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GIOVANNI VERGA

 Senza Manzoni, Verga non esisterebbe.


 È più moderno di Manzoni perché è molto più disilluso rispetto alla realtà che racconta, ha meno
fiducia nel progresso e in quello che potrebbe andare bene, mentre è sicuro che tutto andrà male.
 A differenza di Manzoni, Verga non ha fiducia nella Provvidenza, non crede che se ci si affida a Dio
tutto andrà bene (come crede Lucia).
 Verga vive, cresce e studia a Catania (che è sempre stata la capitale culturale della Sicilia),
comincia a scrivere fin da giovanissimo e le sue prime opere sono di tema risorgimentale (la Sicilia
prima dell’Unità d’Italia si sentiva molto isolata rispetto anche ai temi italiani). Questi primi
romanzi però sono scritti male perché Verga comincia a scrivere senza essere uno scrittore ma lo
diventerà, affinerà la sua tecnica leggendo, studiando e confrontandosi con altri. Comincia a
migliore le sue competenze nel momento in cui si allontana dalla Sicilia e inizia a viaggiare, va a
Roma, Firenze, Milano e comincia anche a scrivere in maniera più contemporanea, più vicina ad
alcune correnti di moda all’epoca, ad esempio gli Scapigliati, un gruppo di scrittori che nella
seconda metà dell’Ottocento operavano soprattutto a Milano e dintorni.
 Scrive poi quelli che di solito vengono chiamati “romanzi mondani”  Una peccatrice, Eva, Eros e
Tigre reale.
Storia di una capinera non fa parte dei romanzi mondani perché ha un’ambientazione più siciliana
rispetto agli altri romanzi che hanno ambientazioni più mondane.
Trama in sintesi: Verga per il titolo prende ispirazione da una capinera che una volta vide chiusa
nella sua gabbia, triste e malinconica, che guardava con invidia gli altri uccelletti liberi di volare.
Non avendo la forza di volontà di cercare di liberarsi, la capinera si lasciò infine morire di fame e di
sete. Lo scrittore associò a questa storia quella della protagonista del suo romanzo.
Maria è costretta a farsi suora a causa della povertà della sua famiglia. Un’epidemia di colera le
permette però di vivere per un periodo con la famiglia; qui passa dei momenti felici, scopre le gioie
del mondo ed è oppressa dal pensiero di tornare nel convento. In quei giorni conosce e si
innamora di Nino, cadendo in una crisi esistenziale. Nino le propone di abbandonare il convento e
scappare insieme ma lei non può. Prende definitivamente i voti, Nino si sposa con Giuditta e Maria
passa le sue giornate sul tetto del convento da dove si vede la casa di Nino e Giuditta. La ragazza
ormai in preda alla follia tenta una fuga disperata dal convento, ma viene ripresa dalle altre
monache ed esplode in un attacco di follia. Poco dopo muore.

 Gli altri romanzi mondani citati sono stati scritti da Verga durante il suo soggiorno a Milano infatti
in essi l’essere è a contatto con la società di Milano. Quando si trova sulla penisola italiana e non
più in Sicilia, il suo modo di relazionarsi con la letteratura cambia e comincia ad avere un certo
successo di pubblico che invece non ebbe con I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
 A Verga interessava avere successo perché proveniva da una famiglia benestante ma non
particolarmente ricca, dunque ha bisogno di guadagnare e per farlo deve diventare uno scrittore
famoso e scrivere romanzi che piacciono alle persone
 Verga riesce nel suo intento perché, frequentando la società di Milano e il mondo degli
intellettuali, inizia a capire quali sono gli argomenti che piacciono al pubblico. Racconta queste
storie in cui c’è un uomo che di solito è un artista, un pittore o un intellettuale, che incontra una
donna fatale (una ballerina, una contessina, una contessa russa) che gli confonde la percezione
della realtà, amori travolgenti che finiscono quasi sempre con dei morti, tutta una serie di uomini
che falliscono.
 Fin dai primi romanzi è evidente come Verga sia legato all’idea che in qualche modo andrà tutto
male (il protagonista di Eros si suicida, altri finiscono in povertà, isolati, altri intrappolati in vite
insoddisfatte); sono tutte storie con finali tragici, sono tutti personaggi inetti, uomini che nel
momento in cui conoscono queste donne non riescono a gestire più nulla della loro vita.
Quello che in Mastro don Gesualdo sarà un tema molto più ampio e universale, cioè il fallimento
di una intera società, nei romanzi mondani è più il fallimento del singolo che non riesce a gestire
le sue emozioni.
 Verga è diverso dall’Italia del Romanticismo ma ha delle cose simili:
 come nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis vengono riprese delle lettere che Foscolo scriveva, coì
in Eva molto probabilmente sono state riprese delle lettere che Verga scriveva a sua madre
(perché era molto legato alla sua famiglia e quando era a Milano raccontava tutto quello che
faceva; lui non si sposerà e non avrà figli).
Quando Verga morì nel 1922, tutte le sue carte andarono prima a Capuana e poi tornarono alla
famiglia Verga che esiste ancora.
 Dopo aver scritto i romanzi mondani, comincia ad avvicinarsi al Verismo. Nonostante Eros e Tigre
reale siano del ‘74 e ‘75, Verga inizia a trattare temi vicino al Verismo già prima con Nedda che
scrive nel ’73. Questo perché Verga, dopo tanti anni di lontananza dalla Sicilia, voleva recuperare
le sue radici e tornare a raccontare della sua Sicilia ma doveva anche vendere. Mentre sta
scrivendo Nedda e le altre novelle veriste, scriveva anche questi romanzi mondani che sapeva
sarebbero stati di gradimento al pubblico.
 Verga scrive il Marito di Elena perché doveva compensare il fallimento economico dei Malavoglia.
La storia del Marito di Elena è ambientata a Napoli ed è un romanzo che è poco legato al posto
dove è ambientato, come tutti gli altri romanzi mondani che potrebbero essere ambientati in una
qualsiasi città ottocentesca.
 Per capire cosa sia il Verismo bisogna analizzare la prefazione dei Malavoglia in cui spiega perché
voleva scrivere il cosiddetto Ciclo dei vinti. Questa è la prefazione non solo dei Malavoglia ma di
tutto un intero progetto che ha Verga.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e
svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione
debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosìa
dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Quello che dà inizio alla storia dei Malavoglia è l’improvvisa consapevolezza della famiglia Toscano
che quello che hanno non è abbastanza, cioè che potrebbero stare meglio ed essere più ricchi e
felici; in loro scatta questo desiderio di migliorarsi e iniziano ad immaginare cosa accadrebbe se
iniziassero a fare qualcosa di diverso, per questo si lanciano nel famoso affare dei lupini. Cercano
cambiare status e passare a dal pescatore al commerciante.
Appena iniziano ad organizzarsi in questo lavoro si scontrano con la realtà: non hanno abbastanza
soldi, devono chiedere un prestito. Quello che muove il desiderio della famiglia di padron Ntoni è il
fatto che ad Acitrezza sta arrivando il progresso, la modernità si strafacendo strada nella vita delle
persone e, con il Regno d’Italia che si è appena formato, la Sicilia si sente parte di qualcosa di più
grande. Quello che muove tutto questo è quello che Verga definisce la fiumana del progresso,

Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti,
nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in
quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.
Verga vuole fare quello che il Verismo si propone di fare: vuole analizzare in che modo il progresso
è arrivato e per farlo deve partire dalle basi (dalle sue sorgenti) e per arrivare all’origine di tutto
questo parte da una piccola famiglia di pescatori (nelle sue proporzioni più modeste) che cerca di
migliore la sua situazione sociale perché è più facile capire quali sono le passioni che muovono le
persone più umili (basse sfere); più sono umili e più sono facili da studiare perché hanno meno
rapporti con l’esterno, quando poi arriva l’unica cosa dall’esterno che li influenza (cioè il desiderio
del progresso), è facile osservare con precisione scientifica quello che sta accadendo.

Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice.

Verga dice che è il caso di raccontare questa storia nella maniera più semplice possibile, quindi con
un linguaggio semplice, schietto e con una trama, uno stile molto semplice. La sua ricerca parte da
una situazione minima per poi allargarsi a un campo più ampio.

Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche
ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la
lotta pei bisogni materiali.

I Malavoglia sono il primo punto di partenza di quello che doveva essere il Ciclo dei vinti perché
l’unica preoccupazione della famiglia è il bisogno materiale, le nozioni base per la sopravvivenza.
Nei Malavoglia il bisogno di miglioramento ha a che fare con desideri materiali, mentre negli altri
esempi che Verga farà si tratta di desiderio di cambiare classe sociale (caso di mastro don
Gesualdo) quindi di passare dall’essere un lavoratore ad essere vicino ad una borghesia più alta
che tende all’aristocrazia.

Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-
don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale
i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato.

Se nei Malavoglia il disegno è semplice, in Mastro don Gesualdo i colori cominciano ad essere più
vivaci e il disegno più variato perché nel primo parliamo di una famiglia del piccolo paese di
Acitrezza che si scontra con la realtà di un processo minore, nel secondo invece non è più un
piccolo paese ma una piccola città e la situazione si complica perché mastro don Gesualdo è un
uomo borghese che vuole migliorare la sua posizione tendendo verso l’aristocrazia. Gli altri tre
romanzi che Verga avrebbe voluto scrivere sono la Duchessa di Leyra, L’Onorevole Scipioni e
L’Uomo di lusso.

Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per
arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte
coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto

Verga immaginava di partire dai pescatori, continuare con il muratore che vuole diventare alto
borghese, poi con la nobildonna duchessa, a seguire l’onorevole ed infine l’uomo di lusso, quindi
l’idea del Ciclo dei vinti era quella di un sistema che dovesse analizzare in che modo le passioni
dell’uomo e la vaga bramosia dell’ignoto si scontrano con la fiumana del progresso, cioè in che
modo la modernità entra nella vita di queste persone e in che modo le rovina, perché nessuno di
essi avrà un lieto fine.
 Non ha finito di scrivere la Duchessa di Leyra, non ha iniziato L’Onorevole Scipioni né L’uomo di
lusso quindi queste idee di Vega restano più che altRo un piano che non conclude ma di cui aveva
le idee molto chiare.
 A Verga interessa capire che cosa muove le persone: perché la famiglia Toscano vuole per forza
migliorare la propria situazione, perché non si accontentano di mandare avanti la casa del
nespolo? La loro vita non è sufficiente perché hanno scoperto che c’è qualcosa di più quando
‘Ntoni, il primogenito che avrebbe dovuto seguire le orme del nonno, è costretto ad allontanarsi
dal paese a causa della leva militare obbligatoria e così scopre che c’è molto di più, che si può
vivere e sopravvivere con traffichi loschi, che si può guadagnare lavorando poco. Tutta questa
etica del lavoro che gli sembra così ottocentesca non gli piace più, lui è proiettato avanti verso il
secolo successivo e non accetta più questo ideale così antico che la famiglia gli impone quindi la
fiumana del progresso è entrata nella vita di una piccola famiglia e l’ha sconvolta.
Se da una parte c’è ‘Ntoni che si allontana dalla famiglia, la rifiuta e tradisce, dall’altra parte c’è il
fratello minore Alessi che abbraccia questa tradizione, ricompra la casa del nespolo e riesce ad
ottenere una sorta di tranquillità che non si può definire un lieto fine perché metà della sua
famiglia è morta: ‘Ntoni è stato allontanato per queste sue scelte di vita; Luca è morto in guerra; il
padre è morto nell’incidente della barca che non casualmente si chiama Provvidenza e fa
naufragio; Mena rinuncerà a qualsiasi sogno di matrimonio e felicità personale per il bene della
sua famiglia, rimarrà a vivere con il fratello, si occuperà dei nipoti e rinuncerà alla sua felicità; Lia
seguirà le orme di ‘Ntoni e finirà a fare la prostituta in città.
 Perché queste donne non riescono ad ottenere nulla e sembra che la modernità si accanisca
particolarmente verso di loro? Perché siamo in un’epoca in cui ci troviamo in un villaggio di
pescatori e per chiunque cerchi di cambiare il proprio destino finirà in tragedia. Lia finisce male
perché appena cerca di cambiare la sua condizione e fa quello che nella sua famiglia era
considerato un gravissimo errore, ovvero dare confidenza ad un uomo, è poi costretta, per la
perdita del buon nome della sua famiglia, ad allontanarsi dalla città e l’unica cosa che può fare una
donna senza istruzione è la prostituta.
Verga ci dice che, analizzando le passioni che muovono questo desiderio di migliorarsi, possiamo
capire in che modo sta funzionando il progresso che nell’ottocento interessa tutta l’Italia. Sempre
nel corso dell’introduzione ci vuole spiegare anche in che modo intende analizzarli, passando da
un villaggio di pescatori per arrivare all’uomo di lusso.

A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi
si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui
caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà.

Nei Malavoglia, Verga intravede ancora una certa semplicità; la modernità è arrivata ad Acitrezza
ma è pur sempre Acitrezza, lo stato dei Malavoglia è qualcosa che arriva da fuori, che porta i figli in
guerra, uno lo distrugge e allontana dalla famiglia e un altro lo uccide, lo stato gli ha tolto i figli.
Persone molto più semplici e meno artificiali, più si sale di livello sociale più la vita delle persone, la
loro educazione, la loro formazione diventa artificiale.

Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi
sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come
regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee.
Verga, conoscendo la vita al di fuori di Catania (quindi di Firenze, Milano, Roma ecc), ha capito che
buona parte delle regole della buona società sono formalismi vuoti, sono belle parole che però
non nascondono nulla se non artifici, falsità. Nell’ottocento c’è molto formalismo, si parla dunque
in modo formale, mentre nei Malavoglia tutto questo non esiste, il modo in cui Verga fa parlare i
Malavoglia e tutti gli abitanti di Acitrezza è tutto tranne che formale.

Perchè la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le
norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacchè la forma è così inerente al
soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento
generale.

Per fa si che si capisca il messaggio che Verga vuole dare, è necessario che la forma corrisponda al
soggetto, quindi i pescatori non possono parlare come i protagonisti dei suoi romanzi mondani ed
è per questo che lui crea queste mescolanze di italiano e siciliano per creare un effetto più
corrispondere alla realtà.
L’introduzione dei Malavoglia si conclude con l’elenco dei titoli che lui avrebbe voluto scrivere ma
ne scrive solo due e nella conclusione scrive come tutti questi, in modo diverso in base alle singole
vite, sono tutti comunque vinti, sono tutti sconfitti.

I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso


sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno
colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù.

Ognuno di essi avrebbe voluto che, quello che poi è diventato un fallimento, fosse diventato il suo
più grande successo. I Malavoglia volevano il loro miglioramento sociale con l’affare dei lupini ma
diventa la più grande sventura della loro famiglia, vogliono arricchirsi e invece alla fine ottengono
una serie infinita di debiti che li condurrà a perdere la casa del nespolo.

Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel
benessere, per l’ambizione — dall’umile pescatore al nuovo arricchito — alla intrusa nelle alte classi
— all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri
uomini; di prendersi da sè quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega
per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge — all’artista che crede di seguire
il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione.

Tutti questi falliscono in qualche modo, mossi da quella che Verga definisce la vaga bramosia
dell’ignoto. Verga dice che ci racconterà questa storia ma senza palesare il suo punto di vista.
Questa è la sua cifra stilistica per eccellenza, il narratore che si mette dentro la storia senza
giudicare, ma in realtà sappiamo Verga come la pensa attraverso il modo in cui lui ci racconta le
storie, e anche gli inserti in cui il paese commenta gli avvenimenti sono una spia importante del
punto di vista di Verga. Verga dice che vuole raccontarci una storia brutta ma solo il fatto che ci
stia raccontando una storia di pescatori e di Mastro Don Gesualdo sta comunque prendendo una
posizione, sceglie che cosa raccontarci.

Verga in qualche modo ci fa capire che quello che dovrebbe essere il nostro punto di svolta sarà il
nostro punto di fallimento estremo, però ad esempio Mastro don Gesualdo un minimo di successo
lo ottiene, ha da tutta la vita questo desiderio di diventare ricchissimo e di fatto lo diventa, la figlia
diventa aristocratica però questo non è sufficiente. Quella dei Malavoglia è una sconfitta su tutti i
fronti però c’è Alessi che ha un lieto fine, allo stesso modo quella di Mastro don Gesualdo è un
successo per certi versi ma poi c’è il fallimento personale.
Il punto, secondo Verga, è che non potrà mai esserci il lieto fine assoluto perché non esiste; questo
ce lo dice anche Manzoni però almeno con lui emerge la fiducia nella Provvidenza che invece in
Verga è minima.

Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante
fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori
adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.

L’autore vuole eliminare la sua presenza dalla storia e per farlo deve studiare la storia e riuscire a
raccontarla senza passione. Non riuscire ad appassionarsi alla storia è impossibile però Verga vuole
raccontare la storia in maniera netta, con i colori adatti ( con lo stile adatto, con le parole
adatte). Per lui è importante che noi capiamo cosa è stato quello che lui ci vuole raccontare.
Nell’Ottocento c’era un enorme problema del come raccontare le storie: Manzoni passa anni a
riflettere sulla risciacquatura dei panni in Arno e su come trovare un italiano che fosse
comprensibile da Milano a Messina e che in quel momento non esisteva; allo stesso modo Verga
ha bisogno di qualcosa che sia comprensibile dalla Sicilia in su quindi scrive, tranne nelle parti in
cui inserisce insetti regionali, come scrive Manzoni. Alcuni linguisti hanno eseguito delle analisi
linguistiche sui Malavoglia e Mastro don Gesualdo e hanno trovato delle formule utilizzate da
Manzoni e che Verga ha inserito nei suoi romanzi.

MASTRO DON GESUALDO

 È un muratore, nato in una famiglia di muratori, che decide di migliorare la sua situazione per
essere un membro della società che conta della sua città;
 Non vuole essere più considerato uno che lavora con le mani ma vuole essere considerato come
uno che ha i soldi quindi cerca per tutta la vita di ottenere quel riconoscimento sociale che solo i
soldi riescono a dare nella mentalità dell’inizio del progresso di fine Ottocento;
 Nonostante lui riesca ad essere più ricco dei ricchi della sua città, essendo nato come muratore e
avendo lui le mani rovinate da una vita di lavoro sotto al sole, non riesce a migliorare la percezione
che gli altri hanno della sua persona;
 Si sposa con una specie di nobile decaduta, Bianca Trao, e spera chequesto matrimonio gli
permetta di entrare nella società che conta ma molto probabilmente la donna che ha sposato è
incinta di un altro uomo. Non ha interesse per Gesualdo, lo sposa solo perché la situazione
economica di lui aiuterà la famiglia di lei a risollevarsi, non riesce ad ottenere l’affetto di questa
donna che non gli darà mai nemmeno supporto, sostegno e il riconoscimento di cui ha bisogno.
 Alla fine della sua vita, dopo aver guadagnato tantissimo e collezionato tante proprietà (nell’ottica
di Mastro don Gesualdo il successo di una persona si misura in terre), ovvero la roba, riesce a far
sposare sua figlia con un nobile, quindi riesce ad ottenere un’altra ascensione sociale per questa
figlia (che poi sarebbe dovuta essere la protagonista della Duchessa di Leyra), un’ascensione
sociale ancora più grande perché i nipoti di un muratore sono nobili;
 Lui non riesce a prendere parte al successo sociale della figlia perché, quando alla fine della sua
vita va a trascorrere la fine dei suoi giorni a casa sua per essere assistito dato che ormai ha una
certa età, lei gli mette a disposizione tutta una serie di beni ma lui non si sentirà mai a suo agio;
 Mastro don Gesualdo inizia con il punto di vista di Gesualdo che viene accolto non proprio bene
nella casa della figlia.

Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorchè fu in casa della figliuola. Era un
palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi e tappeti che non si sapeva
dove mettere i piedi — sin dallo scalone di marmo — e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con
tanto di barba e di soprabitone, vi squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate
una faccia che non lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: — C’è lo stoino per pulirsi
le scarpe! —

Mastro don Gesualdo, quando arriva a casa della figlia che ha comprato con i suoi soldi e il suo
lavoro, gli sembra che persino il portiere sia superiore a lui a livello sociale; il portiere in realtà non
ha nulla ma è colui che decide chi entra e chi no nelle case dei nobili, dunque è colui che giudica
l’apparenza di chi sta per entrare in casa di un nobile e decide se sei degno o meno, per questo
Gesualdo si sente giudicato, per quanto sia più ricco e potente, sembra che lui sia in una situazione
di difetto e che il portiere sia quello che detta le regole.

Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri, che sbadigliavano a bocca chiusa, camminavano in


punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un passo di più, con tanta degnazione da
farvene passar la voglia. Ogni cosa regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa
cantata — per avere un bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca,
all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze.

Non capisce perché in questa casa ci siano queste regole così rigide per fare qualsiasi cosa: a
pranzo deve vestirsi elegante, non può bussare alla porta della figlia ed entrare ma deve chiedere
al servitore, non capisce la presenza di tutti quei servitori che non fanno nulla. Questo è il punto di
vista di Gesualdo, Verga ci sta trasmettendo quello che Gesualdo pensa, lui li vede come dei
mangiapane perché mangiano quello per cui lui ha lavorato tutta la vita. Lui non capisce tutto
questo, si sente estraneo e lo fa anche arrabbiare.

Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la figliuola, e s’era messo
in gala anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato, con un ronzìo nelle orecchie, le mani
esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette da tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i
bocconi dietro le spalle, e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento
e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e
scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi cadere qualche
cosa.

Lui non è a suo agio, quando deve pranzare con la figlia e il marito non capisce perché deve vestirsi
così elegante, non riesce a mangiare con questo camerieri che sono alle sue spalle e controllano
quello che lui mangia pronti a togliergli il piatto appena lui sembra depositare una posata, e queste
tovaglie bianchissime che lo fanno preoccupare di far cadere anche solo una briciola, si trova in
una situazione di estrema tensione e si sente inadeguato.
Questo sentimento è molto moderno, questo sentirsi in una situazione di disagio e
inappropriatezza, Verga ha colto una delle grandi novità della modernità nel momento in cui
cambiano le regole sociali, Gesualdo si sta scontrando con la generazione successiva alla sua, non
capisce perché i moderni si comportano in questo modo, e di conseguenza si sente inadatto.

Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, e dirle il fatto suo.

Lui ad un certo punto vorrebbe parlare con la figlia ed esprimersi sinceramente con lei ma non lo
sa fare.

Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e il
capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:
— Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue
ore, le sue abitudini... Poi, col regime speciale che richiede il suo stato di salute...
— Certo, certo, — balbettò don Gesualdo. — Stavo per dirvelo... Sarei più contento anch’io... Non
voglio essere d’incomodo...
— No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio.

Anche il duca è a disagio per la presenza di Gesualdo a tavola perché lo vede molto impacciato e
quindi vuole semplificare la sua vita e quella della sua famiglia isolando Gesualdo. Con la scusa del
regime speciale che richiede il suo status di salute a causa della sua vecchiaia e della sua malattia,
lo fa isolare nelle sue stanze. Gesualdo, un uomo che per tutta la vita non ha mai avuto esitazioni,
davanti ad una situazione del genere balbetta perché anche lui percepisce che, per quanto questa
sia oggettivamente una situazione di segregazione, è comunque la soluzione migliore per sentirsi
meno a disagio.

Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino; lo incoraggiava a
fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior cera, da che era arrivato a Palermo, e il
cambiamento d’aria e una buona cura l’avrebbero guarito del tutto.

Verga riporta le conversazioni tra Gesualdo e il genero attraverso il discorso indiretto libero, che ci
dà l’impressione di sentire delle persone che parlano, quando leggiamo queste righe immaginiamo
il gergo di Gesualdo, e il modo in cui Verga riporta il parlato con questo stile che è molto più fluido
ed efficace.

Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi giudizioso; cercava il modo e la maniera
d’avere il piacere di tenersi il suocero in casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a
rotta di collo... Una procura generale... una specie d’alter ego... Don Gesualdo si sentì morire il
sorriso in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, anche
quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che vi respingeva indietro, e vi
faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al collo, proprio come a un figlio, e
dirgli:
— Tè! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi!
Il genero è interessato agli averi di Gesualdo che già sono suoi perché andranno a sua moglie che
appunto è la figlia di Gesualdo. Vorrebbe che il suocero gli firmi una procura generale cioè una
autorizzazione che gli consenta di avere la gestione degli affari di Gesualdo. Per convincerlo gli dice
che lui, stando a Palermo a casa della figlia, rischia di perdere di vista i suoi affari. Finge di essere
accomodante con lui, di occuparsi dei suoi averi ma ovviamente il suo interesse è evidente e
Gesualdo lo capisce; è sempre un duca che sta parlando con un muratore e vuole che Gesualdo
percepisca che ci sia una differenza di classe che è sempre sottolineata dal duca.
“Bel bello” è come cammina don Abbondio,

Talchè don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero;
temeva sempre che ripigliasse l’antifona dell’alter ego. Gli mancava l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli
toccava chiedere quasi licenza al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la
sua figliuola, e scapparsene appena giungeva qualche visita.

La casa di sua figlia dovrebbe essere come casa sua e invece lui si sente a disagio perché gli sembra
che per essere ricevuto da sua figlia debba chiedere il permesso ai servitori; c’è sempre questa
percezione che i servitori siano in una posizione di superiorità rispetto alla sua perché sono vestiti
meglio e non hanno le mani di chi ha lavorato. Lui è talmente a disagio che, tutte le volte che
qualcuno va a vistare Isabella, si allontana per paura di poterla mettere in imbarazzo.

L’avevano collocato in un quartierino al pian di sopra poche stanze che chiamavano la foresteria,
dove Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a
sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere
davvero un forestiero.

Verga dice che Gesualdo si sente isolato dal resto della famiglia, ha avuto le sue piccole stanze e
uno spazio per sé ma questo viene percepito da lui come un isolamento rispetto alla vita della
casa. È vero che lsabella sembra amorevole e premurosa quando ogni mattina gli va a fare visita
ma in realtà questo è un ulteriore distacco; quando Verga dice “è vero” è sempre il punto di vista
di Gesualdo come se stesse cercando di convincersi che la figlia in qualche modo non lo sta
isolando e si sta occupando di lui.

Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa
ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a
genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un
orecchio: — Cos’hai?... dimmelo!... Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso
tradirti!...

Lui vorrebbe ritrovare un contatto con sua figlia, vorrebbe parlare con lei ed essere sincero,
chiederle apertamente di raccontargli cosa c’è che non va, lui che di guai ne ha passati tanti ed è
un uomo pratico del mondo, ma non ha il coraggio perché non ha confidenza con lei, non è
riuscito a creare con lei una relazione tale. La parola “guai” è fondamentale perché sono quelli che
funestano la vita della famiglia malavoglia e sono quelli che per tutta la vita sono stati parte
integrante di Mastro don Gesualdo, sembra che il Ciclo dei vinti sia in realtà una lunghissima
profila di guai che li portano ad esser vinti.
Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado anche della mamma,
quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso... accusando lo stomaco peloso dei Trao, che vi chiudevano il
rancore e la diffidenza, implacabili!

Questa figlia che viene descritta come una lumaca che si ritrae, viene assimilata da Gesualdo alla
famiglia della moglie, sia perché non è sicuro della sua paternità, sia perché lui ha sempre visto la
moglie come una persona estranea a sè, non una Motta ma una Trao, come se percepisse la figlia
come un membro della famiglia della moglie e non della sua. La figlia, fin da giovanissima, inizia a
firmarsi col cognome della madre, molto più adatto ad una situazione di giovani donne che sono in
collegio.
Gesualdo, che sembra così duro, abituato a sopportare le sofferenze sulle sue spalle, in realtà
dentro di sè racconta una sofferenza di non poco conto. Questa è una delle grandezze di Verga,
cioè attribuisce a questi personaggi così umili una dimensione psicologica che fino a quel punto
era inesistente per questo tipo di personaggi. Il fatto che Verga racconti la storia di un uomo che
raggiunge la sua ricchezza ma paga il prezzo di una forte sofferenza interiore è una enorme novità
rispetto ai romanzi dell’Ottocento.

Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse
grosse dentro, e tenersi per sè i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata, a veder
strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella corte vasta quanto una piazza.

A lui sembra tutto strano, passa il tempo soffrendo a vedere persone che per lui fanno cose senza
senso. Il cortile del palazzo dove vive la figlia è grande come una piazza, a lui sembra inutilmente
grande e pomposo tutto quello che ha a che fare con al vita della figlia.

Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano
delle chiacchiere e degli strambotti coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col
grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le
mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati
che sembravano togliersi allora una maschera.

Vede questi servitori e la sua impressione, di uomo che misura il suo tempo in denaro, è che loro
perdono tempo perché la figlia e il marito stanno pagando persone che non fanno nulla e poi
definisce i domestici come facce di mascalzoni ben rasi: tra di loro non c’è nessuna differenza, solo
che loro hanno il viso pulito, non hanno la barba, sono vestiti bene, c’è solo una differenza di
apparenza perché appena i padroni si distraggono, quello che fanno è solo chiacchierare, fare
rumore, distrarsi e non lavorare, quindi sono gli stessi mascalzoni che ci stanno nelle sue terre ma
sono solo ben vestiti, solo l’apparenza è diversa.

I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche
delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto
a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano
passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù
delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna.

Persino le donne che lavorano in questa casa sono descritte con delle apparenze angeliche,
sembrano le madonne dei quadri, ma poi si comportano come delle male femmine, delle donne
sguaiate. Come gli uomini sono solo dei mascalzoni vestiti bene, allo stesso modo le donne
sembrano delle madonne ma sono esattamente il contrario.

Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella
gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Àlia e su
Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col
desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di
bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva
fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro.

Gesualdo pensa a tutti i sacrifici che ha fatto, a quanto ha desiderato quelle terre, a quanto ha
sognato di potersele comprare, a quanto ha lavorato per poterlo fare, a quanto queste terre
rendono grazie al suo lavoro e quanto il frutto del suo lavoro venga adesso secondo lui sperperato.
Inizia a pensare dove andranno a finire i suoi averi, la sua roba, dopo che lui non ci sarà più.

La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto
difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata?

Gesualdo vorrebbe che la figlia sapesse quanto sforzo gli sono costate tutte quelle cose, quanto
tutti i suoi averi abbiano un significato per lui non solo di oggetti e di denaro che producono ma
proprio come affetto quasi sentimentale perché erano cose che lui desiderava, era il sogno della
sua vita avere tutto questo.

Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino
nella tasca del pastrano, fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il
Santissimo Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a
capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi alla sua vetrina, gli
stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata all’anca, il cocchiere
maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che
durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda

Quando il padrone esce di casa , dà un’occhiata veloce ai suoi servitori e alle sue cose ma si tratta
solo di una commedia, cioè tutto quello che i servitori fanno quando c’è il padrone è solo scena,
non c’è nulla di sostanza. Appena il padrone si allontana, i servitori ritornano a fare quello che
facevano prima, che è quello che poi Gesualdo osserva dalla sua finestra.

La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un’anima di
purgatorio. Arrivava di tanto in tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al
portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi
alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo, e dopo
dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo;

Racconta la vita del duca e della duchessa come una vita fatta di cose vuote, lui si preoccupa solo
di vedere quei cinque minuti come si comportano i servitori, e lei si preoccupa solo di ricevere le
visite, essere sempre pronta e in ordine. Invece lui pensa a tutto quello che si sarebbe potuto fare
con quello che ha a disposizione la figlia.
Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la
sollecitudine del suo antico mestiere, quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci,
gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e
inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo
però, senza dar frutto

Lui vede tutte quelle spese, tutti quei cavalli e servitori come qualcosa che consuma ma non dà
frutto mentre lui è abituato a considerare la terra e i suoi possedimenti come qualcosa che compri
e dà dei frutti.

Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa, quanto sudore
di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare... delle terre da
seminare, a perdita di vista... E un esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a
montagne, del denaro a fiumi da intascare!... Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che
schiamazzavano su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle
finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi, alle
belle mattinate che facevano fumare i solchi!... Oramai!... oramai!...

Gesualdo conclude i suoi giorni nel rimpianto di tutto quello che ha avuto. Tutto sommato gli è
piaciuta la sua vita però questo desiderio di migliorare la sua situazione lo ha condotto ad essere
solo un uomo che soffre in una situazione in cui è totalmente a disagio e gli manca, ora che è ricco,
lavorare, star sotto al sole, fare con le sue mani, e osservare tutta la nullafacente che c’è nella casa
della figlia per lui è inaccettabile e incomprensibile

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