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Dipinto con fanciulla, che dà da mangiare a dei colombi nel peristilio di una domus romana, da un dipinto di
John William Waterhouse.
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La famiglia romana, con la sua originale struttura, ha caratterizzato la società e il diritto
romano2 nel corso dei secoli, dando vita ad istituti giuridici quali l’emancipazione, la tutela,
la dote, l’adozione che sono giunti fino a noi grazie al poderoso lavoro di Triboniano, il più
importante giurista dell'Impero Romano d'Oriente che, su incarico dell’imperatore
Giustiniano, portò a termine un’opera monumentale che sarebbe stata più tardi denominata
Corpus Iuris Civilis, costituito dal Codex, dal Digesto, dalle Istituzioni e dalle
Novellae e che ha rappresentato per secoli una fondamentale compilazione del
diritto romano.
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Con l'espressione Diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico
romano per circa tredici secoli, dalla data della Fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla fine dell'Impero di
Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l’Italia fu invasa dai Longobardi: l’impero
d’Occidente si dissolse definitivamente e Bisanzio – formalmente imperiale e romana – si allontanò sempre più
dall’eredità dell’antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica).
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Secondo Ulpiano (Digesto I, 6, 4), poteva essere Pater familias chi era sui iuris, tanto pubere
quanto impubere, mentre erano figli e figlie coloro che si trovavano sotto la potestà di un
altro.
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La natura di questa potestas ha affaticato gli studiosi che l’hanno voluta considerare ora un
vincolo patriarcale, ora un vincolo religioso, ora un legame economico, o un’organizzazione
politica.
La potestas che era un’istituzione giuridica propria dei cittadini romani (Institutiones I, 109),
si estendeva ugualmente su maschi e su femmine (Gaio, Institutiones I, 109).
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La soggezione dei filii familias al pater nell'interno della famiglia è assoluta. Il pater ha
diritto pieno di disposizione della persona e della volontà del filius familias: ha diritto di
esporre, uccidere i neonati, vendere o dare in pegno i figli anche adulti, locarne le opere
(Dyonysius: Romulus 2,26,7).
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Il potere punitivo paterno, la parte più caratteristica della patria potestas, già nell'antichissimo
diritto, subì limitazioni ad opera delle cosiddette "leges regiae" attribuite ai leggendari Sette
Re di Roma e, più tardi, ad opere delle XII Tavole.
Tali limitazioni riguardavano la proibizione di uccidere i bambini sotto i tre anni, fuorché nel
caso di parto mostruoso riconosciuto alla presenza di cinque vicini romani o la limitazione di
vendere il figlio cui fosse stato concesso di prendere moglie.
Più importanti sono invece due leggi, una di Romolo e una sancita dalle XII tavole. La prima
riguarda l'obbligo per il padre di allevare tutti i figli maschi e le sole figlie primogenite:
conseguenza quindi nei riguardi delle altre è il diritto di esporle. Tale disposizione, ingiusta e
crudele ai nostri occhi, è invece coerente se riportata ai tempi della società romana primitiva.
Roma è nata attraverso le guerre, attraverso le guerre si è ingrandita, ha fagocitato città e regni
confinanti, è divenuta un impero; e le guerre le facevano gli uomini ed in guerra essi morivano.
Tale legge, quindi, doveva essere ispirata ad uno scopo essenzialmente pratico e cioè a quello
di ristabilire un certo equilibrio numerico tra i due sessi. Inoltre, essendo quella romana una
società prettamente patriarcale, essendo cioè costruita su misura per l'uomo ed essendo il
nome e la grandezza della famiglia affidati e destinati ai discendenti di sesso maschile, è logico
che tale discendenza avesse, agli occhi della società, maggiore importanza di quella femminile
destinata col matrimonio a mutar famiglia e a distornare parte dei beni.
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Lo stesso fine è l'ispiratore dell'altra legge, quella sancita nelle XII tavole e riportata da Gaio
(Institutiones, I, 132), dalla quale si desume che una posizione preminente era riservata al primogenito
maschio per il quale erano necessarie tre vendite “mancipationes” per liberarlo dalla patria potestas,
mentre per gli altri figli, maschi e femmine ne era sufficiente una soltanto.
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In altre parole, nella famiglia romana vigeva una specie di maggiorascato, cioè c'era una specie
di favoritismo nei confronti dei maschi filii familias in primo grado, perché questi erano
destinati a divenire patres a loro volta alla morte del capo famiglia. Gli altri filii, tanto maschi
che femmine erano equiparati.
Non dimentichiamo che filius non indica, come nella terminologia moderna, solo un grado di
parentela diretta, ma comprende anche l'uxor (moglie) in manu, il nipote, il pronipote,
l'adottato, l'arrogato e i loro discendenti e che pater può essere pure un impubere o un uomo
senza suoi figli carnali).
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Casa di Augusto, Palatino - Roma
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Occupandoci ora dei titoli mediante cui si diventava membro della familia e si era assoggettati
alla potestà del capofamiglia, oltre alla procreazione in iusta nuptiae da un individuo maschio
della familia, sia esso pater o filius familias, il diritto romano conobbe anche l'adoptio
(adozione) e l'adrogatio (arrogazione).
L’adrogato che doveva essere necessariamente “sui iuris”, cioè non sottoposto
alla potestas di un altro capofamiglia, passava sotto la potestà del nuovo pater,
divenendone filius, assieme alla sua famiglia (coniuge e discendenti). A tutti i
componenti si applicava la capitis deminutio minima che di fatto consisteva nel
mutamento dello stato familiare.4
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La deminutio capitis maxima consisteva nella perdita della cittadinanza e della libertà, quella minor nella
perdita della cittadinanza.
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Con il doppio controllo, dei pontefici e del popolo, l'adrogato entrava infatti in
condizione di alienis iuris, comportante l'indisponibilità del patrimonio personale
e familiare.
Non fu raro il sospetto che l'istituto fosse usato per impossessarsi del patrimonio
dell'adrogato, con una specie di successione tra vivi, per cui a partire dal I secolo
a.C furono istituiti maggiori controlli per evitare usi fraudolenti dell'atto.
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Statua dell’Imperatore Adriano, come Pontifex Maximus
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L’adoptio, introdotta solo in età posteriore alle XII Tavole, fu probabilmente il
frutto dell’interpretazione pontificale sull’istituto dell’emancipazione, sistema
escogitato per rendere sui iuris un figlio attraverso la simulazione di tre successive
vendite ad un altro pater che poi rinunciava alla potestà.
Augusto,
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L'Augusto di Prima Porta, statua in marmo attualmente conservata ai Musei Vaticani.
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I filii familias erano, con riguardo ai rapporti patrimoniali, in una posizione di
assoluta soggezione al pater familias. Potevano compiere negozi giuridici di
acquisto, ma ciò che ad essi perveniva era devoluto senz’altro al pater.
In conseguenza di tale situazione, essi non possedendo nulla, non potevano cedere
nulla in giudizio, né potevano fare testamento o donazioni, né assumere
obbligazioni con terzi e obbligare conseguentemente il pater, salvo che questi non
avesse autorizzato l’operazione e ne avesse tratto vantaggio.
Per garantire i terzi che ponessero in essere negozi giuridici con chi
era soggetto alla potestà di un altro, si previdero delle actiones a
tutela dei terzi creditori da esercitarsi in via nossale contro il dominus
avente potestà.
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Gradatamente, i figli acquisirono autonomia contrattuale rispetto al pater, per cui ebbero
la possibilità di obbligarsi personalmente, rispondere per le azioni contrattuali intentate
contro di loro e acquisire la nuda proprietà di quanto guadagnato con i loro affari,
rimanendo al padre il solo usufrutto.
Anche alle figlie venne concessa, in epoca imperiale, la disponibilità di un peculio e spesso
furono a capo di un’impresa commerciale o marittima.
La sempre maggiore disinvoltura dimostrata dai filii nei commerci e, forse, una certa
spregiudicatezza nel contrattare o richiedere mutui anche per soddisfare esigenze
personali, doveva aver creato situazioni critiche con i creditori, dato che questi null’altro
potevano ottenere per rientrare in possesso di quanto prestato, se non l’ammontare del
peculium concesso dal pater.
Fu così che un certo Macedone, per liberarsi dai creditori e risolvere la sua situazione
debitoria, decise di accedere anzitempo all’eredità …. uccidendo il pater.
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Statua di Vespasiano
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Vespasiano, cogliendo l’occasione da questo fatto drammatico, con il
Senatusconsultum Macedonianum dettò nuove norme per regolare i rapporti tra
creditori e figli sottoposti al pater, stabilendo il divieto di concedere loro somme di
denaro a titolo di mutuo e privando di tutela processuale i creditori “denegatio
actionis” che vedevano così annullate le pretese di restituzione di quanto prestato
senza il consenso del pater. Il divieto era, peraltro, inoperante se il pater avesse
dato il proprio consenso al mutuo o se il filius, divenuto sui iuris, lo avesse
ratificato, onorando comunque il debito.
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Ulpiano in Digesto 14.6.1 Il tenore del Senatoconsulto Macedoniano è il seguente: “In considerazione del fatto
che tra le diverse cause del crimine Macedone ha la sua stessa personalità, ma anche una questione di debito, e
che spesso chi dà danaro in prestito attraverso incerta nomina induce a commettere azioni riprovevoli secondo
cattivi costumi, a tacer di ogni altro, si stabilisce che a colui che abbia prestato danaro al filiusfamilias non sia
concessa l’azione e la pretesa giudiziale, neanche dopo la morte del padre avente potestà, affinché coloro che
danno danaro ad interesse con un pessimo esempio, sappiano che mai, neanche dopo la morte del padre, potrà
essere esigibile.
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Nel periodo imperiale cominciarono ad essere inferti i primi colpi alla struttura
tradizionale della famiglia, con l’ingerirsi in seno ad essa delle leggi cittadine che
vennero a regolare materie che prima erano state gelosamente riservate alla
competenza dei mores maiorum.
La stessa potestas ne risentì di certo. Il passo di Marciano riportato nel Digesto (D:
47, 9) che racconta della condanna alla deportazione “in insulam” di un pater che
aveva gravemente abusato della sua potestà sul figlio causandone la morte, è
testimone di un lento disfacimento, nato agli albori del principato e culminato nel
Corpus Iuris Giustinianeo.
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“Per i delitti dei figli o degli schiavi, come ad esempio in caso di furtum o iniuria sono predisposte le azioni
nossali, affinché sia consentito al padre o al proprietario (dello schiavo) o sopportare la condanna al pagamento
di una somma di denaro (litis aestimatio) oppure di effettuare la noxae deditio (G. 4,75).
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L’azione nossale che in alcuni casi aveva dato luogo ad eccessi, causando gravi
rischi per i figli, fu rifiutata e sottoposta a critica, mentre l’acquisizione da parte
del pater della proprietà di tutto ciò che proveniva dai commerci del figlio finì per
essere coniderata contro giustizia.
Tutto questo, evidentemente, finiva per negare la stessa patria potestas come essa
fu intesa nella prima società e come è stata tramandata dalla giurisprudenza: la
patria potestas non è più che una mera sopravvivenza storica, un nome senza più
un contenuto sostanziale.
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Dexterarum iunctio ………ut ignis et aquae eiusdem participes essent!10
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La forma più antica del matrimonio romano prevedeva alcuni riti con i quali
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La congiunzione delle mani destre …..perché condividano l’acqua e il fuoco.
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Gaio, I, 111: passavano nella famiglia dell’uomo e ottenevano lo status di figlia.
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Vale a dire che la moglie – Uxor – con il matrimonio mutava famiglia, ma non la
propria condizione di figlia sottoposta, tramite la conventio in manus, ad una
patria potestas.
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Celebrata davanti al Pontifex Maximus, al Flamen Dialis e a dieci testimoni nati
da matrimoni celebrati con lo stesso rito, la confarreatio iniziava con il sacrificio di
una pecora a Giove Farreo, Iuppiter Farreus, per trarne auspici sulla sorte della
nuova famiglia.
La pelle della pecora sacrificata, pellis lanata, veniva usata per coprire il sedile su
cui gli sposi sedevano durante la cerimonia.
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Flamen dialis
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La sposa indossava un velo rosso o arancione intenso, flammaeum, da flamma
(fiamma) che le copriva il capo e, insieme al marito, doveva compiere tre giri
rituali attorno all'altare, percorrendo il tragitto verso destra.
La manifestazione del consenso era indicata dall’unione delle mani degli sposi,
dexterarum iunctio e dalla formula pronunciata dalla donna: “ubi tu Gaius et ego
Gaia” (dove tu Gaio, anche io Gaia).
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Il verbo è “nubere”
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La moglie entrava, così, nella famiglia dello sposo conferendole tutti i suoi beni e
diveniva filia del pater familias di questo (o del marito stesso, se “sui iuris”): ogni
legame giuridico o patrimoniale con la famiglia di origine da quel momento era
reciso.
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In realtà, la coemptio era una forma immaginaria di vendita, nella quale intervenivano il
mancipio dans (letteralmente "colui che dà per mancipatio") il padre della donna e il
mancipio accipiens ("colui che riceve per mancipatio") il marito o, se era alieni iuris, il suo
pater familias.
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Ritratto del fornaio Terentius Neo e della moglie, conservato a Pompei
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Gaio, I, 113
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La coemptio era dunque una trasposizione della normale mancipatio che veniva
utilizzata per acquisire beni: il marito non era il compratore della donna, ma
l’acquisiva in qualità di marito.
La donna sposata senza una confarreatio o una coemptio (o con queste eseguite in
modo non valido) dopo un anno di convivenza con il marito cadeva sotto la sua
manus, purchè la vita coniugale si fosse svolta senza interruzioni.
Con il trascorrere del tempo, per consentire alla donna di non passare sotto la
manus del marito o del suo pater familias, fu escogitato un espediente: era
sufficiente un’assenza da casa per tre giorni per far decadere il periodo e
ricominciarne il conteggio.
Tale fu dunque l’essenza della manus sulla donna: assicurarsi la proprietà dei suoi
beni e impedire un testamento a favore dei parenti carnali.
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Nel diritto romano la donna sposata in manu – materfamilias, matrona - occupava
nella famiglia e nella considerazione sociale un posto che la sua, diciamo, collega sia
greca che orientale non ebbe di certo.
Basta pensare al ruolo attivo svolto da alcune donne e all’influenza della loro azione
sulle scelte e sugli avvenimenti politici, sia nel periodo repubblicano che
nell’impero.
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E’ vero che non potevano assumere incarichi pubblici e che, se sui iuris, ebbero bisogno
dell’interposizione, almeno fino al periodo repubblicano, dell’auctoritas di un tutore per
validare gli effetti di negozi, contrattazioni commerciali o atti di natura testamentaria, ma
questo non dovrebbe sorprenderci troppo, dato che la situazione è stata simile almeno fino
alla metà del secolo scorso, quando le donne definitivamente “emancipate” hanno potuto
ricoprire cariche pubbliche, esercitare professioni, hanno avuto il diritto di voto e parità di
diritti nel matrimonio.
Eppure, anche così, stante l’uguaglianza nei diritti, rimane ancora oggi un retaggio
di disuguaglianza nelle opportunità, tanto da prevedere per legge “quote rosa” per
l’accesso a incarichi politici o manageriali.
Abbiamo già visto che con la conventio in manus la donna usciva definitivamente
dalla sua famiglia ed entrava in quella del marito, perdendo così ogni diritto
successorio nei confronti dei suoi parenti.
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Presso altri popoli, infatti, in occasione delle nozze era consuetudine il versamento
di una somma di denaro al futuro suocero, ma i prudentes, dovendo confrontarsi
con la complessa struttura della familia ed anche con un diverso status della
donna, trovarono un modo originale per riequilibrare la situazione di ingiustizia
che conseguiva al passaggio della sposa in un altro nucleo familiare.
Tale è rimasta nei secoli la natura dell’istituto dotale, fino alla sua definitiva
abrogazione nel 1975 ad opera del “nuovo diritto di famiglia” che ha riformato la
relativa parte del Codice Civile, dove all’articolo 143 è sancita la parità trai coniugi e
l’obbligo per entrambi di contribuire ai bisogni della famiglia, in relazione alle
proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo.
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Ara Pacis, rilievo laterale. Figura di matrona che rappresenta la Pace.
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Estratto dalla tesi di Laurea in Giurisprudenza
di Giovannella Gattini
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