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SVETONIO

La vita: Gaio Svetonio Tranquillo nacque intorno al 70 d.C. da una famiglia di rango equestre.
Non si sa dove, forse ad Ostia (dove ebbe la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano) o
secondo altri, nella provincia africana. In seguito si recò a Roma per gli studi e per lavorare come
avvocato ed intraprese la carriera amministrativa nella burocrazia imperiale, qui fu introdotto a
corte da Setticio Claro, diventando una sorta di “segretario” di Adriano ma strinse un ottimo
rapporto anche con Traiano. In seguito ricoprì le cariche di sovrintendente a studiis (degli archivi
imperiali), a bibliothecis (biblioteche pubbliche) e ab epistulis (diretta corrispondenza
dell’imperatore).
Nel 121-122 Adriano ordinò la destituzione di Svetonio dall’incarico di sovrintendente ab
epistulis con il prefetto del pretorio Setticio Claro e altri, con la motivazione che avevano trattato
con eccessiva familiarità l’imperatrice Sabina: probabilmente fu un pretesto per allontanare da corte
persone non più gradite. La morte di Svetonio risale al 126 secondo alcuni studiosi (data in cui
subentrò un altro personaggio come pontefice di Vulcano); altri la spostano al 140.

La poetica: Svetonio scrisse biografie, opere il cui genere proveniva dalla Grecia dove si sviluppò
fortemente in età ellenistica (prese il nome di biografia alessandrina) in particolare con Teofrasto
che scrisse i Caratteri. Il genere fiorisce in Grecia in questo periodo, per lo stesso motivo per cui
avvenne la medesima situazione a Roma in Età Imperiale, cioè per il passaggio da un governo
repubblicano a un governo monarchico (in Grecia con la morte di Alessandro Magno il suo impero
si divide nei Regni Ellenistici) che privava i cittadini della loro libertà politica e li rendeva sudditi,
allontanandoli da questo ambito così che si dedicassero ad altro come, in questo caso, ad
interessarsi alle vite dei personaggi illustri, di cui poi scrivere biografie. Un esponente illustre del
genere in Grecia fu Plutarco che scrisse le Vite Parallele (Oi Bioi Paralleloi) a cui si ispirò già
Cornelio Nepote per il suo De Viris Illustribus.

Opere: Svetonio scrisse due opere biografiche, il De Viris Illustribus, che ci è pervenuto
fortemente mutilato, e il De vita Caesarum, pervenutoci quasi per intero.

Il De viris illustribus: Prende il titolo dalla raccolta biografica di Cornelio Nepote. Svetonio non
sarà l’ultimo letterato a intitolare così un’opera biografica, ne ricordiamo un totale di quattro, che
furono l’uno il modello d’ispirazione di quello successivo, cioè il De Viris Illustribus di Cornelio
Nepote, quello di Svetonio, quello di Boccaccio e infine quello di San Girolamo. Se il De Viris
Illustribus di Cornelio Nepote conteneva biografie di uomini sia greci che romani e memorabili per
motivi diversi, l’opera di Svetonio si mantiene soltanto nell’ambito dei letterati romani, con
cinque categorie: poeti (in cui ricorda Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano), oratori, storici (in cui
ricorda Plinio il Vecchio), filosofi, grammatici e retori. Si è conservata soltanto quest’ultima parte
(De grammaticis et rhetoribus), mutila nel finale che ci dà un’idea di come ciascuna delle parti
fosse organizzata. A un indice, che elenca gli autori che saranno trattati in ordine cronologico, segue
una sezione introduttiva, che traccia la storia romana. Seguono i profili, brevissimi, dei maestri
“illustri”.
Delle parti del De viris illustribus rimangono solo biografie isolate. Sull’attribuzione a Svetonio
non c’è pieno accordo tra gli studiosi. Alla sezione De poetis si assegnano le tre biografie di
Terenzio, Orazio e Lucano. Inoltre si ritiene derivata ma non testualmente riprodotta la vita di
Virgilio.

Il De vita Caesarum: Opera più importante che possediamo quasi per intero, e che non narra solo la
vita di Cesare bensì quella di tutti gli imperatori di Roma (anche se Cesare non fu propriamente un
imperatore) fino al contemporaneo di Svetonio, quindi in ordine: Giulio Cesare, Augusto, Tiberio,
Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito e Domiziano. Svetonio si
propone di far conoscere il personaggio protagonista, illustrandone le azioni pubbliche, il
carattere e l’aspetto.
La particolarità delle opere di Svetonio sta nella struttura delle sue biografie, che concilia il sistema
annalistico classico della storiografia romana con quello biografico delle categorie. Ogni singola
biografia si divide infatti in tre parti: una prima parte narrata per tempora, in cui cioè si racconta la
vita del personaggio in ordine cronologico dalla nascita fino all’assunzione del potere; una seconda
parte narrata per species, cioè per categorie, o rubriche, in cui quindi si analizzano separatamente
diversi aspetti del personaggio, come la personalità, la politica interna, la politica esterna ecc; e
infine una terza e ultima parte narrata nuovamente per tempora, che completa la prima parte
narrando la vita dell’imperatore dall’assunzione del potere fino alla morte.
Schema bipartito: In alcune vite (Caligola e Domiziano) nella parte dedicata alla descrizione degli
anni sono individuabili un primo periodo positivo e un secondo, in cui il principe manifesta vizi e
comportamenti da tiranno, con una bipartizione che provoca talora incongruenze e
contraddizioni.
--La vita di Caligola, ad esempio, è organizzata in due sezioni: il princeps e il monstrum. Tra i
provvedimenti che arrecarono popolarità al princeps il biografo ricorda che egli diede fuoco ai
documenti relativi ai processi in cui erano stati condannati sua madre e i suoi fratelli. Più avanti
illustra la crudeltà del monstrum che prescrive ai carnefici di uccidere lentamente così il condannato
possa rendersi conto di star morendo: si apprende che in realtà Caligola aveva solo finto di bruciare
quei documenti che ora esibisce accusando i senatori di aver denunciato la madre e i fratelli.—

Tramite le sue opere notiamo che Svetonio ha un particolare interesse nei confronti della vita
privata dei personaggi di cui scrive la biografia, concentrandosi quindi su eventi “scandalosi” a
corte o dettagli intimi della loro vita sessuale. Da ciò deduciamo che le biografie di Svetonio erano
indirizzate a un pubblico più popolare, di classe medio-equestre, a differenza delle biografie di
Tacito che si concentreranno su dati più pragmatici, come la politica e le imprese dei personaggi. Le
vite sono accomunate dalla centralità della figura dell’imperatore. Un grande spazio è riservato agli
aneddoti curiosi e piccanti, alle battute di spirito, alla frasi celebri. Anche una certa
propensione per il meraviglioso e il romanzesco che si rivela nella gran quantità di prodigi e
presagi registrati in tutte le vite. Grande attenzione è dedicata agli interessi culturali e all’attività
letteraria degli imperatori. Svetonio registra informazioni di carattere giuridico, amministrativo,
economico e fiscale, corredandole di cifre che rivelano un vivo interesse per gli aspetti concreti
del funzionamento dello Stato. Nel complesso i Cesari che Svetonio ritrae nelle sue biografie
risultano personalità poco coerenti; la compresenza di vizi e virtù semplicemente accostati
producono la frammentazione del personaggio.

Lo stile: La narrazione di Svetonio è semplice, svolta con lingua corretta e chiara; utilizza termini
tecnici e grecismi; non abbellisce discorsi e parole riscrivendoli come facevano gli storici ma li cita
così come erano conservati dai documenti di cui fa uso.

PLINIO IL GIOVANE

La vita e le opere: Gaio Cecilio Plinio Secondo, esponente dell’oratoria e dell’epistolografia,


nacque nel 61 o 62 d.C. a Novum Comum (oggi Como). Figlio di una sorella di Plinio il Vecchio,
rimasto orfano, fu adottato dallo zio che lo lasciò alla sua morte nel 79, erede di possedimenti in
Etruria e in Campania. Studiò a Roma e fu allievo di Quintiliano, prorprio come Svetonio. Fece
una brillante carriera politica, giunse al consolato nel 100 sotto Traiano e fu nominato consul
suffectus, una carica soltanto onorifica attribuita dall’imperatore stesso, che non aveva valore
politico. Plinio per ringraziare Traiano dell’onore conferitogli gli dedicò un’orazione. Oggi ci è
pervenuta ma con delle modifiche e rielaborazioni destinate alla pubblicazione, non è più il discorso
esatto che tenne Plinio. L’opera prende il titolo di Panegirico di Traiano e lo stile è elevato.
Inoltre Traiano nel 110-111 lo volle nel suo consilium principis e fu nominato da lui legato
(governatore) in Bitinia dove probabilmente morì nel 112 o 113. Il letterato adempie al suo dovere
anche senza esserne particolarmente entusiasta. In Bitinia infatti Plinio ha tante incertezze e dubbi e
per via di questo intrattiene numerose discussioni in via epistolare con Traiano per chiedergli
consigli e aiuti rispetto alle varie situazioni che affrontava come governatore della regione. Questo
carteggio, che conta un totale di 124 lettere, contiene sia quelle di Plinio che le risposte di Traiano
(54 lettere) e forma il X libro del grande epistolario di Plinio il Giovane, la sua opera più importante
che oggi possediamo. Poco dopo quel periodo Plinio morì.
Plinio ebbe un atteggiamento filantropico, creando e sostenendo scuole e biblioteche.
Di lui ci rimangono esclusivamente il Panegirico di Traiano e l’Epistolario
Pubblicò discorsi giudiziari ed epidittici che non ci sono pervenuti. Scrisse anche elegie ed
epigrammi inserendosi nella tradizione della poesia come lusus, di cui aveva dato esempio
Cicerone, suo modello principale.

Il panegirico di Traiano: L’unica orazione di Plinio conservata è il discorso di ringraziamento che


egli pronunciò in Senato in occasione della nomina a console, l’1 settembre del 100, che in seguito
ampliò per pubblicarlo. Si tratta di un panegirico dell’imperatore. Traiano viene presentato come un
optimus princeps e Plinio ne vede solo i pregi infatti lo descrive come un grande dono fatto dai dèi
ai Romani, dotato di qualità che lo rendono simile a una divinità anche se egli non pretende onori
divini. Plinio elogia il metodo della successione per adozione, che consente di scegliere, il migliore
tra i cittadini. Sono esaltate le straordinarie qualità di Traiano come comandante militare, la sua
generosità, affabilità e modestia, contrapposte alle colpe e ai delitti di Domiziano tiranno.
L’oratore sottolinea la perfetta armonia che regna tra il principe e i senatori, cui sono assicurate
la dignitas e la securitas, infatti egli esalta l’imperatore Traiano per il suo atteggiamento positivo
nei confronti dei senatori tanto da cooperare con loro e ristabilire una forma di equilibrio e
concordia sociale a Roma. Tra gli scopi principali di Plinio vi è quello di incoraggiare la politica
filosenatoria di Traiano, che garantisce onori e privilegi alla classe a cui egli stesso appartiene.
Inoltre riconosce all’imperatore il diritto di esercitare un potere assoluto: pur richiamandosi
all’antica libertas che Traiano avrebbe ripristinato, Plinio la presenta come un dono gratuito frutto
della generosità del sovrano. È una concezione della libertà sottoposta alla guida e alla tutela del
principe, imposta da lui.
Lo stile del Panegirico è sublime, risulta spesso ridondante, iperbolico, magniloquente ed
enfatico.
È tramite opere come queste che deduciamo l’opinione del popolo degli imperatori e cerchiamo di
giudicarli oggi, è però importante distinguere pareri oggettivi e soggettivi.
Quest’opera piacque così tanto che nel tempo si soffermarono altri letterati su questo genere di
opera. Uno dei più memorabili, per quanto molto più tardo, è il Panegirico di Plinio a Traiano di
Vittorio Alfieri
Alfieri scrisse quattro trattati:
-Trattato contro la tirannide, contro cui Alfieri propone di combattere o con la rivoluzione o, in via
estrema, con il suicidio, o ritirandosi in vita privata (un’opzione possibile solo per pochi ricchi,
come lui).
-Trattato del principe e delle lettere, in cui sostiene che la tirannia vada combattuta anche con la
letteratura da parte degli intellettuali, che devono quindi essere politicamente impegnati.
-Trattato della virtù sconosciuta, in cui Alfieri esalta Francesco Cori Cardellini, un suo amico da
poco scomparso di cui vuole ricordare e far conoscere a tutti le grandi virtù fino ad allora poco note.
-Panegirico di Plinio a Traiano, trattato in cui Alfieri immagina di riscrivere il Panegirico da parte
di Plinio nei confronti di Traiano, denotandone anche in questo caso gli aspetti positivi.

L’epistolario: Il genere dell’epistolografia nasce nel mondo greco, ricordiamo le Epistole di


Platone (12, sulla cui autenticità non siamo però sicuri) e le Epistole di Epicuro, tramite le quali egli
espone le basi della sua dottrina filosofica. Il genere arriva a Roma e qui ricordiamo le epistole di
Cicerone. Le lettere potevano essere o realmente scritte per dei destinatari o per destinatari fittizi, in
vista della pubblicazione. Cicerone non immaginava che le sue lettere sarebbero state pubblicate e
infatti si mostra qui molto diverso da come sembrava nelle altre opere. Le lettere di Epicuro invece
sono state scritte appositamente per essere pubblicate, ma in alcuni casi anche con un destinatario
reale.
Tra i due generi di epistolografia (pubblica e privata) risiede un terzo genere, rappresentato
dall’Epistolario di Seneca verso Lucilio, un personaggio la cui esistenza è certificata ma di cui non
possediamo le risposte. Queste lettere infatti furono sicuramente rimaneggiate per la pubblicazione
volontaria da parte dell’autore, e ci offrono così il percorso filosofico stoico verso la sapienza e la
vita retta.
Le lettere di Plinio ci mostrano il suo animo che si scopre anche essere vanitoso e consapevole del
proprio valore. Questa è l'opera più importante di Plinio si tratta in totale di circa 500 epistole
raccolte in 9 libri più il decimo. I primi 9 contengono lettere agli amici che l’autore pubblicò dal
103-105 al 110-111: circa 250 epistole rivolte a più di 100 destinatari, dove Plinio racconta le sue
vicende e descrive i luoghi per cui passa e che visita. Il libro 10 contiene un carteggio ufficiale tra
Plinio e Traiano: 124 lettere risalenti al periodo del governatore in Bitinia dal 110-111 al 112-113.
Mentre le lettere dell’ultimo libro hanno carattere ufficiale e documentario, quelle degli amici
costituiscono un tipico epistolario letterario, cioè scritto in vista della pubblicazione. Ciò risulta
chiaramente dalla dedica a Setticio Claro (il protettore di Svetonio, che anche Plinio protesse) ,
dove, con l’espressione “un po’ più accuratamente”, egli si riferisce all’elaborazione letteraria di
testi che ambiscono a inserirsi nel filone del genere epistolografico. L’epistolario documenta
discorsi tenuti in tribunale o in Senato, “recitazioni”, inviti a cena. Troviamo inoltre lettere di
raccomandazione, resoconti di sedute del Senato, descrizioni delle ville dell’autore, racconti di
avvenimenti passati, svolgimenti di luoghi comuni presentati come riflessioni e meditazioni
suggerite da fatti ed episodi della vita di ogni giorno.
Dalle lettere emerge la personalità di Plinio, con le sue qualità positive: l’onestà morale, la
cultura raffinata, il buon gusto, l’humanitas (cortesia, comprensione, sollecitudine per le
esigenze e difficoltà altrui, indulgenza per i difetti e compiacimento per i successi degli amici). La
sua generosità si manifesta nella donazione agli abitanti di Como di una biblioteca pubblica e
nell’iniziativa di far aprire in quella città una scuola superiore. Plinio esercita il mecenatismo
offrendo ad esempio a Marziale il denaro per tornare in Spagna e intercedendo a favore di Svetonio.
Emergono anche i limiti dell’autore: la vanità, che si rivela nel continuo bisogno di
riconoscimenti; un ottimismo un po’ ingenuo che lo porta a compiacersi della frequenza delle
recitationes, come se fosse segno del livello alto della letteratura dei suoi tempi.
L’abbondanza delle epistole di argomento letterario conferma l’importanza centrale della letteratura
nella vita di Plinio. Nel complesso affiora superficialità: Plinio non vede quei sintomi di crisi
culturale che il suo stesso maestro, Quintiliano, era invece costretto a rilevare.
L’epistolario è scritto in modo limpido e conciso, elegantemente colloquiale, con voluta semplicità,
con largo uso di figure retoriche. Le due epistole sui cristiani, in particolare, costituiscono una
delle prime testimonianze pagane sulla diffusione del cristianesimo.

All’inizio dell’opera Plinio dice di non aver seguito un criterio particolare per l’epistolario, ma in
realtà c’è, ed è quello della varietas: l’autore, per evitare che il lettore si annoi, alterna temi
portando in una lettera la descrizione di un paesaggio, in quella successiva episodi di vita mondana
e così via. Anche in questo caso quindi, come per quasi tutti gli epistolari, esso ci fornisce uno
spaccato della vita dell’autore e della società del tempo, che proviene però da un’ottica molto
ristretta e privilegiata, quella della fascia più ricca e nobile di Roma.
Il libro più importante in ogni caso è il X, con le richieste di Plinio e le risposte di Traiano, che
appare certe volte infastidito dalle eccessive domande del letterato che si dimostra così non essere
adatto a questo compito. In alcune lettere Plinio chiede a Traiano come regolarsi nei confronti delle
denunce fatte contro coloro che venivano accusati di essere cristiani. Così capiamo che ai tempi di
Traiano il cristianesimo non era tollerato, ma l’optimus princeps dimostra il suo valore dando una
risposta non troppo drastica per quei tempi, cioè dice a Plinio di considerare solo le denunce
regolarmente firmate, non quelle anonime, poi di confrontarsi direttamente con l’accusato e di
interrogarlo: se egli non rinuncia alla religione pagana e compie i riti ad essa collegata allora può
essere lasciato libero, se invece rifiuta la religione pagana e i riti e sacrifici collegati ciò vuol dire
che è colpevole e dev’essere condannato. Questo dimostra che la religione cristiana non era
accettata nel mondo Romano ma non era nemmeno realmente perseguitata, non in quel periodo
almeno. Le persecuzioni romane furono quella di Nerone, che accusò i cristiani dell’incendio di
Roma del 65 d.C. per liberarsi dalla medesima accusa, e quella di Diocleziano, del 303-313 d.C.

L'epistula VI è una testimonianza della più famosa eruzione della storia, quella del Vesuvio
avvenuta il 24 agosto del 79 durante il regno di Tito che travolse centri urbani come Pompei ed
Ercolano. Il destinatario è lo storico Tacito che dopo 20 anni dall'evento chiede all'amico
informazioni sulla morte di Plinio il Vecchio, avvenuto in quella occasione. Plinio il Vecchio non
si rende conto della gravità del pericolo, tanto da dormire tranquillamente mentre gli altri vegliano
in ansia, e, pur essendo comandante di una flotta, non prende iniziativa per organizzare i soccorsi;
ma nonostante questo, finisce con l'apparire, grazie all'abile racconto del nipote, un eroe e un
martire della scienza, nonché un sapiente stoico, impavido di fronte al mondo sconvolto.

Il genere dell’epistolografia ovviamente non finisce in età classica ma continua: ricordiamo le


lettere di Petrarca che non possediamo tutte, o quelle di Dante, che ne compose 13 in latino. Nel
periodo dell’umanesimo infatti l’epistola in latino era il mezzo di comunicazione tra i diversi
letterati, essendo il latino la lingua della cultura. Più tardi l’epistolario si sviluppa in romanzo
epistolario, di cui un esempio notevole è I dolori del Giovane Werther di Goethe a cui si ispirò Ugo
Foscolo per Le Ultime lettere di Jacopo Ortis. Le lettere infatti, raccontando aneddoti della vita
dell’autore o di un personaggio, compongono infine una storia completa generando così un romanzo
epistolario.

TACITO

La vita: Uno dei più grandi storici dell’Europa fu Publio (prenome non certo) Cornelio Tacito, di
cui non abbiamo dati certi riguardo la sua vita. Probabilmente la sua nascita si può collocare tra il
55 e il 58 d.C., pochi anni prima di quella di Plinio il Giovane, dato che questi lo definisce pari a lui
per età aggiungendo che, però, quando egli era ancora adulescentulus, Tacito già godeva di fama,
sicuramente come oratore. Fu allievo di Quintiliano. Maggiore incertezza la troviamo sul luogo di
nascita. Una delle ipotesi è che sia nato a Terni (tesi sostenuta dalla nascita dell’imperatore Tacito
del III sec. in questa città, ritenuto discende della famiglia dello storico). L’ipotesi più probabile è
che sia di origine gallica, data la notevole diffusione del cognomen Tacitus nella Gallia Cisalpina e
Narbonese.
La carriera politica, svoltasi per la maggior parte sotto i Flavi, e le nozze con la figlia di Giulio
Agricola, console nel 77, indicano che Tacito era di condizione sociale elevata. Sotto Domiziano,
nell’88, raggiunse la pretura. Sotto Nerva, nel 97, fu consulus suffectus. Infine nel 112, fu
proconsole della provincia d’Asia.
Probabilmente morì nel 120, durante i primi anni del principato di Adriano. L’attività letteraria di
Tacito ha inizio nella sua età matura, dopo la morte di Domiziano (96). Questo dato è importante
data l’esperienza negativa che Tacito dovette affrontare sotto la tirannia dell’imperatore flavio che
segnò per l’autore un punto di partenza nelle sue riflessioni politiche. Non parlò più degli imperatori
a lui contemporanei (Nerva, Traiano, Adriano).
Da questo storico deriva il “tacitismo”, cioè quel comportamento di accettazione nei confronti della
monarchia assoluta, che caratterizzò il '600 europeo.
Tacito non condivide il governo imperiale ma capisce che in quel momento storico non si può
tornare alla repubblica.

Le opere: I codici attribuiscono a lui “L’Agricola; “La Germania”; “Il Dialogus De oratoribus”
(con stile ciceroriano in contrasto col resto della sua produzione; la differenza è data dal Tacito
giovane che si ispira a Cicerone anche nell'impostazione dialogica); due opere storiche “Le
Historiae”, “Gli Annales” (con uno stile originale).

L’Agricola: Il suo primo scritto è il De vita Iulii Agricolae, una biografia encomiastica del
suocero Agricola, composta tra il 97-98. Dal titolo potrebbe sembrare una biografia del suocero
Giulio Agricola, ma non è solo questo. Viene scritta dopo la morte dello stesso, configurandosi
come una laudatio funebris. E' anche un'opera storiografica e geografica, Giulio Agricola si occupò
delle spedizioni militari in Britannia, descrivendo così il luogo e i popoli. Tacito premette una
prefazione per presentare, giustificare l’opera e per sfoggiare il proprio personaggio di scrittore,
esponendo il suo programma storiografico. Egli ricorda le persecuzioni degli intellettuali sotto
Domiziano (mai nominato esplicitamente) rendendo omaggio a Nerva e Traiano, che hanno
restituito la libertà di parola.

Protagonista: Agricola è presentato come un uomo accorto e attivo collaboratore dei principi,
buoni o cattivi. In primo luogo tenta di presentare Agricola come una delle vittime innocenti di
Domiziano, insistendo sulla gelosia che i successi militari del suocero avrebbero suscitato e riporta
la diceria (rumor, “voce”) secondo cui la morte di Agricola sarebbe stata causata dal veleno fattogli
somministrare dall’imperatore. In secondo luogo di fronte al dilemma se sia più virtuoso e più utile
ostinarsi nell’opposizione a un principe malvagio o accettare di collaborare assecondando
soprusi per poter lealmente servire la patria nel superiore interesse della res publica, Tacito
sceglie la seconda alternativa.

Nella biografia del suocero, Tacito espone la vita del personaggio in ordine cronologico, dalla
nascita alla morte. Alle notizie sulla famiglia, patria ed educazione segue il resoconto delle varie
tappe della carriera fino al consolato. Contemporaneamente delinea l’emergere delle sue qualità:
prontezza nell’apprendere e agire; attitudine al comando e accortezza nell’evitare di oscurare i
superiori con i suoi successi; abilità nei compiti civili e militari. Dopo il consolato gli viene affidato
il comando in Britannia che terrà per 7 anni. Al resoconto delle imprese è dedicata la sezione più
ampia della biografia preceduta da un excursus sulla geografia e i suoi popoli.
Il racconto si dilata quando giunge al settimo anno, alla vittoriosa campagna contro i Calèdoni nel
nord dell’isola. Nell’imminenza della battaglia i due generali rivolgono ai loro uomini un elaborato
discorso di esortazione. In quello attribuito al capo dei Calèdoni, Càlgaco, Tacito dà voce alle
tradizionali accuse contro la brutalità dell’imperialismo romano. Più pacato è il contrappasso
discorso di Agricola.

Gli ultimi nove anni della vita del suocero dipingono la crescente gelosia di Domiziano per la
fama di Agricola ed espongono i sospetti sulla causa della sua morte. Concludono l’opera numerosi
epitaffi (epitafio - lett. ”funebre”, discorso pronunciato in pubblico per elogiare il defunto) e una
commossa apostrofe al morto. L’Agricola è una biografia particolare. Mancano aneddoti,
pettegolezzi e particolari curiosi: l’interesse si concentra sull’aspetto pubblico del protagonista.
Anche l’excursus etnografico e gli ampi discorsi diretti sono inconsueti per una biografia. Lo
stile costituisce una varietà molteplice di toni e di registri, rifacendosi a modelli diversi:
Sallustio, in questa prima opera; Livio è il modello dei due discorsi contrapposti dei generali. I
capitoli finali, di tono oratorio, mostrano una struttura tipicamente ciceroniana.
La Germania: Tacito comprende che i barbari germanici sono pericolosi perchè hanno quella
“purezza di costumi” (quasi rozzezza) che avevano i Romani in tempi antichi. I barbari infatti sono
modesti e non corrotti moralmente. Tacito era stato lungimirante perchè saranno proprio i germani
con le loro invasioni a far cadere l'Impero Romano, e il riconoscimento di Tacito delle qualità
germaniche sarà sfruttato dalla propaganda nazista del Pangermanesimo.

Tacito pubblicò la sua seconda opera, la Germania nel 98. La data si deduce nel capitolo 37 della
stessa opera in cui si fa riferimento al secondo consolato di Traiano. Il titolo esatto del
componimento è De origine et situ Germanorum, letteralmente "L'origine e la regione dei
Germani". La Germania è un’opera particolare in quanto è a tutti gli effetti un trattato geo-
etnografico sulla regione germanica e sul popolo dei germani. È ambientata nell’anno della salita
al potere di Traiano, che infatti si trovava sul confine del Reno come legato delle Germania
Superiore proprio mentre ricevette la notizia della morte di Nerva e quindi della sua propria ascesa
al potere, pertanto poteva essere un’opera di attualità.
Già nelle opere storiografiche erano comuni le digressioni di questo carattere, come ricordiamo
nelle opere di Erodoto che raccontando le guerre persiane e facendo una digressione proprio su
questo popolo ricorda in particolare la conquista dell’Egitto da parte di Cambise, e sviluppando
un’ulteriore digressione sul popolo Egizio riporta la famosa frase “l’Egitto è il dono del Nilo”.
Importante anche la digressione sulle tribù galliche, germaniche e dei Britanni che troviamo nel
Commentario De Bello Gallico di Cesare. Non sarebbe stato strano quindi se Tacito avesse
composto un’opera storiografica inserendo delle digressioni sulla Germania e sui germani, invece
decise di comporre un’opera che si incentrava totalmente su questo argomento. La Germania
costituisce l'unico esempio latino di opera esclusivamente etnografica giunto fino a noi.
Per quanto riguarda la struttura dell'opera il testo si compone di due parti: nella prima parte si
trova la descrizione geografica dei luoghi e si descrivono usi e costumi dei popoli, nella seconda
parte si entra più nel dettaglio di ogni singola tribù dei germani.
Tacito non parla della Germania dei suoi tempi bensì preferisce darne un’immagine libresca,
asincronica, utilizzando informazioni reperite da fonti letterarie come il De bello Gallico di
Cesare e l'opera di Plinio il vecchio sulle guerre germaniche. E' inoltre probabile che Tacito
abbia attinto anche a informazioni orali da soldati, mercanti e prigionieri di guerra.
Nella sua indagine sui Germani utilizza sempre come punto di riferimento Roma, mettendola a
confronto con le popolazioni germaniche. Egli presenta un atteggiamento ambivalente, da un lato
manifesta ammirazione per i costumi semplici e per la sanità mentale dei barbari, i quali presentano
le stesse virtù della Roma del passato, per questo la trattazione è condotta sul filo del confronto con
i corrotti costumi romani contemporanei. Dall’altro non si limita a descrivere in positivo le
usanze dei Germani ma sottolinea anche quelle che a suo parere sono negative: ad esempio
disprezza i sistemi di vita ancora tanto rozzi e primitivi, in particolare evidenzia la discordia, cioè
l'incapacità di coalizzarsi stabilmente contro un nemico comune. Ad ogni modo prevale il
quadro positivo della società germanica, ammirata soprattutto per il sistema politico fondato
sulla libertas.
In questo modo egli descrive quindi i germani di una o due generazioni passate e lo fa
consapevolmente perché vuole dimostrare che i germani sono popolazioni ancora allo stato di
natura, quindi rozze, e proprio per questo sono fortissime e pericolose. Vuole inoltre dimostrare che
Roma è facilmente assoggettabile ai germani perché ha ormai perso quella stessa purezza di costumi
ed è decaduta, ha perso i suoi valori e le sue virtù sia etiche che morali. Quindi l’intento di Tacito
non è di diffondere informazioni false bensì di sostenere la propria tesi ed avvisare i Romani del
pericolo imminente, che sarà più tardi infatti la causa della caduta dell’Impero Romano
d’Occidente. Secoli dopo l’opera fu manipolata dalla propaganda nazista sostenendo che Tacito
avesse già riconosciuto la supremazia della razza ariana quando ovviamente non fu così. Tacito si
limitò a descrivere i Germani fisicamente denotandone i caratteri più comuni come la possenza del
fisico, gli occhi azzurri e i capelli chiari, o anche la purezza della linea genetica, in quanto non si
mescolavano con altre popolazioni.

Dialogus de Oratoribus: Il Dialogus de oratoribus "Dialogo sugli oratori", dedicato al tema della
decadenza dell'oratoria, si distingue dalle altre opere tacitiane non solo per il genere letterario
(dialogico), ma anche per lo stile e soprattutto perché l'attribuzione a Tacito è stata ed è tuttora
oggetto di discussione tra gli studiosi. Incerta è anche la data di pubblicazione: la più probabile
sembra l'anno 102, in cui fu console il dedicatario dell'opera, Fabio Giusto.
La data in cui viene ambientato è il 75. Marco Apro e Giulio Secondo, i più noti avvocati del
tempo, maestri e modelli del giovane Tacito che li accompagna, si recano a far visita a Curiazio
Materno, senatore e oratore che ha da poco abbandonato l'oratoria per la poesia tragica. Viene
sviluppato a questo punto un confronto tra oratoria e poesia, difese ed elogiate rispettivamente, in
due ampi discorsi contrapposti, da Apro e da Materno. L'arrivo di un quarto interlocutore, Vipstano
Messalla, crea una breve pausa che serve a impostare l'argomento centrale: i motivi delle
differenze tra l'oratoria antica e quella moderna, considerate da tutti, tranne che da Apro, come
manifestazioni di un declino. Il Dialogus tratta dunque il tema de causis corruptae eloquentiae, già
dibattuto da Quintiliano, da Seneca Padre e da Petronio. Ispirato dal dialogo De Oratore di
Cicerone.
Aprono l’opera Marco Apro e Curiazio Materno, quest’ultimo aveva abbandonato l’oratoria per la
poesia e viene rimproverato per questo dal primo, che sostiene la supremazia del genere retorico
rispetto a quello poetico, a differenza dell’amico. Interviene poi Vipstano Messalla che sposta
l’argomento centrale dal dibattito sulla supremazia del genere retorico alle cause della decadenza
della retorica stessa. Il primo a parlare è Apro: la sua tesi è che nell'età contemporanea non vi è
decadenza, ma evoluzione e trasformazione dell'arte oratoria, in armonia con il mutare dei
tempi, delle procedure giudiziarie, dei gusti e della competenza del pubblico. Aggiunge che ai tempi
moderni è adatto uno stile rapido e brillante, ricco di sententiae; Cicerone, conclude Apro, fu un
innovatore rispetto al suo tempo ma subì anche lui delle critiche da parte degli ammiratori del
passato. Messalla invece: afferma la decadenza dell'oratoria contemporanea: la negligenza dei
genitori nell'educare i figli, il livello scadente delle scuole, la futilità dei temi delle declamazioni
(Quintiliano). Materno invece: propone una tesi politica del declino dell'oratoria. Egli paragona
l'oratoria ad una fiamma, che per bruciare deve essere alimentata. Nell'età repubblicana essa trovava
alimento e stimolo nella violenta competizione politica, con i dibattiti in Senato e i discorsi davanti
al popolo, allo scopo di persuadere i civili e acquisire il loro voto. Dopo aver individuato nella
perdita della libertà politica la causa più vera del declino dell'eloquenza, l'autore, fa esprimere al
personaggio di Materno una pacata e positiva accettazione di questa realtà. Egli sostiene che la
libertà è una cosa positiva ma non deve essere esagerata, perché si trasformerebbe in licenza, cioè
nella libertà di dire quel che si vuole, anche cose false; per questo è necessaria la sovrintendenza di
un princeps, non un dominus cioè un tiranno, ma un sovrano che possa guidare lo Stato e la società
in modo retto. Questa posizione, che è anche quella dell’autore Tacito, è una saggia opinione
mediana, che non si pone né nell’atteggiamento ribelle nei confronti dell’impero né nel totale
assoggettamento e passività ad esso. In questo modo Tacito chiarisce le reali motivazioni dietro la
decadenza dell’oratoria senza porsi contro l’impero.
E' difficile dire se uno dei personaggi sia il portavoce di Tacito. Tuttavia si assegna di solito tale
ruolo a Materno e senza dubbio la spiegazione politica della fine dell'eloquenza e la conclusiva
giustificazione del principato esprimono il pensiero di Tacito. Ciò è espresso anche da Apro, il cui
ruolo non si esaurisce in quello di contestare delle opinioni degli altri. La sua brillante difesa
dell'oratoria contemporanea si può leggere come una difesa dello stile moderno, anticlassicistico e
anticiceroniano, rappresentato da Seneca e da Tacito stesso. La convinzione di Materno, che
l’oratoria non può più avere il prestigio di cui godeva prima, può giustificare la scelta di altre forme
letterarie: Materno si dedica alla poesia, Tacito alla storiografia.
CLASSICO

Il punto di vista dei nemici: il discorso di Càlgaco


Un deserto chiamato pace
Agricola, 30 - 31, 3
Contenuto:
Tacito utilizza i discorsi diretti per affrontare il tema dell'imperialismo romano dal punto di vista del
capo barbaro Càlgaco e in seguito dal punto di vista del generale romano Petilio Ceriale. Vi è una
dura requisitoria contro la politica estera romana, basata sull'asservimento, lo sfruttamento e
l'annientamento degli altri popoli.
Durante il settimo e ultimo anno della campagna contro i Calèdoni, nell'imminenza dello scontro
decisivo al monte Graupio, i generali degli opposti schieramenti, Càlgaco e Agricola, pronunciano
due discorsi alle rispettive truppe. Tacito li propone in forma diretta riprendendo una convenzione
storiografica già ampiamente sfruttata da Sallustio e da Livio. L'esortazione attribuita al fiero capo
dei Calèdoni, Càlgaco, consiste quasi per intero in un veemente atto d'accusa contro i Romani, nel
loro duplice aspetto di conquistatori e dominatori.
Traduzione:
[30, 1] Ogni qualvolta che esamino le cause della guerra e la nostra necessità, (a me è un grande
animo) ho una grande forza (coraggio) di sperare che il giorno odierno e il vostro consenso sarà
l'inizio della libertà per tutta la Britannia: infatti da una parte vi siete uniti tutti e siete liberi della
servitù, e minacciandoci la flotta Romana, non c'è altra terra né mare davvero sicuro. Così ci sono il
combattimento e le armi che sono oneste per i forti; sono anche le più sicure per gli ignavi. [2] Le
battaglie precedenti, nelle quali si è combattuto contro i Romani con varia sorte, avevano la
speranza e l'aiuto nelle nostre mani, perchè siamo i più nobili di tutta la Britannia e perciò collocati
nei suoi recessi nascosti e non guardando alcuna spiaggia di servienti, avevamo anche gli occhi
inviolati dal contatto della dominazione. [3] La stessa lontananza e la diffusione della fama
difendono noi, estremi delle terre e della libertà, fino a questo giorno: ora il confine della Britannia
si apre e tutto ciò che è ignoto è (ritenuto) magnifico; ma ormai null’altra gente, nulla se non il
flusso e gli scogli, e i Romani più infesti, la cui superbia invano fuggi con l’ossequio e la modestia.
[4] Predatori del mondo, dopo che vennero meno le terre per loro che devastano ogni cosa,
guardano il mare: se il nemico è ricco, (i romani sono) avari, se è povero, (sono) ambiziosi, loro che
non l’Oriente non l’Occidente saziarono: soli tra tutti ricchezze e povertà con pari sentimento
desiderano. Portar via, trucidare, rapinare con falsi nomi chiamano imperio, e dove fanno il deserto
lo chiamano pace.

La schiavitù imposta dai Romani


Agricola, 31, 1- 3
Il discorso di Càlgaco è stato sicuramente inventato da Tacito, che ha attribuito al generale barbaro
argomenti contro l'imperialismo Romano ben noti a un ormai lunga tradizione letteraria. I riscontri
più significativi si individuano per Tacito grazie a Cesare, Sallustio e Livio che avevano svolto i
motivi della propaganda antiromana dando direttamente la parola ai nemici di Roma. La maggiore
analogia si rileva in Cesare dove un capo Barbaro nel De Bello Gallico tiene un discorso ai suoi
subito prima della sconfitta definitiva e indica nell'insaziabile brama di conquista e di potere l'unica
causa delle guerre intraprese da Roma. In Sallustio nel Bellum Iugurthinum Giugurta, re di
Numidia, definisce i Romani ingiusti e 'nemici comuni di tutti gli uomini', perché spinti a far guerra
a ogni stato ricco e potente da avidità e smania di dominio. La stessa denuncia è affidata nelle
Historiae sallustiane al re del Ponto Mitridate che afferma che Roma aggredisce gli altri popoli
spinti dalla brama di potere e di ricchezze. Infine Livio immagina che Antioco, re di Siria, avesse
scritto al sovrano della Bitinia per metterlo in guardia dai pericoli conseguenti all'arrivo dei Romani
in Asia. Tacito rielabora e sviluppa questi temi nella prima parte del discorso di Càlgaco, dedicata ai
metodi e ai fini delle guerre di conquista. Le consuete accuse di insaziabile avidità di ricchezze e
brama di potere sono espressi in una forma potente originale (tramite l'antitesi). La sferzante
requisitoria si conclude nel paragrafo 5 dove viene smascherata l'ipocrisia e la malafede di chi dà il
nome di 'Impero' alle rapine ed ai massacri e chiama 'pace' il deserto conseguente allo sterminio. La
seconda parte presenta, dal punto di vista di popoli assoggettati, i metodi del governo romano nelle
province: abusi di potere e soprusi sono messi sullo stesso piano degli obblighi imposti ai
provinciali, come servizio militare e i tributi; tutti sono visti da Càlgaco come segni di quella
servitus contro la quale egli incita i suoi a combattere. Gli accenti sdegnati che Tacito presta al suo
personaggio non vanno intesi come espressione del pensiero dell'autore al contrario egli era ben
lungi dal condannare la politica romana di conquista e lo dimostrano i suoi numerosi passi nelle sue
opere come l'Agricola ma anche vi è un altro discorso, una risposta all'accusa di Càlgaco, attribuito,
nelle Historiae, al generale Petilio Ceriale, in cui sono riprese le tesi tradizionali della guerra 'giusta'
e dei vantaggi apportati ai provinciali dal dominio romano, che assicura ai sottoposti la pace e il
rispetto delle leggi.

Il punto di vista dei Romani: il discorso di Petilio Ceriale


Il discorso del generale Petilio Ceriale
Historiae, IV, 73-74
Nelle Historiae acquistano particolare rilievo i discorsi diretti, tra cui quello di Petilio Ceriale ad
alcune tribù galliche, che rappresenta una lucida analisi dell'imperialismo Romano.
Nel 69-70 la popolazione germanica dei Batàvi, alleata di Roma, aveva dato vita a una rivolta sotto
la guida di Giulio Civile, capo batàvo che aveva ottenuto la cittadinanza romana; al loro fianco si
erano schierate le tribù galliche dei Trèviri e dei Lìngoni.
Vespasiano, preso il potere, invia contro i rivoltosi sette legioni al comando di Petilio Ceriale, che,
dopo aver sconfitto i Trèviri e Lìngoni, invece di infierire, rivolge loro un discorso per ridurli
all'obbedienza in modo più duraturo.
Egli comincia dicendo di non essere un oratore ma che ha testato in armi il valore del popolo
romano ma siccome per loro contano le parole decide di esporre qualche concetto. Petilio illustra i
vantaggi che comporta la fedele sottomissione a Roma, dimostrando che sono di gran lunga
superiore agli inconvenienti, presentati realisticamente come mali ineliminabili, cui conviene
rassegnarsi, così come non ci si ribella alle calamità naturali. Vi è infine la giustificazione delle
conquiste romane, che usa l'argomento tradizionale delle guerre intraprese non per brama di
dominio ma per portare aiuto ai popoli che lo chiedono, una sorta di replica alle tremende accuse di
Calgàco nell'Agricola.

APPROFONDIMENTI

L’immagine del “barbaro” nella cultura latina


Barbaro è colui che parla una lingua incomprensibile, balbetta e non parla il greco. Non sono
identificati come cittadini greci o romani, non appartengono ad una singola città e non hanno diritto
di cittadinanza come gli schiavi (metesi).
Il termine latino barbarus è la trasposizione latina del greco bárbaros, vocabolo con cui i Greci
indicavano qualsiasi popolo di lingua diversa dalla propria.
-prima i Galli...
I Romani a loro volta chiamarono “barbari” i nemici stranieri, primi tra tutti i Galli, con i quali
vennero a contatto all’inizio del IV secolo a.C. quando Roma rischiò di essere distrutta dai Galli
Sènoni guidati da Brenno.
A partire da questo, si costituì una tipologia del guerriero gallo: prestanza fisica (corporatura
gigantesca, capigliatura incolta e abbigliamento inconsueto) e ardore guerrresco si accompagnano
e contrappongo a stolta tracotanza, scarsa resistenza e incostanza.
-...poi i Germani
Con la progressiva romanizzazione della Gallia Cisalpina e Narbonese, poi Transalpina a opera di
Cesare, i Galli perdono agli occhi dei Romani, le caratteristiche tipiche dei barbari, rappresentati ora
dai popoli settentrionali, ovvero i Germani.
La distinzione tra Galli e Germani (considerati fino ad allora comunemente di stirpe celtica) è
istituta da Cesare nel De bello Gallico dove, è proprio un Gallo, a contrapporre i Germani ai più
civili e benestanti Galli. Il barbaro si rivela arrogante e infido, superstizioso e ferocemente
selvaggio. Essenza delle barbarie è considerato il rifiuto di sottomettersi a Roma e di accettare
i benefici della civiltà, rifiuto che eguaglia i barbari a bestie feroci prive di caratteristiche umane.
-Tacito
Tacito sa porsi dal punto di vista dei barbari ribelli e riconosce che essi combattono per conservare
o recuperare la propria libertas. Nella figura dei barbari in Tacito si sovrappongono tendenze
divergenti: da una parte il disprezzo e il timore per degli esseri incivili, dall’altra il rispetto e la
simpatia per la sanità morale e lo spirito d’indipendenza. Per Tacito i barbari devono essere
sottomessi e ammirati.

Hitler e il Codex Aesinas


Data l’importanza che per i nazisti aveva la monografia tacitiana sui popoli della Germania, negli
anni in cui si affermò il potere del partito nazionalsocialista diversi furono i tentativi da parte dei
capi del partito di mettere le mani su un prezioso manoscritto, Il Codex Aesinas n.8, contenente
l’Agricola e la Germania di Tacito. Il manoscritto era giunto in Italia grazie al monaco d’Ascoli nel
1455, all’interno di un codice più ampio di cui si conservarono soltanto 8 fogli contenenti le opere
di Tacito, ribattezzati Codex Aesinas perché rinvenuti nel 1902 a Jesi (in latino Aesis).
-La via diplomatica...
In occasione delle Olimpiadi del 1936 Mussolini accosentì alla richiesta del Führer, di consegnargli
il prezioso codice. Tornato in Italia il Duce dovette rimangiarsi la parola a causa della decisa
opposizione da parte degli studiosi italiani.
-...e l’uso della forza
Un gruppo di SS^2 compì un’incursione nella villa Fontedamo, alla disperata ricerca cel codice.
La missione si rilevò fallimentare.
Negli anni Cinquanta il codice fu affidato al Banco di Sicilia di Firenze dove venne danneggiato
dall’acqua del fiume Arno durante l’alluvione che devastò la città. In seguito all’accurato restauro a
opera dei monaci amanuensi il codice venne poi ceduto alla Biblioteca Nazionale di Roma, dove
si trova tutt’ora.

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