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FAMILIA ROMANA

In epoca romana la famiglia ricopriva una notevole importanza. La convinzione era che
non è possibile divenire onesti cittadini se fin da ragazzi non si è ricevuta una buona
educazione. La grandezza di Roma fu possibile anche grazie alla rigida organizzazione
familiare.

N. B. I cittadini romani di antica e tracciata origine avevano di solito tre nomi:


il primo, detto praenomen, corrisponde al nostro nome personale ed era imposto nel dies
lustricus (es. Publius);
il secondo, detto nomen, corrispondeva a l nostro cognome ed era quello della gens,
comune a tutte le famiglie discendenti dallo stesso capostipite (es. Cornelius; Iulius);
il terzo era il cognomen, proprio di ciascuna famiglia, derivato do solito da una
caratteristica fisica di colui che lo aveva assunto per primo o da una caratteristica morale o
dalla professione esercitata (es. Scipio - bastone, scettro, sostegno del padre; Caesar -
chioma, capelli folti, grande, dio, capo);
talvolta a titolo personale si aggiungeva anche un soprannome (agnomen) a ricordo di
un’impresa compiuta (es. Africanus; Cunctator).
I figli adottivi (attraverso il meccanismo dell’adozione, adoptio), oltre ad assumere tutti i
nomi del padre di adozione, conservavano anche il nomen della famiglia di origine
aggettivato in -anus: esempio Augusto adottato da Caio Giulio Cesare diventa Caius Iulius
Caesar Octavianus (il padre biologico portava come nomen Octavius).
Per le femmine si usava il nomen della gens al femminile (es.Iulia dalla gens Iulia ). Se le
figlie erano più di una, si distinguevano per lo più con gli ordinali (es. Secunda, Tertia,
Quintillia, Octavia)

Il Pater familias

Il capo della famiglia era il padre, l’unico che poteva disporre


del patrimonio della gens (bestiame, casa, schiavitù, campi).
Egli veniva considerato il padrone assoluto della casa e il sacerdote della religione
domestica: era lui infatti che celebrava i riti dinnanzi all’altare degli dei, che proteggevano
la famiglia.
All’interno della domus, il luogo adibito ai riti era una nicchia di un’apposita edicola,
detta larario e, in particolari occasioni o ricorrenze, le statuette in essa contenute venivano
onorate con l’accensione di una fiammella.
Ogni avvenimento importante era messo sotto la protezione dei Lari con sacrifici e offerte:
per esempio il raggiungimento dell’età adulta, la partenza per un viaggio oppure il ritorno
di qualcuno, il matrimonio, le nascite. La moglie e i suoi figli gli dovevano la più rigorosa
ubbidienza.
Anche se un figlio avesse raggiunto le più alte cariche dello Stato, fosse cioè console o
senatore, rimaneva ancora soggetto alla volontà paterna.
Il padre aveva addirittura il diritto di vita o di morte sui propri figli. Se per sventura un
bambino nasceva storpio, il padre era libero di ripudiarlo come figlio e poteva venderlo o
lasciarlo morire. Tale facoltà fu abolita solo nel 374 d. C. per influenza del Cristianesimo
I neonati, che dovevano essere lasciati morire, venivano abbandonati presso una colonna
che era situata in un grande mercato. La colonna era detta “lactaria” (dal latino lac, latte),
poiché l’unico cibo col quale i nutrono i bambini appena nati è il latte. Accadeva però
spesso che qualche persona di buon cuore prendesse con sé i poveri piccini per allevarli.
(per dettaglio eventualmente vedere approfondimento)
Da un punto di vista strettamente giuridico, tutti coloro che erano assoggettati alla patria
potestas erano considerati la longa manus del pater. Era infatti principio indiscusso
del diritto romano che tutto ciò che veniva acquistato dai figli o dagli schiavi ricadeva
automaticamente nella sfera giuridica del pater familias.
Anche dopo il matrimonio, rimaneva nella casa paterna e la moglie (uxor) era soggetta
all’autorità del suocero (socer). Soltanto alla morte del padre, il figlio maschio primogenito
diventava a sua volta pater familias.

La Matrona

La matrona era, nell’antica Roma, una donna che possedeva la cittadinanza romana ed
aveva contratto un matrimonio romano con un uomo libero.
A differenza di quanto fu in Grecia e in genere presso tutti i popoli antichi,
la donna godette in Roma di un grande prestigio e fu tenuta nel massimo rispetto. Sebbene
soggetta all’autorità del marito, veniva considerata la regina della casa ed era onorata coi
nomi di domina, padrona e di matrona.
Ella era veramente la compagna dell’uomo (vir o maritus o coniunx) in tutti i momenti
della sua vita e divideva con lui le responsabilità familiari e gli onori della vita pubblica.
Durante il periodo della repubblica romana il posto che in prevalenza le era riservato era
quello della realtà domestica, col compito di prendersi cura della Domus nell’ambito
della famiglia romana, sotto la protezione e la tutela del paterfamilias, fosse esso il padre
oppure il marito.
Non le era in alcun modo consentito di ricoprire cariche pubbliche o avviare un’attività
politica. La matrona era la madre (mater familias), dignitosa e rispettabile, responsabile
della corretta manutenzione delle casa e della crescita dei figli.
Era esente dal lavoro domestico e agricolo, tranne che per la filatura della lana, una
tradizione che i romani facevano derivare dall’episodio storico del Ratto delle sabine.
In quanto madre di famiglia ha un certo potere all’interno della casa, dirige i servi e gli
schiavi e viene chiamata “domina” (padrona).
Le era concesso di partecipare ai banchetti, cosa che in Grecia era considerata scandalosa:
ma mentre gli uomini mangiavano stando sdraiati su lunghe poltrone dette triclini (dal
greco treis, tre, e klinè, letto, cioè letto per tre persone), le donne stavano sedute e non
bevevano mai vino. Per strada gli uomini dovevano cedere il passo alla donna e chi le
rivolgeva parole offensive poteva anche essere condannato a morte.
Narra la leggenda che, avendo Sesto, figlio del re Tarquinio il Superbo, recato offesa alla
moglie di Collatino (futuro primo console di Roma), si scatenò un’insurrezione popolare
che costrinse il re e la sua famiglia a lasciare per sempre Roma.
Da un punto di vista giuridico era nulla più che la sorella dei suoi figli, senza alcun diritto
su di loro; poteva tuttavia possedere dei beni personali che poteva lasciare in eredità.
N.B. Le donne romane di età imperiale, appartenenti ai ceti sociali più elevati, fino
all’adolescenza studiavano come i maschi, imparando a leggere, a scrivere e a contare.
Verso i dodici anni l’educazione si differenziava: le ragazze si dedicavano alla danza, al
canto e alla cetra.
(per dettaglio eventualmente vedere approfondimento)

MATRIMONIO
Nella società romana arcaica il matrimonio (matrimonium) poteva avvenire soltanto tra
cittadini romani appartenenti alla stessa classe sociale. La possibilità che i patrizi e plebei
si sposassero tra loro fu introdotta solo con la legge del 435 a. C. Erano inoltre esclusi i
matrimoni misti tra Romani e stranieri. Gli schiavi non potevano sposarsi, ma era loro
consentita una forma di convivenza (contubernium).
A Roma esistevano tre principali tipi di unione matrimoniale : conferreatio, coempti
e usus. Nella conferreatio gli sposi sedevano su uno sgabello rivestito dalla pelle di una
pecora sacrificata per le nozze (pellis lanata) e mangiavano insieme. Poi la pronubă
(colei che assiste gli sposi) , una donna scelta tra gli amici delle famiglie, che fosse di
condotta irreprensibile e univira (sposata una sola volta e con il marito ancora in vita),
congiungeva le mani destre degli sposi.
Veniva poi firmato in presenza di dieci testimoni un contratto matrimoniale (tabulae
nuptiales). La donna sposata con questo rito veniva chiamata matrona.

Il rito della coemptio invece era in origine un vero e proprio contratto di compra-vendita.
Nel corso della cerimonia la futura sposa, esattamente come un oggetto, veniva venduta
alla presenza di un personaggio che reggeva una bilancia. Su questa, il marito gettava il
prezzo della moglie. Tuttavia,come tipo di unione, la coemptio a differenza della
conferreatio comportava una maggiore elasticità. (es: divorzio senza dover ricorrere alle
vie legali) La donna sposata con questo rito veniva chiamata uxor.

Nel caso della convivenza ( usus ),la donna che andava a vivere a casa dell’uomo veniva
considerata sua moglie a tutti gli effetti. Dopo un anno di convivenza, l’unione diventava
matrimonium di fatto e la donna passava sotto la potestà del marito ( o suocero). (per
dettaglio eventualmente vedere approfondimento)
Durante la cerimonia del fidanzamento (sponsalia) ol futuro sposo consegnava alla
promessa sposa un anello che la ragazza infilava all’anulare sinistro, a simboleggiare il
profondo legame di fedeltà, poiché i Romani credevano che da questo dito partisse una
vena che arrivava direttamente al cuore.
Durante la cerimonia nuziale vera e propria, che per i ceti più agiati si svolgeva alla
presenza del pontefice massimo, i due sposi suggellavano la loro unione spartendosi una
focaccia di farro (da qui il nome confarreatio a questo rito) e stringendosi l’un l’altro la
mano destra (dextrarum iunctio).
Dopo il rito, aveva luogo il banchetto nuziale. Quindi la moglie, vestita di una tunica color
zafferano e con il capo coperto da un velo arancione (flammeum), veniva accompagnata in
corteo, tra canti propiziatori (hymenaei), alla casa dello sposo: questi si affacciava alla
porta e domandava chi fosse la donna e come si chiamasse. Allora lei rispondeva con la
formula rituale Ubi tu Gaius, ego Gaia (come a dire “Dove tu sarai, lì sarò anch’io”). Quindi
il marito la sollevava fra le sue braccia affinché non toccasse la soglia con i piedi
(inciampare sarebbe stato di cattivo augurio) e le offriva acqua e fuoco, a significare l’inizio
della vita insieme

I Figli
I figli del pater e della mater familias (detti liberi- maschi e femmine insieme - per
distinguerli dai figli dagli schiavi) erano accuditi ed educati affinché perpetuassero i valori
della tradizionale virtus romana e la gloria della propria gens e allo scopo di coltivare ogni
dote necessaria alla loro futura affermazione e promozione sociale Il nono giorno dopo la
nascita di un bambino (l’ottavo per una bambina), il dies lustricus, aveva luogo la
cerimonia della purificazione del neonato e l’imposizione del nome. Il bambino romano
non era tutelato da nessuna legge dello Stato. Se nato in una famiglia benestante, il
neonato veniva affidato alla nutrice (nutrix) che lo allattava e successivamenta da un
pedagogo: queste due figure allevavano il bambino fino all’adolescenza e per lui
rappresentavo l’appoggio affettivo, mentre i genitori e i maestri veri e propri avevano il
compito di educarlo severamente. In casa maschi e femmine crescevano insieme fin verso i
12 anni, età in cui le ragazze (puellae) erano considerate adulte (dominae) ed erano
prendere marito. I ragazzi (pueri) invece entrano nell’età adulta a 14 o 15 anni.
Nei primi periodi della Repubblica, l’educazione dei figli era affidata interamente ai
genitori: nei primi sette anni di vita alla madre; e poi, fino al diciassettesimo anno, al
padre.
Ai padri di famiglia non rincresceva di sottrarre tempo ai loro affari per insegnare a leggere
e a scrivere ai loro figli e per farli assistere ai più importanti avvenimenti della vita
pubblica.
L’educazione romana mirava a suscitare nei giovani l’amore verso la patria, il rispetto
(pietas ) per la religione, le tradizioni e le leggi.
Una vecchia massima diceva che i giovani devono avere mens sana in corpore sano,
mente sana in corpo sano, ossia intelligenza pronta e ottima salute. Così i fanciulli romani
venivano esercitati nella mente e nel corpo.
Accanto agli esercizi di equitazione, di nuoto, di lotta e di ginnastica non veniva trascurata
la lettura dei grandi poeti. Se nei primi anni della Repubblica l’istruzione dei figli era
compito dei genitori, con l’andar del tempo questa buona norma si perse, e i fanciulli o
furono affidati a precettori o mandati a scuole pubbliche.
Queste, però, non erano mantenute dallo Stato, come lo sono oggi, ma dirette da privati,
che per un modestissimo compenso si sobbarcavano la non lieve fatica di insegnare a
leggere e a scrivere. Sul finire della Repubblica esistevano tre ordini di scuole: il primo
corrispondeva alla nostra scuola elementare, il secondo a quella media, il terzo era
frequentato da quei giovani che desideravano apprendere l’eloquenza (dal latino eloqui,
parlare) per avviarsi alla vita politica. Molti giochi coi quali si divertono i ragazzi di oggi,
erano già conosciuti dai ragazzi romani. Essi infatti giocavano col cerchio, con la trottola,
con la palla e col cavallino di legno.
Il loro gioco preferito era però quello delle noci, tanto che l’espressione nuces relinquere,
lasciare le noci, voleva significare “uscire dall’infanzia”. Con le noci, i fanciulli romani si
divertivano in vari modi, proprio come fanno i bambini di oggi con le biglie.

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