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GIOVANNI VERGA (Sicilia 1840-1922)

Giovanni Verga si inserisce perfettamente nella corrente del Verismo, movimento caratterizzato da
un forte regionalismo. Infatti in ciascuna regione italiana prende sfaccettature differenti: per
questo possiamo considerare Verga come il più importante esponente del verismo siciliano.
Tuttavia, chiunque viva in un’isola sembra trovarsi in una realtà ristretta, per questo viaggiò e
frequentò salotti intellettuali e gli stessi scapigliati.
La sua formazione può essere divisa in due momenti: all’inizio conserva ancora dei caratteri tardo-
romantici più vicini alla realtà aristocratico-borghese, in generale alla vita mondana. (ad esempio
Eros, Storia di una capinera). La svolta sarà nel 1874 con il bozzetto di Nedda, dove emerge la
nostalgia della sua tranquilla Sicilia. Da qui avviene la sua conversione al verismo.
Verga nelle sue opere mira a rappresentare le magagne della società e la consapevolezza della crisi
della figura sociale della scrittura. Ma in che modo vuole farlo? In un modo impersonale, quasi
come se l’opera si facesse da sé: in alcun modo il poeta deve lasciare tracce in modo che il lettore
si trovi faccia a faccia con la realtà, senza alcun intermediario.

Da NOVELLE RUSTICANE:
L’ambientazione dell’intera raccolta ruota intorno alla campagna siciliana, ma non vengono più
esaltati i sentimenti puri ed essenziali della classe contadina. All’interno della raccolta novelle
rusticane del 1883, la società contadina appare integralmente corrotta dai meccanismi
dell’economia, ed è raffigurata come teatro di feroci ed inutili scontri sociali.

“La Roba”
La novella “la roba” rappresenta le frenetiche e umanamente fallimentari accumulazioni di
ricchezze, troviamo infatti l’ascesa sociale e la tragedia personale di un contadino arricchitosi fino
a estendere i propri possedimenti a gran parte delle terre a sud di Catania.
La novella si apre con un’ampia descrizione del paesaggio sovrabbondante di “cose”, tutte di
proprietà di Mazzarò, che viene introdotto e presentato dal punto di vista del narratore popolare.
Il viandante percorrendole aveva l’impressione che le proprietà del protagonista si espandessero a
dismisura fino ad acquisire una dimensione mitica. Successivamente è descritta l’inarrestabile
scalata sociale di Mazzarò grazie alle sue doti. Una scalata sociale che gli ha permesso l’accumulo
di beni, ma che ha precluso qualsiasi tipo di rapporto sociale o familiare: chiunque poteva
rappresentare una minaccia per i suoi beni, quindi la soluzione più giusta era privarsi di ogni
rapporto e continuare il suo spropositato culto delle ricchezze.
Il punto culminante della novella giunge quando Mazzarò tenta di uccidere a colpi di bastone le
anatre e i tacchini per portarsi con sé nella morte la roba che ha accumulato con tanti sacrifici.
Insomma, Mazzarò totalmente schiavizzato dalla legge del continuo accumulo non riesce a
capacitarsi di non poterla portare con sé, perché la religione della roba non può nulla contro il
sopraggiungere della morte. Eppure Mazzarò, anche di fronte alla morte resta uguale a sé stesso
senza alcun ripensamento, continua ad amare solo la roba, a desiderarne altra e addebita
all’ingiustizia di Dio il dolore che prova nel separarsene.
Nelle sue scelte lessicali, Verga utilizza un linguaggio parlato che fa riferimento ad animali e
proverbi. In questa novella l’uomo è vittima di un destino implacabile che non dà mai tregua alla
sofferenza. Mazzarò è il protagonista assoluto della novella, che si inserisce a pieno titolo
nel filone verista e mostra in tutto il racconto un fondo di pessimismo - l’uomo è sempre vittima
del destino e non può cambiarlo continuando a soffrire. L’autore (come in tutte le novelle veriste)
rappresenta la realtà in modo oggettivo, senza commentarla o interpretarla; nell’opera deve
emergere solo il fatto, così come lo vive il protagonista.

Da VITA DEI CAMPI


La raccolta vita dei campi del 1880 comprende tutte novelle di ambiente popolare siciliano. Dalle
storie narrate emerge una visione problematica del mondo popolare, ora idealizzato come luogo
della solidarietà e dei valori morali; ora raffigurato sotto il dominio di meccanismi sociali disumani,
di emarginazione e trasgressioni pagate con la morte.

“Fantasticheria”
La novella fantasticheria centra la sua attenzione sul mondo rurale siciliano. Il narratore racconta
di un viaggio ad Aci Trezza, villaggio di pesatori in provincia di Catania in compagnia di una giovane
signora dell’alta società.
La novella è concepita come una sorta di lettera, scritta da un protagonista maschile, dietro cui
pare intravedersi l’autore reale, ad una figura femminile dall’estrazione sociale alto-borghese. I
due, probabilmente legati da un rapporto sentimentale (come pare di intuire tra le righe del
testo), trascorrono un breve periodo ad Aci Trezza. Subito si percepisce la distanza tra la ricca e
benestante protagonista e l’ambiente che la circonda.
La questione in gioco è insomma quella della differente maniera con cui i due personaggi
osservano e giudicano la realtà rurale ed arcaica del paesino siciliano. Da un lato, l’atteggiamento
superficiale e quasi snobistico della donna, che nel corso di una breve vacanza cerca qualcosa di
divertente e di folklorico, cadendo involontariamente nel ridicolo. Dall’altro, la percezione da
parte di chi scrive della radicale distanza tra sé e questo mondo primitivo, che necessita di uno
sforzo notevole per essere compreso e capito a fondo, senza maschere e mistificazioni.
I temi che si possono notare, oltre alla contrapposizione tra mondo salottiero e società rurale sono
il collegamento tra la situazione di miseria dei pescatori e l’autenticità dei loro sentimenti miti,
semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione e la definizione del
mondo esterno al paese come pesce vorace pronto a ingoiare quanti si staccano dal grembo
protettivo della comunità sotto la spinta della vaghezza dell’ignoto e della brama del meglio.
L’intento è quello di comprendere l’istinto che hanno i piccoli a stringersi fra loro per resistere alle
tempeste della vita. Si spiega così l’ironia sarcastica contro le vanità e i disvalori della classe
borghese, cui contrappone quell’“ideale dell’ostrica” che costituisce la miglior sintesi della
caparbia mentalità popolare, che per Verga costituisce un prezioso lascito di valori essenziali. Solo
vivendo ancorati allo scoglio dove il destino li ha collocati, gli abitanti di Aci Trezza possono
sperare di salvarsi nella lotta per la sopravvivenza, e sfuggire al “dramma” che il vedrà sempre
sconfitti. Ne scaturisce un postulato essenziale: lo scrittore che si propone di rappresentare gli
strati subalterni della società non deve considerarli “dall’alto”, attraverso le sue categorie di
intellettuale borghese, ma deve spogliarsi della sua mentalità per mettersi a livello dei suoi
personaggi.
Da I MALAVOGLIA
Fin dal primo abbozzo del suo progetto, Verga si propone di dipingere una specie di lotta per la
vita. Il cammino della storia è frutto di una continua lotta per la sopravvivenza e il benessere
basata sulla legge naturale della prevalenza del più forte. Per questo Verga rivolge l’attenzione alle
vicende dei vinti, e lo fa analizzando personaggi di diversa estrazione sociale. I primi sono i
Malavoglia, travolti dal vortice del progresso.
Malavoglia è il soprannome dei Toscano, una famiglia di pescatori di Aci Trezza. Capofamiglia è il
vecchio padron 'Ntoni. Con lui nella casa del "nespolo" vivono il figlio Bastianazzo con la moglie
Marezza detta la "Longa" e i loro cinque figli 'Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia.
Il giovane 'Ntoni parte per il servizio militare e la famiglia perde uno dei maggiori sostegni. Per
questo il vecchio 'Ntoni decide di prendere a credito una partita di lupini che conta di rivendere al
mercato di Riposto. Durante il viaggio per mare la "Provvidenza", la barca dei Malavoglia,
naufraga: il carico si perde, Bastianazzo muore. Padron 'Ntoni pressato dai debiti è costretto a
vendere la casa del "nespolo".
Una serie di sventure si abbatte sui Malavoglia troncando ogni speranza di riscatto.
Luca arruolatosi muore nella battaglia di Lissa, seguito poco dopo da Maruzza vittima di
un'epidemia di colera. L'inquieto 'Ntoni si dà al contrabbando e viene arrestato. Lia, compromessa
per una presunta relazione col brigadiere don Michele, lascia il paese e diventa una prostituta.
Mena per le difficoltà familiari non può sposare compare Alfio e triste e sfiorita invecchia
precocemente.
Alla morte del vecchio 'Ntoni, che si spegne solo e disperato in un letto d'ospedale, il suo posto
viene preso da Alessi, che dopo aver sposato la Nunziata, riscatta la casa del "nespolo" e riprende
l'attività del nonno.
Una notte, scontata la pena, torna 'Ntoni, ma solo per dare l'addio definitivo a una vita che non gli
appartiene più.

“Come le dita della mano” (accennare alla trama sopra)


Il romanzo inizia con la presentazione di componenti della famiglia dei Malavoglia e la descrizione
delle coordinate spazio-temporali. Le località e gli altri riferimenti spaziali non sono descritti e
contestualizzati, ma criticati come se il lettore fosse un abitante del luogo, che li conosce per
esperienza diretta. Gli orizzonti e i personaggi sono chiusi in questo piccolo mondo, e il lettore vi si
trova bruscamente immerso fin dalla prima riga. (qui si potrebbe fare un’allusione alla descrizione
del paesaggio di Manzoni nei promessi sposi, ma non so quanto convenga).
Su questo sfondo sono presentati i Malavoglia, collocati nel contesto della gerarchia sociale del
paese: proprietari della casa e padroni della barca. Anche loro all’inizio sono dati per conosciuti al
lettore, ma poi vengono presentati in un ordine gerarchico che sottolinea la struttura patriarcale
della famiglia: ciascuno è individuato con un nome un soprannome e con l’indicazione di una
caratteristica espressa attraverso un proverbio o dicerie del paese.
Nei Malavoglia le tecniche narrative per raggiungere l’ideale stilistico dell’opera d’arte che sembra
essersi fatta da sé sono utilizzate nel modo più coerente e radicale. L’intellettuale borghese Verga,
con il suo linguaggio e i suoi riferimenti culturali, scompare e la narrazione è filtrata attraverso la
voce di un narratore che appartiene al microcosmo di Aci Trezza e ne condivide la cultura, i giudizi,
gli atteggiamenti: non c’è differenza tra la sua mentalità e quella dei personaggi e quando
interviene con valutazioni e commenti, questi sono in linea con il modo di pensare e di esprimersi
alla comunità paesana.

“Ora è tempo di andarsene”


Sono le ultime pagine del romanzo. Dopo la morte di Padron Ntoni, Alessi, il più giovane dei nipoti,
è riuscito a riscattare la casa del nespolo: il focolare domestico, simbolo dei sentimenti
disinteressati in conflitto con la logica spietata dell’interesse e dell’economia, è stato ricostruito e
apparentemente ogni cosa è al suo posto come prima. Ma è una ricostruzione pagata a caro
prezzo: il nonno è morto e la famiglia è quasi completamente smembrata.
Ma tra tutti i personaggi il più sconfitto è Ntoni, che rappresenta nella famiglia l’elemento
irrequieto, stanco delle fatiche e delle rinunce, che si è allontanato da casa e si è tagliato fuori dal
tessuto di valori e di affetti che si è lasciato alle spalle. Il suo desiderio di benessere e di evasione lo
ha condannato allo sradicamento dal microcosmo del paese e della famiglia: un mondo del quale
solo ora riesce a riconoscere la validità morale e sentimentale. Una notte si presenta a casa ‘Ntoni,
da poco uscito dal carcere, Alessi gli propone di restare ma ‘Ntoni sceglie amaramente di
andarsene prima del sorgere del sole. Non si sentiva più parte di quella realtà, aveva tralasciato la
percezione dell’inviolabilità della famiglia, le voci delle persone si sarebbero fatte sentire con il suo
ritorno. Questo punto di arrivo è la prova della sconfitta di ‘Ntoni. Ma nel confessare la sua
sconfitta, nell’ammettere che ora sa, ‘Ntoni rievoca con rapidi e intensissimi accenti il passato, le
sere di una volta, i volti di coloro che non ci sono più: e in tal modo nel capitolo confluiscono
motivi dei capitoli precedenti, vengono richiamate situazioni e vicende anteriori. Il presente, così,
si lega al passato.
Nel capitolo, infatti, c’è un continuo ripetersi di continuità e mutamento: da un lato il ripetersi
delle attività e delle abitudini di sempre, scandite dalla ciclicità dei fenomeni naturali; dall’altro il
cambiamento interiore di Ntoni e la sua decisione di andarsene verso il futuro incerto di chi si è
strappato dalle sue radici. La storia si conclude con una frase decontestualizzata “Ma il primo di
tutti a cominciar la sua giornata è Rocco Spatu”. In questo modo forse Verga vuole staccarsi dal
lettore in modo brusco così come oi ha introdotti nel romanzo, una specie di congedo. Ma vuole
anche sottolineare il fatto che Rocco Spatu, pur essendo un poco di buono ha un suo posto nella
vita del paese, mentre lui stesso ne è inesorabilmente tagliato fuori.
Possiamo sicuramente considerare il giovane Ntoni come un vinto: il disonore del carcere, il senso
di colpa verso i familiari ormai morti che egli ha fatto soffrire e la sua estraneità al paese lo
condannano a un giudizio negativo. Ma in realtà può anche essere considerato un eroe della
modernità: un uomo che ha sofferto e che vive con il senso di colpa, ma anche un uomo che ha
saputo guardare al di là della ristretta ottica del paesello e che sente il richiamo alla modernità,
con tutto ciò che di incerto e di pericoloso essa comporta.
Da MASTRO DON GESUALDO
Mastro Don Gesualdo è il secondo romanzo del ciclo dei vinti. Ambientato su uno sfondo
borghese, subentra l’avidità di ricchezze. Mastro Don Gesualdo riesce ad emanciparsi dalla miseria
nella quale è nato, passando dalla condizione di bracciante agricolo (mastro) a quella di
imprenditore e proprietario terriero (don). Ma anche lui è un vinto: la scalata vittoriosa verso la
ricchezza e l’affermazione sociale non lo conducono alla felicità ma alla solitudine e al fallimento
sul piano degli affetti umani. (tematica già vista ne “La roba”).

“Morte di mastro-don Gesualdo”


Gravemente ammalato, Gesualdo viene condotto a Palermo dal genero, un nobile spiantato che
sta sperando l’immensa fortuna accumulata dal suocero, per essere curato dai migliori medici. In
realtà la medicina non può fare nulla per lui, la figlia lo trascura e lo affida a servi negligenti. Il
protagonista si sente a disagio nel palazzo e soffre per la solitudine. Gesualdo in punto di morte si
preoccupa di salvare la roba, ma è anche preso da sentimenti più disinteressati: l’amore per la
figlia, per la contadina Diodata e per i figli avuti da lei.
Riconosciamo tre momenti:
 Gesualdo ammalato nel palazzo del genero e della figlia a Palermo
 Gesualdo che prende coscienza della gravità della sua malattia e del fallimento della sua
vita
 La morte vera e propria di Gesualdo
Nel primo momento la narrazione avviene secondo il punto di vista di mastro-don Gesualdo che
nel palazzo del genero si accorge dell’improduttività della vita aristocratica e dello sperpero della
ricchezza: a nulla è valso accumularla, se ne viene fatto un simile scempio. Gesualdo vede
consumarsi il suo patrimonio proprio come lui stesso viene consumato dalla sua malattia.
Gesualdo nota poi l’ipocrisia e l’ingordigia del genero, che dietro l’apparenza affettuosa, vuole una
delega per poter amministrare il patrimonio di Gesualdo. Già nella prima macro-sequenza
emergono i temi dominanti l’intero capitolo: la solitudine e l’incomunicabilità, oltre all'isolamento
fisico e psicologico del protagonista.
In un secondo momento Il primo tipo di incomunicabilità che emerge è quella con i dottori che lo
curano ma, al tempo stesso, lo disprezzano, poiché ritengono degradante soddisfare le richieste di
un ex manovale. Ma anche sua figlia Isabella, con lei vorrebbe instaurare un rapporto affettivo
autentico, ma Isabella è chiusa nel rancore. Si vergogna, inoltre, della sua estrazione popolare. La
donna, proprio come il marito, apparentemente gentile e premurosa, in realtà indifferente al
dramma del padre. La distanza affettiva tra padre e figlia si evidenzia anche nel fallimento del
tentativo di Gesualdo, ormai consapevole di morire, di trasmettere ad Isabella il senso di possesso
per i suoi beni.
Quando è arrivato ormai alla fine, Gesualdo è lasciato solo, più sopportato che accudito. La
conclusione è affidata a don Leopoldo, del tutto insofferente all'accudimento di quello che ritiene
un uomo suo pari, forse addirittura inferiore: Pazienza servire quelli che sono nati meglio di noi...
Mastro-don Gesualdo è per gli umili un traditore della loro classe, e per questo disprezzato. Ma
allo stesso modo non è accettato dai nobili, perché nato umile.

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