Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
I. Due famiglie della gente Domizia diventarono illustri: Calvini e Enobarbi. Gli Enobarbi
risalgono a quel Lucio Domizio che incontrò due gemelli (Castore e Polluce) che, dopo avergli
ordinato di comunicare al Senato una vittoria, gli avevano mutato il colore della barba in
rosso, che si trasmise ai discendenti, i quali continuarono a portare questo soprannome,
anche dopo 7 consolati, 2 censure, un trionfo e essere diventati patrizi. Si chiamarono
sempre Lucio e Gneo per tre generazioni successive con lo stesso nome, prima di alternarlo.
Ne presenterò molti, per dimostrare come Nerone tralignò dalle virtù per riassumerne i difetti.
II. Ricorderò Gneo Domizio che, tribuno, fece trasferire al popolo il diritto di nominare
sacerdoti, perché era sdegnato dei pontefici. Licinio Crasso dice: «non è strano abbia la
barba di rame, perché ha la faccia di ferro e il cuore di piombo.» Suo figlio, pretore e poi
console, tentò di rimuovere Caio Cesare dall’esercito di Gallia, e all’inizio della guerra civile
venne imprigionato. Era uomo di carattere truce.
III. Suo figlio fu il migliore della casata. Condannato dalla legge Pedia (contro gli uccisori di
Cesare) benché innocente, si rifugiò dai parenti Bruto e Cassio. Aumentò la forza navale che
gli era affidata e solo quando il suo partito fu sconfitto si arrese. ad Antonio. Fu il solo
condannato a tornare in patria e rivestire magistrature. Riaccesasi la discordia, passò ad
Augusto e morì pochi giorni dopo, macchiato d’infamia.
IV. Da lui nacque il Domizio poi famoso per essere esecutore testamentario di Augusto: fu
anche bravo nelle corse e conseguì un trionfo. Fu arrogante e violento. Offrì caccie e circo e
gladiatori in ogni quartiere, ma Augusto fu costretto a frenarlo per la sua crudeltà.
V. Ebbe un figlio, padre di Nerone, detestabile: uccise un suo liberto, con i cavalli investì
un fanciullo che stava attraversando, cavò un occhio a un cavaliere perché lo aveva
rimproverato. Defraudò banchieri degli oggetti all’asta e gli aurighi dei propri premi. Prima
della morte di Tiberio venne accusato di lesa maestà e incesto, ma fuggì per il mutare della
situazione. Morì a Pirgi avendo avuto da Agrippina di Germanico un figlio: Nerone.
VI. Nacque ad Anzio 9 mesi dopo la morte di Tiberio, 18 giorni prima le calende di
gennaio, all’alba. Molti trassero presagi dal suo oroscopo, e il padre Domizio disse che da lui
e Agrippina non poteva che essere nato qualcosa di dannoso.
Nel giorno della purificazoine lustrale (sorta di battesimo, NdR), si ebbe un segno funesto:
Caio Cesare scelse il nome di Claudio, che allora era lo zimbello della corte. A tre anni
perdette il padre. Caio gli sottrasse l’eredità, che però lui riacquisì quando Claudio ascese
all’impero, arricchendosi anche con quella del patrigno.
Per l’influenza della madre, dopo esser stata riabilitata, emerse a tal punto che Messalina
vide in lui un rivale per Britannico, e mandò sicari a strangolarlo. Essi si fermarono, secondo
la leggenda, spaventati da un serpente. La muta di questo serpente venne inserita in un
bracciale d’oro che la madre portò.
VII. Da bambino prese parte ai giuochi troiani, con successo. Adottato da Claudio a 11
anni, fu affidato a Seneca. Seneca sognò di aver allievo Caio Cesare, e Nerone rese veritiero
il sogno rivelando la sua crudeltà.
Nel tirocinio al Foro, offrì regali a popolo e truppa, marciando alla testa dei pretoriani.
Ringraziò in Senato il proprio padre, che era console.
Prese gli auspici e amministrò la giustizia, come prefetto dell’Urbe, e affrontò cause
complesse benché Claudio lo avesse proibito. Non molto dopo sposò Ottavia e offrì giochi e
caccia per Claudio.
VIII. A 17 anni, quando morì Claudio, si recò dalla guardia. Fu salutato imperatore sui
gradini del palazzo e portato al Castro, rivolto un discorso ai soldati andò poi alla curia,
uscendone di sera con tutti i titoli (rifiutò solo Padre della patria).
IX. In seguito celebrò un funerale in onore di Claudio e lo consacrò fra gli dèi, accordò
onori alla memoria del padre Domizio, e consentì alla madre di dirigere gli affari. Stabilì ad
Anzio una colonia di veterani ascrivendovi i più ricchi centurioni e vi costruì un porto, con
estrema spesa.
X. Per dare prova di bontà, dichiarò di governare secondo i precetti di Augusto, con
liberalità, clemenza e cordialità.
Diminuì le imposte, distribuì frumento e denari al popolo e dette stipendi ad alcuni senatori
in disgrazia. Salutava la gente per nome. Quando gli presentavano la firma di un’esecuzione
capitale si lamentava di saper scrivere.
Ammise la plebe alle sue esercitazioni militari, declamò in pubblico, recitando poesie,
anche in teatro, con piacere di tutti.
XI. Offrì molti spettacoli, giochi, circo, teatro e gladiatori. Nei giochi giovanili fece recitare
anche anziani consolari e vecchie matrone. Nel circo assegnò ai cavalieri posti riservati.
Durante i giochi per l’eternità dell’Impero (per questo detti Massimi), parecchi componenti
dei maggiori ordini recitarono come attori.
XII. Assisteva ai giochi dal proscenio. Nel combattimento offerto in un anfiteatro di legno,
costruito in un anno nel Campo Marzio, non fece morire nessuno.
Fece partecipare al combattimento anche senatori e cavalieri, tra i quali molti di fama, e
scelse tra questi domatori e sovrintendenti dell’arena.
Offrì anche uno spettacolo di battaglia navale, con mostri marini, fece danzare le pirriche
(danze di guerra spartane), e dopo lo spettacolo distribuì diplomi di cittadinanza.
Usava a volte presiedere agli spettacoli in lettiga, prima guardando da fori, e poi dal podio.
Istituì un concorso quinquennale triplice, alla greca, di musica, ginnastica e equitazione (Ludi
Neroniani) e quando dedicò terme e ginnasio, offrì olio a senatori e cavalieri.
Poi discese in orchestra in mezzo ai senatori e accettò la corona oratoria, che i migliori
cittadini s’erano disputata. Quando gli diedero anche quella della cetra, la fece portare al
simulacro di Augusto.
Offrì la barba come voto in Campidoglio, e invitò anche le Vestali allo spettacolo degli
atleti, poiché a Olimpia è concesso.
XV. Nel dare responsi giudiziari rispondeva il giorno seguente e per iscritto. Faceva
parlare alternativamente le parti.
Quando si ritirava in consiglio non ascoltava le delibere dei singoli, ma leggeva i loro
pareri e vi rifletteva, pronunciando poi il suo giudizio come espressione della maggioranza.
Attribuì onori trionfali anche a persone di rango questorio o del cavalierato, non sempre
per ragioni militari.
XVI. Escogitò un nuovo genere di costruzioni, con porticati davanti isolati e case, per
combattere gli incendi dai terrazzi, a proprie spese. Aveva progettato mura fino a Ostia e di
incanalare il mare fino a Roma.
Fu posto freno al lusso (ridotti i banchetti pubblici), proibita la vendita di cibi cotti. Vennero
condannati i cristiani, dediti a una nuova superstizione malefica.
Vennero proibiti gli scherzi dei guidatori di quadrighe, che avevano il diritto di rubare.
Furono anche mandati al confino i pantomimi.
XVII. Si adoperò contro i falsari e per la giustizia dell’esecuzione testamentaria. Stabilì che
nei processi, le parti avrebbero pacato agli avvocati una giusta retta, ma che non avrebbero
dovuto pagare per il procedimento, le cui spese erano dell’erario.
XVIII. Non volle mai estendere l’impero, anzi, avrebbe voluto ritirare le truppe dalla
Britannia, ma non lo fede per pudore. Ridusse in provincia il regno del Ponto, col consenso di
Polemone.
XIX. Volle fare due viaggi, in Alessandria ed in Acaia. Rinunciò al primo il giorno della
partenza, turbato da uno scrupolo religioso.
Durante il viaggio in Acaia, prese a scavare l’istmo di Corinto, dando il primo colpo di pala.
Aveva preparato una spedizione sul Caspio, e arruolata in Italia una legione la chiamò «La
falange di Alessandro Magno».
Ho raggruppato tutti gli atti da lodare, allo scopo di dividerli dalle vergogne, di cui parlerò
ora.
XX. Durante l’infanzia, era stato anche istruito nella musica; asceso all’impero chiamo
Terpno, famoso citaredo, che gli rimase accanto per cantare per lui. Nerone cominciò anche
a esercitarsi come facevano gli artisti: rimanendo sdraiato con pesi sul petto, purgandosi,
astenendosi da frutta e cibi nocivi.
Entusiasta dei progressi, quantunque la sua voce fosse roca, decise di esibirsi. Prima a
Napoli, dove non smise di cantare neanche durante un terremoto. Cantò parecchie volte per
molti giorni.
Commosso dagli elogi che gli facevano gli Alessandrini di Napoli, ne fece venire altri e
reclutò ragazzi equestri e plebei allo scopo di sostenerlo, dopo aver insegnato loro i vari
applausi (ronzii, tegole e mattoni).
Quando venne il suo turno entrò coi prefetti e amici. Dopo aver suonato un preludio, fece
annunziare che avrebbe cantato la Niobe. L’ora si fece tarda, e rimandò l’attribuzione della
corona all’anno venturo. Ma non smise si esibirsi.
Cantò brani di tragedie, personificò eroi, dèi ed eroine, servendosi di maschere. Cantò Il
parto di Canace, Oreste matricida, Edipo cieco. Durante Ercole furioso una recluta, vedendo
che stavano incatenando Nerone, accorse in suo aiuto.
XXII. Fin dalla tenera età ebbe passione per i cavalli, benché gli fosse proibito. Da
imperatore tutti i giorni giocava con quadrighe di avorio sopra un tavolo, abbandonava il ritiro
ad ogni spettacolo al circo, prima di nascosto poi apertamente.
Aumentò il numero dei premi e delle corse, e gli spettacoli si protraevano fino a tardi. Le
fazioni non gareggiavano più se non per l’intera giornata.
Poi volle guidare i carri; si allenò nei giardini, sotto gli occhi del popolaccio, poi si presentò
nel Circo Massimo. Non contento, andò in Grecia, spinto dal fatto che le città dell’Acaia
avevano stabilito di inviare a lui tutte le corone, ed egli le accettò.
Alcuni, dopo averlo pregato di cantare, si erano diffusi nel lodarlo: allora disse «solo i
Greci sanno ascoltare» e partì, e appena sbarcato a Cassiope, prese a cantare davanti
all’altare di Giove Cassio e si presentò a tutti i concorsi.
XXIII. Allora ordinò di raggruppare tutte le gare di anni diversi, di ripeterne altre e svolgere
a Olimpia un concorso di musici. Non voleva essere disturbato da altro, neanche dagli affari
di stato.
Mentre cantava nessuno si poteva allontanare dal teatro: si dice che alcune partorirono
durante lo spettacolo, e altri scavalcarono le mura. Mentre era in gara dimostrava grande
ansia e timore dei giudici.
Prima di cominciare si rivolgeva ai giudici con deferenza: «Ho fatto quanto era in me, ma il
successo è nelle mani della Fortuna, e voi, non dovete tener conto degli incidenti.
XXIV. Durante il concorso era osservantissimo del regolamento. Durante una tragedia gli
cadde lo scettro, pur avendolo subito ripreso rimase trepidante, temendo di essere escluso.
Si proclamava vincitore da sé, e prese dappertutto parte. Per impedire che rimanesse
memoria di altri vincitori, fece distruggere statue e immagini.
In molti concorsi guidò anche il carro, e nei giochi olimpici ne guidò uno a 10 cavalli.
Rovesciato dal carro, benché vi fosse stato rimesso, dovette rinunciare; comunque ottenne la
corona.
Quando partì donò libertà alla provincia e cittadinanza e molto denaro ai giudici.
XXV. Tornato a Napoli, vi rientrò con cavalli bianchi, da vincitore. Così fece ad Anzio,
Albano e poi a Roma. Qui però usò il carro del trionfo di Augusto, vestito di porpora, con la
corona olimpica e quella pitica.
Il suo carro era seguito dagli applauditor che gridavano. Passando attraverso il Circo
Massimo, arrivo al Palatino e al tempio di Apollo. Mentre attraversava la città venivano
immolate vittime, la gente gli offriva zafferano, dolci, uccelli.
Depose le corone attorno ai letti del suo palazzo, e vi mise sue statue come citaredo, fece
anche battere moneta con quel simbolo.
Dopo, fu tanto lontano da tralasciare l’arte che, per conservare la voce, non rivolse più
proclami alle truppe e non trattò più cause senza servirsi del maestro di declamazione.
XXVI. La sua crudeltà e sfrenatezza si manifestarono prima gradualmente, quasi come
errori di gioventù. Dopo il crepuscolo, travisato, andava in giro per bettole a far danni e
saccheggiando negozi.
Spesso in alcune risse corse il rischio di rimetterci la vita, quindi cominciò a uscire seguito
da tribuni. Durante il giorno, dopo essersi fatto portare di nascosto in teatro, assisteva dal
proscenio alle liti tra i pantomimi. Una volta, dato che erano venuti alle mani, lanciò dei sassi
sulla folla, ferendo un pretore.
XXVII. Con l’aggravarsi dei vizi abbandonò ogni sotterfugio, buttandocisi apertamente.
Faceva durare i banchetti un giorno intero. Gli capitava di pranzare in pubblico, nella
Naumachia o in Campo Marzio o nel Circo Massimo, facendosi servire dalle puttane.
Quando scendeva il Tevere per andare a Ostia o Baia, venivano disposti sulle rive dei
punti ristoro. A volte si invitava a cena da amici: ad uno di essi un banchetto costò quattro
milioni di sesterzi.
XXVIII. Oltre al commercio con ragazzi e donne maritate, violentò una vestale. Dopo aver
fatto tagliare i testicoli a Sporo, cercò di mutarlo in donna, e lo portava a passeggio per Roma
coprendolo di baci.
Si dice che Nerone abbia voluto giacere con la propria madre, ma che ne sia stato distolto
dai nemici di Agrippina. Nessuno ne dubitò, specie quando prese una meretrice famosa per
la rassomiglianza con la donna. Dicono che si eccitasse quando andava in lettiga con la
madre.
XXIX. Creò un nuovo gioco in cui si vestiva con una belle di bestia e, uscendo da una
gabbia, assaliva uomini e donne all’inguine. Nerone era convinto che nessuno fosse puro, e,
a chi confessava la propria oscenità, perdonava altri delitti.
XXX. Stimava che non vi fosse altro modo di usare il denaro se non dilapidandolo. Lodava
lo zio Caio per aver sperperato il tesoro di Tiberio. Non ebbe freni nelle spese.
Durante la permanenza di Tiridate, erogò in suo favore 800.000 sesterzi al giorno, poi gli
fece un regalo di cento milioni. Il citaredo Menecrate e il mirmillone Spiculo ricevettero in
dono palazzi.
Giocava a dadi con poste enormi, pescava con una rete dorata. Non si è mai messo in
viaggio con meno di mille veicoli e mule ferrate d’argento.
XXXI. Nell’edificare fu prodigo. Si costruì una casa che dal Palatino andava all’Esquilino,
la chiamò prima «transitoria» poi «aurea».
Aveva un vestibolo in cui era eretto un colosso a sua sembianza, di 120 piedi. Aveva
porticati a triplo ordine e uno stagno che sembrava un mare, circondato da edifici.
Nell’interno vi erano campagne con molti animali. Nel resto della costruzione ogni cosa
era ricoperta d’oro e madreperla. Il soffitto dei saloni era a tasselli di avorio perforati, per
spargere profumo. Il principale era rotondo e girava su se stesso.
Nelle sale da bagno scorreva acqua di mare e di Albula, e quando Nerone inaugurò il
palazzo disse: «comincerò ad abitare come un uomo!».
Stava per costruire anche una piscina coperta e un canale fino ad Ostia, per i quali voleva
impiegare tutti i detenuti dell’impero.
Fu spinto a queste spese anche dalla speranza di scoprire immense ricchezze nascoste:
un cavaliere gli rivelò di sapere dove fosse nascosto il tesoro della regina Didone.
XXXII. Deluso da questa speranza, vedendosi povero, trattenne la paga ai soldati e volse
l’animo a calunnie e rapina.
Stabilì che a lui si dovessero i 5/6 delle successioni dei liberti che portavano il nome di una
delle sue famiglie. Poi stabilì di incamerare le successioni di coloro che si mostravano ingrati
con l’imperatore.
Si fece rimborsare i prezzi delle corone che le città gli avevano attribuito. Spogliò dei doni
diversi templi e fece fondere le statue d’oro e d’argento.
XXXIII. Le sue uccisioni cominciarono con Claudio: anche se non ne fu autore, lo sapeva
senza nasconderlo.
Insultò Claudio morto con oltraggi, ne faceva notare stupidaggine e crudeltà. Annullò molti
decreti e regolamenti come opere della sua follia e stoltezza e non si curò di proteggerne le
ceneri.
Avvelenò Britannico: si fece portare un veleno da una certa Locusta ma, essendo poco
potente, glielo fece ricuocere di fronte a lui finché diventò efficace. Allora fu servito a
Britannico che cadde sul momento. Nerone sminuì definendolo un attacco di epilessia, ma in
gran fretta lo fece seppellire il giorno seguente. a Locusta dette impunità e vasti poderi.
XXXIV. Non riuscendo a sopportare sua madre, prima cercò di renderla impopolare, poi la
privò degli onori e i poteri, togliendole la scorta e facendola allontanare dal palazzo.
Assoldava gente che le intentasse processi e la importunasse. Atterrito però dalle sue
minacce, decise di farla morire. Tentò di avvelenarla invano, allora fece preparare il soffitto di
camera sua in modo che, azionato un meccanismo, crollasse di notte; ma i complici
svelarono il segreto.
Fece allora progettare un battello che si sfasciasse a comando, per farla morire in un
naufragio. Finse una riconciliazione e la fece convocare a Baia. Quando fu attraccata,
comandò ai comandanti di danneggiare la nave e simulare un incidente, cosicché potesse
essere sostituita da quella truccata. Ma Agrippina si salvò: quando il liberto venne ad
annunciare a Nerone che la madre era salva, l’imperatore gli gettò un pugnale ai piedi e lo
fece arrestare, simulando un tentativo d’attentato. Poi fece uccidere la madre, in modo che
sembrasse un suicidio per la scoperta delle sue macchinazioni. Alcuni dissero che palpò le
membra del cadavere.
Benché confortato dal Senato e dal popolo, si dice che non riuscì mai a sconfiggere il
rimorso. Al matricidio aggiunse l’uccisione della zia, della quale poi incamerò tutti i beni,
avendone fatto distruggere il testamento.
Costrinse Seneca a togliersi la vita, benché spesso gli avesse chiesto congedo offrendogli
i suoi beni. A Burro, prefetto, promise una medicina, mandando un veleno. E col veleno
uccise anche i liberti che un tempo avevano favorito la sua adozione.
XXXVI. Non si comportò meglio verso gli estranei. Una cometa si era mostrata per molti
giorni, l’astrologo Balbillo disse che il re doveva immolare vittime illustri. Allora Nerone fece
uccidere tutti i più nobili, convinto anche da due congiure appena scoperta: una in Roma, di
Pisone, e l’altra di Vinicio, tramata a Benevento. I figli dei condannati, scacciati, furono poi
uccisi col veleno o con la fame.
XXXVII. Da allora non ebbe più freno. A coloro cui ordinava di uccidersi accordava solo lo
spazio di qualche ora.
Inorgoglito da tanti «successi», dichiarò che nessun imperatore aveva mai saputo tutto ciò
che gli era consentito. Fece capire con allusioni che non avrebbe risparmiato un senatore,
che avrebbe rimosso quell’ordine dallo stato, dando da governare a cavalieri e liberti.
Entrando nel Senato non baciò nessuno, né rispose a saluto.
XXXVIII. Non risparmiò nemmeno il popolo né le mura della patria. Come ferito dalla
bruttezza dei vecchi edifici, incendiò Roma in modo così palese che parecchi consolari, pur
avendo sorpreso i suoi camerieri con le torce, non osarono toccarli.
Quel flagello durò sei giorni, spingendo la plebe nei monumenti. Furono divorate un gran
numero di case popolari, le case degli antichi generali, i templi degli dèi, e quanto era rimasto
dall’antichità.
XXXIX. A tante vergogne, se ne aggiunsero altre del destino: una pestilenza (30.000
vittime in un autunno), una disfatta in Britannia, un’altra in Armenia.
Non vi è niente che egli sopportasse meglio degli insulti della gente. Ne furono affissi
molti. Non fece ricercare gli autori di epigrammi e vietò che fossero puniti con pena troppo
grave.
XL. L’universo, dopo averlo sopportato per quattordici anni, finalmente lo abbandonò. Gli
astrologhi avevano predetto che un giorno sarebbe stato destituito, e lui aveva risposto «l’arte
(di citareto, NdR) mi manterrà»
Alcuni gli avevano promesso, che dopo destituito, avrebbe dominato l’Oriente, altri una
completa reintegrazione. Essendo speranzoso, quando ebbe ripreso Britannia e Armenia,
stimò di aver esaurito le disgrazie. L’Apollo Delfico gli avvertì di guardarsi dal 73° anno:
pensando che sarebbe morto a quell’età, concepì un’enorme fiducia.
XLI. Spinto dagli ingiuriosi editti di Vindice, scrisse finalmente una lettera al Senato,
esortandolo a fare le sue vendette e scusandosi per il mal di gola.
Niente gli dette fastidio come la definizione «cattivo citaredo» ed essere chiamato
Enobarbo. Poiché usavano il suo nome di famiglia come insulto, dichiarò che lo avrebbe
ripreso.
In quanto agli altri addebiti, non usò che un argomento: l’arte l’aveva studiata con tanta
cura, e chiedeva quindi «conosci qualcuno che mi superi?».
XLII. Quando venne a sapere che anche Galba e le Spagne avevano defezionato, cadde
svenuto. Tornato in sé, strappandosi le vesti, esclamò: «Per me è finita» e alla balia che lo
consolava rispose: «Debbo subire disgrazie inaudite, perdendo il potere mentre sono vivo!».
Ma non per questo rinunziò al lusso, anzi. Fattosi portare a teatro, a un attore applauditissimo
mandò a dire che lo distraeva dalle sue occupazioni.
XLIII. Si dice che all’inizio dell’insurrezione abbia fatto progetti inumani, come mandare gli
assassini e i successori ai comandanti di eserciti e province, come fossero tutti cospiratori, di
avvelenare tutti i senatori, e di incendiare Roma aizzando le belve contro il popolo; li
abbandono, solo per la difficoltà nel realizzarli. Quindi privò i consoli della loro carica per
sostituirli personalmente.
XLIV. Prima cura della spedizione fu scegliere i veicoli per trasportare gli organi da teatri,
far tagliare come mi maschi i capelli delle concubine e armarle come le Amazzoni.
Poi convocò le tribù urbane per far la leva, ma siccome nessun cittadino era idoneo, si
fece consegnare gli schiavi, scegliendo i migliori. Ordinò anche di farsi consegnare i capitali e
monete nuove: per questo parecchi rifiutarono qualsiasi oblazione.
XLV. L’odio di lui si accrebbe per le speculazioni sul prezzo del grano e perché, in
carestia, era arrivata una nave da Alessandria con sabbia per i lottatori. Sollevatasi l’ira
popolare, subì ogni genere di insulto.
XLVI. Nerone era atterrito dai sogni, dai presagi, sia vecchi che nuovi.
Quando fu letto in Senato il passo del discorso contro Vindice, in cui dichiarava che gli
scellerati sarebbero stati puniti, tutti si misero a gridare: «toccherà a te, Augusto!». L’ultimo
brano da lui cantato in pubblico era brano dell’Edipo esule, che terminò così: «Sposa e
madre, tutti mi ordinano di morire!».
XLVII. Mentre stava pranzando, seppe che altri eserciti si erano ribellati; incollerito, prese
un veleno da Locusta, poi mandò alcuni a preparare una flotta ad Ostia e chiese a tribuni e
centurioni di accompagnarlo. Molti però tergiversavano. Fece allora molti progetti: implorare
perdono, o farsi concedere la prefettura dell’Egitto.
Rinviò la decisione all’indomani. Ma svegliatosi nella notte, si accorse che la guardia era
sparita. Non trovò amico che gli desse ospitalità. Cercando qualcuno che lo uccidesse, non
trovò comunque nessuno e si mise a correre, come volesse gettarsi nel Tevere.
XLVIII. Frenatosi, cercò un rifugio. Quando il liberto Faonte gli offrì la sua villa, scalzo e
con un mantelluccio, salì a cavallo accompagnato da 4 persone.
Rimase terrorizzato da una scossa di terremoto, un fulmine che gli cadde ai piedi, e sentì
dal vicino castro i soldati che acclamavano Galba.
Giunti ad una scorciatoia, lasciarono i cavalli e passarono con difficoltà a piedi in mezzo
ad un canneto, dove raggiunsero il muro posteriore di una villa. Aspettò mentre gli
preparavano un passaggio segreto e, per dissetarsi, raccolse l’acqua di una pozzanghera
dicendo «Questa è l’acqua preparata per Nerone!”.
Riuscì a entrare nella villa. Preso da fame e sete, rifiutò il pane nero ma bevette un po’
d’acqua.
XLIX. Poiché i compagni lo pregavano di sottrarsi all’oltraggio che lo aspettava, ordinò che
scavassero una buca per lui. Durante i preparativi piangeva: «Quale artista muore!».
Durante l’attesa un corriere portò lettere a Faonte, dove Nerone, ora ricercato per essere
punito a colpi di verga, era dichiarato nemico della patria. Allora lui provò il filo dei suoi
pugnali, ma disse che non era ancora giunta l’ora.
Quando sentì i cavalieri avvicinarsi con l’ordine di catturarlo, si affondò il ferro nella gola
con l’aiuto del segretario Epafrodito. Era ancora semivivo, quando un centurione che fece
finta di aiutarlo tamponandogli la ferita. «Questa è fedeltà!», disse, e poi morì.
Aveva chiesto ai compagni di fare in modo che nessuno si impadronisse della sua testa e
di cremarlo intero. Icelo, liberto di Galba, accordò questa grazia.
LI. Era di statura normale, ma il corpo chiazzato e maleodorante. Aveva occhi azzurri e
deboli, collo grosso, ventre prominente, e ottima salute. Benché mai si astenesse dai lussi, si
era ammalato solo tre volte. Era così poco dignitoso nell’abbigliarsi.
LII. Fin da bambino attese alle discipline liberali, ma la madre lo distolse dalla filosofia
(dannosa per gli imperatori) e Seneca dagli oratori antichi (per conservare più a lungo la sua
ammirazione).
Portato per la poesia, compose versi senza bisogno di copiarli. Nutrì anche amore per
pittura e scultura.
LIII. Ma sopra ogni altra cosa ricercava la popolarità e voleva rivaleggiare con tutti quelli
che godevano del favore della folla.
Dopo le corone per la scena, si sparse la voce che nel lustro seguente sarebbe sceso ad
Olimpia fra gli atleti, e infatti si allenava alla lotta.
Si era proposto di imitare le gesta di Ercole, considerandosi già uguale ad Apollo nel
canto e al Sole nel guidare i carri.
LIV. Aveva fatto voto che, se avesse conservato l’impero, si sarebbe esibito nei giochi
suonando organi, flauto e cornamusa, e anche come attore. Si dice anche abbia fatto morire
l’istrione Paride, pericoloso avversario.
LV. Aveva desiderio di fama eterna: per questo tolse a luoghi e cose il loro antico nome,
dandogliene uno nuovo. Aprile era Neroneo, e voleva mutare anche Roma in Neropoli.
LVI. Disprezzava le religioni e non ebbe fede che nella dea Siria, ma in seguito la
disprezzò. Un libertà gli regalò una statuetta. Poiché subito fu scoperta una congiura, Nerone
la considerò una divinità.
Qualche mese prima di morire si diede anche a consultare le viscere delle vittime.
LVII. Morì a 32 anni, il giorno stesso in cui aveva fatto uccidere Ottavia; tanta fu la
pubblica gioia che il popolo scese col pileo in testa.
Non mancarono le persone che a lungo adornarono la sua tomba ed esposero editti in cui,
come fosse ancora vivo, dichiarava che sarebbe tornato.
Persino il re dei Parti, quando mandò ambasciatori al Senato, insistette sulla memoria di
Nerone. Quando, venti anni dopo, durante la mia adolescenza, vi fu un tale che si spacciò per
Nerone, il suo nome fu tanto in favore presso i Parti che se lo consegnarono con difficoltà.