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Etiche teleologiche (5/7)

Nascono così alcune obiezioni che vengono mosse alle etiche teleologiche:

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Se le conseguenze sono l’unico fattore moralmente rilevante,
allora le etiche teleologiche non sono in grado di funzionare come
guida per l’azione, ma al massimo come criterio di giudizio a
posteriori sulle azioni compiute (teorie della giustificazione, non
della deliberazione). Inoltre, noi non siamo in grado di prevedere
tutte le possibili conseguenze delle nostre azioni, e il calcolo
laborioso di esse ci impedirebbe letteralmente di compierne.
Etiche teleologiche (6/7)
Nascono così alcune obiezioni che vengono mosse alle etiche teleologiche:

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Non plausibilità pratica di un tipo di etica che sembra imporre alle
persone prestazioni straordinarie (o «supererogatorie»). Per le
etiche teleologiche diventa obbligatorio scegliere il corso d’azione
che produce il risultato migliore possibile – il che implica una
pressione psicologica insostenibile; molte di esse pretendono dagli
esseri umani comuni molto più di quanto si dovrebbe
ragionevolmente pretendere.
Etiche teleologiche (7/7)
Nascono così alcune obiezioni che vengono mosse alle etiche teleologiche:

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Vi è una scarsa propensione delle etiche teleologiche a tener conto
dell’importanza della stabilità delle norme di convivenza sociale su
cui si basa una società ben ordinata: una teoria etica che ha come
principio fondamentale quello di produrre le conseguenze migliori
possibili non è socialmente affidabile, poiché non permette – anche
quando tale principio fosse universalmente condiviso – una
sufficiente previsione dei comportamenti altrui.
Etiche deontologiche (1/11)

Etiche del dovere Deontologiche


Queste etiche sostengono l’idea che la qualità morale (e quindi anche il
giudizio morale) dipende da un fattore intrinseco all’azione stessa. L’idea
centrale è che esistono azioni intrinsecamente giuste o sbagliate – o, meglio,
caratteristiche o proprietà che rendono giuste o sbagliate le azioni nelle quali
ricorrono, indipendentemente dalla considerazione di ogni altro fattore (es. le
intenzioni dell’agente, la qualità del suo carattere, le conseguenze dell’azione
ecc…)
Etiche deontologiche (2/11)
La ragione per cui questa famiglia di etiche viene chiamata deontologica sta nel
fatto che le caratteristiche che rendono sbagliate le azioni vengono in genere
espresse in norme o princìpi (per lo più negativi) dai quali discendono i doveri cui
ogni soggetto morale è tenuto ad adempiere; il giudizio morale verte quindi
sull’azione effettivamente compiuta, che viene giudicata in base alla sua conformità
o meno alla norma pertinente.
Di conseguenza, il modello generale di comportamento morale che queste etiche
prescrivono è la conformità ai doveri.
Etiche deontologiche (3/11)
I doveri prescrivono modalità generali di azione pertinenti a un determinato tipo di
situazione e presentano l’indubbio vantaggio di prestarsi meglio del principio
consequenzialistico a fornire schemi di condotta di immediata applicazione.
Inoltre, quando sono formulati in modo semplice e chiaro, questi schemi di condotta
sono molto utili nel processo di apprendimento morale – anche se di recente le
ricerche svolte nell’ambito delle scienze cognitive hanno sollevato dubbi sul fatto
che l’apprendimento morale avvenga attraverso l’acquisizione di regole o principi
astratti, e hanno insistito invece sul ruolo dei modelli o esempi di comportamenti
giusti con i quali il pensiero morale ordinario confronta le azioni da fare o giudicare.
Etiche deontologiche (4/11)
Le etiche deontologiche colgono un aspetto della moralità concreta, che ha a che
fare con la nozione di rispetto per gli altri.
Noi, in genere, apprezziamo il fatto che le società umane abbiano sempre posto
delle severe restrizioni a ciò che gli individui possono farsi l’un l’altro, e riteniamo
che la scelta dell’azione da compiere e il giudizio sull’azione compiuta non dipendano
unicamente dal valore delle conseguenze che essa produce o ha prodotto.
Prendiamo anche in considerazione il valore stesso dell’azione, giudicandone la
conformità alla norma pertinente.
Un’etica deontologica, tuttavia, non si limita a sostenere questo: sostiene invece che
l’unica cosa rilevante nello scegliere un corso d’azioni o nel giudicarlo è la
conformità alla norma.
Etiche deontologiche (5/11)
Scaturisce dunque il problema centrale delle etiche deontologiche: fino a che punto
deve spingersi la conformità alla norma?
Questa domanda nasce quando il sistema dei doveri viene calato nella concreta vita
morale: per quanto dettagliato e specifico possa essere il sistema dei doveri, la
decisione pratica deve scontare la possibilità dell’insorgere di conflitti interiori
all’agente, di disaccordi pubblici tra i soggetti e infine di veri e propri dilemmi, cioè
situazioni in cui qualunque azione venga compiuta (e anche se ci si astiene dall’agire)
non si può evitare di violare un dovere.
Etiche deontologiche (6/11)
Le etiche deontologiche rispondono alla questione della conformità adoperando differenti
strategie che dipendono dalla loro struttura:

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Negare che esistano conflitti o dilemmi morali insanabili in linea di
principio. Questa è la strategia utilizzata dalle etiche deontologiche
che contengono un dovere assoluto (monistiche) o una pluralità di
dovere gerarchicamente ordinati: per queste etiche c’è sempre un
dovere che deve essere compiuto, indipendentemente dalle
circostanze o dalle conseguenze («fiat iustitia, pereat mundus»,
ossia «sia fatta giustizia e vada pure in rovina il mondo»).
Etiche deontologiche (7/11)
Le etiche deontologiche rispondono alla questione della conformità adoperando differenti
strategie che dipendono dalla loro struttura:

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Prevedere doveri prima facie: la nostra vita morale è orientata da
una serie di princìpi o norme che implicano una serie di doveri (es.
non uccidere, mantenere le promesse…). Queste generali modalità
d’azione sono da noi intuite come azioni che è doveroso compiere –
noi le sentiamo, cioè, a tutta prima (o prima facie) egualmente
obbligatorie per il tipo di azioni che esse sono, e non perché
producano buone conseguenze o siano comandate da qualcuno.
Tuttavia, l’evidenza con cui intuiamo quali siano, in generale, i
nostri doveri, non implica che ci sia sempre evidente cosa fare nelle
situazioni concrete.
Teorie deontologiche (8/11)
Ci sono però dei casi nei quali qualunque linea di condotta, nella sua attuazione
pratica, può comportare la violazione del medesimo dovere…

Un gruppo di decine di minatori è prigioniero in una galleria che si sta


riempiendo d’acqua, e l’unico modo per poterli salvare è deviare l’acqua
in un’altra galleria dove è prigioniero un solo minatore – che morirà. Che
fare?
Etiche deontologiche (9/11)
Nell’affrontare situazioni di questo tipo sembra difficile prescindere dalla
ponderazione delle conseguenze dei corsi d’azione possibili. Come sappiamo, questa
è la strategia suggerita dalle etiche consequenzialistiche.
Nei casi ordinari della vita, il consequenzialista ammette (rispondendo così alla terza
obiezione) l’importanza di disporre di norme o princìpi, interpretati però come norme
consolidatesi nel tempo grazie ai buoni risultati complessivi prodotti dalla loro
pratica; questo risponde anche alla prima obiezione (quella riguardo il carattere
paralizzante del calcolo) poiché il calcolo viene fatto nel momento in cui una norma
si è consolidata, e non c’è bisogno di ripeterlo per ogni singola azione. Quando
(come nel nostro esempio) il calcolo fosse necessario, l’obiezione colpirebbe ogni
tipo di etica che voglia avere a che fare con la concretezza della vita morale.
Etiche deontologiche (10/11)
Tuttavia, le etiche deontologiche rifiutano il passaggio al modello
consequenzialistico e introducono una distinzione tra:

Effetti intenzionali Effetti non intenzionali


(o diretti) dell’azione (o indiretti) dell’azione

La nozione di «conformità al dovere» va riferita strettamente a quelle intenzionali –


quelle, cioè, che l’agente vuole produrre – e non all’intera gamma di conseguenze
che il progetto d’azione può comportare.
Etiche deontologiche (11/11)
La distinzione tra effetti intenzionali e non ha un ruolo centrale nella seguente
dottrina:

Dottrina del doppio effetto


Consente di ritenere lecita un’azione morale sebbene da essa
possano derivare almeno due conseguenze: una positiva e l’altra
negativa. A tal fine, è indispensabile che: l’azione sia in sé
buona, o almeno moralmente indifferente; l’intenzione del
soggetto sia buona; l’effetto buono non dipenda dal verificarsi
dell’effetto negativo; non vi siano azioni capaci di impedire
l’effetto negativo.
Etiche della virtù (1/8)

Etiche della virtù Del carattere


Si potrebbe dire che la riflessione filosofica sulla moralità sia iniziata puntando
sulle nozioni di virtù e vita virtuosa, e solo successivamente si sia concentrata
sulle azioni e sui doveri.
Tuttavia di etica della virtù come forma alternativa alle altre due si è iniziato a
parlare piuttosto recentemente, come reazione al modo in cui la discussione
etica si era cristallizzata nella contrapposizione tra etiche deontologiche e
teleologiche.
Etiche della virtù (2/8)
Sia nelle etiche teleologiche che in quelle deontologiche ciò che viene in primo piano
è la nozione di obbligo (agire per produrre le migliori conseguenze possibili o agire in
conformità ai doveri); per i fautori dell’etica della virtù ciò ha rappresentato un
impoverimento del discorso etico, al quale si deve porre rimedio sostituendo la
domanda «cosa devo fare?» con «che tipo di persona voglio essere?».
Viene così attirata l’attenzione sul soggetto della moralità – l’agente morale e il suo
carattere – in tutte le sue dimensioni esistenziali.
Etiche della virtù (3/8)
Sul piano teorico, la distinzione tra le prime due etiche e quella della virtù è molto
netta: quest’ultima ha come idea centrale che l’intero progetto di vita morale di un
agente ha una sua intrinseca qualità – buona o cattiva – che è indipendente da come
il progetto si realizza e dalle conseguenze si produce.
Il compito fondamentale di una teoria etica non è, dunque, quello di elaborare una
serie di princìpi o doveri ai quali il soggetto deve attenersi, ma quello di
raccomandare all’individuo di acquisire un carattere virtuoso, in modo da potersi ben
orientare nella vita morale concreta e rispondere in modo adeguato alle situazioni
morali.
Etiche della virtù (4/8)
Il giudizio morale non verte, pertanto, sulle azioni, ma sul carattere dell’agente.
L’azione moralmente apprezzabile sembra essere una mera conseguenza della
formazione e coltivazione di buone doti di carattere.
Naturalmente non si può negare l’importanza di quest’ultimo, ma è difficile pensare
che la qualità morale della condotta pratica sia interamente riconducibile all’avere un
buon carattere.
Etiche della virtù (5/8)
Inghilterra
Il rinnovato interesse per il carattere delle
persone nell’etica viene fatto risalire alla
filosofa inglese contemporanea Elisabeth
Anscombe, che ha ripreso la concezione antica
della vita virtuosa come modo per superare la
concezione legalistica dell’etica incentrata
sulla nozione di obbligo.
Etiche della virtù (6/8)
Scozia
Alasdair MacIntyre (filosofo contemporaneo di
origine scozzese ma operante negli Stati Uniti)
presenta un quadro catastrofico della morale
contemporanea: a causa dell’opera distruttiva
dell’Illuminismo sulla morale tradizionale, non
abbiamo ereditato un discorso unitario e
fondato su una concezione organica della
natura umana, ma solo frammenti di discorso,
privi di senso perché sconnessi dalla visione
globale e quindi incapaci di orientare
efficacemente la condotta umana.
Etiche della virtù (7/8)
Scozia
MacIntyre propone di tornare ad Aristotele e
alla concezione della vita buona come
esercizio delle disposizione virtuose che
mirano a realizzare un fine già intrinsecamente
contenuto nella stessa natura umana; restano
però molti dubbi sulla validità di questa
proposta in risposta alla crescente
complessità della vita morale nella nostra
epoca.
Etiche della virtù (8/8)
Nel panorama contemporaneo è presente una seconda forma di etica della virtù,
che si distingue dalla precedente per il diverso punto di riferimento storico: non più
la tradizione aristotelica, ma la nozione di virtù elaborata da Hume nella sua filosofia
empirista e sentimentalista. Essa viene presentata dai suoi fautori come più
adeguata a rispondere alle sfide della modernità, anche perché la sua base
sentimentalista si mostra più capace di far tesoro dei contributi offerti dalla più
recente ricerca in psicologia morale e in neuroetica.
Il dibattito in proposito è ancora in corso, e oggi questo filone di riflessione etica si
presenta molto ampio e variegato.

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