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Il termine “Deontologia” deriva da “deon”, che significa “dovere”, e “logos”, che significa
“scienza”. A differenza dell’etica e della morale, la deontologia rappresenta un insieme di
regole, che indicano come comportarsi in quanto membri di un corpo sociale: il codice
deontologico. La deontologia, dunque, riguarda i comportamenti da tenere nell’esercizio
delle prestazioni. Ma perché studiare questa materia?
Perché prendere coscienza di alcuni concetti nuovi e confrontarli con quelli già posseduti
(morale soggettiva) aiuta a comprendere come:
1. Agire
2. Porsi
3. Vivere ed interagire
4. Affrontare situazioni problematiche
5. Approfondire alcune norme giuridiche
L’etica rappresenta una branca della filosofia. Il termine fu introdotto da Aristotele, Platone e
Socrate: l’uomo agisce per un fine che è la felicità, intesa come felicità mediata dalla ragione,
capacità specifica dell’uomo. Essere persone etiche è, dunque, un dovere di fedeltà all’essere
persone umane: è necessario guardare agli altri come esseri dotati di ragione, senza basarsi
sulle differenze culturali, religiose o etiche.
L’infermiere è chiamato ciascun giorno a vivere l’etica, perché in ogni momento deve saper
adottare un modello di comportamento pratico, relativo anche alle piccole cose di tutti i
giorni.
Secondo il filosofo Toulmin, l’etica rappresenta un sapere pratico e non teoretico, di cui non
è una mera applicazione. Hegel intendeva con “etica” l’aspetto più oggettivo della condotta,
mentre con “morale” l’aspetto più soggettivo (per esempio, l’intenzione del soggetto e la sua
disposizione interiore). Da sempre, dunque, l’etica rappresenta qualcosa di immutabile e
universale. Tuttavia, l’esperienza dimostra, a volte, come sia vero il contrario: davanti ad una
stessa situazione, i comportamenti “etici” assunti risultano essere estremamente differenti da
persona a persona (può essere il caso dell’aborto o dell’eutanasia).
Gli elementi costitutivi dell’etica sono:
1. La legge morale naturale
2. La coscienza
3. La libertà
La coscienza
E’ l’uomo che riflette e prende consapevolezza di sé stesso, delle proprie possibilità e, in base
alla propria riflessione, opera determinate scelte; rappresenta, dunque, la dimensione
soggettiva della moralità. La coscienza si forma attraverso 2 sollecitazioni: i rinforzi positivi
e negativi, come l’influenza dei genitori o degli amici; l’attività cognitiva individuale, cioè il
codice di comportamento soggettivo, personale.
La coscienza, quindi, è condizionata da molteplici aspetti:
1. Ignoranza: Non conoscere i termini del problema, i valori in gioco, oltre a far
agire in modo errato, può anche portare ad agire in modo non sicuro;
2. Emozioni: Forti emozioni spingono a compiere atti e gesti che superano, per
intensità, la nostra volontà, possono accecare la ragione di una persona, facendole
assumere atteggiamenti sbagliati;
3. Paura: Può confondere e togliere lucidità a chi sta compiendo l’azione in una
determinata situazione. E’ opportuno non farsi un alibi della paura: questa può, sì,
far adottare comportamenti che in altre situazioni non sarebbero stati mai
considerati validi, ma ciò non implica il fatto di poter agire, sapendo che in futuro
l’azione sarà giustificata;
4. Carattere: Può essere considerato un condizionamento abituale che ognuno deve
conoscere, per poterlo tenere sotto controllo.
Altri condizionamenti possono essere rappresentati da quelli che non sono dentro di noi, ma
che in qualche modo influenzano le nostre decisioni, come:
1. La famiglia
2. La società
3. I mass media, che infondono nel cittadino un senso di non fiducia nelle strutture
ospedaliere.
In aiuto della coscienza, invece, intervengono i cosiddetti criteri di discernimento (cioè quei
criteri che permettono di scegliere):
1. Bene maggiore: La nostra coscienza deve essere rivolta sempre alla ricerca del bene
maggiore. Nella valutazione di quale sia il bene maggiore, devo tener presente i valori
e le abitudini del paziente;
2. Male minore: Quando non abbiamo la possibilità di eseguire il bene maggiore, ogni
nostra azione inesorabilmente costituisce un male per il paziente. Il nostro obiettivo è,
quindi, quello di limitare il male (male minore);
3. Bene presunto: Si deve agire in relazione al bene presunto quando la capacità di
identificare il bene dal male risulta impossibile. L’azione, pertanto, deve presumere la
realizzazione di un bene anche se, teoricamente, potrebbe esiste un bene ancora
maggiore;
4. Duplice effetto: Si verifica quando, ad un’azione, si associa un secondo effetto non
voluto, ma inevitabile. Per esempio, è frequente che particolari farmaci (morfina)
provochino pesanti effetti collaterali (riduce il dolore, ma provoca un deterioramento
della capacità respiratoria);
5. Cooperazione al male: Si verifica quando l’individuo non agisce in prima persona,
compiendo un male, ma si trova a cooperare con un altro. Su un piano etico egli è
colpevole come colui che agisce.
Alla coscienza, in fase decisionale, si lega sempre la responsabilità dell’atto. Un atto può
ritenersi completamente responsabile solo quando la coscienza di chi agisce CONOSCE cosa
sta facendo. Pertanto la persona deve avere la conoscenza del valore in gioco e la volontà e
libertà dell’atto che va a compiere.
Esiste, poi, una responsabilità a monte che rende volontarie quelle azioni che non lo sono,
rispetto alla causa che provoca il danno. Per esempio, le azioni che il soggetto non avrebbe
desiderio di compiere ma che, rispetto all’azione, potevano essere previste. Gli aspetti che
vanno tenuti in considerazione per valutare se il proprio comportamento sia buono o cattivo,
e dai quali deriva il grado di responsabilità, sono:
1. L’oggetto dell’azione: è ciò che ci si accinge a fare. Di per sé l’oggetto dell’azione è
generalmente neutro, ossia né buono né cattivo; è l’intenzione, il motivo per cui lo si
esegue, che gli attribuisce una connotazione morale;
2. L’intenzione del soggetto che compie l’azione: è lo scopo che l’azione intende
perseguire (buona o cattiva);
3. Le circostanze: in questo ambito rientrano tutti quegli elementi che connotano meglio
la situazione come buona o cattiva.
Prima del 1834, non esistevano concetti che parlavano o trattavano di deontologia, a parte il
giuramento di Ippocrate, che vedeva nell’attività medica una disciplina espletata come un
impegno ad interessarsi nel dolore altrui. La deontologia è “quel settore dell’arte e della
scienza che ha per suo oggetto il fare in ogni occasione ciò che è conveniente”. Il compito
della deontologia consiste, dunque, nella distribuzione degli obblighi derivanti da fonti
diverse, nello stabilire quale debba ottenere la preferenza e quale debba rinunciarvi. Non
riguarda, infatti, la tecnica, ma i comportamenti, che si caratterizzano in quanto rispondenti a:
1. Il principio di correttezza: si riferisce alle doti personali di buona educazioni;
2. Il principio di riservatezza: si riferisce a ciò che riguarda informazioni e dati
strettamente personali del paziente;
3. Il principio di informativa e veridicità: devono essere fornite in modo esaustivo tutte
le informazioni richieste dalla persona assistita;
4. Il principio di colleganza: implica l’impegno a rispettare i colleghi anche in caso di
opinioni contrastanti;
5. Il principio di dignità e decoro professionale: riguarda l’indossare una divisa, che
trasmette un messaggio dal punto di vista professionale, ma allo stesso tempo
rappresenta un vero e proprio decoro nei confronti dei colleghi. La divisa differenzia
ed evidenzia la professione: è necessario, per questo motivo, indossarla con dignità e
decoro.
Il codice deontologico, dunque, rappresenta l’insieme delle norme della condotta
professionale. Manifesta le esigenze etiche di una professione e rappresenta lo strumento
attraverso il quale il professionista si presenta alla società. Il codice deontologico è, infatti,
destinato ai: destinatari della professione, colleghi, altri professionisti, se stessi (come
professionisti).
Nel 1999, la legge 42 ha dato una serie di disposizioni in materia di professioni sanitarie:
“Il campo di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie è determinato dai contenuti
dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici
dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post-base nonché degli specifici
codici deontologici”.
La violazione delle norme deontologiche prevede l’intervento da parte del Collegio
Provinciale d’appartenenza, che stabilisce le sanzioni, quali:
1. Avvertimenti (Richiamo verbale)
2. Censura (Richiamo scritto)
3. Sospensione dell’esercizio professionale (da 1 a 6 mesi)
4. Radiazione dall’Albo (prevista in caso di veri e propri reati)
Il codice deontologico non è un codice etico, ma uno strumento indirizzato all’orientamento e
alla realizzazione di comportamenti personali accettati dalla professione, che consente a
qualunque infermiere la possibilità di esprimere il proprio progetto etico in modo
differenziato.
I codici deontologici
Esistono 5 codici deontologici, scritti rispettivamente:
1. Nel 1960 (Primo codice deontologico, che nasce in seguito alla necessità di indicare le
coordinate etiche con le quali operare);
2. Nel 1977;
3. Nel 1996 (Ricerca l’alleanza con l’individuo assistito, un contatto infermiere-
cittadino);
4. Nel 1999;
5. Nel 2009 (quello attuale).