equiparandoli, cioè, alle ➔ minoranze linguistiche storiche.

3. Vitalità dei dialetti

Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, hanno condotto
con una certa periodicità rilevamenti di interesse dialettologico, per valutare le percentuali
di coloro che, in Italia, usano l’italiano e i vari dialetti (sia in ognuna delle venti regioni sia a
livello nazionale, distinguendo poi gli usi fra le diverse fasce sociali e d’età e nelle situazioni
più comuni: in famiglia, con amici, con estranei).

La percentuale di coloro che si dichiarano dialettofoni, cioè che a ermano di usare il


dialetto locale nelle diverse situazioni indicate, risulta in continuo calo: per quanto riguarda
l’ambito d’uso domestico (certo quello più favorevole al mantenimento della dialettofonia),
nel 1974 coloro che parlavano con tutti in familiari in dialetto erano, secondo la Doxa, il
51,3% (dunque la maggioranza assoluta), ma sono passati al 46,7% nel 1982, al 39,6% nel
1988, al 35,9% nel 1991 e al 33,9% nel 1996. Nello stesso arco di tempo, la percentuale di
coloro che parlavano con tutti i familiari solo in italiano è cresciuta, ma in misura minore, dal
25% del 1974 al 33,7% del 1996, come, del resto, quella di coloro che parlavano con alcuni
familiari in dialetto, con altri in italiano, aumentati dal 23,7% del 1974 al 32,4% del 1996. Un
andamento simile mostrano le percentuali relative agli usi fuori casa: coloro che parlavano
sempre o più spesso in dialetto erano il 42,3% nel 1974, ridotti al 28,2% nel 1996; la
percentuale degli italofoni più o meno esclusivi o quasi è invece cresciuta dal 35,6 al
49,6%.

Tale contrazione generale della dialettofonia, però, quasi inaspettatamente, si attenua già a
partire dal 1991, nello stesso periodo in cui si vede sempre più chiaramente che «al
decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto
marcato» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30). Infatti c’è stato un contemporaneo,
speculare incremento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto

dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto. In e etti, usi di questo
tipo possono essere attribuiti a pieno titolo a coloro che “parlano sia in dialetto che in
italiano” (secondo la terminologia dell’istituto Doxa), categoria che ha avuto un incremento,
appunto, del 10% circa (ivi).

Secondo l’Istat, poi, a livello nazionale, fra il 2000 e il 2006 vi sono stati soltanto
assestamenti minimi: l’italofonia esclusiva in famiglia è passata dal 44,1% al 45,5%, con
amici dal 48% al 48,9%, con estranei si è ormai stabilizzata (72,7% nel 2000, 72,8% nel
2006); la dialettofonia più o meno esclusiva risulta scesa, in famiglia, dal 19,1% al 16%, con
amici dal 16% al 13,2%, con gli estranei dal 6,8% al 5,4%, ma l’uso alternato di italiano e
dialetto si è mantenuto in famiglia sostanzialmente stabile (dal 32,9% al 32,5%) ed è anzi
lievemente cresciuto per quanto riguarda le conversazioni con amici (dal 32,7% al 32,8%) e
addirittura con gli estranei (dal 18,6 al 19%). Roccaforti della dialettofonia sono, sul piano
geogra co, le regioni del Nord-Est (in particolare il Veneto), seguite da quelle del Sud
(soprattutto Calabria e Basilicata), mentre, relativamente alla condizione sociale e

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professionale, lo sono i pensionati, le casalinghe e gli operai rispetto a dirigenti,
professionisti e lavoratori in proprio (➔ sociolinguistica).

La notevole ambiguità di formule come «sia italiano che dialetto» – assai comuni, come si è
visto, nei rilevamenti statistici – è stata chiarita da Berruto (1995: 242-250), che ha proposto
il termine dilalia per cogliere una precisazione importante rispetto al concetto, ampiamente
usato, di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia). La dilalia si di erenzia dalla diglossia per
l’estrema facilità con cui avviene il passaggio dall’uno all’altro idioma, sia all’interno della
stessa interazione verbale, sia all’interno della stessa frase (➔ commutazione di codice), e
tanto in contesti informali, quanto in quelli di media formalità. Non è di cile accorgersi che,
nell’Italia di oggi, queste sono situazioni comuni, nelle quali si riconosce la maggior parte
dei parlanti, e che emergono per no in rete (➔ Internet, lingua di), anche e soprattutto nei
siti e nei blog frequentati dai più giovani. Tutto ciò contribuisce a spiegare il sensibile
rallentamento nell’abbandono dei dialetti registrato un po’ ovunque a partire dagli anni ’90
del Novecento.

Ad ogni modo, per cercare di capire meglio le motivazioni profonde per cui –
contrariamente a quanto ancora si crede – molti dialetti non sono stati e non sono oggi in
pericolo di estinzione, si può osservare che, come essi hanno potuto ‘farsi le ossa’ proprio
grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano (cfr. Avolio
2003: 43), così questi ultimi, più di recente, hanno paradossalmente difeso anche il dialetto.
Anzi,

sono proprio coloro a cui il possesso della lingua u ciale ha dato sicurezza, che […] gli
hanno impedito di fare una brutta ne. […]. E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o
quasi. Anzi, in qualche modo a ascina i giovani per la sua eccentricità. Certo,
dall’avventura dello scontro con l’italiano è uscito un po’ ammaccato, un po’ (o forse
troppo?) cambiato. Ma vivo

Lessico e dizionari
Il LESSICO è l’insieme delle parole che consente la comunicazione tra parlanti di una stessa
comunità.

Il lessico è formato dunque da LESSEMI (‘parole’), dotate di un signi cato semantico: le


parole hanno in verità diversi signi cati, o ACCEZIONI, adattabili alla situazione
comunicativa.

Anche una parola grammaticale come per, preposizione, può avere più signi cati: in italiano
signi ca ‘a favore di’, ‘a causa di’, ecc.

Il lessico italiano, tuttavia, gode di una stabilità molto marcata: all’inizio del XIV secolo era
già stato creato il 60% del nostro vocabolario di base, e a ne secolo si arriva al 90%.

Per esempio, il Dizionario della Lingua Italiana di Sabatini-Coletti annovera 5338 parole nate
nel Duecento e 13691 nate nel Trecento e ancora usate.

Quando entra in un dizionario, un lessema prende il nome di LEMMA (o ENTRATA


LESSICALE) e viene descritto secondo le consuetudini lessicogra che.

Il lessico, tuttavia, oltre a essere “fotografato” sincronicamente nel dizionario, possiede uno
spessore storico, una vera e propria stratigra a, che possiamo analizzare nei suoi sviluppi
fondamentali.

Il latino

Fino al Cinquecento e oltre, il ruolo del latino è stato fondamentale per sostituire la lingua
italiana in alcuni settori della cultura, ma anche per rifornirla delle parole di cui via via
necessitava e che gradualmente sono entrate nell’uso.

Queste parole sono dette CULTISMI, o latinismi: sono parole di origine latina introdotte in
italiano in secoli recenti, di solito a partire dall’Umanesimo.

I latinismi sono prestiti a tutti gli e etti.

In alcuni casi si sono creati dei doppioni (ALLÒTROPI) tra parola patrimoniale e latinismo.

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Dal latino VITIUM, per esempio, si è avuta la parola italiana vezzo; ma poi è stato
recuperato il latinismo vizio, con altra specializzazione semantica.

Altro esempio è il latino DISCUM, che ha dato l’it. desco; e successivamente è entrato in
italiano il latinismo disco, che ha assunto molti signi cati nella storia della lingua.

La duplicazione insomma non è semantica, ma etimologica: il signi cato delle parole è


diverso, benché la loro parola di origine sia la medesima.

Vocabolario e dizionario

VOCABOLARIO è un insieme lessicale nito, riferibile anche a singoli parlanti, a opere, ad


autori letterari ecc.

DIZIONARIO è invece il termine tecnico dello strumento lessicogra co di consultazione, o di


lettura, che ci consente di conoscere meglio il signi cato del lessico.

Il dizionario può avere una particolare specializzazione: esistono infatti dizionari storici,
dell’uso, etimologici, sinonimici, metodici, dei neologismi, enciclopedici, di concordanze, di
frequenza, di ortogra a e pronuncia, dialettali, inversi, gergali, e altri ancora, senza contare
quelli bilingui.

Dizionario dell’uso: frequenza e disponibilità Qualche considerazione numerica

• Un dizionario comune contiene circa 150.000 parole italiane.

• I linguisti considerano che l’80% circa delle frasi è costruito dai parlanti mediante un
numero di parole che si aggira intorno alle 2000.

• Con altre 2000 si arriva a coprire l’85-90% degli elementi di qualsiasi conversazione.

• Le parole conosciute da un adulto di competenza comune (il parlante medio) sono tra le
10.000 e le 12.000, più o meno.

La presumibile conoscenza e comprensione delle parole da parte di un pubblico è detta


disponibilità all’uso; in sostanza, il parlante conosce quella parola e può usarla in caso ne
abbia bisogno.

La fascia di parole più comune è detta di alta disponibilità; sul dizionario Sabatini-Coletti le
parole di alta disponibilità sono contrassegnate dal fondino rosso del lemma (pdf). Tale
identi cazione, visivamente immediata, è utile anche per chi scrive: è possibile controllare
velocemente se la parola che si intende usare è teoricamente comprensibile per un
pubblico vasto.

Grande importanza rivestono, nello studio del lessico, della sua acquisizione e del suo uso,
i rapporti sintagmatici.

Per esempio: l’automobile avanza premendo il pedale dell’--- (acceleratore).

La frase si completa facilmente grazie al contesto della frase (rapporto sintagmatico) e alla
competenza del parlante (parola di alta disponibilità; non certo di alto uso, a meno che il
parlante non sia meccanico di professione.

Altra caratteristica del lessico è la polisemia, cioè la possibilità di una parola di possedere
più signi cati.

Acqua: parola in apparenza monosemica, oltre a signi care ‘liquido incolore, inodore,
insapore che si beve ecc.’, può anche valere ‘pioggia’; oppure ‘purezza, trasparenza’ (un
diamante d’acqua pura); oppure ‘il trigono dei segni zodiacali del Cancro, dello Scorpione e
dei Pesci’; oppure ‘liquido che esce dalle ferite suppurate’; o ancora, l’‘acqua benedetta’; al
plurale, le acque sono ‘distesa di mare, lago o ume’; ‘acque termali’; la rottura delle acque
è la ‘fuoriuscita di liquido amniotico che precede il parto’. Ancora, l’acqua può essere un
infuso, un profumo, la marea, può essere minerale, ossigenata, di colonia, stagnante; ne la
classe non è acqua indica qualcosa di poco valore.

Diverso è il caso dell’omonimia, cioè della coincidenza del signi cante in termini che hanno
signi cato (ed etimologia) di erente. Parto può essere l’azione del partorire o la voce del
verbo partire; bolla è una sfera d’aria o un rigon amento della pelle oppure un sigillo, un
marchio, un timbro; e così via.

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Le parole che hanno lo stesso signi cato si dicono invece sinonimi.

Già Nicolò Tommaseo, però, pubblicando nel 1830 un Dizionario dei sinonimi, notava che
tra due parole (proprio in virtù della loro polisemia) non è mai riconoscibile una perfetta
identità: per no tra e fra possono avere usi distinti, per ragioni eufoniche: tra fratelli, fra tre e
quattro.

La sinonimia, insomma, non è mai assoluta ma sempre relativa.

In Italia è notevole l’aspetto dei geosinonimi, a cui abbiamo già accennato: si tratta di
sinonimi usati in regioni diverse, come adesso/ora, prendere/pigliare, porta/uscio, anguria/
cocomero, cacio/formaggio, ecc.

I contrari sono tecnicamente de niti antonimi; esistono contrari graduabili e non graduabili.

- Quelli graduabili possono stabilire una comparazione: tu sei più veloce / più lento; oggi fa
più caldo / più freddo di ieri

- quelli non graduabili prevedono una scelta netta del parlante: vivo/morto, maschio/
femmina.

Naturalmente l’uso ironico e gurato della lingua, o le fraseologie, possono ridurre la


distanza di antonimia.

Gli iperonimi sono parole di signi cato più esteso e generico; l’iponimo ha invece signi cato
più ristretto e speci co. L’iponimo albero contiene abete, larice, pino, quercia, salice, tiglio
ecc.

Altre indicazioni dai dizionari

I dizionari si servono di indicatori per segnalare al lettore il gruppo di appartenenza del


lessico particolare.

Questi indicatori si chiamano MARCHE D’USO (Rar., Dis., Lett., Med., Reg.), a cui si
aggiungono le MARCHE DIASISTEMATICHE che invece identi cano un ambito o registro:
Pop., Bur., Com., Fam., Iron., Parl., Poet., Volg.

Il nucleo del lessico è costituito dal VOCABOLARIO DI BASE, composto di circa 6700
lessemi.

Esso si divide in LESSICO FONDAMENTALE (2000 lemmi ca.), VOCABOLARIO DI ALTO


USO (2700), VOCABOLARIO DI ALTA DISPONIBILITÀ (2000).

(Gradit, pdf)

Queste articolazioni del lessico sono possibili grazie alla compilazione e all’uso di lessici di
frequenza. Il più recente e importante è il LIP (Lessico di frequenza dell’Italiano Parlato:
http://badip.uni-graz.at/it/).

Tra i primi 20 lemmi registrati compaiono molte parole grammaticali: il, uno, di, a, in, da, e,
che, e poi essere, avere, questo, lui, dire, fare ecc. Dopo le parole fondamentali vengono
quelle di “alta frequenza”, o “alto uso”, come ne, occo, schiare, ecc.

Il gruppo successivo è invece costituito da parole di “alta disponibilità”, cioè da parole che,
pur non comparendo entro le prime 5000 posizioni per frequenza, sono di signi cato noto e
utilizzabili secondo necessità: batu olo, carrozzeria, forchetta.

La successiva sottodivisione lessicale comprende il LESSICO COMUNE (40-45 mila parole


circa), che aggiunto a quello di base forma il vocabolario corrente, accessibile alla maggior
parte delle persone che possieda un livello di istruzione medio superiore.

Ben 55000 parole del GRADIT sono etichettate come desuete, letterarie o rare. Sono
conservate per consentire la lettura dei testi letterari; ma possono anche rientrare nell’uso.

Per quanto riguarda invece le percentuali di presenza delle categorie grammaticali, gli
invariabili costituiscono circa il 3%. Sarà importante notare che, a fronte di un 9% di verbi e
a un 26% di aggettivi, per il 62% il lessico italiano è formato da nomi.

La struttura tipica di una voce prevede:

- un’area dell’entrata, in cui compaiono lemma in grassetto, pronuncia, sillabazione (a


volte), informazioni grammaticali;

- un’area della semantica, in cui compaiono signi cati, esempi e fraseologia;

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- un’area per informazioni complementari, come etimologia, data di prima attestazione,
sinonimi e contrari, altre note pertinenti. Convenzionalmente, i sostantivi sono lemmatizzati
al singolare; gli aggettivi al maschile singolare; i verbi all’in nito. Nel lemma sono poi
segnalate le forme irregolari nella declinazione o coniugazione.

- Per la pronuncia, ormai molti dizionari o rono la trascrizione fonetica completa di


accentazione, tra barre diagonali; alcuni tuttavia preferiscono sillabare le parole e trascrivere
l’indicazione di pronuncia, tra parentesi quadre, con segni alfabetici: in questo caso si
usano espedienti per distinguere i suoni: a /ts/ corrisponde [z], a /dz/ invece una [z] con
puntino sottoposto.

- L’indicazione di marca grammaticale prevede una marca tra le seguenti: s.m., s.f., agg.,
avv., cong., escl., prep., v. (a volte ancora i “vecchi” v.tr., v.intr., v.tr.pron., v.ri .).

Grande Dizionario della Lingua Italiana (GRADIT): http://dizionario.internazionale.it (edizione


minor del cartaceo)

Diacronia: i dizionari storici

Esistono dizionari storici, che raccolgono l’evoluzione semantica delle parole attraverso i
secoli, spesso con esempi d’autore:

- il Vocabolario degli Accademici della Crusca (I ed. 1612) - http://


www.accademiadellacrusca.it/it/sca ali- digitali/crusche-rete (e www.lessicogra a.it)

- TB = NICCOLÒ TOMMASEO / BERNARDO BELLINI, Dizionario della lingua italiana,


Torino, Unione tipogra co-editrice torinese, [1861]-1879 - http://www.tommaseobellini.it

- Il GDLI, Grande dizionario della lingua italiana, a cura di SALVATORE BATTAGLIA, Torino,
UTET, 1961-2002 - http.//www.gdli.it

- - Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO) - http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO (in lavorazione)

I dizionari etimologici

Nei dizionari etimologici, nei quali si ritrova l’origine remota della parola, solitamente posta
al vertice di tutta la famiglia che si è creata attorno a essa.

Il LEI, Lessico Etimologico Italiano, ideato da Max P ster, ma giunto alla lettera C, parte
della D e parte della E.

DELIn = Il nuovo etimologico, MANLIO CORTELAZZO / PAOLO ZOLLI (edd.), II edizione a


cura di MANLIO CORTELAZZO / MICHELE A. CORTELAZZO, Bologna, Zanichelli, 1999.

I neologismi Una parola che prima non c’era

Dal francese néologisme, formato attorno al 1735 su elementi del greco classico che
signi cano "nuova parola" + -isme (it.-ismo). Ingresso in italiano: 1771

Quando e perché si creano nuove parole? •Per tappare un vuoto lessicale esistente •Per
soddisfare un’esigenza dei parlanti •Per gioco e diletto, per ni artistici

Escluse le parole discese per tradizione ininterrotta dal latino ai volgari e all’italiano, tutto il
resto del lessico è fatto di neologismi

Il più grande onomaturgo dell’italiano (Migliorini): ha creato migliaia di parole. Chi è?

Tra quelle entrate nel dizionario dell’italiano: fertile, gabbo, mesto, molesto, quisquilia...

Parole con un «papà letterario» •Appulcrare,sgannare,trasumanare: Dante •Disacerbare:


Petrarca

•Misogallo, odiosamato: Al eri •Illacrimato: Foscolo

•Arru apopoli: Giusti

•Superuomo, velivolo, tramezzino:D’Annunzio

•Mimismagico, motorumorista, svaticanamento... zang, frrrrr, taratatatatata: futuristi

•Trinariciuto: Guareschi

Come si assestano i neologismi in una lingua?

•In Italia non esiste un ente addetto alla cernita dei neologismi

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•Una parola entra nei vocabolari se viene usata da un numero su cientemente ampio di
persone per un periodo su cientemente lungo, e in contesti di erenziati

•La decisione è sempre dei parlanti

Quando e perché un neologismo entra nel dizionario?

•I lessicogra valutano le parole in base a dati statistici estratti da grandi corpora di testo,
de niti rappresentativi di una lingua

•Il criterio non è estetico: non esistono parole belle o brutte o «cacofoniche»

• L’ingresso nel dizionario non è per sempre. Un termine può anche scomparire nel giro di
pochi anni o decenni

•Magari rimane nel dizionario, segnalato con una crocetta (o con la marca d’uso OB)

Arricchimento endogeno ("da dentro“)

•Estensioni di signi cato: bacheca, pro lo, matrimonio

•Neocòni tramite su ssazione: telefonino, microondabile

•Composizione: pescaturismo

•Parole macedonia: apericena, fubbia(da fumo+nebbia)

•Parole prese dai dialetti: fuitina, cazzimma, balengo

Arricchimento esogeno ("da fuori“)

•Calchi semantici: skyscraper> grattacielo, klassenkampf> lotta di classe

•Forestierismi adattati: beefsteak> bistecca, salā'm ̔alaik> salamelecco

•Forestierismi ibridati: whatsappare, photoshoppare, webete, gengle...

•Forestierismi integrali: spoiler, facepalm, whitewashing

Prestiti di necessità: quando arriva (spesso dall’estero) un concetto per cui non esiste una
parola italiana

•Pacemaker: qualsiasi traduzione aggiungerebbe complessità

•Sauna perché non c’è corrispondente

•Sel e? Diverso da autoscatto

•Taggare: concetto di cile da spiegare se non con circonlocuzioni

Prestiti di lusso: forestierismi che non servirebbero in quanto esiste un corrispondente


italiano perfettamente equivalente

•Food > cibo

•Forwardare> inoltrare

•Location > posto, ambientazione, luogo •Mission > missione

•Paper> articolo, saggio

•Pet > animale da compagnia

•Skills > competenze

Un caso particolare: l’autarchia •Bar > quisibeve

•Bunker > fossa di sabbia •Cashmere > casimiro

•Cocktail > arlecchino •Dribbling > scarto/calceggio •Leverde rideau> avanspettacolo •WC,
toilette > ritirata

parola coniata (da un anonimo inventore) a Firenze, nel 2003, per descrivere la rotonda
ovale temporaneamente creata sui viali che circondano il centro

non è mai nita in nessun dizionario perché è «durata» troppo poco e fuori Firenze era
sconosciuta. È stata, come dicono i linguisti, un occasionalismo.

https://padova.moodleciels.org/moodle/plugin le.php/52899/mod_resource/content/1/
Introduzione.pdf

https://padova.moodleciels.org/moodle/plugin le.php/52900/mod_resource/content/1/
Postfazione.pdf

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Storia di dizionari e dizionari storici

La lessicogra a non è certo una materia recente: nel 1964 la scoperta dell’antica città di
Ebla, in Siria, ha consegnato agli archeologi 15.000 tavolette di argilla piene di caratteri
cuneiformi, tra i quali quello che è considerato il più antico vocabolario del mondo.

Al secondo millennio a.C. risalgono invece i frammenti di un “dizionario” bilingue che


traduceva parole egiziane in accadico.

I più antichi strumenti lessicogra ci sono strumenti che consentono di tradurre in una o più
lingue (come nella stele di Rosetta) termini relativi per lo più al commercio e alle merci.

Solo nel primo millennio a.C. ebbe inizio la pratica degli strumenti monolingui, che prese
vita dalla necessità di commentare i testi antichi e i testi sacri: queste note, chiamate glosse
(da cui glossario), erano necessarie per illustrare i passi meno pervii dell’Iliade e
dell’Odissea.

I lologi alessandrini iniziarono poi a di ondere la pratica di stilare elenchi di glosse, cioè di
“parole di cili”, che presero a circolare indipendentemente dal testo di riferimento.

Il primo “vocabolario”, vicino per concezione a quelli moderni, è il De signi catu verborum
di Verrio Flacco, compilato nel I sec. d.C.: ne conosciamo solo un riassunto di Sesto
Pompeo Festo, a propria volta riassunto da Paolo Diacono nell’VIII sec.

In un periodo non precisato tra III e V sec. Nonio Marcello scrisse invece un’opera dedicata
all’etimologia delle parole, vale a dire allo studio della loro origine.

Tra i repertori antichi c’è anche un lessico greco, la Synagogé, e un lessico bizantino,
chiamato misteriosamente Suda o Suida, contenente ben 30.000 voci di carattere
grammaticale, biogra co, geogra co, storico, scienti co, letterario. Una sorta di
enciclopedia ante litteram.

Tuttavia, l’opera considerata il primo pilastro della lessicogra a sono gli Etymologiarum
libri, compilati da Isidoro di Siviglia all’inizio del VII sec. d.C.: si tratta di un complesso di
nozioni e de nizioni che vanno dalla grammatica alla retorica no alla matematica, alla
medicina, alla geogra a, all’arte militare. Le etimologie sono talvolta corrette, talvolta frutto
di fantasia linguistica. Isidoro arrivò a raccogliere 6.000 voci, e la sua opera si di use in ogni
monastero e centro di cultura.

Si potrebbero ricordare molte altre raccolte di lessico, di voci sparse, ecc., ma un altro
punto fondamentale in questa rapida rassegna riguarda la prima opera lessicogra ca a
stampa che godette di enorme successo: il riferimento è al Dictionarium di Ambrogio
Calepino, un umanista bergamasco che metteva a confronto termini lessicali in lingue
diverse. La prima edizione è datata 1502, e in sette anni fu edito per ben nove volte: l’ed.
1590 confrontava addirittura 11 lingue.

Soprattutto, la forma del dizionarietto ispirò altre analoghe opere di genere simile, che
furono dette, per antonomasia, calepini. Altra pietra miliare per la lessicogra a europea è
l’edizione del Thesaurus Linguae Latinae (1531), curato da Robert Estienne, seguito poi dal
Thesaurus Linguae Grecae curato dal glio, Henri.

L’attenzione, come si vede, è ancora dedicata alle lingue classiche: per avere un vero
strumento lessicogra co dedicato a una lingua moderna si dovrà aspettare il 1612, anno in
cui sarà pubblicato il primo Vocabolario degli Accademici della Crusca. Ancora alla ne del
XVII secolo nessun’altra lingua europea disponeva di un’opera lessicogra ca paragonabile
al dizionario italiano: nel 1694 apparve a Parigi il Dictionnaire de l’Académie française, che
però, a paragone del vocabolario della Crusca, non disponeva di citazioni d’autore, ma di
esempi creati dai compilatori.

Questa di erenza va però ricercata anche nella storia della lingua: mentre la prospettiva
italiana era quasi interamente volta al passato, all’imitazione dei trecentisti, in Francia il

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Seicento e poi il Settecento furono i secoli di massimo splendore della lingua; i francesi
lavoravano dunque, per così dire, in “sincronia”. I termini, inoltre, erano raggruppati per
famiglie ragionate, e non elencati in ordine alfabetico.

In Italia, prima del Vocabolario della Crusca, si conoscono alcuni elenchi di voci volgari con
brevi de nizioni, come il Vocabulista di Luigi Pulci (il primo vero glossario volgare
monolingue) e le liste di Leonardo da Vinci contenute in un manoscritto Trivulziano e nel
codice di Windsor (sono termini dotti, ma anche voci di dialetti non toscani).

I primi vocabolari a stampa del volgare furono stampati a Venezia, con l’incentivo
dell’editore Aldo Manuzio e di Pietro Bembo: il titolo altamente allusivo Le tre fontane,
relativo all’opera del friulano Niccolò Liburnio, pubblicata nel 1526, lascia capire
l’impostazione dell’opera, debitrice in gran parte al repertorio lessicale di Dante, Petrarca e
Boccaccio. Soprattutto, quest’opera non ha più scopi autodidattici, come era avvenuto per
Pulci e Vinci, ma divulgativi per un pubblico vasto.

https://books.google.it/books?id=EqNOhQQfMx8C&printsec=fro
ntcover&dq=le+tre+fontane+liburnio&hl=it&newbks=1&newbks
_redir=0&sa=X&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

Nel 1539, sempre a Venezia, furono pubblicate Le Osservationi sopra il Petrarca, opera del
ferrarese Francesco del Bailo, noto come l’Alunno; nel 1543 lo stesso autore pubblicò
invece Le ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio. Ma la sua opera più importante
è la Fabbrica del mondo (1548), primo dizionario metodico della lingua italiana (dizionario in
cui le voci non sono raggruppate alfabeticamente, ma per argomenti).

https://books.google.it/books?id=_Bt9tTKpCNcC&printsec=
frontcover&dq=fabbrica+del+mondo+alunno&hl=it&newbk
s=1&newbks_redir=0&sa=X&redir_esc=y#v=onepage&q&f= false

Oltre a Venezia, andrà ricordata l’attività di Napoli per la lessicogra a: Fabricio Luna
pubblicò il Vocabulario di cinquemila vocabuli Toschi, che raccoglieva voci anche da
scrittori non toscani e da grammatici cinquecenteschi. Inoltre, è importante il Vocabolario,
grammatica e ortogra a di Alberto Acarisio, pubblicato a Cento (FE) nel 1543, su linee
bembesche ma attento anche alla terminologia scienti ca, alla fraseologia, all’etimologia e
all’ortogra a.

L’Accademia della Cruca

L’Accademia della Crusca fu fondata a Firenze nel 1583, allorché Leonardo Salviati, che
ebbe un ruolo fondamentale nella stesura del vocabolario, impegnò tutto il gruppo degli
accademici, che no a quel momento si riunivano in maniera soltanto conviviale, a
distinguere lingua “buona” e “cattiva”. I lavori del vocabolario iniziarono nel 1591, e
riguardarono testi trecenteschi e precedenti; nel 1612 l’opera fu stampata a Venezia, presso
l’editore Alberti; a quella data, purtroppo, Salviati era già morto.

Il suo ruolo era stato fondamentale per moderare la scelta stilistica bembesca, limitata alle
sole “Tre Corone”, con l’aggiunta di altri autori minori del XIV secolo e anche di testi
anonimi della stessa epoca, prodotti popolari usati per documentare le voci del orentino
vivo. Ma grazie a Salviati furono inseriti anche autori moderni, toscani o toscanizzanti: Della
Casa, Gelli, Berni, Firenzuola, Burchiello, Lasca, Poliziano, ma anche Ariosto, ferrarese.

Rimase fuori dal canone Torquato Tasso, pure ferrarese e certo il migliore poeta della
seconda metà del Cinquecento, per le sue scelte linguistiche tutt’altro che passive
nell’adozione del orentino illustre, ma anzi troppo aperte a latinismi e padanismi.

Il Vocabolario testimonia, in de nitiva, una posizione ulteriore rispetto a quella di Bembo,


accogliendo anche parole popolari, purché testimoniate nella lingua scritta. Inoltre, fu
normalizzata la gra a delle parole, eliminando usi gra ci ancora latineggianti, come le h-
etimologiche oppure i nessi consonantici (-ct- ad esempio: trattactione > trattazione);

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invece fu totale il disinteresse per le voci tecnico-scienti che: sono celebri le de nizioni
‘animale noto’ (per il “cane”) o ‘pianta nota’.

Le polemiche contro il Vocabolario, che riguardavano soprattutto la scelta del canone degli
autori, non si fecero attendere: nello stesso anno il professor Paolo Beni, di Padova,
pubblicò l’Anticrusca, accusando i cruscanti di essere colpevoli dell’esclusione di Tasso e
di altri scrittori contemporanei.

Alessandro Tassoni, autore di un poema eroicomico, La secchia rapita, scrisse anche


alcune note polemiche contestando del Vocabolario la scelta di lemmi fuori dall’uso
(propose la necessità di distinguere gra camente gli arcaismi), e poi polemizzando per no
contro il primato linguistico di Firenze, proponendo in alternativa il modello dell’uso romano.

Ci furono altri interventi tesi a ri utare un modello buono per tutti gli usi, e anche per
mostrare l’autorità di altri centri linguistici (come Siena), ma ogni rivendicazione non poteva
reggere di fronte al Vocabolario, perché l’autorità dell’Accademia andava aumentando e il
modello di lingua letteraria stava già imponendosi a scapito delle varietà regionali.

Nessuna critica fermò gli accademici, che già nel 1623 pubblicarono una seconda edizione
del Vocabolario, con qualche aggiunta e qualche correzione. Diverso è invece il discorso
della terza edizione, quella del 1691, la prima pubblicata a Firenze e la prima in più volumi
(3).

Qui compare l’indicazione V.A. accanto alle voci antiche, che ora sono registrate per
testimonianza e non come esempio da imitare. Inoltre, furono inclusi vari autori moderni, tra
i quali Tasso, Machiavelli, Guicciardini, Della Casa, Varchi, e alcuni altri non toscani, tra cui
Sannazaro, Castiglione, Chiabrera (non però Marino); aumentò anche il numero di voci
scienti che e di conseguenza il contributo di Galileo.

Due collaboratori su tutti vanno ricordati: Francesco Redi e Lorenzo Magalotti, che
contribuirono all’introduzione di molti termini scienti ci nel vocabolario. A Redi, peraltro, si
devono anche molte voci “inventate” dal lessicografo, che egli nse di aver trovato in
trattati manoscritti del Trecento. La sua “tru a” lessicale è stata scoperta soltanto a inizio
del Novecento, e la dimensione complessiva a ora solo in questi ultimi anni, durante i
lavori di aggiornamento del vocabolario.

La quarta ed. fu pubblicata a Firenze in sei voll. tra il 1729 e il 1738, e segnò un passo
indietro rispetto alla visione storico- linguistica della “terza Crusca”: fedeltà al toscano
letterario, attenzione all’uso moderno, ma chiusura verso i non toscani e anche verso la
lingua tecnico-scienti ca. Fu in particolare quest’ultimo aspetto ad attirare ulteriori critiche
verso il Vocabolario e verso Anton Maria Salvini, grammatico di riferimento della nuova
opera. Di conseguenza, molti scienziati stesero contributi tesi a completare la proposta
lessicale della Crusca, spesso attraverso il riferimento agli autori del Trecento toscano.

Gli illuministi mostrarono una sempre più aperta inso erenza verso gli Accademici e verso
il Vocabolario: nel 1765 Alessandro Verri scrisse la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario
della Crusca, pubblicata sulla rivista milanese “Il Ca è”: si tratta di una proposta,
provocatoria e ironica, contro il formalismo dei cruscanti

altre critiche vennero da Giuseppe Baretti, contro il modello letterario arti cioso proposto, e
da Melchiorre Cesarotti, che nel Saggio sulla loso a delle lingue (1785) propose
l’istituzione di un Consiglio nazionale della lingua al posto dell’Accademia. Ma due anni
prima il granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, aveva soppresso la Crusca unendola
all’Accademia orentina.

Un purista, Antonio Cesari, curò nel 1806-11 una riedizione del Vocabolario, noto come la
Crusca veronese, con 3000 voci aggiunte: ma il risorgere dei puristi suscitò nuove

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polemiche: Vincenzo Monti scrisse la Proposta di alcune giunte e correzioni al Vocabolario
della Crusca (1817-26) per criticare l’anacronismo del dizionario e criticando i difetti di
sempre e la scarsa cura lologica nella scelta degli esempi.

Nel frattempo Napoleone aveva ricostituito l’Accademia della Crusca nel 1811 ed erano
iniziati i lavori della 5^ed. del Vocabolario: tuttavia l’impostazione era ormai troppo arcaica e
stavano nascendo altri strumenti assai più moderni e utili: il primo vol. uscì soltanto nel
1863, e nel 1923 il ministro Gentile ne sospese la pubblicazione con la ne della lettera “O”
e la parola “ozono”.

Lingue speciali e lingue settoriali

Rivediamo brevemente le cinque varietà dell’italiano:

1. la varietà diatopica, ovverosia la variazione della lingua dovuta al luogo in cui si parla:
nella penisola convivono infatti in nite realizzazioni dell’italiano, sempre in uenzate dalle
caratteristiche regionali e anche dialettali. A ciò vanno aggiunte le particolarità della
convivenza con altre lingue, neolatine e appartenenti ad altre famiglie linguistiche, che sono
parlate sul territorio nazionale come lingue madri e anche, all’interno di ristretti territori,
come lingue u ciali;

2. la varietà diamesica, cioè la variazione della lingua italiana in base al canale di


comunicazione, che può essere scritto oppure orale. L’articolazione può tuttavia essere
assai più complessa, dato che esistono testi scritti pensati per l’oralità (per esempio, il testo
di una conferenza), o, se si vuole, discorsi che non sono improvvisati ma progettati, e
all’opposto testi scritti dallo stile trascurato, che lasciano trapelare costruzioni sintattiche
tipiche dell’oralità;

3. la varietà diastratica, che consiste nella variazione della lingua dovuta alla classe sociale
di appartenenza dell’individuo. La de nizione di “classe sociale”, seppure ancora attuale
anche in Italia, va tuttavia modulata con altre variabili che in uiscono su questo aspetto,
quali: l’educazione ricevuta, il percorso scolastico (durata e qualità), altri interessi culturali
personali. Secondo alcuni studiosi anche il genere in uenza la lingua: donne e uomini
mostrano caratteristiche diverse sull’asse diastratico;

4. la varietà diacronica, che consiste nella variazione della lingua attraverso il tempo. Per
esempio, ogni generazione apporta novità linguistiche temporanee o durature, ma ha
comunque abitudini linguistiche diverse dalle generazioni che l’hanno preceduta. In un
discorso generale, l’italiano ha mostrato nei secoli tratti continui di evoluzione rispetto al
proprio punto di partenza, il latino parlato, e continua a modi carsi e a mutare di aspetto.

5. la varietà diafasica è legata


strettamente alla situazione
comunicativa, e in particolare si
riferisce al tipo di argomento trattato e
al grado di con denza tra gli
interlocutori. La variazione diafasica si
articola in registri (formali e informali) e
sottocodici, vale a dire in speci ci
settori lessicali necessari alla
trattazione di diversi argomenti (e si
parlerà di lingue settoriali, come la
moda o lo sport, e di lingue speciali,
legate alle scienze).

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Uno degli aspetti più interessanti della variazione diafasica è dato dai sottocodici, vale a
dire dalle lingue settoriali e dalle lingue speciali, che arricchiscono soprattutto il lessico
italiano e sono indispensabili per le produzioni linguistiche relative a particolari settori
dell’attività umana, o dello studio scienti co.

Le lingue speciali, dette talvolta anche tecniche, professionali, microlingue, tecnolingue,


tecnoletti ecc., rappresentano un settore assai controverso del lessico, poiché al loro
interno sono compresi sia i linguaggi tecnico-scienti ci, sia quelli delle discipline
umanistiche, sia quelli dei mass media, della pubblicità ecc. Il discrimine principale riguarda
la natura del lessico di ciascun settore, che ospita elementi sconosciuti ai “non addetti ai
lavori”.

Il lessico dei sottocodici tende alla monosemia: a ogni signi cante (= termine) è associata
una sola accezione (= signi cato). Le cosiddette “scienze dure”, le più formalizzate, portano
al massimo livello questa caratteristica, anche per l’uso di pre ssoidi e su ssoidi con
valore semantico univoco.

Pre ssoidi e su ssoidi sono morfemi dell’italiano, mutuati soprattutto dal greco e dal latino
(dove per lo più erano parole, dotate di un signi cato proprio), che si comportano
grammaticalmente come i pre ssi e i su ssi “normali”, ma conservano anche il proprio
valore semantico:

per es. glottologia è una parola composta da un pre ssoide, glotto-, che signi ca ‘lingua’, e
da un su ssioide, -logia, che vale ‘scienza’.

Nei sottocodici questi valori semantici ssi permettono di classi care i fenomeni per
gruppi: in medicina, tutte i termini su ssati con -ite identi cano delle in ammazioni: rinite,
otite, nefrite ecc.; in chimica, gli acidi vengono su ssati con -ico oppure con -oso a
seconda della valenza dell’elemento ecc.

Per es?

Viceversa, anche a ciascun signi cato corrisponde un solo signi cante: gli ‘insetti con
quattro ali colorate, il capo mobile, la bocca dotata di una piccola proboscide non
pungente’ sono i “lepidotteri” e nessun’altra categoria.

Si ha dunque mancanza di sinonimia, benché apparentemente sia possibile chiamare certi


fenomeni con un altro nome: i “lepidotteri” sono le “farfalle”, infatti.

Ma, se si esclude la notazione scienti ca per cui le farfalle sono solo un sottoinsieme della
famiglia dei lepidotteri, andrà notato che per molte scienze naturali e per la medicina esiste
un registro meno elevato, che comunemente è noto come divulgativo: per chiarire a ezioni
corporee ai pazienti poco istruiti il medico non potrà parlare di “rinite allergica”, rischiando
di far preoccupare oltremodo il proprio assistito, ma preferirà comunicargli che so re di
“ra reddore da eno”.

Le lingue speciali si caratterizzano dunque per la loro precisione denotativa e per


l’esclusione di ogni connotazione legata ai singoli termini (e dunque l’acronimo AIDS sarà
impiegato per denominare una malattia autoimmune, senza dilungarsi sulla paura del
contagio o su indicazioni morali sull’attività sessuale).

Scendendo di tecnicità, sono poi identi cabili altre lingue speciali in cui questi aspetti sono
meno caratterizzanti: in linguistica tronco e ossitono hanno lo stesso valore (‘parola
accentata sull’ultima sillaba’), nello sport basket e pallacanestro sono il medesimo sport.

A proposito di quest’ultimo esempio, andrà notato che il ricorso a lingue straniere è assai
frequente in molte discipline: nell’informatica, per esempio, non si usano quasi termini
italiani (mouse, hardware e software, client, server, ecc., con l’eccezione di hard disk reso
con disco sso).

Nelle lingue speciali sono molto frequenti le sigle, o acronimi, formati dalle iniziali di tutte le
parole di una de nizione: DNA (acido desossiribo nucleico), SMS (short message system),
DOC (denominazione di origine controllata) ecc. Gli acronimi diventano parole a tutti gli

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e etti, e possono essere trasposti con signi cati estesi nella lingua comune: è un artigiano
doc.

Nelle lingue speciali sono poi presenti gli eponimi, voci polirematiche che indicano teorie,
scoperte, invenzioni, fenomeni, che portano il nome del loro teorizzatore, scopritore,
inventore, di chi ha so erto di una malattia ecc.: il teorema di Pitagora, il morbo di Lou
Gehrig, la macchina di Watt. Anche le unità di misura possono prendere il nome di uno
studioso: watt, volt, ampère ecc.

Oltre al lessico, altre di erenze delle lingue speciali rispetto alla lingua comune investono la
testualità e la sintassi. La ripetizione di una stessa parola a breve distanza, che
normalmente viene evitata con il ricorso a sinonimi, può essere accettata in un testo
scienti co, in cui l’identi cazione di un fenomeno non tollera alcuna ambiguità semantica.

La lingua scienti ca scritta occupa un posto alto sul continuum diafasico, e dunque sono
molto usate espressioni di introduzione, conclusione, articolazione del discorso per punti
nodali ecc. Un processo assai importante è la cancellazione del verbo, con preferenza per
locuzioni preposizionali (generalmente al posto di relative): dieta a base di carboidrati,
composto ad alta densità molecolare ecc.

La persona verbale impiegata più di frequente è la terza, con qualche esempio di prima
plurale (noi, pluralis modestiae); la terza persona è spesso impiegata per dare
un’impersonalità oggettiva: si veri ca, si nota ecc. Notevole è anche l’estensione della
diatesi passiva del verbo: l’alcol viene prodotto a partire da...

Le lingue settoriali sono invece sottocodici in cui il lessico ha un valore semantico molto
meno univoco, e tuttavia in qualche modo specializzato: si tratta della lingua dello sport, di
quella della moda, ecc., che attingono anche ad altri sottocodici più tecnici: ala ‘giocatore
esterno’, dal lessico militare, ecc.

Rispetto alle lingue specialistiche, le lingue settoriali, pur nascendo come lingue particolari
di speci che discipline, subiscono una di usione abbastanza vasta tra le persone comuni
che le utilizzano per scopi condivisi dall’intera comunità. Le lingue della tecnica, del
commercio, dell’industria, della medicina, le lingue giuridiche, burocratico-amministrative,
politiche, sono lingue settoriali, ma parlate e comprese da una cerchia piuttosto vasta di
persone; tendono di conseguenza a uscire dall’uso limitato degli “addetti ai lavori”.

Un ulteriore aspetto delle lingue speciali è stato evidenziato da Luca Serianni, che ha
introdotto il concetto di tecnicismi collaterali, cioè termini tipici di un certo settore non legati
a necessità comunicative. Si tratta di varianti lessicali determinate dal settore in cui ha
luogo la situazione comunicativa. Se ne vedano alcuni esempi, con resa in lingua comune:

Il paziente accusa/lamenta vivo dolore nella regione epigastrica (med.). Il paziente sente un
forte dolore alla bocca dello stomaco.

L’escussione dei testi (giur.). L’interrogatorio dei testimoni.

Il proiettile ha attinto la vittima alla mano sinistra (med. leg.). Il proiettile ha colpito la mano
sinistra del ferito.

modico risentimento febbrile - un po’ di febbre

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Il linguaggio burocratico
Fino al secolo corso era comune in Italia la gura dello scrivano che, in cambio di un
piccolo compenso (e mettendo a disposizione una competenza anch’essa non troppo alta),
si prestava a scrivere una domanda a un u cio pubblico per conto di un analfabeta, o una
lettera privata.

Anche se l’analfabetismo non è scomparso del tutto, è scomparsa la gura dello scrivano;
ma, secondo alcuni, è nato da un po’ di anni un analfabetismo di tipo nuovo: quello di
coloro che, pur sapendo leggere e scrivere, ricorrono a un professionista come
intermediario nei rapporti con l’amministrazione, troppo di cili per quanti (e sono molti: la
grande maggioranza) siano digiuni in materia di diritto.

Basti pensare al moltiplicarsi dei tributaristi, che compilano la denuncia dei redditi a un
numero crescente di clienti incapaci di farla da sé. Questa è certo una situazione molto
vantaggiosa per i tributaristi; ma il propagarsi di questo neo-analfabetismo (metaforico, ma
non troppo) indica che qualcosa non va nei rapporti tra i cittadini e lo Stato.

È tristemente famosa l’oscurità del modello per la dichiarazione dei redditi, con cui una
volta all’anno si trova alle prese il cittadino in veste di contribuente: nonostante alcuni
tentativi di renderlo più comprensibile, le disposizioni del modello per la denuncia dei redditi
restano ardue da capire.

Nella prefazione al suo Codice di stile, Sabino Cassese cita una circolare ministeriale in cui
si lamenta

«la eccessiva incidenza della pendenza dei procedimenti amministrativi sulla esplicabilità
delle posizioni di vantaggio degli amministrati»:

frase che s da decisamente la comprensione, e che lo stesso autore parafrasa in questo


modo:

«la durata dei procedimenti amministrativi nisce per impedire l’esercizio dei diritti dei
cittadini».

Chi viaggia in treno ha dovuto imparare obliterazione e obliterare, strane parole entrate in
circolo da quando, anni fa, le Ferrovie dello Stato hanno inventato la regola che per
viaggiare non basta avere il biglietto, ma era necessario annullarlo o, ancora più
semplicemente, timbrarlo, usando, si capisce, l’apposita (macchina) obliteratrice.

La parola è diventata il simbolo del linguaggio astruso usato dai servizi pubblici, tanto che
era stata oggetto di ironia in una pubblicità trasmessa per televisione a spese della stessa
Azienda ferroviaria, e ora è stata sostituita da convalida, convalidare.

Tipica della prosa burocratica, ma anche di altri tipi di prosa, è la propensione per il nome a
danno del verbo corrispondente.

Il linguaggio burocratico ha poi il terrore della parola di uso comune: non fa, ma provvede a
fare o procede a e ettuare; non va ma si reca o si dirige; ama costruzioni come andare a
veri care o porre in essere; consuma instancabilmente parole quali costituire per essere,
sperimentare per provare, rappresentare per far presente.

Anche, ma non solo, del linguaggio burocratico è la simpatia eccessiva per le coppie di
parole (nomi, aggettivi, verbi, avverbi) dello stesso signi cato. Non si tratta né delle coppie
di signi cato diverso, come sentire e vedere, né delle coppie di sinonimi, quando esprimano
sfumature signi cative, come con denza e familiarità, ma di coppie che arrotondano il
periodo, per così dire, senza vantaggio per l’informazione.

Parecchi dei fenomeni elencati si trovano in uno scritto di storia della loso a, in cui si
parla di

“voci che sembravano e sembrano sparse ed isolate [...]. Le voci di questi autonomisti
stanno infatti a rappresentare l’ultima incarnazione di quella tradizione [...] che accompagna
e rappresenta la vita dello Stato...”

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A un testo di legge si richiede che sia tecnico, rigoroso, preciso e scritto secondo
procedimenti che non possono coincidere con quelli del linguaggio comune.

Ciò non ha come conseguenza necessaria un dettato oscuro: oscure, e quindi ambigue,
sono le leggi quando sono scritte male.

Con i testi amministrativi, poi, che traducono in norme di comportamento i princìpi giuridici,
sono a contatto tanti cittadini, non necessariamente giuristi. Il rigore amministrativo non è
garantito dalla parola rara, dall’espressione oscura: chi le usa o vuole intimidire il cittadino,
comunicandogli con la terminologia di cile il potere dell’autorità, o non si sa esprimere in
modo diretto e comunicativo.

Con il linguaggio amministrativo (leggi, regolamenti, disposizioni in materia scale o


sanitaria), o con messaggi di civismo, sensibilità per il patrimonio storico o naturale, e così
via, gli organi dello Stato cercano di comunicare con i cittadini, ma spesso non vi riescono.
In Italia il rapporto tra cittadini e istituzioni è viziato da di denza, s ducia, sospetto
reciproco. Troppo spesso lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti; e troppo spesso il
cittadino cerca di eludere le regole o, come si dice volgarmente, di fregare lo Stato. Si tratta
di un problema grave, e non nuovo, di cui ci interessa qui l’aspetto linguistico e, più in
generale, comunicativo.

Nonostante questa situazione non proprio rosea, è giusto riconoscere che anche in Italia,
come in altri paesi, si cerca di allacciare un rapporto nuovo, più trasparente, tra
amministratori e amministrati.

È benemerito il primo tentativo di sempli care le parole e le costruzioni delle scritture


amministrative, ispirato dal linguista Tullio De Mauro, già Ministro della Pubblica Istruzione,
e promosso da Sabino Cassese, che è stato Ministro della Funzione Pubblica: il Codice di
stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, del 1993.

Il cosiddetto linguaggio burocratico è ampiamente accolto anche fuori della burocrazia in


senso stretto: trova buona ospitalità nei giornali, e agisce (a sproposito) come modello di
stile alto e prestigioso in molti testi, e non solo in quelli di persone poco istruite. In secondo
luogo, l’astrattezza complicata dello stile burocratico era alimentata dalla scuola, e forse lo
è ancora

Necessità di sorvegliare l’espressione scritta, e di non aprirla in modo incontrollato,


passivo, ai modi parlati.

Con questi ultimi convivono i modi astrusi, spesso orecchiati in modo go o, di un


linguaggio pomposo modellato appunto sui giri mentali ed espressivi di origine burocratica

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Fra i due estremi del parlato e del burocratico, la scrittura professionale dovrebbe mirare
alla via mediana di una prosa chiara nell’esposizione, che tenga conto del destinatario e
che non rinunci al tecnicismo (cosa diversa dall’oscurità), quando esso sia necessario.

Il Codice di stile raccomanda tra l’altro di evitare il più possibile il congiuntivo, preferendo a
benché quelle congiunzioni, semplici o composte, compatibili con l’indicativo (quindi, in una
concessiva, si può usare anche se invece di benché).

Naturalmente questa raccomandazione, giusti catissima in testi diretti a un pubblico


di erenziato culturalmente, non ha ragion d’essere in altri testi destinati a una circolazione
più specialistica.

Lo stesso vale per il suggerimento del Codice di stile a evitare il passivo. La vitalità

del passivo è oggetto di discussione; a noi qui interessa mettere in rilievo una delle sue
funzioni, quella che permette di evitare il soggetto reale o soggetto logico dell’azione (in
analisi logica, il complemento di agente).

Se questa possibilità può essere sfruttata in chiave di ambiguità, di reticenza, non ne


sfugga una dimensione di cortesia: a un debitore si può scrivere, in forma piuttosto
aggressiva: «Lei non ha ancora pagato la fattura» o, in maniera meno colpevolizzante: «La
fattura non è stata ancora pagata».

La lingua non può sempre essere facile: facile è la lingua della televisione, dei fumetti, della
stampa popolare.

Facile non può essere la lingua della scienza, perché non è facile il pensiero che essa
comunica; e così per la loso a o la poesia. Ma un conto è la sempli cazione, un altro
l’oscurità, voluta o no.

Vale la pena di sforzarsi di capire un testo di alta densità poetica o concettuale; non
dovrebbe esser necessaria troppa fatica, invece, per comprendere un manifesto a sso dal
Comune o il bando di un Ministero.

Altri in uenze linguistiche del ‘burocratese’ sulla vita quotidiana:

- Ordinecognome-nome

- uso del si impersonale, cioè della non- persona: «Si scrive per segnalare che...; si
osserva...; si fa notare...», che equivalgono a: «Scrivo per far notare che...; osservo...; faccio
notare...»

- Nelle date, li o lì davanti al giorno: li 15 maggio 2012. Questo li è una forma antica
dell’articolo maschile plurale, poi non più compresa e trasformata nell’erroneo lì,
interpretato come avverbi di luogo. Si capisce dunque che tanto più scorretto è scrivere li
1° maggio 2012, essendo 1 singolare.

Il testo che segue è una lettera di richiesta di risarcimento che un avvocato scrive a un
albergo. Chi scrive usa, sia dal punto di vista linguistico che strutturale, i moduli tipici del
linguaggio burocratico (la gerarchia informativa oscura l’informazione principale,
l’impostazione sintattica è tale che il testo risulta ambiguo e l’uso del linguaggio burocratico
complica il testo dal punto di vista lessicale).

Riformulare la lettera riportata sotto in modo che il contenuto informativo sia più
comprensibile e la lingua sia adeguata al destinatario (il direttore o il proprietario
dell’albergo) e al contesto comunicativo (si tratta di una lettera che un avvocato scrive a un
privato):

In nome e per conto della Sig.ra Pallini

La mia assistita, in data 25.04.2022, alle ore 21.30 circa, si trovava in qualità di ospite
presso i locali siti al piano terra dell’hotel Taldeitali, quando veniva improvvisamente colpita
da frammenti di vetro, facenti parte di porta d’ingresso prospiciente lastrico antistante
piscina, inavvertitamente urtata da altro ospite il quale, non essendo la stessa segnalata,
non era in grado di avvertirne la presenza.

Scrivo a nome della signora Pallini.

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Il 25 aprile 2022, alle 21.30 circa, la signora era ospite dell'hotel Taldeitali al piano terra,
quando improvvisamente un altro ospite urtava la porta d'ingresso a vetri che dà sulla
piscina. La signora Pallini è stata colpita dai frammenti della porta, che l'ospite non aveva
visto perché non era stata segnalata.

Il seguente bando pubblico per la richiesta di contributi comunali contiene molte delle
caratteristiche più ricorrenti del linguaggio burocratico. Riformulatelo in modo che il suo
contenuto sia comprensibile anche a chi non è esperto di questo linguaggio (evitando i
tecnicismi, le ripetizioni, l’eccessiva complessità sintattica).

IL SINDACO

Visto il Decreto Legge 29.10.1986 n.708, convertito, con modi cazioni, in legge 23.12.1986
n. 899,

RENDE NOTO

I cittadini soggetti passivi di provvedimenti esecutivi di rilascio [= sfrattati] già eseguiti,


eseguibili ed esecutivi al momento della domanda che intendono acquistare o che abbiano
acquistato non prima del 29.10.86 (data di pubblicazione del Decreto Legge n.708/86) un
alloggio abitabile immediatamente o in un arco di tempo compatibile con l'esecuzione dello
sfratto da destinare esclusivamente ad abitazione del proprio nucleo familiare, possono
presentare domanda, in bollo, per concorrere alla concessione del contributo in conto
capitale [= a fondo perduto] previsto dall’art.5 comma 1, lettera B, della legge 23.12.86,
n.899, di conversione, con modi cazioni, del D.L. 29.10.86 n.708.

I nanziamenti in argomento non sono cumulabili, neanche in tempi successivi, con


nanziamenti di qualsiasi natura in qualche misura agevolati rispetto ai mutui concedibili
dagli Istituti di Credito che comportino oneri reali o presunti a carico dello Stato, della
Regione o del Comune.

Possibile soluzione: PARAFRASI

COMUNE DI ...

Bando pubblico (estratto)

CONTRIBUTI ALLE PERSONE SFRATTATE PER L'ACQUISTO DELLA PRIMA CASA

Le persone sfrattate che vogliono acquistare un alloggio dove andare ad abitare, subito o
appena lo sfratto (anche detto provvedimento esecutivo di rilascio) sarà eseguito, possono
chiedere un contributo al Comune sul totale del mutuo necessario all'acquisto.

Il Comune concorre all'acquisto con un contributo da non restituire.

Attenzione:

- Anche le persone sfrattate che hanno acquistato un'abitazione dopo il 29 ottobre 1986
possono chiedere il contributo.

- Le persone che hanno già ottenuto nanziamenti dallo Stato, dalla Regione o dal Comune
a tassi più favorevoli di quelli praticati dalle Banche non possono avere il contributo.

L’italiano digitato

La lingua è un organismo vivo, che muta nel tempo secondo regole condivise dai parlanti.

La variazione linguistica si opera

1. Con i mutamenti della società

2. Con le necessità dei parlanti

Parlavamo dei mutamenti della società.

Uno dei mutamenti che – in riferimento alla comunicazione – ha avuto maggior impatto sulla
società anche dal punto di vista linguistico, già dal secolo scorso è senza dubbio
l’invenzione e la di usione del computer, che ci porta oggi a parlare di web e social.

L’italiano soccombe a causa di questi mezzi?

NO!

L’informatica è una scienza dura e usa principalmente l’inglese come lingua veicolare

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in una valutazione sistematica del lessico è stato notato che le parole italiane formano il
65-70% delle occorrenze dei tecnicismi informatici

Esempi

tablet o account , web prevale su rete, backup su copia MA ANCHE

sito (‘sito web’) e non site

chiavetta o pennetta e non pen drive (o simili) scaricare e non downloadare o fare il
download aggiornamento prevale su upgrade, cartella su folder

CHI è CONTRO la rete:

imbarbarimento dell’italiano (anglicismi, tecnicismi informatici, abbreviazioni e faccine) > già


note nella storia dell’italiano

Esperimento: provate a sostenere una comunicazione via WhatsApp con qualcuno senza
usare mai nessuna faccina (senza che il vostro destinatario lo sappia)

Nuove etichette per il nuovo italiano di internet: parlar spedito, scrittura liquida, e-taliano,
parlato digitato, in riferimento al mezzo (varietà diamesica), intermedia nel web

RIVISITAZIONE DI MOLTE CATEGORIE DELLA LINGUISTICA

Si tratta di una «scrittura aumentata», cioè arricchita e resa più profonda, sfaccettata,
multipiano (sovrapposizione continua di testi diversi > ipertesto)

Più che di lingua della rete, pertanto, sarebbe semmai il caso di riferirsi alle lingue e ai
linguaggi della rete, dal momento che internet si con gura come un ambiente, o per meglio
dire un insieme di ambienti diversi, un contenitore di contenitori, cioè di varietà linguistiche
diverse, piuttosto che una macrovarietà di lingua.

Che cosa hanno in comune un messaggio di posta elettronica, un messaggio su WhatsApp,


una pagina Facebook, un blog e un tweet? Veramente poco, quasi nulla.

CHI è PRO rete (io, ma non solo io)

Il web ha ampliato la platea del pubblico che si interessa di lingua! Un versante interessante
e poco sondato è quello dei commenti metalinguistici.

Dal gruppo chiuso Facebook l’Agora del Superuovo (frequentato prevalentemente da


studenti delle scuole secondarie superiori o iscritti all’Università), post del 19 agosto 2017

«Ho una domanda per tutti i miei colleghi Grammarnazi che militano ogni giorno su internet
portando avanti la nostra sacra missione: per quale motivo riprendete gente che utilizza il
classico congiuntivo errato ma mai la quasi totalità degli italiani del centro-nord che
utilizzano costantemente “te” come soggetto al posto di “tu” nonostante la di erenza
venga insegnata alle elementari? Secondo me, questo errore è grave quanto un congiuntivo
errato, se non addirittura peggiore dato che dimostra un’ignoranza della lingua che è
radicata n nelle basi. Personalmente considero molto più “di cile” coniugare un verbo che
sapere la di erenza fra soggetto ed oggetto».

Questo post ottiene 160 commenti.

Alcuni di questi

• È comunque un errore di non poco conto

• Parlando di errori gravi, è ben peggio il “esco il cane”.

• Io correggo anche quando qualcuno sbaglia tra te/tu, mi odiano per questo ma mi da
troppo fastidio sentire sti errori mondo cane.

• E ettivamente al nord usiamo moto “te”. Ma penso che come errore sia più paragonabile
all’uso del passato prossimo eccessivo o all’uso eccessivo del pass. remoto che si fa al
sud, cioè si formalmente sbagliato e abusato, però alla ne nel parlato- e sottolineo solo nel
parlato- lo vedo accettabile

• Sono Toscana e qua si usa molto il pronome “te” come soggetto. Alle elementari a me
hanno insegnato che si può usare con questa funzione, ma solo a livello informale e solo
nel parlato, assolutamente no nello scritto. Quindi mi sono guardata nella Treccani sefosse
e ettivamente giusto o meno e in realtà non è un errore, anzi. Ma ripeto, solo in modo
colloquiale e in un contesto informale:)

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IN REALTà LA COSTRUZIONE DI CUI SI DICE, CIOè L’USO DEL TE AL POSTO DEL TU, è
COSTRUZIONE NOTA AI LINGUISTI, COME COSTRUZIONE CLASSIFICATA non-standard
e caratterizzata in diatopia

Cosa caratterizza l’errore linguistico?

«Mi piace, non mi piace, da me si dice, da me non si dice, l’ho sentito dire, non l’ho sentito
dire» non sono metri che usa la linguistica (ma sono quelli dei commenti linguistici sui
social).

I ‘metri’ (gli strumenti) usati dalla linguistica sono la grammatica e il dizionario.

Non dimentichiamo poi che la lingua ha possibilità diverse a seconda del REGISTRO
(contesto) in cui viene usata.

opportuno/non opportuno, preferibile/sconsigliabile rispetto al più rigido e prescrittivo


corretto/scorretto

Il social#tagging

Il social tagging può interessare anche il contenuto di testi e manifestarsi in super cie,
come avviene per esempio con l’uso dei simboli @ e # in Twitter.

Dedichiamo allora alcune osservazioni all’uso del ‘marcatore cancelletto’ (questa la


traduzione dell’ingl. hashtag) e alle sue funzioni testuali.

A quanto pare il simbolo sarebbe stato utilizzato per la prima volta nel 2007. Si tratta di
un’innovazione nata dal basso, per favorire appunto la reperibilità di tutti i messaggi che
trattano lo stesso argomento, solo secondariamente accolta dai gestori del sistema come
strumento utile per facilitare l’indicizzazione dei contenuti.

Dal 1° giugno 2009 Twitter assegna automaticamente un collegamento ipertestuale a tutti i


messaggi che adoperano la medesima parola o espressione chiave preceduta dal
cancelletto, facilitandone il reperimento e rendendo possibile la ricerca per argomento. La
fortuna del simbolo è testimoniata dal fatto che il cancelletto si usa ormai anche in altri
ambienti digitali ed è addirittura uscito dalla rete: è frequente negli slogan pubblicitari e
politici visibili nei panorami urbani e nella conversazione viene mimato, sovrapponendo e
incrociando tra loro indice e medio delle due mani.

Accanto a quest’uso primario (marcatore di tema) l’hashtag sta assumendo ulteriori


funzioni, come il valore performativo e identitario che la stringa contenente il simbolo può
assumere quando è utilizzata per lanciare slogan, petizioni o campagne di opinione: si pensi
alla recente fortuna planetaria del movimento di opinione #metoo o agli slogan che ormai
accompagnano anche in Italia le campagne referendarie (nel referendum costituzionale
dell’autunno 2016 si sono fronteggiati in rete #iovotono e #bastaunsì) e politiche
(#andiamoagovernare e #senzadime nelle elezioni politiche del marzo 2018 e nella seguente
confusa fase politica).

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Può segnalare il rema dell’enunciato:

Altre volte serve da commento al messaggio

Queste innovazioni, apparentemente


marginali, sono particolarmente
rilevanti perché incidono sulle
convenzioni di strutturazione del testo.

Il testo lineare tende infatti a


evidenziare gli elementi di continuità e
di connessione tra le parti attraverso
meccanismi linguistici: l’uso dei pronomi e di tutti gli strumenti coesivi, i connettivi che
segnalano gli snodi testuali più rilevanti, la gerarchia della disposizione delle frasi entro
rapporti coordinativi e subordinativi, la concordanza dei tempi ecc.

Per ricorrere alla consueta metafora tessile che è alla base dell’etimologia stessa di testo
(dal lat. tĕxtus ‘tessuto’) abbiamo per millenni interiorizzato l’idea che un testo ben formato
sia un testo in cui gli elementi appaiono saldamente uniti tra loro come i li che
costituiscono la trama e l’ordito di un manufatto tessile. Insomma, un testo ben formato è
anche un testo in cui le componenti risultino ben cucite assieme.

I testi digitali stanno organizzandosi secondo principi diversi, anche tecnici.

La nozione di oggetto digitale, che si usa indi erentemente per riferirsi a testi, immagini,
basi di dati ecc. enfatizza il fatto che essi – a dispetto della diversità di super cie – sono in
ultima analisi “solo” delle di erenti sequenze numeriche.

Potremmo arrivare al punto in cui il testo digitale sarà esonerato dal possedere le
caratteristiche di coesione, gerarchizzazione e segnalazione della progressione tematica
interne che innervano il testo tradizionale in quanto queste funzioni sono (saranno)
parzialmente “esternalizzate”.

Se quanto si scrive viene tenuto insieme grazie a descrittori e catalogatori esterni (i tag) e ci
viene restituito a brandelli (snippet) dai motori di ricerca, ciò rende in qualche misura
super ui i tradizionali legami interni (coesione, progressione tema/rema) e esterni (deissi,
rapporto fra testo e contesto) così come sono stati costruiti e codi cati nel percorso di
evoluzione delle lingue.

La scrittura digitale favorisce insomma la trasformazione dei testi continui, in cui le parti
sono tenute insieme con elementi di raccordo linguistici, in database, in cui i rapporti tra le
parti è a data (anche) alla struttura profonda delle marcature.

La questione è se tale organizzazione si limiterà a rendere agevole dal punto di vista del
fruitore il reperimento dei dati oppure investirà (e in che misura) la produzione, cioè se il
testo non sarà solo “vestito” ex post, ma anche “concepito” ex ante seguendo la logica del
database.

Emoticon

Le piattaforme di comunicazione quasi sincrona come WhatsApp utilizzano un canale


preferibilmente (ma non esclusivamente) gra co per veicolare una comunicazione molto
simile all’oralità. Si tratta però sempre di simulazioni dello scambio conversazionale
primario, in quanto manca una caratteristica essenziale: la vicinanza sica degli
interlocutori, che consente di comunicare non solo con le parole ma anche col tono della
voce, la postura, i gesti, le espressioni del volto ecc.

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La simulazione può diventare sempre più realistica, ma simulazione rimane: per esempio in
WhatsApp il programma ci informa quando il nostro interlocutore sta scrivendo una risposta
al nostro messaggio per evitare la sovrapposizione di turni, oppure l’impiego di emoticon ed
emoji supplisce all’impossibilità di segnalare de visu l’atteggiamento verso il contenuto
proposizionale del messaggio.

L’impiego di questi sussidi iconici è interessante per due motivi:

1. costituiscono un tentativo di restituire alla parola la corporeità di cui è dotata nell’oralità.


Per questo nella gran parte dei casi rappresentano in forma stilizzata le parti del corpo
umano utilizzate in funzione semiotica;

2. costituiscono un secondo esempio, insieme all’uso dell’hashtag di cui ci siamo occupati


sopra, di come in alcuni ambienti della comunicazione digitale siano compresenti segni
appartenenti a codici semiotici diversi, usati in maniera semi- integrata con gli enunciati
linguistici.

Parlavamo prima di linguaggio del web, oltre che di lingua.

Possiamo distinguere tre livelli di progressiva integrazione delle emoticon nel corpo
dell’enunciato:

1. uso sostitutivo dell’enunciato verbale;

2. collocazione marginale nell’enunciato, all’inizio o alla ne, con funzione integrativa o di


commento;

3. collocazione interna all’enunciato, sostitutiva di parole o espressioni. Tre esempi!

Oltre alla funzione primaria (sostituire enunciati e esprimere emozioni), le emoticon


svolgono una funzione metadiscorsiva, cioè esplicitano l’atteggiamento dello scrivente nei
confronti del contenuto del messaggio (ironia, contentezza, perplessità, stupore).

Possono anche essere combinate e usate ludicamente come pittogrammi o ideogrammi,


eventualmente integrate con parole, come nei rebus. Quando si usano in combinazione, la
loro successione e disposizione contribuisce a determinare una sintassi e una semantica.

Il signi cato delle icone più usate è di solito sso, ma in alcuni casi può essere soggetto a
interpretazione individuale o a risemantizzazione: per es. in una chat prolungata nel tempo
tra amici l’uso ricorrente di determinate icone può portare a costruire una sorta di lessico
famigliare. Il fenomeno interessante è comunque che grazie alla modi cabilità del signi cato
le icone acquisiscono il tratto della vaghezza semantica, tipico del codice verbale.

Al polo estremo si trova non l’integrazione ma la sostituzione del linguaggio verbale con
quello iconico.

La brevità è un tratto costitutivo della scrittura digitale. Si pensi all’elogio della sintesi
ripetuto come un mantra nei manuali per la scrittura sul web e al limite di 140 caratteri
imposto no a poco tempo fa agli utenti di Twitter.

Il muro dei 140 caratteri è crollato, ma le scritture continuano a mostrare tratti di


brachilogicità e costruzione telegra ca, il ricorso a una sintassi tendenzialmente
monofrasale e a varie forme di parallelismo che favoriscono la possibilità di costrutti ellittici.

Quando il testo è troppo lungo, o se si preferisce non è “a misura di smartphone”, si creano


forme di censura sia “esterne” (in Facebook e in altri ambienti di comunicazione dopo
alcune righe il messaggio viene oscurato e occorre cliccare per leggerlo no in fondo) sia
interne, nel senso che l’autore si sforza di mantenere il messaggio entro le poche righe.

Se ciò non succede l’autore si sente in dovere di scusarsi e di invitare il lettore ad armarsi di
pazienza e a proseguire oltre l’oscuramento automatico imposto dal sistema.

Quando Alessandro Manzoni nella nzione narrativa che dà origine al suo romanzo si
chiedeva se i suoi lettori avrebbero resistito alla fatica della lettura dell’incomprensibile
manoscritto secentesco si riferiva a un testo di centinaia di pagine:

«Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e
gra ato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica
di leggerla?» (A. Manzoni, Promessi sposi, Introduzione).

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Roberto Saviano, in questo post su Facebook del 2016, sente il bisogno di un analogo
appello al lettore dopo appena quattro righe di prosa lineare (per la cronaca il sistema
oscurava il messaggio dopo l’ottava riga):

Secondo un articolo pubblicato dall’Independent nel maggio 2015, che sintetizzava i


risultati di uno studio condotto dalla Microsoft su un campione di circa 2000 persone, la
soglia di attenzione media di chi dedica molto tempo alla navigazione in rete è crollata dai
dodici secondi del 2000 ad appena otto secondi nel 2012, diventando così inferiore a quella
del pesce rosso.

La brevità delle scritture digitali è in stretta connessione con la loro frammentarieta e


dipendenza dal contesto. La possibilità tecnica di concepire il messaggio come un insieme
di blocchi spostabili, riassemblabili e modi cabili e la struttura stessa dell’ipertesto (ogni
oggetto digitale che riempie la pagina web è in rapporto con altri oggetti presenti sulla
stessa pagina o altrove nella rete) accentuano questa caratteristica.

Vediamo due esempi

Nel primo il testo è, per gli standard di Twitter,


piuttosto lungo e articolato

in più proposizioni, ma rimane non del tutto


comprensibile senza il link e l’hashtag a cui
rinvia.

Nell’esempio che segue invece, senza aver letto l’articolo a cui il tweet rinvia e senza
conoscere il signi cato dei topic segnalati dai cancelletti si può avere solo una vaga idea
del senso.

Torsioni così profonde della


testualità tradizionale hanno
indotto alcuni a mettere in
evidenza i limiti di questa
organizzazione del discorso.

Giuseppe Antonelli, giocando


sulla coppia ipertesto/ipotesto,
osserva: «ciò che rende
davvero diversi i testi digitati
dai testi scritti tradizionali è la

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loro frammentarietà. Non sono solo brevi, sono incompleti: singole battute di un testo molto
più ampio costituito dall’insieme del dialogo a distanza (che può passare
contemporaneamente per gli sms, le telefonate, le e-mail, le foto inviate, ecc.) [...]. Non
ipertesti, dunque, ma ipotesti (Antonelli 2016b: 14).

Secondo Ra aele Simone (2012: 124) «si tratta piuttosto di non testi: frasi brevi, storie,
citazioni, battute, barzellette, motti celebri, volgarità, commenti liberi e stupidaggini a
cascata».

Le analisi sintattiche dei messaggi postati sui social media mostrano risultati interessanti.

Per esempio sia in Twitter (in questo caso il dato è meno interessante perché la brevità è un
dato identitario) sia in Facebook i periodi sono prevalentemente monoproposizionali.

Ciò perché si usa il mezzo prevalentemente per esprimere stati d’animo, informare su un
avvenimento o commentarne lapidariamente un altro, rimandando eventualmente al di fuori
dell’ambiente di comunicazione per approfondimenti di maggior respiro.

Da uno studio di qualche anno fa risulta che la lunghezza media dei periodi postati su
Facebook è di 11,7 parole (Tavosanis 2011: 209).

Vediamo cosa succede in Facebook.

L’analisi della comunicazione di quattro personaggi politici (Angelino Alfano, Anna


Finocchiaro, Matteo Renzi, Giorgia Meloni) mostra che la lunghezza media dei periodi dei
loro messaggi è di 17,7 parole.

La di erenza col dato citato sopra riguardante Twitter (11,7) è dovuta sia al taglio tematico
speci co sia al fatto che la statistica in questo caso non include i commenti, in genere più
brevi.

Comunque sia, si tratta di una lunghezza molto inferiore a quella media del periodo nella
carta stampata (20-25 parole) e di poco inferiore a quella dei blog a carattere informativo
(19,4).

La costruzione di questi messaggi mostra la presenza dei fenomeni tipici della sintassi
segmentata, frequenti in particolare nel parlato (dislocazioni, frasi scisse, uso del c’e
presentativo). Questa presenza non va semplicemente letta come e etto del trasferimento
dell’oralità nella scrittura, bensì come ricorso a una modalità di costruzione dell’architettura
testuale che deve aiutare il lettore a distinguere le informazioni in primo piano da quelle
sullo sfondo.

L’orditura testuale tradizionale assolve a questo compito grazie a vari sussidi, tra cui la
verticalità sintattica del testo, il fatto cioè che nella frase complessa l’informazione in primo
piano tende a identi carsi con quella sintatticamente sovraordinata e le informazioni
accessorie con quelle subordinate.

Il testo digitale, che come abbiamo visto tende a non avere profondità sintattica e a
prediligere i periodi paratattici e tendenzialmente monoproposizionali, perde questo tipo di
verticalità e segnala l’importanza delle singole unità informative.

Dialogo (se e quando c’è)

Facebook: in pochi esempi cercheremo di sottolineare alcune caratteristiche ricorrenti.

- Cosi, tanto per ricordarvi a chi state per consegnare il ministero più importante, quello più
pericoloso. Questo sarà con ogni probabilità il ministro degli interni del governo 5 stelle/
Lega

- Una AI ha scritto un episodio di GoT, che è risultato molto buono. Il software usa l’analisi
predittiva per ricavare una storia utilizzando i precedenti copioni. Amici scrittori, avete i
minuti contati.

- Cosa ci manca, i disservizi gli abbiamo tutti, dove siete politici locali e regionali?
Mancanza di #Trasporto #pubblico #Anm #Ctp

Viabilità e Sicurezza stradale non sono commentabili.

Gestione del Comune dal Commissario del Prefetto no comment.

Probabile dissesto del Comune.

Abusivismo senza se e senza ma.

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Servizio prenotazioni Asl come si può vedere cattiva e mala gestione con le di attesa per
info e prenotazioni. Chi ha da aggiungere, si faccia avanti.

- Oggi questo bel cagnolone voleva farsi un giro nel pullman, poi ha preferito riposare ed
ora si trova a San Martino, sapete se qualcuno lo sta cercando?

- Vivamente consigliato ai golosi...

I testi sono di natura e argomento diversissimo, ma spesso includono un’allocuzione a chi


legge, un richiamo a una categoria di persone in particolare, richieste, inviti a partecipare o
a condividere, appelli, comizi, condivisioni di informazioni, pubblicizzazioni di eventi,
campagne, raccolte fondi, ecc.

Invettive e polemiche su temi disparati si accumulano sulle bacheche di tantissimi iscritti


costituendo quella forma comunicativa a cui si rischia di assuefarsi senza saperne creare –
in qualche caso – di alternative.

Questa lingua sciolta, ammiccante e vagamente impegnata a persuadere e pubblicizzare è


lo stile a cui Facebook ci sta abituando. Il popolo di Facebook, con di erenze legate al
livello di cultura e di istruzione di ciascun iscritto, dialoga continuamente con un lettore-
consumatore a volte identi cato, a volte generico, e lancia messaggi nella bottiglia.

Twitter evidenzia una scrittura dotata di «un’enorme densità informativa».

Le funzioni di questa scrittura possono essere varie (tweet con link, tweet tradizionale sul
proprio stato, tweet d’opinione, tweet d’intrattenimento, tweet di carattere interrogativo,
tweet multimediale), ma moltissimi tweet sono informativi e spesso rimandano ad altri
contenuti web mediante link (musica, video, articoli, pagine web, ecc.).

Il tweet può essere esplicativo e commentare il contenuto multimediale a cui rinvia


(assolvendo così la funzione originaria dei blog).

Ai tweet si può reagire:

a) rispondendo direttamente (e generando così un tweet);

b) retweettando (cioè facendo proprio il tweet dell’altro e inoltrandolo ai nostri follower);

c) aggiungendolo ai propri tweet preferiti; d) inviandolo via mail o incorporandolo in altra


pagina web.

La dialogicità in Twitter è evidente e la nascita delle convenzioni gra che per organizzare la
comunicazione ne è un segno. Si veda comunque qualche esempio che evidenzia chiare
somiglianze con lo stile di Facebook

La scrittura di un testo formale


Fino a questo momento la nostra attenzione si è concentrata sulla nozione di testo, sui due
principi della coerenza (di argomento) e della coesione (grammaticale e testuale).

Ma cosa si deve fare prima di mettersi a scrivere un composizione di un testo originale,


scritto dunque in assenza di un modello da rielaborare?

Nella composizione dei testi il metodo di lavoro prevede, schematicamente, tre fasi:

• 1. l’ideazione o il piano o progetto o scaletta;

• 2. la stesura;

• 3. la revisione.

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È importante ri ettere su ciò che si sta per scrivere, per chiarire anzitutto a sé stessi qual è
l’argomento; e si deve tener conto del lettore o dei lettori per cui scrive.

È utile buttar giù in forma di schema i passaggi principali dell’argomento. Si possono


scrivere i vari punti come vengono in mente, per associazione di idee, disponendo intorno a
un nucleo centrale (mappa o scaletta centrale) i diversi aspetti del problema, oppure
scrivendoli in forma di lista (mappa o scaletta a lista), senza preoccuparsi dell’ordine di
successione.

Lo scopo consiste nel formulare un’ipotesi di intelaiatura del testo da scrivere. La scaletta
aiuta a individuare gli argomenti (idee, fatti, esempi, aneddoti, esperienze da raccontare), e
collabora all’ideazione del testo. La scaletta può esser buttata giù senza troppe
preoccupazioni di ordine e forma.

L’ordine degli argomenti potrà essere migliorato dopo la fase ideativa, quando cioè chi si
prepara a scrivere ri ette sulla successione dei contenuti, su che cosa è meglio esprimere
prima e che cosa è meglio scrivere dopo. La scaletta, così riveduta, fornisce uno scheletro
utile alla distribuzione delle unità e sottounità del testo.

La scaletta, o progetto del testo, è solo un’ipotesi della stesura e ettiva: questa di erirà
anche di molto rispetto al punto di partenza, che sarà arricchito o corretto o tagliato nel
corso della scrittura. In ogni modo, la scaletta è una guida alla stesura. Può darsi che la
scaletta funzioni, e che il testo ne riproduca fedelmente le singole indicazioni e la rete
ipotizzata per collegarle.

Più spesso accade che, nel passaggio dallo schema al concreto della scrittura, nuove idee
vengano alla mente, e che ci si allontani dall’ipotesi iniziale. Ma anche in questo caso la
scaletta è utile: se, scrivendo, s’individuano soluzioni migliori di quelle considerate in un
primo momento, e si giunge a un risultato imprevisto, ciò avviene anche perché si
disponeva di una base di partenza.

Il testo modi ca e migliora la scaletta, ma questa permette di avviarne concretamente la


costruzione. Scrivere un testo, impegnativo o leggero, breve o lungo, è una fatica; e una
delle ricompense che spingono ad a rontarla consiste proprio nella scoperta di connessioni
e conseguenze che non si erano viste neanche dopo una lunga ri essione, e che si rivelano
nel momento in cui si scrive.

Un altro vantaggio della scaletta è, secondo alcuni, che nella stesura del testo si è spesso
insoddisfatti di ciò che si scrive. L’autocritica è sana, ma se è eccessiva porta a una specie
di inibizione che impedisce ai pensieri di prendere forma compiuta.

La scaletta, buttata giù liberamente, ha l’e etto rassicurante di fornire un tracciato


d’insieme, e nello stesso tempo di isolare le fasi del discorso permettendo di a rontarle una
per una.

Quindi, la scaletta è parte di quella progettazione che deve essere alla base di un testo, è
un momento intermedio importante tra la ri essione puramente mentale e la stesura di un
testo compiuto.

Quindi:

1.stesura di una scaletta (che riporti tutte le idee che vengono in mente alla rinfusa
sull’argomento indicato nel titolo),

2.la riorganizzazione delle informazioni e il loro raggiungimento, e

3.la disposizione gerarchica delle stesse secondo il criterio che riterremo più opportuna.

Rimane da de nire come scrivere quanto abbiamo abbozzato

Stesura

È bene entrare direttamente nel cuore dell’argomento, insieme con l’informazione


principale.

Dopo avere scritto l’inizio, si aggiungeranno le informazioni contenute nella nostra scaletta
e raggruppate secondo l’ordine dato dopo la composizione della scaletta.

Bisognerà allora, dal momento che le informazioni sono già state pensate, selezionate e
gerarchizzate, stare attenti alla combinazione dei singoli elementi, dei periodi e del testo nel
suo insieme, ricordando che il testo che stiamo scrivendo dovrà essere scandito secondo
un inizio, un centro e una conclusione.

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Il terzo momento, la revisione, è forse il più di cile, e certo il più trascurato: terminato il
testo, tendiamo a liberarcene. Invece vale il consiglio che funziona per tutti i testi: rileggersi
e correggersi. Correggersi non solo per rimediare a errori linguistici o ortogra ci, ma per
valutare se il testo è scritto (cioè pensato) bene, se è chiaro, se mira all’essenziale, se il
tono è giusto.

Rileggersi a caldo, subito dopo la stesura, non ci permette di capire se quanto si è scritto
sia e cace e appropriato. È molto meglio far passare qualche ora, o piuttosto riprenderlo in
mano il giorno dopo: un po’ di intervallo temporale aiuta a guardare il testo in modo più
distaccato.

L’ideale sarebbe riuscire a leggere il testo come se fosse stato scritto da un altro, e anche
mettersi mentalmente nei panni del destinatario. Questa operazione deve stabilire se
l’argomento è stato centrato bene, se il nostro punto di vista e l’azione che eventualmente
suggeriamo sono espresse chiaramente e senza lungaggini inutili, se il tono è quello adatto.

Si può provare anche una lettura ad alta voce: la lettura ad alta voce rivela molti aspetti del
testo che non si notano nella lettura silenziosa

Le tre fasi di composizione del testo (ideazione- stesura-revisione) ra gurano il processo


dello scrivere in modo schematico. Infatti, soprattutto con l’esperienza, quei tre momenti
nello scrivere s’intrecciano e si sovrappongono.

Migliorare la coesione

L’estate scorsa sono stata al mare. Al mare ho conosciuto molti ragazzi simpatici. Con
questi ragazzi sono rimasto in contatto.

L’aereo per Londra parte alle 9.35 e arriva a Londra alle 11.40; se non facciamo presto
perderemo l’aereo.

La prima guerra mondiale scoppiò nel 1914. La prima guerra mondiale durò no al 1918.
L’Italia prese parte alla prima guerra mondiale solo nel 1915.

Riformulare i periodi presenti in un unico testo coeso

La relazione tra consumatore e tecnologia è stata de nita Technology Readiness. La


relazione è l’insieme dei sentimenti che una persona prova nei confronti di una tecnologia.

Negli anni Novanta è nato l’uso commerciale del web. Nella seconda metà degli anni
Novanta le previsioni concordavano

Eliminare le ripetizioni e dare coesione al testo

Il Bengala è l’unico gatto ad avere una pezzatura simile a quella del leopardo. Il Bangala è
frutto di una selezione genetica condotta in laboratorio. Il Bengala mantiene le movenze
predatorie dei suoi predecessori, i leopardi asiatici. Il Bengala è molto a ettuoso.

Riformulare i periodi presenti in un unico testo coeso:

• a) Nel corso dei secoli si [susseguire] un paio di generazioni di lotte continue. Le lotte
davano al soldato tangibili pro tti in forma di bottino e di terra.

• ______________________________________ _________________________________

Benedetto Croce
I. Ciò che non si troverà e ciò che si troverà in queste pagine

[I] Sono entrato nell’ultimo anno del decimo lustro, e mi giova, nella pausa ideale indetta nel
mio spirito da questa data, guardare indietro al cammino percorso e cercar di spingere lo
sguardo su quello che mi conviene percorrere negli anni di operosità che ancora mi
resteranno.

[II] Ma io non traccerò né c o n f e s s i o n i , né r i c o r d i , né m e m o r i e della mia


vita.

[III] C o n f e s s i o n i , ossia esame morale di me stesso, no, perché quanto stimo utile
confessarsi in ogni istante, cioè procurare chiarezza a sé stessi nell’atto dell’operare,
altrettanto mi pare inutile esercitare un giudizio universale sulla propria vita. Rimosso l’unico
ne di riconoscersi degni o indegni del paradiso e del purgatorio, queste confessioni
generali non vedo a che cosa servano, se non forse alla vanità dell’individuo: vanità, o che
l’individuo si compiaccia di sé medesimo, o che si accusi e condanni e gema, perché in
ambo i casi egli si reputa cosa troppo più importante che in e etto non sia. Inoltre, quando
si tenta di rispondere con iscrupolosa coscienza alla domanda se si sia stato buono o
cattivo, si avverte presto di aver posto piede sopra un terreno in do; perché, nel

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pronunziare un giudizio di quella sorta, si pencola sempre nella duplice opposta vicenda
dell’adularsi o del calunniarsi. E tale impaccio nasce dalla ragione già assegnata: che
l’individuo è poca cosa per sé, fuori del tutto, onde non solo gli altri ma esso stesso
dimentica la maggior parte degli atti da lui compiuti e dei sentimenti che li mossero; e nello
sforzo di raccoglierli e comporli come in un quadro, facile è che li colorisca alla luce del suo
sentire presente, favorevolmente o sfavorevolmente disposto, formandone una immagine
fantastica, che si confonde poi o si disfà innanzi ai dubbî dell’autocritica, sicché si resta in
ultimo col non sapere quel che si debba propriamente pensare.

[IV] E r i c o r d i nemmeno, perché il passato mi riempie bensì di a etti e di malinconia, ma


io non terrei lecito di mettere questi miei sentimenti sulla carta se non nel caso che mi
presumessi poeta, ossia che quei sentimenti formassero centro di attrattiva del mio essere
e oggetto delle mie migliori virtù spirituali. E certamente il passato mi fa sovente sognare;
ma di brevi e rapidi sogni, presto ricacciati indietro dalle necessità del mio lavoro, che non è
di poeta. Se dunque mi v’indugiassi, se dessi a quei ricordi, ai quali bastano i taciti colloquî
interiori, forma di scritto o di discorso ad altri, ricadrei nel caso precedente delle vane e
vanitose confessioni, e andrei incontro al meritato fastidio che suole suscitare chi pretenda
interessare altrui ai casi proprî, ossia alla propria transeunte individualità.

[V] E, in ne, non m e m o r i e , perché le memorie sono cronache della nostra vita e di
quella degli uomini coi quali abbiamo collaborato o che sono stati da noi osservati e
conosciuti, e degli avvenimenti ai quali abbiamo partecipato; e si scrivono quando si reputa
di poter serbare ai posteri alcune importanti notizie che altrimenti andrebbero perdute. Ma
la cronaca della mia vita, in ciò che può presentare di ricordevole, è tutta nella cronologia e
nella bibliogra a dei miei lavori letterarî; e, non avendo partecipato né da attore né da
testimone ad avvenimenti di altra sorta, non ho nulla o ben poco da dire sugli uomini da me
conosciuti o sulle cose che ho viste.

[VI] Che cosa scriverò, dunque, se non scriverò né confessioni, né ricordi, né memorie? Mi
proverò semplicemente ad abbozzare la c r i t i c a , e perciò la s t o r i a di me stesso,
ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho contribuito al lavoro comune: la storia
della mia «vocazione» o «missione». Delle quali parole ho già temperato quel che possono
avere di altisonante, col notare che ogni uomo conferisce al lavoro comune, ogni uomo ha
la propria vocazione o missione, e può farne la storia; quantunque certamente, se avessi
atteso solo alle mie faccende private e al governo della famiglia, o, peggio, ad adempiere la
poco degna missione del gaudente, non starei ora a prender la penna per raccontarmi.

[VII] Perché, insomma, io che ho composto tanti saggi critico-storici intorno a scrittori così
contemporanei come remoti, procurando d’intendere di ciascuno il carattere e lo
svolgimento e discernere quel che ciascuno aveva di proprio ed originale, non comporrò un
s a g g i o s u m e s t e s s o ? È qui pronta la risposta: – Lascia che di te parlino gli altri. –
E certamente lascio che ne parlino, quando lor piace; ma perché ne parlino con migliore
informazione e maggiore esattezza, e magari con meglio istrutta severità, dirò loro anche
quello che so dell’opera mia, persuaso che, nel dir questo, fornirò alcune osservazioni che
assai probabilmente a loro sfuggirebbero o che ritroverebbero con di coltà, quantunque
senza dubbio a me ne sfuggiranno altre, che essi ben sapranno cogliere.

[VIII] Soprattutto, non sarò in grado di dare di me stesso giudizio sotto un aspetto che s u p
e r i m e s t e s s o , perché, com’è chiaro, posso bensì giudicare il mio passato dal
presente, ma non il mio presente dall’avvenire. Donde anche l’inevitabile colorito, che
prenderanno alcune di queste pagine, di apologia o giusti cazione dell’opera, quale che sia,
da me compiuta; inevitabile, perché, se anche ora la condannassi in nome di una nuova
coscienza in me sorta, sempre la condannerei dal presente, e con ciò stesso verrei in
qualche modo a giusti care e consacrare il passato, cioè gli atti e le esperienze che mi
hanno condotto al migliore presente. Non si attribuisca, dunque, a consiglio di amor proprio
quello che è intrinseca e logica necessità dell’assunto.

Dal Contributo alla critica di me stesso (1915) di Benedetto Croce. Capitolo I.

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