5
Un’Antigone in abito da sera (Anhouil) .................................................... 42
Non è un paese per giovani ......................................................................... 46
Le due Antigoni (ancora Brecht contro Anhouil) ..................................... 48
Una questione di virgole. Ancora Brecht e Sofocle a confronto
(Walter Jens, 1958-1978) .............................................................................. 50
Sofocle e Brecht. Un dialogo ..................................................................... 52
ANTIGONE NELLA RIVOLUZIONE ................................................................. 67
Novembre 1918 di Alfred Döblin ............................................................... 67
‘Mostruoso è l’uomo’ . .................................................................................. 67
Ritorno a Berlino ........................................................................................... 68
La maledizione dei padri ............................................................................ 69
Dalla parte di Creonte .................................................................................. 70
Seguire il cuore ............................................................................................. 71
Onorare i comandamenti ............................................................................. 73
Fuori dai libri ................................................................................................. 74
Antigone ed il principe di Homburg .......................................................... 75
Il nocciolo della tragedia .............................................................................. 76
Nel mezzo della vita.… ................................................................................ 78
La colpa di Antigone .................................................................................... 79
Un eroe senza medaglie ............................................................................... 80
L’invincibile Eros .......................................................................................... 81
La tragedia precipita ..................................................................................... 81
Le cose si urtano duramente nello spazio .................................................. 83
Tra i rivoluzionari ........................................................................................ 84
Antigone e Rosa Luxemburg ....................................................................... 86
Antigone tra teologia e filosofia ................................................................. 89
Antigone cristiana ......................................................................................... 91
Karl Reinhardt .............................................................................................. 92
Heinrich Weinstock ..................................................................................... 93
Antigone in fondo alla Sprea ....................................................................... 96
L’Antigone di Elisabeth Langgässer (1947) ............................................... 96
La fedele Antigone ..................................................................................... 96
Rimettere i peccati ......................................................................................... 99
ANTIGONE SENZA OBLIO ............................................................................ 105
‘Sono ancora tra noi’. L’Antigone di Claus Hubalek (1961) .................. 105
6
Un’Antigone scomoda ................................................................................ 113
L’Antigone di Berlino (Rolf Hochhuth, 1963) ......................................... 115
Antigone davanti al ‘tribunale del popolo’ ............................................. 115
Un’Antigone a metà .................................................................................... 119
Antigone dall’altra parte del muro. Fritz Rudolph Fries, 1975 ............. 120
La bomba ad orologeria ............................................................................. 122
ANTIGONE AD AUSCHWITZ ........................................................................ 127
Tra i resistenti slovacchi: Peter Karvaš (1962) ......................................... 127
‘Antigone e gli altri’ .................................................................................... 127
Antigone con la stella rossa dei ‘politici’ ................................................. 131
Charlotte Delbo e la letteratura come ragione di sopravvivenza ......... 135
La grandezza di Antigone ......................................................................... 137
‘Tutto quello che – il cuore di una donna può sopportare’ ................... 139
ANTIGONE NEGLI ‘ANNI DI PIOMBO’ ......................................................... 141
Dell’onore dei morti. Antigone nell’autunno tedesco ............................ 141
L’Antigone rinviata .................................................................................. 143
L’autunno della ragione ............................................................................. 146
Creonte in televisione ................................................................................. 147
Quale sarà il prossimo potere? .................................................................. 148
Brecht e Böll ................................................................................................. 150
Le Antigoni di Grete Weil .......................................................................... 151
Antigone nel 1979 ....................................................................................... 153
‘Non dimenticate, raccontate, scrivete!’ ................................................... 154
Antigone venuta da lontano ...................................................................... 155
Quale amore? ............................................................................................... 156
Sorella e nemica ........................................................................................... 157
Come il mondo si frantuma. Eppure, la vita… ....................................... 158
Perché non vi siete difesi? .......................................................................... 163
Dire sì ........................................................................................................ 164
Ancora una volta Antigone ........................................................................... 166
Antigone presente/assente ........................................................................ 168
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE .............................................................. 171
7
8
L’ORA DI ANTIGONE
1 Si allude alla traduzione ‘sbagliata’ di Hölderlin del v. 20, Ismene a Antigone: ‘Cosa c’è?
Sembri colorare una parola di rosso.’ Traduzione di Massimo Cacciari: ‘Che accade?
Tradisci arrossendo un pensiero…’
9
celebrati solenni funerali; il corpo di Polinice marcirà, scempiato ed offeso
come si conviene ad un traditore. Creonte si dichiara amante della patria
sopra ogni cosa: solo adesso, raggiunto il potere, può svelare il suo vero volto.
Chiede appoggio e sostegno. Esige collaborazione. La parola di Creonte è
precisa, definisce la realtà: da una parte i nemici, dall’altra gli amici. La patria
è uno ed unico scopo dell’azione e della vita. Polinice non sia sepolto: un
ordine per il bene comune, da imporre con la violenza. Creonte chiede ai
vecchi di vigilare a che la legge, ed il nuovo potere, vengano rispettati. I
vecchi di Tebe dapprima non capiscono o fanno finta. Si scherniscono, vor-
rebbero restare da parte. Invece devono ubbidire. Rendersi complici, garanti e
custodi dell’ ordine ristabilito. Non hanno scelta. Se non acconsentissero, la
pena sarebbe la morte.
Una sentinella arriva e riferisce che il morto è stato sepolto. Pare un mira-
colo: non vi sono tracce, né d’uomini, di strumenti o carri, né d’animali. La
sepoltura è invero solo un lieve strato di polvere, quanto basta per nascondere
alla vista il cadavere. ‘Che siano stati gli dei?’ – dubita un cittadino. Creonte, il
pragmatico, pensa invece subito ad un complotto. Qualcuno ha corrotto le
guardie. Minacciandola di morte, manda via la sentinella: il colpevole della
trasgressione deve essere trovato. ‘Mostruose sono molte cose, ma niente è
più mostruoso dell’uomo’ – canta il coro. I cittadini avevano salutato un’alba
di pace. E subito, invece, si apre un altro conflitto. L’uomo può tutto, domina
la natura e gli altri uomini. Solo contro la morte è impotente.
La morte fa irruzione nella vita. Il miracolo del nuovo giorno si offusca di
luce luttuosa. Il corpo insepolto reclama anch’esso di essere ascoltato. La
morte riafferma il suo indiscutibile potere.
Ecco un nuovo prodigio: nel sole del mezzogiorno, Antigone viene portata
davanti al Re dalla sentinella. È stata colta a spargere la polvere sul corpo del
fratello, che secondo gli ordini, nuovamente era esposto nella sua nudità agli
avvoltoi: e lei come un uccello addolorato quando scopre il nido depredato
dei piccoli, ha gridato e subito a mani nude cominciato a scavare, per racco-
gliere la terra e depositarla sul cadavere. Un gesto pazzo, commoventemente
disperato. È stato Creonte a chiedere i dettagli. Ed è lui stesso a chiedere ad
Antigone: ‘sei stata tu?’ ‘Sì, sono stata io’. L’interrogatorio è breve. Antigone è
determinata, decisa. I principi, le ‘leggi non scritte’ in base alle quali ha agito,
sono per lei irrinunciabili. Doveva seppellire il fratello. Non ne dice il nome,
come se ‘fratello’ fosse un’entità numinosa, la Morte stessa che chiama, esige:
doveva darle il luogo, anche mentale, che le compete. Non è stato appena
detto che la morte vince su tutto? Il Re Creonte non perde la calma di fronte
all’ostinazione della ragazza, non la segue nei suoi deliri. È una pazza, lo sa
da tempo. Lo è sempre stata. E tuttavia: Antigone deve essere punita, la legge
non ammette eccezioni nemmeno per i parenti del Re. Eppure la ragazza è
figlia di sua sorella. ‘Che vuoi da me, oltre ad uccidermi?’ – chiede Antigone a
Creonte. ‘Niente; se ti uccido, ho tutto’. Antigone si guarda intorno: tutti i
10
Tebani – dice – condividono la sua azione, ma il terrore morde loro la lingua,
ne soffoca la voce.
Creonte ha come suoi argomenti la legge e la patria: Polinice era un ne-
mico, e lo resta dopo morto. Antigone ha come argomenti il dovere verso i
morti e l’amore per il fratello: ‘Non sono nata per odiare, ma per amare’, af-
ferma. ‘Ciascuno dei due, Creonte ed Antigone, – scrive Hegel – vede il diritto
soltanto dalla parte sua ed il torto dall’altra.’ Quest’idea di Hegel, espressa
nell’inverno 1822-18232 nel corso di Filosofia della storia, ha condizionato tutte
le letture successive di Antigone, sia che l’abbiano accolta sia che l’abbiano
rifiutata. Antigone e Creonte, apparentemente sullo stesso piano, ugualmente
in diritto, ugualmente unilaterali, ugualmente spietati: si annienteranno tra
loro? Ma i due personaggi si danno le spalle. L’una segue inesorabile la morte
a cui ha voluto riconoscere il luogo che le compete. L’altro invece si distrugge
da se stesso. Non è protagonista della tragedia, come sembrerebbe all’inizio.
Ne è la vittima. Appena salito al trono, ha preteso di sconvolgere l’ordine
delle cose. Ha commesso un errore, glielo svelerà Tiresia.
Dapprima vince Creonte: se Antigone è nata per amare, vada pure ad
amare lì dove ora sono i suoi amati, nell’Ade. Dalle ombrose sale del palazzo,
viene condotta in scena Ismene. Una nube di dolore le grava sugli occhi.
Ismene si dichiara colpevole anche lei, vuole condividere il destino della
sorella. Antigone le impone di vivere. Ismene adesso vorrebbe partecipare
dell’azione, ma è tardi. Parola ed azione devono coincidere, per essere efficaci.
E perciò ‘non si ama solo a parole’. Eppure Ismene la ama, e non a parole.
Vorrebbe sacrificarsi per lei, con lei. Il rifiuto di Ismene è l’atto più doloroso
che Antigone è costretta a compiere: per salvarla, la offende, la umilia: solo
così può essere certa che rinuncerà al suo proposito. Antigone, per Creonte,
già ‘non è più’, non esiste. Eppure – gli ricorda Ismene, e poi un cittadino – è
la promessa sposa di suo figlio. ‘Mio figlio’ – risponde il Re – ‘troverà altri
campi da arare’. È deciso; le ragazze sono messe in catene.
Il coro dei cittadini adesso è un lamento. Le sventure non abbandonano gli
uomini e non smettono di attanagliare la stirpe di Edipo. Entra Emone, il fi-
glio di Creonte, il fidanzato di Antigone. Ascolta prima il padre, che ribadisce
il diritto, le sue decisioni, e quanto Antigone sia il male che vada estirpato.
Emone fa un discorso politico: Creonte sta agendo contro la città. Poiché è il
Re, la gente ha paura di parlare in sua presenza. Nessuno approva la con-
danna a morte di una ragazza che ha sepolto il fratello, compiendo semmai
un’azione degna di lode. Emone invita il padre alla moderazione, alla
modestia: non può sapere tutto, deve ascoltare anche gli altri. Creonte invece
ribadisce la sua decisione, ed è il suo secondo errore: poi accusa il figlio di
esser schiavo di una donna. Il linguaggio di Creonte, pubblicamente mode-
rato, adesso col figlio diviene violento, insultante. Antigone morirà. ‘Ella
dunque morirà, e morendo ucciderà qualcun altro’ – minaccia Emone. Il con-
2 Vedi Francesca Iannelli, Oltre Antigone. Figure della soggettività nella ‘Fenomenologia dello
spirito’ di G.W. Hegel, Roma 2006.
11
flitto è inconciliabile. Emone corre via, Creonte decreta che Antigone sia
sepolta viva, lontana dalla città.
I cittadini innalzano un inno all’amore e alla sua invincibilità. A fiotti scor-
rono le lacrime: Antigone va a morire. Si rivolge ai cittadini nel suo ultimo
lamento: adesso è incerta, rimpiange le nozze che non ha avuto. Ricorda il
padre, la madre, il fratello, che l’aspettano nell’Ade e ve la trascinano. I
cittadini le rimproverano il troppo ardire. È lasciata sola. Eppure di nuovo
espone le sue ragioni: se le fosse morto un marito o un figlio, avrebbe potuto
lasciar perdere; ma il fratello le era unico, morti i genitori, e lei non poteva
lasciarlo insepolto. Se gli dei mostrassero ad Antigone che ha avuto torto,
sarebbe pronta a riconoscere la sua colpa. Ma se così non è, maledice chi la
manda a morire, ed augura loro analoga sorte. Il coro, attonito, commenta con
esempi mitici di mortali che molto hanno sofferto, quasi a relativizzare il
dolore di Antigone. La ragazza esce definitivamente di scena.
Condotto da un bambino, entra il cieco veggente Tiresia. Gli uccelli si di-
laniano tra loro, la fiamma non arde nei sacrifici. La decisione di lasciare inse-
polto Polinice non piace agli dei. Creonte crede ancora al complotto. Come
arcieri tutti mirano a lui e vogliono colpirlo, anche il veggente. Costretto,
Tiresia profetizza che, in conseguenza di quel che ha fatto, presto Creonte
pagherà con un morto nato dalle sue stesse viscere, e sarà preso negli stessi
mali che ha dato, artefici le Erinni, le dee della vendetta. Le parole di Tiresia
sono frecce che colpiscono il cuore di Creonte: il sovrano ha usato parole
assassine, è ferito con le stesse armi.
L’indovino si fa condurre via dal ragazzo. Creonte è spaventato, Tiresia
non ha mai sbagliato. Consigliato dal capo dei cittadini, il Re decide di cedere,
di dar sepoltura a Polinice e liberare Antigone. Bisogna far presto; in preda a
frenesia Creonte corre lui stesso a liberare la ragazza, ma la rovina è più ve-
loce. I cittadini innalzano un inno a Dioniso, il dio nato a Tebe, ad invocarne
la protezione della città. Giunge un messaggero. Creonte era potente, ora la
sua potenza è fumo. Ha perso per sempre la gioia, perché il figlio Emone è
morto, e non per mano altrui. Euridice, la Regina, moglie di Creonte e madre
di Emone, ha sentito le nuove, esce dalla reggia e chiede i dettagli. Il
messaggero non le tace nulla di quel che è accaduto. Emone si è ucciso
davanti al padre, abbracciando il cadavere di Antigone che si era già im-
piccata. Euridice torna nella reggia. I cittadini credono che sia per iniziare il
compianto. Eppure c’è silenzio. Un silenzio che opprime, e nulla fa presagire
di buono. Torna Creonte, segnato dalla sciagura della sua propria colpa.
Creonte ammette la sua follia. Troppo tardi. I dolori non sono finiti. La
Regina, straziata, si è uccisa. Il cadavere di lei è portato fuori del palazzo.
Facendo eco alle parole che tra loro avevano pronunciato Antigone e Ismene,
il Re davanti a quello spettacolo pone l’insolubile questione: ‘come cadere più
in basso? Quale destino ancora mi attende?’ La Regina ha maledetto il marito
che l’ha privata dei figli: anche il maggiore, Megareo, è morto in guerra.
Creonte ascolta tutti i dettagli della morte di Euridice, che si è trafitta
12
colpendosi sotto il fegato. Il Re ammette di essere lui l’assassino della moglie,
di essere lui il colpevole. Chiede che lo portino via.
I vecchi commentano: ‘Aver senno è di molto il primo fondamento di una
vita felice. È necessario non macchiarsi mai di empietà nei riguardi degli dei.
Le superbe parole grandi mali procurano ai superbi; con gli anni si apprende
l’umana saggezza.’ Una morale che non lenisce dolore e angoscia, non libera
l’uomo dalla consapevolezza che gli errori si riconoscano sempre troppo tardi.
Antigone infinita
Cronologia di Antigone sulla scena greca: 467 a.C. Eschilo, Sette contro Tebe. –
441 a.C. Sofocle, Antigone. – Tra il 430 ed il 411: Sofocle, Edipo Re. – Tra il 411
ed il 408: Euripide, Fenicie. – Immediatamente prima del 401: Sofocle, Edipo a
Colono3.
3 Alcuni titoli utili per cronologia e interpretazione: G. Avezzù, Il mito sulla scena. La tra-
gedia ad Atene, Venezia 2003; G. Mastromarco – P. Totaro, Storia del teatro greco, Firenze
2008. Per Sofocle in particolare l’Introduzione di G. Paduano a Sofocle, Tragedie e
frammenti, vol. I, Torino 1982 (ristampa 2001).
4 Per la tragedia di Euripide tra arcaismo ed innovazione, per i richiami omerici e per
l’interpretazione generale vedi l’Introduzione di Enrico Medda ad Euripide, Le Fenicie,
Milano 2006.
5 Vedi G. Ugolini, Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica, Roma
2000 e adesso l’importante libro di Davide Susanetti, Catastrofi politiche. Sofocle e la
tragedia di vivere insieme, Roma 2011.
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non è ricordata: ma tutta la vicenda dell’Antigone ribadisce la forza di quella
maledizione, e in certo senso prepara ed anticipa la sua messa in scena
drammatica, che arriverà molto dopo nell’attività di Sofocle. Ogni tragedia
mette in atto, cioè, un gioco di riflessi a distanza, di sfide letterarie ed anche
interpretative, mette in conto la memoria dell’autore ed anche quella del
pubblico, modifica il mito sulla base delle esigenze del presente, politiche,
storiche, estetiche. Non si uniforma all’idea di dover raccontare in ordine,
perché il mito è una spirale, lo si può iniziare a raccontare da un momento
qualsiasi, si avvolge su se stesso in movimento circolare e infinito. È negli
spazi di selezione, revisione e cambiamento creati dall’arte che il mito, messo
in discussione, rivela le sue potenzialità e le sue infinite capacità di rinnovarsi.
È nello studio di questi spazi che consiste la storia della sua ricezione. Perse-
guendo questa storia, per anni ho lavorato ad un repertorio delle Antigoni
letterarie in età moderna. Un’impresa ardua: la fortuna del mito di Antigone,
infatti, è incommensurabile.
Perché il mito di Antigone ha avuto una influenza così duratura e
significativa? Perché continua ad emozionare e coinvolgere? Naturalmente la
domanda più ampia è: perché i miti continuano ad agire in società non più
produttrici di mitologia? E perché le distanti opere della Grecia antica
continuano a condizionare l’immaginario, la creatività, la produzione delle
idee? A sua volta bisognerebbe premettere una definizione di ‘mito’, che si
distingua da ‘mitologia’ e da ‘letteratura’. Non si vogliono evadere queste
domande. Ma rispondere ad esse significherebbe forse scrivere un altro libro,
anzi: altri libri. Non è il compito che mi sono fissata. Qui posso esporre solo
alcune semplici, persino ovvie, premesse.
Antigone, come Tristano, Don Giovanni, Faust, Edipo, è un mito letterario
e letterarizzato, nel senso che la sua tradizione è condizionata, in maniera
determinante, da testi poetici. Tra questi, il più importante è la tragedia di
Sofocle, che non ha inventato il mito, e forse neppure la vicenda che mise in
scena; ha dato invece al mito preesistente una forma letteraria con la quale le
epoche successive si sono confrontate, nelle riprese, nelle riscritture, nelle
variazioni, nelle trasposizioni in altri generi e forme d’arte. Nell’arco tempo-
rale che ho preso in considerazione, 1948-1980, è la tragedia di Sofocle a con-
dizionare la ricezione del mito: chi si occupa delle ricezioni dello stesso mito
tra il Cinquecento ed il Settecento, invece, deve anche e piuttosto confrontarsi
con Le Fenicie di Euripide e di Seneca e con la Tebaide di Stazio. Da almeno
quarant’anni a questa parte, lo studio delle ricezioni ci ha infatti insegnato che
ogni società, ed ogni cultura, accoglie i miti e le opere letterarie antiche
secondo le sue esigenze. Le storie antiche servono per capire ed analizzare il
presente, e dunque i modi delle ricezioni sono vari quanto lo sono i presenti e
le loro problematiche. Attraverso lo studio delle ricezioni di un mito, dunque,
capiamo meglio i differenti paradigmi culturali e le situazioni storiche che le
hanno prodotte.
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L’ora di Antigone
Il tema specifico di questo libro si è definito nel corso del lavoro. Determi-
nante è stata una mia esperienza biografica. Mentre traducevo L’Antigone di
Berlino (1963) di Rolf Hochhuth, ho intervistato l’ autore a Berlino, scoprendo
che quel racconto è stato ispirato da una vicenda realmente accaduta. L’ho
raccontata nella post-fazione alla traduzione italiana, apparsa nel frattempo
per l’editore di Pistoia Via del Vento. Nella sua novella, Hochhuth ha fatto
confluire stralci dalle lettere scritte in carcere da Rose Schlösinger, ghigliotti-
nata dai nazisti il 5 agosto 1943 con altre 11 donne. Una sera di settembre del
1942, Rose fu prelevata da due uomini della Gestapo dalla modesta casa al
centro di Berlino, dove viveva con la madre e la figlia di dieci anni. È proprio
guardando negli occhi azzurri e velati da lacrime della figlia di Rose
Schlösinger, Marianne, che ho deciso di scrivere un libro sulle ricezioni
dell’Antigone che hanno al centro fatti e situazioni attorno alla realtà o al
ricordo del cosiddetto ‘Terzo Reich’. Nonostante la indominabile bibliografia
sulle Antigoni, non esiste un libro su quest’argomento. Non solo: alcuni
racconti, drammi e romanzi di cui parlerò, se si fa eccezione, naturalmente,
per Brecht e Anhouil, non compaiono nemmeno, oppure davvero solo di
sfuggita, nella pur copiosa bibliografia sulle Antigoni. Nello scrivere le pagine
che seguono, mi ha guidato la convinzione che questi testi letterari dovessero
essere strappati all’oblio.
Qual è dunque propriamente l’‘ora di Antigone’?
Scocca il 27 gennaio del 1945, quando l’Armata rossa entra ad Auschwitz. È
l’ora della ‘guerra per i corpi’ dei caduti nella lotta di Resistenza, e lasciati in
montagna o in fosse improvvisate, in attesa di avere una sepoltura dignitosa.6
È l’ora dei corpi scempiati, mutilati, insultati, dilaniati, come quelli dei fasci-
sti. È sufficiente evocare Piazzale Loreto: calci, sputi, pugni, maledizioni, per-
sino colpi di rivoltella furono scaricati contro la salma di Mussolini che
continuava ‘sempre a girare lentamente su se stessa, laggiù, al ventolino,
invocando invano la misericordia della terra.’7
Ancora nel 1989, quando Helmut Kohl si recò con Ronald Reagan al cimi-
tero di Bitburg dove sono sepolti 49 uomini delle SS, di cui alcuni avevano
appena sedici anni, ci fu uno scoppio di indignazione, portavoce lo scrittore
Günter Grass (che allora non aveva ancora rivelato la sua militanza volontaria
nelle SS!). L’autore di teatro Heiner Müller intervenne ricordando che si
discuteva sul dilemma di Antigone. ‘Nello scandalo Bitburg – dichiarò – si
tratta ancora della domanda: ‘cosa si fa dei morti?’ E per quanto mi riesca
difficile, devo dare ragione agli altri [cioè a chi ha onorato il cimitero delle SS].
Nei Sette contro Tebe di Eschilo si dà ancora giustizia ai morti di ambedue le
6 Per il caso di Nicola Grosa, vedi Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e
morte nella guerra contemporanea, Torino 2006, p. 184.
7 Antonio Damiano, Rosso e grigio, Bologna 2000, p. 89. Vedi Sergio Luzzatto, Il corpo del
duce, Torino 1998.
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parti. Ma è l’ultima volta nella storia europea che i morti non sono privati dei
loro diritti. Nell’Antigone di Sofocle si insedia già il diritto statale sui morti: è lo
Stato a decidere chi deve essere onorato e chi no. Questa decadenza è anche la
condizione della possibilità del fondamentalismo.’8 Nell’interpretazione
politica di Müller, l’Antigone testimonia quel momento storico in cui il clan
diventa secondario rispetto allo Stato che si appropria anche dei cadaveri, li
rende cose, merce, e ne fa quel che vuole.
L’esperienza dell’orrore
La fine della Seconda guerra mondiale costituisce dunque una cesura nella
storia delle ricezioni delle Antigoni. Lo hanno notato in molti. Qui ricordo
solo le parole di un filologo classico, Karl Reinhardt, in una trasmissione ra-
diofonica del 1956: ‘Anche dopo la Prima guerra mondiale si riprese l’Anti-
gone. […] Quel che distingue la ricezione di allora da quella di oggi, è la nuova
esperienza sopravvenuta: quella della Resistenza e del totalitarismo.’
Questo libro si occupa dunque delle ricezioni letterarie del mito di Antigone
condizionate dall’esperienza storica del nazismo e del secondo conflitto
mondiale. La maggior parte di queste ricezioni non è stata prodotta nell’im-
mediato dopoguerra. Si noterà un salto cronologico tra l’Antigone di Brecht
(1948) ed il romanzo Novembre 1918 di Alfred Döblin (scritto prima del 1945,
pubblicato nel 1950) e la ricomparsa del mito in teatro e nella letteratura nei
primi anni Sessanta. Al 1945, infatti, seguì un’epoca di piombo, per usare un
celebre verso di Hölderlin. La parola d’ordine era dimenticare. L’oblio
divenne per molti un alibi, per altri conforto. Dovettero passare decenni,
perché il passato fosse dissepolto, dando infine origine ad un tremendo
conflitto sociale. Dal finire degli anni Sessanta, i figli si confrontarono con i
padri, accusandoli di aver voluto consapevolmente tacere l’orrore, per
perpetuare nello Stato democratico e capitalista degli anni Settanta gli stessi
meccanismi politici e repressivi del totalitarismo fascista. Contro quello Stato
alcuni ingaggiarono una lotta a mano armata. Dall’età del silenzio, scaturì un
grido di battaglia – ma anche, da parte delle vittime, di dolore. I mezzi di
comunicazione di massa esposero corpi insanguinati sull’asfalto, oppure
fotografati con una stella a cinque punte sullo sfondo, umiliati nelle ultime
ore, cadaveri come manichini abbandonati nel cofano di automobili. In quella
nuova guerra intestina negli Stati, tornava d’attualità il diritto dei morti.
Tornava Antigone, nell’inedito e non antico ruolo della ribelle omicida.
1948-1980
Il punto d’inizio di questa rassegna è l’Antigone politica di Bertolt Brecht,
1948, atto di rifondazione del teatro europeo e la prima opera nella quale,
8 Heiner Müller in dialogo con Frank M. Raddatz, in: Werke 11, Gespräche 2, 1987-1991,
2008, p. 443. Müller tornerà anche in seguito sull’argomento. Il corpo come ‘merce’ dello
Stato è drammatizzato nel suo Filottete.
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seppure con l’effetto di ‘straniamento’ proprio del teatro epico, la vicenda
della figlia di Edipo è chiaramente ricondotta alla crudeltà, alla follia, all’am-
bizione di Hitler e della società tedesca che l’aveva appoggiato. Dopo Brecht,
non fu possibile tornare all’Antigone senza interrogarla politicamente. A
Brecht ho implicitamente contrapposto Alfred Döblin, che interpreta e riscrive
l’Antigone nel segno della conversione al cristianesimo. Da antitetici punti di
vista ideologici, Brecht da una parte e Döblin dall’altra si servono dell’Anti-
gone per interrogarsi sulle cause sociali dell’ascesa del nazismo e – nel caso di
Brecht – della sua decadenza. Rispetto alla fede marxista di Brecht, Döblin
manifesta disincanto e disillusione nei confronti di qualsiasi misticismo, di
impronta laica o cristiana.
Il punto d’arrivo è dato dai romanzi Mia sorella Antigone e Generazioni di
Grete Weil, pubblicati nel 1980 e nel 1983. In essi la riflessione sul
totalitarismo, sulla Shoah, sull’esilio degli ebrei e dei Tedeschi, si intrecciano
con le nuove questioni sull’uso della violenza da parte dello Stato e contro lo
Stato poste dal fenomeno del terrorismo. Nazismo e ‘anni di piombo’, si
fondono alla luce dell’esperienza biografica della scrittrice.
…e oltre
Ogni racconto, e questo libro vuole innanzitutto essere un racconto, è frutto di
una selezione. Lo sapeva bene Omero, che di tutta la guerra di Troia scelse di
raccontare solo 51 giorni. Del resto solo gli dei, dice Omero, hanno la capacità
e la possibilità di raccontare ‘tutto’. Ho scelto di seguire la strada della pro-
fondità e non del catalogo. Perciò ho offerto passi antologici e compendi det-
tagliati di opere che non sono facilmente reperibili (alcune inedite). Le tradu-
zioni, dove non diversamente specificato, sono sempre mie, e nella maggior
parte dei casi sono le prime traduzioni in italiano. Per coerenza, pur
apparendo per un editore tedesco, il libro è scritto interamente in italiano. Il
pubblico a cui si rivolge, naturalmente, non lo è.
Le Antigoni, dal 1945, si sono moltiplicate a dismisura, si specchiano le
une nelle altre, qualche volta si tratta di specchi deformanti. Dappertutto e
ancora ci sono dolore e guerra; dappertutto tiranni contro i quali fioriscono
primavere di popoli; dappertutto il gesto pietoso di Antigone viene tramutato
nell’atto omicida o kamikaze di rabbia; dappertutto c’è Polinice in attesa di
sepoltura; dappertutto prigioni buie fanno da anticamera alla morte per i
prigionieri.
È il motivo, anche se non il solo, per leggere, e rileggere ancora ed ancora
l’Antigone di Sofocle. Di questa necessità, mi auguro di convincere i fruitori
più giovani delle pagine che seguono. È il mio scopo principale.
17
soggiorni berlinesi, di Letizia Serra e Daniela Summa. Alessandro Marongiu e
l’agenzia Milkbar mi hanno aiutato nella correzione delle bozze. Ringrazio
infine per l’accoglienza nella collana ‘Drama’ Bernhard Zimmermann, a cui
mi lega un’amicizia ormai così antica e profonda da non poter essere
commentata in poche parole.
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L’ANTIGONE DI BERTOLT BRECHT (1948)
19
cinese, un classico tedesco, che in quattordici anni ha viaggiato per tutto il
mondo e ora sta per tornare a Berlino. Nella sua mano serrata c’è sempre un
sigaro acceso. Gli è rimasto fedele il berretto schiacciato sulla testa, e cammina
per le strade della città con la pazienza di un buon maestro, modesto, stra-
niero e ironico. […] Ha portato con sé le sue opere in microfilm. ‘Stanno tutte
in una piccola scatola’, dice. Egli è – come Valéry – dedito alla meccanica del
mondo, un chimico nel suo laboratorio, in cui sviluppa forme future, un chi-
mico pieno di mistero, che disprezza misteri, e – scusa, Brecht! – un eccellente
poeta.’ Così lo descrive nel maggio del 1948, qualche mese dopo la messa in
scena dell’Antigone, l’amico Günther Weisenborn (1902-1969), autore di teatro,
membro della Resistenza durante la guerra, fortunosamente sopravvissuto al
carcere ed alla Gestapo. Brecht incontra di nuovo, in Europa, gli amici super-
stiti: tra essi, il suo scenografo e costumista di prima della guerra, Caspar
Neher (1897-1962), da Brecht chiamato amichevolmente ‘Cas’: ‘Me, lo scrittore
di drammi/ la guerra ha separato dal mio amico, il costruttore di scene./ Le
città nelle quali lavoravamo non esistono più./ Quando cammino per le città
che ancora sono in piedi/ dico fra me: quel pezzo blu di bucato, lì,/ il mio
amico l’avrebbe messo in un posto migliore.’ Questa una delle poesie che
Brecht dedica all’amico ritrovato.10
Con l’Antigone riprende la loro collaborazione e la loro intesa intellettuale.
È la notte di Natale del 1947. ‘Lavoriamo all’Antigone. Prima abbiamo cercato
qualcosa alla radio, ma l’unica stazione tedesca che abbiamo trovato dava liste
infinite di nomi di soldati dispersi, ed il giovane Neher è disperso in Russia.’
Dispersi, morti, corpi dilaniati e corpi oltraggiati: ecco l’attualità, a due anni di
distanza dalla guerra.
Brecht, dopo quindici anni in un ambiente linguistico estraneo, prima in
Danimarca, poi brevemente in Finlandia, infine negli Stati Uniti, sente
l’esigenza di liberare il tedesco dal deformante, umiliante, giogo nazista, di
lavarla, di sperimentare poeticamente una lingua che passi dai due poli
antitetici del lirico sublime all’uso popolare, ma mai rispecchi la borghesia:
cioè il ceto nel quale la mentalità nazista era nata e proliferata. Questa sua
convinzione è espressa ad esempio in una nota del Diario, durante i giorni del
lavoro all’Antigone: ‘Denazificare la borghesia tedesca significa non farla
essere più borghesia. Non c’è via di mezzo, ma o l’una o l’altra soluzione. Né
le condizioni basilari della sua essenza, né circostanze particolari permettono
a questa classe sociale di deporre i mezzi barbarici.’ La borghesia è come un
cane che sta in casa, e dopo la guerra, dopo aver mangiato piatti d’alta cucina,
a furia di botte deve accontentarsi della sua scodella. La borghesia tedesca
non è cambiata. ‘Non solo i difetti, ma anche le virtù di questa classe sociale
hanno ricevuto una forma nazista; quando il borghese pensa, ed anche
quando non pensa, quando è corretto e quando è scorretto, quando è un
10 In: Brechts Antigone des Sophokles, hrsg. von Werner Hecht, Frankfurt 1988, p. 29. Da que-
sto volume sono tratte anche le altre testimonianze biografiche diaristiche ed interviste
(a Helene Weigel, a Ruth Berlau) che si citano di seguito.
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idealista e quando è un profittatore, è sempre un nazista. Se smettesse di
essere nazista, non potrebbe più essere un borghese; solo se non è più un
borghese, non è più un nazista. […]’ (1 gennaio 1948).
Poco prima di partire per l’Europa, a Washington, Brecht aveva dovuto
difendersi davanti ad una commissione che indagava sulle attività anti-ameri-
cane; ecco la conclusione del suo discorso: ‘Passiamo la nostra vita in un
mondo pericoloso. Lo stadio della nostra civiltà è tale che l’umanità potrebbe
già possedere tutti i mezzi per essere oltremodo ricca, ed invece nell’insieme è
ancora stremata dalla povertà. Si sono patite grandi guerre, ed ancora più
grandi, sentiamo, ci attendono. Una di queste potrà certamente annientare
l’umanità nella sua interezza. Potremmo essere l’ultima stirpe della specie
umana su questa terra. […] Non credete che in una condizione così sventurata
ogni nuova idea debba essere esaminata accuratamente e liberamente? L’arte
può rendere queste idee più chiare e persino più nobili.’11
L’Antigone nasce nell’ambito del progetto brechtiano di dare all’arte il suo
ruolo fondamentale in un mondo tornato all’anno zero.
11 Bertolt Brecht, Ausgewählte Werke in sechs Bänden, VI: Schriften, Frankfurt a.M. 1997, p.
519.
12 Sul concetto di ‘correzioni’ dei miti vedi: Mythenkorrekturen. Zu einer paradoxalen Form der
Mythenrezeption, hrsg. von B. Seidensticker − M. Vöhler − W. Emmerich, Berlin/New
York 2005.
21
la divisione delle classi sono operanti anche nelle società antiche, che pure
hanno un sistema di produzione diverso.
Le antiche storie, perciò, possono offrire un ‘modello’ al presente, un ele-
mento di contrasto che sollecita i moderni al cambiamento. Celebri sono, tra
altre, alcune espressioni di Brecht nel 1951 a proposito del ‘modello’ Carta-
gine: ‘La grande Cartagine condusse tre guerre. Era ancora potente dopo la
prima, ancora abitabile dopo la seconda. Non ce n’era rimasta traccia dopo la
terza.’13 Gli ‘esempi’ antichi, insomma, sono sottratti non solo alla idealizza-
zione della cultura classicistica, ma anche alla loro esemplarità in senso posi-
tivo di una umanità ‘grande’, superiore, paradigmatica, nella quale spiriti
eletti o eroici si possono identificare. Brecht è piuttosto alla ricerca dell’ambi-
valenza e della contraddizione nelle figure antiche e delle strutture sociali che
hanno condizionato la loro creazione: gli dei, ad esempio, sono gli esponenti
di un sistema sociale ingiusto, e rappresentano l’ideologia delle classi domi-
nanti; Prometeo è un eroe ambiguo, causa di sofferenze terribili all’umanità e
che non rinuncia al suo legame con gli dei (quindi con il ceto dominante), non
un eroe popolare. Anche Antigone, come vedremo meglio, non è affatto l’eroi-
na pura ed incorrotta della tradizione umanistica.
13 Offener Brief an die deutschen Künstler und Schriftsteller, in: B. Brecht, Werke. Große kommen-
tierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, XXIII, Berlin/Weimar/Frankfurt a.M. 1988-1998, p.
156.
22
l’avrebbe notato nessuno. E c’era ancora un fatto che sembrava impossibile:
un’Antigone di 47 anni! Emone era vent’anni più giovane e non era molto più
vecchio Hans Gaugler, che interpretava Creonte.’ La critica giudicò diver-
samente questo particolare: per alcuni lo squilibrio era evidente e per di più
acuito dalla gestualità dell’attrice. Da altri, invece, fu lodata la scelta di Brecht,
che aveva voluto una donna ‘in età matura’: ‘solo un essere umano di grande
maturità’ sarebbe stato infatti capace di un’azione ‘così sublime, così alta’. Gli
attori erano comunque truccati in maniera pesante, di bianco, come maschere,
tanto che, racconta ancora la Weigel, la ‘differenza d’età’ non si notava affatto.
La traduzione di Hölderlin
Il tedesco, durante i lunghi e bui anni del nazismo, era stato deformato dalla
dittatura, piegato ad espressioni burocratiche nuove o ad un gergo divenuto
espressione dell’orrore: tornando ad Hölderlin, cioè ad una lingua difficilis-
sima e lontanissima dal tedesco quotidiano, Bertolt Brecht proponeva un
superamento estetico della barbarie. D’altro canto, riprendere Hölderlin
significava implicitamente riallacciarsi, anche se in senso critico, al ‘classi-
cismo’ tedesco. La traduzione di Hölderlin avvicina le idee mitologiche gre-
che ed i nomi stessi degli dei all’immaginario dei moderni. Ad esempio,
Hölderlin traduce ‘Zeus’ con ‘padre della terra’, ‘Ade’ con ‘Dio dell’inferno’,
‘Dei’ con ‘Spiriti’ oppure ‘potenze della natura’. Al dramma greco, il poeta
svevo aggiunge passionalità moderna, con concetti eccentrici, come ‘follia’,
‘ira’, ‘furore’, permea la traduzione di numinosità, qualcosa di ‘orientale’,
conia una lingua originale, espressiva, interpretativa, dalla sintassi ardita,
piena di parole-concetto, permesse dal tedesco con i suoi composti. Il risultato
è un ‘tradurre che estrania’ (Wolfgang Binder). Le parole graffiano il testo,
risuonano mistiche, impenetrabili. Lo stile della traduzione è sospeso tra
‘isterie linguistiche, straniamenti di senso e silenzi improvvisi.’14
La traduzione di Hölderlin non fu compresa dai suoi contemporanei,
tutt’altro: per gli errori di traduzione ed il tono visionario sembrava portare
le tracce della malattia mentale del suo autore. Ne risero di gusto Schiller,
Goethe ed altri. Hölderlin si servì di un’edizione greca scorrettissima; certo,
commise anche veri e propri errori, ma l’esattezza filologica avrebbe persino
nuociuto a quel ‘perdersi negli abissi senza fondo del linguaggio’, come un
secolo dopo disse Walter Benjamin15, che apriva la via al tragico moderno. La
traduzione di Hölderlin fu riscoperta nel 1910, e divenne oggetto di
venerazione dei poeti espressionisti. Uno di loro, Walter Hasenclever, mentre
era in trincea, nel 1916, certamente influenzato dalla lettura di Hölderlin,
scrisse la prima Antigone del XX secolo con un messaggio politico e pacifista.16
Tuttavia una valutazione del significato delle traduzioni di Sofocle in
23
Hölderlin si ebbe solo nel 1933, a cura di Friedrich Beissner, il curatore della
grande edizione critica delle opere di Stuttgart (che comincia ad apparire dal
1943). Dai primi anni Cinquanta, cioè dall’articolo di Karl Reinhardt Hölderlin
und Sophokles (1951), comincia lo studio analitico delle traduzioni sofoclee.
Brecht dunque si occupa di un testo che era, dal punto di vista culturale,
d’attualità. Nel 1949, Carl Orff mette in musica la stessa traduzione. L’opera-
oratorio di Orff tende al recupero della lingua originaria di Hölderlin, e
rilegge dunque l’Antigone in senso antitetico a Brecht, cioè metafisico-sacrale.
Le letture divergenti di Brecht ed Orff rappresentano i due assi portanti delle
ricezioni di Antigone nel Novecento, e tutte e due partono da Hölderlin.
‘Brecht aveva consultato diverse traduzioni di Sofocle’ – ha raccontato
l’attrice Ruth Berlau. ‘Io vidi persino un testo in greco, perché Brecht aveva
trovato qualcuno che sapeva un po’ di greco – e poi si era deciso per la rie-
laborazione di Hölderlin. Considerava l’Antigone di Hölderlin più che una
traduzione. Già solo a causa del ‘colore popolare svevo’, a cui Brecht faceva
riferimento sempre quando leggeva ad alta voce, il testo di Hölderlin era per
lui il più potente ed il più divertente.’ Scrive Brecht nel suo Diario il giorno di
Natale del 1947: ‘La lingua di Hölderlin merita uno studio più profondo di
quanto io possa dedicargli in quest’occasione. È di una radicalità
sorprendente.’
Il risultato finale è una nuova Antigone. Restano solo il 20% dei versi di
Hölderlin, il 30% sono rielaborati da Hölderlin, ma il resto si deve a Brecht,
che li ha privati di qualsiasi tono mistico o culturale, ha inserito una citazione
da Pindaro, espressioni di Goethe e di Lutero, talora ne ha rovesciato il senso
pur mantenendo uno stile classico.
24
‘In Sofocle i fatti che accadono tra Antigone e Creonte sono le conseguenze di
una guerra vittoriosa: il tiranno (perché questo è, semplicemente, il sovrano)
fa i conti con nemici personali, che gli hanno reso difficile la vittoria, ma si
scontra con un’usanza umana ed esperisce la fine della sua famiglia. Nella
nuova versione l’azione inizia nel momento gravido in cui alla guerra manca
‘solo un pochettino’ per la vittoria, e deve essere utilizzata la violenza più
disperata, cioè la dismisura si impone come assolutamente necessaria. Questa
messa in campo delle ultime riserve morali fallisce ed accelera la caduta, che
però deve derivare da tutto il contesto. La caduta diviene in questa maniera
tanto più totale, per così dire. La casa regnante si dissolve, quando cade il
figlio (l’azione Megareo-Emone ripete l’azione Eteocle-Polinice, cioè l’elimina-
zione dei figli di Creonte segue l’eliminazione dei figli di Edipo tra loro rivali).
Poi cade Tiresia, il consigliere ideologico, perché vede la fine. L’azione di
Antigone può dunque consistere più nell’aiutare il nemico, e questo rappre-
senta il suo contributo morale; anche lei aveva mangiato a lungo il pane che
era stato cotto al buio.’ (12 gennaio 1948)
25
Contro il teatro di Göring
Nella concezione scenografica, la messa in scena di Brecht e Neher è in con-
trapposizione voluta con le Antigoni che erano state rappresentate durante gli
anni in cui il potere di Hitler era al culmine. La stagione teatrale del 1940 al
1941 allo Staatliches Schauspielhaus sul Gendarmenmarkt a Berlino, diretto
da Gustaf Gründgens, era stata infatti aperta proprio dall’Antigone di Sofocle.
Tra il 1940 ed il 1 settembre 1944, quando il ministro della cultura e della pro-
paganda, Joseph Göbbels, aveva decretato la chiusura dei teatri, l’Antigone di
Sofocle fu rappresentata almeno 150 volte sulle scene del Reich.
Come gli altri classici greci, l’Antigone era considerata un’opera fuori dal
tempo, senza alcun significato politico, una creazione sublime dello spirito
umano e dello spirito greco, ossia di quel popolo superiore con il quale i
Tedeschi erano imparentati, come abbondantemente affermava la propaganda
culturale nazista. Anzi: i Greci antichi erano, secondo il verbo di Himmler,
originariamente stirpi ariane ed indogermaniche, che si erano stabilite in Gre-
cia migrando dal nord.
Dunque: i Greci erano gli antenati, i Tedeschi moderni i loro successori.
Perciò i drammi greci andavano piuttosto contemplati nella loro perfezione,
che interpretati. La messa in scena nel 1940 di Karlheinz Stroux, con la sceno-
grafia di Traugott Müller, esaltava la monumentalità dell’antico, con richiami
alla cultura arcaica ed egiziana. Lo spazio era strutturato con colonne alte sino
al soffitto del proscenio; sul fondo un’apertura di roccia; sulla destra la statua
di un dio. L’impressione data dalla scena era di grande profondità, ed i critici
vi videro il richiamo al palazzo di una civiltà ciclopica, di un’epoca primeva,
distantissima sia dalla raffinata civiltà ateniese quanto dal presente della
rappresentazione. I cambiamenti sulla scena erano dati dalla luce, proiettata
in crescendo dall’interno delle colonne. Durante lo spettacolo queste ultime,
radiografate da fasci di luce, diventavano trasparenti: si era trasportati
nell’irrealtà, nel sogno, la scena abbagliava, chiarissima, stupefacente,
misteriosa in tanta luminosità. La messa in scena, infatti, si basava sul
contrasto tra buio e luce, tra i due aspetti, cioè, della civiltà greca, il dionisiaco
e l’apollineo; lo stesso gioco di antitesi era nel coro, nel quale non si perde-
vano le voci individuali (nella parte ‘apollinea’), ma che poi si dava, come
comunità, a danze estatiche, dionisiache, sostenute da una musica (composta
da Mark Lothar) irrefrenabile, composta per cimbali, per un tamtoui, un gong
orientale, e per uno strumento elettrico allora appena inventato, il melodium,
che produce nuovi timbri amplificandoli, rendendoli infinitamente lunghi,
vibrati che assomigliano alle tremule voci di un organo nei suoi differenti
livelli, e ricordano l’aulos greco. In sottofondo, i toni cupi del gong. Una mu-
sica, dunque, satura di contrasti e di passioni, al contrario della scenografia
che restava distante, fredda, ieratica. La musica si eseguiva durante il coro, lo
accompagnava, e raggiungeva il culmine durante i canti corali ad Eros e a
Dioniso.
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L’attrice che rappresentava Antigone, Marianne Hoppe, era abbigliata co-
me una statua classica greca, bianca, marmorea. Invece Creonte, impersonato
da Walter Franck, un attore famoso nel ruolo del ‘malfattore’, aveva il co-
stume di un satrapo (una cintura d’oro gli stringeva il vestito). Il contrasto
esteriore tra i due protagonisti veniva poi approfondito e reso ancora più net-
to dalla gestualità virginea di Antigone, che andava al sacrificio senza perdere
la serena bellezza, tranne in una certa estasi della morte, ed usava un eloquio
chiaro e composto – conforme alla nuova versione di Roman Woerner (1863-
1945), all’epoca un famoso traduttore di Sofocle, che puntava alla com-
prensibilità del testo, contro l’oscurità quasi impenetrabile della traduzione di
Hölderlin. Al contrario in Creonte si assommavano tutte le espressioni e le
passioni umane, dalla grandezza e sovranità alla furia alla comicità all’ira alla
paura. Le simpatie andavano ad Antigone, e questo era possibile, nell’ottica
nazionalsocialista, perché la protagonista della tragedia è il personaggio
autenticamente greco, mentre Creonte è un tiranno orientale, asiatico, un
barbaro. Vi furono certo voci discordanti di alcuni critici teatrali, che
sottolinearono le ragioni di Creonte, tese a salvaguardare la sicurezza dello
Stato. La pericolosità politica del ruolo di Antigone, cioè, era presente agli
interpreti del tempo che condividevano l’ideologia ufficiale, ma la messa in
scena ebbe come riuscito scopo proprio sottolineare la distanza incolmabile
tra il presente e l’opera antica. Niente in Creonte riconduceva a Hitler, e niente
in Antigone ad una resistente. I forti contrasti di luce e la musica penetravano
nelle emozioni dello spettatore, rendendolo partecipe della sofferenza, anche
fisica, determinata dal dilemma etico al centro del dramma.17
Brecht era consapevole della portata politica e reazionaria di questo tipo di
teatro illusionistico e che fagocitava, per così dire, il pubblico, rendendolo
ideologicamente docile, mansueto. Il suo teatro voleva porsi proprio agli
antipodi dello ‘splendido teatro’ dell’età di Göring. Una nuova messa in scena
dell’Antigone poteva forse meglio mostrare la differenza tra due antitetiche
concezioni di teatro.
17 Vedi per tutti i dettagli Erika Fischer-Lichte, Politicizing Antigone, in: Interrogating Anti-
gone in Postmodern Philosophy and Criticism, pp. 338-345.
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La Berlau arrivò in Svizzera dopo Brecht, partecipò alle prove dell’Antigo-
ne, scattò le foto della prima, che confluirono in Antigonemodell 1948. Di cosa si
tratta? È un libretto che contiene il testo, le fotografie, i bozzetti di scena e dei
costumi, note sulla gestualità degli attori e delle azioni corali, ma anche vere e
proprie domande, dalla cui risposta dipende l’orientamento dell’attore: queste
notazioni sono stampate a fronte del testo, come lunghe didascalie alle
immagini e alle foto, con riferimenti precisi ai versi, una specie, insomma, di
commento a margine. All’inizio c’è una Prefazione teorica di Brecht, che qui di
seguito sintetizzeremo.
La prefazione al modello
Il paragrafo uno è teorico, riguarda la rifondazione del teatro, che è parte
della rifondazione dell’arte, la quale non è staccata dalla società ma ne è un
fenomeno e deve accompagnarla nella sua evoluzione. ‘La rovina totale,
materiale e spirituale ha innegabilmente risvegliato nel nostro paese infelice e
portatore di infelicità una vaga sete di novità e, per quel che riguarda l’arte,
essa sarà incoraggiata qui e lì, a quanto si dice, a tentare qualcosa di nuovo.’
Tuttavia la ‘novità’ in sé non è necessariamente positiva, argomenta Brecht.
Essa è positiva solo se connota un’arte ‘progressiva’, che deve andare di pari
passo con la parte ‘progressiva’ della popolazione e non deve staccarsi da
essa. Così la tecnica teatrale non è qualcosa di astratto, che si può applicare
indifferentemente a contenuti diversi. ‘Ancor oggi – scrive polemicamente
Brecht – si parla della ‘stupenda’ tecnica del teatro di Göring [cioè del teatro
durante il nazismo], come se una tecnica del genere fosse applicabile sempre
nella stessa maniera, indipendentemente dalla cosa alla quale venga applicato
il suo splendore. Una tecnica che serve a nascondere la causalità sociale non
può essere usata per scoprirla.’ È arrivato il momento per un teatro di curiosi.
La società borghese è coinvolta nella catastrofe di cui è stata anche l’origine,
ma il dolore da solo è un ‘cattivo maestro’, insegna ‘fame e sete’ e non la ‘fame
della verità’ e la ‘sete del sapere’. Al teatro non è dato quindi il compito di
descrivere il dolore: ‘Se il teatro è capace di mostrare la realtà, deve essere
anche capace di trasformare in piacere la contemplazione della realtà stessa.’
L’obiettivo dell’‘arte progressiva’ può infiammare il fare artistico, anche nelle
immense difficoltà del dover ricominciare da zero.
Nel secondo paragrafo si passa all’Antigone. Brecht dichiara di aver scelto
questa tragedia per una certa attualità nel contenuto e perché pone compiti
interessanti dal punto di vista formale. Tuttavia le analogie con il presente,
che diventano palesi se si ‘riduce a razionalità’ la favola antica, sono piuttosto
uno svantaggio che un vantaggio: infatti tolgono allo spettatore quella ‘di-
stanza’ necessaria per imparare dal mito. Troppo facilmente si può
identificare Antigone con una delle figure della Resistenza tedesca, eppure
Antigone non è una figura della Resistenza tedesca: anzi il personaggio antico
è – rispetto agli eroi della Resistenza – decisamente inferiore e meno impor-
tante. Il poema della Resistenza non è stato ancora scritto, soggiunge Brecht. Il
28
nucleo centrale del dramma si coglie solo attraverso la distanza, l’estraniarsi
da esso: e questo nucleo è il ruolo dell’uso della violenza nella caduta dei
vertici dello Stato. Il dramma di Antigone si svolge in maniera ‘obiettiva’, ‘sul
piano estraneo dei governanti’, dei dominatori dello Stato.
Per la messa in scena del 1948 Brecht scrive un prologo attualizzante, in
cui si racconta di una, tra due sorelle, che vorrebbe seppellire il fratello diser-
tore, impiccato ad un palo della luce per strada, nella Berlino dilaniata dai
bombardamenti ormai alla fine della guerra. Ma il prologo ha la funzione,
dice Brecht, solo di dare agli spettatori un ‘punto di riferimento’ legato all’at-
tualità, e di schizzare il problema ‘soggettivo’, che è poi sviluppato nel dram-
ma. Il quale peraltro, per la sua distanza storica, non invita a identificarsi con
il personaggio principale. Il coro della tragedia antica ha sempre rappresen-
tato un problema per i drammatici moderni, come Schiller, ad esempio: per
Brecht il coro è un espediente della drammaturgia greca per creare una certa
distanza, un effetto straniante, costituendo una pausa nell’azione, un elemen-
to di libertà. Tuttavia Brecht non intende penetrare nello ‘spirito degli antichi’.
‘Gli interessi filologici non possono essere serviti.’ ‘Anche se ci si sentisse in
dovere di fare qualcosa per un’opera come l’Antigone, potremmo farlo solo nel
momento in cui facciamo qualcosa per noi stessi.’
Il paragrafo terzo spiega cosa si intenda per ‘modello’. Poiché lo scopo è
‘tentare di applicare un nuovo tipo di messa in scena ad un dramma antico’,
non si può lasciare – come accade normalmente – libertà rappresentativa, ma
bisogna proporre un ‘modello di rappresentazione’, che consista in una rac-
colta di fotografie accanto ad indicazioni che spieghino il perché delle scelte
operate. Il limite del modello è naturalmente non poter riprodurre ciò che è
‘vivo’ nel teatro: le voci, i gesti, i movimenti, la cui ‘bellezza nasce da partico-
lari qualità del corpo.’ Per queste cose, dunque, il libretto non ha ‘valore di
modello’, è ‘senza esempio’, per così dire, e non ‘esemplare’.
Nel quarto paragrafo si descrive la scenografia di Neher (prima parte) e i
costumi e gli accessori. Brecht enumera con precisione i particolari: i quattro
pali coronati da crani di cavallo che delimitano lo spazio dell’azione vero e
proprio, i vari oggetti di cui gli attori si servono, e che sono appesi dietro la
scena, a sinistra, sì che gli attori li prendano e li lascino dopo averli usati: il
rastrello con le maschere di Bacco, la corona d’alloro in rame di Creonte, la
coppa di miglio e la brocca di vino per Antigone, lo sgabello per Tiresia. Nello
stesso posto è appesa nel corso dell’azione la spada di Creonte. A destra c’è
invece il piatto di bronzo, una specie di gong, che uno dei vecchi del coro
batte quando comincia il canto corale rivolto a Dioniso (‘Spirito della
gioia…’). Il prologo attualizzante, datato Berlino 1945 (gli spettatori lo capi-
scono dai costumi, ma anche perché c’è scritto su una grande tavola) viene
invece recitato davanti ad un muro bianco, posto davanti alla scena, con una
porta, un armadio a muro, un tavolo da cucina, due sedie, un sacco a terra.
Non c’è sipario, gli attori sono seduti su una panca e ‘prendono l’atteggia-
mento che si conviene alle figure’ solo nel momento in cui entrano nello
29
spazio dell’azione, molto illuminato. Un teatro non illusionistico, dunque; il
pubblico ‘è invitato ad abituarsi all’offerta di un poema antico, per quanto
restaurato.’
Il Modello dà anche la storia del progetto scenografico. Prima, infatti, era la
panca il ‘luogo, per così dire’, del poema antico. I paraventi dietro gli attori
consistevano in stoffe pesanti tinte di rosso, che ‘ricordavano vele e tende, e i
pali con gli scheletri delle teste dei cavalli stavano in mezzo. Lo spazio
dell’azione scenica doveva essere fortemente illuminato e marcato da ban-
dierine basse. Così la versione secolarizzata sarebbe stata visivamente se-
parata dal poema antico. Quest’idea suscitò in noi sempre più disagio, sino a
che decidemmo di porre la nuova azione tra i pali cultuali della guerra. In una
terza concezione della scena si potrebbe, togliendo il prologo, mettere dietro
alla panca, invece dei paraventi, una tavola con la rappresentazione di una
moderna città in rovina.’
I costumi sono semplici, tessuto di sacchi per gli uomini, di cotone per le
donne; Creonte ed Emone hanno inserti rossi, Antigone ed Ismene grigi. Gli
accessori devono essere usati con cura e devono essere di ottima fattura, non
per creare un effetto illusionistico, come se fossero ‘veri’, ma per offrire al
pubblico ed agli attori ‘oggetti belli’.
Nel paragrafo cinque Brecht prende posizione rispetto ad Aristotele, con il
quale concorda sul fatto che sia la favola, la vicenda, il cuore della tragedia
(ma non è sulla linea aristotelica a proposito dello scopo per il quale la favola
è messa in scena). Nella favola deve essere contenuto ‘tutto’, essa non è un
pretesto per raccontare o trattare di altre cose. I movimenti degli attori,
singolari e collettivi, devono essere tesi al ‘racconto della favola’, ad un
collegamento con i fatti che accadono in scena. La stilizzazione dei loro gesti e
della loro voce non significa venir meno alla ‘naturalezza’, tutt’altro: è ‘la
grande rielaborazione dell’elemento naturale, ed il suo scopo è mostrare al
pubblico, in quanto parte della società, quel che nella favola è importante per
la società.’ Pertanto il cosiddetto ‘mondo del poeta’ non può essere trattato
come qualcosa di compiuto, autoritario, ‘logico in se stesso’, ma deve essere
portato ad esprimere quel che contiene del mondo reale, per agire su di esso.
La ‘parola del poeta’ non è sacra, come è vero che il teatro non è il servitore
del poeta, ma della società.
Il sesto paragrafo parla dei ‘versi-ponte’, ossia di quegli esametri che
Brecht compone perché gli attori li recitino durante le prove: essi servono a
portare l’attore nell’atteggiamento consono a quel che è raccontato. Ad esem-
pio, prima di entrare in scena, l’attrice che impersona l’Antigone recita du-
rante le prove: Ma Antigone, la figlia di Edipo, andò, con la brocca/ a raccogliere
sabbia, per coprire il corpo di Polinice,/ gettato dal tiranno irato ai cani e agli uccelli.
Questi versi hanno un effetto di straniamento. L’attore, cioè, indica il per-
sonaggio, non si trasforma totalmente in esso. Le ‘maschere’ devono raccon-
tare qualcosa, attraverso il trucco pesante. Per esempio nei vecchi del coro
30
devono raccontare le devastazioni che ha causato nei loro visi l’abitudine al
potere. Il tempo dell’azione è molto veloce.
Il settimo e ultimo paragrafo dice quello che del modello può essere ‘ta-
gliato’, ed è l’ambito della mimica, condizionato dalla prassi degli attori. Si
sottolinea che ogni movimento collettivo degli attori ha significato
drammatico, sì che ‘in certi momenti anche il movimento della mano di un
attore può cambiare l’azione.’ La conclusione è ironica, ribadisce la non
normatività del modello: ‘Si deve lavorare ai modelli con non maggiore
serietà che a qualsiasi gioco.’
Domande e risposte
A cosa serve il modello? Esso si rivolge polemicamente agli artisti che perse-
guono l’‘originario’, l’ ’incomparabile’, ‘il mai stato’, l’unicità, insomma. Que-
sti artisti rifiutano il modello, perché pensano di dover creare da se stessi, e
questa convinzione è anche determinata dall’aver voluto faticosamente di-
menticare i loro predecessori. In che consiste – chiederanno questi artisti –
l’elemento creativo? La risposta è che la moderna divisione del lavoro ha
trasformato il momento creativo in molti, importanti ambiti. L’atto creativo è
divenuto un processo creativo collettivo, un continuum di tipo dialettico, così
che l’invenzione originaria isolata ha perso importanza.
Dunque il ‘modello’ in senso brechtiano è una proposta dialettica, in con-
tinuo dialogo con gli artisti che devono applicarla ed aggiungervi qualcosa di
personale. ‘I cambiamenti, presi in senso corretto, hanno lo stesso carattere di
modello, colui che impara si trasforma nel maestro, il modello si trasforma.’
Dunque il ‘modello’ in senso brechtiano non è affatto uno schema immutabile,
una prescrizione, un’imposizione. Il modello non è destinato a fissare il come
si mette in scena, è proprio il contrario. Il peso più grande sta nello sviluppo, i
cambiamenti devono essere provocati e percepibili, al posto dell’atto creativo
sporadico ed anarchico devono subentrare processi creativi con variazioni
graduali oppure improvvise. In questa loro necessità di cambiamento, di
adattamento, questi modelli sono ‘epici’. L’Antigonemodell è da considerarsi
‘non finito’: ‘proprio il fatto che le sue mancanze reclamano il bisogno di cor-
rezioni, dovrebbe invitare il teatro ad utilizzare’ il modello.
L’opera teatrale non è un prodotto letterario, o soltanto letterario, astratto
dalla funzione del teatro nella società. Il compito del nuovo teatro è proprio
quello di inserire il pubblico nel processo dialettico che investe innanzitutto
l’autore, lo scenografo e gli altri ‘tecnici’: quel processo per il quale alla fabula
drammatica vengono poste questioni, perché si chiarisca il suo significato
sociale. Le ‘note di regia’, stampate sotto le fotografie, sono spesso in forma
interrogativa, raccontano il farsi dell’opera. Culminano in una serie di do-
mande che riguardano l’interpretazione del dramma sofocleo, domande con
le quali Brecht indirettamente prende le distanze dalla lettura hegeliana
dell’Antigone.
31
‘Domanda: Creonte nella sua sventura [cioè alla fine della tragedia] deve rice-
vere la simpatia del pubblico?
Risposta: No.
Domanda: All’attore è riuscito, di sfuggire a questa simpatia?
Risposta: Giudica dalle immagini.
Domanda: Avete per caso avuto l’intenzione di rendere Antigone la rappre-
sentante della religione o dell’umanità, Creonte il rappresentante dello
Stato?
Risposta: No.
Domanda: Avete mostrato come l’individuo debba comportarsi rispetto allo
Stato?
Risposta: Abbiamo mostrato solo come Antigone si comporta rispetto allo Sta-
to di Creonte e dei Vecchi.
Domanda: Nient’altro?
Risposta: Nient’altro.’
Leggenda di Antigone
32
E di ritorno dalla battaglia, in testa all’esercito di Argo
venne il tiranno e li trovò davanti alla casa, nel chiarore dell’alba.
E poggiato alla lancia descrisse come dall’altra parte, ad Argo,
gli avvoltoi ora saltavano da un cadavere all’altro; si rallegrarono i vecchi.
In fretta lo incoronarono con alloro, ma lui non ancora dette loro
la lancia, la affidò cupo alla guardia del corpo.
Ingiuriando il figlio di Edipo, la sua messa in scena, spaventando il popolo della città,
il tiranno parlò di pulizia nel sangue, cancellazione del nemico
sotto il tetto tebano, quindi arrivò un messaggero: la paura
non ha impaurito, disse; chi era stato fatto a pezzi era ora coperto con la polvere.
Irato il tiranno assalì la guardia e tutti gli altri,
provando, così che essi lo vedessero, con il pollice la punta della lancia.
Camminando a testa china riflettevano i vecchi sulla mostruosa violenza
dell’uomo, com’egli sottomette il mare alla chiglia e al giogo
il toro e al morso la stirpe dei cavalli, ma più
diventa mostruoso sottomettendo altri uomini.
Quando allora Antigone fu portata e interrogata sul perché avesse così
trasgredito la legge, si guardò intorno e guardò i vecchi,
e li trovò disgustosi e disse: ‘per dare un esempio’.
Allora pregò i vecchi che la sostenessero, ma i vecchi
guardarono Creonte. Disse Antigone: ‘Chi cerca il potere,
beve acqua salata, non può smettere e deve
bere ancora. Non sono né la prima né l’ultima vittima.’
Ma quelli girarono le spalle. Antigone gridò: ‘poveri voi!’
‘Tu ci vuoi discordi’ – l’assalì il tiranno – ‘e se siamo discordi
la città cadrà preda del nemico.’ Disse Antigone: ‘Sempre
voi potenti minacciate così, e noi vi trasciniamo vittime, e presto
la città, resa schiava e debole, cadrà nelle mani degli stranieri.
Chi piega il collo vede solo terra, e la terra lo accoglierà.’
‘Ingiuri la patria, sfacciata? Sappi che ti ha ripudiata.’
Disse Antigone: ‘Chi mi ripudia qui? Non è patria
lì dove debbo chinare il capo. Ah, sono rimasti in pochi
qui nella città, da quando tu sei al potere. I giovani, gli uomini
non tornano più? Eppure sei partito con molti, e adesso
ritorni da solo!’ Allora tacque il tiranno e non conosceva risposta.
‘Pazza, non hai sentito della vittoria in battaglia?’ chiesero i vecchi.
‘Poiché mi è nemica’ – urlò il tiranno – ‘costei non gode della vittoria.’
Disse Antigone: ‘Invece di sedere con te nelle case del nemico, meglio
sarebbe per noi, ed anche più sicuro, sedere nelle macerie delle proprie.’
Freddi gli anziani guardarono e si rivolsero al tiranno.
E uscì dalla casa Ismene, la sorella, e disse:
‘Sono io che l’ho fatto.’ Ma Antigone disse: ‘Sta mentendo.’
E asciugandosi il sudore Creonte urlò: ‘Vedetevela tra voi!’
Ma Antigone fu presa da debolezza, e pregò la sorella
di sopravvivere: ‘È sufficiente, credo, che muoia io.’
Parlò il tiranno: ‘Quando a Tebe in festa comincia la danza
di Bacco pacifico, allora la tomba accoglierà la morta vivente.’
E la portarono via coloro che chinavano la testa al sovrano.
33
Servizievoli i vecchi porsero la maschera di Bacco al signore,
recitando il canto corale: ‘Tu che per la danza della vittoria ti camuffi,
non calpestare troppo forte il suolo, non dove è verde.
Ma chi ti irritò, o Vittorioso, lascia che ti lodi.’
E si avvicinò a loro il figlio più giovane del sovrano,
Emone, il fidanzato di Antigone, il comandante delle patrie lance,
riportando un mormorare della città sul destino della figlia di Edipo.
Esitando il padre a lui confidò l’intima paura
chiedendo durezza e una certa violenza; ma il figlio non capì.
Implorando l’ostinato, senza tener conto dei vecchi ubbidienti,
il padre pregò il figlio di dimenticare colei che trasgredì la legge.
Ma poiché il figlio non si piegò, Creonte lo schernì,
agitando davanti agli occhi del figlio la chioma di paglia della maschera.
E il figlio lo abbandonò. I vecchi stettero a guardare scontenti.
Rabbuiato il vincitore si dette alla festa.
E la musica dalla città
ascoltarono i vecchi sconvolti: si formavano danze bacchiche.
Ed è proprio in quest’ora che la figlia di Edipo nella cella
ode Bacco lontano e all’estremo viaggio si prepara.
Ché adesso il dio chiama i suoi, e sempre invero assetata di gioia
la città dà al dio pacifico la risposta gioiosa.
Grande infatti è la vittoria e irresistibile è Bacco,
quando si avvicina all’afflitta città e le porge la bevanda dell’oblio.
Getta via l’abito luttuoso cucito per i figli
e si precipita all’orgia di Bacco, cercando lo sfinimento.
Quando Antigone fu presa dalla casa di Creonte,
dapprima la coraggiosa svenne tra le braccia delle amichevoli ancelle,
solennemente i vecchi si ricordarono che da sola
aveva scelto l’azione e la morte. Lei disse: ‘Mi deridete?’
e proseguì a parlare e pianse la sua sorte: la giovinezza tetra,
i tristi genitori, dai quali adesso andava ad abitare senza essersi sposata,
e un fratello, che ora trascinava nella fossa anche lei.
I vecchi le posero vicino la ciotola e la coppa con il vino e
il miglio, i doni dei morti, e consolandola le enumerarono i nomi
di santi e di eroi, che erano morti da grandi e nobilmente.
Seriamente le raccomandarono di sopportare le decisioni degli dei.
Lei si adirò e rinfacciò ai vecchi la loro viltà.
Poi smise, guardò fisso i deboli, deboli del suo stesso popolo.
‘Vi aspettano carri’ – urlò – ‘carichi di bottino, ma verranno anche
carri per prendere bottino! O voi che continuate a vivere’, urlò lei,
‘siete voi, che compiango!’ E soffocò l’ira nelle lacrime.
E si guardò intorno e vide l’amabile Tebe,
i tetti e le colline e i boschi, e si inchinò cerimoniosa davanti ad essi,
prendendo commiato. E di nuovo la sua compassione si trasformò in ira.
‘Da te, patria, sono scaturiti disumani, e perciò devi
diventare polvere e cenere. Ancelle’– disse – ‘se qualcuno
vi chiede di Antigone rispondete: l’abbiamo vista fuggire nella tomba.’
E si voltò e andò con passo leggero, sicuro.
34
Inespressivi la guardarono i vecchi e pronunciarono il canto corale:
‘Ma anche lei una volta mangiò il pane gustoso
che veniva cotto nell’oscura caverna. Non prima di aver sofferto in quel che era suo
e averlo visto distrutto, alzò la voce di condanna.’
Colei che aveva ammonito la città, non poteva ancora essere arrivata alla tomba
che già s’insediava nella città in festa un oscuro pensiero.
Ché chiamato dalle voci sui disordini nella casa del sovrano,
arriva l’indovino, il cieco. E deridendolo uno mascherato salta
attorno a lui e agita la chioma di paglia della maschera
e gliela struscia sulla testa e lo insegue per la piazza.
Alzando le suole al ritmo tracotante della danza bacchica,
indicando con i pollici in segno di scherno l’infermità del veggente,
sfacciato batte il suolo col bastone dietro il piede che procede a tentoni:
è Creonte, ubriaco di vittoria. Muti assistono i vecchi.
‘Vecchio pazzo, sembra che tu non ami le feste. Perché non
porti la corona? Eccoci qui!’ E l’ira rendeva acuta la voce.
‘Un cieco segue un cieco?’ disse il veggente, ‘sappi,
Creonte, delitto e discordia dispiacciono agli dei. Su me
orrendi in volo si alzano gli uccelli, sazi del figlio di Edipo.’
Rise il Signore: ‘Lo so bene, per te gli uccelli volano come
ti piace, e così come decidi tu ti portano argento.’
‘È meglio che tu non me ne offra, hai bisogno dell’argento in guerra!’
disse l’indovino. Disse il signore: ‘La guerra è finita.’
‘È finita?’ disse il veggente – ‘laggiù al porto
disseccano pesci per l’esercito, come se in autunno non dovesse già esser di ritorno.
Sei crudele. Perché? A cosa hai dato inizio, pazzo?’
Senza parole stava il tiranno e taceva e non sapeva che rispondere.
E il veggente si alzò e se ne andò. E mormorando soffocate parole,
il tiranno si apprestava a andar via. I vecchi sorpresi stavano a guardare.
Paura persuade paura, osarono e chiesero:
‘Allora, Creonte, come va la guerra?’ E lui rispose: ‘Non bene.’
E si avvicinarono a lui che aveva in mano la maschera della pace,
e anche loro avevano in mano la maschera della pace;
e con lui vennero a contesa, se quella fosse la loro guerra o la sua:
‘Siete stati voi a spedirmi per procurarvi il bronzo ad Argo!’
‘Ma tu ci hai detto, che avremmo vinto.’ ‘Io ho detto: alla fine.’ –
E stava di nuovo per andar via, e di nuovo i vecchi
irati incalzarono il signore: ‘Richiama indietro l’esercito!’
Giacché adesso avevano a cuore l’esercito e non le ricchezze.
E lui gettò a terra il bastone e la maschera della pace:
‘Certo richiamo l’esercito, e lo conduce il mio figlio maggiore, Megareo.
E viene portando bronzo, per ricevere in cambio ingratitudine!’
E ancora nell’aria si agitava il nome minaccioso di Megareo,
quando apparve un messaggero: ‘Signore, sii forte, ché Megareo
non è più, e il tuo esercito è vinto, e il nemico si avvicina!’
Ansimando descrisse la battaglia: come l’esercito, sfinito dalla battaglia fraterna
per il figlio di Edipo, solo stancamente levava le lance,
ma il popolo di Argo impazzando combatteva per la patria.
35
‘E ora in preda allo stesso furore sta arrivando’ – gridò il messaggero – ‘e sono felice
di morire prima.’ Si tenne diritto e con la paura sul volto,
arrivato davanti alla maschera della pace di Creonte, cadde al suolo.
Ma anche Creonte allora urlò, alto allora urlò il padre.
Dissero i vecchi: ‘Qui sta arrivando impazzando il nemico, e nell’ebbrezza della
vittoria Tebe saltella! Chiama le forze interne!’
E allora dalle teste i vecchi strapparono le corone della vittoria,
e distrussero le maschere di Bacco e coprirono i morti
con le corone e le maschere e forte gridarono: ‘poveri noi!’
E ci si ricordò dell’altro figlio del signore, del giovane
Emone, il comandante delle forze interne, e si precipitarono
a riconciliarsi con lui, a graziare Antigone per lui.
Ma i vecchi si mobilitarono e batterono i cembali
di bronzo, per svegliare la città dall’ebbrezza mortale della vittoria.
Cupo il bronzeo segnale d’allarme sconvolse la danza di Bacco,
e il pestare della danza di trionfo si mutò in fuga terrorizzata.
E giunse tra il caos della città una fanciulla come messaggero,
la più giovane delle ancelle di Antigone, che l’aveva accompagnata alla tomba.
‘È finito Emone, di sua stessa mano si è ucciso!
Quando vide Antigone nella grotta e la vide che si era impiccata,
s’infisse la spada nel petto, senza badare al padre che lo implorava.’
E guidato dall’ancella di Antigone, i vecchi accolsero
il Führer che tremava. Tra le mani teneva una stoffa insanguinata.
‘Finito è Emone. Finita è Tebe.
Poiché mi è venuta a mancare, adesso è pasto degli avvoltoi!’
E mostrò ai vecchi il mantello insanguinato del figlio,
che a lui irato aveva negato la spada. E miserabile, terribilmente
incorreggibile, inciampava, lui che tanti aveva guidato,
nella città che cadeva. Ma i vecchi
seguirono il Führer anche allora, anche allora nella caduta e nella distruzione.
36
del trionfo, scoperto, sfacciato.’ Così aveva scritto Brecht nel suo Diario il 17
giugno 194018. Ad illudere i cittadini, nel dramma di Brecht, è il tiranno stesso,
oratore abile in discorsi bugiardi. Quando Creonte parla di ‘pulizia nel
sangue, cancellazione del nemico’ usa espressioni tipiche di Hitler. La società
tedesca era stata inebetita dalla propaganda del sedicente Reich, eppure non
per questo è meno colpevole, come profondamente colpevoli, nella tragedia di
Brecht, sono i Vecchi di Tebe che hanno collaborato col tiranno e ne hanno
condiviso le aspettative. La guerra imperialista non è stata condotta dal
tiranno soltanto, ma da tutto un popolo. Scrive Brecht sul Diario il 1 marzo
1948: ‘A proposito del disprezzo per coloro che hanno collaborato: è stato
giusto designare la guerra, durante la guerra, come la guerra del popolo
tedesco, invece che la guerra di Hitler. Adesso deve essere designata la guerra
della borghesia tedesca, condotta per suo incarico da Hitler. La crudeltà dello
stato nazista e della conduzione della guerra era precisamente quel che volle
la borghesia, che la consigliò ad Hitler. Tipi come Gläser19 devono certamente
essere trattati come nemici del popolo; aveva ricevuto un’istruzione marxista,
per quel che riguarda la borghesia; non tornò, come dice, per prender parte
alla sconfitta della Germania, ma alla vittoria. La guerra nella quale si arruolò,
non cominciò come un crimine contro il popolo tedesco, ma contro altri
popoli.’
I prologhi
Due sorelle escono fuori dal rifugio antiaereo, si chiudono in casa e capiscono
che il fratello, in fuga dal fronte, è caduto nelle mani delle SS. Che devono
fare? Uscire e tentare di salvarlo? L’una (Ismene) ha paura, ma non c’è tempo
per una decisione, irrompe un uomo delle SS e chiede se conoscano il
‘traditore’; poi guarda Antigone con un coltello in mano, ed Ismene si rivolge
al pubblico: ‘Guardai allora mia sorella./ Doveva nella sua pena mortale/
andare adesso a liberare il fratello?/ Poteva non essere ancora morto.’ In
questo momento di sospensione, c’è il richiamo di Brecht alla responsabilità
della scelta individuale. La risposta è lasciata al pubblico, che così è
direttamente coinvolto nei fatti. L’eroicità del gesto non consisterebbe, se
compiuto, nella sepoltura, nel dare onore ai morti: ma nella possibilità,
appena accennata, di salvare il fratello disertore che ‘potrebbe non essere
ancora morto’, dunque una motivazione meno legata ad imperativi morali e
decisamente lontana da scrupoli religiosi. Ma anche se le donne negheranno
di conoscere il fratello, come Madre Coraggio negherà di conoscere il figlio,
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anzi proprio se negheranno quello che le SS probabilmente sanno, potranno
essere uccise. In casa, del resto, c’è la prova (l’uniforme) del loro legame con il
‘traditore’. Questo prologo, per quanto nettamente differenziato dall’azione
vera e propria, parve a Brecht mettere in pericolo lo straniamento che il
pubblico deve necessariamente conservare rispetto alla vicenda mitica, e
perciò nel 1951 lo sostituì con un nuovo prologo, pronunciato da Tiresia, ‘che
forse può servire alla comprensione’, nel quale cioè la distanza è esplicitata, i
presupposti della favola sono spiegati in linguaggio semplice, volutamente
antitetico alla lingua ‘elevata’ del dramma, e gli spettatori invitati a stabilire
da soli analogie con il presente, a ‘ricercare nell’animo, azioni simili/ del più
recente passato, o l’assenza/ di azioni simili.’
I personaggi
Polinice ed Eteocle in Brecht sono ambedue dalla parte di Tebe, ma dopo la
morte di Eteocle, Polinice cerca di disertare, e perciò, catturato da Creonte, è
ucciso. La sepoltura negata a Polinice è un atto di propaganda. L’interesse
principale è volto alle motivazioni della rovina di una dinastia di potenti, e
della classe dirigente che l’ha appoggiata. Il gesto di Antigone è espressione
di una rivolta e di un malcontento che viene dall’interno della famiglia al
potere, di cui Antigone è parte integrante. In Sofocle, riflette Brecht, il tiranno
si scontra con un’‘usanza umana’, quella della sepoltura. Nella nuova
versione c’è una costellazione di motivazioni a determinare la caduta di chi è
al potere: la tragedia racconta solo l’atto finale, quando la guerra non è
terminata (come accade in Sofocle), ma anzi si deve adoperare la ‘violenza più
disperata’ nell’illusione di poter ancora raggiungere la vittoria.
L’azione di Antigone consiste nell’opporsi al tiranno denunciando la veri-
tà: il Führer ha condotto alla rovina lo Stato intero per una guerra ambiziosa,
che ha svuotato la città di uomini e di forze. L’onore dei morti, che certo resta
anche in Brecht, passa in secondo piano. Il conflitto tra Creonte ed Antigone
non può dunque essere interpretato nei termini hegeliani come confronto tra
due sfere di valori equivalenti – Stato e famiglia –, oppure come l’antago-
nismo tra la polis e l’antico ordine gentilizio, di cui Antigone sarebbe la rap-
presentante. In Brecht, Creonte è univocamente l’esponente di un ordine so-
ciale reazionario, guerrafondaio, miope e criminale. Non sussiste la possibilità
di un’interpretazione positiva o in qualche modo giustificatoria di Creonte. La
sua falsità e la sua cattiva fede sono nascoste da una propaganda abile: non è
vero, come Creonte afferma davanti ai Tebani, che Polinice è un ‘amico di
Argo’, dunque un collaboratore del nemico; e soprattutto non è vero che la
guerra sta per essere vinta, e che i giovani stanno per tornare carichi di
bottino.
La resistenza di Antigone consiste dunque nello svelare le bugie del ti-
ranno. Ma Antigone non è priva di colpe: anche lei, infatti, ‘ha mangiato del
pane che era stato cotto nella grotta scura’ del potere, e si è ribellata solo
quando ha capito che quel che accadeva nella casa di Laio era destinato a
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distruggerla. La sua è una ribellione tardiva. Antigone è un personaggio
ambiguo, una principessa che comprende l’inganno del sovrano, suo zio, e
per questo gli si rivolta contro, ma solo quando è stata toccata nei propri
interessi privati. Solo allora Antigone rimprovera al Re di aver condotto una
guerra d’espansione per interessi economici, chiama il popolo alla lotta contro
il tiranno e svela a tutti quel che si nasconde dietro il richiamo di Creonte alla
coesione interna contro il fronte nemico: la sconfitta ormai sicura ed una
guerra incosciente, condotta senza avere la misura delle proprie forze e della
capacità di resistenza del nemico.
Il confronto tra Creonte ed Emone ha pure significato politico. In Brecht,
Emone si fa infatti interprete della voce del popolo, e diventa un avversario
deciso del padre. Emone è un soldato, è il comandante dell’esercito destinato
alla difesa dall’interno. Nella sua ribellione, in realtà un fallimento dal punto
di vista politico, è adombrato il tentativo di rovesciare Hitler da parte dei
generali dell’esercito regolare, il 20 luglio del 1944.
Tiresia in Brecht non è un profeta divino, ma un buon osservatore, un ‘in-
terprete con scopi politici’, un ‘consigliere ideologico’ che adesso sta in netto
contrasto con Creonte; è un dipendente del tiranno, un complice della sua
propaganda. In passato ha interpretato a pagamento il volo degli uccelli
proprio come al Re piaceva. Ma ora sa che la catastrofe è imminente ed
inevitabile, e ha cambiato radicalmente atteggiamento. Il Führer gli offre
ancora del denaro, ma il denaro non ha più valore. Eppure il tiranno resta
irremovibile anche rispetto alla lucidità razionale del suo ex consigliere. Solo
quando un messaggero annuncia che la battaglia è persa, e che Megareo, il
figlio maggiore di Creonte, capo dell’esercito, è stato ucciso, il tiranno e i suoi
collaboratori decidono di liberare Emone e di conseguenza Antigone. Si tratta
ancora di una scelta economica: i figli sono, per Creonte, ‘spade’, forze mili-
tari. Creonte e i vecchi vanno a cercare Emone perché rimpiazzi il fratello. Ma
è troppo tardi, il figlio tenta di uccidere il padre, poi si infigge la spada nel
fianco. ‘Ho creduto/ che ciò che andavo a prendere potesse/ essere una
spada’, dice il Re rientrando in scena, portando la veste di Emone. Brecht
elimina un elemento che forse gli sembrava melodrammatico, oppure solo su-
perfluo: il suicidio di Euridice. D’altro canto l’assenza della moglie enfatizza
l’isolamento del tiranno, il quale tuttavia non desiste dalla sua ostinazione:
‘Ancora una battaglia, e Argo sarebbe stata/ azzerata!’ Come Hitler nel
bunker di Berlino negli ultimi giorni della guerra, con i Russi alle porte della
città, Creonte crede ancora ad una possibile vittoria, e di aver mancato per
poco, per una rivolta interna, la conquista del mondo. La città ‘deve cadere,
deve cadere con me, deve finire/ ed essere esposta agli avvoltoi. Questo
voglio.’
Il coro
Altrettanto cieco è il coro, che segue fino alla fine il Führer nella caduta defi-
nitiva. Gli intermezzi corali sono anch’essi cambiati da Brecht coerentemente
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a questa visione politica: il celebre primo stasimo, l’inno alle capacità dell’uo-
mo, viene modificato nel senso che il coro angosciato contempla la ‘mostruo-
sità’ dell’uomo non solo quando domina la natura, ma soprattutto quando si
impone sugli altri uomini. Nel secondo stasimo brechtiano, il coro mette in
guardia il tiranno dalla possibile rivoluzione di coloro che sono schiacciati.
‘Non gettarlo troppo in basso [chi ti irritò]/ così che più tu non lo veda […]
Rialza il capo il reietto; e disumanato rammenta/ l’antica figura già vissuta, e
rinnovato si leva.’ L’ultimo canto corale, quello che si apre con l’evocazione di
Dioniso, nel quinto stasimo dell’Antigone sofoclea, che nella traduzione-riela-
borazione di Hölderlin voleva trasmettere una voce primordiale, ‘dionisaca’
nel senso originario del termine, diventa in Brecht il canto funebre di un
regime che con il superomismo dionisiaco si era identificato, e negli ultimi
giorni aveva combattuto in preda a frenesia isterica. Nel canto corale dei
‘vecchi’ dell’Antigone di Brecht si sente l’eco degli adolescenti della Hitler-
jugend che durante gli ultimi giorni dell’assedio di Berlino credevano ancora
al Führer e alla vittoria finale, e si sacrificavano con fanatismo (parola che
sotto il nazismo aveva un significato positivo) irrazionale e maniaco. L’ultimo
canto corale è il commiato dei gerarchi nazisti nella Berlino ridotta in briciole
nell’aprile 1945. È il canto dell’infrangersi del sogno criminale di guerra di
Hitler.
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L’Antigone di Brecht, dunque, difende sì gli affetti familiari, ma solo perché
significativi anche politicamente; Polinice non ha tradito la patria perché la
‘[…] patria non è solo/ la terra, non solo la casa. Non dove uno versò/ sudo-
re, non la casa che impotente attende il fuoco/ non dove ha piegato la schiena,
non questo uno chiama patria.’
A parte l’ovvio disconoscimento del senso della ‘patria’ nazista, qui Anti-
gone esprime una domanda terribilmente d’attualità nel primo dopoguerra:
se potesse essere ancora riconosciuta come ‘patria’ la Germania da quei Tede-
schi che erano andati in esilio perché perseguitati dal regime o in disaccordo
con esso. Se potevano ancora chiamare patria la Germania gli ebrei tedeschi
sopravvissuti allo sterminio.
L’ambiguità di Antigone scompare invece nella contemporanea lirica a lei
dedicata da Brecht; è solo il teatro, infatti, il luogo deputato a problematizzare
e ad esporre le tensioni dialettiche sociali, e quelle individuali che ne
derivano.
Nella lirica, invece, si staglia in rilievo l’esemplarità della figura antica, a
cui forse è sovrapposta in particolare quella di Helene Weigel, e in generale
quella di tutte le donne che hanno saputo con forza e a costo della propria vita
opporsi ai ‘potenti’:
Vieni dall’ombra e procedi
davanti a noi per un po’,
amica, con il passo leggero
di coloro che sono decisi a tutto, tremenda
per i tremendi.
Scacciata via, so
quanto hai temuto la morte, ma
ancor di più hai temuto
una vita indegna.
E nulla hai concesso ai potenti,
e non ti sei uguagliata
ai confusi, né mai
hai dimenticato l’ingiuria e sul crimine per loro
non crebbe l’erba.
Salute!
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vero banale se non si vedesse un tipo del tutto specifico di violenza, quello
che deriva dall’incapacità, insomma: la crudeltà si riconduce alla stupidità.
[…] È pericoloso voler imporre all’arte una missione morale. […]’ (10 aprile
1948).
42
vita, la messa in scena dell’azione gratuita – lo avvicinano ad Albert Camus,
che nello stesso 1942 pubblica Lo straniero.
Nella messa in scena, il dramma di Anhouil è provocatorio: i personaggi,
compreso il coro, sono in abito da sera, non si distinguono in alcun modo,
dunque, dagli spettatori, e sono tutti sempre contemporaneamente in scena.
Dominano il nero ed il bianco. Due personaggi maschili in frac avanzano, le
donne sono in abito lungo, nero, gli altri in smoking. Avanza il Prologo
personificato, e si rivolge al pubblico: ‘Ecco. Questi personaggi reciteranno la
storia di Antigone.’ Il Prologo presenta dunque, uno dopo l’altro, i personaggi
che agiscono, ma con continui riferimenti all’attualità della rappresentazione e
al pubblico, con cui il Prologo si accomuna: ‘noi che non dobbiamo morire
questa sera’ – dice. Ogni cosa andrà come annunciato: la fine della storia già si
conosce. Antigone morirà, Euridice lavorerà a maglia per tutto il tempo, e
quando arriverà il momento si alzerà ed andrà a morire, ed anche Emone, che
ha chiesto sorprendentemente in sposa la magra e spenta Antigone invece
della bella e spumeggiante Ismene, sceglierà di morire. Segue una scena tra
Antigone e la nutrice. Diversamente che in Sofocle, Antigone ha già coperto
per la prima volta il cadavere con la terra. La ‘tata’ si arrabbia perché crede
che la ragazza, all’alba, vada ad incontrare un amante, poi cambia tono,
coccola la sua ‘bambina’. Nel frattempo entra Ismene, che crede di poter
ancora distogliere la sorella dal suo proposito. Quando la nutrice va via per la
seconda volta entra Emone: l’incontro tra i due personaggi è connotato da una
grande passionalità, Antigone vuole essere rassicurata dall’amore del giova-
ne, dall’essere amata ‘come una donna’, lei che ‘non è bella’, non della bellez-
za come è comunemente intesa. Ismene, poi, tenta ancora una volta di convin-
cere la sorella, ma Antigone svela che ha già compiuto il gesto. La nutrice ed
Emone non compariranno più.
Antigone, dopo aver rivelato ad Emone la sua fragilità ed il suo bisogno
d’amore, torna ora nel ruolo di colei che ha scelto, e commenta l’uscita di
Emone con una battuta metateatrale: ‘Ecco, è finita per Emone, Antigone.’ I
discorsi di Antigone sono pieni di oscure allusioni al futuro. Sia alla nutrice
che ad Emone chiede promesse che dovranno mantenere senza fare altre do-
mande, parla al condizionale, sembra aver preso definitivamente e suo mal-
grado la decisione di morire (‘ma non avrei voluto morire’). Sin da subito,
Antigone è rassegnata al ruolo che la vita le ha imposto: ‘A ciascuno il suo
ruolo. Lui [Creonte] deve farci morire, e noi, noi dobbiamo andare a seppellire
nostro fratello. È così che sono state distribuite le parti. Cosa vuoi che
possiamo farci?’ – dice ad Ismene. Pur non essendoci nessun elemento
religioso o trascendente, c’è qualcosa di simile alla Tyche, al ‘caso’, che
opprime l’individuo e limita la sua capacità d’azione.
Entra Creonte, e la guardia gli rivela quello che è successo. Creonte sup-
pone che si tratti di una macchinazione politica, ordina che si rinforzi la
guardia ma chiede silenzio, che la notizia non si diffonda. Così sono poste le
basi della tragedia. Il coro spiega che si tratta di un meccanismo tragico, per-
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ché il genere letterario obbedisce alle sue regole: ‘Ecco. Ora la molla è carica.
Non deve far altro che scaricarsi da sola. È questo il comodo nella tragedia. Si
dà una spintarella perché prenda il via […] È tutto. Dopo, non c’è altro se non
lasciar fare. Si è tranquilli. La cosa gira da sola. È minuzioso, ben oliato da
sempre.’ Il coro non sta parlando della vita, ma del genere letterario che im-
pera sulle scene francesi dal XVII secolo, che è ‘riposante’, perché si sa ‘che
non c’è più speranza, la sporca speranza’, si sa insomma come va a finire.
Sono certamente riflessioni estetiche, costellate di temi esistenzialisti: basti
pensare alla fine della speranza. In un ‘niente’, dice il coro di Anhouil,
comincia la tragedia. Nel Mito di Sisifo, Camus descrive la presa di coscienza
dell’assurdo, improvvisa, grazie ad una domanda di troppo che ci si pone una
sera. Per il coro di Anhouil sono l’amore folgorante (‘uno sguardo di un
secondo su una ragazza che passa…’), oppure il senso della dignità umana
(‘un desiderio di onore un bel giorno, al risveglio…’), a scatenare la tragedia:
insomma la scoperta, da parte dell’eroe tragico, che non è più possibile vivere
senza perfezione. ‘Allora, ecco, comincia’ – commenta il coro, ripetendosi.
La seconda parte della tragedia è impegnata dal dialogo tra Creonte ed
Antigone. La ragazza è portata davanti al tiranno da guardie che già pensano
alla ricompensa, e a come spenderla in bevute e puttane. Si ha l’impressione
che il drammaturgo non abbia alcuna comprensione per questi uomini brutali
ed ottusi come le SS e i poliziotti collaborazionisti. In Anhouil sono senza sen-
timenti: è patente nella scena finale, quando ad Antigone la guardia nega di
scrivere la sua ultima lettera, destinata ad Emone, ed acconsente solo di farsi
dettare delle righe la cui intensità non capisce. Creonte, da parte sua, cerca di
salvare Antigone, minandone le certezze: la accusa di aver osato infrangere la
legge credendo che l’essere una figlia di re le assicurasse l’impunità, poi di
agire irrazionalmente come Edipo, suo padre, che ha enfatizzato i suoi
problemi personali mettendoli al di sopra del mestiere di regnare; le assicura
che, se starà zitta e se ne tornerà a casa, tutto verrà messo a tacere. Antigone
persiste: ‘bisogna’ che lei seppellisca il fratello, per quanto inutile, per quanto
assurdo. Creonte ridicolizza ulteriormente il suo gesto, descrivendo anche la
sepoltura come una ‘pantomima’: il rito non toglie o aggiunge nulla alla
morte. Antigone risponde che compie il gesto ‘per se stessa’. Creonte è
esasperato, torce forte il braccio alla ragazza, poi sferra l’attacco finale: quella
vicenda è solo ‘una storia di politica.’ Antigone non ne sa nulla, ma Polinice, il
cui cadavere in putrefazione insozza la città, è un ‘fatto politico’, un esempio
da dare ai ‘rozzi’, al popolo, che capisce solo il linguaggio della violenza.
‘Siete odioso!’ – dice Antigone. Creonte risponde che è il ‘mestiere’ a volerlo,
un mestiere che lui ha accettato, a cui ‘ha detto sì’ come un operaio dice sì ad
un lavoro. Antigone, con la sua capacità di dire ‘no’, mette in difficoltà il re,
che ha paura, perché non vuole mandarla a morte, le chiede addirittura di
aver pietà e di accettare di vivere, poi sbotta e le fa una lezione non tanto di
Realpolitik, quanto di vita. Bisogna adattarsi, dover dire ‘sì’, e non si tratta
nemmeno di una scelta, se la barca sta andando a fondo, se si è aggrappati
44
all’albero, è un dovere per salvarsi, per non affogare. Antigone, come già
aveva detto ad Ismene, non capisce e non vuole capire. La giudiziosità,
l’invito a ‘comprendere’ è un tratto che unisce Ismene e Creonte, almeno sino
ad un certo punto. Il disprezzo di Antigone è sfacciato.
Creonte gioca la sua ultima carta: ‘Ascoltami lo stesso per l’ultima volta. Il
mio ruolo non è bello, ma è il mio ruolo, e ti manderò a morte. Solo, prima,
voglio che anche tu sia davvero sicura del tuo. Sai perché morirai, Antigone?
Sai sotto quale squallida storia firmerai per sempre il tuo piccolo nome
sanguinante?’ Creonte allora racconta ad Antigone quel che non sa, e cioè che
i due fratelli erano dei teppisti e dei criminali, che avevano tentato tutti e due
di fare assassinare il padre e si sono sgozzati per un regolamento di conti.
Nemmeno è sicuro di chi sia il corpo lasciato a marcire, perché dopo che si
erano uccisi una carica di cavalleria era passata loro sopra, sfigurandoli. Per
un momento Antigone, ‘come una sonnambula’ – dice la didascalia – sembra
accettare il punto di vista di Creonte. Dichiara di voler tornare nella sua
stanza.
Ed allora Creonte commette uno sbaglio. Come rinfrancato, le loda la vita
e la ‘felicità’ che l’attende. È su questa parola che scoppia la ribellione defini-
tiva e senza appello di Antigone. Di fronte ad una felicità fatta di ipocrisie, di
adattamento alla vita borghese, di compromessi, una felicità che non è felicità,
Antigone dice, definitivamente ed irremovibilmente, ‘no’. In queste battute
diventa rappresentante eterna della contestazione giovanile, del rifiuto della
mentalità viscida e borghese che ha il compromesso come norma di vita. An-
che Edipo, in questa lettura, è visto come a suo tempo un ‘rivoluzionario’, e
quindi l’opposizione non è soltanto generazionale, ma tra sognatori e non
sognatori. ‘Come mio padre, sì! – dice Antigone – Noi siamo di quelli che fan-
no le domande fino in fondo. Fino a che non resta veramente la più piccola
possibilità vivente di speranza, la più piccola possibilità di speranza da stroz-
zare. Noi siamo di quelli che le saltano addosso quando la incontrano, alla
vostra speranza, alla vostra cara speranza, la vostra sporca speranza!’ Questa
reazione è per George Steiner ‘isterica’21: per me è la manifestazione più alta
della purezza di Antigone, una purezza senza compromessi, letale, certo, ma
ammirevole nella sua coerenza. Una purezza che non destabilizza la società
perché si rivela inutile: Antigone non uccide, si uccide, ed è assai diverso. Una
purezza che si scaglia contro gli adattati, quelli che vivono sereni e pacificati
nella rinuncia mediocre, quasi gli ‘sporcaccioni’ della Nausea (1938) di Sartre:
‘ah, i vostri poveri volti di candidati alla felicità! siete voi a essere orrendi,
45
anche i più belli. Avete tutti qualcosa di orrendo all’angolo dell’occhio e della
bocca.’22
Ismene tardivamente vuole far parte anche lei di coloro che dicono ‘no’,
ma Antigone la rifiuta (anche se Ismene promette che andrà l’indomani a
grattare le unghie con la terra per coprire il fratello). Antigone viene portata
via dalle guardie chiamate da Creonte. Gli avvenimenti precipitano. Il coro, e
poi Emone, cerca di convincere Creonte, che è d’altra parte sotto choc, stanco,
solo: ‘Siamo tutti feriti a morte’ – sentenzia. Creonte sente su di sé il peso di
una vita vissuta dicendo sì, della vecchiaia, del prezzo che si paga per
diventare uomini, cioè per uscire dallo stato dell’ingenuità e dell’innocenza
che è l’infanzia. Solitudine reclama ed ottiene anche Antigone, che ha come
ultimo interlocutore una guardia per niente commossa, che le racconta di
come si fa carriera nell’esercito, si dilunga nella distinzione tra il grado di
‘guardia’ e quello di ‘sergente’. Antigone gli offre quel che ha, un anello d’oro,
purché le permetta di scrivere un’ultima lettera; ma la guardia ha paura della
corte marziale, acconsente a scrivere lui sotto dettatura, sul suo bloc-notes,
frasi di cui non capisce il senso. Antigone non fa nemmeno in tempo a dirgli a
chi è indirizzata la lettera, che termina con la frase: ‘Perdono, mio caro. Senza
la piccola Antigone, sareste stati tutti più tranquilli. Ti amo.’ La lettera non
verrà mai recapitata. L’espressione patetica di Antigone ‘O tomba, o letto
nuziale, o mia dimora sotterranea!’, pronunciata mentre la guardia
indifferente si accende una sigaretta e pensa a quanto difficile sia quel turno
che gli tocca, è l’unica citazione diretta da Sofocle. Segue il resoconto del
messaggero, la morte di Euridice, Creonte che va via appoggiandosi al piccolo
paggio. Il coro commenta: ‘Ecco, è vero, senza la piccola Antigone sarebbero
stati tutti più tranquilli. Ma adesso è finita. Quelli che dovevano morire sono
morti. […] Non restano che le guardie. A loro, tutto questo è indifferente; non
sono affari loro. Continuano a giocare a carte…’
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denaro. La famiglia trascorre le ferie al mare. Gli anacronismi stridono con gli
elementi residui della tragedia antica, quale la ‘spada’ con cui Emone si
uccide. È una scelta consapevole dell’autore, che vuole così mostrare
l’atemporalità della vicenda, la sua ‘esemplarità’, rinunciando ad esplicite al-
lusioni al presente, che del resto non sarebbero passate al vaglio della censura
nazista. Il dramma di Anhouil è improntato perciò all’ambiguità estrema, e
per questo potette essere rivendicato come esemplare delle proprie posizioni
sia dai collaborazionisti che dai resistenti (c’è una documentazione in due vo-
lumi su questo dibattito).23 Jacques Lacan denunciò in una formula lapidaria
‘la piccola Antigone fascista di Anhouil.’ Ambiguo è certamente Creonte, vit-
tima in fin dei conti del suo stesso potere; ambigua Antigone nella sua ansia
di morte; ambigua Ismene, che non aiuta la sorella, e sembra impersonare la
morale borghese, ma esce di scena con la promessa di ripetere il gesto di An-
tigone; ambiguo Emone, un ragazzo immaturo ed incapace di vere e proprie
scelte, che si affida ancora al padre come quando era bambino, e si rifugia
infine nella tomba come nell’utero materno insieme alla sua sposa ragazzina.
Il tema dell’infanzia, della sua purezza, della nostalgia dell’età bambina, è
un filo conduttore della pièce. ‘Piccola’, ‘piccolo’ è l’aggettivo più ricorrente:
‘che tutto sia bello come quando ero bambina – oppure morire’, è la filosofia
di Antigone. Il personaggio della nutrice è probabilmente escogitato proprio
per sottolineare la giovinezza di Antigone. L’adolescente è la figura centrale
dell’universo poetico di Jean Anhouil, ed Antigone simboleggia la
consacrazione mitica di questo ideale di purezza e sogno, che non viene a
patti con la vita. Antigone è il simbolo di coloro che ‘possono dire no a tutto
ciò che non amano’, mettere in dubbio la natura della felicità offerta da una
società conformista ed il valore di un’esistenza condannata all’usura del
tempo. Antigone ed Emone si amano, ma la ragazza esprime davanti a
Creonte la vergogna di vedere il suo fidanzato diventare ‘monsieur Hémon’,
come il padre costretto a dire ‘sì’, un Emone cresciuto, insomma: Antigone
può amare solo un Emone integerrimo e giovane, esigente e fedele, come è lei
stessa.
Ci si può chiedere però se questa esaltazione della giovinezza non sia iro-
nica. Antigone è giovane, è vero, ha vent’anni, ma vent’anni non sono l’infan-
zia e nemmeno più l’adolescenza, e soprattutto non lo erano affatto nel 1942!
La vezzosa Antigone gioca a fare la bambina. La vita è, del resto, teatro,
imposizione di ruoli. Nel dramma le metafore del ‘gioco’ come ‘recita’, possi-
bile nella lingua francese, sono molte. Ma Antigone gioca a fare la bambina
sino a che Creonte non pronuncia la parola ‘felicità’. Allora la sua maschera
infantile cade, allora la ribellione si fa seria, ed Antigone – che era sul punto di
salvarsi – ostinatamente ribadisce che la sua via è morire. E non muore da
bambina, tutt’altro. Muore consapevole della propria ‘scomodità’ in una so-
cietà di cui non accetta i meccanismi.
23 Manfred Flügge, Verweigerung oder Neue Ordnung. Jean Anhouils ‚Antigone‘ im politischen
und ideologischen Kontext der Besatzungszeit 1940-1944, due volumi, 1982.
47
Invero l’unico bambino sulla scena è il paggio che accompagna sempre
Creonte; in Sofocle, un bambino accompagna Tiresia, ed ha una funzione
importante, perché l’indovino è cieco, e da solo non potrebbe camminare.
Anche Edipo si appoggia ad Antigone quasi-bambina, una volta cieco ed in
esilio (nell’ Edipo a Colono di Sofocle). Il bambino che accompagna Creonte,
perciò, ne sottolinea la fragilità, l’incapacità di tenersi in piedi da solo. In
Anhouil Creonte è come cieco, ed il bambino, guida instabile, insicura, non
rende meno buia la sua solitudine, anzi, quasi la schernisce con la sua
giovinezza. A lui Creonte chiede: ‘Non vedi l’ora di diventare grande, tu?’; il
bambino risponde di sì. ‘Sei pazzo, piccolo. Bisognerebbe non diventare
grandi mai.’ Ma ancora una volta, il paggio che sostiene il tiranno è una
comparsa simbolicamente ambigua. Nell’ammettere, sorprendentemente, che
non bisognerebbe mai diventar grandi, Creonte in certa misura dà ragione ad
Antigone, mentre nella prima parte della tragedia è lui a vincere. Creonte si
reca in un ‘consiglio’, come se niente fosse accaduto, vittima della sua vita, del
potere che ha inseguito e lo ha svuotato di qualsiasi umanità ed affetto. Non
esce però indenne di scena: al contrario è mortalmente danneggiato, e la sua
vita è vicina alla morte, se non a quella fisica a quella spirituale. Con
altrettanta facilità, Euridice passa dalla vita non-vita alla morte: lei sì, non
Ismene, è una donna che si è adattata completamente alla mentalità corrente,
e parla solo e ‘sempre del suo giardino, delle sue marmellate, dei suoi ricami,
dei suoi eterni ricami per i poveri.’ Euridice, moglie di Creonte e madre di
Emone, ha tra le mani i ferri da maglia, evocazione lontana di quelle tricoteuse
sarcastiche che, durante la Rivoluzione, accompagnavano i condannati al
patibolo. Stavolta è invece la tricoteuse ad essere scelta dalla morte. La
complice del boia è divenuta vittima.
48
azione ironicamente eroica: una sepoltura di un cadavere sfigurato che
potrebbe essere quello di Polinice, ma anche quello di Eteocle. Antigone è
sola, non riesce a comunicare con la guardia che la sorveglia prima
dell’esecuzione, non vuole comunicare con Creonte, rifiuta l’amore di Emone:
ma si tratta di una solitudine patologica, di una negazione della vita ostinata e
certamente senza ragioni politiche.
La tragedia di Anhouil rappresenta un conflitto generazionale, e forse per
questo è stata molto amata sin dal momento della sua rappresentazione. An-
tigone si ribella al mondo dei padri, impersonato da Creonte, a chi dice ‘sì’
adattandosi alla vita, alle sue necessità, perdendo in spontaneità e in purezza
di sentimenti. Pur di non diventare vecchia, nell’animo prima ancora che fisi-
camente, pur di non vedere la passione di Emone sfiorire nella quotidianità,
preferisce morire. La sua è l’irragionevolezza dei giovani, che vogliono tutto e
subito dalla vita, che non si accontentano di mezze misure, che perseguono il
sogno senza volerne sapere di sogni ridimensionati, compromessi, alternative
sbiadite. Antigone non è fatta per ‘comprendere’, come chiede la sorella Isme-
ne. ‘Voi non avete che questa parola in bocca, tutti, da quando ero piccola.
Bisognava comprendere che non si può giocare con l’acqua […] Bisognava
comprendere che non si deve mangiare tutto in una volta […] Comprendere.
Sempre comprendere. Io non voglio comprendere. Comprenderò quando sarò
vecchia. Se divento vecchia. Non ora.’ Le parole di Antigone restano di strin-
gente attualità in ogni, giustificato, rifiuto dei giovani di assecondare le
convenzioni, la comune ragionevolezza, di obbedire all’invito saggio e spento
ad adattarsi alla realtà e al ‘buon senso’. Il gesto della sepoltura è di autentica
ribellione, è il gesto di coloro che dicono ‘no’, e si contrappongono ai tanti,
alla maggioranza, che dicono ‘sì’. Anche l’Antigone di Anhouil è anticipatrice:
nella ragazza magra (anoressica?), lontana dagli stereotipi femminili, che vive
il contrasto tra la propria intelligenza e la bellezza che non ha, c’è la
prefigurazione delle ragazze ribelli della fine degli anni Sessanta del
Novecento, a cui Liliana Cavani ha dato un altro volto di Antigone nel film I
cannibali (1969).
Direi anzi che l’Antigone di Anhouil è troppo anticipatrice: in un’Europa
ancora dilaniata dalla guerra, nella Francia occupata della Repubblica di
Vichy, la discussione sottile tra Creonte ed Antigone sul senso dell’esistenza,
sulla felicità e sulla sua possibilità e i suoi limiti, sulla morte come unica alter-
nativa ad una felicità utopistica, è prematura. Il dramma offre un alibi per non
affrontare la tragedia della realtà e della guerra. Anche per questo è stato
visto, a torto, come espressione del collaborazionismo francese. È invece il
dramma, ante litteram, dei terroristi degli anni Settanta, di quelli che hanno
interpretato in maniera fuorviata l’esistenzialismo francese: si ricordi
simbolicamente come, in una scena del film Anni di piombo (1980) di
Margarethe von Trotta, una delle sorelle legga proprio Sartre24.
24 Su Antigone nel film di Liliana Cavani e nei film della von Trotta torno in Antigone sullo
schermo, Bari 2012.
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Una questione di virgole. Ancora Brecht e Sofocle a confronto
(Walter Jens, 1958-1978)
Il ‘dialogo impossibile’ di cui ora parleremo fu scritto in occasione di un alle-
stimento dell’Antigone nel 1958 nella nuova traduzione di Walter Jens, uno dei
maggiori filologi classici del secolo scorso, nato nel 1923, conosciuto al grande
pubblico, non solo tedesco, per le traduzioni dai classici antichi, per i romanzi,
i drammi, l’attività di conferenziere25. Erano passati dieci anni dalla prima
brechtiana a Chur. Si riproponeva il dramma di Sofocle in una nuova tradu-
zione tedesca, lontana da Hölderlin e filologicamente fedele; ma si prende-
vano anche le distanze dall’ingombrante modello brechtiano. Jens, attraverso
la finzione drammatica, spiega al pubblico la drammaturgia brechtiana,
restituendo il nome ad alcune delle figure storiche, Hitler, Pio XII e altri, che
trapelano in filigrana dai personaggi dell’Antigone rielaborata da Brecht, ma lì
non sono esplicitamente nominati. Lo scopo di Jens è soprattutto mostrare che
la distanza tra il teatro epico di Brecht ed il teatro dell’antichità classica non è
tanto grande, come lo stesso Brecht teneva a sottolineare. Il teatro
‘aristotelico’, infatti, è un’invenzione di epoche successive ad Aristotele, e tra
l’altro qui Jens riesce, con levità, a porgere ad un pubblico anche inesperto di
greco l’interpretazione di uno dei passi più discussi della letteratura antica,
quello cioè della Poetica aristotelica in cui si descrive l’effetto della tragedia: la
tragedia è ‘adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la
catarsi che le passioni rappresentate comportano’ (6, 1449 b 26-28). In questo
dialogo immaginario, Sofocle afferma che per un greco del V sec. a.C. ‘pietà’,
‘paura’, ‘catarsi’ sono concetti medici, e che perciò la celebre ‘catarsi’ non ha
nulla a che vedere con una ‘purificazione’ morale o spirituale o psicologica, è
solo un processo fisico di liberazione degli umori, come le lacrime, e di
reazioni fisiche.
Jens mostra inoltre come non si possa parlare di antichità e comprendere i
testi antichi senza conoscerne la lingua: e perciò segnala un ‘errore’ della
traduzione di Hölderlin, che Brecht ha accolto passivamente (secondo Jens)
nella sua rielaborazione. Ma spiega anche come il celebre verso ‘sono nata per
l’amore, non per l’odio’, si riferisca alla situazione contingente di Antigone, al
suo riconoscersi nei legami familiari e non nello schema amico/nemico di tipo
politico che guida l’azione di Creonte.
Secondo Jens, Brecht si avvicina alle opere dell’antichità ancora con un cer-
to pregiudizio classicistico: e perciò non si accorge che alcune tecniche, come
quella dello ‘straniamento’, erano già note all’antichità. Il teatro greco non era
illusionistico nel senso che intendeva Brecht, non voleva addormentare le
coscienze: ma anzi svegliarle e proporre a tutti, attraverso il mito, una revi-
25 Vedi Bernd Seidensticker, Walter Jens und die Antike, in: Mythen in nachmythischer Zeit. Die
Antike in der deutschsprachigen Literatur der Gegenwart, hrsg. von B. Seidensticker − M.
Vöhler, Berlin/New York 2002, pp. 181-207.
50
sione critica di fatti attuali. Il teatro greco insomma, vuole dire Jens a ragione,
è non meno politico di quello di Brecht, e qualsiasi considerazione puramente
estetica del fatto teatrale greco è limitata e sviante. Tra l’altro i concorsi dram-
matici ad Atene erano una grande manifestazione popolare, al contrario del
teatro moderno. Per quel che riguarda più direttamente l’Antigone, le osserva-
zioni di Goethe e l’influente interpretazione di Hegel non colgono affatto nel
segno. Per bocca di Sofocle, Jens dà la sua interpretazione della tragedia, a cui
aveva dedicato un saggio filologico nel 1952.26 Per Jens, Creonte è il tiranno, e
l’interpretazione hegeliana, che vede il personaggio come un’istanza morale
sullo stesso piano di Antigone, rappresentante unilaterale, ma con la stessa
autorità, di un diritto diverso da quello che lei rappresenta, è rigettata con fer-
mezza: Creonte è un pazzo, un criminale, che si scaglia con crudeltà contro
una ragazza che voleva solo seppellire il fratello. Ma chi è, allora, Antigone?
Una ragazza non totalmente ingenua, che conosce le ragioni del suo gesto,
della razza di coloro che sanno dire ‘no’ alle ingiustizie morali: in
quest’espressione, Jens si ricorda di Anhouil, ma anche di se stesso. Il suo
primo romanzo di successo, infatti, si intitola proprio No. Il mondo degli accu-
sati, pubblicato nel 1950, ed il protagonista è un uomo, con tratti autobio-
grafici, che sa dire ‘no’ al potere e alla corruzione. D’altro canto Antigone è,
secondo Jens, un personaggio completamente privo d’amore, che trova solo
nel suo moralismo la ragione della propria esistenza. In una battuta che fa
pronunciare a Sofocle, Jens suggerisce persino la possibilità di un amore
incestuoso con il fratello (argomento poi ripreso da varie interpretazioni
psicoanalitiche).
Jens non intende servire interessi filologici, e ridimensionare il teatro
brechtiano in favore di quello sofocleo: ma piuttosto affermare l’utilità dei
classici antichi, compresi nella loro dimensione storica, per il presente. Pro-
prio un’analisi storica svela, secondo Jens, il senso dell’operazione brechtiana,
ovvero l’applicazione ad un testo antico di categorie che la società che lo ha
prodotto non conosceva: cioè la divisione in classi basata sui mezzi di
produzione. ‘Posso impararla?’ – chiede questo Sofocle immaginario al
collega Brecht, che gli risponde: ‘certo, è un meccanismo semplice.’ La
risposta di Brecht esprime la critica di Jens, e di parte del teatro post-
brechtiano, all’applicazione schematica da parte del maestro di categorie
marxiste.
L’autore ripubblica il Dialogo tra Sofocle e Brecht in una raccolta di saggi
sull’antichità nel 1978, anno cruciale per la ricezione di Antigone in Germania,
come vedremo. In un momento politicamente assai difficile per la Repubblica
Federale Tedesca, Jens prende le distanze anche dall’equiparazione della ri-
bellione di Antigone a quella armata delle terroriste che lottano contro lo Stato
capitalista.
26 ‚Antigone‘-Interpretationen, in: Satura. Früchte aus der antiken Welt. Otto Weinreich zum 13.
März 1951 dargebracht, Baden-Baden 1952, pp. 43-58.
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Il dialogo di Walter Jens è un dialogo colto, di tipo filosofico, come quelli
antichi di Luciano di Samosata; è pieno di citazioni, riferimenti, allusioni sto-
riche. Eppure è lieve da leggere e lo è da rappresentare. Jens, del resto, aveva
grande esperienza di radiodrammi e di messe in scena. Credo che sia, nella
sua concisione e chiarezza, una tra le migliori introduzioni alla storia delle
ricezioni delle Antigoni di Sofocle in ambito europeo.
52
hanno scritto tutti e due un dramma su Antigone. Ciascuno a suo modo.
Cosa vi ha spinto verso questa figura? Cosa avete voluto mostrare? Vi ha
interessato il carattere? Una ragazzina di quindici anni, che si mette in
cammino per seppellire il fratello, pur sapendo bene che per quest’azione
c’è la pena di morte? Oppure è la costellazione politica che vi affascina:
una bambina, che segue il comandamento dell’onore familiare, fa la
rivoluzione anche senza volerlo?
BRECHT (scuote la testa): Tutte e due le cose sono false. Antigone agisce per li-
bera decisione. La sua azione è frutto di una profonda riflessione. E per
quel che riguarda la rivoluzione: una sollevazione tra quelli che sono al
potere non è una rivoluzione. Io vedo così il caso Antigone: in un paese
regna la tirannia. Il paese può essere Tebe o la Germania, il tiranno si può
chiamare Hitler o Creonte. Il nome non ha importanza. Quel che conta è
solo questo. Il tiranno è un fantoccio di paglia. Ha dei mandanti. Gente che
sta dietro di lui. Uomini che lo usano, per assicurare il loro proprio po-
tere… lui, che serve i ricchi, procura nuovi mercati per l’economia ed iden-
tifica il suo proprio potere con il potere del capitale. Se Creonte (ma potrei
dire anche Hitler) porta guerra per trovare fonti di materie prime, guerra
contro Argo (o se volete contro l’Unione Sovietica), allora i ricchi dicono:
‘Bene, va avanti.’ E se Creonte conduce il popolo in una campagna bellica,
allora i ricchi dicono: ‘eccellente!’; perché sanno che la guerra è un mezzo
sicuro per deviare la cupidigia del popolo dai tesori della propria terra
verso beni stranieri. Ma se la guerra va male, se Argo (potete anche dire
‘Stalingrado’) non si riesce ad espugnare, se nella casa regnante si apre un
dissidio tra Creonte ed il suo proprio figlio, Polinice (o il generale Seydlitz
o chiunque altro del comitato nazionale per la Germania libera28) fugge tra
i nemici, se il popolo comincia a mormorare: allora i ricchi cominciano a
guardare chi possa aiutarli. Allora si comincia a pensare al dopo la
catastrofe: Creonte può andare alla malora… purché fiorisca il commercio!
Hitler può…
SPEAKER (guardando l’orologio): Volevate parlare di Antigone, se non sbaglio…
BRECHT: Io parlo di Antigone. Non dimenticate. Lei è stata complice. Sino a che
a Tebe andava tutto bene, è rimasta in silenzio. Si è ribellata per la prima
53
volta quando è stata toccata la sua famiglia. Il fratello. Il disertore, che
Creonte lascia massacrare. Allora, improvvisamente, apre gli occhi e vede
che era la guerra di Creonte – e non la guerra del popolo, non la guerra di
Antigone – che lì veniva condotta. La guerra dei ricchi e non la guerra dei
proletari. Una guerra di rapina. Una guerra imperialista. Una guerra spor-
ca. E perciò la mia Antigone può dire, nel momento in cui Creonte la accu-
sa di tradimento della patria: ‘siederemmo piuttosto tra le rovine della
nostra città e più al sicuro che con te nelle case del nemico.’
SPEAKER: Questo vuol dire che capisce la realtà?
BRECHT: Sì. Ma solo dopo Stalingrado.
SPEAKER: E prima?
BRECHT: L’ho detto: mangiava pane e non si chiedeva dove era stato cotto.
SPEAKER: Allora la sua azione sarebbe…
BRECHT: …un atto di riparazione. Certo. Aiutando il nemico – e la sepoltura
del fratello è un appoggio dato al nemico – dà un contributo morale.
L’unico, che le resta.
SPEAKER: E agisce in nome del popolo?
BRECHT: No. Il popolo rappresenta se stesso.
SPEAKER: Ed Emone, il fidanzato di Antigone? Rappresenta il popolo?
BRECHT: No.
SPEAKER: Ed il sacerdote? Come stanno le cose con Tiresia? Comunque si op-
pone a Creonte.
BRECHT: Sì. Perché vede la rovina. Sino a che la guerra andava bene, aveva
benedetto le armi: Tebe (potete anche chiamarla l’occidente cristiano) era
per Tiresia (ossia per Pio XII) suolo sacro, e ad Argo (o nell’Unione Sovie-
tica, come vi piace) abitava il diavolo. Come ho detto: fino a che andava
bene. I signori mercanti ed ideologi si sollevarono, nel momento in cui la
cosa cominciò a puzzare.
SPEAKER: Bene, è convincente. Però restano due domande. Prima: se nessuno,
e nemmeno Antigone, rappresenta la massa, il popolo riunito in teatro con
chi deve identificarsi?
BRECHT: Con nessuno.
SPEAKER: Cosa? Non deve prendere posizione?
BRECHT: Certo. Quella del popolo che assiste alla discordia tra i potenti.
SPEAKER: Resta la seconda domanda. La Sua Antigone, Brecht, tratta un pro-
blema del presente. È vero?
BRECHT: No, tratta un problema storico. Il capitalismo non è un fenomeno
odierno. L’arte di proteggerlo nemmeno. E anche la Resistenza ha la sua
storia.
SPEAKER: Tuttavia è pieno di…
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BRECHT (si accende un sigaro): Dovete passare la parola all’uomo che siede ac-
canto a me.
SPEAKER: Subito. Volevo dire: tuttavia il Suo dramma è pieno di allusioni alla
guerra dei Tedeschi contro l’Unione Sovietica: qui sono cucite pellicce per
l’inverno, lì lottano i partigiani come lupi… lì… (si interrompe) Perché allo-
ra non dire ‘Seydlitz’, ‘Pio XII’, ‘Hitler’, ‘Krupp’29? Perché questo passare
attraverso la Grecia?
BRECHT: Per rendere tutto più chiaro. A causa della ‘obiettivizzazione’. La di-
stanza storica mette in guardia da un’identificazione frettolosa. Solo quel
che appare antichizzato rende possibile allo spettatore la libertà di calcolo
e gli permette di osservare attentamente il carattere di modello del dram-
ma. Chi vuole trasformare un dramma di personaggi in un dramma socia-
le, deve prenderla alla lontana. Ha bisogno della distanza. Attualità ed
estraneità: questa è la giusta miscela. Analogia, che viene condotta sino al
concetto. Perciò Antigone. E per rendere evidenti i rapporti del potere… e
non solo per giurare sullo ‘spirito degli antichi’ – si dice così? (Rivolto a So-
focle) Mi dispiace. Da me non possono essere perseguiti interessi filologici.
Questa Antigone…
SOFOCLE (piano e per inciso): Ti piace?
BRECHT (che alla fine della sua parte si aspettava un intermezzo più lungo dello
Speaker, quasi scioccato): Come?
SOFOCLE: Ti ho chiesto se ti piace. (Non arriva nessuna risposta) A me è, per
dirla tutta, estranea. Fondamentalmente non mi sono ancora mai chiesto
quanti anni davvero abbia, se quattordici o quindici o forse già diciassette,
e se quel che le faccio dire si adatta in generale al suo carattere. (Pausa) Il
suo carattere! Buono? Cattivo? Cosa vuoi che ne sappia, io… Una eroina?
No. Ha troppa paura per esserlo. Una donna che ama? (Alza le spalle) Può
essere. Per quel che mi riguarda mi son guardato bene anche solo di fare
una piccola menzione erotica. Se Antigone ama qualcuno, allora è suo
fratello.
BRECHT (molto interessato): Davvero solo lui?
SOFOCLE (meravigliato): E chi altri?
SPEAKER: Comunque si dice… (rivolto al pubblico) pardon, un secondo, (sfoglia
un libro) lo trovo subito. Ecco, Creonte dice ad Antigone: ‘mai un nemico,
anche se morto, diverrà amico’. Ed ecco la risposta: ‘Ma certo. Vivo non
per l’odio, ma per l’amore.’
SOFOCLE (a Brecht): L’hai scritto tu?
BRECHT (a Sofocle): No, l’hai scritto tu. (Sofocle scuote la testa)
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SPEAKER: Una frase citata spesso: ‘non sono qui per odiare, ma per amare’:
così era scritto, in greco, nell’aula magna della nostra scuola. Una frase che
testimonia come non ci sia frattura tra l’umanità greca e la devozione cri-
stiana. Nel segno dell’amore…
SOFOCLE (interrompendo): Amore! Amore! Antigone e l’amore! Proprio lei, lei
che insulta la sorella dicendo: ‘perché chiedi a me? chiedi a Creonte! È
Creonte che ti sta a cuore!’: e voi lo chiamate amore?
BRECHT: E tuttavia lei dice che…
SOFOCLE: No, lei dice no! (Gli altri due guardano meravigliati) Allora, attenzione
(prende un bicchiere, lo mette davanti a sé sul tavolo) Creonte (prende un posa-
cenere e lo pone accanto al bicchiere) Antigone. Questo qui (ed indica il bicchie-
re) conosce solo amico e nemico. Amico è il compagno politico. Nemico è
l’avversario politico. Amico è Eteocle, che è morto eroicamente, come dice
Creonte, per Tebe. Nemico è Polinice, che ha mosso guerra alla sua patria.
Ed ora (indica il posacenere) ecco Antigone. La sorella. Affezionata a tutte e
due i fratelli. Ecco perché dice: ‘Non sono nata per essere un nemico, ma
un amico.’ Un amico tra i miei fratelli. Questo è tutto. È una replica alla
frase dell’uomo, nel sistema amico/nemico nel quale non si inquadra, per-
ché una sorella non può giudicare i fratelli secondo criteri politici. Non
può riservare al patriota un abbraccio fraterno e al disertore una…
denuncia! (Rivolto a Brecht) Hai capito?
BRECHT: Sì. Cambierò il verso. Del resto, non mi è mai piaciuto. (Pausa. Il con-
duttore cerca di passare in maniera appropriata ad un altro argomento. Brecht tira
dal sigaro) Una morte sobria, devo dire. Non ci sono molti rulli di tamburo.
SOFOCLE: Se tu con ‘rulli di tamburo’ intendi ‘pathos’ hai ragione. È davvero
una morte sobria. Sobria, riflessiva, dignitosa. (Allo Speaker) Posso fare
delle citazioni? (Lo Speaker fa cenno di sì con la testa) Bene, allora sentite. (Si
tira indietro, parla a memoria) ‘Chi pensa giustamente, mi capirà. Se fossi
madre, se fosse morto mio marito, non avrei osato agire contro la città.
Con quale diritto dico ciò? Se avessi perso mio marito – avrei potuto tro-
varne un altro. Se mi fosse morto un bambino, avrei potuto averne un altro
da un altro uomo. Ma ora, dato che i genitori sono morti, nessuno mi ridà
indietro mio fratello. Così dice la legge che seguo.’
SPEAKER: Potrei chiederLe di citare una seconda volta il passo?
SOFOCLE: E perché?
SPEAKER: È stato scritto molto su queste frasi di Antigone. Vorrei mandare a
prendere un libro, per verificarlo sul testo.
SOFOCLE: Va bene, ma allora per favore devo citare tutto il passo. (Lo Speaker
chiama con un cenno uno degli inservienti, gli dice qualcosa all’orecchio e lo man-
da fuori: ‘presto, è urgente’. Poco prima che Sofocle abbia finito la sua citazione,
l’inserviente ritorna. Nel frattempo Brecht ha accompagnato il discorso di Sofocle
con gesti che lo scandiscono, e con un’espressione di consenso)
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‘O tomba! O talamo nuziale!
O casa, giù nella terra, mia unica guardiana,
lì incontrerò di nuovo i miei parenti.
La maggior parte di loro li ha presi già da tempo la dea della morte
e come ultima, misera, vado giù da loro…
Ma quando verrò, spero di essere cara al padre,
cara, o madre, a te,
e cara anche a te, fratello mio.
Perché quando voi siete morti, vi
ho lavato, con le mie mani,
vi ho vestito e per voi
ho versato sulla tomba le estreme offerte.
E ora, mio Polinice, devo morire,
solo perché ho nascosto il tuo corpo.
Ma chi ragiona bene, mi capirà.
Se io fossi madre, se fosse morto mio marito,
non avrei osato agire contro la città.
Con quale diritto lo dico?
Se avessi perso mio marito – avrei potuto trovarne un altro.
Se mi fosse morto un figlio, avrei potuto riceverne un altro,
da un altro uomo.
Ma ora, dal momento che i genitori sono morti,
nessuno mi riporta mio fratello.
Così dice la legge che io seguo.
Ma agli occhi di Creonte, fratello, io ho peccato
e ho agito contro di lui.
Ora con la violenza mi spinge a morire.
Ahimè! Mi prendono.
Nessun canto nuziale risuona e senza onore e senza figli e sola,
del tutto misera,
scendo sotterra.’
BRECHT (che alla fine, sopraffatto da vera commozione, ha smesso di scandire con la
mano): Sai, è davvero bello. Mi piace. Come questa donna si giustifichi,
come cerchi ragioni perché ha paura di quel che sta per accadere e vuole
rassicurare se stessa di non aver avuto davvero nessun’altra scelta… sì, è
credibile. Non incanta con bei sentimenti, ma con l’onore e la fama ed il
dovere nei confronti del cielo. Qui viene dato conto centesimo per
centesimo: ‘Se proprio devo crepare, allora voglio anche sapere perché’.
Grandioso, davvero.
SOFOCLE: A me sembra innanzitutto logico.
SPEAKER: Ma un dramma ed una equazione matematica sono due cose
diverse.
BRECHT: Questo è quello che credete voi. Io non lo credo. Anzi.
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SOFOCLE: Neanche io.
BRECHT: In ogni caso ci sono delle regole.
SOFOCLE: Il calcolo sulla base di leggi.
BRECHT: Una maniera di comportarsi studiata.
SOFOCLE: Principi sicuri.
BRECHT: Convenzione e consenso.
SPEAKER: Ma nonostante questo, non è certo poetico che un essere umano, nel
momento in cui sta per morire, cominci a calcolare.
SOFOCLE: Ma è realistico. (Brecht lo guarda meravigliato: ‘Come? Dice questo?’ E
versa da bere al suo collega)
SPEAKER (irritato per l’armonia tra i dialoganti, che si prendono gioco, pare, di lui):
Allora sentite questo: (apre un libro) ‘Dopo che l’eroina’ – si intende Anti-
gone – ‘nel corso del dramma ha espresso i motivi più nobili per la sua
azione ed ha sviluppato il coraggio nobile della più pura delle anime, pro-
prio alla fine, quando va a morire, adduce un motivo che è del tutto cat-
tivo e che rasenta quasi il comico. Dice che quel che ha fatto per il fratello,
se fosse stata madre, non l’avrebbe fatto per suo figlio morto e non per il
suo sposo morto. Infatti – dice – se mi fosse morto un marito, allora ne
avrei preso un altro, e se mi fossero morti figli, allora avrei generato con il
nuovo marito altri bambini. Solo con mio fratello è un’altra cosa. Un fra-
tello non lo posso riavere, perché mia madre e mio padre sono morti, e
così non c’è nessuno che possa generarlo… Questo è almeno il senso nudo
di questo passo, che per il mio sentire disturba l’atmosfera tragica di una
eroina che sta andando a morire e che a me sembra, in generale, molto ri-
cercato ed appare troppo un calcolo dialettico. Vorrei tanto che un buon fi-
lologo ci mostrasse che il passo è spurio.’
BRECHT (espira il fumo del sigaro): Di sicuro l’ha detto Goethe.
SPEAKER: Conoscete il passo?
BRECHT: No. Ma Goethe… (sbadiglia) Questo perbenismo. Questo spregio della
dialettica. Questo maledetto gusto… (con intonazione parodica) ‘per il mio
sentire disturba l’atmosfera tragica di una eroina che sta andando a morire’: da
vomitare! Il signor Ministro30 si pregia di dare delle prescrizioni a una che
sta per crepare: ‘signora, ma parli in maniera poetica! Lei parla proprio
come se stesse contando dei polli! Ma usi delle metafore!’ (Si interrompe e
prosegue, dopo aver ripreso un attimo fiato, con tono cerimonioso) ‘Altrimenti de-
vo insistere sul fatto che un buon filologo ci dimostri che il passo è spurio.’ (A So-
focle) Mi sembra che dobbiamo deludere il ‘Signor consigliere segreto di
corte’31.
30 Cioè Goethe.
31 Cioè Goethe.
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SOFOCLE: Naturalmente il passo è autentico. La mia Antigone, in fin dei conti,
non è una sognatrice. Può essere giovane quanto si vuole: ma sa abbastan-
za del mondo per saper quel che significa: essere torturata.
SPEAKER: Torturata?
SOFOCLE: È una tortura essere sepolti vivi. È un assassinio lasciare solo un
essere umano in un sepolcro fatto di fango, detriti e terra… solo con un
unico pezzo di pane ed un boccale d’acqua. Creonte è stato un assassino.
SPEAKER: Senza averne diritto?
SOFOCLE: Senza diritto. Un tiranno.
SPEAKER: Era pur sempre il rappresentante dello Stato.
SOFOCLE: Non lo era affatto!
SPEAKER: Allora ascolti questo. (Prende un libro da una colonna di libri accanto a
lui)
BRECHT: Di nuovo qualcosa di Goethe?
SPEAKER: No, di Hegel.
BRECHT: Allora sono proprio curioso.
SPEAKER: ‘In maniera plastica la collisione dei due più grandi poteri morali,
posti l’uno di fronte all’altro, è rappresentata nell’esempio assoluto della
tragedia, Antigone. Qui l’amore per la famiglia, quel che è sacro, interiore,
il legame sentimentale dei parenti, che perciò è anche chiamata la legge
degli dei inferi, entra in collisione con il diritto dello Stato. Creonte non è
un tiranno, ma un potere morale…’
SOFOCLE: Ma questo è completamente sbagliato! Questa è pazzia! Creonte: un
potere morale! Proprio lui…
SPEAKER: Per favore, la citazione non è finita: (continua a leggere) ‘Creonte non
ha torto: crede che la legge dello Stato, l’autorità del governo, debba essere
rispettata e che la punizione segua al crimine. Ciascuna di queste due parti
realizza solo una del potere morale, questa è la sua unilateralità.’
SOFOCLE: Ma Creonte è cieco! Come può un cieco rappresentare una potenza
etica? Creonte ha solo un unico pensiero: chi è contro di me, è un crimina-
le, un membro dell’opposizione, una canaglia corrotta. Creonte dice: il Re
e lo Stato sono un’unica cosa!
BRECHT: E ad Hegel questo piacque molto…
SOFOCLE: Ma non a me! Io odio i tiranni. Disprezzo la gente che non riesce a
pensare a nient’altro se non al denaro. (Parla agitandosi e comincia così a
tremare)
‘Ci sono uomini nella città,
che segretamente mormorano contro di me, già da tempo,
e che mi si inchinano solo a fatica.
Scuotono la testa. Non tengono la nuca sotto il giogo.
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Non mi seguono.
Sappiatelo: costoro hanno pagato chi ha commesso quest’azione.’
Così non parla nessun avvocato di un principio etico. Così parla un tiran-
no! Così parla un folle! Un folle che fiuta piani di opposizione – un gigan-
tesco complotto! – dove in realtà c’è solo una ragazzina, che dà l’estremo
onore al fratello. (Si interrompe, si volta verso Brecht e chiede di fretta) A pro-
posito: come hai tradotto deinos?
BRECHT (confuso): Come… cosa?
SOFOCLE: Conosci il greco, no?
BRECHT (in maniera evasiva): Sì, certo. Se così si può dire.
SPEAKER: deinos… (viene in aiuto a Brecht) vuol dire ‘terribile’.
SOFOCLE: Di nuovo sbagliato. Significa ‘tremendo’32. E precisamente nel dop-
pio significato della parola: grande e perturbante… e proprio questo è l’uo-
mo – e proprio questo Creonte: terribile come dominatore della natura,
perturbante nella sua ambiguità morale. Signore del fuoco! Ma guai se
l’uomo – come Creonte – gioca col fuoco! ‘Tremendo è molto, e niente è
più tremendo dell’uomo’: è proprio la sua grandezza che fa cadere così in
basso l’essere umano. (Si interrompe di nuovo, come prima) Allora: come hai
tradotto deinos?
BRECHT: Ho usato una vecchia traduzione – di Hölderlin.
SOFOCLE: Conosceva il greco?
BRECHT: Credo proprio di sì.
SOFOCLE: Fammi vedere. (Prende il testo di Brecht, lo sfoglia) Ah, ecco: ungeheuer.
Sì, va bene. (Legge ancora, è sorpreso) Questo sapeva il greco, dici? Questo
qui?
BRECHT (esitante): Certo. Veniva da Tübingen.
SOFOCLE: Alla faccia! Certo non sapeva il greco. (Mostra un passo nel testo) Che
significa questa cosa qui?
BRECHT (legge): ‘Esperto in tutto, inesperto. A nulla perviene.’33
SOFOCLE: Leggi di nuovo
BRECHT (ricomincia): Esperto in tutto…
SOFOCLE: Punto.
BRECHT: Dici?
32 In tedesco c’è ungeheuer, cioè il termine usato da Hölderlin nella sua traduzione.
33 È la traduzione di Hölderlin, filologicamente scorretta, del verso 360, che tuttavia nella
sua scorrettezza esprime una visione diversa da quella di Sofocle, ma vicina a quella di
Hölderlin, e a quella di Brecht, che l’accoglie nella sua rielaborazione. Le parole, che van-
no collegate a to mellon del verso successivo, sono state rese bene da Franco Ferrari:
‘D’ogni risorsa armato [sott. l’uomo], né inerme mai verso il futuro si avvia.’
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SOFOCLE: Ho detto: punto. ‘L’uomo è esperto in tutto’. Così sta nel mio testo. E
ora avanti.
BRECHT: ‘inesperto.’
SOFOCLE: Togli il punto!
BRECHT: ‘a nulla perviene’.
SOFOCLE: E adesso costruisci la frase: ‘a nulla perviene inesperto’. Ecco, così è
giusta. Invece nel tuo testo sta il contrario: Non arriva a nulla.
BRECHT: Hai ragione. Così non fa senso. Avrei dovuto notarlo. (Allo speaker)
Avete una matita? Devo correggerlo subito.
SPEAKER: Più tardi. (Guarda l’orologio) In fin dei conti qui dobbiamo parlare di
cose ben più importanti che punti e virgole.
BRECHT: Ah sì? Dovevo immaginarlo. (Comincia a raccogliere le sue cose) Allora
stasera non sono l’uomo giusto. Per me veramente non c’è niente di più
interessante dell’interpunzione, e – come ha detto Lei? – niente di più im-
portante di virgole e punti… una predilezione che, sia notato a margine,
mi fa simile ai banchieri: anche loro sanno cosa significa una virgola messa
al posto sbagliato. Allora continuiamo a discutere?
SPEAKER: Ma certo, intendevo dire solo che…
BRECHT: Va bene, va bene. (A Sofocle) Quanti drammi hai scritto?
SOFOCLE: Centotrenta. E tu?
BRECHT: Cento e…
SOFOCLE: Io ho cominciato prima, e poi ho vissuto novant’anni. Ma hai ragio-
ne. Dovevo sempre lavorare. Anche gli altri, se è per questo. Eschilo ha
pure lui scritto cento tragedie. E anche Euripide. Non ci è stato regalato
niente. Ogni primavera quattro drammi: questa era la regola.
BRECHT (scuotendo la testa): Centotrenta: per anno sarebbero…
SOFOCLE: Ero esperto nel mio mestiere. Ero un tecnico, sai. Ventiquattro vitto-
rie, in totale. E tu?
BRECHT: Da noi non ci sono concorsi. Grazie al cielo. Temo che non avrei avu-
to tanto successo.
SOFOCLE: Hai avuto concorrenti? Qualcuno che era meglio di te?
BRECHT: No, ma più potenti sì.
SOFOCLE: Come poeti?
BRECHT (sorridendo): Anche come poeti. Come ‘poeta’, beninteso. E come
ministro.
SPEAKER: Parla di Becher34?
61
BRECHT: Io… parlare di…? Ma che dice… (si rivolge a Sofocle) Hai avuto a che
fare anche con la politica?
SOFOCLE: Naturalmente. In fin dei conti ero un funzionario statale.
BRECHT: Quindi stavi dall’altra parte.
SOFOCLE: Non credo. Senti qui, dall’Antigone, la scena dove la guardia si con-
geda da Creonte: (prende un libro e legge)
‘Guardia: Devo dire ancora qualcosa oppure vado via subito?
Creonte: Ancora non sai quanto mi pesa il tuo parlare?
Guardia: Ti morde le orecchie o l’anima?
Creonte: Indaghi ancora, dove sia la mia ira?
Guardia: Il colpevole ti ha offeso il cuore, io le orecchie.
Creonte: Buon dio! Che chiacchierone quello che…?’
(Sofocle si interrompe, e si guarda intorno stupito) Come, non ridete? Non no-
tate quanto è comico?
SPEAKER: Comico?
BRECHT (pensieroso): Comico, dici?
SOFOCLE: Ma certo! Oppure pensate che non si sia riso, quando si metteva in
scena una tragedia? E che non si sia riso, quando la guardia, con i suoi
stupidi scherzi, mette all’angolo il re? Come trionfa il proletario su una
grande casata! Cosa credete, che il popolo non abbia alzato grida di gioia,
quando la guardia ha mostrato al tiranno che cosa è un gioco di parole?
BRECHT (interessato): Il popolo, hai detto?
SOFOCLE: Uomini e donne, schiavi e bambini. Tutto il popolo. Non è più così
oggi?
BRECHT: Non proprio. Almeno non per il momento.
SOFOCLE (senza dar retta a Brecht): Ma da noi era un’esplosione! Le donne gri-
davano, sulla scena sprizzava il sangue, le gru fendevano l’aria, brucia-
vano le case, persino la natura, il tramonto del sole e la notte partecipa-
vano alla messa in scena!
BRECHT: E trovi tutto questo bello? Se il tuo Edipo, con la sua maschera sporca
di marmellata, guarda fisso verso il pubblico e le donne cominciano a stril-
lare… lo trovi bello?
SOFOCLE: È teatro, in fin dei conti.
BRECHT: Giusto. Questo sarebbe teatro. Le donne piagnucolano e la gente pia-
gnucola con loro. La parola d’ordine è: paura e compassione35. Immedesi-
mazione! Identificazione! Ciascuno è Edipo, ciascuno Antigone! E lo scopo
si chiama: catarsi. La ‘purificazione’ dello spettatore dalla paura e dalla
35 Sono le categorie aristoteliche con le quali si descrive, nella Poetica, 6, 1449 b, i mezzi
della tragedia. Di seguito il personaggio Brecht parafrasa il celebre passo di Aristotele,
forse il più discusso dell’antichità.
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compassione attraverso l’imitazione di un’azione che susciti paura e com-
passione… una purificazione che sulla base di un atto psichico particolare
provoca l’immedesimazione dello spettatore nei personaggi in scena. Io
dico: immedesimazione ed intendo con ciò: obbligo a partecipare. Obbligo
con tutti i mezzi e ad ogni prezzo. Intendo: eliminazione della critica.
Ipnosi e passività. La ragione è rapita, la realtà è distrutta a favore di un
mondo illusorio estetico, la razionalità posta fuori gioco. Regge l’emo-
zione, l’adattamento è totale, la magia è completa: tutti sentono, sognano,
soffrono, si adirano alla stessa maniera. Trionfo della catarsi! E la vostra
vittoria definitiva, se qualcuno dice: sì, io questo l’ho già provato. Così
sono io. Così è naturale che sia. E sarà sempre così. Il dolore di questi
uomini mi scuote, perché non c’è per esso alcuna via d’uscita. Questa è la
grande arte: è tutto così ovvio. Piango con chi piange, rido con chi ride.
SOFOCLE (stanco per il monologo): Ne abbiamo ancora per molto?
SPEAKER: Dobbiamo rispettare il tempo…
BRECHT: Per favore, ancora un momento di pazienza.
SPEAKER: Dobbiamo comunque rispettare il tempo a disposizione. Il
telegiornale…
BRECHT (risoluto): Adesso parlo io. (Rivolto a Sofocle) Adesso non parliamo più
del tuo teatro, ma del mio, che io denomino ‘epico’. Un teatro, nel quale si
racconta e si impara, ma si impara in maniera ragionevole! – Un teatro, nel
quale non si deve lasciare il cervello al guardaroba, un teatro in cui gli
attori non sono Antigone ed Edipo, ma, fuori dalla posizione di chi si
stupisce e di chi contraddice, mostrano Antigone ed Edipo, un teatro nel
quale l’ovvio, attraverso dei cambiamenti stranianti, acquista il carattere
dell’insolito: regine che parlano come lavandaie, borseggiatori che parlano
in versi; un teatro, nel quale si fuma e si discute; un teatro della critica e
dello scherzo. Un teatro, in cui lo spettatore dice: ‘questo non mi sarebbe
mai venuto in mente. Così non si può fare. Questa cosa deve finire. Il do-
lore di quest’uomo mi sconvolge, perché per lui non c’è via d’uscita. Que-
sta è grande arte: poiché non è ovvia. Io rido su coloro che piangono,
piango su coloro che ridono.’ Nel teatro epico si conserva la distanza. Poi-
ché ci si augura un atteggiamento critico, e non un’acclamazione. E così
alla fine si ottiene che…
SPEAKER: Adesso devo veramente cercare di…
BRECHT (sempre più forte): …e così alla fine si ottiene che lo spettatore non vede
più rappresentati in scena uomini che sono del tutto immutabili, non in-
fluenzabili, consegnati impotenti al loro destino. Lo spettatore vede:
quest’uomo è così e così, perché le condizioni sono così e così. E le condi-
zioni sono così e così, perché l’essere umano è così e così. Ma non è imma-
ginabile solo come è, ma anche diversamente, ed anche i rapporti sono im-
maginabili diversi da quelli che sono. Così si ottiene che lo spettatore in
teatro riceva un nuovo atteggiamento. Riceve cioè, rispetto alla rappre-
63
sentazione del mondo umano sulla scena lo stesso atteggiamento che ha
come uomo del nostro secolo rispetto alla natura. Anche in teatro viene ac-
colto come il grande ‘altro’, che non solo accetta il mondo, ma lo padro-
neggia. Il teatro non cerca più di ubriacarlo, di dargli illusioni, di fargli
dimenticare il mondo, di conciliarlo con il proprio destino. Il teatro gli dà
ora la possibilità di afferrare il mondo. (Si ferma, quasi senza fiato, prende un
sigaro, guarda, oltre il fiammifero, il suo partner, con ansia)
SOFOCLE (dopo una pausa, klapp klapp klapp, batte molto lentamente le mani):
Bravo.
BRECHT (curioso): Sei convinto?
SOFOCLE: No, naturalmente no.
BRECHT (molto meravigliato, un po’ irritato): E allora perché applaudi?
SOFOCLE: Noi Greci applaudiamo sempre, se un virtuoso si esibisce. Sei stato
grandioso, Brecht.
BRECHT: Che vuol dire?
SOFOCLE: Sei stato proprio geniale. Seducente: così come la presenti tu, nem-
meno il più grande attore può appellarsi al potere di immedesimazione
del suo auditorio. (Batte ancora le mani) Persino Ione – il nostro rapsodo più
importante, come sai – sarebbe diventato bianco d’invidia. Il teatro epico:
lodato da un ipnotizzatore. La catarsi, negata da un mago: io chiamo que-
sto un trionfo! (Batte le mani una terza volta)
BRECHT (infine adirato): Smettila adesso con questo stupido battere le mani!
SOFOCLE: E perché? Non batto le mani mica a te.
BRECHT: Ma a chi?
SOFOCLE: A me stesso. Ai miei amici Eschilo ed Euripide. Al nostro teatro, che
tu hai appena descritto.
BRECHT: Al vostro teatro?
SPEAKER: Quello che sino ad oggi si chiama aristotelico?
SOFOCLE: …e che (guarda Brecht) non è mai esistito, in verità36. Straniamento,
dici? E non è forse straniamento se sono rappresentate donne e uomini, se
cori interrompono l’azione con un commento? Critica, dici? E non è forse
un richiamo alla critica se alla fine vengono rappresentati gli dei in
maniera schematica e stereotipa, così che in teatro anche l’ultimo dei
credenti si convince che gli dei non sono più dei? Epica, dici, non dramma-
tica: bene: e quale sarebbe un teatro più epico del nostro? nel quale, come
sai e come mostra l’Antigone, non accade niente sulla scena (ma dietro la
scena), dove si discute e si insegna: si insegna, naturalmente, in maniera
divertente – pensa solo alla guardia! Razionalità, dici tu, e non ipnosi:
36 Perché le ‘regole’ di Aristotele sono derivate a posteriori dal teatro classico e furono ap-
plicate alla drammaturgia dal Rinascimento in poi.
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credi che nel nostro teatro, dove tutti conoscevano già perfettamente l’in-
treccio e quindi sapevano anche che l’affaire Antigone non sarebbe finito
bene… pensi che ci sia stato qualcosa di simile alla ‘tensione’? A noi in-
teressava il ‘come’, non il ‘cosa’, non la variazione di un paio di dozzine di
miti, che ogni scolaro conosceva. Straniamento, dici? Ma, amico, è una
parola greca. Fai una ricerca. Xenosis, si dice. È un concetto dalla retorica:
chi vuole convincere il suo pubblico, deve portarlo a meravigliarsi, met-
tendo in una luce nuova quel che è abituale, e da molto tempo dimentica-
to: cioè rendendolo qualcosa di ‘estraneo’.
BRECHT: E la catarsi?
SOFOCLE: È un processo medico, che ha poco a che vedere con entusiasmo ed
ipnosi. Al contrario: chi vuole liberarsi dell’eccesso di freddo ed umidità…
BRECHT: Freddo?
SOFOCLE: L’espressione corretta per la paura fuori dalla norma.
BRECHT: Umidità?
SOFOCLE: Quel che tu – sbagliando molto – chiami ‘compassione’: è umidità
che trabocca. Capisci? I brividi di freddo e le lacrime che ci sopraffanno,
quando Antigone muore, pongono – come dire – fine alla serie degli affetti
ed esigono da ciascuno un trionfo della ragione, che conclude i miei dram-
mi. Nel momento della distruzione Antigone riconosce la verità, Edipo ca-
pisce chi è. Creonte è obbligato a vedere… e lo spettatore chiede: è la veri-
tà veramente vera? La visione è davvero conoscenza?
BRECHT (che si è di nuovo ricomposto): E chi fa in maniera tale che Edipo com-
prenda? Chi che lo schiavo resti schiavo? La donna una donna? Che l’as-
sassinio sia ripagato e le buone azioni no? Cosa c’è, chiedo, dietro quei
fatti? In quei fatti, cioè, che condizionano il destino dell’uomo, ma non nel
senso che sono fatalità, ma nel senso che sono compiuti da uomini e di
conseguenza possono essere cambiati… In fatti, che consistono in intrecci
sociali tra gli uomini. Di questo non si parla nella tua Antigone, mi sembra.
SOFOCLE: No, di questo no, è giusto. Ma forse potresti mostrarmelo. Sarebbe
importante per me. È difficile?
BRECHT: No, una volta che si è capito che coloro che si chiamano i ‘grandi’ non
sono solo coloro che conducono, ma anche coloro che vengono condotti, è
facile: come appare la società, bisogna chiedersi, come la divisione del po-
tere e come funziona l’economia… quali erano le condizioni che resero
possibile che un tiranno come Creonte non potesse più essere signore
dell’opposizione nella propria stessa casa?
SOFOCLE: Bene, lo imparerò. Ma come posso esserti io d’aiuto?
BRECHT: A me? (Riflette) Sai, vorrei volentieri sapere, come fa uno a scrivere
centotrenta drammi… e tra questi una Antigone. Come hai fatto?
SOFOCLE: Facile. Io…
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SPEAKER: No, ora basta, una tale domanda deve restare senza risposta, in que-
sto talk show, che in realtà era un dialogo a due: che cosa avrebbe da dire
un moderatore, se due drammaturghi parlano su una figura di fantasia,
che ha affascinato ambedue (anche se in maniera diversa)? Grazie, signori
per il dialogo. Grazie alla ragazza che – assente e presente insieme – è stata
qui con noi. Grazie, ascoltatrici ed ascoltatori, che avete onorato con la vo-
stra presenza questo programma d’intrattenimento sul tema Antigone: una
volta, ora e sempre. Vi auguro buona notte.
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ANTIGONE NELLA RIVOLUZIONE
‘Mostruoso è l’uomo…’
Il tema di Antigone funge da filo rosso alla monumentale ‘opera narrativa’,
come fu definita dall’autore. Nel primo libro del romanzo, Borghesi e soldati,
ancora sulla via del ritorno, l’insegnante del ginnasio, dialogando con il
giovane sottotenente Maus nel treno che da Strasburgo, dopo la disfatta, li
riporta in Germania, cerca di spiegare al commilitone che cosa la guerra aveva
rappresentato per lui.
‘Ti racconterò della mia seconda nascita. Non stavo male fino alla venuta del-
la guerra. Poi fui sul fronte orientale col nostro reggimento, per alcuni mesi.
37 Una raffinata, complessa ricerca sul romanzo e sulla sua unitarietà è condotta da Simo-
netta Sanna, November 1918 di Alfred Döblin. La rivoluzione fra attesa e ricordo, in: ‘Link.
Rivista di letteratura e cultura tedesca/Zeitschrift für deutsche Literatur und Kultur-
wissenschaft’, 1(2001), pp. 115-154. Di una qualche utilità come repertorio di passi è la
dissertazione di Jürgen Blume, Die Lektüren des Alfred Döblin, Frankfurt a.M./Ber-
lin/New York 1991. Per l’aspetto specifico dell’Antigone in questo romanzo di Döblin
vedi H.D. Osterle, Auf den Spuren der Antigone, in: W. Stauffacher (hrsg.), Internationale
Alfred Döblin-Kolloquien (Basel 1980, New York 1981, Freiburg 1983), Bern 1986, pp. 85-
115; F. Wambsganz, Sophokles Antigone als Verdichtung des Widerstandsproblems der Indivi-
dualität gegen die Staatsräson in Alfred Döblins November 1918, in: IADK Mainz, 2005, pp.
283-296. Del romanzo di Döblin esiste la traduzione italiana solo del primo libro: Borghesi
e soldati, traduzione di R. Leiser e F. Fortini, Torino 1982, da cui è tratta la prima cita-
zione. Le altre traduzioni sono mie.
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Più tardi venimmo sul fronte occidentale. Avevo sempre avuto una vita facile,
devi saperlo, Maus; già fin dalla scuola, da quando me ne posso ricordare. A
qualunque epoca io pensi, ho dei buoni ricordi, amicizie durature, amori che
si sciolsero senza dolore. Ho visto spesso l’amarezza dei giovani dopo qual-
che esperienza. Io non ne ho avute, di quelle esperienze. Ero diventato inse-
gnante. I miei ragazzi mi volevano bene. Durante le lezioni sui classici, e do-
vunque potevo, inculcavo loro in mente quanta è la grandezza dell’uomo. Tu
conosci il coro dell’Antigone: ‘Molte cose prodigiose vi sono, nessuna più pro-
digiosa dell’uomo. Oltre il canuto mare, sul tempestoso vento Noto, l’uomo
procede, valica i flutti muggenti. Egli cinge di reti le liete stirpi degli uccelli, e
ne fa preda; l’uomo dalla scaltra mente signoreggia con le spire delle reti le
tribù delle fiere selvagge e le marine generazioni dei pesci. Egli scoprì le
parole e il pensiero infaticabile.’ Di queste cose, Maus, ero sicuro, ero lieto, le
avevo ereditate. Ero un uomo fortunato, e me lo dicevano infatti. Ero nato di
domenica.’
Ritorno a Berlino
Becker torna a Berlino. Tutto il terzo libro della terza parte del romanzo, che
racconta la vita del protagonista tornato nella sua città, si intitola Antigone o la
colpa degli antenati. Il professore abita con la madre, ed è invitato dal direttore
del suo vecchio ginnasio, che vuole aiutarlo, a riprendere il suo posto a
scuola, dapprima però solo in maniera ufficiosa, come suo supplente. È il
gennaio 1919.
Becker accetta, e la mattina dopo si avvia verso la scuola, un edificio ri-
masto illeso dalla guerra; aveva lasciato Berlino e quel quartiere il 3 agosto
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1914, mentre per le strade impazzavano bandiere e giubilo per la guerra. La
scuola è intoccata, ma la costruzione è ‘più sporca’. Nel ritornare sui luoghi
conosciuti, il protagonista si chiede se è davvero la stessa persona. La scuola
non si distingue, nell’aspetto esteriore ‘serio e minaccioso’, dagli altri edifici
statali, ‘stazioni, caserme, ospedali, prigioni’. Becker ‘indietreggiò spaventato.
Ancora una volta sottomettersi al giogo?’
Il confronto individuo-Stato, il nocciolo dell’Antigone, è anticipato nello
sgomento di Becker. La scuola, che nel primo libro del romanzo il protago-
nista aveva ricordato con affetto, adesso somiglia alla prigione, alla caserma,
ai luoghi, cioè, dove il diritto si impone anche con la violenza. La prima rea-
zione emotiva è di rifiuto: solo adesso Becker comprende che proprio l’educa-
zione ricevuta ed impartita in quegli edifici ha avuto come esito il militarismo
più cieco, la guerra ad ogni costo. I dettagli della descrizione della scuola, che
Döblin dispensa con cura cinematografica, la sala dei professori, l’incontro
con i colleghi, acuiscono la crisi del reduce. Alla Prima ora di lezione (questo il
titolo del capitolo) Becker arriva salendo per una scala: al primo piano c’è un
busto di Bismarck, al secondo uno di Sofocle, in una simbolica continuità tra
mondo greco e Germania, alla quale lo stesso Becker è stato educato. Ma i due
busti in successione alludono anche alla continuità imperialista, aggressiva e
militarista tra mondo antico e mondo moderno. Becker entra in una classe di
maturità, cioè, per i criteri dell’epoca, tra uomini fatti.
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l’uomo e qualcosa che di molto supera le forze e le capacità umane: come ad
esempio Prometeo in lotta con gli dei, o un angelo caduto che si erge contro il
cielo. Questi eroi tragici hanno ‘voluto’ i dolori che soffrono. Ma Edipo? Per
capire la vicenda di Edipo, è necessario ripercorrere tutta la storia della sua
famiglia, dice Becker. La colpa si è trasmessa da padre in figlio, e da Edipo si
trasmette ai figli, ad Eteocle e Polinice che si uccidono reciprocamente, e poi
all’infelice Antigone: ‘Uno, uno solo aveva nel passato, dunque, commesso
una colpa, come Adamo nella Bibbia. Ma quest’unica colpa, la colpa di
quell’uomo soltanto, era grande, perché si era rivolta contro il potere divino. Il
dolore dei figli appare come una conseguenza della colpa dei genitori e dei
nonni. I figli non lo sanno, ma la maledizione grava su di loro, e li
distruggerà.’
Becker si fa divulgatore di Kierkegaard: per il filosofo danese il tragico
dell’Antigone non consiste nel suo gesto, nella pietà di una sorella e nella con-
trapposizione ad un arbitrario divieto umano, ma nel fatto che ‘nell’infelice
morte del fratello, nella collisione della sorella con un particolare divieto uma-
no, riecheggi il triste destino di Edipo.’ ‘È come se le incresciose conseguenze,
il tragico destino di Edipo, si ramificassero in ogni discendente della sua fa-
miglia.’ È infatti nell’aspetto ereditario della colpa, che contiene in sé l’auto
contraddizione di ‘essere colpa e tuttavia non essere colpa’, quindi di essere
contemporaneamente colpa ed innocenza, che per Kierkegaard consiste un
tratto caratteristico della tragedia antica rispetto a quella moderna.
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incriminato per la sua colpa e paghi. Il ‘destino’ o la ‘colpa collettiva’ non
devono servire da alibi a nessuno. Le leggi non sono superflue e nemmeno
l’istituzione che deve garantirne il rispetto: è questo che pensa la classe di
giovani scolari, e soprattutto lo pensano le loro famiglie. Infatti le ‘leggi’ alle
quali il direttore omosessuale deve rispondere non sono nemmeno o solo
leggi dello Stato, ma sono quelle del senso comune, dei benpensanti, di una
morale anch’essa ‘non scritta’.
Alla crisi che aveva colto Becker all’ingresso a scuola, al senso di soffoca-
mento, alla sensazione sgradevole di stare ponendosi di nuovo, dopo la guer-
ra, sotto un giogo, succede l’impressione di un più completo fallimento. Gli
scolari hanno infatti già perso nei suoi confronti quell’ammirazione manife-
stata all’inizio verso colui che credevano un eroe di guerra.
Seguire il cuore
Nella seconda parte della lezione si trattano le Diverse leggi degli dei e degli
Stati. Becker finisce di leggere il dialogo di Antigone con il coro. Ma adesso i
ragazzi sono irrequieti, si permettono di dire che pur rallegrandosi ‘per di-
versi motivi’ del fatto che egli abbia assunto le lezioni di greco preferirebbero
ascoltare dal professore qualche racconto di guerra.
La distanza tra Becker e la nuova generazione è profonda: i ragazzi
mitizzano quel che Becker vorrebbe dimenticare; non solo: le sue proposte
interpretative del testo greco si scontrano con l’ incomprensione e il rifiuto.
Quali sono inoltre, si chiede, i ‘diversi’ e segreti motivi per i quali i ragazzi si
rallegrano che lui abbia sostituito il direttore nelle lezioni di greco? Cosa
vogliono dire i borbottii, gli ammiccamenti, ogni volta che si nomina il
direttore?
Gli scolari vorrebbero che parlasse della guerra e Becker promette di farlo
appena possibile: è sempre più solo e costretto alle corde. La classe non vuol
saperne dell’Antigone, un dramma che considerano ‘debole e sentimentale’. La
sepoltura di un traditore della patria pare loro inconcepibile: ‘Sarebbe come se
oggi gli spartachisti invitassero la Francia a spedire qui delle truppe per
schiacciare la Germania.’ Se Polinice, il ribelle, il traditore, cade nel suo
tentativo di espugnare la propria città, allora i Tebani fanno benissimo a
lasciarlo marcire sul campo, dice il primo della classe che aggiunge,
sfacciatamente: di sicuro Becker, un ufficiale, ‘avrebbe condiviso questa idea’.
La classe attende una risposta. Becker, dopo un attimo di riflessione, afferma:
‘In un certo senso posso tener fede alla mia promessa, se adesso, senza parlare
direttamente della guerra, vi espongo la mia posizione sul caso di Antigone’. E
la posizione è: ‘Il caduto è semplicemente suo fratello. Antigone non si lascia
traviare in questo sentimento – e perciò il Re può comandare quel che vuole.
È suo fratello, e lei ha il dovere sororale di seppellirlo e di piangerlo.’
Il legame diretto di questa interpretazione dell’Antigone con l’esperienza
bellica del protagonista non è compreso dagli studenti. Becker ha imparato,
durante la guerra, che bisogna agire ‘completamente in base ai propri senti-
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menti’, come Antigone, che bisogna cioè provare pietà ed essere mossi da un
puro e disinteressato amore per l’umanità. Perciò è attuale l’invito contenuto
nella tragedia di Sofocle a ‘seguire il proprio cuore’, esempio unico, a dire di
Becker, nel teatro greco. Gli scolari non capiscono. August Schramm, il
socialista della classe, interpreta la modernità di Antigone in senso
rivoluzionario: ‘Antigone rappresenta un tipo contemporaneo. Sta di fronte al
tiranno e non si piega a lui, come vorrebbero qui alcuni’- afferma guardandosi
attorno, disprezzando i compagni di classe reazionari. Antigone, argomenta
Schramm, è un’eroina della Resistenza, e va posta, nella storia della poesia
sulla libertà, accanto a Guglielmo Tell. Il dramma di Sofocle tratta, insomma,
del ‘diritto politico dei sottomessi contro i tiranni’. Ma subito un altro ragazzo
si ribella ed afferma: ‘Antigone è una donna, che non ha la benché minima
idea di cosa sia uno Stato. Nella sua minuscola testolina non entra il fatto che
bisogna rinunciare ai propri sentimenti nell’interesse generale e che qualcuno
bisogna persino sacrificarlo per lo Stato…’
Un contrasto profondo si apre nella classe e rispecchia la divisione cruenta
della società, fuori dalla scuola, tra rivoluzionari e no. Una spaccatura che
porterà altro, molto sangue. Nella complessa, studiatissima architettura del
monumentale romanzo di Döblin, ogni singolo elemento di questa
discussione apparentemente retorica e solo scolastica sull’Antigone anticipa,
come in un’oscura profezia oracolare, quello che poi accadrà ‘fuori dai libri’,
nella realtà, nella storia. La contrapposizione tra Stato ed individuo porterà
alla repressione sanguinosa della rivoluzione spartachista; non un solo
Creonte ci sarà a schiacciare i diritti di un’umanità sofferente, ma migliaia di
‘Creonti’ che eserciteranno ancora, in nome dello Stato, la violenza indiscri-
minata ed irrispettosa dell’essere umano. Lo Stato, attraverso il sangue inno-
cente, non si è indebolito, tutt’altro, ha assunto altre, più moderne, forme di
controllo e di esercizio del potere, che distruggono le singole ‘Antigoni’
ancora capaci di provare pietà.
La posizione ostile al personaggio di Antigone espressa dalla maggioranza
degli scolari risponde del resto ad un’interpretazione nazionalistica, vicina
agli slogan del Blut und Boden (‘sangue e terra’) e völkisch (‘del popolo’) dei
nazisti. Di questa posizione si era fatto interprete il Musikdrama di Houston
Stewart Chamberlain, La morte di Antigone (1902), un esempio raro di pessi-
mismo misogino. Antigone non può realizzare nessun atto eroico, perché è
una donna, dunque incapace ‘per natura’, e la sua morte ha senso solo se con
essa ‘espia’ i ‘peccati’ del maledetto Edipo. Il dramma mai rappresentato di
Chamberlain, autore anche di un libro dal titolo trasparente, La visione del
mondo ariana (1905), voleva mettere in guardia dai pericoli della ribellione
femminile, forte fattore di destabilizzazione sociale nel momento in cui le
suffragette dimostravano platealmente per il diritto di voto.
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Onorare i comandamenti
Becker cerca comunque una via di mezzo tra il rivoluzionario, il comunista
della classe, che vede in Antigone una dei suoi, e i reazionari, i futuri nazisti,
che la considerano un essere umano inferiore, in quanto donna: e la cerca
nell’interpretazione religiosa. Antigone agisce in base a delle leggi – cita
Becker da Sofocle – ‘la cui esistenza e la cui validità non è di oggi o di ieri, ma
di ogni tempo, e nessuno sa quando siano state dettate’. Antigone, dunque,
nella visione di Becker, ‘serve la legge divina, è legata ad essa nella buona e
nella cattiva sorte. E a questa riconduce, senza saperlo, anche lo scioglimento
della terribile maledizione sulla stirpe. Si sottomette al comandamento
divino.’
‘Antigone – state bene attenti – non sta di fronte al potere statale, personifica-
to dal Re, come un qualsiasi individuo privato, ma rappresenta un principio,
che è almeno tanto legittimo quanto quello del Re. Lei crede, Schramm, che
Antigone sia una ribelle e che chiami alla rivoluzione. Lei è coraggiosa, ma
non è una ribelle. È in generale proprio il contrario di una rivoluzionaria. Se
c’è uno, nel dramma, che è un sovvertitore, quello è – non vi meravigliate –
Creonte, il Re. Non lo avete ancora notato? Sì, nel suo volere realmente
tirannico, nel suo orgoglio di essere vincitore e finalmente Re, crede di potersi
opporre alle tradizioni consacrate, di contrastare usi antichissimi. Era infatti
naturale, nella Grecia civilizzata, che la famiglia piangesse e seppellisse il
morto.’
Ci sono dei limiti, aggiunge Becker, che non possono essere trasgrediti da
alcuno Stato. Creonte ‘va contro il soprannaturale. Da lì arrivano le leggi con-
tro le quali nessuno può andare e che sono così forti da potersi permettere di
parlare con la bocca di una ragazza gracile.’
L’interpretazione di Becker è palesemente anti-hegeliana: Creonte non in-
carna affatto valori politici, ma il loro sviamento; la sua distorsione dei
contenuti della politica e le sue modalità di gestire la vita sociale ne fanno un
tiranno, la cui presunzione all’autosufficienza, come gli ricorda Emone, lo
porteranno all’isolamento, cioè ad un potere che non è più potere.
Alla fine della seconda lezione, però, il senso di fallimento e la depressione
del professore sono cresciuti. La classe non è convinta dalla sua interpre-
tazione cristiana della tragedia sofoclea. ‘Lo Stato deve pur affidarsi a qual-
cosa. Deve lavorare con paragrafi scritti chiaramente, che sono stabiliti una
volta per tutti… Non si può in nessuna circostanza dare ad un cittadino la
possibilità, soprattutto in tempo di guerra, di richiamarsi a comandamenti
divini che gli sarebbero stati dati, se con questi può portare disordine nell’in-
tera vita dello Stato’ – dice il primo della classe. Gli scolari difendono lo Stato
che invece – nella visione di Becker – è nemico da una parte del socialismo
rivoluzionario, d’altra parte di una visione cristiana dell’esistenza. Becker è a
disagio, ed il suo imbarazzo si acuisce quando, dopo la lezione, nella sala dei
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professori, il primo della classe gli chiede un appuntamento privato. Anche lo
scolaro Heinz Riedel si avvicina a lui, ma tutto sudato lo ringrazia senza avere
il coraggio di dirgli cosa vuole.
Becker lascia con sollievo la ‘mostruosa macchina del sapere’, die ungeheuer
Lehrfabrik, espressione nella quale l’aggettivo ungeheuer probabilmente allude,
in senso negativamente ironico, al celebre inizio del primo coro sofocleo nella
traduzione di Hölderlin: ungeheuer ist viel… ‘mostruose sono molte cose, ma
nessuna è più mostruosa dell’uomo.’
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direttore è sospetta: ‘forse è anche lui uno di quelli’– pensano. ‘Nella pausa, il
primo della classe aveva fatto passare la parola: non sopportare più nulla da
quell’uomo, e in ogni circostanza fargli una resistenza passiva ed ostruzione.’
Becker, salito in cattedra, appare pallido e debole. ‘Guardarlo era come
viaggiare in una terra lontana, sconosciuta. Fu questa l’esperienza degli scola-
ri della classe di maturità. In sua presenza osservarono che un essere umano è
più della sua pura apparenza, che è un segno per qualcos’altro. Da lui emana
qualcosa, forma un campo di contrapposizioni che genera altri campi di con-
trapposizioni.’ È una guerra silenziosa e dura quella che si sta combattendo
tra scolari e professore, al punto che Becker non riesce più a vedere lucida-
mente i ragazzi che gli stanno di fronte, ma solo ‘occhi, occhi che hanno visto
Satana’, che ‘arrivano con pensieri vecchi, dalle case che non hanno vissuto la
guerra.’ ‘Non sono dei ragazzi, sono l’anno 1900 o 1910.’ Quest’ultima consta-
tazione segna anche la sconfitta di una generazione, che aveva sofferto inutil-
mente la Prima guerra mondiale, dopo la quale nulla sembrava fosse cambia-
to. Quando Döblin scrive queste frasi, pensa al ‘Satana’ contemporaneo alla
scrittura del romanzo, Hitler, che ha invaso il mondo e le giovani menti.
Döblin descrive la classe di Becker avendo come punto di riferimento il
fanatismo e la crudeltà della Hitlerjugend, l’associazione giovanile hitleriana.
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Resta enigmatico, perché solo Antigone conosca quella legge. E per giunta
una legge celeste sulla sepoltura. Ancora una volta si vede solo in cosa può
incorrere una donna eccitata nella sua ostinazione.’ Tutta la classe rise.
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verdetto.’ Becker parla per conto suo, senza lasciarsi disturbare dall’indispo-
nente domanda del primo della classe (‘E chi dovrebbe, di grazia, essere
questo oscuro ‘qualcosa’ che ci sovrasta?’), e sulla scia dei pensieri giunge alla
riflessione sulla morte, che adesso diventa – con un significativo spostamento
di senso – il nucleo della sua interpretazione dell’Antigone:
Tra parentesi sono i pensieri di Becker. Dal piano della spiegazione politica,
Becker, arresosi all’incapacità di opporsi al senso dello Stato della classe, è
passato a quello della spiegazione quasi psicologica: Antigone, che come
corpo femminile è fatta per ‘accogliere’ altre vite, accoglie in sé quella del
fratello morto. Becker parla per esperienza: egli infatti sente in sé, percepisce
fisicamente, i tanti, troppi morti che ha visto in guerra, e continua a servirli.
Solo attraverso la fede nella sopravvivenza alla morte l’essere umano, che
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dalle scoperte copernicane è diventato un nulla nell’Universo, può acquisire
un minimo di significatività. Adesso la classe segue Becker interessata e con
rispetto:
‘Nel dramma di Sofocle, sul campo davanti alla città giace un morto, un guer-
riero caduto. È solo un corpo in decomposizione? Polinice non c’è più? Anti-
gone dice e sa che egli vive, che conduce un’altra esistenza, non è scomparso
dall’essere, e lui, suo fratello, non la abbandona, e lei non abbandona lui.
Deve onorarlo e servirlo, almeno, seppellendo il suo corpo. Noi oggi abbiamo
altre idee sulla morte e la vita rispetto agli antichi. Ma sappiamo che abbiamo
solo un’esistenza corporea visibile per poco tempo. E poi viaggiamo in una
piccola barca nell’oceano. Chiamate come volete questo oceano, ‘aldilà’ op-
pure ‘morte’, ma in ogni caso non è semplicemente ‘morte nel senso della fine,
del niente.’ Un profondo, antico verso latino, che voi conoscete certamente
nella traduzione di Lutero, dice: ‘Nel mezzo della vita siamo abbracciati dalla
morte.’ Aggiunse ancora, cambiando tono – aveva sinora parlato piano, come
tra sé e sé: ‘Se voi adesso vi ponete la domanda: come deve comportarsi lo
Stato, che indubbiamente è una realtà, rispetto ad un’altra realtà, la morte, al-
lora forse risponderete in maniera un po’ più cauta rispetto a prima.’
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quel che importa è ‘se si ha un concetto chiaro della Nazione e se bisogna ri-
spettarlo. Oggi non c’è nessun bisogno di spiritismo. La Nazione ha bisogno
di singoli uomini, che la curino e rispettino. […] Noi ci aspettavamo da Lei,
signor dottor Becker, parole e punti di vista chiari, specie in un tema così insi-
dioso come ‘Antigone contro lo Stato.’ Ma dobbiamo constatare con ramma-
rico che non possiamo fare affidamento su di Lei. Così come stanno le cose,
sono anche obbligato a comunicarLe che la classe che in questo momento se-
gue le sue lezioni di greco, entrerà in sciopero se il direttore osa entrare anche
solo un’altra volta qui dentro.’
Becker spedisce dal vice-direttore lo sfacciato studente, il resto della classe
abbassa la testa vergognandosi. Ma la battaglia è persa. Sarà l’ultima lezione
tenuta da Becker. La tragedia è durata tre atti, tre lezioni. Fuori dalla classe, il
vice-direttore, sebbene d’accordo sull’inammissibilità del comportamento
tenuto dal primo della classe, resta piuttosto tiepido nei confronti del collega.
Inizia una nuova sezione del romanzo, la cui architettura narrativa è ancora
tenuta insieme dalla vicenda di Antigone. Ma mentre quest’ultima sinora era
stata un testo da commentare ed interpretare, adesso entra nella concretezza
della vita e dell’esperienza.
La colpa di Antigone
Becker nelle sue lezioni si pone dapprima sulla scia dell’interpretazione
hegeliana dell’Antigone, ma alla fine dà una soluzione che si avvicina molto a
quella di Kierkegaard. Nella riscrittura della tragedia di Sofocle contenuta in
Aut Aut, Antigone, depositaria del segreto e della colpa di famiglia, continua
a vivere, anche dopo la morte di Edipo, ma si tratta di una vita a strettissimo
contatto con la morte: ‘Seppure viva, in un altro senso è morta’ – scrive
Kierkegaard. Antigone continua a comunicare con Edipo, con un morto, con il
ricordo di un morto; il suo amore per il padre morto ‘la trae fuori da se stessa’,
portandola ‘dentro la colpa del padre.’ Antigone è già morta, pur essendo in
vita, appartiene alla morte, è per la morte, e alla morte infine si riunisce. La
colpa di cui Antigone è portatrice non è una colpa individuale, ma la colpa di
tutta la stirpe. La conseguenza è la distruzione di un mondo, il suo
annichilimento: ‘Ad essere annientato – scrive Kierkegaard – non è un
individuo, ma un piccolo mondo, è la pena oggettiva che, scatenata, ora
s’avanza nella sua terribile consequenzialità come potenza della natura, ed il
triste destino di Antigone è come quello del padre, una pena potenziata.’
La consapevolezza della convivenza con la morte come unica possibile
eredità dell’esperienza bellica è ribadita da Becker, che uscito fuori dalla clas-
se dialoga con se stesso: ‘Quello Schröter ha ragione: un tema dubbio, ‘Anti-
gone contro lo Stato’, ma non sono stato io a porre il tema. […] Ma cosa devo
fare, posso agire diversamente, voglio dimenticare me stesso? Devo essere
anch’io vigliacco e non onorare i morti come si deve? Ciechi e nel terrore sono
andati via. Io sono stato risparmiato, e so perché: per non dimenticare. Nel
mezzo della vita siamo avvolti dalla morte.’ È la ripetizione del verso del Lied
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ecclesiastico che aveva recitato anche ai ragazzi, e che è anche il motto del
romanzo.
Becker si identifica con Antigone, il suo vivere con e per la morte fa di lui
una controfigura moderna, al maschile, di Antigone, preda, come l’Antigone
di Kierkegaard, dell’angoscia, dell’ansietà. I veri interlocutori di Becker, spe-
cie nell’ultima conclusiva lezione sull’Antigone, non sono tanto i suoi scolari,
ormai persi alla sua causa: ma quei morti dei quali continuerà per sempre, vi-
vendo, a perpetuare il ricordo. Anche Kierkegaard si rivolge, nella sua riscrit-
tura dell’Antigone, ad un’assemblea di symparanekromenoi, un conio derivato
dalla seconda epistola agli Ebrei e da una citazione dei Dialoghi dei morti di
Luciano, che significa: ‘compagni nella morte, camerati nella sepoltura da vi-
vi, fratelli nel decesso e nell’accettazione della morte.’
E subito Antigone deve anche affrontare lo Stato. Una volta uscito dalla
classe, il vice-direttore fa presente a Becker che non è autorizzato ad insegna-
re, che si trova lì in forma ufficiosa e deve presentare regolare domanda, e che
sino ad allora non può più entrare nella scuola. Becker gli chiede se questo ha
a che fare con il caso del direttore, e gli viene negato. Ma è invece proprio la
sua amicizia con il direttore, con l’omosessuale emarginato e condannato
dalla società, la ragione del suo allontanamento precocissimo, dopo appena
tre lezioni, dalla scuola. Quindi Becker va a far visita al direttore, un uomo
ormai moralmente finito, e vede in lui Il mio povero fratello (è il titolo del
capitolo). Antigone, dunque, si trova di fronte a Polinice, un Polinice ancora
vivo, ma come già morto.
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anche dopo di questa circostanza.’ ‘Cosa intende dire, Krug?’ ‘Questo lo sa da
sé, caro amico. Deve ricordarselo. Ma non nutro grandi speranze che lo farà. Il
gatto non lascia il topo.’
L’invincibile Eros
Il direttore intanto, per sottrarsi alle dicerie, non solo si è allontanato dalla
scuola, ma è anche andato via da Berlino. È scappato in una casa di cura. Ma lì
è inquieto. Non riesce a stare in ozio. E soprattutto non riesce a stare senza
contemplare l’oggetto del suo amore, lo scolaro Heinz Riedel. Ansioso di
rivedere il ragazzo, torna a Berlino, affitta una camera d’albergo, e fa reca-
pitare a casa di Heinz un biglietto nascosto in un libro di poesie, dove gli dà
appuntamento in un albergo. Il biglietto è intercettato dal padre del ragazzo,
che si reca nell’Hotel dove si nasconde il professore e lo picchia selvaggia-
mente. Becker è l’unico nome di ‘parente’ che il professore può dare a chi lo
soccorre. Avvisato dalla polizia, Becker va a trovare il collega in ospedale. Il
direttore è controfigura di Polinice, ma anche di Emone, l’amante disperato,
come nel romanzo si sottolinea riprendendo con ironia l’attacco del celebre
coro sofocleo dell’Antigone:
La tragedia precipita
Continuiamo a seguire quel che accade a Becker (mentre la Rivoluzione a Ber-
lino giunge al suo epilogo). Il professore è da solo in casa. Lo viene a trovare
prima in lacrime Heinz, il ragazzo amato dal direttore, per informarsi delle
sue condizioni di salute e dire che la polizia è andata a casa loro. Poi arriva la
fidanzata di Becker, Hilde, l’infermiera che lo ha curato quando era in fin di
vita a Strasburgo, e con la quale ha piuttosto un rapporto di fratellanza che
d’amore, e lo lascia: gli ha preferito l’ex commilitone Maus, nuovamente ar-
ruolato nell’esercito ed impegnato a combattere i rivoluzionari. Becker si sente
sperduto, cerca consolazione nel Vangelo e nel dialogo con Dio, ma non gli
riesce facile: ‘Dov’è un dolore, che non è stato anche mio? Dove una ferita, che
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non ha colpito anche me?’ – pensa, in un riecheggiamento dei primi versi
dell’Antigone (vv. 4-6).
Il direttore intanto muore. Heinz resta a casa di Becker, mentre il padre,
accusato di omicidio preterintenzionale, è portato in prigione. Heinz è anche
lui a suo modo un Emone: non va d’accordo con il padre alcolizzato e capace
di qualsiasi violenza se ubriaco. Interrogato dai poliziotti, Heinz non scagiona
il padre ammettendo di esser stato sedotto dal direttore, perché non è vero:
sarebbe stato in grado di difendersi da solo, afferma, se il direttore gli avesse
chiesto qualcosa che non voleva. Nel capitolo dal titolo esplicito Sulle orme di
Antigone Becker ed il ragazzo si recano all’obitorio, dove c’è il corpo del di-
rettore già nella bara chiusa. Gli impiegati non sanno che farsene di quel
cadavere, hanno telegrafato ad un fratello del morto a Francoforte ma non
hanno ancora avuto risposta. Il ragazzo chiede di vedere comunque la bara,
sulla quale non c’è un nome, ma un numero: 1211. È una discesa all’Ade,
realistica però – perché il ragazzo storce la bocca ed il custode commenta: ‘Ca-
pita a molti, non possono sopportare la puzza.’ Nessuno reclama la bara, si
tratta dunque di organizzare i funerali: oltre al ragazzo e Becker, solo il col-
lega Krug parteciperà dalla scuola, e lo fa senza esitazioni, pur sapendo che
tutti saranno loro ostili: ‘l’intenzione è chiara: dalla scuola dev’esser buttato
fuori a pedate tutto ciò che non è monarchico e reazionario. Trono ed altare
vanno come sempre insieme.’ Il funerale del povero direttore, che nella morte
ha perso persino finanche il nome per ridursi a un numero diviene, come
nell’Antigone, motivo di scontro tra la coscienza individuale ed il potere.
Döblin descrive nella loro sconvolgenti tortuosità le pressioni del potere, assai
più complicato rispetto a quello personificato nella tragedia greca dal tiranno
Creonte. Dal tribunale viene ritirato il permesso alla sepoltura che in un
primo momento era stato accordato, poi due figuri, vestiti di nero, si
presentano con fare minaccioso sia da Krug che da Becker, dicono di
rappresentare gli interessi dei genitori degli allievi della scuola. Chiedono
‘pulizia’ e l’estirpazione del male sin dalle fondamenta. Il dialogo qui allude
non solo all’Antigone, ma anche all’inizio dell’Edipo Re. Il ‘male’ che infesta la
comunità è proprio in chi crede di doverlo estirpare:
‘Voi vi credete puri e puliti e senza errori?’, chiede Becker. ‘Intendo dire, così
senza peccati da non poter nemmeno permettere ad un pover’uomo, che ha
già pagato con la morte i suoi peccati, la presenza di un amico alla sua
tomba?’
‘Ci auguriamo – è la risposta – di servire la comunità. Lo ripeto. Possiamo
esigere che per questo il singolo individuo reprima anche i suoi più nobili
sentimenti privati.’ Becker (sto completamente entrando nell’Antigone. Ades-
so Creonte mi farà portar via): ‘Non c’è comunità o interesse pubblico che mi
possa distogliere dal concedere ad un pover’uomo l’ultimo dovere dovuto
all’amore.’
82
I due vanno via, non senza che uno lanci una minaccia all’indirizzo di Becker:
‘Lei verrà presto a sapere qualcosa di questa comunità, dottor Becker.’
C’è ironia nel trasporre la situazione edipica a questi due figuri neri e de-
cisamente grotteschi, che inducono più volte il lettore a sorridere nella loro
cerimoniosità ed ipocrisia. Il registro ironico, occorre ricordarlo per non dare
una rappresentazione troppo monocorde di questo capolavoro letterario di
Alfred Döblin, è presente nel romanzo tanto quanto quello serio e visionario.
83
volontaria insieme alla madre di Becker. Questo ‘re’ della moderna burocrazia
emette editti e verdetti in maniera vigliacca, perché non licenzia direttamente
Becker, ma lo induce a farlo da solo, usando le armi dell’ipocrisia e della ami-
chevole persuasione.
‘Un pubblico ufficiale38 – dice il moderno Creonte – non ha la vita facile come
l’uomo semplice, che può godere dei diritti di un privato cittadino. Lo so, an-
che Lei è un pubblico ufficiale39, un insegnante, Lei ha davvero del coraggio.
Come Le ho detto, Lei è un uomo davvero raro. Quanto volentieri direi ‘sì’ a
molte cose, che Lei ha esposto qui, se fossi un privato cittadino. Incondiziona-
tamente e dal cuore. Ma si immagini in questo edificio e al mio posto. Le cose
si urtano duramente nello spazio.’
Quest’ultima è una citazione dal Wallenstein di Schiller (III parte, atto secondo,
scena seconda, v. 790), un luogo classico del richiamo al senso del dovere, in-
serita da Döblin ironicamente. Il risultato è che Becker non presenterà doman-
da per essere reintegrato nell’insegnamento e non potrà più ritornare in classe
ed esercitare il suo mestiere. Lo Stato si lava le mani davanti alla sorte di
quest’emarginato, a cui la guerra ha dato dei ‘principi’ che sono inconciliabili
con la realtà.
‘Nonostante tutto ricorda Michael Kohlhaas’ – commenta l’ispettore, dopo
che Becker è uscito, riferendosi al protagonista della celebre novella di Kleist,
che per amore della giustizia si fa egli stesso criminale. L’ironia di Döblin
penetra al cuore dell’educazione umanistica tedesca, di cui sia l’ispettore che
Becker sono due rappresentanti allo stesso livello, due esponenti della borghe-
sia educata nel ginnasio umanistico. Il problema è – come si evinceva già dal
parallelo tra il Principe di Homburg e l’Antigone – quale uso si faccia dell’edu-
cazione umanistica.
Tra i rivoluzionari
Becker adesso, condannato dallo Stato, meglio si rispecchia in Antigone. Si
noti, tra l’altro, che tutta l’azione, proprio come in una tragedia greca, si con-
densa in una sola giornata, con una rigida unità di tempo e di luogo (Berlino).
Becker va alla ricerca di Heinz, che sembra sparito, ne trova la foto sul gior-
nale insieme agli spartachisti che hanno occupato il presidio di polizia. Chie-
de aiuto al suo ex commilitone Maus, che è ufficiale nell’esercito in servizio.
Insieme si recano al posto di blocco davanti al presidio di polizia occupato dai
rivoluzionari. Becker chiede che lo lascino avvicinare. I soldati glielo per-
mettono, perché è un militare, quindi naturalmente è considerato un contro-
rivoluzionario. Becker si avvicina alla porta del presidio con in mano una
38 Beamter, in tedesco, si riferisce a quelle categorie di persone impiegate nello Stato che
godono però di un particolare stato giuridico. Non tutti coloro che lavorano per lo Stato
hanno questa condizione.
39 Becker lo è come insegnante di ginnasio e come ufficiale.
84
specie di bandiera bianca, chiedendo di ‘parlamentare’. Viene fatto entrare,
bendato, preso a male parole, e non creduto dai rivoluzionari quando
racconta di esser lì solo per cercare un ragazzo. Quasi per scherno, lo
mandano con due uomini in giro per verificare se quel certo Heinz Riedel di
cui chiede esiste per davvero. Se non lo trova, i due uomini hanno l’ordine di
fucilarlo. Invece Becker scova Heinz nella folla, e i due uomini di scorta,
sorpresi, lo lasciano stare con gli altri ‘compagni’: Heinz racconta a Becker le
ragioni della sua adesione alla rivoluzione, e gli presenta una ragazza
dall’aspetto mascolino, una proletaria, che lo fa vergognare della sua
condizione di intellettuale. Becker decide di agire, specie quando, dopo
l’attacco da parte dell’esercito al presidio di polizia, attorno ha feriti e morti, e
vede il cadavere della ragazza con cui aveva parlato poco prima: l’immagine
del corpo della giovane dilaniata da una granata non lo abbandonerà mai più.
Prende dunque parte alla sparatoria, è ferito e fatto prigioniero. L’amico Maus
si chiede cosa sia accaduto di lui, si informa presso la madre, che è in grande
ansia, e viene a sapere la vicenda del direttore omosessuale. Maus è irritato,
l’amico gli ha taciuto un fatto importante – e lui naturalmente è dalla parte dei
benpensanti, ritiene il comportamento di Becker indegno. Lo va comunque a
cercare tra i feriti, più per salvare il proprio onore che per amore dell’amico.
Lo ha infatti aiutato ad entrare nel presidio di polizia, e non può permettere
che si pensi che lui abbia aiutato uno spartachista. Trovatolo, gli chiede di
andare via con lui. Becker rifiuta ed afferma di non essere stato arrestato per
errore, ma a ragione. Ha preso parte attivamente alla battaglia. Nel presidio di
polizia, nel quale realmente era entrato solo per cercare Heinz, aveva capito
qualcosa di importante, cioè come ‘doveva comportarsi’ e che il vero cri-
stianesimo non si accontenta di parole: ‘Non si è cristiani attraverso i propri
principi.’ C’è bisogno dei fatti. Bisogna saper dimenticare completamente il
proprio ‘io’, ‘per seguire il cuore’, e non aver paura delle conseguenze. E così
Becker/Antigone, che si era scontrato con il potere untuoso, ma non meno
terribile, della burocrazia scolastica, ora deve scontrarsi con il potere militare.
Maus è adirato, ma lo è ancor di più l’ufficiale che il giorno prima aveva
lasciato avvicinare Becker alla porta del presidio, che aveva creduto alla sua
storiella, e cioè che cercasse davvero un ragazzo che si era perso: l’ufficiale è
furioso per esser stato preso in giro, ed aver così permesso ad un ‘rosso’ ca-
muffato di andare a dare man forte ai rivoluzionari. Costui picchia duramente
Becker, che pure è ferito, e dà ordine di non farlo uscire per nessun motivo
dall’ospedale. La notizia si sparge, e Becker diventa il nuovo eroe dei prigio-
nieri e delle infermiere, che gli manifestano la loro solidarietà.
Ma il gesto di Antigone, interpretato in senso cristiano come vicinanza agli
oppressi, è punito con il martirio. Nonostante sia salvato dalla pietosa Hilde,
in combutta con le infermiere, Becker si ripresenta spontaneamente
all’esercito che lo cerca e vuole vendicarsi di lui. È sbattuto in prigione per tre
anni. Quando esce, è un altro uomo, ha completamente perso il proprio
mondo. Vaga per la Germania, in una sorta di delirio religioso, accompagnato
85
dai suoi due morti, il direttore ed Heinz, anche lui ucciso durante moti
rivoluzionari in Germania centrale. Vive, come Antigone, per la morte.
‘In quei bei giorni di primavera, quando tutto si apre a vita nuova, Becker
sedeva spesso alla tomba [di Heinz] e a quella del direttore. Parlava tra sé:
sono colpevole di sedere alla vostra tomba come Antigone, di mettervi i fiori e
di pregare per voi? Mi è capitato il destino di Antigone – quello di poter solo
piangere i morti? Un orrendo fato dai tempi primordiali pesava su Antigone,
lo stesso fato anche su questi morti. Dipende solo da noi se non riusciamo a
vivere in pace, cacciati dal paradiso siamo spinti alla guerra e al crimine. Ma il
mondo è diventato più chiaro dai tempi di Antigone. La maledizione non
pesa più su noi. Potremmo respirare. Dio non è cattivo e non ci spinge a com-
mettere un omicidio ad un incrocio.’
Si tratta di un addio definitivo – non solo dalla precedente vita, ma anche dal
mondo dell’antichità. La distanza marcata tra l’oracolo distruttivo di Edipo ed
il Dio cristiano è incolmabile. Il protagonista del romanzo sceglie quest’ulti-
mo. Ma anche qui fallisce. Il suo è un delirio cristologico, autodistruttivo, len-
tamente autodistruttivo, uno scendere attraverso tutte le tappe della perdizio-
ne e non riuscire a mantenersi ‘puro’. Satana è sempre in agguato, sino alla
fine. Becker, una volta morto, sarà gettato in un fiume, e nessuno più troverà
il suo cadavere. Non ci sarà un’Antigone che pietosa gli darà l’estremo onore.
86
Piccolo Hannes, vieni, aiutami! Vieni, amato, amante, resta con me. Ades-
so non ti trattiene nessuno, non te lo impediscono porte e muri. Perdonami
quel che ti ho fatto.’
‘Come una madre vicino al suo bambino che dorme, [Rosa] si muoveva
silenziosa, sempre attenta e con i pensieri rivolti a lui. Così lei visse insieme al
suo fidanzato e sposo invisibile, di cui si diceva che era morto e che giaceva
nella neve russa. Lei aveva sentito una volta, a proposito di quel campo di
battaglia russo, che gli amici cercavano la sua tomba. E questo l’aveva diver-
tita. Io potrei dirvelo; potrei chiederlo a lui stesso. Ma perché parlare di cose
così inutili. Lui è qui.’
In realtà lo spirito con cui Rosa convive, e che mostrerà forza e violenza, vaga
per il mondo, può essere lì con lei proprio perché – seguendo la concezione
antica – non ha ancora ricevuto sepoltura. Perciò – dice la compagna di cella
Tanja, una donna analfabeta, ma che svolge il ruolo di una assennata Ismene –
Rosa deve ‘lasciarlo andare’ nel regno dei morti, e non trattenerlo con lei.
Rosa, quando lo spirito non si presenta da lei, è presa invece da una nostalgia
terribile di lui. E senza di lui, sola nella cella, si sente ancora come Antigone, e
vuole morire. L’instabilità mentale di Rosa, nel romanzo, è espressa con un
monologo ispirato alle ultime parole dell’Antigone sofoclea rivolte al coro
prima di andare a morire.
‘Non voglio vivere. Non desidero più vivere. Non voglio essere. Non voglio
più vedere la luce. Non giornali, battaglie, rivoluzione, popoli. Fui maledetta,
per darmi a queste cose. Dovevo essere colpita, perseguitata, martirizzata, per
approdare qui, infine, gettata viva in una tomba.
Dovevo dimenticare me stessa, e dovevo dimenticare te, che loro hanno
ucciso. Mi accuso, Hannes, sono colpevole della tua morte. Mi sono rallegrata
per te, per come apparivi bello e carino. Ti ho amato teneramente, e tuttavia
non ti ho trattenuto con tutte e due le mani, quando mi hai detto: che dovevi
compiere il tuo dovere, sebbene amassi la pace ed amassi la Francia, ma era la
tua patria che ti chiamava, ed io trattenevo il mio uomo? Così dicesti, allora,
così sicuro, ed io avrei voluto baciarti.
Non vedere più il sole, non vedere la luce. Ti ho fatto andar via. Sei caduto.
Guarda, Hannes, ho messo in gioco anche la mia vita. Vieni, dunque, stai
con me. Mostrati a me, volto amatissimo. Lasciami sentire la tua voce, anche
solo un piccolo fiato.
E te, e te, e solo te, e nessun altro che te, e niente – tranne te.
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Dove io non ti ho, per me è la tomba, l’intero mondo è avvelenato per me.
Averti e con te andar via dal mondo.
Ah, voi, uomini, lasciatemi andare. Lasciatemi stare, con le vostre albe e i
vostri tramonti.
Voi, uccelli, lasciatemi essere.
Voi, api, lasciatemi in pace.
Voi, piante, non voglio più.
Sonja, Luise, Karl, Leo – tutti, non vi voglio più. Mi avete dato la caccia tanto
a lungo. Vi ho dato così tanto di me. Concedetemi la pace.’
88
Antigone tra teologia e filosofia
Abbiamo accennato all’influenza che l’interpretazione dell’Antigone di
Kierkegaard ha avuto sul romanzo di Döblin. Negli anni Venti la riscoperta di
Kierkegaard fu segnata dal commentario teologico alla Lettera ai Romani del
teologo Karl Barth (1886-1968). Ora: Karl Barth fu l’oppositore principale dei
filonazisti Tedeschi cristiani (Deutsche Christen), i quali affermavano la
necessità di una vera e propria sacralizzazione dello Stato, il principale
ordinamento della creazione, manifestazione dell’azione spirituale di Dio
nella storia. Non solo: essi condivisero le leggi razziali, e con un ragionamento
capzioso tentarono di mostrare che Gesù non era di razza ebrea. Nel 1934
Barth, iscritto al partito socialdemocratico, rifiutò di prestare giuramento ad
Hitler e di firmare il paragrafo ariano che imponeva l’espulsione degli ebrei
dalle Chiese tedesche: perciò fu licenziato dall’Università di Bonn ed
arrestato, quindi costretto a rifugiarsi a Basilea, dove era nato, e dove
proseguì la sua opera di ricerca e di Resistenza. Nel volume dedicato a Barth
per il suo cinquantesimo compleanno, Rudolf Bultmann (1884-1976) pubblicò
un saggio dal titolo: Polis e Ade nell’Antigone di Sofocle. Il volume, apparso nel
1936, doveva intitolarsi La libertà dei vincolati: la seconda parte del titolo era
ambigua, perché il termine tedesco gebunden significa sia ‘prigioniero’ sia
‘legato insieme’ a qualcuno dagli stessi intenti. Il titolo fu censurato dai
nazisti, e cambiato nel più neutro: Theologische Aufsätze, Saggi teologici.
Bultmann è stato uno dei maggiori teologi del XX secolo, professore a
Marburgo dal 1921 al 1951, e lì anche collega ed amico di Heidegger tra il 1923
ed il 1928: col filosofo, nonostante l’ammissione dei suoi debiti culturali verso
di lui, Bultmann ruppe nel momento in cui Heidegger si iscrisse al partito
nazionalsocialista. Bultmann fu, negli scritti teorici e nella predicazione dal
1933 al 1945, un acceso avversario del nazismo. Il saggio sull’Antigone –
certamente noto ad Alfred Döblin, come anche altri scritti di Bultmann contro
l’antisemitismo – è dunque un saggio militante di Resistenza al nazismo.
Bultmann identificava con Antigone la figura stessa di Barth, il quale, per
difendersi davanti alla corte di Köln che ne aveva approvato il licenziamento
dall’Università, aveva usato le parole della platonica Apologia di Socrate: ‘Ate-
niesi, vi amo molto, però obbedirò a Dio e non a voi.’ Bultmann, dunque, si
opponeva alla ‘sacralizzazione’ dello Stato nazista. Nel saggio su Antigone,
Bultmann si mantiene sul piano filologico, nel senso che non vi si fa parola di
fede cristiana né di Chiesa alcuna. Antigone diviene la testimone della dignità
dell’uomo, del dovere di amare il prossimo, e con la sua morte invoca impli-
citamente e silenziosamente l’avvento di Dio. Il saggio di Bultmann descrive
una polis che, dopo aver respinto il nemico, è ormai sicura di se stessa. Ma
proprio il gesto di Antigone rivela la sua fragilità: l’opposizione di Creonte ad
Antigone significa la crisi interna della polis. La questione fondamentale è
nella duplicità del concetto di nomos, di ‘legge’. Nella polis sussistono due leg-
gi tra loro incompatibili, ma la decisione di Antigone, di seguire la propria
coscienza, è quella giusta, perché Creonte è colui che sbaglia, e quando si rav-
89
vede è troppo tardi. Eppure la legge in base alla quale Antigone agisce è invi-
sibile e perciò sfuggente rispetto alla chiarezza della legge di Creonte, che egli
promulga perché si sente responsabile della polis intera, si identifica con essa,
ed identifica il proprio volere con quello dello Stato. Quale è questa legge?
Non quella della parentela, ma quella della morte. ‘Antigone non rappresenta
davanti a Creonte un costume antico ed il principio della tradizione della
stirpe, ma la coscienza che l’essere umano – e quindi la stessa esistenza della
polis – è limitato dalla potenza trascendente dell’Ade.’40 Antigone non si
oppone alle leggi dello Stato in nome della famiglia o del popolo, concetti che
erano soggetti a tutte le aberrazioni naziste ed irrazionalistiche. Antigone si
oppone allo Stato in nome dell’Ade, perché è proprio l’aldilà l’alterità di fron-
te alla quale ogni diritto umano si ferma. Il potere di Ade è assoluto, e si im-
pone rispetto a qualsiasi pretesa umana di interpretare la volontà o il bene di
tutta la comunità, della polis. Solo un diritto rispettoso dell’Ade, della morte,
può aspirare alla giustizia.
L’errore di Creonte è non riconoscere negli dei la potenza trascendente,
che limita ciò che è terreno, avendo una fede cieca e sconsiderata nell’aldiquà,
ignorando la potenza della morte ed arrogandosi il giudizio sui morti, che
spetta invece solo agli dei. Perciò Creonte non capisce che la legge di esporre
il corpo del nemico, valida nella realtà della polis, perde ogni valore nell’al-
dilà. Non tollera quello che il coro gli suggerisce, cioè che siano gli dei a pren-
dersi cura del cadavere di Polinice, sia perché non ammette l’intervento della
trascendenza in una realtà che pretende di dominare, sia perché crede di
sapere cosa vogliono gli dei, e quindi si sostituisce a loro. Poiché Creonte si
identifica con la polis, non ascolta che se stesso, ed ogni gesto dissonante, co-
me quello di Antigone, ogni ‘parola libera’ significano opposizione politica.
Sono evidenti, mi sembra, le consonanze con l’interpretazione di Döblin
dell’Antigone in Novembre 1918: in Bultmann come nel romanzo, è la morte, o
meglio il comportamento del mondo dei vivi rispetto al mondo dei morti, il
problema essenziale del dramma. Antigone non solo ha cura del mondo
dell’aldilà, ma lo sente quale presenza costante proprio nella vita, in mezzo
alla vita (come Becker, come Rosa Luxemburg nel romanzo di Döblin). La ce-
lebre sentenza di Antigone ‘sono nata per amare, non per odiare’, scaturisce –
scrive Bultmann – dalla consapevolezza di essere già avvolta dalla potenza
dell’Ade; lei è ‘la fidanzata dell’Ade’. Anche Rosa – nel romanzo di Döblin –
si sposa con il fidanzato morto Hannes e Becker conosce un’unica forma di fe-
deltà, quella ai suoi morti, coloro che sono ingiustamente e prematuramente
morti, i morti in guerra innanzitutto, e poi il direttore ed il giovane Hans.
L’interpretazione teologica dell’Antigone, che Döblin fa propria, coincideva
con quella del cristianesimo più coraggioso e resistente, lo stesso, per
intenderci di Dietrich Bonhoeffer, il teologo oppositore del nazismo trucidato
40 Si cita dalla traduzione italiana di A. Rizzi, in: Credere e comprendere. Raccolta di articoli,
Brescia 1977, ristampata in: Antigone e la filosofia. Un seminario a cura di Pietro Montani, pp.
199-208.
90
il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg. Ad essa le menti
ottuse e fanatiche degli scolari di Becker, futuri convinti nazisti, e di sicuro
molti dei lettori di Döblin, avevano posto l’etichetta di ‘spiritismo’.
Antigone cristiana
Anche la pensatrice cristiana Simone Weil (1909-1943) aveva interpretato An-
tigone come figura della Resistenza contro uno Stato iniquo. Weil propose un
articolo sull’Antigone ad un foglio, ‘Entre-Nous’, destinato agli operai delle
fonderie di Rosières, pubblicato il 16 maggio 1936; un altro articolo sull’Elet-
tra, invece, non apparve, perché nel frattempo erano scoppiati i grandi sciope-
ri del giugno del 1936, e c’erano contrasti tra la Weil e l’ingegnere Victor
Bernard, direttore della rivista. Un altro abbozzo riguarda il Filottete41.
Per Simone Weil niente più della poesia greca era adatto a rimuovere
l’ignoranza dal popolo e a porre le basi per un’organizzazione più umana del
lavoro in fabbrica. È nella poesia greca, infatti, che la condizione umana è
espressa nel suo più alto grado di lucidità, purezza e semplicità. Il mito di
Antigone e quello di Elettra vengono così proposti come esempi di Resistenza
interiore, di difesa strenua della dignità di esseri umani, di opposizione alle
peggiori delle ingiustizie. Con Antigone in particolare, la Weil si identificava
al punto da firmarsi col nome dell’eroina greca42. Le opere dei Greci – esordi-
sce l’articolo Antigone – possono essere capite meglio da coloro che sanno cosa
significhi ‘lottare e soffrire’, che non da coloro che ‘hanno trascorso la loro vita
tra le quattro mura di una biblioteca’. Il teatro di Sofocle è emblematico per-
ché al centro dei suoi drammi ‘il personaggio principale è un essere coraggio-
so e fiero, che lotta da solo contro una situazione intollerabilmente dolorosa; è
piegato dalla solitudine, dalla miseria, dall’umiliazione e dall’ingiustizia; alle
volte il suo coraggio si spezza; ma tiene duro e non si lascia mai abbattere
dalla sventura.’ I drammi sofoclei non lasciano un’impressione di tristezza,
ma una ‘sensazione di serenità.’
Il tema dell’Antigone è così condensato da Simone Weil: ‘Il soggetto del
dramma consiste nella storia di un essere umano che, completamente solo,
senza alcun sostegno, entra in contrasto con il proprio aese, con le leggi del
suo paese, con il capo dello stato, e che naturalmente è subito messo a morte.’
Il compendio della tragedia è in uno stile asciutto, scarno, chiarissimo, inter-
vallato dalla traduzione semplice di alcuni passi significativi della tragedia.
L’opposizione tra Creonte ed Antigone è espressa in maniera lineare: ‘Creonte
valuta tutto dal punto di vista dello stato; Antigone adotta sempre un altro
punto di vista, che le sembra superiore.’ La Weil non dice che il punto di vista
di Antigone è superiore, ma che così sembra ad Antigone, la cui ‘fierezza’ però
‘si spezza’ nell’imminenza della morte. Antigone si rivolge ai cittadini di Te-
91
be, ma ‘non sente alcuna parola di consolazione.’ Nel compendio nudo ed ef-
ficace che la Weil dà della tragedia di Sofocle, risalta la solitudine della prota-
gonista, non la sua lotta per un ideale. Non si dà nemmeno un giudizio
esplicito sull’operato di Creonte, che agisce sulla base delle leggi dello Stato,
inflessibilmente applicate. Antigone ha sepolto Polinice: ‘Per Creonte, in que-
sta situazione, si tratta prima di tutto di una questione di autorità. La legge
dello Stato esige che l’autorità del capo sia rispettata. In ciò che Antigone ha
appena fatto, egli vede innanzitutto un atto di solidarietà ad un traditore della
patria.’ Antigone è così un personaggio che ha molto in comune con Filottete,
l’abbandonato, colui che è lasciato completamente solo. Ma nel caso di Fi-
lottete ‘tutto si aggiusta, in una specie di miracolo.’ Antigone è invece una
sconfitta.
Più tardi la Weil scriverà, in contrapposizione all’interpretazione hegelia-
na: Antigone è una ‘povera idiota’ che non conosce le leggi razionali del dirit-
to: ‘[…] la legge non scritta a cui ubbidiva questa bambina, – sostiene la Weil –
ben lungi dall’avere un qualcosa in comune con un qualche diritto o con qual-
cosa di naturale, non era altro che l’amore estremo, assurdo che ha spinto il
Cristo sulla Croce.’43
Dietrich Bonhoeffer rese concreta questa legge dell’amore, traducendola in
responsabilità individuale e quindi nella partecipazione attiva alla Resistenza
contro il nazismo, a costo della persecuzione, della tortura, della vita44:
un’idea di umanità e di esserci al mondo che si opponeva a quella che
Heidegger aveva diffuso nelle sue lezioni sull’Antigone nel 1935 (e poi nel
1942, ma pubblicate dieci anni più tardi)45.
Karl Reinhardt
Sicuramente due sono i libri più influenti su Sofocle e sulla tragedia greca in
ambito tedesco alla fine degli anni Trenta: il Sofocle (1933) di Karl Reinhardt
(1886-1958) ed il Sofocle (1931, 19372), nonché gli altri scritti sulla tragedia e
sull’umanesimo, di Heinrich Weinstock.
In tutte le tragedie sofoclee, argomenta Reinhardt, la sfera divina in manie-
ra enigmatica pone dei limiti a ciò che è umano: questa ‘sfera divina’ si svela
‘per la prima e unica volta’ nel suo incomparabile elevarsi sull’umano attra-
verso le parole di Antigone, lì dove quest’ultima non riconosce le leggi degli
uomini perché non sono state date da Zeus né dalla giustizia. Questi versi
della tragedia (vv. 450 ss.), sarebbero ‘quasi un passo di teologia’, se non par-
43 Simone Weil, Morale e letteratura, traduzione e nota di N. Maroger, ETS, Pisa 1990, p. 51.
Per Simone Weil e Antigone vedi A. Loades, Simone Weil and Antigone: Innocence and
Affliction, in: R.H. Bell (ed.), Simone Weil’s Philosophy of Culture: Readings toward a Divine
Humanity, Cambridge 1993, pp. 277-294.
44 Vedi Vivienne Blackburn, Dietrich Bonhoeffer and Simone Weil: A Study in Christian Respon-
siveness, Bern 2004, specialmente pp. 230 ss.
45 Vedi Jean Greisch, I filosofi possono essere dei buoni resistenti?, in: Dietrich Bonhoeffer. Eredità
cristiana e modernità, a cura di U. Perone − M. Saveriano, Torino 2006, pp. 83-103.
92
lasse una fanciulla. La quale tuttavia non è né una ‘martire, né una santa’,
perché il suo sapere non viene dal cielo, e nemmeno da potenze infere, miste-
riose, ma nasce dall’ambito ‘più naturale’, cioè quello intimo del legame di
sangue. Le ‘leggi non scritte’ sono quelle degli dei, di cui parla il coro dell’Edi-
po a Colono (vv. 865 ss.), legate alla famiglia e all’onore dei morti. L’Antigone
dunque rappresenta per Reinhardt il conflitto tra ‘il divino, quel che tutto
comprende, che è in accordo con la ragazza, contro ciò che è umano, quel che
è limitato, cieco, cacciato da se stesso, in se stesso respinto e falsificato.’
Reinhardt si impegna a contestare soprattutto l’interpretazione dialettica
hegeliana dell’Antigone, e a mostrare che non si tratta della lotta tra ‘diritti’ o
‘principi’, ma del porsi di fronte di due ‘ambiti’ (il divino e l’umano, appun-
to), divisi in ogni singolo punto l’uno dall’altro: quel che per Creonte è vergo-
gnoso, per Antigone è sacro; quel che per lei è pietoso, non lo è per Creonte;
chi per Creonte è ‘amico’, per Antigone è ‘nemico’. Solo così si può interpre-
tare correttamente, secondo Reinhardt, la più celebre frase di Antigone: ‘io
non sono nata nella cerchia di coloro tra i quali vale il principio ‘bisogna
essere nemico al nemico, ma tra coloro che sanno portare il proprio amore
determinato dal legame di sangue in accordo con chi è uguale.’ L’amore di cui
parla Antigone vige in un’altra comunità umana, diversa da quella da cui
scaturiscono le categorie di ‘amico’ e ‘nemico’ usate da Creonte. In greco,
scrive Reinhardt, la parola per ‘amore’ indica anche il ‘legame tra coloro che
hanno gli stessi sentimenti politici’, e quel che noi traduciamo con ‘odio’ è la
stessa parola che significa ‘nemico’. Quanto più superficialmente le due sfere
si esprimono allo stesso modo, con le stesse parole, tanto più la differenza nei
concetti è profonda e grave. Se si legge quest’interpretazione all’interno del
tempo in cui fu scritta (la prima edizione del libro di Reinhardt è del 1933, la
seconda è del 1941 e ne esce infine una dopo la guerra, nel 194746), facilmente
si vede in filigrana la presa di distanza da un potere politico con il quale non è
possibile instituire alcuna comunicazione, perché le parole vengono usate con
significati diversi, antitetici. Non si tratta della contrapposizione con quel po-
tere, ma della impossibilità di confronto con esso.
Heinrich Weinstock
Il nome di Heinrich Weinstock (1889-1960) è oggi praticamente assente dalla
bibliografia sofoclea, ma negli anni Quaranta del Novecento lo studioso fu
invece noto per i suoi scritti sull’antichità, le sue traduzioni e i suoi contributi
pedagogici, censurati perché non rispettavano le dottrine nazionalsocialiste.
Sotto il regime, gli furono tolti incarichi e curatele scientifiche. Nel 1941
Weinstock, che era un reduce della Prima guerra mondiale, dovette di nuovo
andare in guerra, e lì redasse la traduzione delle tragedie di Sofocle, senza
46 La censura nazista aveva tolto al libro la dedica a Kurt Riezler, uomo politico d’orien-
tamento comunista e costretto all’esilio americano, e una citazione da Thomas Mann,
riferita a Goethe, da p. 203.
93
alcuno strumento sussidiario: la traduzione divenne molto popolare nel do-
poguerra, perché pubblicata nella collana tascabile Kröner.
Weinstock parte dall’idea che il ‘tragico’ espresso da Sofocle e la situazione
dell’uomo contemporaneo sono vicinissimi, e che anzi come nessun altro
poeta contemporaneo Sofocle riesca ad esprimere l’attuale mondo storico. Il
mito rappresenta per Weinstock quello che per il ‘medioevo cristiano’ sono le
storie della Bibbia, cioè i ‘fondamenti di una visione del mondo.’ Tutto il
teatro greco è religione, afferma Weinstock, ed ogni elemento che lo compone,
dalla lingua alla maschera alle azioni dei personaggi, ha un valore religioso, è
cioè legato a questioni eterne e fondamentali dell’esistenza umana. Così, sep-
pure nessuno vorrebbe identificarsi con Antigone o Edipo, tutti sentono qual-
cosa di Antigone ed Edipo dentro loro stessi. Per capire la tragedia di Sofocle,
è anzi necessario, secondo Weinstock, astrarsi da una comprensione storica,
ma riconoscervi delle ‘realtà’ che sono eterne. Così gli dei di Sofocle non sono
altro che ‘potenze’ che dominano il mondo e l’esistenza dell’uomo in esso.
L’interpretazione di Weinstock è segnata da un forte tono esistenzialista, forse
con impliciti richiami ad Heidegger. Il problema tragico che la ‘parola’ di
Sofocle mette in scena è quello dell’‘essere-al-mondo’, lì dove nella concezione
sofoclea tutto ciò che è al mondo è reciprocamente legato: perciò qualsiasi
elemento di disordine mette in discussione tutto, e deve essere allontanato e
‘guarito’ per tornare alla connessione religiosa su cui tutto si regge. L’atto
tragico fondamentale è pertanto quello della purificazione47: il riconoscimento
religioso del fatto che è all’origine della contaminazione, dell’impurità, signi-
fica il riconoscimento da parte dell’uomo di portare il carico di una colpa sen-
za avere colpa (schuldlose Verschuldung). È inutile cercare una ragione logica a
questo ‘incolpamento’: infatti ‘il tentativo di dare un senso [a questa colpa]
sarebbe inutile, perché l’impurità apportatrice di morte appartiene invero già
all’ambito che dice un ‘no’ definitivo ad ogni tentativo dell’uomo di mante-
nersi da se stesso, di fondare se stesso su se stesso: alla morte. Fatta eccezione
per il Filottete, in ogni dramma sofocleo facciamo esperienza della morte, e
alla fine si ha l’impressione che tutto questo teatro sia, nella serietà celebra-
tiva, costruito sulla tomba.’48
Non si tratta, continua Weinstock, di chiedersi cosa avviene dopo la morte.
I Greci infatti parlano solo indistintamente dell’essere-ombre dei morti. Ma
della morte come presenza nella vita. ‘I vivi sono messi alla prova nel loro
comportamento rispetto ai morti (Die Lebenden werden an ihrem Verhalten zu
den Toten geprüft). La morte è la misura della vita, nel senso che viene condan-
nato chi si permette di disporre della morte con il metro di misura della vita;
ma è invece apprezzato chi, in rispettoso timore, riconosce nella morte il re-
gno che è sottoposto solo alle ‘leggi non scritte’ delle sue divinità.’49 Nell’An-
94
tigone soprattutto si pone la questione ‘del valore dell’uomo, che si misura in
base al suo comportamento rispetto ai morti. In questo si vede se egli conosce,
oppure no, i suoi limiti, dunque la sua umanità.’ Queste asserzioni coincidono
con quel che abbiamo letto nel romanzo di Döblin; ed anche quel che poi
Weinstock dice sulla ‘colpa’ alle radici dell’esistenza umana, al fondo dell’es-
sere, e di cui il dolore, da cui la tragedia si origina, è solo la manifestazione.50
Nell’Edipo a Colono il protagonista capisce la colpa dell’esistenza, nel momento
in cui dice: ‘Se io, dopo esser nato alla sventura come nacqui, venni alle mani
con mio padre e lo uccisi, senza sapere quel che facevo e a chi lo facevo, come
potresti accusarmi di questo atto involontario?’ (vv. 974-977). ‘Qui – commen-
ta Weinstock – la colpa tragica viene intesa come costrizione. L’uomo non
diviene colpevole perché lo vuole, è colpevole perché deve.’51 Non c’entra il
destino con questa colpa: l’azione di Elettra e quella di Antigone non hanno
nulla a che vedere con il ‘destino’. Il destino è un concetto romantico, non
greco. ‘L’uomo deve accettare il mondo, piegarsi alla sua legge, comprendere
il dolore e la morte come volontà divina e proprio nella loro mancanza di sen-
so deve comprendere l’ultimo e vero senso del mondo divino: che il mondo è
tragico. Questo è il significato di quelle parole che sempre risuonano sulla sce-
na: impara attraverso il dolore!’ – si legge in un paragrafo significativamente
intitolato Nicht Schicksal, sondern Schickung, Non destino, ma ‘ciò che è inviato’52
dal dio all’uomo. È il dolore, infatti, la scuola attraverso cui si impara la realtà
vera e propria dell’uomo.
Nessun altro potere è al di sopra di Dio, e quello Stato che si dichiara ‘sa-
cro’ distrugge se stesso: è questo l’errore di Creonte, è questo il nocciolo della
sua anarchia: ‘L’assolutismo statale di Creonte non distrugge solo la religione,
ma anche lo Stato, che egli solo crede sia invece così protetto dall’anarchia: ma
questo assolutismo è anarchia; Creonte non solo è un senza Dio, ma anche un
‘senza Stato’ (v. 370), come diventa chiaro agli spettatori nelle oscure profezie
della scena sacerdotale [con Tiresia].’ Perciò, nella tragedia, Creonte non rap-
presenta affatto ‘valori politici’, ma anzi la distorsione di essi, ed è quello che
nel romanzo di Döblin il professor Becker cerca di far comprendere ai suoi
scolari: Goethe lo aveva definito Staatsverbrecher, un criminale contro lo Stato,
Becker un Umstürzler, un sovvertitore.
ciolo dell’Antigone è espresso dalla domanda: Wie hat sich die Welt der Lebenden zur Welt
der Toten zu verhalten? Come deve comportarsi il mondo dei vivi rispetto al mondo dei
morti?. In realtà si ha l’impressione che anche nella progressione del ragionamento, dal
‘tragico’, all’‘oracolo’, al significato della morte, Döblin segua, nei capitoli in cui narra le
lezioni sull’Antigone, lo sviluppo argomentativo dell’Introduzione di Weinstock alla sua
traduzione delle tragedie di Sofocle. Ma poiché non ho potuto dimostrare che effettiva-
mente Döblin era in possesso di quel libro, questa deve rimanere una pura supposizione.
50 Ivi, pp. XXX-XXXI.
51 Ivi, p. XXXIII.
52 Nella traduzione italiana si perde il gioco tra le parole etimologicamente imparentate
Schicksal e Schickung. La citazione è a p. XXXV.
95
Antigone in fondo alla Sprea
L’Antigone di Döblin custodisce il rispetto della morte nella vita, all’interno
della vita; non rappresenta un ordine alternativo allo Stato, anzi: Becker e la
Luxemburg, le due figure più vicine ad Antigone, sono dei rivoluzionari, vo-
gliono scardinare la società, non rafforzarla. Antigone, nella lettura di Döblin,
porta un elemento di forte disordine, affermando i diritti della morte sulla vi-
ta, e vivendo in un mondo di morti, avviluppato dalla morte. Il sacrificio di
Antigone è quello del capro espiatorio, attraverso cui la società tenta di libe-
rarsi dalle proprie ‘impurità’. Tuttavia il sacrificio è inutile, perché nella storia
si creano in continuazione ‘capri espiatori’, con il martirio dei quali la società
crede di autotutelarsi e difendersi.
Il romanzo di Alfred Döblin marca una cesura fondamentale nella ricezio-
ne dell’Antigone di Sofocle. La vicenda di Antigone in Döblin rappresenta la
sconfitta della ragione e dell’azione politica, e si conclude in fondo alla Sprea
insieme al cadavere di Rosa Luxemburg. Ma rappresenta anche la sconfitta
della religione. La conversione al cristianesimo di Becker non approda a nulla
e non serve a nulla. Se Creonte ha distrutto la polis, Antigone non ha posto in
alcun modo le basi perché fosse riedificata. Non solo Creonte va a fondo, an-
che il suo Stato, anche il mondo intero.
La fedele Antigone
La tomba si trovava tra due orti, un sentiero stretto vi passava davanti e in quel luogo
si allargava come il ghiaioso letto di un fiume che racchiude un’isola. La croce di legno
cominciava già a sfaldarsi; la scritta R.I.P53 era stata slavata dalla pioggia, l’elmo vi
era poggiato sopra, obliquo, e pareva il ghigno della morte ancora lì, di guardia. Da
una parte stavano innaffiatoio, rastrello e pala; Carola, la ragazzina, prese la cesta con
i germogli che intendeva piantare lì intorno, e si girò verso il suo accompagnatore, che
la fissava annoiato e sotto la mano chiusa sfregava il fiammifero per accendersi una
Camel.
Non c’era un filo d’aria. La primavera perdeva di freschezza e si avviava già
all’ardore dell’estate; fiorivano i lillà, i singoli aghetti si inscurivano e cominciavano a
53 Requiescat in pacem.
96
trascolorare, dal porpora e dal viola, nel colore dei frutti, il biancospino era coperto da
una schiuma di fiori violentemente rossi, gli alti gambi dei tulipani avrebbero retto il
fiore a forma d’urna ancora solo quel giorno e l’indomani – poi sarebbero sfioriti
anch’essi. In un brutto, vecchio vaso e in due ciotole d’argilla stavano ad ornamento i
fiori – adesso c’erano una fila di campanule, narcisi dall’aspetto malato, ed il
biancospino, da cui sembrava emanare fulgore e fecondità, un’impressione però
contrastante con l’odore sgradevole dei suoi piccoli fiori dalla breve vita.
‘Quando sono appassiti i biancospini, per un po’ di tempo non fiorisce più nulla’ –
disse Carola, si chinò e svuotò l’acqua sporca da tutte e due le ciotole, le riempì
nuovamente con acqua fresca e sospirò.
‘Le rose’ – disse il ragazzo. ‘Ma è ancora presto. Hai ragione: nel frattempo non
fiorisce proprio nulla. Al massimo un paio di arbusti dai fiori rosa e gialli, ma se si
vogliono cogliere i fiori bisogna strapparne i rami’ – e le fece l’occhiolino.
‘No’ – disse lei brusca.
‘Non si devono strappare? No? Allora bisogna proprio aspettare che fioriscano le
rose.’ Rise, rozzo ed impacciato; la ragazza cominciò a pulire la tomba, a cogliere con
cura i fiorellini che erano caduti, e a sistemare con precisione al bordo del sentiero, con
il rastrello e le mani, i declivi laterali della piccola collinetta. [Certo così quand’era
bambina sulla cucina giocattolo ha preparato la pappa di riso per le sue bambole Ella
ed Edeltraut, o un budino, o qualcosa del genere – questo fu il pensiero di lui]. Di
nuovo si mise a ridere. La ragazza lo guardò infastidita e si fermò; è vero: era come se
sulla tomba, coperta dai fiori del biancospino, fosse stato cosparso dello zucchero, o dei
bambini, dopo aver giocato, avessero dimenticato di portar via i loro giochi, dopo esser
stati chiamati dalla mamma.
‘Dammi la cesta con le piante’ – disse Carola – ‘le voglio piantare adesso. Ed anche il
bastone per fare i fori nella terra, ad uguale distanza l’uno dall’altro’ – era accaldata,
come eccitata da quel lavoro.
‘Prenditeli da te’ – disse il ragazzo e schiacciò la sigaretta contro un palo fradicio – ‘è
una sciocchezza, quel che stai facendo…’
‘E che faccio?’
‘Beh – questo darsi da fare con la tomba del soldato. Corri sempre qui. Settembre,
ottobre: quando ci son le bacche; novembre, dicembre: con le agavi e gli abeti; e poi
quando fioriscono i bucaneve, il croco e le viole. E tutto questo per un estraneo di cui
non sai nulla.’
‘E cosa non so?’
‘Che tipo era, ad esempio.’
‘Adesso è morto.’
‘Forse era uno delle SS.’
‘Forse.’
‘E non ti vergogni?’ – il ragazzo andò in bestia. ‘Quei bastardi hanno ammazzato tuo
fratello maggiore a Mauthausen. Probabilmente lo hanno…’
97
‘Taci!’ – la ragazza pigiò le mani sulle orecchie, con un’espressione disperata; il
ragazzo la prese ai polsi e le spinse le mani in giù, lei si difese, ansimava, i loro visi
erano vicinissimi; all’improvviso lui la lasciò.
‘Fai pure quel che vuoi. Mi è indifferente. Io, però, ne ho abbastanza. Ciao.’
‘Non andartene!’
‘E perché no? Tu sei in buona compagnia. Io mi cercherò un’altra.’
‘Una di quelle…’ – disse con amarezza la ragazza – ‘del mercato nero?’
‘E anche se? Il mercato nero non è peggio della tua parata di fantasmi. Fantasmi
come questo qui… vermi e larve.’ Accennò con la testa alla tomba, che adesso, forse
perché rastrello e vanga vi erano cadute sopra, mentre lottavano, faceva una brutta
impressione e sembrava abbandonata. ‘Vieni‘ – disse il ragazzo con dolcezza – ‘ho
della cioccolata.’
‘Te la puoi tenere.’
‘E delle calze.’ Silenzio. ‘E una bottiglia di liquore.’
‘Perché menti?’ – chiese fredda la ragazza.
‘Se sai che dico bugie’ – disse il ragazzo tranquillo – ‘posso anche smettere. O credi
che mi diverta mentire?’
‘Allora menti per tristezza’ – disse Carola, tutto d’un fiato. Restarono in silenzio, il
sole pomeridiano bruciava, nell’aria c’era un tremolio come accade solo d’estate, un
lampo improvviso, il grido leggero ed il sospiro impaurito di madre natura. Un pezzo
del recinto del giardino, spezzato, stava al margine del sentiero, si sedettero a terra,
come se si fossero messi d’accordo, il ragazzo attirò Carola a sé e le pose la testa in
grembo, come fosse un cagnolino sperduto. La ragazza sedette rigida, e guardava fisso
con occhi spalancati la tomba del soldato…
‘Credi davvero che Clemens sia stato torturato…?’ – chiese piano Carola. ‘Nella cava
di pietra54, oppure…’
‘Non lo so. Lascia perdere. Non ti tormentare.’ – mormorò quello come in
dormiveglia. ‘Per Clemens è finita.’
‘Già’ – disse lei meccanica – ‘per Clemens è finita.’ Annuì un paio di volte con la
testa e poi riprese: ‘Ma vorrei sapere…’
‘Che cosa?’
‘Se adesso è in pace’, disse lei, a mezza voce.
‘Puoi star tranquilla. Sta in pace: è morto.’
‘Lo so. Ma vedi, quando ero bambina non riuscivo a prender sonno, se i miei
giocattoli erano rimasti nel cortile, il cavalluccio di legno o la bambola. E se piove? E
se restano da soli e han paura del buio?’– pensavo. ‘Capisci?’
54 Nel campo di Mauthausen c’era una cava di pietra con 186 gradini, dalla sommità della
quale i prigionieri venivano buttati giù, oppure erano obbligati a salire i gradini sci-
volosi, con i loro zoccoli di legno, trascinando blocchi pesantissimi di pietra, sì che la
maggior parte scivolava e finiva sfracellata al suolo.
98
Non ci fu risposta, Carola nemmeno se l’aspettava, era come se ponesse le sue
domande a qualcun altro.
‘È difficile morire? Puoi dirmelo? Il momento, quando l’anima si strappa da tutto quel
che possiede?’
Ora spirava una brezza leggera e scuoteva le cime dei rami del biancospino; i raggi del
sole, cadendo obliqui, si posarono sull’elmo ed accesero sulla sua superficie matta una
minuscola scintilla di luce.
‘Stai comodo?’
Il ragazzo scosse la testa in grembo a lei, come sognasse. Il suo volto giovane, segnato
dalle rughe degli anni dell’orrore, si distese sotto le mani che lo carezzavano,
cercavano di lisciare lentamente e teneramente le sue ciocche ribelli, andavano dalla
fronte alle tempie e alle guance… poi le labbra cercarono di tener ferme le fredde dita
di lei, suggendole con un bacio leggero… sino a che le dita, infine, tranquille, si
fermarono nell’incavo della gola, dove batteva regolarmente con tocchi forti l’arteria.
‘Sto comodo’ – rispose il ragazzo con una voce distante.
‘Vorrei sempre star steso così. Sempre…’ Sospirò e sussurrò qualcosa, che Carola non
capì, poiché lui premeva la bocca sulle sue mani; ma non gli chiese cos’avesse detto.
Dopo un po’, la ragazza disse: ‘Devo continuare, adesso. La mamma torna tra poco a
casa. E poi, prima che lo dimentichi: il curato, ieri, ha chiesto di te. C’è un gran
bisogno di qualcuno un po’ più grande che serva la messa, sai, specie durante le
funzioni importanti, durante le feste. Non è che per caso…?’
‘No. Non voglio.’ Il ragazzo storse la bocca.
‘…i bambini non sanno a memoria il testo, imparano male e sono inaffidabili’ –
proseguì la ragazza imperturbabile ed ostinata. ‘Soprattutto il requiem…’
Si interruppe. Proprio davanti ai loro occhi volò una farfalla con un incerto battito
d’ali e si fermò fiduciosa e stanca sulla cesta con le piantine.
‘Va bene’, disse il ragazzo. ‘Ma lo faccio per te’, si corresse, ‘perché tu abbia pace…’,
aggiunse.
‘Perché lui… abbia pace’, disse la ragazza e prese il cesto.
Rimettere i peccati
Elisabeth Langgässer, una scrittrice tedesca di ‘sangue misto’ secondo le cate-
gorie naziste, essendo di padre ebreo, scampò alla Shoah per aver sposato un
filosofo cattolico. La scrittrice aveva avuto, prima del matrimonio, un’altra
figlia da un padre ebreo, Cordelia, alla quale non riuscì ad evitare nel 1943 la
deportazione ad Auschwitz. La Langgässer non andò via dalla Germania,
scelse la cosiddetta emigrazione interna, e fu vicina al gruppo di Resistenza
morale al nazismo, che a Monaco si era creato attorno alla figura del sacerdote
cattolico Romano Guardini (1885-1968). Lavorò in una fabbrica per il servizio
di guerra obbligatorio. La sua famiglia era costantemente sotto osservazione
della Gestapo. L’ambiente culturale era lo stesso nel quale si formarono i fra-
telli Scholl, gli eroi della ‘Rosa bianca’. Come ‘mezza ebrea’ le fu impedito di
99
pubblicare. I suoi tentativi di eludere il divieto, con lettere che imploravano
un trattamento speciale, non ebbero esito. Al primo congresso post-bellico de-
gli scrittori tedeschi, dal 4 al 10 ottobre 1946 nel teatro Hebbel di Berlino,
Elisabeth Langgässer presentò una conferenza dal titolo: Scrittori sotto la dit-
tatura di Hitler. Nel discorso si richiama alla tradizione della chiesa cattolica:
l’astensione dalla scrittura durante il nazismo è vista come una predizione
divina ed un’‘imposizione del destino’, perché ha permesso a molti degli
autori di rimanere integri moralmente, cioè non ha dato loro la tentazione di
stringere un patto con il diavolo. Nella stessa occasione, lesse pubblicamente
alcuni racconti da una raccolta intitolata Il torso, di cui fa parte La fedele Antigo-
ne, pubblicata nella primavera del 1948.55
Il titolo della raccolta è spiegato dalla scrittrice in una lettera: nei racconti
si vuole mettere insieme l’immagine frantumata dell’uomo, quella di ‘ieri e
quella di oggi’56. In copertina c’è una testa femminile classicheggiante, con un
fondo di rovine. Ogni frase è scalfita ‘sino alla sua essenza e la sua origine,
sino alla forma più esteriore, la pura colonna dorica, che rappresenta la nuda
sostanza.’57 Nel primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, un ameri-
cano, un giapponese ed un non meglio identificato Habakuk, tirano fuori un
torso di legno dalla terra che scavano ‘dopo la catastrofe.’ Quella statua di-
mezzata ‘assomiglia a tutti loro’, che si trovano – si rivela alla fine – ‘nella
terra della morte.’ I racconti della raccolta, scrive la Langgässer al suo agente
letterario, sono ‘crudeli’, ‘senza compromessi’. ‘Non devi dimenticare che il
libro deve chiamarsi Il torso. Torso – il tempo. Torso – l’uomo. ‘A mo’ di torso’
– la lingua, che dev’essere così come il tema. […] Mortalmente serio. Mortal-
mente preciso. […] La prima pagina di questo nuovo libro è il timor di Dio. Lo
capirai, quando lo leggerai tutto.’58 È una raccolta – scrive ancora la scrittrice
in un’altra lettera – di ‘racconti crudeli, che non si possono separare e strap-
pare l’uno dall’altro, perché la loro costruzione è musicale, non logica, ed as-
solutamente non cronologica. Tutti insieme sono ben altro che un ‘reportage’
– sebbene io creda che ‘dentro’ ci sia tutto: lo spavento, l’orrore, la follia ed il
grottesco, ma anche l’ingenuità di una bambina il giorno della sua prima co-
munione e la tenerezza della fedele Antigone’. Elisabeth Langgässer diviene,
anche se solo per qualche anno, la più famosa tra le poetesse tedesche, sino a
che la morte, dopo essersi ammalata di sclerosi multipla, non la strappa pre-
cocemente al mondo e alla letteratura. Il mito è nella poesia della Langgässer
cifra della rinascita: il dolore di una perseguitata si lenisce davanti alla natura
panica che si rigenera. La stessa funzione svolge la natura anche nel racconto
su Antigone: si attende un cambiamento, anche se lento, nell’aria c’è la pro-
messa di un futuro amore.
55 Per l’editore Classen & Goverts ad Amburgo. L’indicazione 1947 sul retro di copertina è
sbagliata.
56 Briefe, Düsseldorf 1990, I, p. 563.
57 Ivi, p. 556.
58 Citato in: Sonja Hilzinger, Elisabeth Langgässer. Eine Biographie, Berlin 2009, p. 236.
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Il racconto La fedele Antigone è studiato in ogni singolo particolare: la prima
parola , ‘la tomba’, das Grab, potrebbe anche fungere da titolo. È infatti proprio
questa tomba abbandonata la protagonista del racconto. Carola la cura con
un’attenzione che sembra spropositata al suo ragazzo, il quale fuma Camel e
frequenta il mercato nero, si è cioè completamente adattato alla mentalità e ai
costumi dei vincitori. Quel che Carola fa è incomprensibile, tanto più che po-
trebbe trattarsi della tomba di una SS, le urla indispettito il ragazzo. Ma per la
ragazza i morti sono tutti uguali. Quella SS è adesso uguale a suo fratello che
è stato trucidato a Mauthausen. Eteocle e Polinice non si distinguono più. Il
problema base del racconto coincide con quello dell’Antigone nell’interpre-
tazione di Döblin (il cui romanzo però fu pubblicato dopo) e di Weinstock: e
cioè quale sia il rapporto del mondo dei vivi con quello dei morti. L’Antigone
della Langgässer è in linea con l’interpretazione teologica di Bultmann, che
certamente la scrittrice aveva letto, dati i suoi rapporti con la Resistenza cri-
stiana al nazismo. Antigone è cioè una ‘sposa dell’Ade’, che trascura il suo
‘sposo’ terreno, un poco profondo Emone tedesco, per dedicarsi ai morti. Co-
me nel primo racconto della raccolta, anche se i riferimenti storici inequivo-
cabili parlano della Germania dopo il nazismo, siamo piuttosto in una ‘terra
della morte’. Bisogna attendere che la natura faccia il suo corso e rinasca, e
non violentarla strappandole i fiori. Nel racconto si oppone anche, con delica-
tezza, il punto di vista maschile al punto di vista femminile: per il ragazzo,
Carola attende alle sue faccende tipicamente femminili come faceva sin da
bambina, giocando con le bambole. E perciò, impaziente, il giovane vorrebbe
subito ‘strappare i fiori ’ senza aspettare le rose, dice con un’allusione sessuale
– perciò arrossisce. Per indispettire Carola, afferma che si troverà un’altra, una
prostituta. Carola invece dà un significato ben più alto alla sua attività.
Attraverso il rispetto dei morti, tutti uguali nell’aldilà, presume di riedificare
un ordine. Questa è la sostanziale differenza interpretativa tra Döblin e
Bultmann, da una parte, e questo racconto pieno di speranza dell’immediato
dopoguerra, dall’altra. Le Antigoni di Döblin nelle sue controfigure di Becker
e della Luxemburg sono annichilite; il saggio di Bultmann si chiude con
l’oscurità dell’Ade che ingoia Antigone: ‘la potenza della morte è la potenza
delle tenebre e dell’orrore’, scrive il teologo59. L’Antigone della Langgässer,
invece, è un’Antigone paziente, ‘fedele’, intimamente convinta che si possa
ricominciare, che la pace dei morti coincida con la propria. Tiene in grembo la
testa del ragazzo con una tenerezza colma di promesse erotiche. Lo convince a
presentarsi a servir messa, reintroducendo così, se consideriamo la trama
della tragedia sofoclea, la figura del sacerdote, del profeta, di Tiresia,
insomma, che qui diventa l’unico deputato ad officiare il requiem per i
defunti. Tiresia, invece, in Döblin non compare (o compare degradato nella
figura di Becker che in preda alla sua religiosità pazzoide va in giro per il
mondo come uno straccione a predicare). Questa ‘pace’ generale diventa la
condizione per la rinascita, una rinascita per la quale non solo in Döblin, ma
101
anche nella contemporanea e laicissima Antigone di Bertolt Brecht non c’è
posto. La religione è l’unica consolazione, in questo racconto, persino per chi
non ha fede, come il fidanzato della ragazza; la solitudine della protagonista è
lenita solo dal dialogo con Dio, la cui presenza si avverte in tutta la natura. E
tuttavia anche questa Antigone non è certamente felice: con il suo fidanzato
non ha dialogo, lui parla di qualcosa che lei nemmeno ascolta, e lei d’altronde
non si aspetta da lui risposta alle sue domande. È un’Antigone sola,
immensamente sola, che la guerra ha precocemente invecchiato, così come ha
segnato di rughe il viso del suo giovane amico. La figura di Antigone del
romanzo di Döblin, come colei che vive per la morte e con la morte, nel
ricordo dei caduti della guerra – tra i quali non c’è distinzione –, viene portata
dalla Langgässer alle estreme conseguenze. Non si pone più nemmeno il
problema della contrapposizione ad un potere tirannico ed irrispettoso delle
‘leggi non scritte’, perché lo Stato sembra del tutto dissolto nella vicenda della
Langgässer: non c’è un Creonte, l’unico elemento corale superstite è lontano, è
quel mercato nero pieno di pericoli e donne in vendita. Solo la messa resta
come possibile incontro tra uomini (ma anch’essa è vuota, vi vanno i bambini,
gli uomini sono stati decimati dalla guerra). Questo racconto non è tragico: è
piuttosto pervaso da quella ‘grazia tragica’ di cui parlava Kierkegaard, in cui
l’estetico e l’etico sono visti come preliminari essenziali al religioso.
La protagonista del racconto della Langgässer non ha la complessità intel-
lettuale né di Friedrich Becker né tantomeno di Rosa Luxemburg nel romanzo
di Döblin. Assomiglia piuttosto alla madre di Becker, la pietosa infermiera,
che si pone domande simili a quelle che Carola pone a se stessa:
‘Frau Becker ebbe di nuovo la possibilità di fare delle osservazioni su come gli
uomini si comportano rispetto al morire. Pochissimi accettavano volontaria-
mente di morire, se restavano coscienti. Raggiungevano la morte più facil-
mente quelli che si suicidavano, oppure quelli che morivano per caso. Persino
dopo una vita terribile, nelle malattie più difficili gli uomini si attaccavano a
questo esistere. Nonostante tutto deve perciò esserci qualcosa di bello nell’esi-
stere. E vi si aggiungeva la paura davanti allo sconosciuto, davanti al buio
della morte.’ – ‘Cosa accade a quegli uomini che sono, come si dice, ‘morti’?
Perché se ne vanno in giro? E che accade a chi li ascolti, e a quelli che loro
incalzano?’
102
ribelle in questa ragazzina che torna diligentemente a casa prima dell’arrivo
della mamma. Forse un resistente era il fratello, perché il famigerato campo di
Mauthausen era destinato innanzitutto agli oppositori politici, ma non è detto
esplicitamente. L’Antigone tedesca del dopo 1945 è una fedele e credente fan-
ciulla, che con l’amore per Dio e per il mondo, ma anche con la dimenticanza
dell’orrore, crede di poter andare avanti, di sopravvivere. L’elemento più
originale del racconto della Langgässer è la proposizione del tema del diritto
alla sepoltura anche per i nemici, tanto più che le categorie di oppositori e
fautori dello Stato vengono in continuazione sovvertite dalla storia.
È un’Antigone, questa, che non pecca, ma soprattutto che rimette i peccati.
Una farfalla, il simbolo dell’anima, si posa sul suo cesto. E lei non ha bisogno
di scendere in nessuna grotta, per tutelare la memoria dei morti.
Ma si possono davvero rimettere facilmente i peccati della storia?
103
ANTIGONE SENZA OBLIO
60 Ringrazio per aver messo a mia disposizione il copione inedito l’editore Felix Bloch
Erben, Hardenbergstr. 2, Berlin, che detiene tutti i diritti: https://www.felix-bloch-
erben.de
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Nemmeno allora.
Creonte non si è mai nemmeno chiesto che senso abbia comandare, stare al
governo.
Ha una notevole capacità di far andare le cose per il verso giusto.
E quando si sveglia, al mattino, quando il suo sguardo cade su questa pic-
cola città e sui pendii boscosi che la circondano, è sempre contento che ci
sia Tebe – una sua creazione, una sua opera.
(Indica un altro)
Quello in uniforme, quello vicino a Creonte, è il capo della polizia.
Ama il vino e la pensione, che spera di avere al più presto.
Ne ha abbastanza del rispettare oppure infrangere la legge qui a Tebe, a
seconda di come ordina Creonte, il capo.
Vuole finalmente stare tranquillo. Non ha idea di quel che gli capiterà.
(Mostra un altro)
Quel ragazzo pallido, dall’aspetto malato, è Emone. Il figlio di Creonte. È
tornato a Tebe da un paio d’anni. Dalla prigionia all’Est. Lì lo avevano
condannato a molti anni di lavori forzati. Ma Emone era innocente.
Nei primi tempi, dopo il suo ritorno, non parlò con nessuno, tranne che
con Antigone.
Erano cresciuti insieme. Forse lei a lui sembrò l’unica che lo volesse capire.
E cominciò ad amarla. Con la forza disperata di chi non si ritrova più a suo
agio in questo mondo. Si vogliono sposare al più presto.
Creonte ha già comprato un cavalluccio di legno. Ma non ci sarà un ma-
trimonio, né nipotini.
(Indica ancora)
La ragazza che guarda verso l’orchestra si chiama Ismene. È la figlia mi-
nore di Edipo. Ama i vestiti e gli specchi, nei quali può ammirarsi. A Tebe
si annoia ed aspetta che uno la porti via da qui. Talora si ricorda di quel
giorno lontano. Della lama di luce sotto la soglia del bagno e della madre,
che lì si era impiccata con la cintura dell’accappatoio. Giocasta non volle
sopravvivere alla separazione da Edipo. Allora Creonte accolse a casa sua
le due orfane. Forse perché si voleva mostrare umano e generoso.
(Entra il direttore, si situa davanti all’orchestra, batte ed alza la bacchetta)
DOTTOR TIRESIA: Non ho ancora finito, signor direttore.
(Il direttore si inchina. I musicisti depongono gli strumenti)
DOTTOR TIRESIA: Debbono provare. Domani a Tebe si apre la stagione.
(Fa una piccola pausa, quindi continua ad indicare)
Lì in disparte, da sola, come se già presentisse che presto, tranne un morto,
non ci sarà più nessuno dei suoi parenti – ecco, quella è Antigone.
106
Tutti noi, che la conosciamo sin da quando era bambina, non sapremmo
dire su di lei niente di preciso. Le sembra sufficiente – esistere. E con la
stessa pazienza silenziosa con la quale un tempo giocava con le bambole,
ama adesso Emone.
Vorrei avvicinarmi a lei. Prendere il suo viso tra le mani e dire: non sce-
gliere quella strada. Non farlo. Continua a servire la colazione a Creonte,
che ti ha cresciuta. Come da anni. Lui ti ama. Lui ama solo te al mondo.
(Fa una piccola pausa)
Ecco, ho presentato tutti quelli che hanno una parte nella nostra storia.
(Due uomini muscolosi sono avanzati sul proscenio. Restano fermi, come in segno
di sfida)
DOTTOR TIRESIA: Ah, è vero. Ho dimenticato questi due. Le guardie. (Si gira
verso di loro) Bene, potete andare. Non abbiamo ancora bisogno di voi.
(I due restano fermi, come se non avessero sentito)
DOTTOR TIRESIA (gridando improvvisamente): Via!
(I due obbediscono e scompaiono dietro la scena)
DOTTOR TIRESIA: Ho torto nell’innervosirmi, quei due faranno solo il loro la-
voro… (Fa una piccola pausa) Però mi ricordano la mia colpa e la mia viltà.
(Fa di nuovo una piccola pausa)
Tutto cominciò con la morte dei due figli di Edipo. Polinice ed Eteocle ave-
vano seguito il padre nell’emigrazione – al contrario di Giocasta e delle
figlie. Quando le nostre truppe irruppero in oriente, Edipo fu ucciso. Ad
Eteocle riuscì di fuggire oltreoceano. Ma Polinice fu portato in patria. Lo
Stato lo prese tra i suoi.
Quando la guerra finì – il destino riunì i fratelli. Ad aprile. Quando cadde
Tebe.
Eteocle portava l’uniforme dei vincitori. Polinice portava la nostra
uniforme.
Tutti e due morirono.
Il cadavere di Eteocle, colui che voleva prendere Tebe, fu sepolto dai citta-
dini di Tebe al cimitero, in pace.
Il cadavere di Polinice, che aveva difeso Tebe, non fu mai trovato.
(Fa una pausa. Quindi si gira verso il pavillon)
Ho finito, direttore. Adesso può dare inizio alle prove.
(Il direttore alza la bacchetta. Risuona un valzer primaverile. Lentamente gli atto-
ri lasciano la scena. La musica continua per un po’. Quindi smette)
Antigone esce all’alba, vestita elegantemente con abiti di Ismene, la ‘bella’ del-
la famiglia, ed il dialogo tra le due ragazze riproduce per molti aspetti la si-
tuazione iniziale della tragedia di Anhouil: nel dramma francese, la nutrice
107
crede che Antigone abbia un amante e tradisca il fidanzato Emone – e lo stes-
so crede Ismene nel dramma di Hubalek.
Un legame di tenerezza, persino con tratti equivoci, lega Creonte ad Anti-
gone: ogni mattina la ragazza porta la colazione al sindaco. Creonte nota che
Antigone è nervosa e crede che sia incinta, e parla già del futuro nipotino.
Anche questo è un elemento che potrebbe essere derivato da Anhouil, dove
Antigone assicura ad Emone che sarebbe stata felice di avere un bambino con
lui. Antigone invece è agitata perché depositaria di un tremendo segreto, che
le è stato rivelato dal giardiniere in punto di morte: Creonte ha ucciso Poli-
nice, tornato dalla guerra, e l’ha sepolto nel parco. Da quando ha scoperto la
verità, Antigone fa un gesto infantile (e in questo suo infantilismo ricorda
ancora da vicino la protagonista di Anhouil): segna all’alba col gesso il nome
di Polinice sul nuovo monumento ai caduti, costruito nel parco sulle aiuole
che coprono il corpo di Polinice. Se ne accorge il capo della polizia, che subito
riferisce a Creonte, il quale però ostenta tranquillità ed indifferenza.
POLIZIOTTO (lentamente): Se… questa cosa con il nome di Polinice non smette…
se… se accade qualcos’altro… se… se viene fuori che… Creonte… io…
io… (si interrompe)
CREONTE (tranquillo): Parla pure.
POLIZIOTTO: Ho sempre fatto quel che mi era comandato.
CREONTE (lo guarda silenzioso)
POLIZIOTTO: Ho testimoni.
CREONTE (continua a guardarlo silenzioso)
POLIZIOTTO: Tutta Tebe può testimoniare che io ho sempre fatto solo quello
che mi era comandato.
(Pausa)
CREONTE: Quel che ti era comandato – io ne sono responsabile. Non hai biso-
gno di nessun altro testimone. (Lo guarda quasi prendendolo in giro) Non
aver paura. Nessuno ti farà niente. Non val la pena. Tipi come te ce ne
sono sin troppi.
POLIZIOTTO: Grazie, Creonte. Ti ringrazio. (Mormora) Noi abbiamo sempre
agito per il bene di Tebe.
CREONTE (si alza): Abbi fede, non verrà fuori niente. Capisci? Non si saprà
niente di Polinice. Vuoi goderti libero la tua pensione, non è vero? Lo farai.
Tebe può star tranquilla. Dobbiamo solo trovare chi vuol turbarne la pace.
Non ti muovere più dal giardino. Aspetta, sino a che quel tipo si avvicina
di nuovo al monumento. Allora prendilo e portamelo qui. Sono ancora in
grado di combattere.
108
Antigone confida alla sorella la verità. La reazione di Ismene è tra l’incredulità
e l’atteggiamento comune tra i Tedeschi del dopoguerra, improntato cioè al
dover dimenticare:
ISMENE: Ma come fai a sapere che è vero quel che ti ha raccontato il giardinie-
re? Forse è tutto una bugia….
ANTIGONE: No, il giardiniere non ha mentito. È vero. Creonte ha ucciso nostro
fratello. (Pausa)
ISMENE: Antigone, sono passati tanti anni da allora.
ANTIGONE: Sì.
ISMENE (cauta): Oggi vediamo le cose diversamente, non è vero?
ANTIGONE: Diversamente?
ISMENE: Voglio dire, dovremmo finalmente dimenticare.
ANTIGONE: Dimenticare?
ISMENE: È umano.
ANTIGONE: È comodo. Chi dimentica i crimini, dimentica anche quelli che li
hanno commessi. Ma i colpevoli sono ancora tra noi. Addirittura sono al
governo di Tebe. (Fa una pausa) Ismene, non nasconderti dietro al tempo
trascorso.
ISMENE (si alza, va da una parte e dall’altra, quindi si ferma): Non ho affatto biso-
gno di nascondermi dietro nulla. Semplicemente, non ci credo.
ANTIGONE (ride)
ISMENE: Non posso crederlo.
ANTIGONE (ride)
ISMENE: Smettila di ridere. Di far la superiore. Hai un orgoglio smisurato. Co-
me se ne provassi piacere. Rispondimi, dimmi: perché Creonte avrebbe
dovuto farlo?
ANTIGONE: Lo ha fatto.
ISMENE: Perché?
ANTIGONE: Me lo dirà.
ISMENE: Dunque: non lo sai. Semplicemente perché non ce n’era motivo. (Fa
una piccola pausa) Antigone – e se anche dovesse esser vero, rimetteresti
tutto in gioco.
ANTIGONE (calma): Sì.
ISMENE: Anche Emone?
ANTIGONE (calma): Sì.
ISMENE: Tutto il tuo futuro?
ANTIGONE (calma): Sì.
109
ISMENE: Sei come nostro padre. Anche lui ha messo tutto in gioco. Anche noi,
Antigone. La nostra famiglia, che ha distrutto. È sua la colpa, se sono finiti
così miseramente: la mamma, Eteocle, Polinice.
ANTIGONE: Non è colpa sua. Ismene, smetti infine di capovolgere la verità.
Nostro padre fu mandato via perché denunciò a voce alta che a Tebe acca-
devano cose ingiuste. È lui il colpevole oppure chi ha commesso quei
crimini?
Antigone non può più fermarsi, perché, dice ‘ha fatto una promessa a se stes-
sa.’ Tiresia continua a raccontare; è l’ ‘aedo’ della comunità, in un dramma
dove il coro è costituito da tutta la popolazione, una presenza silenziosa ed
ostile.
110
nuovo fa una pausa) Ma svelare la mia azione significa anche portarne alla
luce un’altra. Nella quale tutti sono coinvolti. Sì, Antigone, tutta la città.
Sono il loro sindaco. Ho anche un dovere: proteggerli. (Di nuovo fa una
piccola pausa) Dalla verità, che distruggerebbe Tebe. (Si volta verso di lei) Il
giardiniere ti ha detto che ho ucciso tuo fratello. Sì, l’ho fatto. Ma ti ha
anche detto perché l’ho fatto? Perché ho dovuto farlo? Che era in gioco la
nostra vita? (Le si avvicina e le resta molto vicino) Tu vuoi riesumare a mani
nude il morto, nel parco. Antigone, sotto le aiuole non giace solo Polinice.
(Pausa)
ANTIGONE (neutra): Chi, chi altro ancora sta lì…
CREONTE: I lavoratori stranieri.
ANTIGONE (ripete): I lavoratori stranieri. (Fa una piccola pausa) Li avete uccisi.
Perché, Creonte?
CREONTE (tace)
ANTIGONE: Perché li avete uccisi? Rispondi. – Lo so, vivevano qui da tanto
tempo. So anche quel che avete fatto con loro in tutti quegli anni. Avevate
motivo di temere la loro vendetta. È così?
CREONTE (tace)
ANTIGONE: E Polinice?
CREONTE (non risponde)
ANTIGONE (ripete): E Polinice?
CREONTE: Lui aveva visto.
ANTIGONE: Vai avanti, Creonte.
CREONTE: Lo prendemmo, voleva passare al nemico. Voleva svelare tutto.
(Pausa)
ANTIGONE (con lo sguardo fermo, fisso): Mi ricordo i primi giorni dopo la guerra.
La calda estate incipiente. Noi bambini giocavamo nel parco. Voi… voi
eravate intenti a mettere le aiuole. Credo che fu la prima cosa che faceste
quando la guerra è finita. Mettere aiuole – sopra… sopra una fossa comu-
ne. (Si copre il viso con le mani) Ed io ho vissuto tra voi.
111
ANTIGONE: Perché lo hai detto? Perché Emone? (Sfinita, si passa la mano sulla
fronte) Se avessi detto: te l’ho taciuto perché ti amo, e perché temevo per il
nostro amore… (fa una pausa) Devo andar via. Via da voi tutti. Devo
andare da Polinice.
Emone qui assume anche il ruolo della Ismene del modello sofocleo. Ma ecco
che irrompe il ‘coro’, cioè la popolazione che sa quello che è accaduto, ha
paura e manifesta sotto la casa del sindaco. Il capo della polizia è il corifeo. I
cittadini non si fidano più di Creonte, troppo sentimentale nei confronti di
Antigone. Tiresia comunica al sindaco quel che hanno deciso: è necessario
liberarsi di Antigone. Non pensano ad ucciderla, ma a rinchiuderla in mani-
comio grazie ad un’attestazione medica che ne dichiari l’infermità mentale.
Creonte cerca di convincere Antigone a scappare. Nell’ultimo dialogo, il per-
sonaggio presenta fortissime analogie con il Creonte di Anhouil: ama
profondamente la ragazza e soprattutto dichiara di tenere il potere per
adempiere un dovere verso la città, non verso se stesso. Ha ucciso i lavoratori
stranieri e Polinice perché era un atto necessario: doveva salvare la città.
CREONTE: Non ho avuto il minimo pentimento. Forse perché sono sempre con-
vinto che allora non potevamo comportarci diversamente. (Pausa)
112
ANTIGONE: Ed oggi?
CREONTE (non risponde)
ANTIGONE: Ed oggi, Creonte? Oggi sarebbe di nuovo necessario, uccidere
qualcuno, vero? Ma non è più così facile. A Tebe non si spara più e non si
sotterra più nessuno. A Tebe sta per aprirsi la stagione turistica. Davanti ai
miei occhi, Creonte.
Intanto arriva in stazione il treno che porta i turisti. Sta per iniziare il ballo che
inaugura l’estate. Sopraggiungono gli infermieri: devono condurre via
Antigone, che capisce quale destino le è riservato. Anche Ismene entra in quel
momento: ma è confusa, crede persino che Antigone sia sul serio malata.
L’atto di denuncia è terribile: nulla è cambiato dai tempi della guerra. Quella
società si basa sulla complicità e sulla delazione. Menzogna e finzione sono
dappertutto, ed anche se non si uccide più, si trovano altri terribili mezzi per
liberarsi di chi è scomodo. Ed è scomodo chiunque dica la verità, una verità
che nessuno vuol sentire. Antigone ha paura, chiede a se stessa perché non
venga a compromessi. Ma Creonte non potrà dimenticare, sta distruggendo
l’essere umano che più ama, Antigone, e questa è la sua vera punizione, più
terribile della prigione. Antigone è portata via ed il poliziotto, ubriaco, chiama
Creonte perché dia inizio al ballo inaugurale. Non è finita. È Tiresia, ancora, a
raccontare il seguito. Nei mesi successivi, un’amnistia libera Creonte e i
cittadini da ogni colpa. Emone va in manicomio per riportare a casa Antigone.
Ma nel frattempo, la ragazza è davvero impazzita, la luce dei suoi occhi è
spenta, non vede più la realtà. Scambia Emone per Polinice, e quando questo
capisce che Antigone non ragiona più, accetta di immedesimarsi nel ruolo del
fratello. Si lascia mettere al collo una corda, e i due muoiono insieme nella
cella. È Tiresia a portare la notizia a Creonte: ‘La stella [di Antigone] stava per
sorgere a Tebe. Una stella chiara, bella, luminosa. Ma noi l’abbiamo spenta. Di
nascosto, senza che nessuno se ne accorgesse. Come se non avesse mai
brillato.’
Un’Antigone scomoda
Con la sua pièce Hubalek denuncia il problema degli stranieri che furono
indotti ai lavori forzati dal sedicente Reich, deportati da tutta Europa, e diffusi
come schiavi in tutti i luoghi produttivi della Germania. Solo di recente una
ricerca storiografica dettagliata e da ultimo una mostra allestita nel Museo
ebraico di Berlino ha portato alla luce i documenti su uno degli aspetti più
dolorosi e gravidi di conseguenze dell’economia di rapina e schiavile della
Germania hitleriana.61 Ma sono anche altri i fatti di cronaca di quegli anni da
cui Hubalek può aver preso ispirazione per la scrittura del dramma, ad
esempio la scoperta dei crimini commessi in guerra da Heinz Reinefarth, ex
61 Zwangsarbeit. Die Deutschen, die Zwangsarbeiter und der Krieg, Jüdisches Museum Berlin,
28.9.2010-30.1.2011.
113
generale delle SS e sindaco di una delle più rinomate località turistiche
tedesche, l’isola di Sylt. Nel dramma di Hubalek ad avere paura che sia
scoperta la verità è soprattutto il capo della polizia della piccola città termale:
la storia della polizia tedesca nel dopoguerra, invero, è segnata dalla
consapevolezza che i criminali nazisti continuarono a prestare servizio nello
stesso corpo dello Stato anche dopo la guerra. All’interno della polizia le
indagini furono bloccate dal ‘cameratismo’. La mostra dedicata nella
primavera 2011 dal Museo di storia tedesca di Berlino al ruolo della polizia
durante il Terzo Reich, e alle successive complicità e silenzi, ha raccolto molti
casi del genere.62
Il dramma di Hubalek, dunque, all’epoca fu alquanto scandaloso. La
società tedesca non era pronta a fare i conti con il proprio passato. A nuocere
alla pièce c’è anche la troppa vicinanza al dramma di Anhouil, che già aveva
prospettato lo scioglimento del dramma con la chiusura di Antigone in
manicomio, invece che con la sua morte. Diversamente che in Sofocle, quando
l’azione inizia Antigone ha già compiuto per una settimana intera il suo gesto
di protesta; anche in Anhouil, all’inizio del dramma, Antigone ha già sepolto
una prima volta il fratello. In Hubalek la sepoltura non compare. Il gesto di
Antigone consiste nello scrivere con un gesso, quindi in maniera non duratura
e facile da cancellare, il nome del fratello sul monumento ai caduti appena
inaugurato nel parco della cittadina. Come in Anhouil, Creonte impone al
poliziotto di non parlare, di non dire a nessuno quello che è accaduto. È
proprio in questo spazio di silenzio e di segreto, che sia il Creonte di Anhouil
che quello di Hubalek possono pensare di salvare Antigone. In Anhouil,
Creonte non è un vero e proprio tiranno, e nemmeno un re, quanto un
dirigente politico che si alza al mattino ‘come un operaio all’inizio della sua
giornata’ e si adopera ‘semplicemente per rendere l’ordine di questo mondo
un po’ meno assurdo, se è possibile’; anche nel dramma di Hubalek, Creonte è
il sindaco di un paese, che può fare il buono ed il cattivo tempo con i suoi
compaesani, almeno fino ad un certo punto, ma non ha il potere di emanare
leggi. È un mediocre, anche se un assassino. Le deviazioni di Hubalek rispetto
a Sofocle derivano quasi tutte da Anhouil. Altri elementi, come la figura di
Tiresia, e l’idea che Creonte in persona abbia ucciso Polinice, vengono da
Brecht. Ma i personaggi di Hubalek, ed Antigone specialmente, non hanno la
stessa complessità psicologica di quelli di Anhouil, né la forte carica
ideologica di quelli di Brecht. L’idea del giardiniere che rivela il misfatto
collettivo è narrativamente debole, inverosimile. Macabra, ed altrettanto
inverosimile, l’idea di fosse comuni nel parco cittadino. E tuttavia, pur con i
suoi limiti, il dramma di Hubalek è un atto di denuncia ed un documento
originale della ricezione del mito di Antigone da valutare nella sua cornice
storica.
62 Per questi ed altri episodi vedi la mostra Ordnung und Vernichtung − Die Polizei im NS-
Staat, Deutsches Historisches Museum Berlin, 1 aprile-28 agosto 2011.
114
L’Antigone di Berlino (Rolf Hochhuth, 1963)
Il racconto di Rolf Hochhuth (nato nel 1931) L’Antigone di Berlino63 fu pubbli-
cato a puntate nel 1963 sulle colonne della ‘Frankfurter Allgemeiner Zeitung’,
il maggiore e più autorevole quotidiano della Germania occidentale, rispon-
dendo ad una richiesta precisa: quella di scrivere un racconto dall’argomento
politico. In quell’anno, Hochhuth era all’apice della notorietà per aver scritto
il dramma Il vicario, suscitando uno degli scandali letterari più clamorosi del
dopoguerra. Il vicario mette sotto accusa il silenzio della Chiesa cattolica du-
rante la deportazione degli ebrei di Roma. Come Il vicario aveva voluto richia-
mare l’attenzione sulle possibili connivenze tra Chiesa cattolica e nazismo,
così l’Antigone di Berlino intendeva farlo nei confronti di un altro importante
capitolo dimenticato: quello della Resistenza tedesca. La ‘politicità’ consiste
nel denunciare l’oblio della società tedesca rispetto ai resistenti assassinati da
Hitler. Nella seconda parte della breve prosa, lo scrittore si ispira infatti agli
ultimi giorni di Rose Schlösinger, nata nel 1908 e ghigliottinata il 5 agosto
1943, arrestata come membro del gruppo berlinese di Resistenza spregiati-
vamente chiamato dalla Gestapo ‘L’orchestra rossa’, e madre dell’ex moglie
dello scrittore, la Marianne dedicataria del racconto.64
63 Traduzione italiana: Rolf Hochhuth, L’Antigone di Berlino, a cura di S. Fornaro con la no-
ta: ‘La nostra morte deve essere un faro’, Via del Vento, Pistoia 2008 (iquadernidivia-
delvento 53).
64 Cfr. Sotera Fornaro, Hochhuth, Rose Schlösinger, Sophokles. ‚Die Berliner Antigone’, in: Ilse
Nagelschmidt − Sven Neufert − Gert Ueding (hrsg.), Rolf Hochhuth: Theater als politische
Anstalt, Weimar 2010, pp. 197-209.
65 Il libro di Viktor Klemperer LTI è adesso disponibile in italiano per la Giuntina editore.
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cle, tutte le vittime dei bombardamenti ricevevano funerali solenni: erano se-
polte in tombe collettive con grande sfarzo, musica e benedizioni religiose.
L’espressione ‘fossa comune’ era proibita, perché avrebbe minimizzato
l’eroismo delle vittime del terrore anglo-americano sulla città. Se dunque
Anne avesse davvero portato il corpo del fratello tra quei morti li avrebbe
profanati – argomenta uno dei giudici del tribunale, perché avrebbe messo
nella stessa tomba un nemico dello Stato e i suoi più strenui ed eroici difen-
sori. Questo avrebbe portato ad un inasprimento della pena.
Il tema sofocleo della contrapposizione tra funerale solenne per l’eroe
della patria, e scempio del cadavere del nemico ucciso è piegato nel racconto
all’ironia della storia: ‘eroici’ sono solo di nome le centinaia di vittime dei
bombardamenti, ai quali sicuramente il funerale con la banda e le insegne non
restituisce dignità, dato che sono ammassati insieme e gettati in fosse comuni.
Perciò la ‘profanazione’ di quelle tombe collettive, comunque le voglia chia-
mare il gergo dei dominatori, è di per sé ridicola. Anne non ha portato il fra-
tello tra quei morti, anche perché così non gli avrebbe reso l’onore dovuto.
Mentre nel tribunale uno dei giudici attacca con virulenza l’imputata, che
invece tace, il giudice generale è immerso nei propri pensieri. Dentro di sé,
ricorda il contrasto avuto con il figlio, Bodo, fidanzato proprio con quella ra-
gazza che adesso è sotto processo.
Le figure del dramma sono state introdotte: il giudice-capo (Creonte), suo
figlio Bodo (Emone), la fidanzata del figlio, Anne (An-tigo-ne), il fratello giu-
stiziato (Polinice). Invece che una guerra fratricida, Hochhuth usa il tema del
prologo brechtiano ambientato nel 1945 del soldato ucciso dallo stesso eser-
cito a cui appartiene, perché andato contro il regime. Infatti il fratello di Anne,
che resta senza nome nel racconto, era un ufficiale della VI armata, dilaniata
sul fronte russo. A proposito della battaglia di Stalingrado, aveva dichiarato
che le truppe tedesche erano state annientate dalla cecità di Hitler e dalla sua
imperizia militare, non dai Russi. Perciò era stato denunciato e giustiziato per
alto tradimento.
Continuano i pensieri del giudice-capo. Per quella ‘donnetta’ di Anne, sta
correndo un grande pericolo: il Führer infatti ha ordinato che la ragazza ‘resti-
tuisca con la sua propria persona all’anatomia il cadavere’, il che sicuramente
significa che deve essere giustiziata, ed il corpo deve andare – come gli altri –
all’istituto di anatomia, come a compensazione del cadavere sottratto. Il giu-
dice aveva trasformato quella tragedia in ‘farsa’, sfruttando l’ambiguità delle
parole del Führer, ed istituendo un processo, nel quale si chiedeva invece ad
Anne di ‘restituire’ il cadavere del fratello. Il lettore sinora non sa da dove e
come Anne ha sottratto il corpo.
Il giudice-capo elenca le circostanze attenuanti per il crimine commesso
dalla ragazza: e così il lettore capisce come è avvenuta la sepoltura. Il corpo
era stato rubato, durante il caos di un allarme aereo, dagli scantinati dell’uni-
versità. Non si può parlare di ‘saccheggio’, reato punito con la condanna a
morte, perché dal trafugamento del corpo l’accusata non ha ricavato nessun
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vantaggio personale, e nemmeno di ‘azione contraria allo Stato’, perché si
trattava del fratello dell’accusata. La quale tra l’altro era psichicamente molto
provata, perché la madre, dopo aver saputo della condanna del figlio, si era
suicidata. In base a queste attenuanti, il giudice concede alla ragazza
ventiquattr’ ore per rivelare dov’è il corpo e chi l’ha aiutata. Le ultime parole
del giudice sono urlate e perfettamente consone al fanatismo nazista.
Comincia la seconda parte del racconto, decisamente più riuscita, focaliz-
zata su Anne in carcere, sui suoi pensieri, sulle lettere che scrive al fidanzato
al fronte, sui ricordi della notte nella quale ha sepolto il fratello. Una notte di
terrore, durante la quale il centro di Berlino era stato scosso da bombarda-
menti continui. Anne aveva attraversato, trasportando il corpo del fratello su
una carriola, strade dilaniate da esplosioni, edifici sventrati, incendi, lingue di
fosforo, mentre la gente si affrettava ai rifugi. Nessuno le aveva prestato at-
tenzione, o meglio: sì, qualcuno l’aveva vista, una collega, che poi l’avrebbe
denunziata. Anne era infine arrivata all’antico cimitero intorno alla Chiesa di
Maria, non lontano dall’università, aveva scavato in corrispondenza di una
tomba abbandonata, sulla cui stele era incisa una frase dagli Atti degli apo-
stoli, ‘bisogna obbedire a Dio, non agli uomini’, incurante della immane fatica
aveva sepolto il corpo, incapace di guardarne il volto, poi si era nuovamente
confusa tra la folla: era sporca di terra umida e stremata, ma tutti intorno era-
no in condizioni analoghe, nessuno aveva fatto caso a lei. Lasciò la carriola a
dei ragazzi della Hitlerjugend che aiutavano nello sgombero.
Si torna alla cella, e nel dialogo che la protagonista intrattiene con se stessa
ci sono certamente le pagine di maggior rilievo del racconto. Qui la citazione
indiretta dei documenti, ossia delle lettere e dei Kassiber, i bigliettini, che la
vera Antigone di Berlino, Rose Schlösinger, riuscì a far uscire clandestinamen-
te dalla prigione, diviene più frequente. Ed alcune delle espressioni più belle
del racconto devono proprio ricondursi a quelle lettere. ‘La morte è oggigior-
no qualcosa di così abituale, che sarebbe esagerato prenderla così sul serio da
gettare ombre su tutta la vostra vita’, scrive Rose Schlösinger alla madre alla
vigilia dell’esecuzione. Il pensiero si ritrova nel racconto di Hochhuth: ‘E fi-
nalmente [Anne] trovò persino un po’ di pace nel pensiero banale:
tanti devono morire, giorno dopo giorno, e la maggior parte non sanno
nemmeno perché – anch’io potrò morire’, che è poi una rielaborazione della
frase di Antigone a Creonte: ‘Cosa vuoi farmi più che uccidermi? So che devo
morire…’
Anche il nome di Bodo corrisponde alla realtà del compagno di Rose
Schlösinger, che era sul fronte russo quando la donna fu arrestata dalla
Gestapo. Nel racconto, Anne scrive al fidanzato: ‘Vedo tra le sbarre il nostro
carro dorato dell’Orsa maggiore, e so che tu adesso pensi a me, e così sarà
ogni sera, e questo mi rende tranquilla. Bodo, caro Bodo, tutti i miei pensieri e
desideri per te li affido a lui, per sempre. Perché so che ti raggiungeranno, per
quanto lontani noi siamo.’ Rose Schlösinger aveva scritto parole analoghe:
‘Tutti i miei pensieri e desideri per voi sono sul carro.’ Sempre dalla realtà è
117
tratto un episodio cruciale del racconto, nel quale una ragazza polacca, accu-
sata di ‘saccheggio’ per aver mangiato del pane preso da un fornaio a Dresda
durante un bombardamento, condivide la cella con Anne. Le lettere di Rose
Schlösinger raccontano la commovente figura di una ragazza polacca chiusa
con lei in cella, che fa corone del rosario con le briciole di pane, nega di aver
commesso alcun crimine, alla quale non è data la possibilità di avvisare nes-
suno, e alla fine è portata via dalla cella ‘senza bagaglio’ evidentemente per
essere giustiziata. Nel racconto, la ragazza polacca, che resta senza nome, di-
venta come una ‘sorella’ per la protagonista, una specie di Ismene, dunque.
Dopo questa forzata separazione, Anne comincia a dubitare di se stessa.
L’angoscia più nera si alterna alla capacità di resistere. I particolari della vita
in prigione, il riuscire comunque a rallegrarsi della vita, la gioia di vedere i
passerotti in cortile, sono tratti dalle lettere di Rose Schlösinger. E dalla realtà
è tratto anche l’elemento più crudele del racconto, ossia il fatto che Anne in
carcere, per bocca del parroco, deve apprendere del suicidio del fidanzato
Bodo. Per motivare questo suicidio, e renderlo analogo a quello di Emone
nella tragedia di Sofocle, Hochhuth escogita una vicenda complicata. Al
ragazzo viene recapitata una lettera di Anne, che quest’ultima è riuscita ad
affidare ad un generoso secondino. Ma siccome in questa lettera la ragazza dà
per scontata la propria condanna, il ragazzo si uccide: la vita per lui non ha
più senso. Il tema della lettera è certamente in Hochhuth influenzato
dall’ultima scena dove compare Antigone nel dramma di Anhouil: lì la
ragazza cerca di dettare una lettera al suo insensibile carceriere, nella quale
dichiara di ‘aver paura’ e di non sapere più perché muore. Ma la lettera non
verrà mai recapitata. Al contrario in Hochhuth la lettera è recapitata, ed ha un
effetto domino: il ragazzo si uccide perché crede che Anne sia già morta.
Anche nella realtà c’era una lettera: il compagno di Rose Schlösinger si
suicidò sul fronte russo, dopo aver scritto una lettera nella quale rivendicava
su di sé la responsabilità dei fatti attribuiti alla sua compagna, cercando di
scagionarla. Si trattò di un gesto disperato ed inutile, perché la lettera non
arrivò mai dal fronte sul tavolo del giudice che curava il processo, e se arrivò
non fu tenuta in alcuna considerazione. Né mai fu recapitata a Rose
Schlösinger un’ultima lettera da parte di Bodo. Anche lei venne a sapere da
altri della morte del compagno.
Dopo questo fatto decisivo, il racconto giunge precipitosamente al suo epi-
logo. Il giudice capo si ritira, decorato ed elogiato da Hitler per aver anteposto
la ‘ragion di Stato’ a motivi familiari. Hitler lo accomuna a Mussolini, che ave-
va fatto uccidere il genero Galeazzo Ciano, un traditore, nonostante le pre-
ghiere della figlia.
Si raccontano gli ultimi terribili momenti di Anne nella cella dei ‘candidati
alla morte’, sino alla decapitazione. La descrizione del rituale dell’esecuzione
dei condannati che erano definiti nel gergo nazista ‘pacchetti’, perché ormai
avevano perso la dignità ed il valore di esseri umani, si basa su una minuziosa
raccolta di testimonianze storiche: dal taglio dei capelli per facilitare
118
l’esecuzione con la lama, alla visita medica che precedeva l’esecuzione e
paradossalmente attestava la buona salute del condannato; dalla sua
solitudine (non era possibile essere accompagnato nemmeno dal sacerdote o
dal pastore), al rifiuto della richiesta di grazia, che veniva di solito alla vigilia
dell’esecuzione, alla ricevuta finale di tutte le spese sostenute (compreso
l’onorario del boia) che veniva poi spedita alla famiglia66. Il racconto si
conclude con un ‘epitaffio’, nel quale si ricordano le 269 donne giustiziate, i
cui cadaveri furono consegnati all’istituto di anatomia. E nel finale Hochhuth
accenna ancora all’analoga esecuzione, nello stesso carcere, di alcuni degli
attentatori del 20 luglio 1944: esecuzione che fu filmata, per diletto di Hitler e
del suo stato maggiore.
Un’Antigone a metà
Nel racconto di Hochhuth il potere malvagio, assoluto ed intoccabile, è Hitler,
rispetto al quale il giudice-Creonte è solo un burattino. Tutti gli altri esecutori
del suo volere scimmiottano il Führer, la sua lingua, i suoi gesti e persino la
sua maniera di pettinarsi: sono delle caricature, dei personaggi da cabaret. Ad
elementi cabarettistici rinviano altre figure del racconto, come i due becchini
che testimoniano con grande dovizia di particolari sul loro lavoro, oppure
l’avvocato che accusa Anne guardandola viscidamente, e soprattutto la
secondina, la ‘buona madre tedesca’, che ha persino cura della condannata, le
offre mele fresche, e poi la perquisisce con estremo zelo e le toglie l’unica
possibilità di farla finita, una scheggia di vetro con la quale avrebbe potuto
tagliarsi le vene. Come Brecht, Hochhuth elimina dal suo racconto qualsiasi
riferimento al destino e a un dio: il ruolo del pastore, che potrebbe dare
consolazione alla condannata, è ridimensionato, annullato. Non c’è un vero
Tiresia, perché il religioso non solo non può vedere il futuro, ma ha nei
confronti di Anne un’azione decisamente annichilente. Anne, del resto, non
crede in Dio, ma, in termini brechtiani, pensa che l’uomo sia il solo
responsabile del proprio destino. È anche possibile che Hochhuth avesse
presente, nella descrizione della prigioniera e del suo stato psicologico
alterato, la Rosa Luxemburg/Antigone di Alfred Döblin.
Nel racconto di Hochhuth manca il coro che commenta gli avvenimenti. Il
vero coro, onnipresente, è quello dei morti. Si tratta perciò di un coro muto,
che accusa ma non può parlare. Ma c’è anche il coro dei corresponsabili: Anne
si trova in carcere perché è stata denunciata, all’esecuzione assistono testimo-
ni che non parleranno ‘per non perdere la pensione’.
La protagonista di Hochhuth, Anne, è molto diversa dal modello sofocleo.
Certo, Anne, come Antigone, agisce: quello che importa per lei è il seppelli-
mento del fratello, ma le motivazioni del suo gesto non sono esplicite. In
66 Sulla realtà storica dei momenti prima delle esecuzioni vedi ad esempio Sotera Fornaro,
Le ultime ore. Testimonianze sui condannati a morte del nazismo, in: Snodi pubblici e privati
nella storia contemporanea, sesto numero, autunno inverno 2010, Venezia, pp. 123-133.
119
nessun passo del racconto si accenna a qualcosa di analogo a ‘leggi non scrit-
te’, a leggi morali, che guidano l’azione sin troppo ingenua di questa ragazza.
Anche il verso più celebre, che ritorna praticamente in tutte le rielaborazioni
dell’Antigone, ‘non sono nata per condividere odio ma amore’, non compare
nel racconto di Hochhuth in alcuna forma. La morte domina su tutto. Anne
sembra nata per la morte. L’amore che lega i due fidanzati, un amore distante
ma fortissimo, si realizza nella morte. E nella morte si realizza anche l’amore
sororale, perché, come impone il Führer, Anne alla fine dà davvero il proprio
cadavere ‘in cambio’ di quello del fratello. Dopo essere stata ghigliottinata,
infatti, anche il suo corpo finirà all’istituto di anatomia. Si tratta di un atto di
resistenza estremo, ma anche istintivo, irrazionale. Rispetto all’Antigone
sofoclea, che non esita ad ingaggiare un duello verbale con Creonte, la
Anne/Antigone di Hochhuth tace, parla solo con se stessa, non arriva ad una
contrapposizione con il giudice.
In questa maniera, invero, Hochhuth non rende un grande servigio alla
memoria dei resistenti tedeschi come Rose Schlösinger: i quali agivano certa-
mente molto spesso senza piani preordinati e in maniera quasi suicida, ma
avevano forti motivazioni ideologiche. Anzi: il loro limite fu probabilmente
essere più uomini di pensiero che d’azione. Credo che almeno al momento
della scrittura, Hochhuth fosse vittima dell’idea che la Resistenza tedesca,
seppure c’era stata, era stata gestita dalle iniziative spontanee di giovani non
molto maturi, come per esempio nel caso della ‘Rosa bianca’ di Monaco. Non
solo: nel momento in cui Hochhuth scriveva il racconto, il gruppo di Resi-
stenza a cui aveva appartenuto Rose Schlösinger era denigrato nella Germa-
nia Federale, perché a torto considerato un’associazione di ‘bolscevichi’ e ‘co-
munisti’, composto anche da spie sovietiche con l’intenzione di vendere a
Stalin l’Europa. Mentre nella Repubblica Democratica Tedesca i membri
dell’‘Orchestra rossa’ erano considerati degli eroi, nella Repubblica Federale
su di loro si taceva o se ne infangava persino la memoria; in America si pub-
blicavano fantasiosi gialli politici incentrati sull’‘Orchestra rossa’, tipici pro-
dotti della ‘guerra fredda’. Forse questa congiuntura storica ha condizionato
l’invenzione dell’intreccio da parte di Hochhuth, il cui racconto non descrive
un atto di Resistenza determinato e consapevole, ma il gesto alquanto in-
verosimile ed inutile, seppur coraggioso, compiuto da una ragazza per
onorare la memoria del fratello.
120
caduta del muro si venne a sapere che era stato un collaboratore ufficiale, con
lo pseudonimo Pedro Hagen, della Stasi, il tremendo servizio informativo del-
la polizia della Germania comunista, che spiava i cittadini alla ricerca di
oppositori del regime. Fries non ha mai rinnegato quel ruolo, anzi: lo ha rac-
contato in un diario della sua attività, pubblicato nel 1996. Questo ha certa-
mente gettato una forte ombra anche sulla sua attività letteraria. Il racconto
che qui ci interessa fa parte di una raccolta, La guerra della televisione, pubbli-
cata ben prima della ‘svolta’, nel 1975, e del tutto in linea con l’ideologia della
Germania orientale. Il protagonista è un soldato, giunto in una compagnia pu-
nitiva nella sua città per liberarne un quartiere dalle macerie causate dalla
caduta di due bombe, sganciate per errore da un caccia amico. Siamo
nell’ultimo mese di guerra. Una delle due bombe è caduta, senza esplodere,
proprio nella casa della famiglia del soldato, che è stata perciò sfollata nella
vicina scuola. Il soldato ottiene un’ora di permesso per andare a cercare la
moglie e i due figli: ma per strada trova una ragazza in pelliccia che lo scam-
bia per il fratello, lo induce ad entrare nella sua villa. Lì, in un’atmosfera sur-
reale, il soldato diventa un ‘doppio’ del fratello della ragazza, si veste con i
suoi abiti ed indossa le sue scarpe, con le quali cammina con difficoltà per le
suole scivolose, e decide di disertare. Un nuovo bombardamento, però, scon-
volge la cittadina, ed il soldato esce dalla villa per andare alla ricerca della sua
famiglia. Va nel suo appartamento, dove lo stanno aspettando i militari per
arrestarlo e fucilarlo, in quanto disertore. Fugge sui tetti, da dove scivola, e
muore nella caduta.
Che subito dopo una donna scendesse da una DKW67 e si piegasse su lui che giaceva
sul lastrico della strada come morto, che trattasse con i ragazzi della Hitlerjugend e
con gli uomini del Deutsche Volksstürm68, che sorvegliavano il cadavere, che offrisse
loro – sembra – dei soldi, e quindi con il loro aiuto mettesse il morto in macchina, può
essere una leggenda, nata nel dopoguerra su questo fatto che è comunque sicuramente
vero. Non si sa se questa ragazza o questa donna, negli ultimi giorni di guerra, per
questo fatto sia stata portata davanti al cosiddetto ‘tribunale del popolo’, dalla cui
condanna a morte la salvò solo la fine della guerra. È credibile che nel primo anno
dopo la guerra sposasse un ufficiale americano, che aveva stabilito il suo quartier
generale nella villa di suo padre, e che con lui e con il padre si trasferì dalla periferia,
quando gli eserciti vincitori presero le loro posizioni definitive. Dopo l’ingresso
dell’Armata rossa negli anni del dopoguerra ci fu qualcosa di più importante ed
urgente da fare che seguire nei dettagli casi del genere, o addirittura dar loro un
significato qualsiasi.
121
La bomba ad orologeria
Il racconto si apre all’insegna della malinconia, del ricordo di un mondo or-
mai ridotto in cenere, nel quale il protagonista forse è stato felice. I due
ordigni caduti da fuoco amico, a significare la guerra omicida interna allo
stesso popolo (Eteocle e Polinice), in cui ormai il ‘fronte’ corrisponde con il
‘confine’ della nazione, hanno la funzione di un oracolo, di un avvertimento
degli dei: il disastro è imminente. Infatti, come il soldato dice alla ragazza, che
non capisce, ‘era solo un ordigno ad orologeria.’ I personaggi del mito, in
questa prosa nuda, amara, sono attualizzati e completamente demitizzati, non
costituiscono, come ancora nel racconto di Rolf Hochhuth, nemmeno modelli
impliciti di riferimento. Mentre l’‘Antigone di Berlino’ è in fin dei conti una
martire, che pur rifiutando l’idea di Dio si avvia all’esecuzione con
atteggiamento religiosamente orgoglioso e tranquillo, l’Antigone del racconto
di Fries è una ragazza ricca e viziata, la cui verosimile fine non è eroica, ma
improntata all’opportunismo.
L’Antigone un po’ folle di Fries, ridicola nella sua cameretta da bambina
che ricorda Anhouil, è un’esponente, come in Brecht, della classe dei ricchi, di
coloro che hanno partecipato all’ascesa di Hitler, e poi ne sono state vittime.
La simpatia va tutta al protagonista, un proletario, uno di quelli, cioè, che sof-
frono sempre. Nella catastrofe generale, alla radio ufficiale del Reich si tra-
smette un valzer, che i protagonisti ballano in preda ad entusiasmo dionisia-
co, come Hitler e i vecchi in Brecht.
Il racconto di Fries procede per quadri, ed il legame con il mito viene sve-
lato molto lentamente. Nel primo quadro è protagonista la periferia di una cit-
tà, la comunità che si incontra nei suoi orticelli, i giardini dei poveri: non tanto
il pericolo dei bombardamenti costituisce l’elemento più angosciante nella co-
munità stremata, ma la presenza al suo interno di possibili delatori, i membri
del partito che devono ‘vigilare’ sulla condotta di tutta la comunità e denun-
ciare i disfattisti. I processi improvvisati e le esecuzioni sommarie furono il
vero incubo della popolazione tedesca nelle ultime fasi della guerra. Il fanati-
smo incontrollato dei nazisti che ancora credevano alla vittoria si esercitò con
mortale pericolosità su tutti e tenne in una morsa la società fino alla fine della
guerra. Come nella Tebe del mito, la paura chiude la bocca dei cittadini, e la
città è dilaniata non solo (ed addirittura non tanto) dalla guerra esterna, quan-
to da una insidiosa guerra interna, di cittadino contro cittadino.
Il riferimento mitico è preparato dalla descrizione dei bambini che in quel
caos continuano ad andare a scuola per imparare la lezione dei grandi. La
scuola, edificio adibito come accampamento d’emergenza, ha nella trama del
racconto un ruolo centrale e negativo: potenziale tomba per gli sfollati, se col-
pita da una bomba, è comunque il luogo dove simbolicamente si tramanda un
sapere falso e bugiardo, dove si esalta un passato di guerre in continuità con il
presente. Il sapere scolastico è considerato inutile e mistificatorio. Non vi sono
esempi imitabili né nella storia né nei miti. Anzi: il protagonista ricorda va-
gamente che nei ‘libri dei Greci’ c’era la storia di una ragazza alla quale ‘chi
122
comandava’ non permise di seppellire il fratello. ‘Tempi barbari’, quelli dei
Greci. Nel presente del racconto, invece, almeno si seppelliscono i morti. La
notazione è naturalmente ironica, ma amara. Alla barbarie del passato si è
sostituita un’altra barbarie. Non c’è speranza di progresso. Inoltre aver dime-
stichezza con quei libri non aveva impedito al suo ‘vecchio’, al padre del sol-
dato, di votare per Hitler, nell’illusione che lo avrebbe nominato insegnante di
ginnasio. I libri, dunque, non aiutano a capire.
Nella piccola comunità accade qualcosa di straordinario, un ‘miracolo’:
una bomba, sganciata per caso da un caccia tedesco, cade su un palazzo, entra
nel terzo piano, ma non esplode. È l’unico elemento che ha del soprannaturale
nel racconto: nella rielaborazione della vicenda mitica sostituisce la peste che
infesta Tebe, la calamità che bisogna allontanare, ma anche la profezia
oracolare che condanna il protagonista, perché la bomba inesplosa cade
proprio dove abita la sua famiglia, ed il ritorno in quella casa, nella speranza
di rivedere e di aiutare i suoi, gli sarà fatale.
Nel racconto di Fries la realtà concreta è subito in primo piano, in
consonanza con quel che dall’arte esigeva il socialismo reale: un quartiere di
affittuari, una periferia frutto di speculazione edilizia; la terra è un intrico di
tubi della fognatura, desacralizzato e senza alcun collegamento con l’‘aldilà’
dei morti. Così l’elemento essenziale del mito di Antigone, il rapporto con il
mondo infero, è spogliato di qualsiasi riferimento religioso, anzi: nel mondo
sotterraneo squarciato e violato da una delle bombe, c’è anche il pericolo
dell’epidemia, la ‘peste’ mitica, un pericolo incombente durante la guerra. I
bombardamenti fanno parte della vita quotidiana di una città tedesca, sì che
una volta passato l’allarme ed il fischio delle sirene, ‘gli affittuari tornarono
nelle loro case per cercare i loro letti ancora caldi.’ La lingua della guerra, il
linguaggio introdotto dal Terzo Reich, una vera e propria specie di tedesco a
sé, fa parte di quella stanca e rassegnata quotidianità. Fries riesce a rendere
nei dettagli la vita di un quartiere periferico nel quale tutti si conoscono tra
loro: dopo la caduta delle due bombe, ‘la vita va avanti’ –, senza enfasi, una
vita fatta da razionamenti, ma le chiacchiere della negoziante che distribuisce
il cibo (pochissimo, rispetto alle ‘grandi’ forbici con cui taglia le tessere), il sol-
lievo dello scampato pericolo per la bomba inesplosa, sono accolte con disin-
teresse. Nemmeno i Blockwarter, ossia quei condomini che dovevano tener
d’occhio la ‘fede nazista’ di tutti gli inquilini, i delatori, i leccapiedi del parti-
to, credevano ormai nella vittoria, altrimenti avrebbero mal interpretato e de-
nunciato quel disinteresse.
Ogni elemento del racconto riprende, riduce alla realtà, e con questo capo-
volge, elementi del mito antico, rifiutandone la retorica dell’eroismo indivi-
duale. La rivolta del singolo è inutile, la rivolta di molti può avere un peso.
Nella città arriva una squadra di ‘seppellitori di morti’, di soldati armati solo
della loro vanga, con la quale scavano le trincee (le tombe dei vivi) e le fosse
per chi muore dilaniato dalle armi. Sono soldati sempre al limite tra vita e
morte, che fanno in continuazione la spola dal fronte ai lazzaretti militari
123
oppure aiutano la popolazione civile. Sono soldati, ma soldati che eseguono
quel lavoro di aiuto umanitario perché puniti, perché hanno saputo scegliere
e non si sono fatti complici degli orrori della guerra, i massacri in Russia. Se
tutti avessero fatto così, la guerra si sarebbe fermata. E forse sarebbe stata per-
sa perché ci sono soldati come quelli, che non hanno obbedito.
Il soldato protagonista del racconto, che resta anonimo sino alla fine, è
dunque in realtà un prigioniero. Prigioniero e seppellitore di morti, è lui in
primo luogo la controfigura del personaggio mitico di Antigone. La svolta
narrativa è nell’incontro fortuito con una ragazza che lo chiama ‘Franz’ e sem-
bra scambiarlo per il fratello. La ragazza indossa paradossalmente un cap-
potto di pelliccia, è quasi una Sfinge pronta a ghermirlo; sta da sola in una vil-
la sontuosa, dove in tempo di pace il soldato proletario certo non sarebbe sta-
to invitato. La ragazza induce il soldato ad entrare nella sua casa, dopo averlo
fatto vestire di tutto punto gli offre caffè e biscotti. La villa da ricchi è la pri-
gione di questa specie di folle Antigone, conscia che il fratello è morto, fuci-
lato in Russia per essersi rifiutato di sparare su ebrei inermi, eppure chiama
col nome di lui lo sconosciuto soldato incontrato per strada; il soldato, da
parte sua, qualcosa in comune con lo sconosciuto Franz ce l’ha: ed è l’essersi
rifiutato anche lui di sparare su partigiani disarmati. La situazione è onirica e
il soldato stanco e stordito sembra cominciare ad avere uno sdoppiamento di
personalità: così comincia a sovrapporre la propria identità a quella dello
sconosciuto Franz, si immedesima cioè nel ruolo del ‘fratello’, e segue il rac-
conto della sua sconosciuta ospite, la cui famiglia era convinta fiancheggia-
trice del regime: eppure il padre è stato appena arrestato dalla Gestapo come
‘sabotatore’. La ragazza veste in giallo, forse un ricordo della stella gialla che
erano costretti a portare gli ebrei dal 1938.
La piccola città tedesca simboleggia l’antica Tebe. Mentre i protagonisti
danzano un valzer nella sala della villa, Io ballo con te nel cielo69, in preda a una
specie di frenesia dionisiaca, proprio dal cielo cadono bombe e incendiano la
città sino alle porte (quattro, non sette come Tebe). Mentre la descrizione di
quel che davvero è accaduto, all’inizio del racconto, è asciutta, come se un
bombardamento fosse un qualsiasi fatto di cronaca, nell’immaginazione,
invece, il bombardamento diventa un evento apocalittico. Al sentire le sirene
degli allarmi e i cannoneggiamenti della contraerea, il soldato immagina la
scuola crollare, i figli e la moglie rimanere sepolti sotto le macerie della
scuola, dove gli animali imbalsamati dei laboratori riprendono a vivere, dove
cioè la morte si scambia con la vita e viceversa.
Il soldato deve allora obbedire ad un imperativo morale, il secondo impor-
tante della sua vita: andare a cercare la sua famiglia. La ragazza vorrebbe im-
pedirglielo, dice che è uno ‘stupido’ ed un ‘ignorante’. E al ragazzo viene nuo-
vamente in mente Antigone:
69 Celebre canzone degli anni Trenta, interpretata da Lilian Harvey, Willy Fritsch. Vedi:
http://www.youtube.com/watch?v=m8QCwxB9HmQ
124
‘Sì, sono un costruttore di pianoforti. Ignorante. Sono sempre stato povero. A casa
nostra era il mio vecchio a leggere libri, e non gli sono serviti a niente, ha
comunque votato per il Führer. Pensava che lo avrebbe fatto diventare insegnante
di ginnasio. Aveva particolarmente a cuore gli antichi Greci. C’era un libro, tra
quelli, su una ragazza, che si fa uccidere per suo fratello. Si chiamava Antigone,
adesso lo ricordo.’
‘Io mi chiamo Hella’, disse lei.
‘Per me è uguale’, disse lui. ‘Ma io mi chiamo davvero Franz. Per te, almeno.’
125
ANTIGONE AD AUSCHWITZ
70 Una copia è nella Staatsbibliothek di Berlino (Unter den Linden); il testo inedito mi è
anche stato messo a disposizione dall’editore Henschel (editore specializzato in copioni
teatrali).
127
anche Sarisch, un giovane forte ed irruento di ventisette anni. Quest’ultimo è
arrabbiato con se stesso, per non aver portato consolazione all’amico
moribondo, proprio mentre era irriso dal comandante del campo, Gerhardt
Krone: ‘ma te lo immagini, professore? Stai sulla piazza dell’appello, vivi ancora,
respiri ancora, la tua testa funziona ancora… e con le tue orecchie senti Krone:
‘fintanto che sei ancora vivo, nessuno ti darà una goccia d’acqua, nessuno ti pulirà il
sangue – e quando sarai morto, nessuno si avvicinerà a te, nessuno ti seppellirà, ti
trasformerai in un gomitolo di carne congelata…’’ Polly, sospettato di essere il
capo di un’organizzazione di Resistenza interna al campo, era stato torturato
per carpirgli altri nomi.
Entra nella baracca ‘il Tenente’, un uomo di trentacinque anni: è sfinito. Il
morale dei prigionieri nel campo è a terra. Bisogna far qualcosa per incitare
alla Resistenza. La fine della guerra non è lontana. Bisognerebbe seppellire
Polly, per dare un segnale di rivolta e rincuorante. È un ‘ordine’ che viene dai
capi della Resistenza. Tocca a loro, perché sono la baracca più vicina al cada-
vere. Scoppia un conflitto tra Sarisch, che non accetta ordini, tanto più se
decretano la morte certa, e ‘il Tenente’.
Nella baracca viene intanto portato un ragazzo, Joseph, anche lui slovacco,
che si dice uno studente di Bratislava, lamenta di essere innocente, di non
aver mai fatto parte di nessun gruppo di Resistenza o di opposizione. Sarisch
lo crede una spia. Si discute. Improvvisamente, annunciato dal tonfo degli
scarponi pesanti e da urla ‘sull’attenti!’ fa irruzione nella baracca il
comandante Gerhardt Krone seguito dal suo sottoposto, Storch. Prima dà
un’occhiata a Joseph, poi riconosce ‘il Tenente’. I due si sono già incontrati,
perché Krone lo aveva catturato l’estate precedente in una riuscita operazione
a tappeto contro i partigiani, lo aveva torturato ed aveva dato ordine di
ucciderlo; perciò è sorpreso di rivederlo. ‘Il Tenente’ – si verrà a sapere – si era
salvato perché non si erano accorti che era caduto ancora vivo sul mucchio di
cadaveri, da dove lo aveva recuperato dei partigiani. Anche allora, Krone
aveva apprezzato l’intelligenza e la cultura del nemico, dialogando per notti e
notti con lui, prima di farlo torturare. Krone ed il suo sottoposto vanno via,
dopo che il comandante ha avuto una contrapposizione dialettica con ‘il
Tenente’: quest’ultimo gli ha tenuto testa, ed allora Storch è stato chiamato
per metterlo ko con un terribile colpo. Dopo che ‘il Tenente’ crolla, Krone
manifesta a Storch disprezzo per la sua ignoranza e per la sua brutalità, per la
sua incapacità, cioè, di comprendere l’‘ideale’ del nazismo.
Nella baracca entra una ragazza sui vent’anni, chiamata Tonka, diminu-
tivo slovacco di Antigone. Porta del pane ai prigionieri. A lei, ‘il Tenente’ mo-
stra il cadavere di Polly lasciato a congelarsi. La Resistenza interna deve con-
tribuire a che gli uomini nel campo non abbandonino le speranze, ripete ‘il
Tenente’. Le notizie che arrivano dal fronte sono pessime per i Tedeschi. Sep-
pellire Polly, nonostante il divieto, sarebbe un segnale che ridarebbe un po’
d’orgoglio agli oppressi. Il primo atto termina, e comincia il primo intermez-
zo, nella baracca che Tonka condivide con una ragazza greca, Ismena, ven-
128
tinove anni. Quest’ultima, anche lei una ‘politica’, è riuscita ad avere notizie
del fratello, che a Tebe collabora con i nazisti. È divisa tra l’odio per lui, e
l’amore che dovrebbe volergli perché è suo fratello. Antigone le rivela il suo
progetto di seppellire Polly, Ismena fa di tutto per dissuaderla.
Nel secondo atto si torna nella baracca dei ‘politici’ slovacchi. La notte è
passata, sono le ore che precedono l’alba. Joseph, il ragazzo, dialoga con Ze-
man, un contadino nostalgico della propria terra, che lo spaventa descriven-
dogli gli effetti dello stare in quel luogo, le forze che vengono meno, i denti e i
capelli che cadono, l’appello estenuante che è l’anticamera alla morte, il car-
tello appeso sulla recinzione che dice: ‘a chi tenti di oltrepassare sarà sparato
senza preavviso.’ Il ragazzo non sa nemmeno dove si trovi, o fa finta di non
saperlo, crede che si tratti di una fabbrica, di essere stato portato ai lavori for-
zati. ‘Il Professore’ zittisce Zeman ed invita il ragazzo a vincere la paura, per-
ché proprio la paura è la maggiore arma dei torturatori. Entra Tonka; ha
tentato di spostare il corpo di Polly, ma è troppo pesante per lei e la paura, in-
fine, l’ha paralizzata. È l’alba. Joseph parla con Tonka, vuole sapere perché lei
sia lì, e la ragazza gli dice che ha nascosto qualcuno, un giovane sconosciuto,
che poi è andato via per i tetti. Tonka esce, il ragazzo interroga gli altri, vuol
sapere di lei, e in quale ‘fabbrica’ lavori, dice che non è giusto che si diffon-
dano notizie false sul nemico, ad esempio che in quel posto la gente venga
sterminata col gas: è un’atrocità troppo incredibile. Gli altri amaramente stan-
no a sentire e non commentano. Poi arriva Zeman con la notizia che una com-
missione della Croce Rossa sta per entrare nel campo, e lui spera di poter
finalmente parlare ai delegati, gridare ed ottenere più umanità. Torna anche
‘il Tenente’, che è stato fuori tutta la notte. Nove altri compagni, altri
partigiani, sono stati prelevati dalle baracche, torturati nel ‘bunker’ ed uccisi.
Sorge il giorno. Continua a nevicare. La neve è traditrice, nasconde le mine e
svela le tracce. Il corpo di Polly è stato spostato: ‘il Tenente’ accusa l’istintivo e
forte Sarisch, perché Tonka non avrebbe potuto avere la forza fisica di
compiere quel gesto. I due litigano, ma il loro alterco è interrotto dal ritorno di
Krone e Storch. Per punire lo spostamento del cadavere, azione che nessuno
confessa, stanno fucilando un prigioniero per baracca. Durante l’in-
terrogatorio ai prigionieri, l’isteria di Krone giunge al culmine. Solo il caso
impedisce la strage. ‘Sono arrivati’ – gli dice una delle SS che accorre trafelata
a chiamarlo, e Zeman crede che si tratti della commissione della Croce Rossa.
‘Il Tenente’ deve deluderlo: si tratta della Gestapo, venuta nel campo per
debellare la Resistenza con i suoi metodi d’indagine. Zeman, sconvolto, corre
fuori, verso la recinzione, trasgredisce il cartello, e così si fa uccidere.
Continuano discussioni nella baracca, sino a che si sente suonare l’allarme
aereo.
L’atto si chiude, seguito dal secondo intermezzo nella villa del comandan-
te, dove Krone e Storch sorseggiano cognac. I due, complice anche l’alcol, ven-
gono a litigio. Storch crede di impersonare il vero nazista, colui che annuncia
ed esegue gli ordini, che non pensa, una macchina da guerra e di conquista,
129
Krone rivendica la sua raffinata cultura, la sua famiglia di generali prussiani.
L’acceso dibattito tra sottoposto e superiore è interrotto dall’entrata di Erika,
la moglie trentatreenne del comandante. È sconvolta. Ha visto picchiare un
detenuto che lavora in casa come spaccalegna. Ha sentito dalla donna di
servizio chiacchiere su quel che accade ‘dietro la recinzione’. Ha seguito il
marito lì solo per la promessa, fatta anche al padre di lei, che Krone non
avrebbe mai picchiato o ucciso uomini inermi. È una tedesca, sa che i nemici
vanno trattati con durezza, ma bisogna anche rispettare le ‘antiche tradizioni
dell’umanità’. Se viene a scoprire che così non è, si ucciderà. In queste
affermazioni, Erika è un’altra controfigura dell’ antica Antigone. Krone giura
che si tratta di bugie, di non aver mai toccato un detenuto. Dice la verità,
perché ordina sempre ad altri di fare il lavoro sporco. Uscita la donna, grida a
Storch che da quel momento risponderà con la sua testa se trapela qualcosa
dal lager. Inoltre gli comanda di erigere nel campo dodici forche, subito, nel
buio della notte. Il bombardamento continua, si avvicina. Krone e Storch cor-
rono nel rifugio antiaereo sotto le ville dei nazisti.
L’atto terzo si apre con i prigionieri che vedono il bombardamento. Sarisch
pensa che bombardino le ville delle SS, ed esce per vedere. ‘Il Professore’ ed ‘il
Tenente’ dialogano tra loro sulla difficoltà di chi deve comandare e dare or-
dini: ‘il Tenente’, ad esempio, non è mai davvero amato. Entra Tonka, ha
paura, va da Joseph. Cominciano due dialoghi paralleli, tra i due ragazzi da
una parte, che parlano dei loro sogni folli e sconclusionati per il dopoguerra, e
tra ‘il Tenente’ ed ‘il Professore’ dall’altra, sulla disciplina che la rivoluzione
esige, sulle rinunce che il rivoluzionario deve compiere, sull’assenza
necessaria di qualsiasi debolezza e talora umanità, sul difficile ruolo di capo
militare, su cosa accadrà dopo la guerra. Ritorna Sarisch, ferito. I
bombardamenti non hanno colpito le ville, ma il lager. Quando tutto è finito,
le SS, uscite dai rifugi, hanno per di più mitragliato all’impazzata contro i
prigionieri che terrorizzati erano scappati dalle baracche, infrangendo il
divieto di uscire. Anche Sarisch è stato ferito. Intanto il cadavere di Polly è
scomparso. Si riaccende il faro delle torri di sorveglianza, che con la sua luce
sinistra illumina a giorno il campo, e l’accaduto sarà presto scoperto. ‘Il
Professore’ vuole andare da Krone a costituirsi, a confessare che è stato lui a
portar via il cadavere. I prigionieri discutono tra loro animatamente, a Joseph
viene infine detta la verità, dove si trova e quello che accade lì: il blocco
bombardato viene intanto smantellato, e l’abbaiare furioso dei cani annuncia
che stanno portando la gente nelle camere a gas. I prigionieri sono in un
momento irreale, sospeso, pronunciano frasi insensate, fuori luogo, mentre
l’orchestra del lager comincia a suonare, come accade sempre quando bisogna
coprire i lamenti dei condannati a morte.
Arriva Storch, chiede chi abbia preso il cadavere, vede Sarisch ferito, ca-
pisce che è uscito nonostante i divieti, lo minaccia, Sarisch lo insulta, il nazista
lo porta fuori per giustiziarlo. Si fa avanti alloraTonka. Storch la conosce bene,
è preso da orrore, le chiede di andar via da lì, di tornare nella sua baracca, o
130
sarà sicuramente impiccata. Tonka mostra le mani, ferite, per addossarsi la
colpa di aver spostato il cadavere. Storch appare, nelle battute che ricalcano
quelle sofoclee tra Creonte ed Antigone, come il nuovo Creonte. Ma è un
Creonte disperato, perché Storch ama in qualche maniera Tonka, e le ricorda
come abbia fatto di tutto per salvarla, sino ad allora, per evitarle la camera a
gas, di finire sotto i ferri dei medici che fanno esperimenti, di essere violentata
dai soldati: la piccola Tonka, invece, afferma la sua superiorità morale su di
lui, perché è stata lei a ricordargli di ‘avere un anima’, di impedirgli di
trasformarsi totalmente in un animale rabbioso. Il cibo che lui le ha regalato,
la ragazza lo ha dato ai prigionieri, insieme ‘all’amore’. ‘Gli uomini hanno
bisogno d’amore, gli uomini meritano amore!’, urla Tonka, facendo eco al
celebre verso sofocleo e rendendolo una legge universale. Storch si getta su
lei, più per disperazione e farla tacere che per farle del male. Si sente la
mitragliatrice, fuori, e Storch deve andare a vedere. Sarisch è riuscito a
disarmare la SS che doveva giustiziarlo e l’ha uccisa. Hanno sparato addirit-
tura dalle torrette, per finirlo. Storch rientra, è ancora intenzionato a salvare
Tonka. Nelle ultime battute che si scambiano, la ragazza sembra essersi con-
vinta, per paura della morte, a tornare nella sua baracca, e Storch le promette
che non farà del male ai prigionieri polacchi, ma è inutile: richiamato dai colpi
di mitragliatrice, arriva Krone e chiede al suo sottoposto cosa stia succedendo.
Storch è costretto ad ammettere di aver scoperto lì Tonka, non può fare più
nulla per lei. Krone gli ordina di ‘liquidare’ la faccenda.
Prima di portar via anche ‘il Tenente’ giunge ad un nuovo scontro dialet-
tico con lui. Tutti e due sono convinti che qualcosa di loro sopravviverà, co-
munque vada a finire la guerra, perché l’opposizione tra dominati e domina-
tori, tra oppressori ed oppressi segna la storia del mondo. Anche Joseph, alla
fine, esce dalla baracca, infrangendo il divieto e condannandosi volontaria-
mente a morte. Resta solo ‘il Professore’, quasi cieco perché privato degli oc-
chiali, incapace di camminare perché ferito al piede: dialoga con le ombre, con
il ricordo dei suoi compagni.
131
comune, lo isola dalla comunità, ne fa in fin dei conti un triste sopravvissuto.
‘Il Tenente’ non è affatto un tenente, non è mai stato un militare, ma si è tro-
vato ad avere il comando nell’esercito della Resistenza e non si è tirato indie-
tro. I nomi non corrispondono alle cose: bisogna interrogare in continuazione
la realtà per andare oltre l’apparenza.
In questi dialoghi vengono alla luce i drammi individuali, i complessi di
colpa, le paure: ‘il Professore’, ad esempio, è convinto di avere la responsa-
bilità della cattura dei suoi amici, perché la Gestapo era arrivata mentre lui
era di guardia; ma si scopre che invece la responsabilità è stata di Sarisch, il
quale, incurante come al solito degli ordini, era uscito dal nascondiglio per
cercare di riparare la sua mitragliatrice ed era stato seguito dai nazisti. Lo
sconsiderato Sarisch ha però un cuore di eroe, ed esegue gli ordini pur prote-
stando contro essi. È stato certamente lui il primo a spostare il corpo di Polly.
‘Il Tenente’ nasconde a tutti il suo passato, persino i segni della tortura, che
vengono alla luce quando Krone gli ordina di togliere la camicia: è un uomo
solo, completamente dedito alla Rivoluzione, non ha né una donna né una
famiglia che lo aspetta, e sogna di andarsene dopo la guerra in montagna,
lontano da tutto. Soffre dell’estrema, incolmabile solitudine dell’idealista.
Tonka, invece, la piccola Antigone del campo, è comunque una vittima,
ben prima di essere punita con la morte: la morte è anzi per lei quasi una libe-
razione. La mente della ragazza, nei sogni e nei discorsi, è ormai instabile. Ben
più concreta è Ismena, che però è poco più di una comparsa. Joseph, l’ultimo
arrivato ed il più giovane, pensa ad una ragazza di Bratislava di cui è inna-
morato, e Tonka gliela ricorda, forse è davvero Tonka. Joseph è un ingenuo,
sembra non saper dove si trovi e non aver ancora capito nulla della vita e dei
rapporti tra gli uomini, è scioccato quando gli dicono che Tonka, di cui in
certo modo si innamora, è la prostituta del lager. Alla fine, questo Emone su
cui all’inizio si stende il sospetto che sia una spia, uno mandato lì per ‘sentire’
cosa si dice nelle baracche, sceglie volontariamente di morire. La sua è una
morte per amore, non per la causa comune. Il sospetto che fosse una spia non
è davvero fugato.
Il dramma è costellato di riferimenti precisi alla storia slovacca. Karvaš ri-
flette criticamente sulla Resistenza del 1944, che in quanto oggetto di lettera-
tura deve a suo parere rappresentare l’esperienza umana nella sua complessi-
tà, anche nei suoi errori e nelle sue colpe. Attualizzando il mito di Antigone,
esamina il cuore dell’esistenza, e in questa lettura è certamente assai influen-
zato dalle lezioni di Heidegger. I suoi prigionieri, i suoi resistenti, sono in
preda ad inquietudine, angoscia, si interrogano sui fondamenti del loro essere
al mondo. Non sono tipi umani incrollabili, coerenti ad ogni costo, eroici. Lo
scopo di Karvaš è proprio sottrarre la Resistenza alla monumentalizzazione,
darne cioè un’idea viva e non celebrativa. A Karvaš, specie negli anni imme-
diatamente successivi il 1956, interessano in primo luogo le dinamiche del
potere, della violenza, delle strutture gerarchiche: il dramma Antigone e gli
altri va letto come una riflessione sui lati oscuri dei rapporti di forza, sia quelli
132
sproporzionati, come tra il sistema concentrazionario e l’individuo, sia quelli
più equilibrati, come all’interno del gruppo dei prigionieri, dove ugualmente
esistono gerarchie di potere.
Attraverso le figure di Krone e Storch si mette in scena, inoltre, la lotta di
classe interna all’esercito tedesco; ed attraverso l’evanescente figura di Erika,
nome vagamente assonante con Euridice, la moglie del comandante, anche i
dissidi sociali in Germania tra l’antica nobiltà ed Hitler, nonché l’ambiguità
delle classi dirigenti capitalistiche di fronte al nazismo.
Krone tiene fede alla promessa fatta alla moglie di non macchiarsi di omi-
cidi, facendoli eseguire agli altri, simboleggiando così il sarcasmo e l’ipocrisia
del potere in generale, non solo nei regimi totalitari. È questo comunque un
tratto che si trova anche nell’Antigone di Sofocle: il ‘seppellimento da viva’ di
Antigone, fuori dalle mura della città, e con un tanto di cibo che simuli la
possibilità che la condannata resti in vita, infatti, è la pena scelta appositamen-
te da Creonte, nella tragedia sofoclea, perché la città resti ‘pura’. Come Pilato,
Krone si lava le mani dell’omicidio.
Il ‘destino’ non esiste, nel dramma di Karvaš: tutto dipende dagli uomini,
anche il ‘fuoco amico’ che si abbatte come una maledizione sul lager, e semina
morte lì dove la morte è di casa, e che non è una casualità. La possibilità di
redenzione per gli oppressi è forse nel gesto eroico, pur se inutile. Le azioni
individuali sono indispensabili, perché ognuno contribuisce alla eterna lotta
tra il bene ed il male, come può e quanto può, e sceglie in ogni momento da
che parte stare: ma è solo la somma delle azioni individuali, trasformate in
imprese collettive, a tentare di cambiare il corso della storia. Krone e la Gesta-
po danno la caccia a ‘Johann’, niente più che un nome, con il quale si identi-
fica il vero capo della Resistenza interna, che forse è ‘il Tenente’ e forse no,
forse esiste davvero o forse no, ma è comunque l’espressione della volontà
incoercibile di opporsi che anima i prigionieri, nonostante il loro stato di
estrema prostrazione. Sinché si è uomini, si combatte. La disumanità è man-
canza di volontà. ‘Johann’ forse non esiste, eppure i prigionieri hanno bisogno
di credere che esista: è il nome del bene assoluto che si oppone al male as-
soluto, simboleggiato da Krone. Per uomini come Storch, da una parte, e come
Joseph, dall’altra, c’è sempre però la possibilità di cambiare, di scegliere da
che parte stare. E Storch, che pure sembra non aver perso un barlume di bon-
tà, che è anche lui socialmente un oppresso, sceglie alla fine definitivamente il
male. Joseph, che non voleva mischiarsi con i prigionieri ed è estraneo alle lo-
ro ragioni, sceglie invece il bene. Così il seppellimento di Polly, un ‘musul-
mano’, cioè, nel gergo del campo, un ‘morto che cammina’, è stato compiuto
non solo da Tonka, ma anche da Sarisch, dal ‘Tenente’, dal ‘Professore’, e la
somma delle loro singole azioni amplifica la forza del gesto e la sua
importanza.
Si tratta di una interpretazione del mito consona al socialismo reale, che
trapela già dal titolo del dramma, Antigone e gli altri, che non esprime un’op-
posizione ma un’associazione. Gli ‘altri’ sono specificati nell’elenco dei perso-
133
naggi: ‘il Tenente’, ‘il Professore’, Sarisch e Zeman; ciascuno di essi ha qualche
caratteristica dell’Antigone del mito, sono sul suo stesso piano. L’azione si
svolge tutta in una notte sola, ed il coro è sempre in scena, costituito da quelle
decine di migliaia che non si vedono ma ci sono, fuori dalla baracca, nel lager
sterminato. La loro presenza è sonora, incombente, perché un lamento
costante segue l’azione, e si alza e si abbassa a seconda della drammaticità
degli avvenimenti, raggiungendo il culmine quando Tonka viene portata a
morire. Ed è il coro, che pure non agisce e propriamente non interviene nel
dialogo, il protagonista vero ed assoluto della tragedia.
Il dramma di Karvaš è una delle attualizzazioni più efficaci del mito di
Antigone. È un esperimento letterario coraggioso, perché porta in scena un
campo di concentramento, senza scadere nel melodrammatico e nel retorico,
persino con qualche spunto umoristico. Va inquadrato nell’ambito della lette-
ratura slovacca, che negli anni Sessanta aveva subito, quasi di seguito, prima
la dittatura nazista e poi quella staliniana. Il racconto di episodi della fase
finale della Seconda guerra mondiale, cioè della disfatta tedesca, fu un tema
molto frequentato nelle fasi iniziali della costruzione del socialismo reale. La
Slovacchia, al contrario della Cechia, aveva avuto un vero e proprio esercito
di Resistenza, e ricordare il ruolo ed il sacrificio di quell’esercito è uno degli
scopi patriottici dell’Antigone di Karvaš, anche se non si tratta affatto di
un’opera di pura propaganda, come si è detto. Inoltre è un dramma di grande
impegno: molti sono i dialoghi teorici, veri e propri duelli verbali, come tra
Krone ed ‘il Tenente’ o tra quest’ultimo ed ‘il Professore’, sulle grandi questio-
ni dei limiti dello Stato, sul totalitarismo, sulla rivoluzione.
Karvaš si confronta con le interpretazioni filosofiche e religiose dell’Anti-
gone. Innanzitutto con quella hegeliana, facendo del campo di concentramento
l’espressione dello Stato coercitivo, e della comunità dei prigionieri una ‘fami-
glia’ in senso socialista. L’idealismo di Krone, la sua dedizione alla missione
suprema ed eterna dello Stato, porta alle estreme conseguenze la teoria dello
Stato di Hegel. La sua logica è ferrea, la sua concezione della missione dello
Stato nazista incrollabile: il personaggio possiede la stessa stringenza argo-
mentativa e la stessa odiosità del ‘dio Kurt’, il comandante del campo di con-
centramento dell’omonima pièce di Alberto Moravia (1968: nella quale, sia
detto per inciso, la mentalità concentrazionaria viene realizzata con un invera-
mento del mito di Edipo).
Nel dramma di Karvaš, non mancano espressioni che richiamano il cristia-
nesimo: Krone deride Polly, mentre sta per morire, con espressioni molto
simili a quelle con le quali, nei Vangeli, le guardie romane deridono Gesù in
croce; Zeman è una vittima sacrificale, e finisce per crocifiggersi contro il filo
spinato; la stessa Tonka, prostituta nel campo, porta i tratti di Maria Mad-
dalena. Tutti sono ‘fratelli’: non c’è, come nella tragedia greca, uno specifico
legame di sangue tra l’uomo che bisogna seppellire ed Antigone. Anche Isme-
na è una compagna di sventura, non una sorella nel vero senso del termine.
Anzi: è proprio il legame ideale che conta, non quello parentale. Ismena ripu-
134
dia il fratello, lo odia persino, perché è venuta a sapere che è un collaboratore
dei nazisti.
Contrariamente alla tragedia antica, un seppellimento solo simbolico non è
possibile. Il corpo del prigioniero martirizzato è infatti diventato pesante
statua di pietra fredda, ghiaccio; non si tratta di nasconderlo, perché è già
coperto dalla neve. Non basta, come nell’Antigone di Sofocle, cospargerlo di
polvere. Per compiere un atto dimostrativo bisogna spostare il corpo dal
luogo dove lo hanno esposto i carnefici, e questo significa strapparsi le unghie
con il ghiaccio, consumarsi la pelle, avere la forza di trasportare un cadavere
divenuto pesantissimo. L’impresa deve essere necessariamente collettiva,
tanto più che si tratta di uomini ormai giunti al limite estremo della
sopravvivenza.
A motto del dramma vi sono i versi del coro sofocleo, l’inizio dell’inno
all’uomo (vv. 332-333), così tradotti: ‘molto di violento vive, ma niente è più
violento dell’uomo.’ La scelta di tradurre deinon con ‘violento’ è
interpretativa: Karvaš accentua cioè, tra i significati possibili di deinon, non
quelli che pongono quest’aggettivo fuori dalla sfera dell’ordinario, come nella
traduzione di Hölderlin, il ‘mostruoso’ che oltrepassa ciò che è abituale. Ma
insiste sul significato di ‘pauroso e temibile’ in termini heideggeriani, ‘ciò che
può molto’, ‘che incombe ed è sovrastante e allora si avvicina a ciò che è
temibile: può essere anche ciò che esercita un’azione violenta e allora sta in
prossimità di ciò che è pauroso.’71 Karvaš conosceva le lezioni di Heidegger
sull’Antigone nella Introduzione alla metafisica del 1935, nelle quali è contenuta
l’interpretazione proprio di quel coro della tragedia, e si discutono i significati
tra loro connessi, intrecciati, del termine deinon, tra cui anche ‘violento nel
senso di colui che esercita la violenza, che non solo ne dispone, ma che è vio-
lento (Gewalttätigkeit), inquantoché l’uso della violenza è il carattere fonda-
mentale non solo del suo agire, ma del suo stesso essere.’72
71 Martin Heidegger, Hölderlins Hymne ‚Der Ister‘, Sommersemester 1942, traduzione italia-
na di Adriano Ardovino in: L’‘Antigone’ di Heidegger. La tragedia come parola dell’essere, in:
Antigone e la filosofia, p. 196.
72 Traduzione di G. Masi, cit. in: Antigone e la filosofia, p. 135.
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forte di Romainville. Dudach sarà fucilato a maggio, Charlotte deportata, in-
sieme ad altre 230 donne, ad Auschwitz, a cui riesce a sopravvivere.
Ad Auschwitz, tra gli esercizi di memoria che la Delbo fa per non soccom-
bere, ripete silenziosamente tutte le poesie che riesce a ricordare, e soprattutto
drammi e parti di essi alla cui messa in scena ha collaborato. Riesce ad insce-
nare Il malato immaginario di Molière, dopo aver barattato il libro col pane.
Antigone, Elettra, Ondine non sono solo figure letterarie, diventano ‘fantasmi’
e ‘compagne’ consolatorie, di cui racconta e con cui dialoga. Le vengono in
mente i miti dei drammi di Giraudoux, al cui allestimento a Parigi ha
collaborato. La letteratura è la sua religione, la letteratura la sua àncora, la
letteratura la ragione per cui sopravvive. Pubblica i suoi libri, solo quando
pensa di aver acquisito la distanza del testimone, tra il 1965 ed il 197173.
Charlotte Delbo mira alla tragedia: ‘Quello a cui tendo è un’informazione più
alta, inattuale, cioè più duratura, quella che farà sentire la verità della tragedia
restituendole l’emozione o l’orrore.’74 Si tratta di unire il ‘documento’ con la
‘letteratura’: ‘Verità storica quando si tratta del documento, bellezza della pa-
rola quando si tratta di letteratura. Verità e bellezza insieme quando si tratta
di tragedia.’75 Ad Auschwitz, le donne da una parte e gli uomini dall’altra
diventano protagonisti di un teatro spettrale, in cui tutto ha il colore della
polvere. Ma lo sguardo continuo su quel teatro è una scelta estetica: bisogna
guardare l’orrore, per averne terrore e pietà.
Charlotte Delbo ha nel campo di sterminio due numi tutelari, Elettra ed
Antigone76. Con Antigone, uno degli ‘spettri letterari’ che sempre l’accompa-
gnano, la Delbo ha in comune il fatto di essere stata imprigionata per quello
che ha fatto, per essersi opposta politicamente, una differenza importante con
altre donne dei campi che si trovavano lì non per aver agito, ma per quello
che sono, ebree. Auschwitz è l’‘eroismo perduto’ e l’estinzione del simbolo,
ma Elettra ed Antigone, donne ribelli e sorelle amanti, resistono all’atmosfera
mortale: ‘E in questa solitudine così asfissiante, così mortale, chi avrebbe po-
tuto avere coraggio? Chi davvero? – io, dice Elettra.’ Elettra è colei che parla ai
morti, e che non smette la speranza di poter tornare in un mondo normale.
Antigone ad Auschwitz ‘ha una grandezza che non ha mai avuto’77. Come la
legge di Creonte impedisce il lutto per il fratello, così l’universo concentra-
zionario impedisce qualsiasi forma di compianto. Come si possono compian-
gere corpi che non sono rimasti corpi, che sono stati smembrati al punto da
perdere la dignità di corpi, al punto che qualsiasi atto di sepoltura sarebbe
inutile, superfluo? Antigone non è mai stata così grande, perché la sua Resi-
73 Una dettagliata analisi narratologica della trilogia di Charlotte Delbo si deve ad Anne-
Berenike Binder, ‘Mon ombre est restée là-bas’. Literarische und mediale Formen des Erinners
in Raum und Zeit, Tübingen 2008, pp. 40-116.
74 C. Prèvost, Entretien avec Charlotte Delbo, ‘La Nouvelle critique’, juin 1965, pp. 41-44.
75 La déportation n’est pas à vendre, ‘Les Nouvelles Littéraire’, 2649, 31 agosto 1978.
76 Vedi soprattutto C. Coquio, La tendresse d’Antigone. Charlotte Delbo, un témoignage féminin,
in: ‘Témoigner’, 105, 2009, pp. 145-162.
77 Spectres, mes compagnons, Paris 1977, p. 28.
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stenza supera il gesto impossibile del coprire di polvere il cadavere del
fratello, perché non c’è più cadavere, e non c’è polvere leggera, ma ghiaccio
pesante.
La grandezza di Antigone
Nel campo, la sepoltura è un gesto impossibile, per la debolezza che inchioda,
ma anche perché non c’è un corpo da seppellire. I morti sono cataste (come
seppellirli?), preda dei topi voraci – gli avvoltoi temuti nella tragedia greca –
ormai irrimediabilmente insozzati, un numero immenso, indominabile. Siamo
molto al di là della catastrofe dovuta ad un ‘destino’ antico, non c’è tragedia
in senso greco perché l’antichità non ha mai trasformato i corpi in cose, in ma-
teria, in Stücken. In cosa consiste allora la grandezza di Antigone in un mondo
che non conosce più la pietà dei morti, dove una gamba diventa materiale da
ardere? Nel non cedere all’insopportabile. Nel saper guardare in faccia l’or-
rore, come la gamba tra la neve e poi tra il fango, ma non lasciarsi sconfiggere
dall’impotenza.
E dunque lo ‘spettro letterario’ di Antigone significa resistenza dell’uma-
nità, il coraggio di penetrare nel campo di Birkenau, di aggirarsi tra i crematoi
e le paludi, nell’immaginazione ‘raccogliendo la polvere con le mani per rico-
prire il corpo di un fratello’78. Oppure la pietà di una donna che deve tra-
scinare fuori dalla baracca il corpo di sua sorella: ‘Nel cuore di quella notte
l’impotenza a condividere la respirazione con sua sorella, e poi i piedi della
ragazza che ha portato fuori della baracca e posato sulla neve, delicatamente,
maternamente, una specie di seppellimento, qualcosa di un sacramento di te-
nerezza, prima che questo corpo divenga un oggetto da bruciare, mosso con
la pala nel mucchio dei cadaveri della notte, che saranno bruciati in giornata
o, se sono troppi, dovranno attendere il giorno dopo.’79
Seppellire un fratello è ben poca cosa di fronte all’imposizione morale di
non lasciarsi andare. Uccidersi in una grotta prigione è ben poca cosa di fronte
alla vita difesa ad ogni costo in mezzo alla morte, al saper affermare le ragioni
della vita lì dove la vita è ormai confusa indistintamente con la morte, lì dove
persino una gamba strappata da un corpo, nella sua caparbia visibilità, è ‘vi-
va’, anche perché è riconoscibile, non è confusa tra le pile dei morti. Mai Anti-
gone è stata più forte che ad Auschwitz, perché mai ha dovuto mostrare così
completamente la sua forza inaudita. Non si tratta, ad Auschwitz, di far scor-
rere le lacrime del compianto funebre, ma di saperle reprimere: ed incompa-
rabilmente maggiori sono la forza ed il coraggio di cui necessita questo
ricacciare indietro le lacrime. Quel che la tragedia greca aveva raccontato
attraverso singoli personaggi, Edipo, Antigone, Creonte, Giocasta, nel campo
di sterminio si spoglia di ogni caratteristica individuale, diventa vicenda
collettiva. Non si ha un cadavere, ma cataste di cadaveri; non si ha una donna,
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Antigone, ma milioni di donne; non si ha un Creonte, ma milioni di Creonti;
non si hanno uomini, ma milioni di uomini, da un’altra parte del campo
immenso, separati da un recinto di filo spinato elettrificato. La Delbo non
perderà neanche dopo la guerra lo sguardo acquisito in circostanze così
terribili: l’‘io’ come ‘io collettivo femminile’, che si confronta con tenerezza
con il ‘tu’, come ‘tu collettivo maschile’. La forza di Antigone non sta dunque
più nel singolo gesto, ma nella somma dei gesti. Anche la forza della
repressione non è più l’editto di un Creonte, ma di tutto un pauroso sistema.
Dopo il campo, strappata la sopravvivenza, la repressione sta nella forza
collettiva dell’oblio, del voler dimenticare.
Ed allora, di ritorno dal campo, il gesto di Antigone diviene quello della
scrittura: attraverso i suoi libri, la Delbo trasgredisce il divieto dell’oblio e
l’imposizione del silenzio, compie il gesto di ‘seppellimento’ del passato at-
traverso la parola scritta. Negli scritti della Delbo, lo sguardo femminile col-
lettivo è sempre opposto a quello degli uomini, ed è uno sguardo di compian-
to per uomini che vanno a morire, destinati alla morte senza poter combattere.
Il guardare, l’osservare con tenerezza e pietà, con orrore ma comprensione, è
l’unica forma di lutto concessa alle donne, depositarie da sempre del dovere
da adempiere verso i morti. Come vedremo subito, nel poemetto che la Delbo
scrive più di trent’anni dopo la liberazione dal campo di sterminio, lo spettro
letterario di Antigone si amplifica in un collettivo di donne, e la sepoltura non
riguarda più uno solo, ma una comunità intera di uomini.
Antigone sopravvive ad Auschwitz, dunque. Un altro scrittore che ha re-
so la Shoah centro del suo universo poetico, Imre Kertész, continua a vedere
Antigone nei campi di concentramento, anche quando essi non sono ormai
che luoghi ‘turistici’. Il cercatore di tracce (1962), un racconto stilisticamente
perfetto, che ha un titolo forse non casualmente sofocleo, e di cui qui si può
solo ricordare un singolo dettaglio, racconta di un tedesco, Hermann, un ex
deportato che ad un certo punto decide di tornare a Buchenwald alla ricerca
del passato, come se gli fosse imposta una segreta missione. Ma la ‘ricerca del-
le tracce’ del passato non ha esito. Nei luoghi che ben conosce, Hermann non
trova nulla, gli edifici superstiti sono facciate sul vuoto, Hermann non riesce a
recuperare il passato e dunque a superarlo. Nello sgomento di essere tornato
sul luogo dell’orrore (e della sua colpa di sopravvivere), vede ad un certo
punto una donna, una custode del campo, evidentemente, diventato una mèta
di visitatori. Hermann non capisce chi possa essere, e dietro di lei le sembra
che si stagli una figura: ‘Chi era quell’altro essere, l’ombra immobile e muta e
svettante nella veste nera che si riversava fino alle caviglie, con un velo da
lutto svolazzante nel vento intorno al volto? Chi era quel nero fantasma im-
merso nell’azzurro e nell’oro della luce? Era un antico incubo, Antigone che
aveva alle spalle – poco lontano – non le nobili colonne di Tebe, ma solo il se-
gno arcigno e razionale d’una ciminiera ormai fredda e corrosa dal fumo?’80
La visita al campo non serve a nulla, la missione fallisce: il passato è come
80 In: Il vessillo britannico, traduzione e cura di Giorgio Pressburger, Milano 2004, p. 101.
138
fuggito dai luoghi per andare ad abitare dentro il protagonista, e rendergli
straniante e difficile il presente.
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presentisce, che dà un appuntamento certo. Non è vero che chi muore pro-
nuncia le ultime parole. Quell’unico corpo collettivo muore senza dire, muto.
Senza lasciare messaggi. Ai morti di Kalavrita non è concesso nemmeno il
privilegio del condannato a morte, che può scrivere ai suoi parenti l’ultima
lettera, un addio. Le donne raccolgono quel silenzio e lo trasformano in pa-
rola, in canto; ma anche in gesto. Con gli uomini è morto il sapere maschile,
quello delle arti manuali. Le Antigoni, nell’oltraggio a loro dato della vita,
dovranno perpetuare anche quelle. Ed intanto eseguono il compito che è affi-
dato loro da sempre, il compito di Antigone, e nei loro gesti si mischia il sa-
pere del lutto, ufficio femminile, e quello della raccolta e della mietitura, la-
voro da maschio. La morte improvvisa ed inspiegabile, ché non c’è spiega-
zione, nemmeno il ‘destino’, ad una morte del genere, tramanda quel che nel-
la vita era visibile: da una parte gli uomini, vestiti tutti nella stessa maniera,
dall’altra le donne, anch’esse vestite uguali. La sepoltura, da sempre, ha bi-
sogno di essere consacrata dagli dei. Dopo il lavoro di sepoltura, è indispen-
sabile la presenza del sacerdote che deve dare la benedizione, anche lui un
sopravvissuto ad altri massacri, un Tiresia pietoso che non ha più sventure da
predire, perché tutte le ha già vissute. Il tiranno, che non era uno solo, ma
aveva mille e mille volti, di ufficiali e soldati, alcuni soltanto ragazzi, alla fine
è stato annientato, ma non è solo la vittoria militare ad importare: chi crede di
essersi salvato perché è sopravvissuto non può sfuggire alla ‘vergogna’ per
quello che ha fatto.
L’ora di Antigone è ferma nell’orologio del paese, che non ha più ripreso a
battere dal momento del sequestro degli uomini condotti a morire, si è fer-
mato come un cuore divenuto di pietra, ma esposto alla memoria del vian-
dante. La fine del poema ricorda palesemente l’epigramma di Simonide per i
caduti alle Termopili. Anche la vita delle mille Antigoni si è fermata in quel
momento, pur continuando a scorrere, nelle opere ed i giorni di antica
tradizione greca, insegnati dall’epica di Esiodo, opere di maschio e di donna
insieme, e giorni di inesauribile solitudine. Ma resta e resterà la tomba. Il
gesto di Antigone. Il suo coraggio.
140
ANTIGONE NEGLI ‘ANNI DI PIOMBO’
141
punto i solenni funerali di Stato, tributati a Schleyer il 25 ottobre 1977. Il tema
della sepoltura negata come trasgressione di una norma basilare dell’umanità
divenne il Leitmotiv del film Germania in autunno, presentato al Festival di Ber-
lino del 1978. Il titolo si riferiva naturalmente ai fatti del settembre-ottobre
1977, ma esprimeva anche lo stato d’animo malinconico ed angosciato di quel
momento in Germania (e in tutta Europa). Lo Stato aveva risposto alle azioni
terroristiche con ‘leggi speciali’, la cui validità giuridica era fortemente dub-
bia, che permettevano alla polizia l’intrusione nella vita privata di chiunque.
Perquisizioni, arresti, controlli continui, avevano esteso il potere dello Stato
anche sulle sfere più intime dei cittadini. Il sospetto e la paura si respiravano
dappertutto. Alcuni dei registi ed intellettuali di sinistra più di spicco
dell’epoca realizzarono a tempo record un film documentario, Germania in
autunno, in cui raccontavano i fatti ed esprimevano il loro punto di vista, con
intenti sì di riconciliazione, ma con tono accusatorio nei confronti della rep-
ressione dello Stato.81
Heinrich Böll (1917-1985), già premio Nobel per la letteratura nel 1972, uno
tra gli scrittori tedeschi più famosi al mondo, accusato di ‘simpatizzare’ per i
terroristi, scrive la sceneggiatura del tredicesimo episodio del film, che si in-
titola L’Antigone rinviata. La regia è di Völker Schlöndorff, uno dei maggiori
registi tedeschi viventi (tra l’altro premio Oscar nel 1979 per Tamburo di latta).
Nell’episodio si racconta la paradossale situazione per cui i produttori
televisivi decidono di non mettere in onda un film che ripropone in versione
cinematografica la tragedia di Sofocle, che pure hanno finanziato, perché
l’equiparazione di Antigone con una terrorista, nonostante tutti i mezzi
adottati per il ‘distanziamento’ col testo originario, sarebbe stata troppo
esplicita e poco opportuna nell’autunno 1977.
Leggiamo innanzitutto la sceneggiatura approntata da Böll82:
81 Sui presupposti ideologici vedi soprattutto Isabel Capeloa Gil, L’Automne d’Antigone. Le
mythe grec et le deutscher Herbst (1977), in: Les Antigones contemporaines (de 1945 à nos
jours), pp. 307-319 e l’articolo di Claudio Longhi, Antigone o della Germania. Per una ‘storia’
delle ‘rappresentazioni’ di Antigone in area tedesca nel secondo Novecento, in: Antigone, volti di
un enigma, pp. 293-326. Sul film torno in: Antigone sullo schermo, Bari 2012.
82 Si traduce da: Heinrich Böll, Werke, Kölner Ausgabe, Band 20, 1977-1979, hrsg. von Ralf
Schnell − Jochen Schubert in: Zusammenarbeit mit Klaus-Peter Bernhard, Köln 2009, pp.
154-159. Dall’articolo di Claudio Longhi, apprendo che esiste una traduzione italiana in:
R. Klett (a cura di), Germania d’autunno. Repressione e dissenso nello spettacolo della R.F.T.,
Ubulibri-Edizioni il Formichiere, Milano 1979, a me non accessibile. La traduzione del
titolo come Antigone oggi, citato così da Longhi, tuttavia, non mi sembra né efficace né
appropriata.
142
L’Antigone rinviata
(In una sala d’attesa siedono i membri di una commissione [esponenti di partito, della
chiesa ecc.], eccetto il regista, il redattore, l’intendente. Non è chiaro a che partito
appartengano i membri della commissione)
(Scorre il film. Le due attrici che impersonano Ismene ed Antigone avanzano in scena
in costumi classici e dicono:)
Annunciando fatti violenti, tuttavia non annunciamo violenza.
(Subito dopo l’inizio dell’‘Antigone’)
ANTIGONE: O sorella, tu del mio stesso sangue, Ismene,
dimmi una maledizione di Edipo, che Zeus
non abbia già portato a compimento nelle nostre due vite!
Ché non c’è dolore e non c’è crimine,
non c’è offesa, né vergogna
che non abbiamo vissuto in prima persona, tu ed io.
Ed oggi di nuovo, quel che a tutto il popolo
deve aver annunziato, il nuovo Führer –
lo sai? Sei venuta a saperlo? Oppure non t’accorgi,
cosa si avvicina ai nostri cari da parte dei nemici?
ISMENE: Di che si tratta? Vedo come dentro di te ondeggia!
ANTIGONE: Creonte non dette ad uno dei nostri fratelli
l’onore della tomba ed all’altro la nega?
Secondo il diritto e le tradizioni, nascose Eteocle
nel cuore della terra, si dice ch’egli laggiù
presso i morti sta tra gli onori,
il povero cadavere di Polinice invece
non è concesso né piangerlo né seppellirlo –
così è ordinato al popolo, incompianto
ed insepolto lo si lasci come lauto pasto
per gli uccelli, già all’erta!
Un tale ordine il nobile Creonte ci ha
annunciato, a te e a me, ascolta: anche a me.
E lui in persona apparirà per dirlo
chiaramente a tutti coloro che non lo sanno.
E non scherza con questa cosa: chi, nonostante tutto, lo farà,
morirà per lapidazione davanti a tutto il popolo.
Così stanno le cose. Ora tu mostrerai, se sei nata
nobile oppure se ti sei esclusa da questa categoria.
ISMENE: Temeraria! Se così stanno le cose, cosa posso io
cambiarvi, sciogliendo o legando?
143
ANTIGONE: Guarda, se tu vuoi dividere la fatica ed il lavoro!
ISMENE: Quale rischiosa impresa ti viene in mente?
ANTIGONE: Se la tua mano con me metterà al sicuro il cadavere.
ISMENE: Lo vuoi seppellire, nonostante il divieto!
ANTIGONE: Sì, mio fratello, e se tu non lo rinneghi,
anche il tuo. Non diventerò una traditrice.
ISMENE: Temeraria! Creonte l’ha proibito!
ANTIGONE: Ma non gli è lecito dividermi dai miei.
ISMENE: Dobbiamo riconoscere che siamo donne,
non ci è dato misurarci con gli uomini.
Il più forte ci domina con la violenza,
e può esigere cose ben più dure di queste.
Così supplico coloro che sono sottoterra
che possano perdonarmi, perché è violenza
a costringermi. Mi adatto all’autorità:
comportarsi senza misura non ha senso.
ANTIGONE: Non ti dico nient’altro. E se tu ancora volessi,
il tuo aiuto non mi rallegrerebbe più.
ISMENE: Almeno mantieni il fatto segreto
e non dirlo a nessuno, ed anch’io vorrò tacere.
ANTIGONE: No, gridando devi annunciarlo a tutta la gente,
mi sei molto più odiosa, se taci!
ISMENE: Scottante ribolle il tuo cuore in un’impresa da brivido!
(Non appena il film è stato proiettato, prima silenzio profondo, i membri della
commissione si guardano tra loro)
PRIMO COMPONENTE DELLA COMMISSIONE: La scena del distanziamento non è
sufficientemente chiara, è troppo classica. Deve venir fuori in maniera più
chiara, non si distingue a sufficienza.
SECONDO COMPONENTE: L’espressione ‘cose violente’ dà adito a troppi frain-
tendimenti, con la parola tedesca gewaltig si può anche intendere ‘gran-
dioso’, ‘voluto dal destino’ – e questo ci mette in grandissime difficoltà –
questa femmina ribelle, questa Antigone – il testo che esprime distanzia-
mento suona troppo nobile… (al regista) Ha composto lei questo verso in
aggiunta?
REGISTA: Mi è sembrato opportuno, adattare il verso di distanziamento al testo
di Sofocle – anteporlo al dramma nello stesso stile, per così dire – quasi
come un coro.
TERZO COMPONENTE: Ma proprio perciò il distanziamento non risulta chiaro:
queste allusioni – la sepoltura negata… femmine terroriste…
REDATTORE: Il dramma è stato scritto nel V secolo a.C., Sofocle.
144
TERZO COMPONENTE: Non è una consolazione venire a sapere in questa ma-
niera, che già nel V secolo ci sono state donne terroriste – diciamo così.
REGISTA: Ho anche un’altra versione dei versi di distanziamento:
(fa un segno, viene proiettato il film)
(Attrici, di nuovo in costumi classici)
Non eravamo destinate ad annunciare cose violente,
ma la violenza ci obbligò ad annunciare cose violente.
(Di nuovo silenzio)
PRIMO COMPONENTE: Bisognerebbe almeno dire ‘criminali, persone che com-
piono violenza’ invece di ‘cose violente’.
REGISTA: Così si distruggerebbe il verso!
PRIMO COMPONENTE: Quale violenza del resto dovrebbe aver obbligato queste
signore qui ad annunciare fatti violenti?
REDATTORE: La violenza di Creonte, che ha negato a Polinice la sepoltura.
PRIMO COMPONENTE: Quindi la violenza di una legge?
INTENDENTE: Signore e signori, credo che questa non sia la sede per discutere
su Sofocle – si deve discutere soltanto se la presa di distanza è credibile.
(Al regista) Anche a me sembra che l’espressione Gewaltiges, ‘cose violente’
si possa fraintendere – bisognerebbe dire ‘atti criminali’ – ed allora sarebbe
chiaro che nel dramma certo ricorre violenza, ma che le due signore pren-
dono le distanze da essa – questo adattamento stilistico a Sofocle genera
confusione.
REGISTA: Ho fatto girare ancora una terza versione dei versi di distanzia-
mento. (Fa un segno, il film scorre)
(Le due attrici, in abiti di tutti i giorni, parlano all’unisono)
È inevitabile, ed anche evidente
che in alcuni drammi, anche classici
viene rappresentata violenza – noi
prendiamo le distanze nella maniera più marcata da qualsiasi
forma di violenza, e diciamo questo anche
in nome della regia, dell’amministrazione
dell’intera compagnia teatrale
degli operai di scena
degli impiegati alle casse
in nome di tutti, che
direttamente o indirettamente hanno contribuito
a questa rappresentazione.
(Si vedono ancora uno-due minuti della rappresentazione classica)
QUARTO COMPONENTE: Questo qui suona già meglio, ma trovo che tuttavia
umilii – direi – il testo di Sofocle…
145
TERZO COMPONENTE: Sì, risulta stupido, artificiale, vorrei quasi dire ironico,
sembra ripetuto meccanicamente, non è convincente… ed ironia è proprio
quel di cui di meno dobbiamo far uso…
REDATTORE: E se rinunciamo del tutto alle scene di distanziamento? Solo il
testo di Sofocle – voglio dire, se non ci è più permesso, se non possiamo,
più neppure portare in scena Sofocle…
SECONDO COMPONENTE (molto irritato): La prossima parola sarà ‘censura’, e la
prossima ancora ‘fascismo’! (Più nervoso che irritato) Ma capisca la nostra
situazione: combattiamo con le spalle al muro – mi chiedo, se è davvero
necessario rappresentare proprio adesso l’Antigone – sepoltura negata –
femmine ribelli – e questo tetro veggente, questo Tiresia – un precursore
dei profeti, una – una – una specie di intellettuale ante litteram – i giovani
fraintenderanno tutto questo, come un incitamento alla sovversione.
INTENDENTE: Il titolo della serie di trasmissioni è: ‘I giovani incontrano i
classici’.
REGISTA: La produzione sarà comunque terminata, sono stati investiti già
800.000 marchi.
PRIMO COMPONENTE: Non si tratta di soldi – la produzione – questa è la mia
proposta, sarà portata a termine, ed il film ibernato, sino a tempi più
tranquilli…
INTENDENTE: E che cosa trasmettiamo al posto di questo?
QUARTO COMPONENTE: La replica della drammatizzazione del Bellum Gallicum
di Höckner – era un dramma molto istruttivo…
REDATTORE: Violenza contro i Galli, violenza dei Galli, violenza romana, vio-
lenza gallica – Vercingetorige, Cesare…
SECONDO COMPONENTE: Comunque è un dramma di guerra, non un dramma
sul terrore…
PRIMO COMPONENTE: Vorrei comunque aggiungere che è una messa in scena
molto buona, (al regista) molto buona – solo non è il momento adatto per
trasmetterla.
(Intendente, regista e redattore si guardano…)
(Forse si vedono ancora alcuni versi della rappresentazione classica)
146
Nacque una polemica tra la sovrintendenza del teatro e Böll, che si rifiutò di
partecipare a discussioni pubbliche che dessero una ragione a quel ‘rinvio’, a
suo parere ingiustificabile. L’idea dunque di una rappresentazione rinviata,
come è il film sull’Antigone nell’episodio di Germania in autunno, deriva dal
caso concreto del rifiuto della messa in scena dell’Onore perduto di Katharina
Blum.
L’inizio del film Germania in autunno mostra immagini dal funerale di
Schleyer, mentre in sottofondo si legge la sua ultima lettera dell’industriale al
figlio, nella quale invita a non sottovalutare l’inasprirsi della violenza, e a
portare questo messaggio ai politici più importanti dell’epoca. A conclusione,
come un’epigrafe, sono riportate le parole di una ‘Signora Wilde, madre di
cinque figli’ dell’8 aprile 1945: ‘Giunti ad un certo punto della crudeltà, poco
importa chi l’ha commessa: deve solo finire.’ La stessa frase viene proiettata
prima dei titoli di coda. È evidente il messaggio di riconciliazione del film:
qualsiasi forma di violenza politica, da chiunque sia perpetrata, è da ritenersi
sullo stesso piano e perciò va condannata. Nazismo, terrorismo ma anche
Stato democratico non differiscono nell’essere soggetti di violenza. E perciò la
rivoluzione mancata del 1918, l’ascesa del nazismo, i fatti del 1977 possono
essere analizzati e compresi con le stesse categorie.
Il film è estremamente, consapevolmente colto, pieno di allusioni lettera-
rie, politiche, storiche, culturali; è un viaggio nella coscienza tedesca, allo sco-
po di scavare le cause remote della situazione politica presente, e si interroga
sulle motivazioni che spingono al conflitto tra individuo e Stato. L’episodio
firmato da Böll è importante perché pone il problema della violenza in una
prospettiva culturale e filosofica che travalica anche la situazione tedesca, e va
molto indietro nella civiltà occidentale, arrivando alla Grecia del V secolo a.C.
Solo in questa prospettiva è possibile esaminare con consapevolezza, senza
l’isterismo che la stampa conservatrice demagogicamente diffonde, il proble-
ma del terrorismo, e quello della contrapposizione di un individuo allo Stato
in nome di leggi morali.
Creonte in televisione
L’episodio su Antigone comincia in diretto legame con uno stralcio del discor-
so dello scrittore ospite Max Frisch al congresso della SPD di Amburgo. Frisch
denuncia la sinistra, specie i suoi esponenti universitari, per aver peccato di
intellettualismo e di aver usato un linguaggio inaccessibile alla classe dei lavo-
ratori. Frisch si chiede – al di là del caso tedesco – quale sia lo scopo della vita
umana in una società consumistica. Il filmato si interrompe sulle parole: ‘…si
pone il caso, che non si voglia salvare la democrazia, ma costruire la democra-
zia. Avere più democrazia: questo sarebbe uno scopo che va oltre il soggetto
individuale come soggetto consumistico.’ Senza soluzione di continuità, co-
mincia l’episodio successivo, con un inquadratura dal basso della torre della
televisione dell’emittente dove si svolge la seduta della commissione che deve
decidere se trasmettere o meno l’Antigone.
147
L’episodio sull’Antigone rinviata è dunque in un certo senso una risposta
alle parole di Frisch. Perché si costruisca la democrazia, è la risposta di Böll,
bisogna limitare il potere oscuro e determinante dei mezzi di informazione.
Non sono gli intellettuali, con il loro linguaggio difficile, ad ostacolare la
costruzione di una democrazia ancora immatura, ma coloro che vorrebbero
mettere al bando gli intellettuali. Evocato nel primo episodio, quello firmato
da Fassbinder, come colui di cui non si possono pubblicamente prendere le
difese, Heinrich Böll è quel tipo di ‘oscuro’ intellettuale che il produttore tele-
visivo vede nascondersi dietro la figura di Tiresia, un predica sventure, un
sovvertitore raffinato ed impossibile da combattere nei suoi mezzi dialettici. È
nella cultura massificata della televisione che il nodo tra politica, affari, con-
trollo culturale e religioso diviene forte ed efficace, specie sulla massa di colo-
ro che non hanno gli strumenti critici per opporvisi. La televisione, insomma,
è il vero, non occulto potere, che schiaccia la democrazia e le impedisce di co-
stituirsi e crescere. La televisione come vera tirannia. Una tirannia che si eser-
cita però su chi, per formazione culturale, non ha gli strumenti critici per giu-
dicare le situazioni, per collocarle storicamente, per non rendersi vittima della
propaganda. Il produttore dà per scontato che il pubblico televisivo abbia bi-
sogno di essere ‘guidato’ alla comprensione della tragedia di Sofocle, con un
prologo che esprima la ‘distanza’ dai fatti narrati. In caso contrario, i ‘frain-
tendimenti’ sarebbero assai pericolosi. Un pubblico non ‘addomesticato’ met-
terebbe infatti sullo stesso piano Antigone e le terroriste contemporanee, e sa-
rebbe indotto a provare simpatia per queste ultime.
148
Il bianco/azzurro, un effetto antiquato del video, rafforza la semplicità
arcaica dell’immagine. Quando viene proiettato anche l’inizio del testa a testa
tra Creonte ed Antigone (che non compare nell’abbozzo della sceneggiatura),
il regista, nervoso, esce fuori dalla sala, e legge la ‘Bild-Zeitung’ che è sulla
scrivania della segretaria. Poi rientra e comincia la discussione sui versi
iniziali. I costumi delle attrici cambiano nella terza versione dei versi di
‘distanziamento’, sono scuri invece che chiari. Recitano questi versi, con un
indubbio effetto comico, con altri personaggi del cast, quattro soldati (con la
kefiah, uno ha anche un elmo in mano), un anziano (Tiresia?) che sorride
bonariamente, vestito più o meno come Creonte, un bambino in bianco.
Un’aggiunta importante si ha dopo l’intervento irritato del secondo
componente della commissione: ‘la prossima parola sarà censura, e la
prossima ancora fascismo!’ Nel film, infatti, interviene il componente clericale
della commissione, che invita a non ricadere nella censura dei classici, come si
faceva un tempo, ad esempio con i passi ‘scandalosi’ di Ovidio per le scuole
femminili.
Nell’abbozzo della sceneggiatura di Böll, manca anche la conclusione
dell’episodio. Nel film, invece, si decide di rinviare la trasmissione, ed uno dei
membri della commissione chiede al regista se ‘davvero la fine in Sofocle sia
quella’, poi scuote la testa in segno di disapprovazione. Quando tutti sono
usciti dalla sala, il regista continua a vedere, da solo, la proiezione: si è all’epi-
logo, la sentinella, che adesso ha la kefiah in mano, parla in primo piano (die-
tro c’è un cane accucciato), racconta del suicidio di Antigone e di Emone.
L’episodio si chiude con l’inquadratura, dalla finestra, della torre della televi-
sione, a guardia del mondo intero, dall’alto del suo olimpo.
Seguono le ultime scene dai funerali dei terroristi, la grande partecipa-
zione di folla, l’intervista alla sorella di Gudrun Enslinn, ai ristoratori che
spontaneamente hanno offerto il ricevimento funebre (di contro al sontuoso e
raro ricevimento di Stato offerto per Schleyer). Quindi l’intervista al sindaco
di Stuttgart, Manfred Rommel, che dà voce alla legge di Antigone: ‘Per quel
che riguarda la sepoltura dei terroristi morti, era chiaro che questa questione
andava risolta velocemente in maniera pulita.’ Intervistatore: ‘Pulita in che
senso? Amministrativo o umano?’ ‘In senso umano. Sarebbe stato per me in-
sopportabile essere responsabile, in tutto o in parte, della discussione per set-
timane o per mesi sul problema della ‘giusta’ sepoltura dei terroristi. E perciò
ho deciso subito e la mia decisione non poteva essere messa in discussione.’
Nel lontano 1944, Rommel aveva assistito alla grandiosa messa in scena dei
funerali di Stato del padre, il celebre generale che aveva partecipato al colpo
di Stato del 20 luglio ed era stato avvelenato per volere di Hitler; nel film
Germania in autunno vengono riprodotti spezzoni di quella solenne funzione,
col feretro portato per le strade in lutto ‘ornate’ di svastiche. Rommel sarà
stato spinto alla decisione di seppellire i terroristi anche per il suo personale
trauma? Per compiere un atto di riconciliazione, oppure di rivalsa contro lo
Stato?
149
Brecht e Böll
Nell’oggetto della discussione dopo la proiezione del film, ossia l’espressione
di una ‘distanza’ dal contenuto del dramma di Sofocle, è possibile, credo,
ravvisare un confronto con il ‘modello Antigone’ di Brecht. Il regista di Böll
compone dei ‘versi di distanziamento’, da premettere alla rappresentazione.
Brecht, come abbiamo visto, scrisse dei ‘versi ponte’, ‘versi di raccordo’
(Brückenverse), pronunciati durante le prove dagli attori, per introdurre i per-
sonaggi e contemporaneamente distinguersi da essi. Si tratta di un modo per
evitare ‘la totale immedesimazione dell’attore col personaggio: l’attore, cioè, è
un dimostratore.’ Böll ironicamente spinge al limite quest’esigenza di stra-
niamento, scrivendo tre versioni di ‘versi di distanziamento’ che culminano
nell’ultima, in cui tutto lo staff del teatro, dagli attori alla donna delle pulizie,
dichiara la sua estraneità alle vicende raccontate. È una scena che ironizza
sull’esigenza teatrale dello ‘straniamento’. L’immedesimazione del pubblico
con il personaggio, la partecipazione emotiva alle sue vicende, non sono im-
pedite da versi di ‘distanziamento’, che finiscono con il risultare, nella loro
pretesa didattica, in ultima istanza ridicoli, come non sfugge ai produttori
televisivi. Censura e ‘straniamento’ sono sullo stesso piano, e cioè tentativi di
sviare la lettura e la comprensione di un testo, piegandola ad interessi ideolo-
gici. Come si legge ed interpreta, allora, un dramma antico? La risposta di Böll
sembra essere: attraverso la sua storicizzazione. Solo per questa via si coglie la
differenza tra la situazione del V secolo a.C. e l’attualità. Non si tratta di
un’operazione erudita, tutt’altro; grazie ad essa attingiamo alle radici del
presente e proviamo a spiegarne i fenomeni. Il terrorismo, ad esempio, è un
fatto storico, dalle radici culturali ed intellettuali complesse, da cercarsi anche
nella letteratura antica e nelle sacre scritture, lì dove si tematizza lo scontro tra
Stato ed individuo e si descrive il ricorrente conflitto tra generazioni, cioè la
ribellione dei giovani al sistema dei ‘vecchi’ che non riconoscono come pro-
prio. L’Antigone aveva fornito trent’anni prima a Brecht un modello per il
presente, nel senso che rappresentava i meccanismi interni del potere e le cau-
se della sua crisi. In Böll, invece, la tragedia di Sofocle funge da ‘modello’ in
quanto induce a riflettere, in un contesto storico radicalmente diverso, sul
ruolo dell’individuo rispetto allo Stato; inoltre in Böll si sottolinea l’impor-
tanza che questo individuo sia una donna (‘femmine terroriste’, dice un com-
ponente della commissione) e che sia vittima della violenza della legge: ma
una legge esercitata con la violenza non smette forse di essere legge? Tuttavia
la distanza con il modello resta incolmabile, come pure evidenti sono, per chi
conosca la storia delle ricezioni, gli usi che del modello si sono fatti. L’Anti-
gone di Brecht, nella Germania prostrata, era la tragedia di Creonte e del suo
popolo; l’Antigone di Böll, oltre trent’anni dopo, è la tragedia di una donna
vittima di violenza, e perciò potenziale portatrice di violenza. Lo Stato contro
cui si ribella l’Antigone politica di Brecht è il male assoluto, non è legittimato
da nient’altro se non dalla volontà di potenza di una classe egemone e del suo
150
‘capo’. Lo Stato che rifiuta la messa in onda dell’Antigone, che dunque opera
una censura violenta e soffoca la parola perché la ritiene pericolosa, o
addirittura assassina, è uno Stato democratico, all’interno del quale, e non
fuori del quale, bisogna cercare di rafforzare e tutelare la libertà.
Una posizione simile ha assunto in Italia, a partire dagli anni Settanta la
riflessione di Rossana Rossanda, per la quale l’Antigone raffigurerebbe l’antica
contraddizione tra la donna e la forma pura, integrale, della politica, quella
iperpolitica che è lo Stato.83 La Rossanda mette questo antagonismo in rap-
porto con la natura antipolitica di molto femminismo, ma d’altro canto pensa
che sia costitutivo della dialettica democratica: solo nella vera democrazia,
infatti, esiste tensione tra individuo e Stato, e questa tensione va custodita:
tocca proprio all’individuo da una parte e allo Stato dall’altra averne cura. La
tirannia invece chiude, soffoca questa tensione, trasformando le persone in
sudditi. Ogni persona – al contrario – è un individuo non riducibile. Chi non
capisce le ragioni di Antigone finisce nel disastro, ed operare nel diritto, fare il
giudice, il legislatore è una responsabilità enorme.
Abbiamo posto le premesse per comprendere il romanzo conclusivo di que-
sta rassegna, Mia sorella Antigone (1980) della scrittrice tedesca ebrea Grete
Weil, nel quale il passato della persecuzione nazista ed il presente degli ‘anni
di piombo’ sono tenuti insieme dalla rievocazione dell’io narrante, in bilico tra
autobiografia e mito. È un romanzo nel quale la ricezione letteraria novecen-
tesca dell’Antigone trova, a mio parere, il suo esito più felice ed originale.
Nata nel 1906 in una famiglia ebraica borghese di Monaco di Baviera, Grete
Weil ha un’infanzia ‘scandalosamente felice’ e viziata, senza ricevere alcuna
educazione religiosa. La Weil si sente sempre solo ed unicamente tedesca,
83 Rossana Rossanda, Antigone ricorrente, in: Sofocle, Antigone, Milano 1987 e poi in: Ripoli-
Rubino 2005. Inoltre G. Bailone, Il mito di Antigone nella sinistra antagonista, in: Antigone, il
volto di un enigma, pp. 357 ss.
84 Per Grete Weil devo moltissimo ai contributi di Marco Castellari, che si distinguono per
chiarezza, informazione bibliografica ed originalità, ed in particolare: ‚Nicht mitzulieben,
mitzuhassen bin ich da‘. Mythenkorrektur, Autobiographie und Darstellung der Shoah in Grete
Weils Roman ‚Meine Schwester Antigone‘, in: ‘Studia theodisca’, XIV (2007), pp. 55-72. Grete
Weils Strategien des Autobiographischen am Beispiel des Romans ‚Der Brautpreis‘, (1988), in:
‘Estudios Filológicos Alemanes’, XV (2008), pp. 725-734. Antigones Spuren in der deutschen
Geschichte: Grete Weils Rezeption des antiken Mythos, in: Text + Kritik. Grete Weil, München
2009, pp. 58-66. Überleben und Zeugenschaft bei Grete Weil am Beispiel des Romans ‚Tramhalte
Beethovenstraat‘, in: Marisa Siguan et al. (hrsg.): Erzählen müssen, um zu überwinden.
Literatura y supervivencia, Barcelona 2009, pp. 73-84. Grete Weils Romane aus interkultureller
Sicht, in: Gabriella Rácz − László V. Szabó (hrsg.): Der deutschsprachige Roman aus
interkultureller Sicht, Praesens, Wien 2009, pp. 53-74. Mito, storia e attualità. ‘Mia sorella
Antigone’ di Grete Weil e le ferite del Novecento tedesco, in: ‘ACME’, LXVI (2011) 1, pp. 81-91.
Vedi anche C. Brunelli, ‘Conseguenze tardive’ ovvero la sindrome del sopravvissuto, in: G.
Weil, Conseguenze tardive, Firenze 2008, pp. 5-12.
151
nonostante debba assistere sin da ragazzina al diffondersi della violenza anti-
semita e alla progressiva emarginazione degli ebrei. Nel 1932 sposa il dram-
maturgo Edgar Weil ed insieme emigrano in Olanda nel 1936 perché lì la
famiglia Weil aveva una filiale commerciale della propria industria farma-
ceutica. Oltre a studiare germanistica, Grete Weil si era formata come foto-
grafa, professione che esercita nei primi anni ad Amsterdam. Nel 1940, però,
l’Olanda è occupata dai nazisti. Durante i bombardamenti che preludono
l’invasione, ai coniugi Weil non riesce di fuggire in Inghilterra. Sono perciò
costretti a restare ad Amsterdam, dove Edgar Weil è attivo nella Resistenza.
Dopo uno sciopero generale del febbraio 1941, le razzie e gli arresti della
Gestapo si moltiplicano. L’11 giugno 1941, Edgar è arrestato dalla Gestapo per
strada. La moglie non lo rivedrà più. Mesi dopo riceve la notizia che è stato
deportato nel campo di concentramento di Mauthausen. Intanto, però, sono
iniziati i ‘trasporti’ di massa degli ebrei, dapprima con l’inganno di un
richiamo ai lavori forzati in Germania, poi senza alcuna giustificazione. Grete
Weil deve aver cura della madre, anche lei emigrata intanto in Olanda. Si
presenta allora al Consiglio ebraico, un’istituzione voluta dai nazisti per or-
ganizzare le deportazioni, i cui membri erano esonerati dal ‘trasporto’ all’Est.
Essere ammessi in quell’organizzazione significava dunque la salvezza. Grete
è presa subito nel Consiglio come risarcimento, in un certo senso, per la de-
portazione del marito. Il lavoro al Consiglio ebraico, ossia la collaborazione
con i Tedeschi, le apriranno un conflitto di coscienza da cui non si libererà mai
più. Il 28 settembre del 1943 le deportazioni finiscono, e vengono arrestati
anche i membri del Consiglio ebraico. Grete Weil riesce a fuggire, e a nascon-
dersi da una coppia di amici. Vivrà l’ultimo anno e mezzo prima della fine
della guerra dietro uno scaffale di libri.
Finita la guerra, Grete Weil – con l’incomprensione degli altri sopravvis-
suti, tra cui la madre – torna in Germania, che non aveva mai misconosciuto
come ‘patria’. Vorrebbe continuare a scrivere, attività le era stata da subito
proibita dai nazisti. Per una scrittrice, pensa, non è possibile vivere in un
luogo dove non si parla e legge la propria lingua. Lei vuole scrivere in tedesco
e pubblicare per i Tedeschi. Non domina nessun’altra lingua, tranne il
tedesco. Nel 1960 sposa un amico di giovinezza, Walter Jokisch, noto regista
d’opera ed attore televisivo. Collabora alla scrittura di libretti con i compo-
sitori Hans Werner Henze e Wolfgang Fortner.
Nel dopoguerra, vuole scrivere un libro su Antigone. Solo lentamente, si fa
strada in lei la necessità di raccontare letterariamente il trauma vissuto. Dopo
la morte del secondo marito, esperienza di vita remota, passato prossimo del
dopoguerra ed attualità della Germania degli anni Settanta si condensano in
una scrittura letteraria efficacissima e sintetica, che riesce a raccontare l’orrore
e la sopravvivenza ad esso. Grete Weil non appartiene ai testimoni della pri-
ma ora, e in senso stretto non appartiene nemmeno alla categoria dei testi-
moni, perché scrive sempre sotto il velo della finzione letteraria, se si eccettua
152
un’autobiografia pubblicata a ridosso del successo editoriale avuto solo negli
anni Ottanta.
85 Ne esiste una traduzione italiana con testo a fronte (utile, perché il romanzo non è più
pubblicato in Germania, anche se facilmente reperibile nelle librerie d’antiquariato):
Grete Weil, Mia sorella Antigone. Romanzo, a cura di Karin Birge Büch − M. Castellari −
Andrea Gilardoni, traduzione di M. Castellari, Milano 2007. In questo libro vedi la pre-
fazione del traduttore ed il bel saggio di Karin Birge Büch, Resistenza e omissione: trappole
di un’affinità elettiva, pp. 269-288.
86 Cfr. Uwe Meyer, ‚Nein sagen, die einzige unzerstörbare Freiheit‘. Das Werk der Schriftstellerin
Grete Weil, Frankfurt 1996, p. 235.
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dell’uccisione di Antigone, è tutta la società che riduce Antigone ai suoi stan-
dard e ai suoi gusti, la degrada al suo livello (alla fine anche lei ripete lo stesso
ritornello ebbro). La performance è un atto di condanna della falsa cultura
contemporanea e della sua insopportabile trivialità. Si mette anche
implicitamente in discussione la cultura ‘nobile’, elevata, classicistica, insom-
ma, ed il meccanismo di identificazione con i Greci che è un filo conduttore
dell’identità culturale tedesca dalla fine del XVII secolo in poi. La produzione
di Nel ebbe un riuscito intento provocatorio, e scioccò il pubblico.
Chi era diventata Antigone?
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tamento, la sua incestuosa passione per Polinice, una certa vanità e l’arrogan-
za dei martiri che a torto o a ragione si ritengono migliori.’88
Nella fantasia di Grete Weil, dunque, Antigone è una figura polimorfa, va-
riegata, e perciò si presta ad infiniti tentativi di essere catturata, imprigionata
dalla scrittura. Nella biblioteca cittadina di Monaco, infatti, è conservato il
lascito della scrittrice, in cui c’è un romanzo su Antigone rimasto inedito, inte-
ressante per capire le trasformazioni della ricezione del mito nella scrittura di
Grete Weil. Il manoscrittorisale agli anni Cinquanta, quindi all’immediato
dopoguerra. In questo primo romanzo su Antigone non c’è alcuna
eroizzazione della figura mitica, la cui ‘nostalgia della morte’ è vista anzi
come negativa tendenza all’annullamento. ‘Nonostante’ il suo anelare alla
morte, dunque, Antigone è riuscita a toccare il cuore della scrittrice, che però
con il ‘noi’ parla a nome di una generazione, di coloro che hanno dovuto loro
malgrado accettare il lutto e rinunciare alla felicità, e i cui cari giacciono
‘insepolti’. La frase celebre, ‘non sono qui per odiare ma per amare’, diventa il
centro nevralgico di una ricerca sull’oggetto reale di quell’amore, scaturito
innaturalmente non dalla felicità ma dalla dismisura del dolore. Ma gli esiti
della ricerca sono sorprendenti. L’amore di cui questa prima Antigone della
Weil si fa eroina e vittima è un amore passionale, erotico, ossessivo verso il
fratello.
Grete Weil sembra voler sovvertire l’idea diffusa di Antigone come di una
creatura senza amore: Antigone è invece un’amante senza tregua. L’amore al
centro di questo romanzo è quello incestuoso per il fratello Polinice, che
reagisce con estrema violenza ai tentativi di Antigone di abbracciarlo e
baciarlo. Si tratta di un amore pateticamente dichiarato da Antigone (‘ti amo
tanto, Polinice. Ti amerò per sempre’) e che non indietreggia neppure davanti
alla morte. Prima di seppellire il fratello, ‘Antigone si inginocchiò e baciò le
labbra fredde. Ah, non era più un bacio proibito…’
Quale amore?
Nei primi abbozzi degli anni Cinquanta, Grete Weil sembra dunque
propendere per una lettura di tipo psicanalitico del mito: il suo personaggio
soffre di un desiderio incoercibile di morire e di un amore irrealizzabile,
illecito, respinto. È un’Antigone nuova (ed anticipatrice di letture più recenti)
nei contenuti: attraverso la rappresentazione della sua Antigone, la Weil sfida
i benpensanti, non esitando a narrare un amore incestuoso, fuori dalle ‘norme’
e ad identificare in quest’amore la vera trasgressione di Antigone. Anni dopo,
analogamente, la Weil non esiterà a raccontare un rapporto lesbico, ed una
scena di seduzione da parte di una ragazza giovane su un’altra donna ormai
88 Carmen Giese, Interview mit Grete Weil am 25 Januar 1995, in: ead., Das Ich im literarischen
Werk von Grete Weil und Klaus Mann: zwei autobiographische Gesamtkonzepte, Frankfurt a.M.
1997, p. 221. Sul manoscritto inedito cfr. anche Maria Palmira Roque da Silva, Auto-
biografia e mito no romance ‘Meine Schwester Antigone’ de Grete Weil, Coimbra 2004.
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più che settantenne. 89 Un decennio dopo, però, la figura di Antigone viene a
significare anche qualcos’altro. La scrittrice, in un viaggio in Messico, crede di
riconoscere un uomo delle SS, ma non lo denuncia, e commenta il fatto cosí:
‘Antigone seppellisce Polinice. Dimostrazione dell’amore contro l’odio. Io ho
sottratto all’odio una vittima, non l’ho sacrificata. Opzione per la vita.’90
L’amore di Antigone non è ribellione, è qui solo un gesto di umanità, di pietà,
addirittura di perdono.
È solo con il romanzo Mia sorella Antigone, alla fine degli anni Settanta, che
l’eroina greca viene avvicinata ai giovani eroi della Resistenza tedesca, pur se
con profonda amarezza. ‘Antigone e Sophie Scholl non hanno raggiunto nul-
la, nulla è cambiato a Tebe, nulla in Germania, ma quanto più povero sarebbe
il nostro mondo senza Antigone, senza Sophie. Le azioni di ambedue erano
da dilettanti, ma probabilmente non può andare diversamente, se un singolo
uomo si ribella ad uno Stato terroristico.’91
La Weil non sminuisce l’azione di Sophie Scholl. L’affermazione deve
essere vista alla luce di due importanti questioni della storia tedesca. La prima
è quella dell’indubbia continuità tra Stato nazista e classe politica della Ger-
mania occidentale: perciò ‘nulla è cambiato’. La seconda è la questione più
scottante, che Hanna Arendt pone al centro del suo reportage durante il pro-
cesso Eichmann, del perché gli ebrei non si siano difesi, perché abbiano in cer-
to senso accettato, se non addirittura collaborato alle deportazioni, collegata
all’altra domanda di come sia stato possibile che il popolo tedesco ignorasse
quello che a milioni di persone accadeva praticamente sotto i loro occhi, di
come sia stato possibile che non ci sia stata – sia in un caso che nell’altro – una
ribellione di massa. Alla luce di queste due questioni l’azione individuale, per
quanto eroica, è inutile, è naturalmente destinata al fallimento.
L’Antigone amante ed ebbra di morte e l’Antigone politica, resistente, con-
vergono nel romanzo Mia sorella Antigone.
Sorella e nemica
Nel romanzo Antigone non è un doppio, ma un fantasma, una costante, im-
maginaria, compagna dei pensieri della scrittrice, dalla fisionomia fluttuante,
ambigua, obliqua: ‘Come me la immagino? Un giorno penso di saperlo, il
giorno dopo non più, una volta è una parte di me, l’altra il mio opposto in
tutto. Un sogno attraverso il tempo, come io desidero essere, come non sono,
una figlia di Re in anni giovanili, poi vagabonda, intransigente combattente
della Resistenza, che mette in gioco la sua vita e la perde, discepola, amante di
Dioniso, per la quale vita significa odio e morte significa amore, la Decisa,
colei che non deroga alla propria legge.’ Una figura contraddittoria, ammi-
89 Vedi Pascale R. Bos, Homoeroticism and the Liberated Woman as Tropes of Subversion: Grete
Weil’s Literary Provocations, in: ‘The German Quarterly’, 78.1, 2005, pp. 70-87.
90 Nel racconto B sagen, in: Happy, sagte der Onkel, Frankfurt a.M. 1982.
91 Rede, gehalten bei der Verleihung des Geschwister-Scholl-Preises, 21.11.1988, Monacensia,
Münchner Stadtbibliothek, Literaturarchiv und Bibliothek, Ms. 32.
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revole, disdicevole, amica, nemica. È questa molteplicità che affascina la Weil,
e rende la ‘sua’ Antigone assai distante da ogni definizione, dal tentativo di
renderla rappresentante di valori assoluti, o di sentimenti unidirezionali. Il
gesto del seppellimento proibito è in secondo piano, nella lettura della Weil.
In primo piano sta invece una donna in conflitto con se stessa, prima che con
il mondo, costretta ogni momento a decidere.
Perciò Grete Weil enfatizza l’Antigone compagna e sorella di Edipo in
esilio, colei che deve scegliere ogni giorno per se stessa e per il padre inerme:
e dopo che questo è morto, nonostante l’orrore della guerra fratricida, Anti-
gone torna e vuole tornare in patria, nella disgraziata città di Tebe. Eppure
Edipo predice ad Antigone che ritroverà una città irrimediabilmente cam-
biata, come lei stessa è ormai mutata. Sarà difficile dirsi ancora tebana. Vivere
nella contraddizione: sentire la nostalgia di casa, il senso della ‘patria’, e
contemporaneamente sapere che i compatrioti sono stati (sono?) i più crudeli
nemici. Il conflitto interiore attribuito ad Antigone è lo stesso della scrittrice al
ritorno in Germania, nel 1947, un ritorno fortemente voluto e temuto. È dif-
ficile tornare nella Germania arsa dalla guerra, dove fratello ha ucciso fratello,
è difficile dirsi ancora tedesca. Nel romanzo, Antigone, murata viva, non urla,
non si lamenta, sta in silenzio: non vuole procurare piacere ai suoi concitta-
dini (‘il vostro orrendo piacere, nel sentir gridare un condannato a morte’);
dentro di sé inveisce contro i Tebani, ‘ipocriti’, ‘consenzienti’, ‘fiancheggiato-
ri’, ‘profittatori’, impietosi al punto da dubitare che siano esseri umani. I Te-
bani sono i Tedeschi – la stragrande maggioranza – che hanno appoggiato
Hitler, sapevano ed hanno taciuto, sono sopravvissuti alla guerra, non hanno
scontato alcuna pena.
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dam, la deportazione del marito a Mauthausen nel 1941, il lavoro sventurato
nel Consiglio ebraico, la necessità di nascondersi, il ritorno in Germania, il
secondo matrimonio con l’amico di giovinezza e la morte di lui per malattia.
Tutti questi episodi sono raccontati per flashback, durante la lunga giornata
nella quale l’‘io’ narrante sta attendendo alla sua occupazione principale: scri-
vere un libro su Antigone. Questo libro costituisce, dunque, un romanzo nel
romanzo. I cambiamenti dal piano della narrazione in prima persona alla nar-
razione in terza persona, ossia alla storia di Antigone, sono repentini, senza
soluzione di continuità. Eppure il lettore non è sconcertato, è anzi travolto dal
fluire ininterrotto della scrittura, dal suo alternarsi sui piani differenti dell’‘io’
nel presente, dell’‘io’ che ricorda e si proietta nel passato, infine dell’‘io’ che
scompare per lasciare posto al ‘racconto di Antigone’.
Il libro su Antigone è un’impresa a cui l’io narrante ha messo mano da
tempo, è il suo sogno ed il suo segreto. Antigone è una creatura sua, di cui è
profondamente gelosa, che non vuole condividere. La protagonista ha biso-
gno di scrivere, le è indispensabile, la scrittura è ragione di vita; e d’altro can-
to ha bisogno di Antigone, della sua figura che si sfrangia in mille diversi ri-
flessi, perché raccontando di lei, di una ragazza che agisce nel tempo inattin-
gibile del mito, in un tempo senza tempo, l’io protagonista capisce meglio se
stessa. Nella cornice dunque della giornata di questa donna anziana, si inse-
riscono i ‘pezzi’ sulla principessa tebana che lei sta scrivendo, e le riflessioni
che li accompagnano. Il romanzo Mia sorella Antigone è soprattutto una medi-
tazione sul processo creativo, sulle ragioni del voler scrivere, e dunque sulle
motivazioni che spingono a continuare a vivere, ad agire, anche quando lo
scopo sfugge o si proietta troppo in lontananza: Antigone, infatti, non accetta
di ‘farsi scrivere’. Tra la figura mitica e l’io protagonista c’è un duello aperto,
in palio in quella sfida c’è l’esistenza stessa. Per Grete Weil scrittura e vita, let-
teratura ed esperienza, non sono separate da nessun cristallo, non si specchia-
no l’una nell’altra, ma vivono reciprocamente l’una dell’altra. Il romanzo su
Antigone non è condotto a termine nell’arco della giornata narrata: eppure
con la notte agitata da pensieri di ogni tipo la cornice narrativa è
perfettamente conclusa. La giornata è finita, e in essa sono state poste le
premesse per il futuro, qualunque cosa esso riservi: ‘E domani?’ – sono le
ultime parole del libro.
Innanzitutto il titolo del romanzo, Mia sorella Antigone: la protagonista non
si identifica né si rispecchia con Antigone, ma attraverso Antigone, attraverso
il legame viscerale con lei, un legame d’amore assoluto come può essere quel-
lo sororale, ripercorre la propria esistenza e riesce a scriverla. Poi c’è, natural-
mente, anche un’allusione ad Ismene: talora, ma non sempre, l’io narrante si
sente debole, incapace, rispetto alla sua più decisa sorella. Eppure alla fine è
l’io narrante a vincere: il romanzo di Antigone resta incompleto, non lo è
quello dell’io narrante (cioè, fuori dalla finzione, di Grete Weil). Grazie ad
Antigone, la scrittrice, la sopravvissuta alla Shoah, ha trovato il coraggio ed il
modo di raccontare quel che c’era da raccontare. Il dolore di Antigone e la sua
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rabbia sono diventati il dolore e la rabbia di Grete. Le sue trasgressioni sono
state le trasgressioni di Grete. E nemmeno di fronte alla morte, come Anti-
gone, la scrittrice può dirsi rassegnata. Accettare il lutto, la sofferenza, la co-
scienza della fine, non significa rassegnarsi, non vuol dire deporre le armi.
Il mito non è dunque contemplato a distanza dalla Weil, non è oggetto
museale che ci parla e ci rappresenta. Il mito ci interroga, è la spina nel fianco
della coscienza e del ricordo.
Nel romanzo Mia sorella Antigone, Grete Weil racconta la ‘sua’ Antigone,
correggendo il mito antico, opponendosi anche alle interpretazioni più tra-
dizionali, e riprendendo alcuni temi presenti, come abbiamo detto, nel suo più
vecchio romanzo inedito su Antigone: la ‘sua’ Antigone ha un rapporto
d’amore incestuoso con il fratello, un motivo che è fortemente autobiografico,
fa l’amore con il dio Dioniso, quindi non è la vergine consacrata dalla memo-
ria classicistica; anche Giocasta è una donna lusingata dall’amore di un uomo
più giovane, che avrebbe potuto riconoscere come suo figlio per l’evidente
ferita ai piedi, una donna che non vuole sfiorire per non perdere il ruolo a cui
è rassegnata – tra cure di bellezza e tentativi di ringiovanimento –, quello pas-
sivo di femmina-oggetto. I legami col vissuto dell’io narrante sono psicologici,
ogni componente della disgraziata famiglia di Edipo è messo in analogia ad
un componente della propria, alla ricerca di somiglianze. Solo alla fine del
romanzo, quando la notte porta a galla infiniti ricordi, che diventano tanto
pesanti da non poter più essere contenuti nella mente e nel cuore, Antigone si
materializza, esce fuori dal suo stesso racconto e dialoga con la protagonista.
Il capitolo finale è convulso, i ricordi, nel dormiveglia inquieto, si sovrap-
pongono l’uno all’altro velocemente, fanno la spola tra tempi diversi con un
ritmo vertiginoso, dettato da una notte insonne. Il buio, la claustrofobia, il
tempo sospeso tra sonno e veglia: è l’ora di Antigone, che come un incubo
personificato parla con la protagonista inquieta. Veste di giallo e racconta la
sua versione della storia. ‘Non appena dopo la morte di papà ero tornata a
Tebe, avevo ceduto alle pressioni di Emone e mi ero fidanzata con lui; non lo
amavo, il mio cuore era completamente di Polinice, ma c’era un’antichissima
familiarità, mia madre e suo padre erano fratello e sorella, fin da piccoli ave-
vamo giocato assieme, già allora mi seguiva ovunque come un cagnolino. Era
molto caro, ma un poco noioso ed asciutto e diceva sempre di volermi portare
in palmo di mano, senza capire che io non lo desideravo; io volevo stare con i
piedi ben per terra e volare ad altezze a malapena intuite. E questo potevo
farlo solo con Polinice. Ora, dopo la morte del fratello, era impossibile un
matrimonio, tutto era impossibile, tutta la vita. Non rimaneva dunque che la
morte. Fino a quel momento ero stata disposta a sopportare una morte lenta.
La sofferenza è propria del mio dio-amante, che guida la luce delle stelle nello
splendore purpureo della notte, che muore e risorge. Vuotare il calice fino in
fondo, il dolce calice della vita, sul cui fondo c’è il terrore amaro come la bile,
che è pur sempre meno di nulla.’
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Antigone, nel sogno-visione, parla ancora della sua morte, tralasciata dai
poeti, la descrive nei particolari: si impicca con un pezzo di tessuto sacro, una
sciarpa di seta che era un regalo di Afrodite per Cadmo, il quale l’aveva re-
galata a Polinice, dura di sangue rappreso del morto. La bacia ripetutamente
perché è un frammento di lui ad aiutarla nel raggiungere la liberazione, ossia
la morte. Perché muore, questa Antigone? Perché non può vivere senza l’amo-
re, e si suicida non per il terrore di doversi consumare nel buio e nell’oscurità
della grotta, ma al contrario perché non vuole tornare alla vita: si uccide, in-
fatti, solo quando vede che gli schiavi di Emone muovono la pietra che fa da
porta alla sua prigione per venirla a cercare.
L’Antigone descritta da Grete Weil non rifiuta una vita, ma rifiuta una vita
senza quell’unico, esclusivo amore. La consapevolezza della grandezza di
quell’amore l’ha avuta durante l’esilio. Sola con il padre, lontana dal palazzo,
Antigone trova se stessa e l’unica arte per la quale è nata: essere sorella. La
ribellione a Creonte non ha nessun significato politico, Antigone non voleva
diventare proprio nulla, ma solamente ‘essere’, ‘accettare il destino e gli uomi-
ni’. È stato l’ordine di Creonte ad obbligarla a gridare a tutti una legge genera-
le, che andava al di là della sua singola vicenda: ‘chi esige obbedienza incon-
dizionata, agisce contro la vita’. Antigone agisce per un fine personale, per un
sentimento profondo ma individuale, per un comandamento che riguarda lei
sola, per un rito che è privato: eppure sente il dovere di ‘gridare a squarcia-
gola’ quello che è accaduto, e non per atto estremo e consapevole di ribellione,
ma per denunciare il troppo: non è l’obbedienza messa in discussione, ma
l’obbedienza ‘incondizionata’. Creonte, dopo che Antigone è stata pestata a
sangue dai soldati, agisce perché costretto, per non perdere credibilità agli oc-
chi della folla. ‘Discutemmo, ed io dissi la frase che mi ha reso celebre in eter-
no, cosa sorprendente, giacché in fin dei conti esprime un’ovvietà. Nessun es-
sere umano è venuto al mondo per odiare.’
La rappresentazione di Creonte qui è benevola, il tiranno non avrebbe vo-
luto farle del male, fa discorsi illogici, perché l’essere donna di Antigone, che
lui chiama in causa, non c’entra niente con l’oggetto del contendere, che è la
sepoltura di Polinice. Quest’Antigone non crede di essere dalla parte di una
ragione assoluta, non difende principi immutabili né tantomeno divini, tranne
la sacralità dell’amore, di un amore che non è nemmeno cieco. Polinice, infatti,
non è senza colpa, non aveva cercato di dividere il potere con Eteocle, non
aveva nemmeno parlato con lui, aveva scelto la guerra, che tra tutte è la peg-
giore soluzione. A questo punto la visione abbandona l’inquieta sognatrice.
Antigone va via, nonostante la protagonista, nel suo dormiveglia colmo di la-
crime, la implori di restare. Con Antigone, perde la rete che le dava sicurezza,
che le impediva di precipitare. Ma in cosa? Nei ricordi, in ricordi che fanno
male. O anche nella morte, che ‘forse’ sta arrivando. O forse era stata
Antigone a cercare di ucciderla, ma se la morte è una liberazione, perché è
andata via, perché l’ha lasciata sola? Il simulacro di Antigone, invero, ha la-
sciato il suo insegnamento, le ha rivelato perché da tempo la insegue, quali
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domande le ponga: ‘Cerchi il mio segreto, ma è così semplice: senti e pensa a
te, non a me. Non chiedere mai: mi vuoi bene? Di’ sempre: sono io, che ti amo.
Non ti difendere contro te stessa. Accetta, impara a svuotarti per poter acco-
gliere la pienezza.’
Il segreto di Antigone è in fin dei conti l’amore per se stessi, che è anche
accettazione del passato, una dichiarazione d’amore a quello che si è stati, a
ciò che si è compiuto, cose buone ed errori, uno svuotarsi dei complessi di col-
pa che impediscono di vivere. Grete Weil fa di Antigone un’egoista dell’amo-
re, ma d’altro canto una figura consapevole di quanto l’amore per se stessi sia
salvifico. Solo questa è la ‘religiosità’ di Antigone e si manifesta nella frase
finale del romanzo, in cui l’io narrante specchiandosi dice: ‘Avverto la
bruttezza, sono la bruttezza, mi scorre attorno, lascio che mi avvolga, la ac-
cetto, mi accetto, sono felice. E domani?’
Non c’è nulla di ribelle o politico in questa Antigone non rassegnata, che
nella sua estrema laicità ha tratti religiosi, perché in nome di questo amore
assoluto, per il fratello, ma anche per se stessa, accetta sinanche la morte. Né
si può pensare a mettere sullo stesso piano Creonte con Hitler, perché pur
nella sua violenza Creonte non perde la sua umanità, nasconde sentimenti che
pure prova. L’influenza dell’Antigone esistenzialista di Anhouil è palese. Qui
Antigone non è la vittima ebrea, perché la sua azione è solitaria, la sua morte
è solitaria e in fondo scelta, e passa per il rifiuto di un uomo che l’ama, Emo-
ne, e che forse l’avrebbe liberata, ma con il quale non avrebbe generato figli,
possibili portatori, tra l’altro, di violenza, perché non sarebbero nati dall’amo-
re. Antigone non si sottrae al pestaggio e alla tortura perché nell’umiliazione
fisica trova la sua più grande dignità. Ma non è un simbolo, non rappresenta
un popolo, i suoi proclami sono generici, è contro la guerra, è nata per amare,
cose che la accomunano a qualsiasi altro essere umano, e in questo suo essere
senza qualità è sola, trovando grandezza nella smisuratezza del proprio amo-
re. È questo il suo segreto, qualcosa di semplice, di quotidiano, di banale. L’io
narrante ha dunque cercato in lei, da tanto tempo, quello che già sa, che
chiunque sa: quanto sia difficile vivere.
Ma è solo questa dichiarazione d’amore assoluto, Antigone?
Il delirio di immagini notturne è intermittente, Antigone va e viene, tra le
sue assenze si insinuano altri ricordi, d’infanzia, di adolescenza, dell’esilio. E
in essi Antigone si intrufola. La protagonista la ‘vede’, la sogna mentre si in-
ginocchia davanti ad Haverkamp. Nella realtà biografica, e nel romanzo,
Haverkamp era il nazista al quale era stata affidata l’industria farmaceutica
del marito di Grete Weil, al quale, subito dopo la razzia di cui era rimasto
vittima il marito, la scrittrice si era rivolta in cerca di aiuto. Nel sogno, al fun-
zionario di partito Antigone non chiede la salvezza di nessuno, ma di poter
seppellire qualcuno. L’incubo rivela il trauma della scrittrice di non aver avu-
to una tomba su cui piangere il marito, di non sapere nemmeno come sia mor-
to a Mauthausen. Seppellire qualcuno non porta nessun danno allo Stato, ma
‘seguire la legge è un simbolo di sottomissione’, e l’azione di Antigone è ‘ri-
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bellione’. ‘Non di ribellione. Di umanità’ – ribatte l’Antigone nel sogno. ‘È lo
stesso. L’umanità è sempre ribellione’.
La rivolta di Antigone è dunque nel suo essere umana, nel voler esercitare
i diritti dell’umanità. E questo sempre, non soltanto in uno Stato totalitario.
Anche trattare umanamente i terroristi è un atto di rivolta in uno Stato e in
una società che li vorrebbe schiacciati, ‘messi al muro.’ L’amore è una mani-
festazione di umanità, ed è in questo il suo potenziale sovversivo. Ancora nel
sogno, Antigone è un’ebrea che viene interrogata da un capo nazista, una ra-
gazza bella e dalla risolutezza paurosa ed impaurente. Antigone riesce ad in-
nervosire il nazista, che non sa dove sia Tebe, eppure quello non alza le mani,
è come se lei fosse rinchiusa in un incantesimo, difesa da una impenetrabile
cortina, e lei allora, con grande serietà, solennemente, dice: ‘non sono qui per
condividere l’amore, ma per condividere l’odio’. Estrae una rivoltella e spara. Que-
sta visione di Antigone è il contrario di quella che ha visitato la protagonista
all’inizio della notte. Quella credeva nell’amore e persino nella banalità di
affermare la necessità di amare e di non odiare. Questa ultima Antigone
rovescia l’affermazione celebre, e così la rende unica ed incisiva, e soprattutto
la rende azione. Il troppo amore si era rivolto contro se stessa, l’aveva portata
alla rinuncia della vita; l’odio, il vero odio, la spinge all’azione. Ma l’esito è lo
stesso: inutile. C’è il silenzio dello sparo. Ma non c’è cadavere. Compaiono
uomini con lunghi cappotti come quello indossato da Göbbels, con i cappelli
che nascondono il viso. Si dirigono verso Antigone.
Nessuno è morto, ma Antigone morirà. La sua azione è stata fine a se
stessa, è stata una pura manifestazione d’odio.
La celebre battuta di Antigone, che prima era stata ridotta a banalità,
nell’atto di ribellione è rovesciata. Hölderlin aveva tradotto la frase: ‘Ma certo.
Non per l’odio, ma per l’amore esisto’ (Aber gewiß. Zum Hasse nicht, zur Liebe
bin ich), e la traduzione è accolta senza modifiche da Brecht. Una sfumatura
sessuale dà invece Heinrich Weinstock, nella traduzione posseduta dalla Weil:
‘Non odio, amore è la natura della donna’. Grete Weil esce fuori dalle diffi-
coltà di senso (cosa significa ‘amare con’ qualcuno, ‘odiare con’ qualcuno?),
rendendola una frase banale, da una parte, e sovvertendola, dall’altra: ma nel
sovvertimento aggiunge una specificazione. L’odio non corrisponde ad una
tendenza naturale della sua Antigone, non è costitutivo della sua esistenza, lei
non è in generale e in assoluto per l’odio: è solo lì, in quel preciso momento,
che si trova per odiare, per agire, per dare una manifestazione concreta (il col-
po di pistola) di odio. ‘Non sono qui per condividere l’amore, ma per condi-
videre l’odio’ (Nicht mitzulieben, mitzuhassen bin ich da). Qui, ora, in questo pre-
ciso momento nel quale mi stai interrogando, in cui mi chiedi nome e pro-
venienza, in cui mi schedi per mandarmi in un campo di concentramento. Ora
è il momento dell’odio, di un odio condiviso con milioni di altre persone,
anche se il gesto è isolato, disperato, eroico ma inutile.
Il sogno convulso si chiude in una prigione, in una cella che non è in un
campo di concentramento, un edificio solitario di mattoni rossi e le inferriate
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alle finestre, dove fa freddo, dove la protagonista è rinchiusa non sa per or-
dine di chi, senza sapere dove si trovi, e lì giunge Antigone, una piccola figura
col vestito giallo: ‘piange, il mio viso si bagna delle sue lacrime. L’umidità mi
si ghiaccia sulla pelle. Stringo Antigone a me, cerco di ripararla con il mio
cappotto. Perché non la porto via, al caldo e al sicuro di una casa? […] All’im-
provviso la lascio andare, cade a terra, rimane stesa così com’è caduta. Corro
via, corro, corro.’ Antigone scompare, è abbandonata da chi l’ha inventata, da
chi l’ha voluta affianco, da chi l’ha usata.
Dire sì
L’amore aveva condotto Antigone alla morte – non alla vita; e in questo si
apre un abisso tra la protagonista e la figura mitologica; Antigone (come ave-
va scritto Anhouil) dice ‘no’, e nel dire no consiste ‘l’unica, indistruttibile li-
bertà’; la scrittrice, invece, ha detto ‘sì’. Attraverso la riflessione su Antigone,
esamina le ragioni del suo dire sì.
Antigone si allontana sempre di più, sfugge nella grandezza del suo amore
esclusivo, da una parte, nella sua capacità di ribellione ed azione dall’altra.
Forse in nessun altro esempio di ricezione la figura di Antigone brilla di così
tanti riflessi, passa dall’ombra più scura alla luce più splendente, dall’orgoglio
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più incrollabile alla fragilità più tremula. Perciò lo scrivere su Antigone di-
venta per la scrittrice una ‘tortura’, perché attraverso il mito Grete Weil inter-
roga se stessa, e non sono domande semplici quelle che si pone.
‘Perché non ho ucciso lo Hauptsturmführer? 92’ – è la domanda che emerge
dalla memoria, dal parallelo esplicitamente istituito tra Stauffenberg ed Anti-
gone. La risposta è immediata ‘per evitare che accadesse qualcosa di peggio.’
E questa risposta – che vale applicata all’esperienza terribile ad Amsterdam,
dove la forma di Resistenza consisteva nel salvare con astuzia qualche bam-
bino, nel falsificare le liste, nel portar fuori dal teatro lettere di aiuto, inutili
ma consolatorie – è anche un’interpretazione del mito di Antigone: seppellire
il fratello sarà anche stato un atto di Resistenza e ribellione, ma ha causato
solo il peggio, morti a catena e la morte della stessa Antigone. Un’azione dello
stesso tipo, motivata da un odio giustificabile e non senza ragioni, sarebbe
stata deleteria. Quest’interpretazione è l’implicita risposta che Grete Weil dà
all’equiparazione tra Antigone ed Ulrike Meinhof o Gudrun Enslinn. La Weil
non giudica le ragioni del terrorismo, rinuncia a questo giudizio storico: senza
chiedere nulla, offre un nascondiglio ad una ragazza ricercata dalla polizia,
anche se non le viene detto esplicitamente, per fare un favore alla giovane
figlia della sua migliore amica. Non lo fa per simpatia, né perché pensa che i
terroristi abbiano ragione nella loro lotta contro lo Stato. L’incendio causato
da manifestanti contro la guerra del Vietnam ad un grande magazzino a
Francoforte (un episodio storico, al quale presero parte i terroristi della RAF),
mentre la scrittrice scrive Mia sorella Antigone, le richiama subito alla mente le
devastazioni dei negozi ebrei ad opera dei nazisti. A partire da se stessa, e
senza alcuno sconto, la Weil conduce un’indagine impietosa sull’umanità
nelle sue manifestazioni più estreme: il troppo amore, la troppa violenza. E
naturalmente la sua inchiesta, anche se poetica e non giudiziaria, si basa
anche sulla constatazione che nella storia le situazioni si ripetono: non solo gli
incendi e gli omicidi, anche il dover nascondersi.
Senza necessariamente cercare specchi, la protagonista del romanzo viene
di forza posta dinanzi ad essi. Accetta che una ragazza, un’amica della nipote,
si nasconda da lei: è certamente ricercata dalla polizia, chissà perché. Questo
generoso gesto di accoglienza non può che indurre la protagonista a ricordare
una situazione che cerca di rimuovere, ma che inesorabile continua a vivere in
ogni suo istante: e cioè la vita rinchiusa dietro uno scaffale di libri durante
l’ultimo anno e mezzo della guerra e dell’esilio ad Amsterdam. E tuttavia la
distanza tra le due esperienze è segnata dall’impossibilità di comunicare tra le
generazioni: nel suo racconto, Grete Weil non cede alla retorica della circola-
rità della storia umana e degli eventi. La ragazza, che ha sui diciotto anni, e
studia filologia classica, interrompe qualsiasi contatto con la sua anziana ospi-
te: non le va di parlare dei suoi studi, che considera inutili e inattuali, non sa
nulla del passato nazista e dei suoi orrori (è la scrittrice a farle vedere un libro
92 Ossia il nazista che gestiva il teatro dove venivano raccolti gli ebrei prima di essere man-
dati al campo di concentramento.
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su Mauthausen), le è indifferente che l’anziana donna sia un’ebrea, non riesce
e non vuole stabilire connessioni tra la sua e le generazioni anteriori. Si mette
a piangere e grida ‘porci, porci’, pensando ai nazisti, guardando su un libro la
‘scala della morte’ del campo di sterminio, ma è una reazione emotiva
ingenua ed anche irritante, non nasce dalla consapevolezza, non induce alla
riflessione. La ragazza scompare così come è arrivata, senza aver detto nulla
di sé. L’episodio è duramente polemico: non è affatto vero – intende dire la
Weil - che la nuova generazione, quella dei ribelli a mano armata, voglia far
scontare ai padri la colpa dei crimini del passato, che voglia lavare l’onta del
fascismo ed estirparne le propaggini nello Stato democratico. Questa
generazione non sa nulla di storia, e non vuole saperne nulla; le sue
incontrollate azioni emotive ricordano piuttosto il fanatismo della
Hitlerjugend, il credere ed obbedire cieco ad un ‘ideale’, senza metterlo in
discussione, affermandolo con violenza e con un integralismo dispotico
quanto il ‘sistema’ che vogliono combattere. Non c’è tra Antigone e Gudrun
Enslinn nessun vero contatto, tranne un certo ‘moralismo’ che si traduce in
disprezzo per la vita. La Weil, decisamente fuori dalle consorterie intellettuali
volge uno sguardo impietoso sul presente. Rifiuta giustificazioni, senza per
questo perdere quell’umanità che non le impedisce di dare asilo senza far
domande ad una potenziale terrorista.
L’impossibilità di stabilire un ponte tra le generazioni è al centro del
romanzo apparso nel 1983, dal titolo esplicito Generazioni, in cui si racconta
dell’esperienza fallimentare della convivenza dell’io narrante, una donna oltre
i settant’anni, con due più giovani amiche, una cinquantenne, e l’altra invece
sui trent’anni, che hanno un legame lesbico. Le dinamiche che si consumano
in questa ‘famiglia allargata’ sono complesse e straordinariamente attuali, ma
non riguardano il nostro discorso, nel quale invece è importante che proprio
in questo romanzo Grete Weil tiri le somme del proprio ‘rapporto’ con
Antigone, alla quale sono dedicate le pagine finali del libro, che costituiscono
una sintesi della poetica dell’autrice, una spiegazione del senso che negli anni
la scrittrice ha dato alla propria scrittura. L’io narrante si rivolge stavolta
direttamente ad Antigone, ed immagina che vita avrebbe avuto se fosse
sfuggita alle maglie di Creonte: qui accade quel che non c’è in Mia sorella
Antigone. La protagonista si identifica cioè con questa Antigone
completamente inventata, riscritta, un mito del tutto nuovo. La vita di
Antigone è lo specchio, nel tempo-non-tempo del mito, della propria parabola
esistenziale. Ed allora la vera prigione di Antigone, foriera di morte,
impenetrabile, non è una grotta, una cella, un luogo di tortura: è la memoria,
che tiene stretta la protagonista nella sua morsa e le impedisce di accettare
qualsiasi atto di crudeltà e violenza, dai più gravi ai più quotidiani, a cui si
assiste senza ormai farci caso. Antigone è la scelta, la capacità di tenersi
lontani dall’esercitare la violenza e dal rendersi complici di essa. Antigone è il
dolore che non si può raccontare, un dolore che non ha pretese di insegnare, e
soprattutto che non vuole fare spettacolo di se stesso. Antigone è silenzio,
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muta presenza, sempre accanto a chiunque il dolore lo abbia esperito. Perché
accompagnare il dolore, assisterlo, comprenderlo è il gesto più sublime e
coraggioso che l’essere umano possa compiere.
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negozi, alle fontane. Seguono altri drammi, spettacoli di danza, poesie epiche. E tu
non puoi sottrarti, devi assistere, sentire ed hai però la sensazione che tutti ne parlino
come se non fossero mai stati coinvolti. Solo tu conosci la verità, tu che sei stata quasi
uccisa nella prigione di roccia. Ti ammali del tuo passato, sei inerme, in balìa dei
ricordi.
Quando, tanto tempo fa, fosti condannata a morte da Creonte, nessuno avanzò in
tua difesa, nessun Tebano fu pronto ad impedire al tiranno di distruggerti. Anche
quelli che non erano d’accordo con lui si schernirono, non vollero mettersi in pericolo
a causa tua.
Tuttavia sei tornata a Tebe – è la tua città – e non hai serbato rancore ai tuoi
concittadini per il loro comportamento.
Vuoi loro bene, perché non sono più corrotti di altri, perché parlano la tua lingua,
perché vi copre la stessa volta del cielo, gli stessi alberi crescono e le stesse acque
scorrono attorno a voi. Tra loro ti sei scelta i tuoi amici. L’epoca in cui sei stata in
terra straniera, tra pastori e pescatori, dal re Teseo, è trascorsa da tanto tempo, ci
ripensi solo raramente: ti senti di nuovo a casa, a Tebe.
Ma adesso accade qualcosa di strano, che non capisci. Da quando si parla così
tanto della prigione di roccia, loro si sono allontanati da te, invece di avvicinarsi. Tu
sei diventata per loro un ‘caso’. Ti spingono a raccontare dei tuoi pensieri, di quando
hai visto la morte con gli occhi. Il loro interesse è sincero, hanno compassione di te,
non ne dubiti. Ma tu non vuoi parlare. Non puoi. Forse sarebbe stato possibile per te
scrivere. Ma chi scrive su se stesso non era stato ancora inventato. Per farlo sei nata
troppo presto. La tua storia ti obbliga ininterrottamente a pensare alla prigione di
pietra. Se tu senti la parola ‘sete’, oppure ‘vino’ o ‘soffocare’ o se uno dice che ‘l’aria sa
di muffa’ o ‘che bel sole splende oggi’ oppure ‘quanto buia è la notte’, o se vieni a
sapere che un uomo è maltrattato, o se a casa ti prepari un bel pranzetto oppure…
Tu soffri. Di tanto in tanto pensi a realizzare il suicidio che hai rinviato. Eppure
continui a rinviarlo, tu che prima decidevi così facilmente, che eri audace e determi-
nata.
Poi un giorno muori. I medici sanno precisamente di che malattia – nei molto
vecchi di solito sono tante e tutte insieme. Ma l’antro di roccia, nella quale in realtà
stai sprofondando, non c’è nella loro lista.
O Antigone. Tu che sei rimasta con me. Resta con me, se muoio per un tumore,
per un infarto, per una qualsiasi malattia dal nome latino, che fa una bella e dotta
figura su un certificato di morte. Come si raccapezzerebbe l’impiegato dell’anagrafe, se
lì ci fosse scritto ‘morbo di Auschwitz’? Non ne ha mai sentito parlare.
Oltre i millenni, che sono come un battito di ciglia, resta con me.
Antigone presente/assente
Qui si interrompe il nostro seguire Antigone attraverso tre decenni del Nove-
cento. Qualcosa abbiamo certo lasciato per strada, potremmo tornare indietro
a recuperarlo. Ora ci fermiamo, per tirar fiato. La via è ancora lunga. Ho nel
cuore l’eco delle grida e dei pianti, nei tardi anni Settanta. Ricordo le im-
magini al televisore bianco e nero, il centro di Roma, una cinepresa puntata
nel cofano di una Renault 4, dove rannicchiato e martirizzato c’era il corpo di
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Aldo Moro. E le lacrime di mio padre, e le parole sussurrate ‘basta, adesso
basta.’ Mentre scrivo, nel Mediterraneo si combatte un’altra, ennesima guerra
ufficiale, e raid notturni su Tripoli, a cui partecipano caccia italiani, sganciano
bombe di morte, e noi non vediamo, non vogliamo vedere e sapere: cadaveri
di bambini tirati fuori dalle macerie, e mostrati dai libici come vittime del
‘fuoco amico’. Forse sono solo propaganda del regime di Gheddafi. Ci
sentiamo più leggeri, credendoci. Non sono nostri parenti, non tocca a noi
onorare quei morti. Mentre scrivo, la piazza di Montecitorio è assediata da
persone che non hanno lavoro. Un ministro, a cui piacerebbe essere Creonte,
ma è solo un mediocre funzionario, ha detto ad una donna che parlava a
nome della sua categoria di precari: ‘siete l’Italia peggiore.’ Le strade di
Napoli, una Tebe dalla guerra perpetua, sono invase da spazzatura in putre-
fazione. Mentre scrivo, sotto l’Acropoli di Atene, alle pendici di quel teatro
dove fu rappresentata per la prima ed unica volta l’Antigone di Sofocle, si
scontrano poliziotti armati di scudi e manganelli con donne ed uomini armati
delle loro mani nude. Mentre scrivo, 48 milioni di persone sono cacciate dalla
loro patria: l’emigrazione tedesca durante il nazismo è un’inezia, a confronto.
Sono lontana ma non lontanissima dai teatri di guerra, sono in una città di
provincia in un’isola italiana, e sotto la mia finestra sento lingue che non
conosco, arabo, forse, pakistano. Il mio dirimpettaio africano è appena rien-
trato, un’ombra avvolta in un lungo abito bianco, lino splendente nella notte
d’estate, ed ha chiuso rumorosamente una porta di ferro di una cantina che
non è una casa, ma che lui, con molti altri, abita. A qualche centinaio di metri,
in un carcere diventato famoso anni fa per la rivolta dei detenuti alla violenza
dei secondini, un carcere proprio nel cuore della città, quattro o cinque per-
sone condividono celle umide, dalle mura senza intonaco, strette anche per
uno solo, dai servizi intasati. Vedo ogni giorno, di mattina e di sera, i loro
panni stesi ad asciugare alle inferriate. Vedo come si scambiano messaggi ed
urla, dalle finestre con le grate arrugginite, con i parenti che sono per strada: è
una via di ristoranti e negozi di lusso. I parenti dei detenuti della Gestapo si
affollavano sotto la prigione di Alexanderplatz, nel tentativo di vedere, ve-
dere soltanto, o credere di vedere, i mariti, i padri, i figli, le figlie, le loro
ombre recluse, che non avrebbero mai più carezzato. Né da vivi. Né da morti.
Serve davvero avere una tomba su cui piangere? Qualche giorno fa, per le
strade di Roma cortei colorati come nel carnevale di Colonia rivendicavano il
matrimonio per tutti: Antigone era anche lì, con il suo amore malato per il
padre, per uno dei fratelli che sposa nella tomba, col suo rifiuto di sposare un
uomo che non riesce ad amare, ad affermare che i limiti della parentela e le
norme della famiglia sono strutture flessibili e culturali, che ci aiutano a
vivere, ma anche, talora, ci inducono a morire.
A quale razza appartengo? A coloro che hanno sempre detto di ‘sì’? Ho
saputo, quando dovevo, dire ‘no’? Saprò dirlo, quando dovrò? Posso dire di
aver conosciuto il dolore? Ho il diritto di scrivere un libro su Antigone, dun-
que sul dolore degli altri? È servito e serve insegnare greco antico all’Uni-
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versità, a ragazzi che probabilmente non avranno la possibilità di insegnarlo?
Continuo a credere di sì. Devo farlo. ‘Per dare un esempio’ – dice l’Antigone
di Brecht, senza altra giustificazione. È il mio gesto di povera, piccola, resi-
stenza; il mio gesto più vicino, ed infinitamente, incolmabilmente lontano, a
quello di Antigone. Il ‘morbo di Auschwitz’ è inguaribile, ma non è riuscito
nei superstiti a piegare la vita ed il coraggio di viverla. Ogni momento della
storia ha le sue malattie incurabili, e c’è sempre chi sceglie una prigione di
pietra, anche solo le dure e scure pareti dell’incomprensione ed indifferenza
altrui, piuttosto che piegarsi all’irragionevolezza e alla crudeltà. Piuttosto che
scegliere in prima persona l’indifferenza. O l’ignoranza, di ogni tipo. Anti-
gone è lì. È sempre quella la sua ora.
E senza Antigone, il mondo sarebbe molto più difficile da sopportare.
Luglio 2011
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