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LA

RELIGIONE
ROMANA
La religione nell'antica Roma
Secondo la tradizione, Roma fu fondata intorno al 754 a.C., sulla
riva sinistra del fiume Tevere.

La religione romana era politeista. Essa fu influenzata sia dalle


tradizioni religiose dei popoli abitanti la penisola italica (Etruschi,
Sabini, Sanniti, Latini), sia, dopo la conquista della Grecia, dalla
religione greca.
Una delle caratteristiche della religione romana fu quella di essere
aperta nei confronti delle religioni di altri popoli, di cui spesso
assimilò divinità, credenze e riti. La pax romana (pace romana)
consisteva proprio in questo: rispettare le tradizioni religiose,
politiche e sociali dei popoli conquistati e integrarle con la legge e la
giurisdizione di Roma.
La religione romana aveva una funzione prevalentemente sociale e
politica, per mezzo della quale tutti i sudditi erano chiamati a
riconoscere ed onorare la potenza divina grazie alla quale l’impero
esisteva. Essa non affondava le sue radici nella coscienza degli
uomini, non li aiutava nei momenti difficili, non consolava i loro
dolori e non forniva speranze per questa e per l’altra vita, in poche
parole era meno attenta alle domande fondamentali dell’uomo.
Lo stesso imperatore pretese di essere adorato come divinità, e
assunse il titolo di pontefice massimo che, precedentemente, spettava
al capo del collegio dei sacerdoti. Tale pretesa garantiva l’unità della
pax romana perchè tutti i popoli sottomessi erano uniti
nell’adorazione all’imperatore.
Durante l’impero, quindi, la religione ufficiale consisteva
sostanzialmente in due culti; quello dell’imperatore e quello delle tre
divinità del Campidoglio: Giove, Giunone e Minerva.
Ma c’erano, a disposizione del popolo, una serie di altri culti,
credenze e dottrine che andavano a soddisfare le profonde esigenze
della propria coscienza religiosa. Si seguivano antichi culti locali e
alcuni culti importati dall’Oriente, come quello egizio di Iside e
Osiride, quello asiatico di Cibele, la grande dea madre, e quello
siriano di Mitra, il dio del sole.
I riti religiosi
Nella vita religiosa del popolo romano prevalsero, pur attraverso
molte trasformazioni esteriori, gli elementi della continuità. Alcuni
tratti fondamentali - come il carattere eminentemente pratico del
culto, la concezione contrattualistica del rapporto col mondo divino,
lo stretto legame tra vita religiosa e vita politica - si conservarono
immutati dall'età più antica fino al tardo impero.
Più che di sentimento religioso si deve parlare però di attaccamento ai
riti, ossia alle pratiche destinate a invocare la protezione divina. Infatti
i romani considerarono sempre il rapporto con il mondo divino
essenzialmente come un contratto: il singolo individuo, o un gruppo
familiare o sociale, o l’intera comunità prestavano agli dei il culto
dovuto ma si aspettavano in cambio, e quasi pretendevano, il
soddisfacimento dei loro desideri. La richiesta, per essere valida,
doveva essere espressa con un preciso formulario e con riti e sacrifici
compiuti secondo un preciso, minuzioso rituale rimasto invariato
attraverso i secoli.
L’esigenza di precisione nei riti e nei sacrifici sembrerebbe dover
comportare l’intervento di personale specializzato, invece a Roma non
si costituì mai una casta sacerdotale chiusa, e i sacerdoti, che pure
esistettero, si trovavano in una posizione subordinata rispetto al potere
politico, così come la religione, nel suo insieme, assolse soprattutto a
una funzione sociale.
Nell’età monarchica era il re a presiedere alla vita religiosa; con la
repubblica la funzione fu ereditata dai consoli. Il controllo sulla sfera
del sacro era esercitata dal collegio dei pontefici che aveva a capo il
pontefice massimo scelto fra i cittadini più eminenti. Altri collegi
sacerdotali comprendevano i flamini, addetti al culto di determinare
divinità (Giove, Marte, Quirino ecc.); gli àuguri, incaricati di leggere
la volontà degli dei interpretandone i segni (il tuono, il lampo, il volo
degli uccelli); i Salii, che celebravano particolari riti in onore di Marte
e le sei vergini Vestali che, in un tempio posto nel Foro, serbavano
perennemente acceso il fuoco di Vesta, simbolo della grande famiglia
comprendente l’intero popolo romano.
Fatta eccezione per le Vestali, i sacerdoti (in genere designati per
nomina, cooptazione o elezione) non assolvevano il loro incarico
come una professione unica ed esclusiva, ma erano cittadini impegnati
anche in altre attività, private o pubbliche. Gli stessi magistrati
prendevano le funzioni di sacerdoti nei principali atti di culto, così
come il paterfamilias officiava, nella sua casa, il culto dei lari e dei
penati
La lettura dei ‘’segni”
Parte integrante del culto ufficiale era l’arte della divinazione grazie
alla quale si poteva riconoscere e interpretare il volere degli dei
attraverso “segni” apparentemente normali o insignificanti, palesi o
nascosti. Gli etruschi, con i loro aruspici, praticarono l’osservazione
dei fulmini e l’epatoscopia, ossia la consultazione del fegato degli
animali (in particolare pecore) immolati; i romani e altri popoli italici
anche l’avispicio, cioè l’osservazione del volo degli uccelli da parte
degli aùguri, proprio come fecero i gemelli che fondarono Roma. Le
autorità romane ebbero cura che l’aruspicina si mantenesse ad alto
livello, al punto che nel II secolo a.C. il senato prescrisse con un
decreto che le città etrusche, depositarie della tradizione più genuina,
consegnassero ognuna dieci rampolli delle migliori famiglie perché
potessero seguire gli studi specializzati. Sempre grazie ad un
intervento statale si dovette a Roma la traduzione in latino dei libri
sacri etruschi, ricordati ancora nel IV secolo d.C.
Antichi culti locali
Mentre l'arte della divinazione era praticata soprattutto a livello
"ufficiale", il popolo per sapere come comportarsi quotidianamente
e per conoscere l'immediato futuro, preferiva ricorrere a pratiche e
credenze più semplici (e rozze), nate da paure, speranze, fantasie e
superstizioni.
Tipiche superstizioni, a esempio, quelle contro tutto ciò che poteva
impedire libertà di movimenti e di circolazione come, in primo luogo,
i nodi, anche se formati da parti del corpo, e poi ogni cosa che fosse
annodata o allacciata. Così per le donne incinte era pericoloso
intrecciare le dita o accavallare le gambe, gesti che avrebbero
“ostacolato” il decorso della gravidanza, e per invocare Giunone
Licinia, protettrice delle partorienti, le stesse donne dovevano portare
i capelli sciolti; del resto il nodo “erculeo” che chiudeva la cintura
delle novelle spose, poteva essere sciolto solo dal legittimo marito.
Legate ad antichi timori erano le credenze in esseri fantastici, come i
licantropi, le streghe che si mutavano in uccelli notturni, i vampiri che
si rivolgevano ai morti quando erano ancora in casa, i fantasmi degli
insepolti, le “ombre”, contro le quali si pronunciavano scongiuri e
formule magiche.

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