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1 SLIDE Tullio De Mauro è stato un linguista e filosofo del linguaggio italiano di

grande spessore e uno dei più influenti degli ultimi decenni.


Ha insegnato Linguistica generale e diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio
nella Facoltà di Filosofia e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici
Linguistici e Letterari nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza
di Roma. Allievo del linguista e glottologo Antonino Pagliaro, ha insegnato a vario
titolo in diverse altre università italiane (Napoli “L’Orientale”, Palermo, Chieti,
Salerno) dal 1957. Ha tradotto il Corso di linguistica generale (Cours de linguistique
générale) di Ferdinand de Saussure. Ha presieduto la Società di Linguistica Italiana
(1969-73) e la Società di Filosofia del Linguaggio (1995-97).
La seconda data è il 1967: Tullio De Mauro è il primo vincitore in Italia di una
cattedra di Linguistica generale.
Vita politica 1975 viene eletto al Consiglio regionale del Lazio, nel 76 viene
nominato assessore alla cultura. E dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica
Istruzione nel Governo Amato II. (?)
SLIDE 2, pensiero
In particolare, possiamo individuare, nella molteplicità degli interessi e degli
approcci di Tullio De Mauro, due capisaldi:
- l’indagine linguistica va collocata sempre entro il quadro ‘semiologico’ dei fatti di
comunicazione, dei rapporti fra oralità e scrittura, fra mondo verbale e linguaggi
segnati e non verbali; e infine, del linguaggio umano nell’insieme dei fenomeni che
chiamiamo simbolici.
- I fatti linguistici non sono separabili dal quadro geografico, storico e sociale nel
quale si innestano. Ogni fatto di lingua va cioè contestualizzato. A questo proposito
è molto interessante notare come questo aspetto della speculazione di De Mauro si
opponga ad uno dei concetti fondamentali del Cour di Saussure, così come vengono
elaborati nel Cours quando quest’ultimo parla di LINGUISTICA ESTERNA riferendosi
a tutto ciò che, per l’appunto, è esterno alla lingua stessa come collocazione
geografica, storica e LINGUISTICA INTERNA secondo cui la langue può essere
studiata in se stessa indipendentemente dalla società e dalla storia e può ignorare
alcune cose che non sono interne perché non intaccano il sistema della lingua
funzionamento ed evoluzione di una lingua. Per contrapporsi a questa visione, De
Mauro si definì un esternalista con lo scopo di rivendicare l’aspetto determinante
degli elementi esterni.
Ma è stato militante anche perché ci ha insegnato instancabilmente a vedere il
parlante dietro a ogni parola e a capire che ogni disagio linguistico manifesta un
disagio sociale e che per dare a tutti le stesse opportunità linguistiche occorre agire
non sulla lingua, ma sulle condizioni di vita di chi parla una lingua.

Il nome e il lavoro di Tullio De Mauro sono inestricabilmente legati a quelli di


Ferdinand de Saussure. La sua edizione critica del Cours (1967), tradotta in più
lingue, è stata uno strumento indispensabile per afferrare la forza del pensiero
saussuriano e per garantire ricchezza di documentazione ai materiali sistemati e
redatti, fin dal 1916, dagli allievi del linguista svizzero Charles Bally e Albert
Sechehaye. Dopo la ricerca di Robert Godel e Rudolf Engler, il lavoro di Tullio De
Mauro è stato uno dei più influenti per la filosofia del linguaggio dell’ultimo secolo.

(Inoltre, l’atto di PAROLE è un atto individuale e di volontà del parlante VS la LANGUE è un’astrazione
fondata su una collettività. Non è soggetta alla volontà del parlante. Saussure paragona la parole
all’esecuzioni di una sinfonia che sono tutte un po’ diverse tra loro, mentre la sinfonia è la langue. Un’altra
metafora utilizzata da Saussure è quella del gioco degli scacchi: ci sono dei fatti materiali che io posso
modificare durante il gioco e ciò non apporta modifiche al gioco stesso (se sostuisco la regina con una di
plastica x es) anche nella lingua ci sono cose che si possono descrivere, MA che non cambiano la lingua. )

INTERVISTA TULLIO DE MAURO: IL PENSIERO DI SAUSSURE


-
- L’INCONTRO TRA DE MAURO E SAUSSURE.
- Nella prima parte dell’intervista Tullio De Mauro delinea quello che è stato il
percorso che gli ha permesso di conoscere il pensiero di Saussure. L’intervista
si apre, infatti, con il racconto da parte di De Mauro dei suoi primi incontri col
pensiero saussuriano.
1. Un primo incontro  Ho raccontato già più di una volta che per chi studiava all’Università di Roma
Glottologia, dagli anni Quaranta fino ai Sessanta, l’incontro con il professore che all’epoca teneva
quest’insegnamento, Antonino Pagliaro, comportava fin da i primi minuti di lezione l’evocazione
del nome di Saussure e delle sue nozioni di langue, langage e parole, di sincronia e diacronia.
Pagliaro, che parlava normalmente in piedi, immobile, usava però rompere l’immobilità per servirsi
della lavagna e si volgeva verso essa, tracciando gli assi che ammiravamo molto, l’asse della
sincronia orizzontale e l’asse della diacronia. E quindi questo nome, per noi che studiavamo e
ascoltavamo le lezioni, era abbastanza ovvio, sin dall’inizio. Devo dire, come sa chi conosce la storia
della cultura linguistica italiana, che la cosa era non comune in Italia e, per la verità, anche nel resto
d’Europa; questo per motivi diversi, di persistente estraneità al Cours e alla linguistica saussuriana
in Germania, e per un affiochimento della presenza di Saussure nella stessa tradizione francese, per
tutti gli anni Cinquanta, fino all’inizio degli anni Sessanta. In Italia era inconsueto questo richiamo
dato da Pagliaro come ovvio, il «distinto glottologo ginevrino» veniva chiamato, qualche volta, per
non ripetere il nome di Saussure. Questo è stato il primo incontro, che ha determinato poi andare a
cercare il Cours e leggerlo, a capirci qualche cosa.

Un secondo incontro  A rafforzare questo incontro c’era l’insegnamento di un altro linguista meno noto,
morto prematuramente, e rimasto all’ombra di Pagliaro: si chiamava Mario Lucidi. Era una persona di
ingegno assolutamente straordinario, fuori dal comune, non solo eccellente linguista, ma anche
matematico, logico. Lucidi aveva scritto un notevole saggio sulla nozione di arbitraire du signe: già in questo
lavoro dei primissimi anni Cinquanta, e poi soprattutto nelle conversazioni, sosteneva quella che sembrava
allora una tesi molto paradossale, strana, comunque isolata. Sosteneva cioè che, in alcuni passi celebri nella
discussione sull’arbitrarietà del segno che si leggono nel Cours, gli editori dovevano avere equivocato le
parole di Saussure. Insomma, poneva un problema di revisione del testo e di ritorno alle fonti. E ricordo la
sua gioia quando arrivò in Istituto, nel 1957, una copia del libro, fondamentale tuttora, di Robert Godel, Le
fonti manoscritte del Corso di Saussure. Libro che, pur con grandi cautele, rispondeva al bisogno di
verificare, sugli appunti degli alunni che gli editori del Cours avevano avuto sotto gli occhi, la bontà del
lavoro editoriale e avanzava qualche dubbio su alcune mancanze di riscontri precisi. Quindi le conversazioni
con Lucidi sono state per me un secondo incontro.

2. Verso la traduzione del CourL’immagine che avevo in quegli anni di Saussure era quella vulgata tra chi
in Europa e negli Stati Uniti si ricordava di Saussure. L’immagine di un linguista che insiste sul primato della
langue rispetto alla parole, punto di vista che a me sembrava criticabile, perché accettavo le critiche fatte
da Pagliaro. Ancora, nel 1963, mi è capitato di scrivere in Storia linguistica dell’Italia unita, che bisognava
ribaltare questo punto di vista saussuriano: la lingua che schiaccia chi la usa, gli utenti della lingua
marginalizzati. Questo era quello che si pensava e si diceva, e si è in parte continuato a dire, ma sappiamo
che non era questo, anzi, diciamo che, francamente, era l’opposto del punto di vista reale di Saussure. Del
resto sarebbe bastata una lettura più attenta dello stesso testo tradizionale del Cours per rendersi conto
della cosa. Ma l’ipnosi dell’immagine di un Saussure teorico del sistema e, in nome di questo, disattento al
ruolo della parola e degli utenti, era fortissima.

Forse avrei conservato ancora a lungo questa subalternità ipnotica all’immagine vulgata di Saussure se, per
fortunate contingenze, non mi fossi messo all’opera per tradurre e commentare in italiano il Corso di
linguistica generale. Fortunate contingenze, voglio ricordarlo ancora una volta, perché in una fase in cui
sembrava, agli editori più attenti, interessante pubblicare libri di linguistica, dalla casa editrice Laterza mi fu
proposto di pubblicare una traduzione del Cours. Io, a mia vergogna, risposi all’inizio sdegnosamente,
dicendo che “chiunque ‒ ricordo di aver affermato ‒ in Italia si occupa di linguistica legge e pratica già il
Cours”. Lì per lì l’editore Vito Laterza mi dette credito, però, dopo qualche settimana, insieme al suo
direttore editoriale dell’epoca, che si chiamava Donato Barbone, tornò sventolandomi la letterina
dell’editore Payot. Laterza non si era fidata della mia perentoria affermazione e aveva chiesto a Payot
qual’era stata ed era la diffusione in Italia del Cours. In quegli stessi anni, i primi Sessanta, ricomincia in
Francia la fortuna editoriale del testo saussuriano, che aveva avuto un lungo languore, grazie alle
discussioni, anche contese, tra Martinet, Benveniste e Jakobson, che riaccendono l’interesse per il linguista
ginevrino. Payot aveva fatto la sua brava indagine e aveva risposto che il Cours in Italia aveva venduto poco
più di una dozzina di copie, tra la riedizione del 1922 e gli anni Sessanta. Questo spinse l’editore Laterza a
reinvitarmi a tradurre e a commentare il Cours. A questo punto, per sue ragioni di latinista e di studioso,
Robert Godel, che era venuto all’Istituto Svizzero di Roma per un periodo di studi, mi cercò, e io gli dissi che
avevo questo impegno, e Godel stesso mi offrì la possibilità di contattare Rudolf Engler che stava
preparando la sua edizione critica. Engler, con una generosità di cui non gli sarò mai abbastanza grato, mi
mise a disposizione le bozze dell’intera edizione critica. Quindi ho potuto lavorare già disponendo
dell’edizione Engler, e mettendola a frutto, anche grazie alle conversazioni con Godel, con Engler e con altri
studiosi ginevrini e svizzeri dell’epoca, ho potuto orientarmi completamente, credo, nell’avvicinarmi al
pensiero di Saussure. Ho finito il mio lavoro saussuriano nel 1967 e questo è stato l’inizio di un rapporto
continuo col pensiero saussuriano.

Un mio alunno molto bravo, Giuseppe D’Ottavi, mi ha chiesto di recente se io non metto troppo De Mauro
in Saussure. Non credo. Invece certamente mi piacerebbe che ci fosse molto Saussure nelle cose meno
indecorose che mi capita di scrivere. Credo che non ci sia, nella linguistica, autore al quale mi capiti di
tornare così spesso per cercare di capire qualche punto del suo mobile pensiero. Tra i non linguisti, in senso
stretto, certo ci sono altri, a cominciare da Wittgenstein. Per continuare, naturalmente, col mio professore
e linguista Pagliaro, ma devo confessare che torno più spesso sulle pagine di Saussure e, forse, anche su
quelle di Wittgenstein che non su quelle di Pagliaro.

Oggi il pensiero di Saussure riconquista una attualità ancora più efficace e potente, perché…..

Credo che i cambiamenti di atteggiamento o, come pomposamente si potrebbe dire, di paradigma negli
studi sul e del linguaggio, siano importanti; come l’emergere di orientamenti diversi nella corporazione dei
linguisti. Ma, nella loro lunga storia, gli studi linguistici sono debitori più che a soprassalti endogeni, ai
grandi mutamenti, alle grandi spinte che vengono dalla vita delle società e dalle culture intellettuali
complessive che si sprigionano da esse. Ricordo e ribadisco questo punto di vista, che mi permetto di avere
perché ho l’impressione che Saussure possa insegnare molto più oggi che in passato, in un passato
immediato. Perché? La forza degli eventi ha costretto, negli ultimi anni, i linguisti a ripensare un’idea che
avevano in testa, quella di un doppio monolitismo: monolitismo del rapporto tra lingue e paesi del mondo;
monolitismo della lingua in se stessa.

Si può documentare, guardando i repertori delle lingue del mondo degli anni Sessanta e Settanta, che per i
linguisti era pacifico che in ogni paese ci fosse una lingua e una sola. Con l’eccezione della Svizzera. Insieme
alle vacche, agli orologi, alle banche, la Svizzera si contrassegnava per questa stranezza di avere più di una
lingua. Caso strano, ma isolato. Non solo la produzione di un grande repertorio col sistema wiki, e quindi
con largo apporto e collaborazione di Ethnologue, ha cambiato le cose. Ethnologue è stato possibile perché
le cose stavano cambiando, perché nella realtà, per tanti motivi, da rivendicazioni di natura politica e civile
dei diritti delle minoranze, a tanti altri fenomeni oggettivi, era ormai chiaro che i paesi in cui si realizzava
quella strana idea che avevano i linguisti (ad ogni paese una lingua, ad ogni lingua un paese) erano
un’eccezione minoritaria e che la norma vedeva in ogni paese del mondo la compresenza di numerose
lingue native. Insisto su questo, perché la grande ondata migratoria che si sta verificando in tutti i paesi del
Nord del mondo, proveniente dal Sud del pianeta, sta portando ovunque una grande quantità di lingue non
native diverse. E questo è sotto gli occhi di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutti che in ogni paese, non
solo in Svizzera, ci sono tante lingue nel senso ampio del termine e anche nel senso restrittivo, di lingue
scritte, non solo di dialetti o dialettacci, come qualcuno qualche anno fa diceva. Insomma, è la realtà del
multilinguismo che si impone. Una realtà ovvia, se appunto consideriamo che oggi le lingue vive del mondo,
censite da Ethnologue, sono arrivate ormai a quasi 7.000 e che i paesi che hanno un seggio alle Nazioni
Unite sono poco più di 200. Basta fare un conto per rendersi conto che qualsiasi paese ha in sé mediamente
una trentina di lingue diverse. Certo, molte di queste sono dialetti, ma sappiamo che sono oltre 2.500 le
lingue anche scritte, che hanno solidità e dignità non inferiore alle grandi lingue di circolazione
internazionale.

Dunque, abbiamo il multilinguismo da una parte e dall’altra abbiamo gli esiti dello strutturalismo e la forma
estrema che lo strutturalismo ha assunto( da questo punto di vista condivido il punto di vista di Giulio
lepski)
La forma estrema che, a mio avviso, è stato il generativismo chomschiano  gli esiti di queste
posizioni(strutturalismo classico e generativismo) hanno prodotto una grande quantità di descrizioni di
lingue e noi dobbiamo a questo paradossalmente la percezione sempre più accentuata del carattere
tutt’altro che strutturale e generativo delle lingue.

Ciò che è andato in crisi non è solo l’idea che ogni paese ha una lingua e una sola, ma anche l’idea che una
lingua sia qualcosa di monolitico e di chiuso. Vediamo oggi, abbastanza diffusamente, e siamo in grado di
darne conto, fenomeni di oscillazione continua nell’uso linguistico. Ci aiuta naturalmente, da qualche anno,
lo sviluppo delle tecnologie. I linguisti, cinquanta anni fa, quando io oramai senescente cominciavo a
studiare, avevano a disposizione fondamentalmente documenti scritti. Certo potevamo andare in giro a
raccogliere l’uso parlato trascrivendolo, filtrandolo attraverso faticose trascrizioni. Insomma il mondo del
parlato era un mondo magari vagheggiato, idoleggiato nelle prefazioni o nell’ideologia, ma in realtà la
documentazione che avevamo era scritta, di tutte le lingue. Oggi ci aiuta molto la tecnologia che ci mette a
disposizioni fiumi di documentazione del parlato. Per lo scritto ci aiuta naturalmente Internet, con masse
sterminate di documenti per ogni lingua, per verificare, anche nello scritto, ciò che il parlato rivela in modo
sfacciato e impudico: la natura oscillante, di campo di battaglia, tra tendenze opposte di ciò che diciamo
una lingua. In altre parole ciò che chiamavamo una lingua, e i vecchi vedevano come qualcosa di
monolitico, oggi tendiamo a vederla come la vedevano Hugo Schuchardt e Ferdinand de Saussure tra fine
Ottocento e i primi anni del Novecento.

Se torniamo agli appunti più che al Cours, ma anche leggendo queste luci nuove che ci vengono dalla
contemporaneità dei fatti linguistici, non dei fatti della linguistica, altrettanto, leggendo nuovamente il
Cours come ci è stato consegnato dagli editori, emerge come Saussure dica ripetutamente che ciò che
chiamiamo una lingua è un traguardo verso cui convergono o possono convergere in modo mutevole e
contraddittorio i parlanti. La lingua è la sedimentazione idealizzata o idealizzabile di bisogni espressivi che
animano le parole e l’esprimersi degli essere umani concreti. Specialmente nelle lezioni del III corso,
Saussure è molto esplicito su questo punto, sulla natura di equilibrio instabile temporaneo che si realizza
nell’incontro-scontro tra le tendenze che guidano i parlanti nel loro esprimersi e nel loro comprendere. E
spiega anche bene che le lingue scritte, per tanti motivi, possono mascherare in parte la natura
continuamente oscillante dei punti d’incontro, dei traguardi, cui tende l’uso dei parlanti effettivi di una
comunità. Possono dare un’impressione di stabilità, nello spazio e attraverso il tempo. Ma questa
impressione di stabilità è illusoria, è come il ghiaccio sopra un corso d’acqua, sotto c’è il fiume che scorre.
L’uso mutevole, impetuoso e sempre diverso, dei parlanti, sta sotto la crosta di ghiaccio apparentemente
stabile dell’uso scritto e ogni tanto non possono esserci altro che frane, che agli occhi dello storico dei fatti
linguistici si presentano come improvvise e impreviste, laddove nell’uso erano già andate maturando le
condizioni che soltanto poi vediamo emergere nelle lingue scritte.

Questa visione di Saussure, la lingua come limite verso cui convergono gli usi concreti dei parlanti, mi pare
possa servire oggi come bussola per orientarci in ciò che sta accadendo nelle realtà linguistiche di tutti i
paesi del mondo. Mi pare possa rivelarsi, cioè, una bussola utile, molto più della obsoleta immagine della
lingua monolitica, della lingua algebra-immobile che ci consegnava lo strutturalismo classico, in buona
parte, e il generativismo del giovane Chomsky e dei chomskiani degli anni Sessanta e Settanta del
Novecento. In parte, anche per merito del loro sforzo di dare conto della lingua come un’aritmetica, tutte le
eccezioni a questa visione sono venute in primo piano e credo siano sotto gli occhi di molti linguisti. Emerge
così la necessità di una linguistica che sia in grado di aprirsi molto di più alla molteplicità di lingue
coesistenti e ai fenomeni di oscillazioni che si accentuano per questa coesistenza.
Per concludere: Saussure può parlare, oggi, a chi vuole aprirsi alla descrizione e all’analisi dei fatti linguistici,
più di quanto non potesse farlo in passato. La lettura di Saussure, secondo cui la langue come sistema
finisce per schiacciare i parlanti, è perciò falsa rispetto ai testi saussuriani che sempre meglio abbiamo
esplorato in questi ultimi Cinquanta anni. Ci si può chiedere perfino se tale vulgata non abbia potuto
sussistere perché faceva corpo con la visione della lingua come monolite. Oggi quella visione della lingua
non l’abbiamo più, sempre di meno fa presa su chi si occupa di linguistica e, quindi, si dischiude una nuova
stagione per la lettura e l’uso del Corso di linguistica generale.

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