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Dipinto con fanciulla, che dà da mangiare a dei colombi nel peristilio di una domus romana, da un dipinto di
John William Waterhouse.

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La famiglia romana, con la sua originale struttura, ha caratterizzato la società e il diritto
romano2 nel corso dei secoli, dando vita ad istituti giuridici quali l’emancipazione, la tutela,
la dote, l’adozione che sono giunti fino a noi grazie al poderoso lavoro di Triboniano, il più
importante giurista dell'Impero Romano d'Oriente che, su incarico dell’imperatore
Giustiniano, portò a termine un’opera monumentale che sarebbe stata più tardi denominata
Corpus Iuris Civilis, costituito dal Codex, dal Digesto, dalle Istituzioni e dalle
Novellae e che ha rappresentato per secoli una fondamentale compilazione del
diritto romano.

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Con l'espressione Diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico
romano per circa tredici secoli, dalla data della Fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla fine dell'Impero di
Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l’Italia fu invasa dai Longobardi: l’impero
d’Occidente si dissolse definitivamente e Bisanzio – formalmente imperiale e romana – si allontanò sempre più
dall’eredità dell’antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica).

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Secondo Ulpiano (Digesto I, 6, 4), poteva essere Pater familias chi era sui iuris, tanto pubere
quanto impubere, mentre erano figli e figlie coloro che si trovavano sotto la potestà di un
altro.

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La natura di questa potestas ha affaticato gli studiosi che l’hanno voluta considerare ora un
vincolo patriarcale, ora un vincolo religioso, ora un legame economico, o un’organizzazione
politica.

Senza soffermarci ulteriormente sull’essenza di questo potere, approfondiamone invece


l’ampiezza.

La potestas che era un’istituzione giuridica propria dei cittadini romani (Institutiones I, 109),
si estendeva ugualmente su maschi e su femmine (Gaio, Institutiones I, 109).

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La soggezione dei filii familias al pater nell'interno della famiglia è assoluta. Il pater ha
diritto pieno di disposizione della persona e della volontà del filius familias: ha diritto di
esporre, uccidere i neonati, vendere o dare in pegno i figli anche adulti, locarne le opere
(Dyonysius: Romulus 2,26,7).

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Il potere punitivo paterno, la parte più caratteristica della patria potestas, già nell'antichissimo
diritto, subì limitazioni ad opera delle cosiddette "leges regiae" attribuite ai leggendari Sette
Re di Roma e, più tardi, ad opere delle XII Tavole.

Tali limitazioni riguardavano la proibizione di uccidere i bambini sotto i tre anni, fuorché nel
caso di parto mostruoso riconosciuto alla presenza di cinque vicini romani o la limitazione di
vendere il figlio cui fosse stato concesso di prendere moglie.

Più importanti sono invece due leggi, una di Romolo e una sancita dalle XII tavole. La prima
riguarda l'obbligo per il padre di allevare tutti i figli maschi e le sole figlie primogenite:
conseguenza quindi nei riguardi delle altre è il diritto di esporle. Tale disposizione, ingiusta e
crudele ai nostri occhi, è invece coerente se riportata ai tempi della società romana primitiva.

Roma è nata attraverso le guerre, attraverso le guerre si è ingrandita, ha fagocitato città e regni
confinanti, è divenuta un impero; e le guerre le facevano gli uomini ed in guerra essi morivano.
Tale legge, quindi, doveva essere ispirata ad uno scopo essenzialmente pratico e cioè a quello
di ristabilire un certo equilibrio numerico tra i due sessi. Inoltre, essendo quella romana una
società prettamente patriarcale, essendo cioè costruita su misura per l'uomo ed essendo il
nome e la grandezza della famiglia affidati e destinati ai discendenti di sesso maschile, è logico
che tale discendenza avesse, agli occhi della società, maggiore importanza di quella femminile
destinata col matrimonio a mutar famiglia e a distornare parte dei beni.

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Lo stesso fine è l'ispiratore dell'altra legge, quella sancita nelle XII tavole e riportata da Gaio
(Institutiones, I, 132), dalla quale si desume che una posizione preminente era riservata al primogenito
maschio per il quale erano necessarie tre vendite “mancipationes” per liberarlo dalla patria potestas,
mentre per gli altri figli, maschi e femmine ne era sufficiente una soltanto.

Nel diritto romano, la mancipatio era un negozio solenne, di


origini molto antiche, su persone o cose definite res mancipi.

La capacità di porre in essere una mancipatio dapprima


apparteneva ai soli cittadini romani sui iuris, gli unici ad
esercitare lo ius commercii, presto riconosciuto anche ai
Latini.

Originariamente si svolgeva nel modo seguente: alla


presenza di cinque testimoni, tutti cittadini romani e puberi,
e un pesatore pubblico (libripens), l'acquirente (mancipio
accipiens), tenendo tra le mani un pezzo di bronzo (l'aes
rude), che in epoca premonetaria si utilizzava come
corrispettivo, dichiarava solennemente che la cosa oggetto
della mancipatio gli apparteneva. Successivamente, posava
sulla bilancia del pesatore il bronzo, che veniva pesato e
consegnato all'alienante (mancipio dans) quale prezzo dello
scambio.

Con il trascorrere del tempo, le formalità richieste da questo


atto divennero meramente simboliche, sebbene si
continuasse ad utilizzarle per il rispetto della tradizione
tipico dei Romani in campo giuridico. La mancipatio
divenne dunque un negozio astratto di trasferimento del
dominium ex iure Quiritium sulle res mancipi, che poteva
essere caratterizzato anche da una causa diversa dalla
vendita.

Di tale evoluta forma di mancipatio parla il giurista romano


Gaio nelle sue Istituzioni, ove definisce l'atto quaedam
imaginaria venditio, una sorta di vendita immaginaria,
fittizia.

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In altre parole, nella famiglia romana vigeva una specie di maggiorascato, cioè c'era una specie
di favoritismo nei confronti dei maschi filii familias in primo grado, perché questi erano
destinati a divenire patres a loro volta alla morte del capo famiglia. Gli altri filii, tanto maschi
che femmine erano equiparati.

Non dimentichiamo che filius non indica, come nella terminologia moderna, solo un grado di
parentela diretta, ma comprende anche l'uxor (moglie) in manu, il nipote, il pronipote,
l'adottato, l'arrogato e i loro discendenti e che pater può essere pure un impubere o un uomo
senza suoi figli carnali).

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Casa di Augusto, Palatino - Roma

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Occupandoci ora dei titoli mediante cui si diventava membro della familia e si era assoggettati
alla potestà del capofamiglia, oltre alla procreazione in iusta nuptiae da un individuo maschio
della familia, sia esso pater o filius familias, il diritto romano conobbe anche l'adoptio
(adozione) e l'adrogatio (arrogazione).

L’adrogatio è la forma più antica, collocata dagli studiosi in un periodo anteriore


all’emanazione delle XII Tavole.

L’adrogato che doveva essere necessariamente “sui iuris”, cioè non sottoposto
alla potestas di un altro capofamiglia, passava sotto la potestà del nuovo pater,
divenendone filius, assieme alla sua famiglia (coniuge e discendenti). A tutti i
componenti si applicava la capitis deminutio minima che di fatto consisteva nel
mutamento dello stato familiare.4

L'adrogato assumeva il culto osservato dall'adrogante ed accettava di praticarlo


disconoscendo quello della famiglia di origine con una solenne cerimonia, volta a
placare i numi che da quel momento non avrebbero più ricevuto i dovuti onori e
sacrifici, la detestatio sacrorum, consistente nel rifiuto rituale (detestatio) dei
doveri sacrali (sacra) che lo legavano alla famiglia paterna.

Proprio per questo aspetto di carattere religioso l’adrogatio avveniva sotto lo


stretto controllo dei pontifices che dovevano verificare che fosse conforme allo ius
sacrum e che non comportasse svantaggio economico per l'adrogato. Dato che con
l’adrogatio si estingueva una famiglia e si modificavano così gli equilibri politici e
religiosi della comunità, l’atto veniva compiuto davanti ai comizi curiati
convocati dal Pontefice Massimo.

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La deminutio capitis maxima consisteva nella perdita della cittadinanza e della libertà, quella minor nella
perdita della cittadinanza.

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Con il doppio controllo, dei pontefici e del popolo, l'adrogato entrava infatti in
condizione di alienis iuris, comportante l'indisponibilità del patrimonio personale
e familiare.

Non fu raro il sospetto che l'istituto fosse usato per impossessarsi del patrimonio
dell'adrogato, con una specie di successione tra vivi, per cui a partire dal I secolo
a.C furono istituiti maggiori controlli per evitare usi fraudolenti dell'atto.

L'adrogante, perciò, doveva prestare giuramento garantendo di agire con onestà


negli interessi dell'adrogato; al giuramento seguiva la presentazione dinanzi ai
comizi curiati i quali procedevano alla rogatio, interrogazione con quale si
chiedeva al pater adrogans se intendesse adottare l'adottando, all'adottando se
intendesse essere adottato ed al populus se approvasse l'adozione.

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Statua dell’Imperatore Adriano, come Pontifex Maximus

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L’adoptio, introdotta solo in età posteriore alle XII Tavole, fu probabilmente il
frutto dell’interpretazione pontificale sull’istituto dell’emancipazione, sistema
escogitato per rendere sui iuris un figlio attraverso la simulazione di tre successive
vendite ad un altro pater che poi rinunciava alla potestà.

L’adoptio veniva, infatti, realizzata compiendo dapprima l’emancipatio e quindi


recandosi dinanzi al pretore, dove l’adottante rivendicava l’adottato (che doveva
essere necessariamente presente) come suo figlio, mentre l’ex padre taceva
ritirandosi (in iure cedebat).

A questo punto il pretore, riconoscendo come legittima la rivendicazione


dell’adottante, pronunciava la addictio, vale a dire dichiarava che l’adottato era
figlio dell’adottante.

In seguito all’adoptio fatta “imperio magistratus”, e cioè in base al potere del


magistrato, l’adottato usciva dalla famiglia originaria, perdendo ogni rapporto di
parentela ed ogni diritto e dovere nei suoi confronti; acquistava, invece, rapporti
di parentela e relativi diritti e doveri nei confronti della famiglia dell’adottante.

Augusto,

primo imperatore romano

fu adottato dal prozio


materno

Gaio Giulio Cesare.

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L'Augusto di Prima Porta, statua in marmo attualmente conservata ai Musei Vaticani.

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I filii familias erano, con riguardo ai rapporti patrimoniali, in una posizione di
assoluta soggezione al pater familias. Potevano compiere negozi giuridici di
acquisto, ma ciò che ad essi perveniva era devoluto senz’altro al pater.

In conseguenza di tale situazione, essi non possedendo nulla, non potevano cedere
nulla in giudizio, né potevano fare testamento o donazioni, né assumere
obbligazioni con terzi e obbligare conseguentemente il pater, salvo che questi non
avesse autorizzato l’operazione e ne avesse tratto vantaggio.

La situazione cambiò presto con il riconoscimento e lo sviluppo del peculium per


cui i figli maschi furono in grado di porre in essere veri e propri rapporti
obbligatori.
Il peculium consisteva nella donazione di una certa quantità di beni
che il dominus metteva a disposizione del filius o del servus.

Costoro non potevano disporre di beni propri, ma potevano porre in


essere atti giuridicamente rilevanti i cui effetti erano direttamente
imputati nella sfera giuridica del dominus.

Per evitare danni patrimoniali al dominus derivanti dall’azione dei


soggetti alla sua potestà, si ammise ben presto che coloro i quali
agivano utilizzando un peculio, potessero porre in essere solo atti che
migliorassero la situazione patrimoniale dell'avente potestà la cui
responsabilità, per gli atti compiuti dal servo o dal figlio, era
tendenzialmente limitata al solo peculio.

Per garantire i terzi che ponessero in essere negozi giuridici con chi
era soggetto alla potestà di un altro, si previdero delle actiones a
tutela dei terzi creditori da esercitarsi in via nossale contro il dominus
avente potestà.

Sebbene il peculium fosse giuridicamente di proprietà del padrone, e


dunque questi potesse in ogni momento privarne il servo (ma anche il
figlio), di fatto esso assumeva talvolta dimensioni tanto considerevoli
da consentire allo schiavo di riscattare con esso la propria libertà.

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Gradatamente, i figli acquisirono autonomia contrattuale rispetto al pater, per cui ebbero
la possibilità di obbligarsi personalmente, rispondere per le azioni contrattuali intentate
contro di loro e acquisire la nuda proprietà di quanto guadagnato con i loro affari,
rimanendo al padre il solo usufrutto.

Anche alle figlie venne concessa, in epoca imperiale, la disponibilità di un peculio e spesso
furono a capo di un’impresa commerciale o marittima.

La sempre maggiore disinvoltura dimostrata dai filii nei commerci e, forse, una certa
spregiudicatezza nel contrattare o richiedere mutui anche per soddisfare esigenze
personali, doveva aver creato situazioni critiche con i creditori, dato che questi null’altro
potevano ottenere per rientrare in possesso di quanto prestato, se non l’ammontare del
peculium concesso dal pater.

Fu così che un certo Macedone, per liberarsi dai creditori e risolvere la sua situazione
debitoria, decise di accedere anzitempo all’eredità …. uccidendo il pater.

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Statua di Vespasiano

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Vespasiano, cogliendo l’occasione da questo fatto drammatico, con il
Senatusconsultum Macedonianum dettò nuove norme per regolare i rapporti tra
creditori e figli sottoposti al pater, stabilendo il divieto di concedere loro somme di
denaro a titolo di mutuo e privando di tutela processuale i creditori “denegatio
actionis” che vedevano così annullate le pretese di restituzione di quanto prestato
senza il consenso del pater. Il divieto era, peraltro, inoperante se il pater avesse
dato il proprio consenso al mutuo o se il filius, divenuto sui iuris, lo avesse
ratificato, onorando comunque il debito.

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Ulpiano in Digesto 14.6.1 Il tenore del Senatoconsulto Macedoniano è il seguente: “In considerazione del fatto
che tra le diverse cause del crimine Macedone ha la sua stessa personalità, ma anche una questione di debito, e
che spesso chi dà danaro in prestito attraverso incerta nomina induce a commettere azioni riprovevoli secondo
cattivi costumi, a tacer di ogni altro, si stabilisce che a colui che abbia prestato danaro al filiusfamilias non sia
concessa l’azione e la pretesa giudiziale, neanche dopo la morte del padre avente potestà, affinché coloro che
danno danaro ad interesse con un pessimo esempio, sappiano che mai, neanche dopo la morte del padre, potrà
essere esigibile.

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Nel periodo imperiale cominciarono ad essere inferti i primi colpi alla struttura
tradizionale della famiglia, con l’ingerirsi in seno ad essa delle leggi cittadine che
vennero a regolare materie che prima erano state gelosamente riservate alla
competenza dei mores maiorum.

La stessa potestas ne risentì di certo. Il passo di Marciano riportato nel Digesto (D:
47, 9) che racconta della condanna alla deportazione “in insulam” di un pater che
aveva gravemente abusato della sua potestà sul figlio causandone la morte, è
testimone di un lento disfacimento, nato agli albori del principato e culminato nel
Corpus Iuris Giustinianeo.

Diversi passi delle Istituzioni giustinianee documentano l’elaborazione


giurisprudenziale dell’istituto della patria potestas e l’evoluzione della sensibilità
giuridica che ne mitiga l’originaria ampiezza e asprezza, in quanto “in pietate
debet, non in atrocitate consistere”.

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“Per i delitti dei figli o degli schiavi, come ad esempio in caso di furtum o iniuria sono predisposte le azioni
nossali, affinché sia consentito al padre o al proprietario (dello schiavo) o sopportare la condanna al pagamento
di una somma di denaro (litis aestimatio) oppure di effettuare la noxae deditio (G. 4,75).
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L’azione nossale che in alcuni casi aveva dato luogo ad eccessi, causando gravi
rischi per i figli, fu rifiutata e sottoposta a critica, mentre l’acquisizione da parte
del pater della proprietà di tutto ciò che proveniva dai commerci del figlio finì per
essere coniderata contro giustizia.

Tutto questo, evidentemente, finiva per negare la stessa patria potestas come essa
fu intesa nella prima società e come è stata tramandata dalla giurisprudenza: la
patria potestas non è più che una mera sopravvivenza storica, un nome senza più
un contenuto sostanziale.

Il diritto romano più antico prevedeva l’azione nossale


“noxae deditio” con la quale il pater poteva liberarsi
dalle conseguenze dannose dei delitti dei figli
emancipandoli, cioè vendendoli.

La locuzione latina ius noxae dandi racchiude un


principio del diritto romano secondo il quale spettava al
pater familias di consegnare (noxae deditio) alla persona
offesa, attraverso il rituale della mancipatio, il proprio
figlio che si fosse reso autore di un delitto.

Uguale diritto spettava al dominus nei confronti dello


schiavo autore di un delitto.

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Dexterarum iunctio ………ut ignis et aquae eiusdem participes essent!10

In familiam viri transitabant

filiaeque locum optinebant

11

La forma più antica del matrimonio romano prevedeva alcuni riti con i quali

la donna usciva dalla sua famiglia di origine

per passare sotto la potestas del pater familias dello sposo,

dove acquisiva sia lo status di uxor in manu, che di filiafamilias.

10
La congiunzione delle mani destre …..perché condividano l’acqua e il fuoco.
11
Gaio, I, 111: passavano nella famiglia dell’uomo e ottenevano lo status di figlia.

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Vale a dire che la moglie – Uxor – con il matrimonio mutava famiglia, ma non la
propria condizione di figlia sottoposta, tramite la conventio in manus, ad una
patria potestas.

La manus o conventio in manus

presso gli antichi Romani era il potere che l'uomo aveva


sulla donna. Il titolare era il marito, se sui iuris, o il
pater di lui.

I modi di acquisto della manus erano tre:

confarreatio, coemptio , usus.

La confarreatio, cerimonia religiosa riservata ai patrizi

e, in particolare, alla ristretta aristocrazia

che aspirava alle alte cariche sacerdotali,

era caratterizzata dalla spartizione fra gli sposi

di una focaccia di farro -panis farreus - (da qui il nome),

primo pasto condiviso e simbolo della futura vita comune.

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Celebrata davanti al Pontifex Maximus, al Flamen Dialis e a dieci testimoni nati
da matrimoni celebrati con lo stesso rito, la confarreatio iniziava con il sacrificio di
una pecora a Giove Farreo, Iuppiter Farreus, per trarne auspici sulla sorte della
nuova famiglia.

La pelle della pecora sacrificata, pellis lanata, veniva usata per coprire il sedile su
cui gli sposi sedevano durante la cerimonia.

Il flàmine (latino flamen) era il sacerdote preposto al

culto di una specifica divinità

da cui prendeva il nome

e di cui celebrava il rito e le festività.

Vi erano tre flamini maggiori e 12 flamini minori.

I flamini maggiori venivano nominati dal Collegium


Pontificum presieduto dal Pontifex Maximus.

L'etimologia del termine flamen è incerta, secondo alcuni


deriverebbe da filum, il filo di lana posto sul copricapo,
secondo altri da flare, soffiare per mantenere vivo il
12 fuoco sacro.

12
Flamen dialis

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La sposa indossava un velo rosso o arancione intenso, flammaeum, da flamma
(fiamma) che le copriva il capo e, insieme al marito, doveva compiere tre giri
rituali attorno all'altare, percorrendo il tragitto verso destra.

Il termine nuptiae, cioè nozze,

deriva dal fatto che la sposa aveva il velo “nubes”13

La manifestazione del consenso era indicata dall’unione delle mani degli sposi,
dexterarum iunctio e dalla formula pronunciata dalla donna: “ubi tu Gaius et ego
Gaia” (dove tu Gaio, anche io Gaia).

Il corteo si muoveva poi verso la casa coniugale e la sposa ne sorpassava la soglia


tra le braccia dello sposo per evitare una caduta, presagio di una cattiva sorte.

13
Il verbo è “nubere”

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La moglie entrava, così, nella famiglia dello sposo conferendole tutti i suoi beni e
diveniva filia del pater familias di questo (o del marito stesso, se “sui iuris”): ogni
legame giuridico o patrimoniale con la famiglia di origine da quel momento era
reciso.

La coemptio era il rito nuziale a cui ricorrevano soprattutto i plebei,

cui era preclusa la confarreatio, per acquisire la manus sulla donna.

Coemptio deriva da cum, "con"

ed emptio, "acquisto, compera"

e quindi significa letteralmente "con vendita".

Il rito consisteva in un adattamento della mancipatio, un


negozio tramite il quale si potevano acquistare le cose di
maggiore importanza (le cosiddette res mancipi).

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In realtà, la coemptio era una forma immaginaria di vendita, nella quale intervenivano il
mancipio dans (letteralmente "colui che dà per mancipatio") il padre della donna e il
mancipio accipiens ("colui che riceve per mancipatio") il marito o, se era alieni iuris, il suo
pater familias.

14

Coemptione vero in manum conveniunt per


mancipationem, id est per quandam imaginariam
venditionem

15

14
Ritratto del fornaio Terentius Neo e della moglie, conservato a Pompei

15
Gaio, I, 113

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La coemptio era dunque una trasposizione della normale mancipatio che veniva
utilizzata per acquisire beni: il marito non era il compratore della donna, ma
l’acquisiva in qualità di marito.

L’usus era il modo più semplice per costituire la manus.

La donna sposata senza una confarreatio o una coemptio (o con queste eseguite in
modo non valido) dopo un anno di convivenza con il marito cadeva sotto la sua
manus, purchè la vita coniugale si fosse svolta senza interruzioni.

Il matrimonio sine manu

Con il trascorrere del tempo, per consentire alla donna di non passare sotto la
manus del marito o del suo pater familias, fu escogitato un espediente: era
sufficiente un’assenza da casa per tre giorni per far decadere il periodo e
ricominciarne il conteggio.

Questo avvenne quando la donna acquistò maggiore autonomia ed ebbe il diritto di


possedere un patrimonio personale, fatto che ci fa capire come la manus non fosse
legata a questioni di dominio sulla donna, ma a ragioni economiche.

Tale fu dunque l’essenza della manus sulla donna: assicurarsi la proprietà dei suoi
beni e impedire un testamento a favore dei parenti carnali.

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Nel diritto romano la donna sposata in manu – materfamilias, matrona - occupava
nella famiglia e nella considerazione sociale un posto che la sua, diciamo, collega sia
greca che orientale non ebbe di certo.

Basta pensare al ruolo attivo svolto da alcune donne e all’influenza della loro azione
sulle scelte e sugli avvenimenti politici, sia nel periodo repubblicano che
nell’impero.

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E’ vero che non potevano assumere incarichi pubblici e che, se sui iuris, ebbero bisogno
dell’interposizione, almeno fino al periodo repubblicano, dell’auctoritas di un tutore per
validare gli effetti di negozi, contrattazioni commerciali o atti di natura testamentaria, ma
questo non dovrebbe sorprenderci troppo, dato che la situazione è stata simile almeno fino
alla metà del secolo scorso, quando le donne definitivamente “emancipate” hanno potuto
ricoprire cariche pubbliche, esercitare professioni, hanno avuto il diritto di voto e parità di
diritti nel matrimonio.

Eppure, anche così, stante l’uguaglianza nei diritti, rimane ancora oggi un retaggio
di disuguaglianza nelle opportunità, tanto da prevedere per legge “quote rosa” per
l’accesso a incarichi politici o manageriali.

Abbiamo già visto che con la conventio in manus la donna usciva definitivamente
dalla sua famiglia ed entrava in quella del marito, perdendo così ogni diritto
successorio nei confronti dei suoi parenti.

In situazione di parità con i fratelli nella famiglia di origine, in seguito al


matrimonio poteva essere defraudata della parte di patrimonio paterno che le
sarebbe spettato, vedendo sfumare le sue aspettative ereditarie.

L’origine della dote, istituto particolarissimo che contraddistingue il diritto romano


e non ha uguali presso altre civiltà antecedenti o contemporanee a Roma, deve
essere cercato proprio nell’elaborazione di un sistema idoneo a sanare questa
evidente differenza di trattamento tra fratelli.

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Presso altri popoli, infatti, in occasione delle nozze era consuetudine il versamento
di una somma di denaro al futuro suocero, ma i prudentes, dovendo confrontarsi
con la complessa struttura della familia ed anche con un diverso status della
donna, trovarono un modo originale per riequilibrare la situazione di ingiustizia
che conseguiva al passaggio della sposa in un altro nucleo familiare.

Grazie al lavoro interpretativo dei giuristi, all’originaria finalità della dote se ne


sovrappose nel tempo un’altra derivante dal cadere in disuso della conventio in
manus e dal diffondersi dei mantrimoni sine manu: la dote è conferita per sostenere
gli oneri del matrimonio.

Il marito, almeno inizialmente, ne fu il proprietario e successivamente, con


l’acquisto della della capacità di agire da parte della donna, solo l’amministratore.

Tale è rimasta nei secoli la natura dell’istituto dotale, fino alla sua definitiva
abrogazione nel 1975 ad opera del “nuovo diritto di famiglia” che ha riformato la
relativa parte del Codice Civile, dove all’articolo 143 è sancita la parità trai coniugi e
l’obbligo per entrambi di contribuire ai bisogni della famiglia, in relazione alle
proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo.

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16
Ara Pacis, rilievo laterale. Figura di matrona che rappresenta la Pace.

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Estratto dalla tesi di Laurea in Giurisprudenza

“ La donna nella storia giuridica romana”

di Giovannella Gattini

Università La Sapienza – Roma, 27 luglio 1973

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