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“LA VITA QUOTIDIANA ALLA FINE DEL MONDO ANTICO”

Il libro descrive quattro scenari della vita quotidiana compresi tra il 300 e il 476 d. C. A partire dal 300 d. C. si diffonde il
Cristianesimo, religione che con Giustiniano verrà proclamata “credo ufficiale dello Stato” e che va ad influire anche sulle
abitudini quotidiane dei suoi fedeli, per questo infatti possiamo definirla “Religione del Fare”, poiché la gens che vi aderisce
stabilisce e condivide ciò che il cristianesimo stesso afferma.

PREMESSA
La data più accreditata per indicare la fine del mondo antico è il 476 d. C. anno in cui l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo
Augustolo, venne deposto dal barbaro Odoacre. In realtà, la questione storica non è poi così semplice: l’interruzione della
serie imperiale occidentale passò quasi inosservata ai contemporanei poiché erano presi da ben altri problemi, tra cui dover
sottostare a popoli barbari che mano a mano occupavano il territorio occidentale. Fino al 480 rimase un sovrano legittimo in
Dalmazia (provincia romana che comprendeva Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Albania), Giulio Nepote, e il
territorio dell’Impero fu ormai ridotto all’Italia e altri territori di poca importanza. Restava tuttavia, un imperatore romano a
Costantinopoli che in teoria era titolare delle due sedi. Il fatto importante da sottolineare è che sebbene l’occidente fosse ormai
sotto l’occupazione di popoli barbari, le abitudini di vita rimasero le stesse e quindi furono loro talvolta a dover accettare e
abituarsi alla vita romana e al suo sistema organizzativo: rimase l’impalcatura statale romana. A partire dal VII secolo le
dominazioni barbariche vennero spazzate via dall’Africa, dall’Italia e dalla Spagna e tornò ad affermarsi il termine “romano”
anche in occidente. Il vero cambiamento che porta alla fine del mondo antico avviene tra il IV e VII secolo grazie all’affermarsi
del Cristianesimo che cambiò il tradizionale modo di pensare e anche di agire. Primo passo avvenne nel 313 con l’editto di
Costantinopoli: Costantino I concesse la libertà di culto ai cristiani. Già alla fine del IV secolo lo si proclamò religione di stato;
si avvertirono subito i cambiamenti nella mentalità corrente tra cui intolleranza nei confronti degli altri credi e quindi
convinzione dell’unicità della fede, desiderio di ascesi e contemplazione, diversa concezione della donna. Ovviamente il
cambiamento non avvenne in un giorno ma vecchio e nuovo continuarono a convivere per un po’ di tempo, ma è proprio da
questo periodo che nascerà il cosiddetto Medioevo.

CAPITOLO 1 - INFANZIA E ADOLESCENZA


1. Origine e tutela della famiglia. L’origine legale della famiglia era costituita dal matrimonio. Era preceduto da un
fidanzamento (sponsalia), che prevedeva uno scambio di doni, i quali sarebbero stati restituiti nel caso in cui uno dei due sposi
fosse morto anzitempo. Per sposarsi era necessario il consenso di entrambi gli interessati i quali dovevano quindi aver
compiuto il settimo anno di età. La rottura del fidanzamento comportava il pagamento del doppio di quanto era stato donato e
se lo sposo non onorava la promessa matrimoniale entro due anni, la donna poteva sposarsi un'altra persona. La sposa non
entrava a far parte della famiglia del marito, ma rimaneva sotto la potestà del padre; quest’ultima portava con sé la dote, che
poteva essere donata prima o dopo le nozze e che costituiva una parte del capitale della nuova coppia, assieme alla
donazione (“ante nuptias donatio”) fatta dal promesso sposo: molto spesso la dote era oggetto di discordia tra le famiglie
coinvolte, specialmente se le giovani non generavano figli. I beni della donna al di fuori della dote, rimanevano suoi anche
dopo le nozze. Matrimonio e fidanzamento potevano aver luogo soltanto tra persone libere non stretti da alcun vincolo di
parentela. Valentiniano I nel 373 proibì il matrimonio con i barbari e nel 388 Teodosio vietò l’unione tra ebrei e cristiani; con
Giustiniano, nel 530 venne proibito al clero inferiore e ai vescovi di sposarsi. I senatori e i loro discendenti non potevano
convolare a nozze con liberte o liberti, attori o figli di questi ultimi, locandiere o insomma donne di basso rango: Giustino I,
tolse questo divieto per le donne che avessero smesso di praticare la professione in questione. Giustiniano si spinse ancora
oltre, consentendo a tutte le donne libere di sposarsi. Non era consentito inoltre il matrimonio in caso di schiavitù di uno o
dell’altro, in questo caso poteva esserci solo una convivenza (“contubernium”). Gli schiavi non potevano sposarsi tra loro, era
possibile solo un’unione di fatto che tuttavia dipendeva dal padrone: era lui che consentiva o meno la creazione dell’unione e
che poteva anche scioglierla da un momento all’altro. I servi della gleba invece, potevano sposare persone libere. Capitava
spesso tuttavia che le unioni matrimoniali avvenissero per lo più per scopi politici o patrimoniali. In quei secoli esistevano già
leggi severe per tutelare la moralità della vita famigliare: è per questo infatti che gli imperatori cristiani si misero all’opera per
regolare le pene nei confronti dell’adulterio, del ripudio di uno dei due partner, dello “stuprum” ossia commercio carnale fra
uomini e donne non sposati, del concubinato, del divorzio. Le colpe degli uomini tuttavia erano sempre inferiori. Caso
dell’adulterio: pena di morte e confisca dei beni per l’uomo, esilio per la donna colpevole. L’accusa doveva essere mossa dal
marito e dai parenti più prossimi. I successori di Costantino I, stabilirono divieto di diritto di appello e la pena del “culeus” ossia
l’essere gettati in mare in un sacco con animale feroce in compagnia. Giustiniano aggiunse che nel caso fosse l’uomo il
colpevole, la donna si sarebbe ripresa la dote e la donazione nuziale, nel caso contrario invece, l’adultera sarebbe andata in
monastero e l’uomo l’avrebbe potuta riprendere dopo due anni altrimenti sarebbe rimasta lì per tutta la vita. Era addirittura
giustificato l’omicidio della donna da parte del padre (nel caso in cui l’abbia colta in flagrante) e del marito. In qualsiasi caso
l’uomo doveva ripudiare all’istante la donna poiché se non lo faceva, veniva accusato di lenocinio (favoreggiamento alla
prostituzione). Il giudice che si occupava del caso, aveva comunque sia il compito di accertarsi che anche l’uomo conducesse
una vita giusta e non che si limitasse ad accusare la moglie. Ovviamente anche in questo ambito, le accuse di adulterio
potevano rivelarsi una farsa per raggiungere scopi politici. Caso dell’incesto: inizialmente pena di morte, poi rogo con confisca
di beni, nullità del matrimonio e confisca della dote. Nel 535 Giustiniano invece riordinò le pene: il marito in assenza di figli
legittimi, avrebbe patito la perdita dei beni, la deportazione e decadenza dall’impiego se dipendente pubblico; stessa cosa per
la donna se fosse stata consenziente. Caso del divorzio: nell’antichità era concesso divorziare con il mutuo consenso; nel 542
Giustiniano proibì il divorzio consensuale a meno che non fosse stato per dedicare la propria vita alla castità; nel caso in cui
non venisse rispettata la norma, i coniugi sarebbero stati rinchiusi a vita in monastero. Tuttavia ai due era concesso il
riavvicinamento se entrambi l’avessero voluto. Caso del “repudium”: divorzio non consensuale e quindi ripudio di uno dei due.
Motivi validi per lo scioglimento: desiderio di vivere una vita di castità, impotenza entro tre anni di matrimonio, presunzione di
morte non avendo più avuto notizie sul partner per cinque anni, l’essere ritenuto responsabile di un crimine, in particolare per
la donna, aborto volontario, fare il bagno con altri uomini, cospirare contro l’impero, adulterio, presenza a spettacoli o teatri
all’insaputa del marito.

2. Nascita e educazione dei figli. Le donne avevano figli di solito in giovane età. La sterilità della donna poteva avere pesanti
ricadute nella vita famigliare e nel caso in cui avesse ottenuto la grazia, il nascituro sarebbe stato dedicato alla Chiesa come
ringraziamento. L’aborto volontario era proibito dalla legge, tant’è che se la donna l’avesse fatto all’insaputa dell’uomo,
sarebbe stata esiliata e poteva anche essere ripudiata per questo. Chi l’avesse aiutata era condannato alle miniere, se di
bassa estrazione, oppure confisca dei beni e relegazione in un’isola. Erano considerate delle “assassine di se stesse”,
adultere nei confronti di Cristo e omicide del figlio non ancora nato, soprattutto dalla Chiesa. Per quanto riguarda l’abbandono
dei figli, i genitori erano privati del diritto di reclamarli più tardi e la famiglia che faceva crescere il bambino poteva adottarlo
come loro figlio o schiavo (successivamente Giustiniano stabilì che dovevano essere considerati liberi). A partire dal 374
l’esposizione dei figli veniva punita con la morte. Inizialmente Costantino per evitare questo problema, stabilì che alle famiglie
in difficoltà venisse fornita una dose di cibo e alimenti a spese del fisco, successivamente venne stabilito solo per quelle in
miseria. Una legge del 391 stabilì invece che i figli venduti dai genitori potessero esse considerati liberi dopo aver effettuato
servizio per un certo tempo presso i loro acquirenti. Capitava spesso purtroppo, che i genitori per far fronte alla miseria,
rendessero i propri figli “eunuchi” ossia li castrassero poiché erano molto ambiti come servi. Gli eunuchi erano per lo più
schiavi stranieri importati nell’impero dato che la legge romana proibiva la castrazione. Le figlie invece, venivano vendute
talvolta a dei loschi personaggi che promettevano loro buona sistemazione, ma al contrario le portavano sulla strada della
prostituzione. I neonati venivano avvolti in fasce e i più fortunati disponevano di una nutrice. Per quanto riguarda il nome vi
erano diverse usanze e in particolare gli aristocratici romani oltre a quello personale, possedevano nomi ereditari delle
famiglie. I figli dei cristiani venivano battezzati, senza una scadenza precisa: il sacramento in tarda età infatti era anche molto
diffuso probabilmente perché la persona poteva sentirsi ancora insicuro nei confronti della propria fede oppure perché in tal
modo avrebbe potuto vivere una vita sregolata e poi salvarsi in punto di morte. I più fortunati crescevano assistiti da personale
di servizio, con case di terra, cavalli di argilla, bambole di cera, affiancati da un precettore privato che li aiutava ad apprendere
i primi rudimenti delle lettere. Sempre loro imparavano ad esprimersi in latino o in greco.
Per quanto riguarda l’insegnamento era relativamente diffuso soprattutto perché a richiederlo era l’apparato burocratico. Lo
stato non si occupava dell’insegnamento elementare destinato all’apprendimento di nozioni di base e quindi leggere, scrivere
e far di conto, poiché questo compito spettava ai privati per i più abbienti e alle scuole delle città o dei villaggi per gli
appartenenti ai ceti meno abbienti. Esistevano inoltre scuola monastiche, riservati ai futuri monaci. L’insegnamento era tenuto
in latino e in greco a seconda delle zone linguistiche. Anche le fanciulle più fortunate potevano godere di un insegnamento
letterario ma questo si limitava soprattutto alla conoscenza delle Sacre scritture e all’economia domestica. Le fanciulle
cristiane in particolare, dovevano assolutamente imparare ad essere ispirate solo dai Salmi, ad evitare brutte parole e canti
mondani, sottrarsi ai contatti con i giovani, apprendere con l’utilizzo di lettere con le quali poi potevano anche giocare e quindi
unire l’utile al dilettevole. Era importante anche scegliere il precettore adatto o la nutrice adatta, che avessero quindi requisiti
idonei.

3. La casa. Domus: casa separata in cui vi abita una sola famiglia. (circa 1.800 a Roma) Insulae: caseggiati multipli. (circa
46.000) La legge romana era talmente innovativa che prevedeva anche delle norme urbanistiche, le quali fissavano per lo più
le distanze tra gli edifici pubblici e costruzioni private, fra balconi o terrazze. Le case dei ricchi apparivano spesso come regge,
arricchite con tesori d’arte, pitture, mosaici anche pavimentali in cui venivano raffigurati temi tratti a volte dalla mitologia greca,
scene di caccia, pesca e vita campestre, corsa di carri al Circo Massimo; le dimore più grandi vantavano anche la presenza di
statue preziose che provenivano da templi chiusi in passato o da doni o acquisti dei padroni. I palazzi dell’aristocrazia romana
erano talmente enormi che al suo interno avevano tutto quanto potesse essere contenuto in una piccola città: ippodromo,
piazze, fontane, bagni. Ovviamente poi i più ricchi possedevano palazzi anche al di fuori della città. Il più noto dei palazzi
imperiali è il Gran Palazzo o Palazzo sacro di Costantinopoli e possedeva al suo interno molti edifici. Esso era stato concepito
secondo la considerazione che gli imperatori avevano del loro ruolo: essendo rappresentanti di Dio in terra, questi ultimi
dovevano vivere in dimore splendenti che potessero differenziarli dagli essere viventi. I monaci eremiti invece, non
possedevano una struttura che possiamo definire casa, ma piuttosto vivevano all’aperto o in un riparo approssimativo come
grotte, boschi, cime dei monti. Le case potevano essere soggette a delle confische penali, qualora non fossero state rispettate
le leggi.

4. Insegnamento superiore. A differenza di quello elementare, l’insegnamento superiore era mantenuto dallo Stato e dalle
amministrazioni cittadine. Era un passaggio indispensabile per l’accesso alle carriere importanti, in particolare il servizio
pubblico e si basava soprattutto sullo studio della grammatica e della retorica (scienze enciclopediche). La frequenza era
riservata ai figli della classe medio alta soprattutto perché richiedeva una certa quantità di spese. Città rinomate avevano
scuole in cui vi erano insegnamenti specializzati come Alessandria, dove era insegnata la matematica, l’astronomia, la
medicina, come Atene con la filosofia. La durata dei corsi era variabile a partire da un minimo di tre anni e il percorso non
prevedeva esami o lauree informali: un ragazzo dimostrava le proprie abilità avendo ottenuto una carica pubblica e alla fine
degli studi, con una lettera scritta dal professore. A Berito (odierna Beirut, Libano) era insegnato il diritto: erano previsti quattro
anni di studi con un programma per ciascun anno e gli studenti ottenevano poi un certificato formale, divenuto requisito
essenziale per professare l’avvocatura. Giustiniano aumenterà gli anni di studio portandoli a 5 e ne definirà il percorso durante
gli anni. Il programma degli studi era impegnativo e lasciava poco tempo agli svaghi: a casa gli studenti continuavano con il
loro lavoro per tutta la settimana, riposandosi il sabato pomeriggio e la domenica mattina, momenti dedicati alla celebrazione
religiosa.

CAPITOLO 2. L’ETÀ ADULTA


1. La burocrazia e le cariche pubbliche. Essere adulto significava prendere parte al servizio militare o svolgere un lavoro con
una carica pubblica e quindi servire lo stato. Le occupazioni prendevano nome di “militia” e si differenziavano in “dignitates”
conferite direttamente dall’imperatore per un breve periodo attraverso una lettera chiamata concilio, “honores”e
“administrationes”, accordate con un atto amministrativo, la probatoria che implicava un servizio continuativo fino al
raggiungimento dei limiti di età. Costantino fece militarizzare tutti gli impieghi pubblici e quindi tutti portavano uniforme ed
erano suddivisi in reggimenti fittizi, con la presenza dei gradi. L’avanzamento nelle cariche avveniva per anzianità. Si trattava
di una vera e propria corsa ai posti, per lo più comprati o ricevuti come beneficio: si creavano delle liste di soprannumerari in
attesa, dove i genitori scrivevano il nome dei loro figli già in età infantile. Molto spesso capitava che una carica pubblica fosse
assegnata ad un individuo per favoritismo e quindi tramite un sistema di raccomandazioni o comunque grazie a un semplice
legame di conoscenza. La situazione peggiorò con l’arrivo alla vendita degli uffici per mano di dignitari di corte o anche dagli
imperatori: Giustiniano vietò anche questo! Un caso a parte era costituito dagli eunuchi: servi che possedevano regolarmente
una dimora nella casa del sovrano, ritenuti indispensabili per i loro servigi, che molto spesso per il loro ruolo, sebbene fossero
disprezzati, riuscivano ad acquisire ricchezze e potere poiché riuscivano a condizionare persino gli imperatori. Il pregiudizio
nei confronti di questi schiavi barbari importati, iniziò ad attenuarsi con Giustiniano, il quale promosse uno i loro ad
un’altissima carica militare.

2.I soldati. Nel IV-V secolo il servizio militare era obbligatorio, a parte rari casi di prestazione volontaria e la fornitura delle
reclute cadeva sempre sulla popolazione rurale, fattore negativo per quest’ultima in quanto significava la perdita della forza
lavoro. Le reclute erano richieste ogni anno, i più grandi proprietari ne davano uno o più, i più piccoli si raggruppavano in
consorzi per assolvere l’obbligo. In certi casi si poteva versare anche una somma di denaro (“aurum tironicum”) al posto di
donare una recluta. Il rifiuto di prestare servizio talvolta portava a casa di automutilazione. Giustiniano tolse l’obbligo di recluta
e ricorse esclusivamente al volontariato. L’aspetto negativo di questa riforma è che mano a mano l’esercito si indebolì e venne
sostituito anche da truppe mercenarie barbare. L’esercito si divideva in quello mobile (comitatenses) e quello di frontiera
(limitanei), il quale nella pratica si rivelò inutile, nonostante fosse numericamente consistente. Successivamente i limitanei
acquisiranno una connotazione più civile, divenendo un corpo di polizia confinaria.

3. Al servizio di Dio. Con l’arrivo del cristianesimo, il clero si dilatò in modo consistente e l’appartenenza ad esso poteva
rappresentare una comoda sistemazione per la vita. Vi si poteva accedere più o meno da ogni classe sociale, ad eccezione di
schiavi o coloni: quanto più la loro provenienza era elevate, tanto più occupavano un alto posto nella gerarchia. I genitori
incoraggiavano questa via per liberarsi dei figli che non gradivano per escluderli dall’eredità. Vi erano preti, diaconi,
suddiaconi, ordini minori, becchini, inservienti degli ospedali e a parte le diaconesse il cui compito principale era quello di
sovraintendere il battesimo delle donne. La promozione avveniva per anzianità, dovuta a favoritismi o a corruzione. Il vescovo
era eletto dal clero e dal popolo della città, consacrato da un altro vescovo. La sua giurisdizione si estendeva su un’unica città
e il vescovo non poteva rifiutarsi di raggiungere il luogo che gli è stato assegnato, pena la scomunica. Non sempre gli elettori
riuscivano ad accordarsi su una persona, di conseguenza veniva segnalato il problema ad un altro vescovo. L’elezione a
vescovo poteva anche essere un espediente per togliersi di mezzo un avversario politico. Oriente si stabilì che i candidati
dovessero essere almeno tre. Si diffuse il Monachesimo, nato in Egitto nel III secolo: eremitico e comunitario, rappresentava la
forma più perfetta per attuazione dello spirito cristiano. Componenti essenziali erano la fuga dal mondo, la reclusione, la
preghiera, il digiuno, le pratiche ascetiche, rinuncia delle ricchezze terrene. L’esperienza ascetica era considerata la forma più
alta di spiritualità, è per questo che se ne svilupparono a centinaia, come gli eremiti, individualisti che si inventavano le forme
più strane di sofferenza, restare immobili e nudi nella palude, passare giorni e notti sotto la neve. Era molto diffusa una certa
ostilità nei confronti dei monaci. La cultura non era il loro forte sia perché rifiutavano qualsiasi espressione letteraria al di fuori
dei libri sacri, sia per naturale disposizione.

4. Le professioni intellettuali. La professione di insegnante di scuola superiore richiedeva un lungo tirocinio di studi e una base
economica per poterli affrontare. Non era da tutti arrivare al successo, sia per la concorrenza sia perché quando si rimaneva
non si era docente titolare, i guadagni erano veramente bassi. Perfino quelli titolare rischiavano di guadagnare poco
soprattutto se a fine corsi gli studenti non pagavano la loro quota. A Roma erano ammessi sia docenti privati che pubblici,
mentre a Costantinopoli solo pubblici. Ugualmente importante era la professione dell’avvocato la quale era anche molto
ambita. Questa attività era considerata come un servizio pubblico e per professare era necessario essere iscritti all’albo di un
giudice. Successivamente si stabilì un numero chiuso di aventi diritto e la procedura prevedeva in particolare l’iscrizione
presso un elenco di candidati che attendevano un posto vacante. La carriera progrediva anche qui per anzianità. I giudici
erano magistrati sia civili che militari. Con Giustiniano nacquero i giudici di professione (“iudices pedanei”). Altra categoria
importante erano i medici organizzati secondo una specifica gerarchia: medici di corte, medici pubblici di Roma e medici
pubblici stipendiati dalle città. Un medico stipendiato era presente in ogni regione. I medici pubblici inoltre, dovevano
soccorrere i poveri e non accettare compensi dagli ammalati. Da ricordare anche agrimensori, ingegneri, architetti.

5. I sovrani. I poteri di un sovrano nella tarda antichità erano assoluti, anche se in teoria riconosceva un limite soggettivo nel
rispetto delle leggi da lui emanate, i consigli, il senato, il concistoro, avevano per lo più una funzione decorativa. La figura
dell’imperatore non subì modifiche nel corso dei secoli, almeno per quanto concerne la dimensione istituzionale; cambiarono
invece le abitudini di vita. Da capi militari i sovrani diventarono sedentari vivendo nei loro palazzi. Gli ultimi governanti
dell’Occidente ebbero qualche possibilità di esercitare il comando militare ma senza la stessa importanza del passato. La
carica era elettiva. A questa si associava la successione ereditaria per cui a partire da Costantino iniziò la formazione di
dinastie. Un’altra possibilità era quella di prendere il potere con la forza. Una volta esaurita la dinastia, spettava al senato e
all’esercito la designazione del trono dopo l’elezione. Per la successione ereditaria era necessario che il successore fosse una
persona adulta. Importante era la cerimonia di intronizzazione in quanto inaugurava solennemente la vita di un nuovo sovrano:
le abitudini variavano da persona a persona, c’è chi si faceva sollevare su uno scudo durante le acclamazioni, chi si faceva
vestire di porpora e col diadema mentre pronunciava un discorso e molti altri. Con Giustiniano si introduce anche la figura del
patriarca di Costantinopoli, dando così un valore misto alla cerimonia, militare e religioso. L’aspetto religioso era anche
conferito da altri simboli, come la vestizione di porpora, il trono che ricordava la chiesa, le tende per nascondere ai profani il
sovrano. Nel caso in cui il sovrano fosse stato eletto, la cerimonia era molto lunga, in caso contrario invece, era più ridotta.

6. La donna. Con l’avvento del cristianesimo, si instaura una nuova concezione della donna. Fino al 535 purtroppo una delle
attività più diffuse era quella della prostituzione, nonostante molti imperatori fossero intervenuti con sanzioni e divieti nei suoi
confronti. Giustiniano intervenne ancora una volta minacciando di grave sanzioni e cacciando gli sfruttatori da Costantinopoli. I
procacciatori si aggiravano per le città alla ricerca delle fanciulle, il più delle volte anche più piccole di 10 anni, promettendo
loro calzari e bei costumi, riuscivano ad imbrogliarle e a far firmar loro dei contratti e le costringevano quindi ad entrare in quel
brutto circolo. Altre donne che erano non gradite dai cristiani erano le donne dello spettacolo poiché quest’ultime per esigenze
professionali, non mantenevano quella compostezza richiesta dalla società: le attrici apparivano di fronte ad un pubblico a
capo scoperto, truccate e con vesti atte a provocare. Addirittura si sarebbero dovute pentire di aver svolto nella vita un tale
lavoro. Altre donne sotto accusa erano le donne agiate, circondate da schiere di eunuchi e dalle vesti tessute con metallo
preziosi. Le loro case erano piene di adulatori e convitati, false e dedite al vino, si rendevano anche odiose per la loro
pronuncia moscia. La donna cristiana invece doveva possedere: abbigliamento e abiti che mostrassero che fosse dedita a
Dio, quindi niente foro alle orecchie, niente rossetto, né collane, né perle; doveva evitare di partecipare ai conviti dei genitori,
imparare a non ber vino; imparare a leggere le sacre scritture; nessun giovane poteva avvicinarla. Le si chiedeva di imparare
a filare la lana, confezionare abiti adatti a proteggersi dal freddo, cibarsi di legumi, semola. Doveva sfuggire anche ai bagni,
saper scegliere le amicizie, non giocare con i servi.

CAPITOLO 3: LA QUALITA’ DELLA VITA


Paragrafo 1: nobilita’ e ricchezza
La concessione di titoli nobiliari era legata alla carica pubblica; a seconda dell’importanza della funzione rivestita, si entrava in
una classe di nobilità: i funzionari civili o militari avevano titoli fissi in base al posto occupato nella gerarchia (a servizio attivo,
a disposizione o onorari).
Al tempo di Costantino c’erano 3 ordini di nobiltà:
• ordine senatorio: gradino più alto, comporta il rango di “clarissimus”
• ordine equestre: rango di “perfectissimus”
• la comitiva: (istituita da Costantino) poteva comportare una carica come il “comes rei militaris” o un semplice onore
aggiunto ad un’altra carica. Si divideva a sua volta in 3 gradi: comites di primo, secondo e terzo grado. Es: “comes et dux”
per il duca che fa anche il comandante militare.
Al vertice delle classi di nobilità c’era il titolo di “patricius” che non era legato a nessuna magistratura: veniva concesso
direttamente dall’imperatore come semplice distinzione onorifica.
Questa gerarchia non restò fissa per tutta l’epoca tardoantica, ma i titoli persero importanza. Gia nel 4 secolo l’ordine equestre
e la comitiva, tranne quella “primi ordinis” erano diventati quasi insignificanti e l’ordine senatorio era diventato l’unica
aristocrazia dell’impero.
Si definirono nuove classi di nobilità:
• patrizi e consoli
• illustres: funzionari di grado più elevato, per esempio i principali ministri civili e militari. All’interno c’erano gli illustres di
grado più alto che erano chiamati “gloriosi o gloriosissimi”
• spectabiles: funzionari di rango intermedio
• clarissimi: funzionari sub-alterni
Il consolato era a metà tra una carica e una dignità pura e semplice. Poteva essere “effettivo” se veniva esercitato, oppure
“onorario” con la concessione fittizia del rango. (una legge del 5 secolo dice che il consolato poteva essere acquistato con 100
libbre d’oro, che andavano al fondo degli acquedotti di Costantinopoli).
Esistevano altri titoli che erano riservati alla famiglia imperiale:
• cesare
• nobilissimo
• curopalate: era il comandante della guardia palatina.
• Il titolo di illustris, concesso dall’imperatore o rivestendo cariche appropriate, era l’unico titolo che permetteva l’accesso al
senato, che era la più alta aristocrazia dell’impero. E l’appartenenza al senato era ereditaria.
La fonte principale di ricchezza erano le terre e la chiesa e la corona erano i possessori principali. Avevano anche delle ville in
campagna, mantenute da dipendenti e schiavi; e i più ricchi organizzavano dei giochi o delle feste.
Scala di ricchezza:
1. Corona
2. Chiesa
3. Aristocrazia Senatoria: i più ricchi erano i membri del senato romano. (la stratificazione avveniva in base al censo) I
senatori, pur essendo molto ricchi, non mettevano le loro risorse a sevizio dello stato. Quando ci fu la dominazione dei
barbari, loro riuscirono a mantenere la loro ricchezza, ma negli anni della guerra gotica, furono privati delle loro
ricchezze. Il re gotico Totila li perseguitò e li uccise in quanto alleati di Bisanzio.
Chi non aveva nulla alle spalle e voleva arricchirsi, di solito usava i matrimoni di convenienza, oppure gli affitti delle terre
imperiali, o ancora l’acquisizione dei beni dei condannati che in teoria dovevano andare all’imperatore, ma in pratica andavano
ai privati. La res privalia, cioè il ministero responsabile delle terre imperiali, cercò di frenare l’abuso con delle leggi, ma tutto fu
inutile.

Paragrafo 2: “L’aspetto fisico”


Gli imperatori, le imperatrici e alcuni dignitari di corte indossavano abiti in porpora rossa o violetta; solo i sovrani indossavano i
calzari rossi che erano un’insegna di regalità. I loro abiti e quelli dei ricchi erano anche di seta, importata dall’oriente e prodotta
nell’impero a partire da Giustiniano. Alcune opere dell’antichità ci mostrano e danno chiaramente idea dello splendore degli
abiti d’apparato della nobiltà dell’epoca
• Mosaico di Giustiniano (Chiesa di San Vitale di Ravenna) L’imperatore porta: sandali di porpora con pietre preziose,
una tunica bianca a liste d’oro fino al ginocchio con delle decorazioni sul manto, con la cintura che distingueva le
cariche pubbliche; una spilla circolare dorata con al centro una pietra rossa e una corona di perle da cui pendono tre
catenelle terminanti ognuna in una grossa perla. L’imperatore Giustiniano alternava l’abito civile all’abito militare
(corazza, lungo mantello di porpora, lancia e scudo, calzari militari ed elmo con diadema oppure una corona rigida con
penne di pavone a ventaglio, indossata per le cerimonie trionfali) e l’abito consolare (abito dei consoli ordinari, arricchito
con pietre preziose e la corona in capo).
• Mosaico di Teodora (Chiesa di San Vitale di Ravenna) L’imperatrice che avanza preceduta da due dignitari civili ed è
seguita da sette dame, indossa: calzari di porpora, una tunica bianca, al collo una collana e un collare di stoffa con
pietre preziose, una ricca corona con pendagli.
• Sovrana Ariadne (due tavolette di dittici in avorio a Firenze e a Vienna) Nell’immagine fiorentina la sovrana è raffigurata
in piedi e indossa: abiti da cerimonia, ha il globo nella mano destra e lo scettro nella mano sinistra; al collo una stretta
collana, sul capo una corona con pietre preziose. La nobiltà romana, per distinguersi, portava vesti di seta di colori
cangianti e anelli alle dita. Le matrone curavano molto il loro aspetto. L’abito comune era composto da una tunica in
genere con le maniche lunghe e una cintura alla vita. Le classi più agiate avevano disegni e decori in oro con bande
cucite o tessute nella stoffa, sopra alle tuniche venivano portati mantelli diversi a seconda dello stato sociale. Le donne
comuni indossavano una veste lunga con maniche ricamate e di solito coprivano il capo con un velo. Le spose erano
vestite di bianco, ma la sposa aristocratica, era vestita di rosso, con una cuffia trasparente, era adornata d’oro e di
pietre preziose, seduta su una portantina con cuscini da ogni parte. Le leggi imperiali trattano occasionalmente il tema
dell’abbigliamento per imporre obblighi e fare concessioni. Una legislazione molto significativa è quella del 397 che
vietava di abbigliarsi alla maniera dei barbari: fu proibito l’uso dei pantaloni lunghi e degli stivali di origine persiana. I
barbari, a quell’epoca, si erano presentati con prepotenza nel mondo romano e il ceto dirigente era intenzionato a
esorcizzare perfino l’inevitabile influsso sul costume.
Al cristianesimo si deve anche un radicale cambiamento di opinione sull’igiene personale tipica della civiltà romana. Le città
continuavano a mantener le terme, ma i bagni misti e i bagni in generale erano condannati senza riserve dai cristiani come
fonte di peccato. La censura della Chiesa, tuttavia, era presa dai più con grande indifferenza e non solo dai laici, ma anche gli
ecclesiastici continuavano a praticarli con regolarità. I più radicali, però trascuravano e maceravano il loro corpo e il loro
aspetto fisico risultava alquanto trasandato. Le persone comuni, invece, rispettavano un minino di canone estetico: gli abitanti
della Gallia si vestivano decorosamente e sia gli uomini che le donne non andavano mai in giro coperti di stracci come
succedeva altrove. Quasi tutti erano poi alti di statura, chiari di carnagione e biondi di capelli, anche se rissosi e insolenti.
Solevano radersi il viso, tranne che i monaci e gli imperatori non portavano la barba. I capelli venivano portati corti e anche gli
ecclesiastici erano tenuti a farlo. I giovani di Costantinopoli nel VI secolo portarono varianti alla tradizione: non accorciavano i
capelli, ma li lasciavano crescere insieme a barba e baffi. Alla stessa epoca cominciò a prendere piede l’abitudine di portare la
barba per distinguersi dagli eunuchi. I popoli barbari, definiti “mostri” da Sidonio Apollinare, avevano la capigliatura rossa
raccolta sul capo, la nuca e il volto rasati, a eccezione dei baffi, e gli occhi cerulei. Indossavano una tunica lunga fino al
ginocchio con una grossa cintura in vita. Per quanto riguarda i soldati, le calzature e le
armi venivano prodotte dalle fabbriche di stato e queste ultime erano di ottima qualità, a giudicare dal fatto che spesso
facevano gola ai barbari, molto più mal messi in fatto di equipaggiamento individuale.

Paragrafo 3: “L’alimentazione”
La mensa dei ricchi era molto raffinata e allietata da una varietà di cibi e di bevande; i banchetti dei nobili romani erano a base
di uccelli, pesci e ghiri. Nella cornice solenne del convito imperiale indossavano i mantelli e, secondo l’usanza tradizionale,
mangiavano sdraiati su letti, vi erano, poi, anche canti e musica per allietare gli incontri o esibizioni di attori davanti alle
mense. C’è un rapporto privilegiato e affettuoso con il cibo. L’uso di banchetti raffinati si estendeva all’alto clero: i papi del IV
secolo vivevano nel lusso più sfacciato, si arricchivano con le offerte delle matrone. I vescovi di provincia, invece, erano usi a
una vita alquanto più moderata, a base di erbaggi, legumi, talvolta carne e sempre vino. Usava cucchiai d’argento, i piatti di
portata erano di terracotta, di legno o di marmo; l’ospitalità non era negata a nessuno e mentre si era a tavola si facevano
letture o discussioni serie. Un certo tono solenne, pur con modalità del tutto diverse, poteva avere anche un banchetto presso
un barbaro; ad esempio un banchetto di Attila iniziò alla tre del pomeriggio e quando Prisco, assieme ad altri ambasciatori,
arrivò alla soglia dell’alloggio del re dovette fermarsi proprio di fronte a lui e accettare, secondo l’uso, una tazza di vino. Era
consuetudine, infatti, che, prima di sedersi, si dovessero formulare degli auguri. I seggi erano allineati lungo le pareti della sala
e Attila sedeva in mezzo su un letto antistante la propria camera da notte. I posti erano assegnati secondo l’ordine di
importanza delle persone e, una volta seduti tutti, entrò un coppiere porgendo al re un boccale di vino. Egli lo prese e salutò il
primo della fila: chi era così onorato doveva alzarsi in piedi e non gli era permesso di sedersi prima di aver almeno assaggiato
il vino o addirittura aver vuotato il boccale, restituendolo al coppiere. Quando terminò la cerimonia dei saluti, furono portate le
tavole, prima per il re e poi per gli altri. Dapprima entrò un servitore con una tavoletta ricolma di carne e altri servi portarono
pane e le altre pietanze: le tavolette degli ospiti erano d’argento e le coppe d’oro e di argento, tranne quelle di Attila, di legno.
Finite le pietanze, si ripeteva il rito del brindisi in onore del re. In seguito venne portato un vassoio con pietanze diverse e al
termine del secondo piatto, venne ancora rinnovata la cerimonia precedente. Le plebi di Roma e di Costantinopoli avevano
diritto a una distribuzione gratuita di pane riservata ad alcuni strati della popolazione. Il frumento arrivava a Roma
normalmente dall’Africa. I cittadini di Roma avevano, inoltre, diritto a distribuzioni gratuite di olio e carne e ad acquisti agevolati
di vino; la distribuzione della carne era limitata a quella di maiale ed era fatta soltanto per cinque mesi all’anno. Una categoria
che aveva diritto a una distribuzione gratuita di cibo, era quella dei militari nel corso di una campagna o in transito; in
alternativa fruivano di una modesta paga con cui sostentarsi oppure, di terre demaniali da coltivare. Il pan biscotto era
l’alimento base durante le spedizioni: veniva ottenuto facendo cuocere due volte l’impasto di farina, in modo che si
conservasse più a lungo. Pane, carne e vino erano essenziali per i pasti. Il cristianesimo introdusse un diverso rapporto con il
cibo: l’alimentazione dei monaci, era quanto di più frugale potesse esistere. Altri al contrario, prendevano molto sul serio il
digiuno, o comunque il mangiare soltanto il necessario per sopravvivere.

Paragrafo 4: “il peso dello stato”


Lo stato tardoantico era una sorta di prigione, poiché la corte per i sudditi costava molto. Lo stato dell’Oriente resse, perché
aveva una struttura più forte, invece l’Occidente fu messo a dura prova con l’arrivo dei barbari.
L’imperatore non faceva assolutamente nulla, ed era circondato da tantissimi funzionari, che ricevevano dei privilegi. Inoltre i
privilegi si estendevano anche al clero, ai medici, agli avvocati ecc.. I militari e il clero avevano un privilegio giurisdizionale,
cioè se una persona apparteneva a queste categorie, poteva chiedere di essere giudicata da un tribunale diverso da quello del
domicilio, o se si trattava di processi penali, da quello in cui era stato commesso il delitto.
Il peso dello stato si faceva sentire su tutte le altre categorie non protette. Il vincolo ereditario di professione, imposto dallo
stato, per chi lo aveva era un peso, perché non poteva cambiare lavoro. I figli di veterani, dovevano servire l’esercito; i figli dei
funzionari pubblici, i minatori, i membri dei consigli municipali, ad esempio. L’inclusione nella curia era diventato un obbligo
ereditario, e quando i figli diventavano maggiorenni, dovevano farne parte per forza.
Al di sotto degli obbligati dallo stato c’erano le persone limitate nella libertà personale o quelle del tutto prive di libertà. I servi
della gleba, anche se formalmente erano liberi, non si discostavano dagli schiavi. Erano vincolati alla terra in modo ereditario e
ad un fondo appartenente a un grande proprietario. Non potevano allontanarsi da questo fondo, se non per volontà del
padrone, che poteva anche decidere se destinarlo ad un altro fondo che ha bisogno di manodopera. Se il proprietario vendeva
la terra, doveva vendere anche un numero di schiavi proporzionato alla grandezza della terra.
Una legge imperiale consente :
• ai padroni di incatenare gli schiavi se si ha il sospetto che possano fuggire;
• agli schiavi di non poter alienare ciò che avevano, senza il consenso del padrone
• il padrone deve raccogliere le tasse dovute agli schiavi ;
• divieto di citare i padroni in giudizio (tranne in casi di aumento di canone di affitto)
• gli schiavi non possono ricevere gli ordini sacri e di essere accolti in monastero senza consenso del padrone;
• schiavi esclusi dal servizio militare
La situazione degli schiavi fu addolcita da Costantino, che consente loro di ottenere la manomissione, diventando liberi. Inoltre
la loro condizione economica era meno vincolante di quanto dicevano le norme. In teoria non potevano possedere proprietà,
tutto quello che arrivava doveva passare dalle mani del padrone. In pratica potevano invece accumulare una proprietà fittizia
che potevano usare per : comprare la propria libertà, lasciarla ai figli o investire in transazioni commerciali (con consenso del
padrone). Questo rimaneva allo schiavo se veniva liberato in vita, non passava a lui se non gli era espressamente concesso.
Inoltre c’era una cattiva gestione della giustizia:
• giustizia civile era lenta, costosa e corrotta, perché i giudici ascoltavano solo i potenti.
• giustizia penale era inefficiente: carceri piene di detenuti in attesa di un giudizio.
Prevede una distinzione in base all’appartenenza sociale tra pene più tenui e pene più pesanti come lavori in miniera, torture e
nei casi più gravi la morte.
Costantino inventa la: “Collatio lustralis” tassa in oro sul commercio, da pagarsi ogni 5 anni; in Oriente viene abolita. Per
pagarle, le madri disperate arrivavano anche a vendere i figli, o a prostituire le figlie.
Ci fu anche la tassa sull’agricoltura che fu molto pesante, tanto che il popolo chiedeva aiuto ai barbari per liberarsi dagli
oppressori. I più penalizzati erano i piccoli contadini liberi, infatti molti si liberavano della terra, dandola ad un potente.
Nell’impero tardo-antico, i cristiani intolleranti limitarono la libertà di pensiero, soprattutto ai Pagani e agli eretici (per li rifiuto
del dogma dominante).
Costantino: editto di tolleranza.
Teodosio I: cristianesimo diventa religione di stato e il paganesimo diventa fuori legge.
Il ceto dirigente romano, nonostante tutto, era in maggioranza pagano e ci fu una sorta di simbolo che indica la resistenza alla
cristianizzazione forzata.
In oriente, Giustiniano, estirpò il culto pagano e qualsiasi culto ereticale:
• non potevano ereditare o trasmettere i propri beni con donazioni o testamenti a persone non cristiane
• vietato testimoniare in tribunale contro cattolici
• vietato possedere schiavi cattolici
• no cariche o impieghi pubblici (non potevano insegnare)
• pena di morte per chi, già battezzato, continuava a praticare culti pagani
• obbligo per i pagani di convertirsi se non volevano la confisca dei beni
• chi si convertiva lasciando moglie o figli pagani, era sottoposto a delle pene e i figli gli venivano sottratti per ricevere l’ed
cristiana
529: processi contro il paganesimo (torturati molti senatori e uomini di cultura). Vennero chiusi i santuari pagani che
rimanevano.
I vescovi erano coloro che salvavano le comunità, anche quando gli imperatori non riuscivano a farlo! Per questo la chiesa
diventò molto importante per il popolo.

Paragrafo 5: “Divertimenti privati e pubblici”


I principali svaghi degli aristocratici nelle loro tenute di campagna consistevano nell’andare a caccia e, se erano letterati, nello
scrivere e nel leggere. Nelle grandi città le occasioni per divertirsi erano molteplici: ballerini, flautisti, mimi. A Roma gli
aristocratici, risplendenti nelle vesti di seta e seguiti da una folla di servi, andavano alle terme. Se venivano a sapere dell’arrivo
di una nuova prostituta, le si stringevano intorno per corteggiarla “con indegne lusinghe” e si trattava, in questo caso, degli
stessi che avevano censurato un senatore per aver osato baciare la propria moglie alla presenza della figlia. Le loro case
erano frequentate da oziosi chiacchieroni, anche per la qualità dei cibi offerti ai banchetti . Per passare il tempo erano attirati
dal gioco d’azzardo con i dadi, un passatempo molto diffuso che contagiava anche il clero; altri si davano alla caccia di
testamenti in loro favore e altri ancora si valevano del loro potere per liberarsi dei creditori: umili se dovevano chiedere un
prestito, sdegnosi e superbi quando a essi si richiedeva il denaro prestato. La plebe cittadina dedicava tutto il tempo al vino, ai
dadi, ai bordelli, ai piaceri e agli spettacoli. Il Circo Massimo per i popolani era come un tempio e non era affatto insolito
vedere litigare per la città gruppi di persone che parteggiavano per questo o quell’auriga. I giochi equestri erano il maggior
divertimento dell’epoca. Gli spettacoli scenici erano un coacervo di volgarità e gli attori venivano fischiati e cacciati se prima
non si erano comprati il favore della plebe. I divertimenti pubblici erano una componente importante della vita sociale
dell’impero e suscitavano l’interesse di tutti gli strati della popolazione. I più diffusi erano le corse dei carri negli ippodromi. Dal
contagio non andavano esenti neppure le donne, sebbene gli usi del tempo vietassero loro di recarsi ad assistere alle corse.
Oltre alle corse coni carri si affiancavano poi gli spettacoli gladiatori, le cacce vere o simulate delle belve, le gare fra atleti e la
rappresentazione scenica espressa soprattutto dai mimi. Un’altra forma di divertimento che piaceva moltissimo era
la  maiuma  che era uno spettacolo considerato molto licenzioso di origine siriana, durava trenta giorni e consisteva in
processioni notturne, rappresentazioni sceniche prese per lo più dalle favole su Bacco e Venere e in banchetti sontuosi.
L’occasionale presa di posizione della legge civile contro i giochi era diretta conseguenza dell’ostilità sempre manifestata dalla
chiesa che li considerava indecenti al punto che non solo agli attori e alle attrici, ma perfino agli aurighi, veniva rifiutato il
battesimo, a meno che non rinunciassero alla professione, ed erano scomunicati se la riprendevano. La letteratura cristiana
contiene numerosi ammonimenti contro gli spettacoli. L’organizzazione degli spettacoli nelle città ricadeva sulle
amministrazioni locali.

Paragrafo 6: “Viaggi per terra e per mare”


Si viaggiava normalmente per necessità o per commercio, ma a partire dal IV secolo si fece strada un’altra usanza, il
pellegrinaggio ai luoghi santi e, in questo, il cristianesimo fu portatore di un cambiamento di mentalità. Le strade e ponti erano
in ottimo stato di manutenzione e relativa sicurezza almeno finché non comparvero i barbari. La struttura della strada
comprendeva due divisioni: la posta veloce e quella più lenta dei carri pesanti. La prima forniva cavalli da sella e da soma per
il bagaglio, carri leggeri a due ruote tirati da tre muli e carri a quattro ruote ugualmente tirati da muli. Veniva utilizzata in primo
luogo per i funzionari che viaggiavano in missioni ufficiali o anche al fine di trasportare oggetti di valore e, per poterla utilizzate,
necessitavano mandati emessi in teoria soltanto per la bisogna. Per la posta lenta si ricorreva a carri trainati da buoi
normalmente in numero di due e, anche in questo caso, non era infrequente la concessione fatta ai privati di servirsene per
motivi personali. Lungo le strade principali vi erano numerose stazioni di posta. Alla strada pubblica apparteneva la Tabula
Peutingeriana, cioè una copia medievale di un’ampia carta stradale con itinerari disegnati e colorati. I poveri, e con loro i
monaci, si spostavano, come prevedibile, a piedi. Gli anacoreti della Nitria disponevano di un albergo per accogliere i
viaggiatori ed era possibile restarvi per tutto il tempo desiderato, anche per due o tre anni: la prima settimana sarebbero stati a
riposo per poi essere adibiti a diversi lavori al fine di contribuire a mantenere la comunità. I viaggi per mare potevano essere
effettuati con la flotta mercantile di stato, gestita dalla corporazione, o con navi di proprietà privata su cui ci si poteva
imbarcare pagando il prezzo pattuito. Presentavano l’ovvio vantaggio di essere più veloci di quelli terrestri, ma non potevano
essere effettuati nella cattiva stagione e andavano soggetti ai rischi derivanti dalle condizioni atmosferiche, che ne facevano
variare notevolmente i tempi. In ogni situazione, sia per mare che per terra, il pericolo era spesso in agguato e questo
sull’acqua era rappresentato dai naufragi o dai pirati e in terra dai briganti. La pirateria non aveva un grande peso nel
mediterraneo, ma le cose cambiarono nel V secolo con i Vandali. I briganti, al contrario, erano abbastanza diffusi sia pure in
aree limitate. Alla metà del IV secolo avevano l’abitudine di sorprendere di notte le navi ancorate gettandosi sugli equipaggi
per farne strage e depredare tutto.

CAPITOLO 4
Paragrafo 1: “Malattie e guarigioni miracolose”
Vediamo raramente i medici nell’esercizio della loro attività terapeutica. Il motivo di questa carenza è perché si tende a
mettere in risalto l’attività dei monaci guaritori e in secondo piano quella concorrenziale dei professionisti. I medici, d’altronde,
non si mostravano spesso all’altezza delle situazioni: in una città come Roma, dove per forza di cose le epidemie infuriavano
spesso, non sapevano come fronteggiarle e, nel IV secolo, si era escogitato come forma di prevenzione il divieto
di fare visita agli amici ammalati; se poi era uno schiavo a doversi recare a chiedere notizia, lo si obbligava a fare un bagno
prima di essere riaccolto in casa. Per molti cristiani non vi era dubbio che la medicina tradizionale fosse meno efficace della
fede e il caso di santa Macrina è emblematico in proposito. Afflitta da un cancro al seno, veniva continuamente esortata dalla
madre a sottoporsi a cure, ma non ne voleva sapere e rispondeva che per la guarigione sarebbe stato sufficiente il segno della
croce sulla parte malata: così fece la madre e il morbo scomparve immediatamente. Santa Macrina rifiutava le cure ordinarie
per il suo cancro al seno, ma passava la notte in un santuario per pregare e utilizzava come rimedio la poltiglia formata dalla
polvere con le lacrime che le sgorgavano.
In condizioni normali, non nella confusione della guerra, i medici intervenivano con cure più o meno di buon senso: acqua
tiepida da bere per chi aveva difficoltà a vomitare o vino leggero contro la febbre. La moglie di un nobile fu colpita da una
inestinguibile voracità, in cui possiamo forse riconoscere un caso di bulimia. Come di consueto, i pareri si dividevano fra chi
riteneva che fosse azione del demonio e chi pensava a una malattia. Una nobile di Tessalonica, affetta da paralisi, fu guarita
aspergendola per venti giorni con olio santo e la stessa terapia venne usata per un ragazzo sofferente di epilessia. Nella
maggior parte dei casi, però, la malattia non è definita con un nome specifico e si parla genericamente, nelle vite dei santi, di
guarigioni miracolose da stati morbosi oppure dovuti all’azione del demonio. Gli indemoniati che si presentavano ai monaci
guaritori, e fra questi numerose fanciulle, erano una componente massiccia dei malati che non lamentavano una sindrome
precisa: su questi si esercitavano i loro sistemi di cura. Il possesso della capacità di guarire veniva considerato come una
diretta conseguenza della perfezione spirituale, anche se non tutti avevano potere contro i demoni più crudeli.

Paragrafo 2: “La fine della vita”


Il diritto romano nel corso del tempo stabilì una serie accurata di regole che definivano il testamento: la capacità di testare
apparteneva a tutte le persone libere che non fossero sotto la potestà di altri, e che avessero raggiunto l’età della pubertà,
mentre erano esclusi i pazzi, i prodighi e coloro che si trovassero in mano al nemico. Agli incapaci si aggiunsero alcune sette
ereticali, gli apostati e i pagani, ai quali fu anche vietato di ricevere eredità o lasciti. L’atto formale per testare prevedeva la
presenza di sette testimoni titolati a esserlo, che dovevano sottoscriverlo e apporre il loro sigillo; era anche sufficiente una
dichiarazione orale, resa ugualmente alla presenza di sette testimoni, per indicare quali erano le ultime volontà. Il numero dei
testimoni scendeva a cinque nelle campagne, dove l’alfabetizzazione era meno diffusa, possibilmente in grado di leggere e
scrivere, uno o due dei quali potevano firmare per gli altri: c’era però l’obbligo di informare i testimoni sui nomi delle persone
designate eredi. I militari inoltre godevano di un regime particolare per cui avevano la facoltà di disporre con maggiore libertà
del loro patrimonio per fare testamento. Esso poteva essere revocato con un secondo testamento o comunque in base alle
modalità previste dalla legge e chiunque aveva la possibilità di essere istituito erede, anche uno schiavo, a condizione tuttavia
che il padrone gli restituisse la libertà. Se non esisteva alcun erede, i beni dovevano andare al tesoro imperiale. Come avviene
da sempre, infine, le eredità potevano dar luogo a contrasti.
Le frequenti calamità naturali, le guerre e anche talvolta le feroci repressioni ordinate dagli imperatori interferivano
notevolmente sull’andamento demografico. Particolarmente devastante fu la grande epidemia di peste che iniziò a
imperversare nel 541. Tuttavia la durata media della vita non era lunga e risulta ad esempio che nell’Africa romana il tasso di
mortalità era alto per tutte le età al di sopra dei dieci anni e più elevato per le donne. La morte precoce si accaniva spesso e
volentieri sulle famiglie dell’aristocrazia romana. Il V secolo bizantino mostra però maggiore solidità, con i sessantacinque, i
sessantatré e i sessantasei anni all’incirca di Marciano, Leone I e Zenone e una decisa impennata con i successori.
Una volta di più i monaci, nella loro diversità superavano le persone comuni, poiché la macerazione del fisico e la ricerca della
perfezione spirituale spesso li faceva vivere al di là della norma. In Palestina, al tempo di san Saba, era noto un anacoreta che
aveva superato i cent’anni, di cui ottanta trascorsi in monastero. La pena di morte veniva comminata per numerosi crimini. Per
le persone libere la pena capitale era di solito eseguita mediante la decapitazione con la spada, più raramente con altri
sistemi. In certi casi ancora il supplizio fu reso più crudele dai sistemi usati: un paio di delatori vennero uccisi a frustate con la
verga a palle di piombo e un aruspice fu bruciato vivo. Neppure le donne sfuggirono alla giustizia e molte di nobile condizione
andarono incontro alla morte con l’accusa di adulterio o di stupro. Nei confronti degli usurpatori che fossero stati catturati, la
repressione lasciava raramente spazio al perdono e la condanna si estendeva inevitabilmente anche ai loro seguaci.
I tradizionali riti di sepoltura romani, tramandati nel corso dei secoli, contemplavano per un funerale in piena regola la chiusura
degli occhi del cadavere, l’usanza di chiamarlo a più riprese tendendo le braccia versi di lui, il lavaggio e l’unzione del corpo, la
vestizione, l’incoronazione, l’introduzione in bocca della moneta per pagare secondo la credenza pagana il passaggio a
Caronte e l’esposizione del corpo su un letto, attorniato da fiori e profumi, per una durata variabile dai tre ai sette giorni.
Seguivano i funerali con tre atti distinti: il trasporto della salma dalla casa al luogo di inumazione o dell’incinerazione in una
cassa aperta sostenuta su una lettiga da portatori, il corteo funebre preceduto da suonatori e prefiche che pronunciavano le
loro nenie e, infine, l’arrivo all’ultima dimora. Ad alcuni giorni di distanza dal decesso seguivano infine gli atti di purificazione, di
cui il principale era costituito dal banchetto funebre che si svolgeva in prossimità della tomba. Il lutto, contraddistinto dal
vestire in nero, aveva regole precise di comportamento e durava per un periodo più o meno lungo, dai dieci mesi ai tre anni, a
seconda della vicinanza del parente perduto. La legislazione imperiale della tarda antichità intervenne occasionalmente per
fissare o modificare le regole sui funerali, senza comunque alterare le sostanza della tradizione. Teodosio I ribadì l’antico
divieto di seppellire i morti all’interno delle città, con l’usanza di conservare le reliquie nei luoghi di culto. Era anche vietato
mettere oggetti preziosi nelle tombe per non favorire i frequenti furti sacrileghi. Ai ricchi venivano organizzati sontuosi funerali,
resi anche più solenni da orazioni funebri. Il funerale normale era gratuito, ma chi voleva un maggior numero di prefiche o bare
più ricche doveva pagare un supplemento. Nei cimiteri erano attivi i becchini. Non tutti, naturalmente, avevano il privilegio di
un funerale in piena regola: a parte il caso dei cadaveri dispersi, succedeva infatti abbastanza spesso, che i soldati caduti
venissero abbandonati sul posto. Le persone di rango venivano sepolte in sarcofagi talvolta riccamente lavorati e, fra questi, i
più sontuosi in assoluto erano quelli degli imperatori. Le persone di condizione più modesta che non finissero in tombe comuni
venivano in genere sepolte in terra e ricordate da una stele e un’epigrafe o, se fortunate, da epitaffi funerari.

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