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Ovidio venne esiliato l’8 d.C, questo esilio è significativo perché indica una rottura del legame tra il
potere e i letterali. L’età imperiale tratta dalla morte di Augusto al II sec.
Nell’eta Giulio claudia (14, morte i augusto al 68, morte di Nerone) il rapporto tra gli intellettuali e
il potere prende una piega particolare.
Augusto quando prende il potere assoluto, a differenza di cesare, cerca di mantenere delle
apparenze repubblicane, mantenendo un basso profilo. Lo stesso fare Tiberio soprattutto nei primi
anni del suo regno, anche se nel 27 si ritira a Capri, per cui continua a fare l’imperatore ma da
lontano. L’assenza dell’imperatore da Roma e il fatto che lui intervenisse negli affari dello stato
tramite rapporti epistolari, non bastava comunque. Per cui il potere viene affidato al prefetto del
pretorio, che è il capo delle “corti pretoriane”, dei reparti militari stanziati a Roma che costituiscono
una sorta di guardia personale dell’imperatore.
Il regno di claudio dura 13 anni ed è caratterizzato dal potere dei liberti, questi funzionari imperiali
possono essere meglio gestiti dall’imperatore poiché si trovavano fuori dal senato.
Alla morte di claudio arriva al trono Nerone, figlio della seconda moglie di Claudio, a cui la madre
aveva aperto la strada al trono tramite varie congiure. Il regno di Nerone è diviso dagli storici in due
parti;
- Il quinquennio felice, dal 54 al 59, dove Nerone, molto giovane si lascia gestire da Burro (uno
dei più famosi prefetti del pretorio) e Seneca.
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La vita di Seneca è molto intrecciata alla vita della corte, è stato il precettore di Nerone, perciò ha
avuto anche un ruolo politico importante. Mentre Orazio e Virgilio erano legati ad augusto e
mecenate, e agivano come propaganda culturale dell’impero, stando fuori dalla decisioni degli
imperatori.
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Seeneca nasce a Cordova, in Spagna, nel 4 a.C.
Due elementi della biografia di Seneca sono importanti;
- Non essendo nato in Italia, ciò vuol dire che l’asse culturale si inizia a spostare.
- Seneca nasce quando ormai la repubblica è chiusa da un pezzo (dal 27 a.C), rispetto a Virgilio e
Orazio che avevano vissuto in prima persona alle guerre civili, Seneca arriva a Roma molto
giovane e entra a far parte della corte imperiale.
La Corsica al tempo era una terra particolarmente inospitale, nel 49 riesce a tonare grazie agli
intrighi di agrippina, riavvicinandosi in seguito alla corte.
Seneca è uno degli autori romani, insieme a cicerone, di cui abbiamo il maggior numero di opere.
Seneca ha uno stile molto diverso dagli autori precedenti, ha molta meno subordinazione. Perciò dal
punto di vista sintattico è molto facile ed è difficile per quanto riguarda la resa italiana.
Seneca può essere considerato un filosofo, poiché rispetto alla tradizione romana è colui che più si
può definire un filosofo, anche perché è un seguace dello stoicismo. A differenza dell’epicureismo,
lo stoicismo ammette la partecipazione del sapiens alla vita politica se le condizioni lo permettono.
L’epicureismo è una filosofia atomistica, invece lo stoicismo no.
Seneca dai cristiani verra considerato vicino al cristianesimo, e addirittura si parla di rapporti con
San Paolo, poiché per molti aspetti la visione della vita e anche della morte è vicina a quella del
cristianesimo, l’unico elemento di differenza è quello del suicidio.
Opere;
- I 12 Dialoghi sono operette piuttosto brevi,
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«Servi sunt». Immo homines. | Secondo il diritto romano, i servi facevano parte del patrimonio
del pater familias, che li impiegava come se fossero strumenti, a proprio totale arbitrio. Fin dai
tempi più antichi, egli esercitava un potere assoluto, con diritto di vita e di morte, su tutti i
componenti della familia – moglie e figli compresi.
Nel mondo antico il passaggio dalla condizione di liber a quella di servus poteva avvenire in modo
drammatico e cruento: il condottiero vincitore di una guerra aveva il diritto di ridurre in schiavitù i
propri prigionieri, che a Roma erano venduti all’asta a beneficio di tutta la civitas. A partire dal III
secolo a.C., con le Guerre puniche e poi con le campagne di conquista dell’Oriente ellenistico, la
disponibilità di schiavi e il loro commercio ebbero un impressionante incremento.
A Roma esisteva anche la schiavitù per debiti, di solito di durata limitata nel tempo, che consegnava
come servus al creditore il debitore insolvente. Inoltre, molti bambini nati liberi, rapiti o non
riconosciuti dal pater familias ed esposti, diventavano proprietà di chi li raccoglieva e li allevava, e
poteva decidere di venderli o sfruttarli personalmente (per esempio, nella prostituzione): situazione,
quest’ultima, rispecchiata molto spesso nelle trame delle commedie, anche se, nella realtà, forse, il
lieto fine (cioè il ritrovamento della famiglia d’origine e il recupero della libertas) non doveva
essere molto frequente.
Infine, si poteva nascere già servi, in quanto figli degli schiavi di un padrone. La schiavitù, peraltro,
non era una condizione irreversibile: attraverso l’istituto della manumissio era possibile passare
allo status di libertus, o per generosa concessione del padrone o con il pagamento della somma
necessaria al riscatto, di cui molti schiavi potevano disporre attingendo al loro peculium (una
somma di denaro messa da parte, frutto di regali o del compenso per lavori accessori).
A Roma, e in molte città del suo dominio, esistevano per gli schiavi veri e propri mercati: nel I
secolo a.C. particolarmente fiorente fu quello sull’isola di Delo, nelle Cicladi. La merce era esposta
su un palco e ogni schiavo portava al collo un cartello (titulus), contenente informazioni essenziali
sul soggetto messo in vendita (nome, provenienza, età, pregi e difetti): i compratori potevano
scegliere, a seconda delle proprie esigenze, giovinetti graziosi da esibire come coppieri nei
banchetti, abili cuochi, flautiste, ballerine, ancelle, persone istruite da impiegare come precettori per
i propri figli, amministratori, contabili, copisti, ecc. Il prezzo variava in base all’età, all’aspetto e
alle competenze dello schiavo.
Le condizioni dei servi variavano notevolmente a seconda delle mansioni loro assegnate. In
generale, anche se tutti potevano essere sottoposti a pene corporali molto dure, quelli della familia
urbana, che si occupavano dell’andamento della casa e delle necessità del padrone e dei suoi
congiunti, godevano di una situazione incomparabilmente migliore rispetto agli schiavi della familia
rustica, adibiti a lavori molto pesanti e soggetti a una disciplina più rigida, come ben testimoniano le
figure servili della commedia, sempre terrorizzate alla prospettiva di essere mandati – per punizione
– a lavorare la terra o a girare la macina. Ancora peggiore era la condizione di quelli impiegati nelle
miniere o addestrati nelle scuole dei gladiatori, ambiente in cui prese forma la più famosa delle
rivolte servili dell’antichità, quella capeggiata da Spartaco, che tenne testa per tre anni (73-71 a.C.)
gli eserciti regolari della res publica.
A parte l’uccisione del padrone, la colpa più grave che un servus potesse commettere era la fuga:
egli, infatti, apparteneva al proprio padrone, il quale poteva disporre di lui come meglio credeva.
Nonostante questa realtà, mai messa seriamente in discussione nel mondo antico, sono attestati
rapporti assai vari tra schiavi e padroni. Mentre, ad esempio, il De agri cultura di Catone
rappresenta perfettamente la concezione utilitaristica, che considera i servi meri strumenti e adegua
al vantaggio che se ne può trarre il trattamento da riservare loro, molte lettere dell’epistolario
di Cicerone mostrano che egli nutriva per il suo dotto schiavo, e poi liberto, Tirone, sentimenti di
vero affetto, stima e amicizia. Anche Seneca, sia pure con un atteggiamento condiscendente e non
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privo di risvolti utilitari, nell’Epistula 47 elogia e approva Lucilio perché tratta familiarmente i
propri servi.
È importante l’elemento del caso per Seneca, perché secondo lui tutti siamo vittime del caso e
dovremmo capire che ognuno di noi potrebbe trovarsi nella situazione di diventare o di nascere
schiavo. Grazie a questa epistola Seneca ci da un quadro generale della vita domestica della nobiltà
romana, sottolineando il topos della civiltà romana decadente con eccessi e lussi sfrenati (perdita
del mos maiorum).
- Nell’epistola degli schiavi Seneca critica principalmente il comportamento dei padroni nei
confronti degli schiavi domestici
- Elemento del caso —> tutti secondo Seneca potremmo essere le vittime
- A roma rispetto alla schiavitù americana c’era molta più possibilità di liberarsi, lo stesso Orazio
era un liberto. Non c’era uno stigma sociale, Orazio per essendo nato da un padre liberto diventa
padre di Augusto.
- Ci fornisce la descrizione della vita domestica della nobiltà romana
- Catone il censore li definisce attrezzi e oggetti
- Callisto era un liberto, una delle caratteristiche dell’età imperiale è la grande importanza che
assumono i liberti come funzionari statali. È una vera e propria categoria sociale che ha una
grande ascesa sociale proprio in questo periodo. Infatti il regno di Claudio è caratterizzato dal
grande potere dei liberti, venne anche preso in giro per questo. Gli imperatori sceglievano i
liberti perché dopo la fortissima tensione con i senatori e i cavalieri, i liberti sono nuovi ricchi ed
essendo una nuova classe sociale era più sicura.
- Seneca a favore degli schiavi esprime la tesi che noi, e gli schiavi siamo tuti uomini, soprattutto
davanti alla sorte
- Varianā —> Rirerimento alla disfatta che le legioni romane subirono nel 9 d. C. nella foresta di
Teutoburgo. Il capo dei germani attirò nella selva le tre legioni guidate dal console e questi
furono massacrati. Si racconta che augusto scoppio in lacrime. È importante perche e la prima
vera sconfitta romana dopo la battaglia di Canne, ed è emblematica della difficoltà che i romani
avrebbero trovato contro i germani.
- superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi—>omoteleuto , accostamento di tre superlativi
Nescis quā aetate Hecuba servire coeperit, quā Croesus, quā Darei mater, quā Platon, quā Dioge
nes? —> esempi più celebri di persone che sono diventate schiave, anafora del qua.
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De Provvidentia
In questo suo trattato sulla provvidenza, Seneca – come recita il sottotitolo – affronta il problema
del perché le disgrazie tocchino agli uomini onesti e buoni, se esiste la provvidenza divina. Esiste, a
parere di Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo
mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea
legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Quindi la
realtà è buona e nient’affatto priva di signi cato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti,
mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? La risposta che Seneca si sente di dare a
questo angosciante interrogativo è che la sofferenza è esercizio che Dio ci in igge perché la virtù
umana possa esistere e forti carsi; quindi è un bene. Il male, le avversità, il dolore, la sofferenza
sono prove a cui l’uomo forte e onesto risponde con fermezza; sono esercizi cui si sottopone anche
volentieri, non diversamente dagli atleti, dai soldati, dai gladiatori; perché “senza un avversario la
virtù in acchisce”. E come i padri spartani sono severi coi gli che fanno sudare e anche piangere,
così Dio, come un padre che ama fortemente i gli, dice: “Siano sottoposti a fatiche, dolori e danni
perché acquistino la vera forza”. Nessuno è più infelice di colui al quale non è mai accaduto qualche
male. Perché solo la cattiva fortuna rivela grandi esempi di virtù (come fu il caso di Muzio
Scevola), la cattiva fortuna che sveglia le forze dell’animo e lo spinge a sperimentarsi, a plasmarsi,
a forgiarsi: “La prosperità tocca alla plebe e alla gente bassa; è proprio dell’uomo grande
sottomettere le calamità e i terrori che af iggono i mortali”. Non avere sperimentato il dolore è
ignorare rerum naturae alteram partem, l’altra faccia della natura, l’altra parte della condizione
umana. La disgrazia, ribadisce, è occasione di virtù; e il veterano della vita sa affrontare mali e
sofferenze con serenità e coraggio. E dunque, esorta Seneca: “Evitate i piaceri, fuggite una felicità
che in acchisce e in cui gli animi si stemprano e, se non interviene qualcosa che li metta in guardia
sull’umana sorte, marciscono come intontiti da una perpetua ebbrezza.” Perché chi si abitua alla
mollezza cadrà al primo sof o di vento; peraltro la sorte ama i più forti e s’accanisce contro di loro
per rivelare la loro fortezza: li renderà a poco a poco simili a lei e l’assiduità dei pericoli procurerà
loro lo spregio dei pericoli stessi. Dio o gli dèi – come dice alternando tranquillamente politeismo
tradizionale e tendenze monoteistiche e teistiche – è simile all’uomo buono, che differisce da lui
soltanto perché soggetto al tempo. Dio, come un padre spartano, sottopone i gli a dure prove
perché li vuole liberi; così noi facciamo coi gli che vogliamo provati e sperimentati. Vuole che
l’uomo buono somigli a lui, cioè sia ugualmente imperturbabile. Egli gode delle prove di un Catone,
perché ne apprezza l’eroico duello col destino, la virtù pagata con la morte: con la sua mano si è
aperta la strada larga della libertà: “Perché gli dei non dovevano volentieri guardare il loro allievo
uscire dalla vita in modo così nobile e memorabile?” “Che c’è da meravigliarsi se Dio mette alla
prova duramente gli spiriti generosi? Mai la rivelazione della virtù è cosa agevole. La fortuna ci
sferza e lacera? Sopportiamo: non è crudeltà, è lotta.” E riportando le parole di Demetrio: l’uomo
buono prega di poter conoscere anticipatamente la volontà degli dèi, se fosse possibile, per
eseguirla, con tutti i mali che eventualmente comporta. Perché la qualità dell’uomo virtuoso è di
offrirsi a Dio, cioè all’ordine delle cose. In de nitiva, il fuoco prova l’oro, l’infelicità gli uomini
forti (ignis aurum probat, miseria fortes viros)”.
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Il dio mette alla prova l’uomo buono facendogli capitare più disgrazie perché ritene che sto l’uomo
buono sarebbe in grado di sopportarle
La differenza tra il martire cristiano e il vir fortis di Seneca è che il martire cristiano ha una
ricompensa (il paradiso), il martire di Seneca invece no.
A pagine 100 viene introdotta la figura di Catone (interpretazione di Traina spiega). Catone è
considerato colui che ha saputo mantenersi coerente con le sue idee. Nella parte finale del capitolo 2
c’è una descrizione molto intensa del suicidio di Catone. Questa descrizione è un esempio delle
scelte stilistiche di Seneca, l’uso di queste descrizioni cruente è una delle sue caratteristiche. Questa
è stata il modello del testo elisabettiano. In questo caso c’è una descrizione molto forte del suicidio
di Catone che serve a spiegare il nocciolo del de provvidenza; il vir fortis viene messo alla prova
dalla fortuna (sorte) e si mostra in grado di vincere qualsiasi attacco della sorte, tuttavia quando non
c’è più una via d’uscita, l’unica via è la morte dignitosa, il suicidio. Catone diventa “il santo dello
stocismo” (cit. Traina), emblematico.
Anche Seneca si suicida, ma rende la sua morte molto lenta, come racconta Tacito. Seneca sa che il
rischio di dove finire la vita in questo modo è molto alto (anche se il suo è un “suicidio, al contrario
di Catone, Seneca non decide di suicidarsi, viene costretto”) perciò aspettandosi questa fine l’aveva
progettata per tutta la vita. L’unico dono che fa la provvidenza all’uomo è quello di lasciargli la
libertà di suicidarsi, per morire in un modo dignitoso. Pag 29.
[15] metafora per “l’uscire” dalla vita
Latam libertati= alliterazione
Latam viam=iperbato
[16] Ferrum istum = sineddoche
I poeti si rivolgevano a loro stessi per parlare di se stessi, rivolgendosi alla propria anima e alla
propria interiorità.
Fotis fati= alliterazione
[17] non deceat = consecutiva
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[18] spectasse = forma sincopata per spectavisse
[19] anafora del dum
Catone decide di abbandonare lavora per un motivo politico, si uccide a causa di Cesare, l’eroe
della repubblica, perciò la scelta di Seneca di elogiare questa figura è anche una scelta politica.
Le epistole sono scritte negli utili anni della vita di secca, nell’epistola 24 c’è una chiara apostofe
alla libertà perché Roma non cada sotto il dominio di uno solo.
studia: la lettura del Fedone platonico, che tratta dell'immortalità dell'anima, cfr. ep. 24, 8, dove è
introdotta una variante del monologo tragico di Catone, con apostrofe alla fortuna: «Non hai
ottenuto nulla, fortuna, ostacolando tutti i miei tentativi. Sinora ho lottato non per la mia libertà ma
per quella della patria..; ora, poiché non c'è più speranza per l'umanità, si porti Catone al sicuro»
Nella tradizione antica della filosofia era diffusa l’idea della possibilità per il filosofo di influenzare
il potere.
Nel caso di un impero ciò che secondo Seneca deve caratterizzare il sovrano non è tanto la giustizia,
ma la clemenza. Il princeps si deve distinguere dal iranno e deve essere un rex iustus.
La clemenza del sovrano deve essere intesa come moderazione e indulgenza.
Seneca scrive il De Clementia durante il quinquennio felice, spera di rendere il regno di Nerone
caratterizzato dalla clemenza influenzandolo. In effetti all’inizio ci riesce, ma in seguito essendo
l’animo di Nerone particolare.
L’altro tratto di Seneca è il De Beneficis, sui benefici, questo è un trattato tipicamente romano,
poiché il beneficio era un istituto della cultura romana; fare qualcosa nella prospettiva di avere
qualcosa in cambio. Questo non è il beneficio cristiano, in cui si fa del bene senza pretendere nulla
in cambio, ma è un beneficio utilitaristico.
Le Epistulae Morales ad Lucilium sono invece delle lettere indirizzate a Lucilo, giovane amico di
Seneca. Sono 20 libri e 124 lettere, di lunghezze molto diverse.
Si discute molto sul fatto che non si sa se queste lettere venissero effettivamente inviate a Lucilo,
ma sembra che nella maggior parte dei casi sia cosi, perciò che siano delle lettere inviate a lucilo
come strutto di comunicazione dal maestro all’allievo. Queste lettere sono meno strutturate, hanno
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più la caratteristica di un colloquio, ad esempio il passaggio da un argomento all’altro attraverso
una catena di idee, anche il tono è più colloquiale rispetto ai trattati.
I temi che vengono trattati sono i più disparati, e una sorta di filosofia di vita, tratta degli schiavi, il
suicidio, la folla, il terremoto. Seneca parte sempre da un episodio della sua vita da cui parte uno
spunto di riflessione.
Seneca tra gli autori latini è uno di quelli molto letti, ha un pubblico importante perché ha una certa
attualità.
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