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STANZE PER LA GIOSTRA DI

GIULIANO DE'MEDICI
Letteratura Italiana
Università degli Studi di Salerno
43 pag.

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STANZE PER LA GIOSTRA DI GIULIANO
DE’MEDICI.

Il ‘400 si identifica dal punto di vista culturale con la stagione


dell’Umanesimo: stagione che la sue premesse nel ‘300 e nell’attività
filologico nel circolo padovano e nell’attività filologica di Petrarca, ma che
matura nel corso del XV secolo. L’Umanesimo italiano assume
sfaccettature diverse in anche al contesto geografico di riferimento.
L’Umanesimo fiorentino ha delle caratteristiche tutte sue rispetto a quello
aragonese e ferrarese. L’Umanesimo fiorentino si suddivide in civile e
laurenziano. Quello civile si fa coincidere con gli ultimi anni del ‘300 e la
metà del ‘400 ed è il periodo in cui Firenze diventa protagonista di un
momento in cui la lingua e la produzione latina predominano, rispetto alla
lingua e alla produzione volgare. Si assiste a un forte legame tra
elaborazione culturale e impegno politico. I principali protagonisti di
questo momento culturale, non sono soltanto degli intellettuali, ma sono
anche dei cancellieri della repubblica. Il primo ‘400 a Firenze è segnato da
un aumento di una letteratura in prosa e di stampo trattatistico. Nasce la
storiografia, l’epistolografia. I modelli classici recuperati da questa prima
fase dell’Umanesimo, sono tutti funzionali alla creazione di un’ ideale di
vita attiva. Tutto questo scompare nella fase laurenziana, successiva al
crollo della repubblica fiorentina e con l’insediamento dei Medici, signori
di Firenze. La cultura umanistica, con l’avvento dei medici, diventa
estranea a cause politiche e sociali. I luoghi di cultura si riducono alle
scuole e alle accademie e al cenacolo di artisti e letterati che si riuniscono
attorno a Firenze.
Agnolo Poliziano rappresenta alla perfezione questo nuovo mondo.
Francesco De Santis fu un critico letterario campano, autore di un’opera
in cui definisce Poliziano come l’umanista professore, figura lontana
quindi da quella che dominava l’Umanesimo civile. Poliziano è legato
politicamente con Lorenzo de’Medici, non entrò ami in contrasto con il
signore, ma in genere con la famiglia del padrone e riuscì a gestire la
cattedra di Lorenzo de’Medici.

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L’epistolario di poliziano è indicativo del cambiamento che è avvenuto a
Firenze. L’epistola dell’Umanista ‘400, è un trattato due o più voci
concorrano nella ricerca della verità. Nell’epistolario di Poliziano troviamo
un numero selezionato di destinatari, che si scambiano elogi, complimenti,
ma anche critiche, ma non viene toccata alcuna questione di carattere
collettivo.

Le Stanze per la giostra di Giuliano de’Medici è un’opera che inserisce a


pieno titolo nell’epoca dell’Umanesimo. Le stanze sono uno dei primi
documenti in volgare di Poliziano, che aveva alle spalle la traduzione del
terzo libro dell’Iliade (traduzione dal greco al latino, traduzione da una
lingua morta a un’altra in esametri) e alcuni epigrammi in latino e in greco.
Vennero concepite dopo il 29 gennaio 1475, giorno in cui si tenne la
giostra vinta da Giuliano de’Medici. Quel giorno si festeggiava un accordo
diplomatico tra Firenze, Milano e Venezia.
Le stanze sono le ottave, componimento in versi. Le giostre sono dei tornei
militari, organizzati in celebrazioni di vario tipo. È un componimento
encomiastico, che celebra il torneo militare vinto da Giuliano de’Medici.
La redazione dell’opera fu circa di tre anni, infatti vediamo che nel 1478 ,
Poliziano, interrompe la redazione delle stanze, poiché Giuliano de’Medici
viene ucciso durante la “congiura dei pazzi”, congiura fatta per eliminare
i signori di Firenze. Nella congiura rimase ferito anche Lorenzo de’Medici.
Dopo l’uccisione di Giuliano, venne meno la ragione alla base del lavoro
di stesura.
Nel 1478 aveva composto sia il primo che il secondo libro, composto non
prima dell’aprile del 1476, anno in cui muore Simonetta Cattaneo,
protagonista femminile delle Stanza. In definitiva, la redazione non
avvenne prima del 29 gennaio 1475, data in cui venne disputato il torneo
di Giuliano.
Interrompe la stesura alla 46 stanza del secondo libro. Incompletezza
dell’opera che non ci consente di sapere quanti libri avesse progettato
Poliziano. Incompletezza che è alla base della ridotta circolazione di
questo manoscritto.

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Ad oggi le uniche stampe di Poliziano censite sono la bolognese del 1494,
che venne autorizzata senza il consenso dell’autore, dalla quale derivano b
ben due edizioni, una veneziana del 1526 e un’altra sempre veneziana del
1541, stampata da Aldo Manuzzio, umanista veneziano, dedito all’attività
di stampatore.
L’incompletezza dell’opera rende difficile stabilire le varie fasi
redazionali, ammesso che ve siano diverse. Ad oggi vi sono solo due
teorie: la prima sostenuta da Mario Martelli, critico letterario molto noto
sugli studi della poesia giocosa che ritiene che la composizione delle
stanze sia avvenuta dopo il 1475 e avrebbe previsto la composizione di un
solo libro. Poiché le stanze non sono l’unico esempio di celebrazioni in
ottava rima di un torneo militare, abbiamo diversi esempi composti da un
solo libro. In poche parole Martelli dice che Poliziano voleva inserirsi
all’interno di un genere specifico, quello del poema in ottave, celebrativo
di un’impresa militare, perciò dovrebbe essersi adeguato alla forma di quel
genere, che impone non più di un libro.
Diversa è la tesi di Guglielmo Gorni, storico e critico, che nel 1975, in un
suo saggio propose un’ipotesi ricostruttiva dei tempi di composizione delle
Stanze. Il punto di partenza del suo saggio è un manoscritto, conservatore
presso la biblioteca Riccardiana di Firenze, alla segnatura 1576. La
segnatura indica la posizione del manoscritto sullo scaffale.
Il codice è diviso in due parti: nella prima parte si trovano un
volgarizzamento delle Metamorfosi di Ovidio, mentre nella seconda parte
si legge il primo testo dei libri delle Stanze. Il copista del manoscritto
lascia una firma, e si denomina come Antonio di Tuccio Manetti. Gorni
dice che questo manoscritto è molto particolare perché il copista lo
trascrive adottando una scrittura mercantesca, semplice, come se stesse
copiando non in bella, la cosa meraviglia, perché i copisti di Poliziano
sono attenti a elaborare volumi molto più curati. In base a una serie di
elementi, Gorni arriva a datare il lavoro di copia di Manetti tra il 1475-
1478, e lo fa per due motivi: le filigrane (ci permettono di datare le carte
che lo compongono e ci permettono di risalire alla cartiera che le ha
prodotte), il secondo è una lettera inviata da Poliziano a Lorenzo
de’Medici, il 18 ottobre del 1378.

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La lettera è datata 23 ottobre 1478. I libri oggetto di scambio tra i due,
secondo Gorni vi sarebbe una copia delle Stanze che Poliziano avrebbe
messo a disposizione di Manetti per ricavarne una copia. Questo codice
riccardiano, secondo lo studioso, restituirebbe una copia che Manetti
avrebbe tratto dalle carte personali di Poliziano, in anni in cui la
composizione dell’opera poteva dirsi in stato avanzato. Gorni rivela che la
versione del testo, trasmessa dal codice riccardiano, differisce in più punti
d quella trasmessa da altri codici. Poliziano avrebbe concluso la stesura
delle Stanze poco prima del 1478 e avrebbe permesso ad Antonio Manetti
di farne una copia, in un secondo momento l’autore sarebbe tornato sulla
opera per proseguire la narrazione per un secondo e ultimo libro e per fare
delle modifiche al primo.
Il manoscritto riccardiano, secondo Gorni, presenta una veste piuttosto
economica, una scrittura poco elegante, elementi che sembrano garantire
che Manetti traesse il testo non dalla versione definitiva, ma da una copia
ancora in allestimento. La versione definitiva andrebbe indentificata in
quella stampa bolognese.
Intorno al 1478, quando Manetti trascrisse l’opera di Poliziano, ancora non
esisteva in secondo libro, ma la seconda parte era ancora in fase di
elaborazione. Durante gli anni 80 degli ‘400, Poliziano ritorna sull’opera e
apporta delle modifiche al primo, e avvia la stesura del secondo. Infine nel
1494, le Stanza sono stampate incomplete nella loro ultima redazione, che
potrebbe essere stata non consentita dall’autore.

Le prime sette Stanze del primo libro, hanno carattere proemiale. La


prima stanza è di carattere propositivo, l’autore espone in sintesi la materia
della trattazione.

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PRIMO LIBRO, PRIMA STANZA.
1
Le gloriose pompe e’ fieri ludi
della città che ‘l freno allenta e stringe
a magnanimi Toshi, e i regni crudi
di quella dea che ‘l terzo ciel dipinge,
e i premi degni alli onorati studi,
la mente audace a celebrar mi spinge,
sì che i gran nomi a fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.

Le cerimonie gloriose e i combattimenti d’armi della città che allenta e


tira il freno ai magnanimi toscani (si riferisce alla città di Firenze) e i
regni crudeli, che di quella dea decora il terzo cielo (si riferisce alla dea
Venere) e i premi degni a studi amorosi la mente audace mi spinge a
celebrare, in maniera tale che i grandi nomi e le azioni egregie e uniche,
la fortuna, la morte o il tempo non le rubino.
Fieri: crudeli;
Fieri rudi: gare, combattimenti;

Questa prima ottava ci dice che il tema che il tema della trattazione
saranno la gesta d’armi, fatte da grandi personaggi che l’autore decide di
narrare per immortalarli. Le stanze due e tre sono invocazione all’amore:

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PRIMO LIBRO, SECONDA
STANZA:
2

O bello idio ch’al cor per gli occhi inspiri


dolce disir d’amaro pensier pieno,
e pasciti di pianto e di sospiri,
nudrisci l’alme d’un dolce veleno,

gentil fai divenir ciò che tu miri,


né può star cosa vil drento al suo seno;
Amor, dal quale i’ son sempre suggetto,
porgi or la mano al mio basso intelletto.

O bello iddio, che trasmetti al cuore attraverso gli occhi un dolce


desiderio pieno di amarezza e ti nutri di pianto e di sospiro, e nutri le
anime di un dolce veleno, fai diventare nobile ciò che tu miri, né è
possibile che dentro di te alberghi qualcosa di vile; Amore (si riferisce a
Cupido) del quale io sono sempre servo aiutami in questa impresa
letteraria (richiesat di aiuto da Poliziano a Cupido) sostieni tu il peso che
grava

Per: moto per luogo;

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L’alme d’un dolce veleno: topos diffuso nella poesia erotica, d’amore
italiana tra ‘200 e ‘400;

PRIMO LIBRO, TERZA STANZA.


3
Sostien tu el fascio ch’a me tanto pesa,
reggi la lingua, Amor, reggi la mano;
tu principio, tu fin dell’alta impresa,
tuo fia l’onor, s’io già non prego invano;
di’, signor, con che lacci da te presa
fu l’alta mente del baron toscano
più gioven figlio della etrusca Leda,
che reti furno ordite a tanta preda.

Sostieni tu il peso che grava su di me, reggi la mano, tu che sei l’inizio e
la fine dell’alta impresa, tua sarà se io già non prego invano tu mi
aiuterai in questa impresa e tuo sarà l’onore di questa impresa stessa;
dici, signore, con quali lacci hai acciuffato la mente di Giuliano de’Medici
il più giovane della etrusca Leda con quali reti furono tessute per
accapararsi una preda così grande.

Fia: sarà, fut. Sempl. Di essere;


Baron toscano: appellativo di barone, dato anche ai santi;
Etrusca Leda: madre di Giuliano e Lorenzo de’Medici. Leda è un
personaggio mitologico, ed è la madre dei dioscuri, Castore e Polluce,

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figli di Leda e Giove, noti per essere abili nella attività fisiche. Castore è
un cavaliere, Polluce un combattente;

Segue poi la dedica a Lorenzo de’Medici. Il protagonista delle giostre a


Giuliano, però il dedicatario dell’opera è Lorenzo, capo della signoria
fiorentina e il capo della cerchia di intellettuali.

PRIMO LIBRO, QUARTA STANZA.


4
E tu, ben nato Laur, sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa,
né teme i venti o ‘l minacciar del celo
o Giove irato in vista più crucciosa,
accogli all’ombra del tuo santo stelo
la voce umil, tremante e paurosa;
o causa, o fin di tutte le mie voglie,
che sol vivon d’odor delle tue foglie.

Ma tu, ben nato Laur (è Lorenzo), sotto il cui velo Firenze riposa in età e
in pace, né teme i venti o le minacce dal cielo né l’ira di Giove
nell’aspetto più aggressivo, accogli alla tua ombra (vi è il paragone tra
Lorenzo e l’albero di alloro, paragone petrarchesco), accogli all’ombra del
tuo santo stelo la voce umile, tremante e paurosa; (si riferisce alla voce
dell’autore) tu che sei l’origine e la meta finale di tutti i miei desideri che
mirano ad ottenere la consacrazione poetica.

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PRIMO LIBRO, QUINTA STANZA.
5
Deh, sarà mai che con più alte note,
se non contasti al mio volar fortuna,
lo spirito della membra, che devote
ti fuor da’ fati insin già dalla cuna,
risuoni te dai Numidi a Boote,
dagl’Indi al mar che ‘l nostro cielo
imbruna,
e posto il nido in tuo felice ligno,
di roco augel diventi un bianco cigno?

Accadrà mai che con note più alte (cioè con un’opera particolarmente
impegnativa) se la fortuna non contrasta al mio volare (non contrasta la
mia opera poetica) il mio spirito (spirito che muove l’anima e il corpo), la
mia anima che il destino volle ti fosse devota fin da che ero bambino canti
il tuo nome, dai Numidi a Boote, dagli indi al mare, che il nostro cielo
imbruna, (?) e fatto il nido nel tuo legno felice , da uccello incapace di
cantare diventi io un bianco cigno?

Poliziano qui sta dicendo, io ti sono stato devoto fin dalla culla, il mio
canto è dedicato a te, e gli chiede se sarà mai possibile che per il tema del
trattazione e la dedica a te siano sufficienti a rendermi da “roco augel” a
bianco cigno.

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PRIMO LIBRO, SESTA STANZA.
6
Ma fin ch’all’alta impresa tremo e
bramo,
e son tarpati i vanni al mio disio,
lo glorioso tuo fratel cantiamo,
che di nuovo trofeo rende giulio
il chiaro sangue e di secondo ramo:
convien ch’i’ sudi in questa polver io.
Or muovi prima tu mie’ versi, Amore,
ch’ad alto volo impenni ogni vil core.

Ma fin tanto che io tremo all’idea di dedicarmi a un’impresa del genere e


sono tarpate le ali al mio disio, canto io il tuo (cioè di cantare Giuliano)
glorioso fratello che rende gioioso con un nuovo trofeo (il nuovo trofeo
sarebbe la vittoria militare) il celebre sangue e di secondo ramo (?): è
necessario che io sudi in questa polvere (Poliziano dice che è necessario
che si imbatta in questa impresa).
NON COMPLETA! SI FERMA A “CH’IO SUDI IN QUESTA
POLVER IO.”
Poliziano ha dedicato l’opera a Lorenzo, gli dice che vorrebbe cantare la
sua impresa, ma teme di non esserne in grado, e nell’attesa di avere gli
strumenti adatti per celebrarlo, si dedica a un tema minore: la celebrazione
della vittoria militare del fratello

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Chiaro sangue: “chiaro”, nel senso di “clarus”, alla latina, cioè di illustre,
celebre. Fa quindi riferimento al sangue dei Medici.

PRIMO LIBRO, SETTIMA STANZA.


7
E se qua su la fama el ver rimbomba,
che la figlia di Leda, o sacro Achille,
poi che ‘l corpo lasciasti intro la tomba ,
t’accenda ancor d’amorose faville,
lascia tacere un po' tuo maggior tromba
ch’i’ fo squillar per l’italiche ville,
e tempra tu la cetra a nuovi carmi,
mentr’io canto l’amor di Iulo e l’armi.

Poliziano fa finta in questa stanza di rivolgersi ad Achille, l’eroe greco, e


gli chiede il permesso di interrompere la traduzione dell’Iliade per
dedicarsi a questa nuova avventura.

E se quassù (sulla Terra) la fama riporta la verità, che la figlia di Leda (la
figlia di Leda è Elena di Troia, moglie di Menelao, donna rapida da
Paride) che Elena, accese d’amore Achille al punto tale che brucia ancora
d’amore dopo esser morto(I versi alludono qui a una particolare versione
del mito di Elena, secondo la quale Achille avrebbe sposato Elena, perché
acceso di amore) lascia tacere un po' Omero che io faccio squillare tra le
città italiane (Poliziano qui fa riferimento alla traduzione dell’Iliade che
stava svolgendo, si riferisce quindi qui all’interruzione di questo lavoro)
regola tu la cetra per nuovi canti mentre io mi dedico alla celebrazione in
poesia dell’amore di Iulo e le armi.

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Lascia tacere un po' la maggior tromba ch’i fo squillar per l’italiche ville:
la maggior tromba rappresenta Omero, autore dell’Iliade.

A questo punto ha inizio la narrazione vera e propria: Iulo è un abile


cacciatore ed è sprezzante nella passione amorosa. Infatti le stanze 13-21,
sono dedicata a un’aspra invettiva che sembra sia stata pronunciata da Iulo
contro Amore. È questa un’altra delle caratteristiche della letteratura ‘200
e del ‘400. L’idea per cui l’attività della caccia si accompagni alla
pudicizia e al rifiuto del sentimento amoroso.

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PRIMO LIBRO, TREDICESIMA
STANZA.
13
“Scuoti, meschin, del petto il ceco errore,
ch’a te stessi te fura, al altrui porge;
no nudrir di lusinghe un van furore,
che di pigra lascivia e d’ozio sorge,
Costui che ‘l vulgo errante chiama Amor
È dolce insania a chi più acuto scorge:
sì bel titol d’Amore ha dato il mondo
a una ceca peste, a un mal giocondo.

In questa stanza, Giuliano si scaglia contro Amore. Di preciso egli non si


rivolge ad Amore, ma ad un’amante deluso e abbandonato che piange un
abbandono. Giuliano anziché consolarlo gli spiega cos’è veramente
Amore.

“Meschino, scuoti dal petto il ceco errore, (qui abbiamo una connotazione
petrarchesca, cioè dell’amore inteso come errore. Questo amore inteso
come errore lo ritroviamo nel “Canzoniere”) che ruba te a te stesso e dona
te stesso ad un altro; non nutrire questo ceco errore che sorge di pigra
lussuria e di ozio. Costui che il popolo errante (?) chiama amore è in una
malattia dolce a chi ha vista più acuta (cioè chi riesce a vedere capisce

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subito che è una malattia) il mondo ha dato il bel nome d’Amore a una
ceca peste, a un malessere che sembra dare gioia.

A te stessi te fura: è un riferimento al “Vindica te tibi” di Seneca.


Anche qui un possibile riferimento petrarchesco al “dilettoso male” che si
legge nel Canzoniere nel sonetto 132, l’idea dell’amore come malattia è
particolarmente radicata nella cultura ‘300-‘400, pensiamo ad esempio a
delle teorie scientifiche secondo le quali, la fisiologia umana è regolata da
quattro umori, tra i quali l’umor nero, sintomo del malessere d’amore. Il
riferimento.

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PRIMO LIBRO,
QUATTORDICESIMA STANZA.
14
Ah quanto è uom meschin, che cangia
voglia
per donna, o mai per lei s’allegra o
dole;
e qual per lei di libertà si spoglia
o crede a sui sembianti, a sue parole!
Ché sempre è più leggier ch’al vento
E mille volte el dì vuole e disvuole:
segue chi fugge, a chi la vuol
s’asconde,
e vanne e vien, come alla riva l’onde.

Quanto è meschino l’uomo che cambia di volere (uomo volibile di volere


nei confronti di una donna) o che si rallegra o si dispera per lei, si spoglia
della libertà e crede alle sue apparenze che lei mostra e alle sue parole!
Perché è sempre più leggero di una foglia al vento, e mille volte al giorno
cambia idea, segue chi fugge, e si nasconde invece a chi lo vuole, e va e
viene come l’onda sulla riva.

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L’idea dell’uomo che si spoglia della libertà e che è sempre più volubile
come foglia al vento è una rappresentazione tipica del lussurioso e della
poesia penitenziale ‘300. Dove ricorre anche la stessa rima “spoglia”
“foglia”

PRIMO LIBRO, QUINDICESIMA


STANZA.
15
Giovane donna sembra veramente
quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
o ver tra’ fiori un giovincel serpente
uscito pur mo’ fuor del vecchio
scoglio.
Ah quanto è fra’ più miseri dolente
chi può soffrir di donna il fero orgoglio!
ché quanto ha il volto più di biltà
pieno,
più cela inganni nel fallace seno.

Una giovane donna può essere assimilata a uno scoglio appuntito sotto un
bel mare, (quindi a un rischio, un pericolo che si cela sotto qualcosa di
bello) oppure può essere assimilata a un serpentello tra i fiori, che viene
fuori dalla vecchia pelle. Ahi quanto è fra i più miseri dolente chi può
soffrire l’orgoglio della donna! Perché quanto ha il volto più di beltà
pieno, più nel suo animo cela inganni.

Scoglio: in riferimento alla pelle dei serpenti, pelle che cambia sempre.

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Ché: è una causale. Questo accento non dovrebbe esserci, perché nelle
edizioni critiche dei testi antichi, il “che”, non va mai accentato. È un uso
tipicamente moderno quello di distinguere il “che” congiunzione dal
“che”, perché, con accento acuto.

PRIMO LIBRO, SEDICESIMA


STANZA.
16
Con essi gli occhi giovenili invesca
Amor, ch’ogni pensier maschio vi fura
E quale un tratto ingoza la dolce esca
Mai di sua propria libertà non cura;
ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
tosto obliate vostra alta natura;
né poi viril pensiero in voi germoglia,
sì del proprio valor costui vi spoglia.

Proprio con gli occhi di una donna giovane, Amore cattura, che vi toglie a
ogni pensiero maschile; (in riferimento al fatto che l’amore rammollisce
l’uomo) e nel momento in cui si inghiotte alla sua esca, non ci si prende
più cura della sua libertà; ma, come se Amore desse da bere l’acqua del
Lete, tosto vi dimenticate della vostra natura di uomini; e in voi e nella
vostra testa non germoglia più alcun pensiero vilire, al tanto punto amore

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vi spoglia. (a tal punto che amore spoglia gli uomini della libertà e del
valore).

Invesca: cattura;
Lete: acqua che fa dimenticare tutto, fiume dell’oblio;

PRIMO LIBRO, DICIASETTESIMA


STANZA.
17
Quanto è più dolce, quanto è più
securo
seguir le fere fugitive in caccia
fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
e spiar lor covil per lunga traccia!
Veder la valle e ‘l colle e l’aer più puro,
l’erbe e’ fior, l’acqua viva chiara e
ghiaccia!
Udir li augei svernar, rimbobar l’onde,
e dolce al vento mormorar le fronde!

Quanto è più dolce e quanto è più sicuro seguire le belve feroci nella
caccia fra antiche selve fuori dalle mura di città, e il mettersi alla ricerca
del loro covo per lunga traccia! Vedere la valle e il colle …? Le erbe e i

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fiori, l’acqua pulita e fredda. Udire gli uccelli starnare, le onde
rimbombare e il dolce vento tra i rami!
Fossa: fossato che circondava le mura;

PRIMO LIBRO, DICIOTTESIMA


STANZA.
18
Quanto giova a mirar pender da
un’erta
le capre, e pascer questo e quel
virgulto;
e l’montanaro all’ombra più conserta
destar la sua zampogna e l’verso
inculto;
veder la terra di pomi coperta,
ogni arbor da’ suoi frutti quasi
occulto;
veder cozzar monton, vacche
mughiare

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e le biande ondeggiar come fa il
mare!

Quanto rinfranca l’animo guardare le capre al pascolo che pascolano su


un pendìo e cibarsi di quel argusto (?); e il montanaro che suona
all’ombra, nel momento di riposo, la zampogna dedicandosi a canti
popolari; vedere la terra coperta di pomi, ogni albero quasi nascosto dai
frutti che produce, vedere i montoni che combattono tra di loro, le mucche
muggire e le biade ondeggiare come fa il mare!

PRIMO LIBRO, DICIANNOVESIMA


STANZA.
19
Or delle pecorelle il rozo mastro
si vede alla sua torma aprir la sbarra;
poi quando muove lor con suo
vincastro,
dolce è a notar come a ciascun garra.
Or si vede il villan domar col rastro

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Le due zolle, or maneggiar la marra;
or la contadinella scinta e scalza
star coll’oche a filar sotto una balza.

Ora il rozzo mastro delle pecorelle (il pastore) aprire la sbarra alla sua
torma; (lasciare libere le pecore al pascolo) come lui muove l’oro con il
suo bastone è dolce notare come a ciascuna gridi per evitare che scappi
(la pecora). Ora si vede il villano domare il contadino usare il rastrello
per le dure zolle, per maneggiare la marra; ora si vede la contadinella
vestita in maniera umile, stare insieme alle oche e filare sotto una balza.

Contadinella scinta e scalza: citazione letterale presa dal sonetto 33 del


Canzoniere.

PRIMO LIBRO: VENTESIMA


STANZA.
20

In cotal guisa già l’antiche genti


si crede esser godute al secol d’oro;
né fatte ancor le madre eron dolenti
de’ morti figli al marzial lavoro;

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né si credeva ancor la vita a’ venti
né del giogo doleasi ancora il toro;
lor case eron fronzute querce e grande,
ch’avean nel tronco mèl, ne’ rami
ghiande.

Si crede che il questo modo i nostri antenati derivassero grande piacere;


le madri non erano ancora rese dolenti dalla morte dei figli in guerra; né
si credeva ancora di affidare la vita ai venti (qui si riferisce alla
navigazione e ai rischi che essa comporta) né il toro si doleva di essere
aggiogato; le case dei nostri antenati erano delle querce frondose e
grandi, che avevano miele nel tronco e ghiande nei rami.

Marziale lavoro: marziale vuol dire da Marte;

PRIMO LIBRO: VENTUNESIMA


STANZA.
21
Non era ancor la scelerata sete
del crudele oro entrata nel bel mondo;
viveansi in libertà le genti liete,
e non solcato il campo era fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
ruppe ogni legge, e pietà misse in fondo;

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lussuria entrò ne’ petti e quel furore
che la meschina gente chiama amore».

Non era ancora entrata nel mondi la sete di oro, l’avarizia; le genti liete
vivevano in libertà, e non era neanche necessario coltivare la terra
affinché essa producesse dei frutti. La sorte invidiosa di questa loro quiete
ruppe ogni legge e capovolse i valori e mise la pietà in fondo; (Dopo
questa digressione sulle bellezze della vita campestre e della caccia,
Giuliano ritorna al suo obiettivo quello della lussuria) lussuria entrò nei
petti e gli uomini ancora la confondo con l’amore.”

Un giorno Iulo si trova nelle selve, incontra questo amante desolato, che
gli racconta della sua delusione d’amore e Giuliano replica con
quest’invettiva, però poi viene a sua volta punito da Amore. Amore, sente
le sue parole, e preso dall’ira si ingegna si spingere Iulo a cambiare
opinione nei suoi confronti e quindi durante una battuta di caccia, Cupido
fa apparire dinanzi a Iulo un’acerba. Iulo per inseguirla si allontana dagli
uomini che erano in gara con lui e all’improvviso al posto di un’acerba gli
compare una donna, che si rivelerà poi essere Simonetta Cattaneo. Iulo
torna a casa, e il libro si conclude col volo di cupido verso il regno di
Venere. Qui Venere chiede al figlio della sua impresa e Cupido risponde
però nel secondo libro, dove spiega di aver fatto innamorare la madre uno
dei Medici e Venere stabilisce che Iulo, in onore di Amore, dovrà
combattere un torneo militare e per raggiungere questo scopo, Venere
ispira nel sonno a Iulo una visione, in cui la gloria lo riveste della armi di
Minerva. Al risveglio Iulo, interpreta il sogno, proprio come Venere
voleva che lo interpretasse , cioè capisce che deve partecipare al torneo, e
deve vincerlo a maggiore gloria di Amore.

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Poliziano appartiene all’Umanesimo Laurenziano. Le Stanze si
identificano con una tipologia testuale ben precisa, ossia la giostra o
armeggeria. Le armeggerie, forse di origine francese, erano delle parate
militari eseguite da un gruppo di giovani affidati a un capo, tutti
appartenenti a famiglie aristocratiche della città. La sfilata era
interrotta da delle soste, durante le quali i partecipanti al corteo, davano
dimostrazione della loro perizia nel vaneggio delle armi con dei tornei.
Solo nel ‘400 si costruisce il genere della giostra, con i torneamenti di
Francesco Ceco da Firenze e l’armeggiata di Bartolomeo Benci, composta
da Filippo Lavaccini. La descrizione di un torneo militare si formalizza
nella struttura metrica dell’ottava rima (l’ottava rima è una strofa
costituita da otto versi endecasillabi con una schema rimico
ABABABCC, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima
baciata), poiché le descrizioni di battaglie, di scontri armati, sono
contenuti tipici delle narrazioni epico cavalleresche, che nella nostra
letteratura, godranno di grande fortuna, attraverso la forma del cantare. Per
cantare si intende un particolare tipo di poema di ampiezza ridotta,
composto per essere recitato davanti ad un pubblico di piazza, dai
cosiddetti canterini o da giullari. I temi dei cantari sono estremamente vari,
parliamo infatti di “cantari novellistici, religiosi, molari, ma il repertorio
prediletto è quello della materia epico cavalleresca. non è possibile risalire
con esattezza alle origini dei cantari, perché, mancano le testimonianze
scritte dei primissimi esempi, trattandosi di narrazione pensate per essere
recitate e non per essere lette. Le prime attestazioni scritte di cantari,
risalgono alle metà del ‘300, ed esso si presenta già nella forma del poema
in ottave, parliamo del cantare di Florio e Bancifiore, che risale al 1343, o
meglio, il 1343 è l’anno di trascrizione del testo, del manoscritto che ce lo
trasmette. Questa osservazione, di Domenico de Robertis, è importante per
la comprensione del genere dei cantari. Poiché sono opere destinate
all’ascolto, i cantari venivano trascritti a un numero limitatissimo di copie,
che erano affidate all’arbitrio dei copisti, che intervenivano direttamente
sul testo. La data, quindi, di composizione del cantare, non può che
coincidere con la data di trascrizione del testo. Questa prospettiva si
modificherà nel secondo ‘300, quando dal cantare si passa dal poema in
ottave, cioè dal testo nato ai fini dell’intrattenimento popolare, nasceranno
delle narrazioni più lunghe che verranno fruite attraverso la lettura. Il

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passaggio dell’oralità alla scrittura, stravolge la fisionomia del cantare, che
può avvalersi di espedienti retorici apprezzabili soltanto tramite la lettura.
Dal cantare, da una narrazione di tipo orale, pensata per la recitazione di
piazza, già alla fine del ‘300, si passa a poemi più complessi, più lunghi,
più articolati, che non sono più fruibili all’ascolto, ma alla lettura. Intorno
agli Novanta del Trecento, un notaio fiorentino, Ludovico Bartoli, fece
una riduzione in ottava rima del Corbaccio di Boccaccio, il cosiddetto
“Corbaccino”. Costa di 275 ottave. È possibile pensare che quest’opera
venisse ascoltata, anziché letta? Ed è così, che in una forma più curata, il
“cantare”, entra nel ‘400.

Di due giostre fiorentine, è rimasta memoria, grazie ai versi che l’hanno


celebrata: una di Giuliano e l’altra è vinta da Lorenzo de’Medici, nel 1469,
cantata in versi da Luigi Pulci. Figura irregolare, nel panorama umanistico
fiorentino, sia per la sua formazione che per la sua produzione letteraria;
produzione letteraria, nettamente sbilanciata, in favore di opere volgari, di
tono comico, ricordiamo infatti “Il Morgante”. Poesia di tono comico, in
cui si riverbera una tradizione di stampo popolaresco, apprezzata e
frequentata dallo stesso Lorenzo. Poesia connessa alle contingenze della
cronaca cittadina, e sul versante espressivo fa proprio, e pota alle estreme
conseguenze, il lessico popolare, quotidiano, connotato in senso comico.
La giostra di Pulci, ha obiettivo encomiastico. Nel testo di Pulci, il motore
dell’azione, è l’amore di Lorenzo per Lucrezia Donati. Attraverso lo
scontro militare, il futuro signore di Firenze dovrà dimostrarsi degno di
una ghirlanda donatagli, dalla donna amata. Nelle Stanze, centrale è
l’amore di Poliziano per Simonetta Cattaneo. La comunanza di obbiettivi,
e del genere letterario, che legano la giostra di Pucci alle Stanze di
Poliziano, si associano a una continuità quasi materiale. Infatti, alla fine,
dell’opera di Pulci si legge, nel momento in cui Lorenzo ha conseguito la
sua vittoria e raccoglie gli elogi generali. Al sesto vero, però Pulci,
interrompe quasi la narrazione, poiché è necessario riposarsi e perché c’è
un compare, che aspetta di poter scoccare la freccia che è già al suo arco. Il
compare che aspetta, sembrerebbe essere Poliziano, mentre la “violetta in
punto” non sarebbe altro che il testo delle Stanze in via di elaborazione. La
comunanza di temi e obbiettivi, e questa continuità, quasi materiale, tra

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l’opera di Poliziano e quella di Pulci, sono gli unici elementi in comune tra
i due testi, poiché, mentre l’opera di Pulci è saldamente ancora a una
dimensione municipale, l’obiettivo è quello di trasmettere una precisa
immagine di Lorenzo de’Medici. Nelle Stanze di Poliziano, invece, il
racconto è rivolto a una cerchia selezionatissima di lettori, gli unici in
grado di comprendere i riferimenti petrarcheschi, disseminati nell’opera. Il
pubblico di Poliziano non è lo stesso di Pulci. Il pubblico di Poliziano era
un pubblico che doveva essere in grado di interpretare la chiave allegorica
delle Stanze.

PRIMO LIBRO, STANZA


QUARANTA.
40

Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso,


al nervo adatta del suo stral la cocca,
poi tira quel col braccio poderoso,

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tal che raggiugne e l’una e l’altra cocca;
la man sinistra con l’oro focoso,
la destra poppa colla corda tocca:
né pria per l’aer ronzando esce ’l quadrello,
che Iulio drento al cor sentito ha quello.

Cupido, arrabbiato con Iulo, per le parole con le quali lo aveva descritto,
decide di vendicarsi e ordisce un piano. Durante una battuta di caccia fa
apparire dinanzi a Iulo una cerca bellissima, Iulo inizia a inseguirla per
cacciarla, però all’improvviso questa cerva sparisce dalla sua vista, e a suo
posto trova una donna, ossia Simonetta Cattaneo.

Cupido rapido nascosto negli occhi della linfa (qui siamo nel luogo in cui
la cerva e sparita e Iulo si trova davanti a questa donna) adatta al nervo
del suo strale la cocca (cioè adatta la cocca della freccia alla corda del suo
arco) poi tira il nervo (il filo) con quel braccio poderoso tale che unisce
insieme le due estremità dell’arco; la mano sinistra con tiene l’oro
dell’arco, la destra tocca la corda: la freccia non al si vide neanche uscire
con il suo ronzio dall’arco, che già Iulo aveva sentito nel suo cuore
l’arrivo del dardo.

PRIMO LIBRO,
QUARANTUNESIMA STANZA.

Ah come divenne! Come al giovinetto corse il gran fuoco in tutte le ossa!


Che tremore gli scosse il cuore nel petto! E lui era già molle, era tutto
bagnato di un sudore freddo e desideroso dal dolce aspetto di lei, non può

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in alcun modo levarle gli occhi dagli occhi; ma tutto preso dallo
splendore di lei, non si accorge che dentro quegli occhi si trova Amore.

L’Amore è un sentimento che passa attraverso gli occhi e dagli attraverso


il cuore, quindi la vista come canale privilegiato, per l’insorgere della
passione amorosa. Ciò muove da premesse scientifiche, davvero si credeva
che l’azione della vista fosse indispensabile per l’insorgere della passione,
nell’animo umano.

PRIMO LIBRO,
QUARANTADUESIMA STANZA.

42
Non s’accorge ch’Amor lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga quiete;
non s’accorge a che nodo è già legato,
non conosce suo piaghe ancor segrete;

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di piacer, di disir tutto è invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sé loda e ’l viso e ’l crino,
e ’n lei discerne un non so che divino.
Il primo verso della stanza 42 ripete quasi identico il verso della stanza
precedente.
Non si accorge che Amore lì dentro (dentro agli occhi) è armato
(procedimento tipico del repertorio canterino, poiché un testo che doveva
essere recitato per un pubblico di piazza, doveva essere infarcito di riprese
e espressioni che ritornavano identiche, si parla di “linguaggio formulare”,
cioè di un tipo di linguaggio fondato sul ricorrere di espressioni, modi di
dire identici. Siccome il poeta in ottave è figlio del cantare ‘300, da esso
non recupera solo la forma metrica ma anche degli usi espressivi, che nel
poema in ottave diventano un fatto di stile) soltanto per turbare la lunga
quiete di Iulo; non si accorge a quale nodo oramai egli è legato, e non ha
ancora visto le pene inflittegli da Amore, che gli sono ancora sconosciute;
di piacere, è tutto invischiato di piacere, di desiderio, e così il cacciatore è
preso alla rete. Tra sé loda le braccia, il viso e il capelli di lei, e in lei
discerne qualcosa di divino.

PRIMO LIBRO,
QUARANTATREESIMA STANZA.
43
Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,

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e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Lei è candida e la veste è candida, (si riferisce alla purezza di questa


donna), è tuttavia colorata, cosparsa di rose e fiori e di erba; i capelli
intrecciati, dalla bionda testa (aurea è riferito a crin, “bionda testa”)
scendono sulla fronte umilmente superba. La forestale sorride tutt’intorno
e quando può, e mitiga disacerba, i suoi affanni per quello che può; nel
regale e mansueta nel modo in cui agisce, eppure è in grado di calmare
una tempesta, soltanto sollevando il ciglio.

PRIMO LIBRO,
QUARANTAQUATTRESIMA
STANZA.
44
Folgoron gli occhi d’un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l’aier d’intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;

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ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

Gli occhi luccicano di un dolce sereno, dove Cupido tiene nascosta la sua
luce; l’aria intorno si fa amena, ovunque girano le luci amorose. Di
celeste letizia resterà il volto pieno, il volto dipinto di ligustri e rose; i
venti persino stanno in silenzio quando lei parla e ogni uccellino canta in
suo latino (cioè nella sua lingua, è un provenzalismo latino).

PRIMO LIBRO,
QUARANTACINQUESIMA
STANZA.
45

Con lei sen va Onestate umile e piana


che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,

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quanto ella o dolce parla o dolce ride.

In sua compagnia si trovano l’onesta, umile e piana che avvolge la chiave


di ogni cuore chiuso; con lei la Gentilezza in carne e d’ossa, e da lei (da
Simonetta) impara il dolce andar soave; un cuore non gentile non può
guardarle il viso, se prima non ha doglia delle sue mancanze (dell’assenza
di gentilezza, di nobiltà nel suo animo); tanti cuori Amore piglia, ferisce o
uccide, quanto quella, parla o dice dolcemente. (basta che ella parli o ride
e Amore, agisce).

PRIMO LIBRO,
QUARANTASEIESIMA STANZA.
46

Sembra Talia se in man prende la cetra,


sembra Minerva se in man prende l’asta;
se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

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Da un lato sembra Talia (una delle muse) se dedica al canto (sarebbe in
grado di pareggiare una musa), sembra Minerva, se prende in mano il
bastone del comando; se ha l’arco in mano, o la faretra a fianco, potresti
giurare che sia la casta Diana (divinità associata a culti lunari, e alla
caccia e compare spesso in associazione all’ars venandi in opposizione
all’ars amandi, la caccia come attività che comporta il rifiuto della
passione amorosa, della pudicizia, della castità, per questo dice “Diana
casta”). L’ira si allontana dal suo volto e poco dura la superbia; ogni
dolce virtù e in sua compagnia, la bellezza e la leggiadria, la mostrano a
Dio.

PRIMO LIBRO,
QUARANTASETTESIMA STANZA.
47

Ell’era assisa sovra la verdura,


allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de’ quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,

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levossi in piè con di fior pieno un
grembo.

Ella si era seduta sopra il prato in fiore, aveva intrecciato una


ghirlandetta di molti fiori di quanti la natura ne ha creati. Dei quali fiori
era la sua vesta dipinta. Non appena si accorge della presenza di questo
giovane (ossia di Iulo), alquanto paurosa alzò la testa; poi con la mano
bianca, ripreso il lembo, si sollevò in piedi con il grembo pieno di fiori.
(Ricordiamo “La Primavera” di Botticelli, ci sono delle somiglianze
significative tra il modo in cui descrive l’incontro tra i due in questo
bosco)

Sovra la verdura: modo di dire comune per indicare il prato in fiore;

PRIMO LIBRO,
QUARANTOTTESSIMA STANZA.
48
Già s’inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l’erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null’altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d’arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:

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Già si avviava, per quindi partire, (come se volesse allontanarsi), sopra
l’erba lenta lenta, lasciando Iulo in grande dolore, il quale ormai non
desidera nient’altro se non lei. Non potendo soffrire l’allontanamento di
lei, con qualche preghiera tenta di arrestarla; perché tutto tremando e
tutto ardendo, così cominciò a dire:

PRIMO LIBRO,
QUARANTANOVESIMA STANZA.
49
«O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo;
se dea, forse se’ tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia, qual sì amica stella,
ch’io degno sia veder cosa sì bella».

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“Chiunque tu sia, vergine sovrana, o ninfa o dea, ma a me sembri
sicuramente una dea; e se sei dea forse tu sei la mia Diana; se sei
mortale, dimmelo, perché la tua sembianza, non a nulla a che fare con
l’umano; né io ho capito qual è il mio merito, merito per cui io sono
degno di vedere una cosa così bella, non riesco a capire che cosa abbia
merito, se una grazia dal cielo, o una stella amica, o il volere degli altri,
che mi hanno concesso la possibilità di vedere una cosa così bella.”

PRIMO LIBRO, CINQUANTESIMA


STANZA.
50

Volta la ninfa al suon delle parole,


lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s’aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch’altri una Sirena:

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La ninfa al suono delle parole si voltò e lampeggiò sul suo viso vago e
dolce, che avrebbe fatto andare i monti e restare il sole: perché ben parve
quasi che si aprisse il paradiso. Poi fra perle e viole formò voce, con una
voce tale che avrebbe rotto i marmi; soave, saggia e di dolcezza piena, da
innamorare non altri che una sirena. (la voce di Simonetta è di una
bellezza superiore al canto delle sirene).

PRIMO LIBRO,
CINQUANTUNESIMA STANZA.
51

«Io non son qual tua mente invano


auguria,
non d’altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor de’ gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato fremere.

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“Io non sono quella che la tua mente inutilmente si augura (Simonetta
dice di non essere una dea) non sono degna di altare, ne di pura vittima;
(non sono una dea alla quale si innalzano altari e si fanno sacrifici) ma io
sono legata a un vicolo matrimoniale, sull’Arno (a Firenze) nella nostra
Etruria (ossia in Toscana, regione abitata grossomodo dagli Etruschi), in
realtà sono nata nell’aspra (aspra, fa riferimento al panorama roccioso che
contraddistingue la Liguria) Liguria, vicino al mare, dove invano (invano,
cioè fuori dai gran massi) si sente gemere e fremere d’ira Nettuno.

Teda: fiaccola annunziale del matrimonio, qui vale come metonimia, per
indicare il vincolo matrimoniale.

PRIMO LIBRO,
CINQUANTADUESIMA STANZA.

52

Sovente in questo loco mi diporto,


qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è de’ mia pensieri un dolce porto,
qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier
m’alletta;
quinci il tornare a mia magione è accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.

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Sovente io spesso mi conduco in questo luogo qui vengo a passare il
tempo, tutta sola; questo è dolce riparo per i miei pensieri, qui l’erba e i
fiori e qui la fresca aria mi allettano; non sono molto lontana da casa, qui
lieta mi dimoro Simonetta, (?) all’ombra, alla fresca e chiara linfa di una
fonte, e spesso in compagnia di alcuna ninfa. (?)

PRIMO LIBRO,
CINQUANTATREESIMA STANZA.
53

Io soglio pur nelli ociosi tempi,


quando nostra fatica s’interrompe,
venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî
fra l’altre donne con l’usate pompe;
ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi
e ’l dubio tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non prender già, ch’io nacqui in grembo a Vene-

Io nel tempo libero, quando la nostra fatica si interrompe, sono solita


andare in chiesa, insieme alle altre donne , nelle occasioni delle grandi
celebrazioni; ma perch’io adempi in tutto il tuo grande desiderio, e tolga

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il dubbio che rompa la tua mente, non ti meravigliare delle mie bellezze
tenere, perché io nacqui in grembo a Venere.

C’è in queste stanze, dove entra in scena Simonetta, una apparente


contraddizione; Simonetta, prima di dire il suo nome, dice che è sposata, e
dice che vive a Firenze, ma è originaria della Liguria, è infatti Simonetta
Cattaneo nasce a Genova. Nella Stanza 53, dice che nacque in grembo a
Venere. Nella stanza 51 e 53, sembra che dica due volte la stessa cosa. La
critica aveva già notato di questa piccola contraddizione, e alcuni avevano
cercato di scioglierla. Tra le tante interpretazioni, Giosuè Carducci, che
dedicò allo studio della poesia del ‘300 e del ‘400, e anche delle Stanze di
Poliziano. Per Carducci, questo verso sarebbe un ulteriore indicazione
geografia, cioè, nasce in grembo a Venere, sarebbe un’allusione, alla
nascita di Simonetta al porto Venere. Ma l’ipotesi è da scartare, per ragioni
storiche, ma soprattutto perché la contraddizione resta. Un altro studioso,
Achille Neri, suggerì che questo secondo emistichio, dell’ultimo verso,
della stanza 53, fosse una perifrasi per indicare la nascita genovese di
Simonetta, perché dal mare che bagna Genova, secondo una versione del
mito, sarebbe nata Venere. Ma perché dire nella stanza 51 di essere nata in
Liguria? La contraddizione resta. L’Umanesimo fiorentino e laurenziano è
dominato dalla filosofia neo-platico, il cui massimo esponente è Marsilio
Ficino. Il neo-platonismo feciniano, consiste in una rilettura del pensiero di
Platone alla luce dell’interpretazione fornita da Plotino, filosofo vissuto nel
I secolo d.C., che mira conciliare il pensiero greco antico, con le istanze
del Cristianesimo, tanto che a proposito del pensiero di Ficino, si parla di
PIA FILOSOFIA, perché l’obiettivo di Ficino era quella di tenere il
pensiero greco con la teologia cristiana. Uno degli obbiettivi perseguito
dall’accademia neo-platonica fiorentina fu quello di stabilire una

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parallelismo tra la teologia neo-platonica e quella cristiana. Ricordiamo la
Theologia platonica de animorum immortalitate, dove viene descritto una
sistema metafisico teologico, di tipo cristiano, in cui però si armonizzano
teorie filosofiche pagane. Nella teologia, Finico afferma, che la realtà è
scomponibile in gradi, organizzati gerarchicamente, attraverso i quali
l’anima umana compie un percorso di crescita spirituale e conoscitiva.
Finico ricava da Platone , la contrapposizione tra corpo e anima e l’idea,
per cui l’anima può evadere dal corpo, distaccandosi dai gradi inferiori
della realtà, per giungere fino alle intelligenze spirituali e venire all’unione
con Dio. Sempre Finico, nel 1469, compose un commento al Simposio di
Platone, e in questo dialogo propone una distinzione tra due tipi di Venere:
una insita nella mente angelica, e l’altra attributo della natura, una celeste e
una terrena, che trovano come comune denominatore Amore, ossia l’anima
irrazionale.
È questo che Simonetta intende quando dice di esser nata in grembo a
Venere, quando si presenta come figlia di Venere. Il figlio di Venere è
Cupido, Amore, che nell’anima irrazionale, che nell’interpretazione
feniciana, distingue l’uomo da qualunque altro essere del creato, e che
mira a ricreare la bellezza divina mediante la vita attiva: le arti, lo studio e
la pratica delle virtù. nel vero 1, della stanza 51, Simonetta capisce che
Iulo l’ha scambiata con una dea, e ella precisa di non essere una, ma è
anima razionale. È un essere umano, che può fungere, attraverso la sua
bellezza, la virtù, come strumento di riproduzione della bellezza divina,
nel mondo terreno e fungere da nesso tra cielo e terra.
Le Stanze possono essere interpretate come un allegoria feciniana, al pari
della Primavera di Botticelli. Il quadro è stato interpretato come una
rappresentazione pittorica della filosofia neo-platonica feciniana.
Simonetta rappresenta la pratica delle virtù cardinali, viene esaltata per la
sua forza.
Il meccanismo allegorico della selva rappresenta il mondo terreno buio,
tenebroso, circondato da belve feroci, ed è topos letterario di radici
chiarissime.
Raccolta aragonese: la selezione dei testi della raccolta aragonese fu
affidata a Poliziano, ordinata da Lorenzo de’Medici. Manoscritto che

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Lorenzo’ de Medici donò alla casa d’Aragona, e raccoglie la produzione
poetica di lingua volgare fiorentina, dalle origini fino ai suoi tempi. Una
sorta di antologia storica di antologia toscana, i cui testi vennero
selezionati da Poliziano. Poliziano fu autore che conosceva bene il passato
letterato toscano e quindi conosceva bene anche “Una valle tra due
montagnette”, di Domenico da Prato. Si narra qui di una cerva, che si
trasforma in un usignolo. La trasformazione non è in un essere umano.
Oltre a Domenico da Prato, un altro esempio, lo ritroviamo in un verso
affine al sirventese di Domenico, che è una canzone di Girolamo
Meneghini. Ritroviamo la stessa identica trama: un cervo inseguito da un
cacciatore, scompare alla sua vista. Il cerco e l’insediamento del bosco
rappresentavano una metafora di significato comune, un vero e proprio
topos.
Inoltre, in un commento alla sua stessa canzone, Girolamo Meneghini,
precisa che l’inseguimento della cerva diventa immagine simbolica della
bellezza sensibile, inseguita dall’uomo. La bellezza, in terra, riflessa, nelle
cose terrene nella bellezza di Dio. Attraverso quest’inseguimento Iulo
giunge finalmente all’anima razionale, che mediante la virtù, conduce alla
contemplazione divina. Questo percorso di crescita spirituale si articola, da
un primo stadio di immaturità, all’inseguita della bellezza (della cerva),
fino alla scoperta dell’anima razionale (di Amore), che spinge l’uomo alla
pratica della virtù, alla curiosità, e attraverso di esse alla contemplazione
divina.

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