Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Il libro descrive quattro scenari della vita quotidiana compresi tra il 300 e il 476 d. C. A partire dal 300 d. C. si diffonde il
Cristianesimo, religione che con Giustiniano verrà proclamata “credo ufficiale dello Stato” e che va ad influire anche sulle
abitudini quotidiane dei suoi fedeli, per questo infatti possiamo definirla “Religione del Fare”, poiché la gens che vi aderisce
stabilisce e condivide ciò che il cristianesimo stesso afferma.
PREMESSA
La data più accreditata per indicare la fine del mondo antico è il 476 d. C. anno in cui l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo
Augustolo, venne deposto dal barbaro Odoacre. In realtà, la questione storica non è poi così semplice: l’interruzione della
serie imperiale occidentale passò quasi inosservata ai contemporanei poiché erano presi da ben altri problemi, tra cui dover
sottostare a popoli barbari che mano a mano occupavano il territorio occidentale. Fino al 480 rimase un sovrano legittimo in
Dalmazia (provincia romana che comprendeva Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Albania), Giulio Nepote, e il
territorio dell’Impero fu ormai ridotto all’Italia e altri territori di poca importanza. Restava tuttavia, un imperatore romano a
Costantinopoli che in teoria era titolare delle due sedi. Il fatto importante da sottolineare è che sebbene l’occidente fosse ormai
sotto l’occupazione di popoli barbari, le abitudini di vita rimasero le stesse e quindi furono loro talvolta a dover accettare e
abituarsi alla vita romana e al suo sistema organizzativo: rimase l’impalcatura statale romana. A partire dal VII secolo le
dominazioni barbariche vennero spazzate via dall’Africa, dall’Italia e dalla Spagna e tornò ad affermarsi il termine “romano”
anche in occidente. Il vero cambiamento che porta alla fine del mondo antico avviene tra il IV e VII secolo grazie all’affermarsi
del Cristianesimo che cambiò il tradizionale modo di pensare e anche di agire. Primo passo avvenne nel 313 con l’editto di
Costantinopoli: Costantino I concesse la libertà di culto ai cristiani. Già alla fine del IV secolo lo si proclamò religione di stato;
si avvertirono subito i cambiamenti nella mentalità corrente tra cui intolleranza nei confronti degli altri credi e quindi
convinzione dell’unicità della fede, desiderio di ascesi e contemplazione, diversa concezione della donna. Ovviamente il
cambiamento non avvenne in un giorno ma vecchio e nuovo continuarono a convivere per un po’ di tempo, ma è proprio da
questo periodo che nascerà il cosiddetto Medioevo.
2. Nascita e educazione dei figli. Le donne avevano figli di solito in giovane età. La sterilità della donna poteva avere pesanti
ricadute nella vita famigliare e nel caso in cui avesse ottenuto la grazia, il nascituro sarebbe stato dedicato alla Chiesa come
ringraziamento. L’aborto volontario era proibito dalla legge, tant’è che se la donna l’avesse fatto all’insaputa dell’uomo,
sarebbe stata esiliata e poteva anche essere ripudiata per questo. Chi l’avesse aiutata era condannato alle miniere, se di
bassa estrazione, oppure confisca dei beni e relegazione in un’isola. Erano considerate delle “assassine di se stesse”,
adultere nei confronti di Cristo e omicide del figlio non ancora nato, soprattutto dalla Chiesa. Per quanto riguarda l’abbandono
dei figli, i genitori erano privati del diritto di reclamarli più tardi e la famiglia che faceva crescere il bambino poteva adottarlo
come loro figlio o schiavo (successivamente Giustiniano stabilì che dovevano essere considerati liberi). A partire dal 374
l’esposizione dei figli veniva punita con la morte. Inizialmente Costantino per evitare questo problema, stabilì che alle famiglie
in difficoltà venisse fornita una dose di cibo e alimenti a spese del fisco, successivamente venne stabilito solo per quelle in
miseria. Una legge del 391 stabilì invece che i figli venduti dai genitori potessero esse considerati liberi dopo aver effettuato
servizio per un certo tempo presso i loro acquirenti. Capitava spesso purtroppo, che i genitori per far fronte alla miseria,
rendessero i propri figli “eunuchi” ossia li castrassero poiché erano molto ambiti come servi. Gli eunuchi erano per lo più
schiavi stranieri importati nell’impero dato che la legge romana proibiva la castrazione. Le figlie invece, venivano vendute
talvolta a dei loschi personaggi che promettevano loro buona sistemazione, ma al contrario le portavano sulla strada della
prostituzione. I neonati venivano avvolti in fasce e i più fortunati disponevano di una nutrice. Per quanto riguarda il nome vi
erano diverse usanze e in particolare gli aristocratici romani oltre a quello personale, possedevano nomi ereditari delle
famiglie. I figli dei cristiani venivano battezzati, senza una scadenza precisa: il sacramento in tarda età infatti era anche molto
diffuso probabilmente perché la persona poteva sentirsi ancora insicuro nei confronti della propria fede oppure perché in tal
modo avrebbe potuto vivere una vita sregolata e poi salvarsi in punto di morte. I più fortunati crescevano assistiti da personale
di servizio, con case di terra, cavalli di argilla, bambole di cera, affiancati da un precettore privato che li aiutava ad apprendere
i primi rudimenti delle lettere. Sempre loro imparavano ad esprimersi in latino o in greco.
Per quanto riguarda l’insegnamento era relativamente diffuso soprattutto perché a richiederlo era l’apparato burocratico. Lo
stato non si occupava dell’insegnamento elementare destinato all’apprendimento di nozioni di base e quindi leggere, scrivere
e far di conto, poiché questo compito spettava ai privati per i più abbienti e alle scuole delle città o dei villaggi per gli
appartenenti ai ceti meno abbienti. Esistevano inoltre scuola monastiche, riservati ai futuri monaci. L’insegnamento era tenuto
in latino e in greco a seconda delle zone linguistiche. Anche le fanciulle più fortunate potevano godere di un insegnamento
letterario ma questo si limitava soprattutto alla conoscenza delle Sacre scritture e all’economia domestica. Le fanciulle
cristiane in particolare, dovevano assolutamente imparare ad essere ispirate solo dai Salmi, ad evitare brutte parole e canti
mondani, sottrarsi ai contatti con i giovani, apprendere con l’utilizzo di lettere con le quali poi potevano anche giocare e quindi
unire l’utile al dilettevole. Era importante anche scegliere il precettore adatto o la nutrice adatta, che avessero quindi requisiti
idonei.
3. La casa. Domus: casa separata in cui vi abita una sola famiglia. (circa 1.800 a Roma) Insulae: caseggiati multipli. (circa
46.000) La legge romana era talmente innovativa che prevedeva anche delle norme urbanistiche, le quali fissavano per lo più
le distanze tra gli edifici pubblici e costruzioni private, fra balconi o terrazze. Le case dei ricchi apparivano spesso come regge,
arricchite con tesori d’arte, pitture, mosaici anche pavimentali in cui venivano raffigurati temi tratti a volte dalla mitologia greca,
scene di caccia, pesca e vita campestre, corsa di carri al Circo Massimo; le dimore più grandi vantavano anche la presenza di
statue preziose che provenivano da templi chiusi in passato o da doni o acquisti dei padroni. I palazzi dell’aristocrazia romana
erano talmente enormi che al suo interno avevano tutto quanto potesse essere contenuto in una piccola città: ippodromo,
piazze, fontane, bagni. Ovviamente poi i più ricchi possedevano palazzi anche al di fuori della città. Il più noto dei palazzi
imperiali è il Gran Palazzo o Palazzo sacro di Costantinopoli e possedeva al suo interno molti edifici. Esso era stato concepito
secondo la considerazione che gli imperatori avevano del loro ruolo: essendo rappresentanti di Dio in terra, questi ultimi
dovevano vivere in dimore splendenti che potessero differenziarli dagli essere viventi. I monaci eremiti invece, non
possedevano una struttura che possiamo definire casa, ma piuttosto vivevano all’aperto o in un riparo approssimativo come
grotte, boschi, cime dei monti. Le case potevano essere soggette a delle confische penali, qualora non fossero state rispettate
le leggi.
4. Insegnamento superiore. A differenza di quello elementare, l’insegnamento superiore era mantenuto dallo Stato e dalle
amministrazioni cittadine. Era un passaggio indispensabile per l’accesso alle carriere importanti, in particolare il servizio
pubblico e si basava soprattutto sullo studio della grammatica e della retorica (scienze enciclopediche). La frequenza era
riservata ai figli della classe medio alta soprattutto perché richiedeva una certa quantità di spese. Città rinomate avevano
scuole in cui vi erano insegnamenti specializzati come Alessandria, dove era insegnata la matematica, l’astronomia, la
medicina, come Atene con la filosofia. La durata dei corsi era variabile a partire da un minimo di tre anni e il percorso non
prevedeva esami o lauree informali: un ragazzo dimostrava le proprie abilità avendo ottenuto una carica pubblica e alla fine
degli studi, con una lettera scritta dal professore. A Berito (odierna Beirut, Libano) era insegnato il diritto: erano previsti quattro
anni di studi con un programma per ciascun anno e gli studenti ottenevano poi un certificato formale, divenuto requisito
essenziale per professare l’avvocatura. Giustiniano aumenterà gli anni di studio portandoli a 5 e ne definirà il percorso durante
gli anni. Il programma degli studi era impegnativo e lasciava poco tempo agli svaghi: a casa gli studenti continuavano con il
loro lavoro per tutta la settimana, riposandosi il sabato pomeriggio e la domenica mattina, momenti dedicati alla celebrazione
religiosa.
2.I soldati. Nel IV-V secolo il servizio militare era obbligatorio, a parte rari casi di prestazione volontaria e la fornitura delle
reclute cadeva sempre sulla popolazione rurale, fattore negativo per quest’ultima in quanto significava la perdita della forza
lavoro. Le reclute erano richieste ogni anno, i più grandi proprietari ne davano uno o più, i più piccoli si raggruppavano in
consorzi per assolvere l’obbligo. In certi casi si poteva versare anche una somma di denaro (“aurum tironicum”) al posto di
donare una recluta. Il rifiuto di prestare servizio talvolta portava a casa di automutilazione. Giustiniano tolse l’obbligo di recluta
e ricorse esclusivamente al volontariato. L’aspetto negativo di questa riforma è che mano a mano l’esercito si indebolì e venne
sostituito anche da truppe mercenarie barbare. L’esercito si divideva in quello mobile (comitatenses) e quello di frontiera
(limitanei), il quale nella pratica si rivelò inutile, nonostante fosse numericamente consistente. Successivamente i limitanei
acquisiranno una connotazione più civile, divenendo un corpo di polizia confinaria.
3. Al servizio di Dio. Con l’arrivo del cristianesimo, il clero si dilatò in modo consistente e l’appartenenza ad esso poteva
rappresentare una comoda sistemazione per la vita. Vi si poteva accedere più o meno da ogni classe sociale, ad eccezione di
schiavi o coloni: quanto più la loro provenienza era elevate, tanto più occupavano un alto posto nella gerarchia. I genitori
incoraggiavano questa via per liberarsi dei figli che non gradivano per escluderli dall’eredità. Vi erano preti, diaconi,
suddiaconi, ordini minori, becchini, inservienti degli ospedali e a parte le diaconesse il cui compito principale era quello di
sovraintendere il battesimo delle donne. La promozione avveniva per anzianità, dovuta a favoritismi o a corruzione. Il vescovo
era eletto dal clero e dal popolo della città, consacrato da un altro vescovo. La sua giurisdizione si estendeva su un’unica città
e il vescovo non poteva rifiutarsi di raggiungere il luogo che gli è stato assegnato, pena la scomunica. Non sempre gli elettori
riuscivano ad accordarsi su una persona, di conseguenza veniva segnalato il problema ad un altro vescovo. L’elezione a
vescovo poteva anche essere un espediente per togliersi di mezzo un avversario politico. Oriente si stabilì che i candidati
dovessero essere almeno tre. Si diffuse il Monachesimo, nato in Egitto nel III secolo: eremitico e comunitario, rappresentava la
forma più perfetta per attuazione dello spirito cristiano. Componenti essenziali erano la fuga dal mondo, la reclusione, la
preghiera, il digiuno, le pratiche ascetiche, rinuncia delle ricchezze terrene. L’esperienza ascetica era considerata la forma più
alta di spiritualità, è per questo che se ne svilupparono a centinaia, come gli eremiti, individualisti che si inventavano le forme
più strane di sofferenza, restare immobili e nudi nella palude, passare giorni e notti sotto la neve. Era molto diffusa una certa
ostilità nei confronti dei monaci. La cultura non era il loro forte sia perché rifiutavano qualsiasi espressione letteraria al di fuori
dei libri sacri, sia per naturale disposizione.
4. Le professioni intellettuali. La professione di insegnante di scuola superiore richiedeva un lungo tirocinio di studi e una base
economica per poterli affrontare. Non era da tutti arrivare al successo, sia per la concorrenza sia perché quando si rimaneva
non si era docente titolare, i guadagni erano veramente bassi. Perfino quelli titolare rischiavano di guadagnare poco
soprattutto se a fine corsi gli studenti non pagavano la loro quota. A Roma erano ammessi sia docenti privati che pubblici,
mentre a Costantinopoli solo pubblici. Ugualmente importante era la professione dell’avvocato la quale era anche molto
ambita. Questa attività era considerata come un servizio pubblico e per professare era necessario essere iscritti all’albo di un
giudice. Successivamente si stabilì un numero chiuso di aventi diritto e la procedura prevedeva in particolare l’iscrizione
presso un elenco di candidati che attendevano un posto vacante. La carriera progrediva anche qui per anzianità. I giudici
erano magistrati sia civili che militari. Con Giustiniano nacquero i giudici di professione (“iudices pedanei”). Altra categoria
importante erano i medici organizzati secondo una specifica gerarchia: medici di corte, medici pubblici di Roma e medici
pubblici stipendiati dalle città. Un medico stipendiato era presente in ogni regione. I medici pubblici inoltre, dovevano
soccorrere i poveri e non accettare compensi dagli ammalati. Da ricordare anche agrimensori, ingegneri, architetti.
5. I sovrani. I poteri di un sovrano nella tarda antichità erano assoluti, anche se in teoria riconosceva un limite soggettivo nel
rispetto delle leggi da lui emanate, i consigli, il senato, il concistoro, avevano per lo più una funzione decorativa. La figura
dell’imperatore non subì modifiche nel corso dei secoli, almeno per quanto concerne la dimensione istituzionale; cambiarono
invece le abitudini di vita. Da capi militari i sovrani diventarono sedentari vivendo nei loro palazzi. Gli ultimi governanti
dell’Occidente ebbero qualche possibilità di esercitare il comando militare ma senza la stessa importanza del passato. La
carica era elettiva. A questa si associava la successione ereditaria per cui a partire da Costantino iniziò la formazione di
dinastie. Un’altra possibilità era quella di prendere il potere con la forza. Una volta esaurita la dinastia, spettava al senato e
all’esercito la designazione del trono dopo l’elezione. Per la successione ereditaria era necessario che il successore fosse una
persona adulta. Importante era la cerimonia di intronizzazione in quanto inaugurava solennemente la vita di un nuovo sovrano:
le abitudini variavano da persona a persona, c’è chi si faceva sollevare su uno scudo durante le acclamazioni, chi si faceva
vestire di porpora e col diadema mentre pronunciava un discorso e molti altri. Con Giustiniano si introduce anche la figura del
patriarca di Costantinopoli, dando così un valore misto alla cerimonia, militare e religioso. L’aspetto religioso era anche
conferito da altri simboli, come la vestizione di porpora, il trono che ricordava la chiesa, le tende per nascondere ai profani il
sovrano. Nel caso in cui il sovrano fosse stato eletto, la cerimonia era molto lunga, in caso contrario invece, era più ridotta.
6. La donna. Con l’avvento del cristianesimo, si instaura una nuova concezione della donna. Fino al 535 purtroppo una delle
attività più diffuse era quella della prostituzione, nonostante molti imperatori fossero intervenuti con sanzioni e divieti nei suoi
confronti. Giustiniano intervenne ancora una volta minacciando di grave sanzioni e cacciando gli sfruttatori da Costantinopoli. I
procacciatori si aggiravano per le città alla ricerca delle fanciulle, il più delle volte anche più piccole di 10 anni, promettendo
loro calzari e bei costumi, riuscivano ad imbrogliarle e a far firmar loro dei contratti e le costringevano quindi ad entrare in quel
brutto circolo. Altre donne che erano non gradite dai cristiani erano le donne dello spettacolo poiché quest’ultime per esigenze
professionali, non mantenevano quella compostezza richiesta dalla società: le attrici apparivano di fronte ad un pubblico a
capo scoperto, truccate e con vesti atte a provocare. Addirittura si sarebbero dovute pentire di aver svolto nella vita un tale
lavoro. Altre donne sotto accusa erano le donne agiate, circondate da schiere di eunuchi e dalle vesti tessute con metallo
preziosi. Le loro case erano piene di adulatori e convitati, false e dedite al vino, si rendevano anche odiose per la loro
pronuncia moscia. La donna cristiana invece doveva possedere: abbigliamento e abiti che mostrassero che fosse dedita a
Dio, quindi niente foro alle orecchie, niente rossetto, né collane, né perle; doveva evitare di partecipare ai conviti dei genitori,
imparare a non ber vino; imparare a leggere le sacre scritture; nessun giovane poteva avvicinarla. Le si chiedeva di imparare
a filare la lana, confezionare abiti adatti a proteggersi dal freddo, cibarsi di legumi, semola. Doveva sfuggire anche ai bagni,
saper scegliere le amicizie, non giocare con i servi.
Paragrafo 3: “L’alimentazione”
La mensa dei ricchi era molto raffinata e allietata da una varietà di cibi e di bevande; i banchetti dei nobili romani erano a base
di uccelli, pesci e ghiri. Nella cornice solenne del convito imperiale indossavano i mantelli e, secondo l’usanza tradizionale,
mangiavano sdraiati su letti, vi erano, poi, anche canti e musica per allietare gli incontri o esibizioni di attori davanti alle
mense. C’è un rapporto privilegiato e affettuoso con il cibo. L’uso di banchetti raffinati si estendeva all’alto clero: i papi del IV
secolo vivevano nel lusso più sfacciato, si arricchivano con le offerte delle matrone. I vescovi di provincia, invece, erano usi a
una vita alquanto più moderata, a base di erbaggi, legumi, talvolta carne e sempre vino. Usava cucchiai d’argento, i piatti di
portata erano di terracotta, di legno o di marmo; l’ospitalità non era negata a nessuno e mentre si era a tavola si facevano
letture o discussioni serie. Un certo tono solenne, pur con modalità del tutto diverse, poteva avere anche un banchetto presso
un barbaro; ad esempio un banchetto di Attila iniziò alla tre del pomeriggio e quando Prisco, assieme ad altri ambasciatori,
arrivò alla soglia dell’alloggio del re dovette fermarsi proprio di fronte a lui e accettare, secondo l’uso, una tazza di vino. Era
consuetudine, infatti, che, prima di sedersi, si dovessero formulare degli auguri. I seggi erano allineati lungo le pareti della sala
e Attila sedeva in mezzo su un letto antistante la propria camera da notte. I posti erano assegnati secondo l’ordine di
importanza delle persone e, una volta seduti tutti, entrò un coppiere porgendo al re un boccale di vino. Egli lo prese e salutò il
primo della fila: chi era così onorato doveva alzarsi in piedi e non gli era permesso di sedersi prima di aver almeno assaggiato
il vino o addirittura aver vuotato il boccale, restituendolo al coppiere. Quando terminò la cerimonia dei saluti, furono portate le
tavole, prima per il re e poi per gli altri. Dapprima entrò un servitore con una tavoletta ricolma di carne e altri servi portarono
pane e le altre pietanze: le tavolette degli ospiti erano d’argento e le coppe d’oro e di argento, tranne quelle di Attila, di legno.
Finite le pietanze, si ripeteva il rito del brindisi in onore del re. In seguito venne portato un vassoio con pietanze diverse e al
termine del secondo piatto, venne ancora rinnovata la cerimonia precedente. Le plebi di Roma e di Costantinopoli avevano
diritto a una distribuzione gratuita di pane riservata ad alcuni strati della popolazione. Il frumento arrivava a Roma
normalmente dall’Africa. I cittadini di Roma avevano, inoltre, diritto a distribuzioni gratuite di olio e carne e ad acquisti agevolati
di vino; la distribuzione della carne era limitata a quella di maiale ed era fatta soltanto per cinque mesi all’anno. Una categoria
che aveva diritto a una distribuzione gratuita di cibo, era quella dei militari nel corso di una campagna o in transito; in
alternativa fruivano di una modesta paga con cui sostentarsi oppure, di terre demaniali da coltivare. Il pan biscotto era
l’alimento base durante le spedizioni: veniva ottenuto facendo cuocere due volte l’impasto di farina, in modo che si
conservasse più a lungo. Pane, carne e vino erano essenziali per i pasti. Il cristianesimo introdusse un diverso rapporto con il
cibo: l’alimentazione dei monaci, era quanto di più frugale potesse esistere. Altri al contrario, prendevano molto sul serio il
digiuno, o comunque il mangiare soltanto il necessario per sopravvivere.
CAPITOLO 4
Paragrafo 1: “Malattie e guarigioni miracolose”
Vediamo raramente i medici nell’esercizio della loro attività terapeutica. Il motivo di questa carenza è perché si tende a
mettere in risalto l’attività dei monaci guaritori e in secondo piano quella concorrenziale dei professionisti. I medici, d’altronde,
non si mostravano spesso all’altezza delle situazioni: in una città come Roma, dove per forza di cose le epidemie infuriavano
spesso, non sapevano come fronteggiarle e, nel IV secolo, si era escogitato come forma di prevenzione il divieto
di fare visita agli amici ammalati; se poi era uno schiavo a doversi recare a chiedere notizia, lo si obbligava a fare un bagno
prima di essere riaccolto in casa. Per molti cristiani non vi era dubbio che la medicina tradizionale fosse meno efficace della
fede e il caso di santa Macrina è emblematico in proposito. Afflitta da un cancro al seno, veniva continuamente esortata dalla
madre a sottoporsi a cure, ma non ne voleva sapere e rispondeva che per la guarigione sarebbe stato sufficiente il segno della
croce sulla parte malata: così fece la madre e il morbo scomparve immediatamente. Santa Macrina rifiutava le cure ordinarie
per il suo cancro al seno, ma passava la notte in un santuario per pregare e utilizzava come rimedio la poltiglia formata dalla
polvere con le lacrime che le sgorgavano.
In condizioni normali, non nella confusione della guerra, i medici intervenivano con cure più o meno di buon senso: acqua
tiepida da bere per chi aveva difficoltà a vomitare o vino leggero contro la febbre. La moglie di un nobile fu colpita da una
inestinguibile voracità, in cui possiamo forse riconoscere un caso di bulimia. Come di consueto, i pareri si dividevano fra chi
riteneva che fosse azione del demonio e chi pensava a una malattia. Una nobile di Tessalonica, affetta da paralisi, fu guarita
aspergendola per venti giorni con olio santo e la stessa terapia venne usata per un ragazzo sofferente di epilessia. Nella
maggior parte dei casi, però, la malattia non è definita con un nome specifico e si parla genericamente, nelle vite dei santi, di
guarigioni miracolose da stati morbosi oppure dovuti all’azione del demonio. Gli indemoniati che si presentavano ai monaci
guaritori, e fra questi numerose fanciulle, erano una componente massiccia dei malati che non lamentavano una sindrome
precisa: su questi si esercitavano i loro sistemi di cura. Il possesso della capacità di guarire veniva considerato come una
diretta conseguenza della perfezione spirituale, anche se non tutti avevano potere contro i demoni più crudeli.