Con ci gi implicita la quarta caratteristica della teoria, ossia la sua enfasi sulla
massimizzazione. L'utilitarismo non chiede di realizzare un livello sufficiente o ragionevole
di bene, n di soddisfare certi requisiti minimi di rispetto degli altri e dei loro diritti per poi
sviluppare il proprio piano di vita e perseguire i propri progetti; ha invece una concezione
molto pi esigente dei doveri morali, ossia impone a ciascun agente in ogni situazione di
realizzare il massimo bene possibile. Perci, sembra escludere l'esistenza di comportamenti
moralmente neutri, o di sfere lasciate alla libera scelta del singolo, salvo il caso di
opposizioni moralmente equivalenti.
Infine, l'ultima caratteristica che merita di essere sottolineata l'universalismo. Bench nel
linguaggio corrente si utilizzi spesso il termine utilitarista per indicare un modo di pensare
che guarda soltanto al gretto interesse individuale, l'utilitarismo impone di ricercare
l'interesse generale, in molte formulazioni addirittura quello di tutti gli esseri senzienti. La
confusione tra egoismo e utilitarismo in parte comprensibile, giacch alcuni dei primi
utilitaristi hanno sostenuto l'egoismo psicologico, ossia l'idea che gli esseri umani agiscano
unicamente in vista del loro interesse o del loro piacere; il fatto che posseggano idee morali
e un limitato altruismo veniva poi spiegato attraverso meccanismi associativi delle idee.
L'utilitarismo non per legato intrinsecamente alla tesi associazionista, e soprattutto si
distingue nettamente dall'egoismo etico, ossia da quella diversa forma di consequenzialismo
secondo cui giusto fare ci che massimizza il mio benessere, imponendo invece di
massimizzare il benessere di tutti gli individui coinvolti.
L'utilitarismo la teoria che riunisce tutte e cinque le caratteristiche richiamate. L'una o
l'altra, da sole, non costituiscono una prospettiva utilitarista.
L'utilitarismo una teoria consequenzialista aggregativa e massimizzante del benessere
universale.
Contributi alla nascita dell'utilitarismo
Nel suo saggio su Bentham del 1838, John Stuart Mill afferma che vi sempre stata una
scuola filosofica utilitarista, che ci era gi prima di Epicuro e che l'originalit di Bentham
consiste nell'aver legato questa teoria al metodo analitico, o del dettaglio. In realt, nei
cosiddetti precursori dell'utilitarismo si trovano per lo pi solo alcuni elementi della teoria
benthemiana. L'utilitarismo, inteso come la teoria che presenta le caratteristiche richiamate,
una creazione originale di Jeremy Bentham, anche se, soprattutto nelle sue prime opere,
egli non usa mai questo termine per indicare la propria dottrina: lo usa invece negli ultimi
anni. Il termine utilitarismo fu canonizzato da John Stuart Mill, il quale, tra il 1822 e il
1826, anim una Societ utilitaristica, composta di giovani seguaci di Bentham; Mill non
riprese il termine da Bentham, ma da un romanzo di John Galt, dove peraltro figurava con
connotazione negativa.
Indubbiamente Bentham rielabor idee di vari autori che avevano formulato sistemi morali
simili. Prescindendo da singoli elementi dell'utilitarismo reperibili in autori antichi si
possono richiamare in particolare tre filoni: in primo luogo, il consequenzialismo teologico
sviluppatosi in seno alla Chiesa anglicana verso la fine del Seicento; inoltre, l'insistenza di
alcuni sentimentalisti settecenteschi sulla centralit della benevolenza e sull'utilit della
virt: infine la formulazione di un'etica della felicit generale da parte degli illuministi
francesi e italiani.
Il consequenzialismo teologico
L'origine del consequenzialismo teologico si pu individuare in Richard Cumberland. Nel
De legibus naturae, egli modifica l'idea volontarista di Dio come fonte di una legge
inaccessibile alla ragione umana, affermando che lo studio della natura consente di scoprire
la legge che Dio ha stabilito di imporre alla creazione. Dio sommamente buono e perci la
Sua legge non pu essere altra che quella che conduce alla massima felicit delle Sue
creature. Il principio fondamentale della legge di natura perci il seguente: La pi grande
benevolenza di ogni agente razionale verso tutti forma lo stato pi felice di tutti gli esseri
benevolenti, nella misura in cui in loro potere ed necessariamente richiesto per lo stato
pi felice che essi possono raggiungere; perci il bene comune la legge suprema. La
sanzione di questa legge sta nel fatto che Dio ha conformato la nostra psicologia in modo
tale che la benevolenza ci procura soddisfazione e il presentimento di una ricompensa
futura. Poich gli esseri umani necessariamente ricercano la felicit, debbono conformarsi a
questa legge divina; l'obbligo morale nasce ancora dalla volont di Dio, ma tale volont,
lungi dall'essere arbitraria, mira a promuovere il bene comune e perci il movente
soggettivo per aderirvi sta nell'impossibilit di sottrarsi all'inclinazione naturale alla felicit.
Una lunga tradizione interpretativa vede in Cumberland il fondatore dell'utilitarismo.
Tuttavia, se vero che ci sono punti di contatto tra questa forma di consequenzialismo e la
teoria benthemiana, vero altres che per Cumberland il bene da promuovere non solo la
felicit, ma anche la perfezione individuale; inoltre, egli non accenna in alcun modo all'idea
di un calcolo felicifico per valutare gli atti, ma si affida alle norme morali ordinarie; infine,
la sua fondazione ultima indubbiamente di carattere teologico. Cumberland non vuole
promuovere riforme sociali e legislative, ma riformulare il volontarismo evitando
l'arbitrarismo divino.
Tra i consequenzialisti teologici va ricordato anche John Gay, che per primo propone la
definizione dell'obbligo che rester canonica per l'utilitarismo: la necessit di fare od
omettere un'azione per essere felici. Distingue poi quattro fonti dell'obbligo, che
corrispondono a quelle che Bentham chiamer le sanzioni del principio di utilit: quella
naturale, che nasce dal percepire le conseguenze delle azioni in base alle leggi di natura;
quella virtuosa, collegata alla ricerca della stima dei nostri simili; quella civile, che dipende
dall'autorit del magistrato; quella religiosa, che deriva dall'autorit di Dio. Quest'ultima
svolger un ruolo marginale in Bentham, ma per Gay l'unica che obbliga
incondizionatamente, giacch solo Dio pu rendere un uomo totalmente felice o infelice;
perci, la volont di Dio il criterio ultimo della morale. D'altro canto, poich Dio buono
e ha creato l'uomo perch fosse felice, la volont divina non pu che volere la felicit
umana. L'analisi delle tendenze delle varie classi di azioni consente di stabilire che seguire
le norme della morale ordinaria promuove al massimo grado il bene dell'umanit. Tale bene
viene integralmente ridotto alla felicit e quest'ultima definita come una mera somma di
piaceri; l'esito per non una morale egoistica, perch la felicit di ciascuno legata a
quella di ogni altro. Gay fornisce una prima esposizione della dottrina associazionista per
spiegare come dall'edonismo naturale si giunge a ricercare cose diverse dal piacere. Come
infatti il denaro viene dapprima desiderato come mezzo e poi, inconsapevolmente, diventa
un oggetto di desiderio in se stesso, cos accade per le virt: esse nascono come mezzi in
vista della felicit propria per poi diventare dei fini attraverso ripetute associazioni che
generano inclinazioni stabili.
In Gay si ritrovano tutti gli elementi dell'utilitarismo, salvo che la sua fondazione
comunque teologica e non c' traccia dell'idea che il singolo agente debba operare un
genera un'immediata approvazione i certe affezioni e delle azioni che ne derivano. Pur
essendo lontana dal naturalismo associazionista degli utilitaristi, questa concezione
sentimentalista affine all'utilitarismo per la sua insistenza sul fatto che il senso morale
naturalmente approva solo le affezioni di benevolenza; tutte le caratteristiche moralmente
positive sono riconducibili a questo disinteressato amore per gli altro, che fondamento di
ogni virt. Perci, nei casi dubbi, il senso morale approva l'azione che meglio promuove il
bene comune.
Questo conduce Hutcheson alla sua formula di massimizzazione della felicit, secondo la
quale, a parit di grado di felicit prodotta, la virt proporzionale al numero delle persone
cui la felicit si estende, mentre a parit di numeri proporzionale alla quantit di felicit
prodotta: la virt in ragione composta della quantit di bene e del numero di chi ne
gode. Hutcheson per ancora lontano dall'essere un utilitarista. Infatti il suo criterio
normativo l'intenzione dell'agente e non le conseguenze dell'azione: l'intenzione
benefica, non la felicit che ne deriva, a spiegare perch certe azioni siano approvate dal
senso morale. Inoltre, egli identifica la propriet morale non con il piacere sensibile
generato negli individui coinvolti, ma con il piacere estetico che la contemplazione di
affezioni benevole genera nello spettatore imparziale.
Anche l'etica di David Hume presenta parziali analogie con la prospettiva di Bentham e
secondo alcuni Hume a ragione considerato il fondatore dell'utilitarismo. In verit, bench
lo stesso Bentham dichiari che Hume ha dimostrato che ogni virt si fonda sull'utilit, la
posizione del filosofo scozzese molto pi complessa. Hume attribuisce un ruolo centrale
alla simpatia che, analogamente al senso morale di Hutcheson, costituisce il principio delle
distinzioni morali. La simpatia un principio altrettanto originario dell'egoismo e l'etica
nasce da una naturale propensione a simpatizzare con i propri simili. Ci comporta un'enfasi
sui tratti di caratteri altruistici, anche se, diversamente da Hutcheson, Hume non riduce tutte
le virt alla benevolenza. Nell'Enquiry, per, sottolinea con insistenza che l'utilit la
caratteristica principale che conduce ad approvare le azioni e le disposizioni. Criticando le
teorie che riducono la morale all'egoismo, Hume osserva che ci sono casi in cui, bench
l'interesse privato sia contrario a quello pubblico, il sentimento morale continua a sussistere;
ci mostra che anche l'interesse pubblico motiva l'agire umano. Noi simpatizziamo
naturalmente con la felicit dei nostri simili: ci rallegriamo per ci che risulta loro utile e ci
rattristiamo per ci che loro dannoso. Il sentimento morale appunto quella sensibilit alla
felicit umana che ci porta ad approvare le tendenze delle qualit e delle azioni che
apprendiamo come utili; e talvolta Hume sembra sostenere che l'utilit costituisca il fattore
decisivo per le distinzioni morali: sembra che sia questione di fatto che costantemente ci si
appella all'utilit in tutte le decisioni morali che riguardano il merito e il demerito delle
azioni... in una parola, che l'utilit il fondamento della parte principale della morale, che
ha riferimento all'umanit e ai nostri simili.
Nonostante autorevoli opinioni contrarie, nemmeno Hume pu per essere considerato un
utilitarista. In primo luogo, perch anch'egli sostiene che i giudizi morali dipendono dalle
tendenze delle azioni e dei caratteri, non dalle loro conseguenze effettive; occorre infatti
considerare il ruolo della fortuna nelle vicende umane, per cui, sebbene venga stimato
maggiormente chi effettivamente utile alla societ, lodiamo anche chi si limiti a palesare
buone intenzioni e sentimenti benevoli. Inoltre, egli considera l'utilit una delle fonti della
lode, e anche l'unica sua fonte per quanto riguarda le virt artificiali, ma non per le virt
naturali, che si fondano sulla benevolenza e sulla simpatia, le quali operano
indipendentemente dall'utilit. Ancora, Hume dice che l'utilit piace e sembra intendere
l'intrinseca appropriatezza dei tratti di carattere utili a s o agli altri in un senso estetico, pi
angusta della vita, la riempie di dolcezza, invece di limitare la felicit a questa vita, la
estende a quella futura.
Una societ di cristiani infinitamente migliore di una di stoici: in questa, il filosofo ignora
la dolcezza dell'amicizia e fa consistere la sua perfezione nell'occupare una botte pi
angusta di quella del vicino; in quella, ciascuno, lieto per la felicit altrui, allo stesso modo
contento di ricevere aiuto quanto infelice.
Maupertuis presenta una visione filosofica del cristianesimo, in base alla quale non occorre
ritenerlo divino per accettarne i precetti, ma sufficiente voler essere felici e vivere bene.
Questa dimensione religiosa separa indubbiamente Maupertuis da Bentham. Maupertuis
spiritualista, crede nell'esistenza dell'anima e polemizza con i materialisti come La Mettrie, i
quali riducono le fonti di felicit ai soli piaceri del corpo; crede inoltre nel libero arbitrio e
contesta l'immagine meccanicistica dell'uomo; infine, la sua enfasi cristiana sull'amore e
sulla solidariet universale lo porta oltre l'identificazione tra moralit e convenienza.
Nondimeno, l'idea di un'aritmetica morale viene presentata per la prima volta in maniera
esplicita nella sua opera; il suo edonismo di tipo quantitativo, come quello benthemiano; e,
a differenza del consequenzialismo teologico britannico, egli non coinvolge Dio n come
fondamento del dovere morale, n come suo sanzionatore, n come autore del calcolo
felicifico. Nelle sue varie genealogie del principio di utilit, Bentham trascura
costantemente l'opera di Maupertuis. Nel complesso, Bentham biasima Maupertuis per aver
fornito una prospettiva malinconica sulla vita umana, il che, nuovamente, non del tutto
vero se si guarda a come si conclude il suo saggio. La svalutazione di Maupertuis da parte
degli utilitaristi risponde probabilmente a interessi di tipo strategico: come con i
consequenzialisti teologici, Bentham e i suoi seguaci erano interessati a recidere ogni
legame tra la loro prospettiva di una nuova morale e qualsiasi forma di etica religiosa, anche
quelle da cui avevano tratto parte della loro ispirazione.
Bentham si richiam invece alla corrente pi radicale dell'illuminismo francese che
difendeva una morale naturale, libera dalla religione. Questi autori pongono l'interesse
individuale come elemento centrale di una spiegazione scientifica delle motivazioni umane
e concepiscono l'etica come passaggio dall'interesse egoistico a quello sociale. Nella Fable
of the Bees, Bernard Mandeville aveva sostenuto che tale passaggio dipendesse da un
artificio dei legislatori i quali, non potendo sottomettere le inclinazioni naturali degli uomini
con la sola forza e volendo renderli docili per governarli pi facilmente, li ricompensano
con la pubblica lode per ogni violenza che essi esercitano sulle proprie passioni: la morale si
appoggia perci su camuffamenti di motivi egoistici, e la prosperit collettiva il frutto dei
peggiori vizi privati. Una simile insistenza su una psicologia egoistica e sull'imperativo
della felicit sociale si riscontra in Helvetius, l'autore a cui Bentham collega esplicitamente
la propria ispirazione fondamentale.
Nell'opera De l'esprit, Helvetius affermava l'universale potere motivazionale di piacere e
dolore e poneva l'amore di s a fondamento di una morale razionale.
Helvetius accetta come motivi per le azioni solo cause fisiche; la ricerca del piacere e la
repulsione per il dolore sono per l'universo morale ci che le leggi del moto sono per il
mondo fisico. Perci, l'unico modo per rendere virtuosi gli uomini unire l'interesse
personale a quello generale; attraverso una sorta di aritmetica della politica, governanti e
legislatori devono indirizzare tali movimenti verso la massima utilit pubblica, obiettivo e
fondamento di ogni legislazione. La morale, intesa come armonia degli interessi privati,
nasce dalla necessit di un sistema di regole per perseguire al meglio l'interesse individuale
e collettivo. La virt l'abitudine a compiere azioni utili alla propria nazione; suo fine il
bene pubblico e le azioni che essa comanda sono i mezzi di cui si serve per realizzare quel
fine. Non esiste una virt indipendente dal tempo e dai regimi politici, perch ci che utile
per una societ pu non esserlo per altre e ci che utile oggi pu non esserlo domani ;
tuttavia la virt non arbitraria poich mira in ogni caso alla felicit generale.
Helvetius distingue tra le virt di pregiudizio, che sono spesso scrupolosamente praticate ma
non contribuiscono al benessere generale, e le virt vere, quelle utili alla societ; distingue
poi tra la corruzione religiosa, ossia il libertinaggio, che compatibile con la grandezza e la
felicit di uno stato, e la corruzione politica, ossia la separazione tra interesse individuale e
interesse collettivo, che invece ne costituisce la rovina. Benessere e utilit social
presuppongono la modifica delle leggi, che celano i vizi di un popolo e mantengono in vita
le virt di pregiudizio; il legislatore non pu fondarsi su principi religiosi, che possono
condurre a vere e proprie crudelt, ma deve far leva sull'interesse personale per costringere i
cittadini alla giustizia. Gli uomini non nascono n buoni n cattivi, ma disposti a essere
entrambe le cose, a seconda del loro interesse; occorre conoscerne le passioni, per spingerle
a produrre frutti di virt e di saggezza.
da Helvetius che Bentham riprender l'idea di una riforma morale della societ
impostatasulla convergenza tra utilit individuale e collettiva propiziata dal legislatore;
mancano per in Helvetius elementi centrali dell'utilitarismo, come l'idea precisa di un
calcolo edonistico, l'analisi di diversi tipi di piacere e una dottrina delle sensazioni
sviluppata. L'affermazione benthemiana secondo cui Helvetius sarebbe stato la fonte
principale del suo pensiero sembra dipendere pi dalla posizione di critica assunta dai
philosophes francesi nei confronti della morale dominante che da una piena consonanza
delle loro dottrine con la prospettiva utilitarista.
L'idea che la felicit generale fosse lo scopo della morale, e ancora pi lo scopo che il
legislatore deve perseguire attraverso le sanzioni, era diffusa anche presso gli illuministi
italiani. Un'espressione molto esplicita di questa idea si trova in Cesare Beccaria che pone a
fondamento della legislazione la formula di Hutcheson: le leggi, scrive, dovrebbero essere
dettate da un freddo esame della natura umana che consideri le azioni di una moltitudine di
uomini dal punto di vista della massima felicit divisa nel maggior numero. La traduzione di
questo passo parla della greatest happiness of the greatest number; e bench Bentham
dichiari di ricavare questa formula dagli scritti di Priestly, in essi non mai menzionata
esplicitamente e l'opera di Beccaria con ogni probabilit il luogo da cui egli la trasse.
Come Helvetius, Beccaria considera l'interesse privato una forza analoga alla gravit, che il
legislatore deve sapientemente temperare, indirizzandola al rafforzamento dell'edificio
sociale; come un saggio architetto, deve provvedere a che il suo edificio sorga sulla base
dell'amor proprio, e l'interesse generale sia il risultato degli interessi di ciascuno. Bentham
riconosce il contributo di Beccaria alla formulazione del suo sistema, osservando che egli
pu, a buon diritto, essere chiamato il padre della giurisprudenza critica.
La formula di Beccaria sembra evitare il problema di richiedere la massimizzazione di due
variabili non indipendenti; massimizzare la felicit aggregata pu significare restringerne
l'estensione, mentre ampliare il numero dei beneficiari pu ridurre il saldo complessivo. In
particolare, se si dice che il principio di utilit comanda di massimizzare la felicit della
maggioranza, si finisce per diminuire la felicit aggregata nei casi in cui un piccolo
incremento di benessere per la maggioranza comporti un grave peggioramento per una
minoranza. Questa difficolt du percepita dallo stesso Bentham, che a un certo punto
elimin il riferimento al secondo massimizzando, riformulando il suo principio
semplicemente come principio della massima felicit. Beccaria, invece, non affermava che
andasse massimizzata la felicit della maggioranza, ma piuttosto la felicit aggregata, per
poi dividerla nel maggior numero di persone.
obblighi e rafforzare le prescrizioni dell'etica privata. L'arte della legislazione e del governo
si rivolge a un decisore pubblico, dotato di un ruolo politico; la deontologia privata si
rivolge a ogni individuo. Bentham si dedica soprattutto alla prima, anche se vuole mostrare
la convergenza e il reciproco sostegno tra le due. Entrambe mirano infatti a realizzare la pi
ampia felicit possibile nelle rispettive sfere ed entrambe sono governate da un unico
principio, quello di utilit. Nel Fragment on Government Bentham introduce il principio per
cui la pi grande felicit per il maggiore numero di persone quella che d la misura del
giusto e dell'ingiusto, come filo conduttore di una riforma del mondo morale che dovr
affiancarsi al progresso nelle scienze naturali.
Bentham vuole commentare ci che la legge alla luce di ci che dovrebbe essere,
facendosi guidare dalla tendenza o divergenza delle azioni rispetto al fine della felicit, ossia
dall'utilit e dal danno: con utilit possiamo indicare un principio, che pu servire a
presiedere e a ed a dirigere, per cos dire, quella sistemazione che sar fatta di alcune
istituzioni, o combinazioni di istituzioni, che compongono la natura di questa scienza; ed
questo principio ed esso solo che pu rendere soddisfacente e chiara ogni sistemazione che
pu essere fatta di esse. L'utilit l'unico criterio empirico e immediatamente chiaro per
giudicare della bont delle leggi.
Il primo capitolo della Introduction fornisce un'esposizione un poco pi ampia dell'etica
utilitarista. Osserviamo che Bentham presenta l'utilitarismo come il sistema che riconosce
questa verit fondamentale e, anzich cercare di spacciare rumori per suoni sensati,
capriccio per ragione, oscurit per la luce, si propone di innalzare l'edificio della felicit per
mezzo della ragione e della legge. Utilit, chiarisce ancora Bentham, e sinonimo di
beneficio, vantaggio, piacere, bene e felicit, come danno lo di dolore, male e infelicit.
Nell'edizione del 1789 Bentham parla di principio di utilit, anche se, in due note aggiunte
nel 1822, dichiara di preferire la dizione principio della massima felicit, perch la parola
utilit non si riferisce cos chiaramente alle idee di piacere e dolore, come invece le parole
felicit ed eudaimonia e inoltre non ci porta a considerare il numero degli interessi toccati,
che la circostanza che contribuisce in proporzione maggiore alla formazione del criterio
qui in questione, cio il criterio del giusto e ingiusto. Osservazioni analoghe sono riprese
nell'articolo sull'Utilitarismo: utilit sembra suggerire l'approvazione di qualunque cosa
contribuisca a un qualunque fine, mentre l'approvazione va riservata a ci che contribuisce
alla felicit umana considerata in maniera aggregata, al massimo di felicit goduta
dall'aggregato composto dai molti membri di cui si compone la comunit in questione;
inoltre, preferibile parlare del principio della massima felicit, perch aggiungere del
massimo numero pu portare a privilegiare la felicit della maggioranza a scapito della
minoranza, con il risultato che, nei casi in cui le sofferenze di quest'ultima siano consistenti,
la felicit totale non viene affatto massimizzata. Occorre perci tenere conto del benessere
di tutti, mirando a produrre la massima felicit aggregata possibile di maggioranza e
minoranza. Va osservato che, pur enfatizzando l'obiettivo della massima felicit, Bentham
non sembra implicare che un'azione vada approvata solo se produce una quantit di felicit
almeno pari a ogni altra disponibile; il principio di utilit, egli dice, approva o disapprova
qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ed aumentare o diminuire
la felicit della parte il cui interesse in questione e un'azione conforme a esso quando la
sua tendenza ad aumentare la felicit della comunit maggiore di ogni sua tendenza a
diminuirla. Sembra di poterne evincere che, a differenza di quanto si sostiene nella
discussione contemporanea, Bentham non ritiene semplicemente sbagliato ogni atto che non
promuova la felicit complessiva al massimo grado; sbagliato solo un atto la cui tendenza
complessiva contraria alla felicit generale. Bentham non offre alcuna prova del suo
principio, sia perch pensa che non possa essere provato da nulla di pi fondamentale, sia
perch darne una prova inutile, dato che tutti lo abbracciano. Esso ammette soltanto la
prova indiretta che consiste nel mostrare l'inanit dei principi che vi si oppongono. Bentham
distingue tali principi in due classi: quelli che si oppongono costantemente all'utilit, come il
principio dell'ascetismo, e quelle che vi si oppongono solo in parte, come il principio della
simpatia e dell'antipatia. Sotto la prima classe, Bentham critica la posizioni che approvano
le azioni in base alla loro tendenza a diminuire la felicit umana; in ci, le etiche religiose si
sarebbero spinte fino a rendere meritoria la ricerca del dolore, quelle filosofiche solo fino a
respingere il piacere, sostituendolo peraltro con sinonimi come onore, gloria o convenienza.
Secondo Bentham, questi sistemi nascono dal tentativo di difendersi dalle conseguenze
spiacevoli di taluni piaceri e non sono che cattive applicazioni del principio di utilit. Il
principio della simpatia e dell'antipatia, invece, approva o disapprova le azioni sulla base
dell'innata tendenza umana ad approvare e disapprovare. Non si tratta di un vero e proprio
principio, ma dell'affermazione che non necessario alcun principio: infatti, quello che ci si
aspetta di trovare in un principio qualcosa che dia qualche indicazione esterna per
giustificare e guidare i sentimenti interni di approvazione e disapprovazione. Questa attesa
mal corrisposta da una proposizione che non fa altro che presentare ciascuno di quei
sentimenti come motivazione e criterio in se stesso. Secondo Bentham, quasi tutti i sistemi
etici moderni si possono considerare varianti di questo principio: non solo la teoria del senso
morale ma anche quella del senso comune, l'intuizionismo razionale e la teoria della legge
di natura. Queste teorie non indicano dei criteri, ma chiedono semplicemente che ci si affidi
ai loro verdetti; perci tanto varrebbe dichiarare di essere degli eletti, detentori della
rivelazione divina sulla morale. Il principio teologico, invece, non un principio
indipendente, perch, se si esclude che la volont di Dio sia tutta contenuta nella
rivelazione, l'unico modo per determinarla adottare l'uno o l'altro dei sistemi che
pretendono di spiegare che cosa sia giusto. Piacere e dolore sono quindi le cause finali
dell'agire, ci che rende giuste e doverose le azioni; ma essi sono anche le uniche forze che
spingono ad agire, per cui sono al tempo stesso cause efficienti. Ci sono quattro fonti
principali di piacere e dolore, che Bentham chiama sanzioni in quanto forniscono forza
vincolante alle leggi: la sanzione fisica, ossia i piaceri e dolori derivanti dal corso naturale
delle cose; la sanzione politica, ossia quelli che dipendono dal magistrato civile; la sanzione
morale o popolare, che nasce dal giudizio degli altri uomini; la sanzione religiosa, che
deriva da un essere superiore. Bentham individua poi sette tipi di circostanze che
contribuiscono a determinare la quantit di piacere. Quattro fanno riferimento al valore del
piacere in s e sono la sua intensit, la sua durata, la sua certezza o incertezza, la sua
vicinanza o lontananza; se si considera poi il piacere in rapporto con altre sensazioni, vanno
aggiunte la sua fecondit e la sua purezza, ossia la probabilit di produrre sensazioni
ulteriori del medesimo tipo e il non essere seguito da sensazioni di tipo opposto; infine,
occorre aggiungere l'estensione del piacere, ossia il numero di persone che ne partecipano.
Il calcolo aritmetico della felicit complessiva realizzabile attraverso ogni singolo corso
d'azione, e quindi la misurazione cardinale dell'utilit di ogni atto, il modello di
deliberazione razionale cui dovrebbe ispirarsi il legislatore, anche se Bentham ammette
l'impossibilit di operare in ogni caso tutti i calcoli. Tale impossibilit ancora pi chiara se
si tiene conto che Bentham distingue ulteriormente tra piaceri semplici e piaceri complessi e
solo dei primi enumera 14 tipi, procedendo poi a successive classificazioni.
Gli esseri umani, poi, presentano diverse disposizioni circa il modo in cui la loro mente
stimolata al piacere e al dolore da una medesima causa.
Parlando di tipi di piaceri Bentham non intende riferirsi a qualche differenza nelle loro
qualit fenomeniche, ma solo alla diversa fonte da cui traggono origine. Egli concepisce
piacere e dolore come stati mentali semplici, non ulteriormente analizzabili,
immediatamente conoscibili attraverso l'introspezione. In questo senso, tutti i piaceri e tutti i
dolori sono dotati della medesima piacevolezza e dolorosit, perch vi un'unica unit di
misura della loro intensit: piaceri e dolore sono nomi di entit reali omogenee.
La presentazione benthemiana dell'utilitarismo si presta a varie considerazioni critiche, in
primo luogo, la sua confutazione delle teorie morali precedenti lungi dall'essere
convincente e a tratti pare rivolta contro obiettivi artificiali e caricaturali. Soprattutto la
discussione dell'ascetismo decisamente tendenziosa. Da un lato, dubbio che l'obiettivo
polemico costruito da Bentham non sia il mero frutto della sua immaginazione; dall'altro,
negare che il piacere costituisca l'unico valore intrinseco, o anche negare che sia un valore
tout court, non significa accettare che la ricerca del dolore sia un bene: le due tesi sono del
tutto diverse, mentre Bentham le identifica esplicitamente affermando che chiunque biasimi
anche la minima particella di piacere in quanto tale, qualunque ne sia l'origine, pro tanto
un seguace del principio dell'ascetismo.
In secondo luogo, vari problemi affliggono l'idea di un calcolo edonistico. In particolare, la
tesi dell'omogeneit di piaceri e dolori sottovaluta radicalmente le preferenze soggettive.
In un manoscritto databile attorno al 1782 Bentham propone il denaro come unit di misura:
il prezzo che si disposti a pagare per un certo bene sarebbe un indice affidabile della
soddisfazione che se ne trae.
molto dubbio, per, che i piaceri siano tutti cos facilmente monetizzabili e lo stesso
Bentham parla di valori idiosincratici che sarebbero appunto irriducibili a un'unit di misura
soggettiva. Inoltre, sebbene alcuni fattori del calcolo edonistico, come la durata e
l'estensione, siano facilmente misurabili e bilanciabili, per altri ci implica scelte soggettive.
Inoltre, la vicinanza o la lontananza di un piacere sembrano avere rilievo solo in ordine alla
sua certezza, dato che la lontananza lo rende pi incerto; una volta ammesso che un piacere
sia certo, si potrebbe negare che la sua vicinanza o la sua lontananza posseggano un valore
indipendente. L'impossibilit di stime oggettive di questi fattori sembra rendere
impraticabile il calcolo edonistico.
Un terzo aspetto controverso della conversazione benthemiana che il suo ideale
imparzialista ed egualitario presuppone la confrontabilit interpersonale delle utilit, la
quale per sembra esclusa dalla soggettivit degli stati mentali di piacere e dolore.
Un ultimo elemento problematico l'enfasi unilaterale sulla massimizzazione dell'utilit
aggregata, a scapito dell'equit distributiva. Ma l'obiettivo della massima felicit non
implica ancora alcuna idea di equit distributiva: uno stato finale dotato di maggiore utilit
aggregata andrebbe comunque preferito a uno che ne contiene di meno, anche se nel primo
vi fossero enormi differenze nei livelli di felicit o benessere individuali; e a parit di
felicit totale non ci sarebbero ragioni per preferire una distribuzione equa a una iniqua.
Bentham non esclude affatto il rilievo di imparzialit, non solo perch gli interessi di
ciascuno contano allo stesso modo, ma anche perch la distribuzione deve essere il pi
possibile equa. In effetti, l'equit espressamente citata, assieme alla sicurezza, la
sussistenza e l'abbondanza, tra i fini secondari che il governo deve perseguire in vista della
massima felicit; il che significa che la massima felicit aggregata tende a identificarsi con
il godimento di un'eguale quantit di felicit da parte di ogni membro della comunit.
Ci non toglie che, data la diversa capacit di godere delle fonti di piacere, la
massimizzazione della felicit complessiva possa talvolta comportare una distribuzione
ineguale, che sacrifica il benessere di qualcuno. Tale sacrificio per limitato, da un lato,
dall'asimmetria tra piacere e dolore che fa s che gli esseri umani avvertano con pi forza
dolori anche minimi, mentre sono meno sensibili a minimi incrementi di piacere; dall'altro
dall'asimmetria tra piacere dell'acquisizione e dolore della perdita, dove quest'ultimo risulta
nuovamente superiore. Questa duplice asimmetria, unita all'enfasi prioritaria sulla sicurezza
tra i fini secondari, limita i sacrifici individuali in vista dell'utilit aggregata, ma vincola
anche l'intervento redistributivo del governo. Bentham riteneva una piena uguaglianza
irrealizzabile e pericolosa per la sussistenza del corpo sociale, la produzione di ricchezza e
la difesa della propriet. Anche nella sua fase democratica, perci, concep la democrazia
politica come un mezzo per poter proteggere la propriet dai pochi che governano piuttosto
che per redistribuirla. D'altro canto, il suo interesse prioritario per l'etica pubblica lo porta a
sottolineare l'importanza di norme stabili che definiscano le reciproche attese da parte dei
cittadini e predispongano le condizioni di sicurezza e di fiducia che consentono a ciascuno
di massimizzare il proprio benessere.
La teoria psicologica e la teoria della virt
La morale degli utilitaristi la loro psicologia economica posta all'imperativo: questa
affermazione di Halevy, riassume bene l'ambiguo nesso tra descrizione e prescrizione che
costituisce un problema centrale nel sistema benthemiano. Infatti, se da un lato il principio
di utilit ha la funzione normativa di prescrivere la massimizzazione della felicit
universale, dall'altro descrive la struttura motivazionale umana, caratterizzata dalla ricerca
del piacere e dalla fuga del dolore. Nel paragrafo iniziale dell'Introduction, gli esseri umani
sono descritti come del tutto soggiogati da questi due supremi padroni ed chiaro che la
ragione e la legge, nell'innalzare l'edificio della felicit, agiscano come schiave delle
passioni. La forza con cui Bentham sostiene l'edonismo e l'egoismo psicologici sembra
rendere futile ogni asserto normativo: dire che dobbiamo perseguire il piacere ed evitare il
dolore superfluo, se si tratta di ci che comunque non possiamo non fare; e dire che
dobbiamo massimizzare la felicit di tutti sembra poco plausibile se l'interesse autocentrato
gode di un'assoluta priorit. D'altro canto, il dominio incondizionato delle motivazioni
autocentrate sembra essere empiricamente falso, data l'indubbia esistenza di comportamenti
benevoli e simpatetici.
Per chiarire il problema occorre considerare con pi attenzione la psicologia benthemiana.
Bentham distingue i moventi, intesi come forze che possono condurre a compiere un atto o
ad astenersene, dalle intenzioni, ossia dalla volont di compiere un certo atto o produrre
certe conseguenze: il movente pu essere buono quando l'intenzione cattiva, l'intenzione
buona quando il movente cattivo. L'intenzione cattiva quando l'agente vuole produrre
conseguenze dannose, ma pu essere innocente se manca la consapevolezza di qualche
circostanza che determina la dannosit delle conseguenze, oppure quando vi sia un'errata
previsione di circostanze che avrebbero potuto prevenire o attenuare il danno. I moventi
sono in ogni caso costituiti dalla percezione interna di certi piaceri e dolori o di eventi
esterni che si ritiene causino percezioni piacevoli o dolorose. I diversi tipi di moventi
corrispondono ai diversi tipi di piaceri e dolori; e poich nessun piacere di per se stesso
cattivo, n alcun dolore buono, in senso stretto non esiste qualcosa come un tipo di movente
che sia in se stesso cattivo. Se nel linguaggio ordinario si parla di moventi buoni o cattivi,
perch ci si riferisce ai diversi tipi di effetti che essi possono generare: infatti, a ogni
movente si possono associare intenzioni e atti molto diversi, che possono essere buoni o
cattivi. Per questo opportuno tenere distinto il movente nella sua forma neutrale dalla
caratterizzazione che vi associa un'approvazione o disapprovazione la quale, di per s, spetta
piuttosto agli atti e alle conseguenze in cui il movente si traduce. I moventi vanno
classificati in sociali, antisociali e riferiti a se stessi; tra i primi, sono centrali quelli della
benevolenza, i quali coincidono con maggiore certezza con i dettami del principio di utilit.
I moventi semisociali della reputazione e del desiderio di amicizia tendono anch'essi a
coincidere con i dettami dell'utilit, ma in misura minore: i primi agiscono con forza solo
nel contesto pubblico, i secondi conducono comunque a una benevolenza pi ristretta.
Il ripetuto effetto di certi moventi nel generare azioni conduce a una disposizione, ossia a
una tendenza stabile a compiere certi tipi di azione. Le disposizioni sono dette buone o
cattive in ragione delle conseguenze che tendono a produrre sulla felicit di chi le possiede o
su quella degli altri. L'esistenza delle disposizioni si evince dagli atti compiuti e dipende da
due circostanze: la tendenza apparente dell'atto e la natura del movente che lo ha generato.
possibile che una disposizione sia buona, o per lo meno non cattiva, anche se la tendenza
dell'atto cattiva, purch il movente sia di tipo sociale o almeno semisociale. Le
disposizioni di un uomo dipendono dalla sua sensibilit a certi tipi di moventi e quindi dalla
qualit delle intenzioni che tende ad adottare.
Nella Table of the Springs of Action Bentham articola ulteriormente la sua psicologia
morale. Egli individua cinque fondamentali entit psicologiche fittizie: 1) desideri e
avversioni; 2) mancanze o bisogni; 3) speranze e paure; 4) motivi e 5) interessi. Le entit
reali cui questi termini fanno riferimento sono piacere e dolore, le uniche entit da noi
immediatamente percepibili: perfino la nostra mente e il nostro corpo, osserva Bentham,
sono entit inferenziali rispetto a queste sensazioni che sono gli unici oggetti immediati di
esperienza. Sulla base di questa struttura, la tavola di Bentham enumera 14 tipi di dolori e
12 di piaceri, a ciascuno dei quali corrisponde un certo tipo di interesse; piaceri e interessi
pi semplici possono comporsi tra loro, dando luogo a realt psicologiche pi complesse.
Gli interessi producono desideri e avversioni, entit psicologiche di carattere ancora
generico che si specificano poi nei motivi, che fanno riferimento a un qualche tipo di
azione: un motivo non che la paura di un certo dolore, o la speranza di un certo piacere;
piacere e dolore che agisce come sorgente di un'azione. Nessuna di queste realt
psicologiche in se stessa buona o cattiva; i motivi per possono essere accompagnati da
un'idea di approvazione da parte di chi parla, nel qual caso si dicono eulogistici, o di
disapprovazione, nel qual caso sono detti dislogistici, o infine possono essere neutrali, ossia
non accompagnati da alcun sentimento positivo o negativo. Ad esempio, ai piaceri e dolori
derivanti dalle ricchezze corrisponde l'interesse pecuniario, cui si collegano il desiderio di
benessere e l'avversione per la povert; questi danno luogo a motivi neutrali come il bisogno
di mezzi di sussistenza, eulogistici come l'economia e la frugalit, dislogistici come
l'avarizia, la taccagneria e la venalit.
Alla base delle regole morali e giuridiche deve stare una dettagliata analisi delle forze
psicologiche in gioco; infatti, poich il bene il piacere, il bene morale un bene
patologico, nella misura in cui la volont umana viene considerata strumentale nel produrlo.
Tutti i concetti morali devono perci essere ridotti agli stati mentali semplici di piacere e
dolore, senza i quali ogni affermazione di virt e vizio si riduce a una pura espressione di
approvazione priva di fondamento. Per Bentham, in sostanza, nessuna azione volontaria
disinteressata, poich nessuna senza motivo e tutti i motivi nascono dall'interesse.
Pur affermando la preminenza dell'interesse autocentrato nella vita umana, Bentham
sottolinea la necessit dei motivi sociali per controllare e frenare i possibili eccessi dei
motivi autocentrati e antisociali, che tendono a pregiudicare il benessere generale.
Proprio la dimostrazione della coincidenza tra interesse e dovere lo scopo centrale della
Deontology. Nel consequenzialismo teologico, egoismo psicologico e benevolenza
universale erano riconciliati dall'associazionismo piscologico, che trasforma motivi egoistici
in motivi altruistici, e dalla sanzione divina, che rende certa, nel lungo periodo, la
coincidenza tra moralit e prudenza. Nel quadro teorico dell'Introduction, questa
coincidenza si realizzava invece grazie all'opera artificiale de legislatore che, mediante un
abile utilizzo della sanzioni, pu ottenere dai cittadini comportamenti conformi all'utilit
generali anche quando il nesso con la felicit individuale non evidente. Se per la
coincidenza si realizzasse solo con questo intervento artificiale, il principio di utilit non
potrebbe vantare il carattere di universalit che Bentham gli attribuisce; o meglio, il
principio comanderebbe uno scopo diverso nei due ambiti: la felicit generale dell'etica
pubblica, quella individuale dell'etica privata.
La Deontology, presentando l'utilitarismo come un'etica privata, cerca di dare una soluzione
all'antinomia, giustificando il nesso tra interesse e dovere. La Deontology comincia
riaffermando che l'interesse, ossia la ricerca del piacere e la fuga del dolore, sempre l'unico
e determinante motivo dell'agire umano; ripropone inoltre il principio della massima felicit,
introducendo i nuovi termini di benessere e malessere, che secondo Bentham indicano con
maggiore precisione la differenza di valore fra la somma dei piaceri di ogni genere e la
somma dei dolori di ogni genere che un uomo ha sperimentato fino a un certo momento;
aggiunge poi una critica alle teorie del sommo bene che lo identificano con qualcosa di
diverso dal piacere e una critica alla religione e al suo abuso come causa di immoralit.
Circa il rapporto tra interesse e dovere, Bentham sostiene in primo luogo che ognuno il
miglior giudice di ci che porta al proprio benessere; perci, in linea generale, ciascuno
dovrebbe perseguire direttamente la propria felicit. Questo per non significa escludere la
benevolenza e la considerazione del benessere altrui. Infatti, ci sono almeno tre
considerazioni che inducono a vincolare la ricerca del proprio interesse immediato: in primo
luogo, la considerazione di altri beni, presenti o futuri, che ne verrebbero intaccati; inoltre,
la considerazione degli effetti negativi derivanti dalla vendetta dei membri della societ che
ne risultassero danneggiati; infine, la considerazione della tendenza dell'azione a produrre
dispiacere a una parte della comunit. A questo riguardo, Bentham introduce, accanto alla
sanzione morale che opera in quanto l'agente membro di una comunit, un'ulteriore
sanzione che opera indipendentemente dal contesto sociale e a cui d il nome di sanzione
apolitica; questa quinta sanzione viene ulteriormente distinta in sanzione retributiva e in
sanzione simpatetica/antipatetica: nel primo caso, fa riferimento a qualche piacere o dolore
ricevuto in precedenza, spingendo a evitare la ritorsione; nel secondo agisce in maniera del
tutto indipendente, disponendo ad alleviare i dolori altrui. La sanzione morale, quella
retributiva, quella simpatetica e infine anche il desiderio di amicizia sono tutti moventi in
grado di raccomandare la benevolenza anche se si presuppone la prevalenza originaria
dell'interesse autocentrato. D'altro canto, la sanzione simpatetica determina nel soggetto un
piacere connesso al benessere altrui e un dolore connesso al suo malessere, dal momento
che pochi uomini possono contemplare il dolore sofferto o che si suppone sofferto da un
loro simile senza alcun disagio, per lo meno, se richiamato in un modo ravvicinato e
particolare alla percezione o all'immaginazione. Di questo disagio la sede nominale
costituita dagli affetti simpatetici, e il suo nome dolore da simpatia. Inoltre, ogni atto di
benevolenza contribuisce a formare un abito corrispondente; perci quanto pi si radica
nell'individuo un simile abito, tanto pi intenso il sentimento di autocompiacimento che
esso tende a diffondere nel complesso dell'atteggiamento morale. Non solo la benevolenza
produce un piacere immediato per chi la pratica, ma genera anche conseguenze positive a
lungo termine: impegnandoti ad agire in favore degli altri produrrai un capitale di simpatia e
buona reputazione, accumulato negli animi degli altri, pronto all'occasione favorevole, a
venire attivato a tuo vantaggio.
Infine, essa produce frutti positivi per la comunit in cui l'agente inserito; ogni atto di
beneficenza va ad accrescere un patrimonio comune di buona volont cui ciascun individuo
pu attingere in molte occasioni, sicch agire con benevolenza rende un uomo pi ricco.
Sulla base del nesso cos stabilito tra interesse e dovere, Bentham pu distinguere le virt in
ragione dei diversi oggetti dell'agire benefico. La virt, in generale, la capacit di
determinare benessere, vuoi per la persone che agisce vuoi per altre persone; tale benessere
proporzionale al piacere prodotto o al dolore evitato. Bentham distingue due grandi virt,
cui tutte le altre si possono ricondurre: la prima la prudenza, che mira al benessere
individuale ed soprattutto la virt intellettuale di perseguire razionalmente l'impulso
all'autointeresse. Essa pu essere autocentrata, se non considera in nessun modo il benessere
altrui, oppure eterocentrata se lo considera in maniera dipendente da benessere proprio.
La seconda virt centrale la beneficenza, ossia la virt che guarda agli affetti delle azioni
sulla felicit altrui; una virt che risiede soprattutto nella volont e negli affetti e che pu
richiedere sacrificio, anzi non propriamente virtuosa se non in quanto ha in s una quota di
sacrificio. Si tratta per di un sacrificio limitato, perch ogni sacrificio va a scapito della
prudenza autocentrata: quest'ultima basta da s sola a stabilire limiti, e relativamente
ristretti, all'esercizio della virt della beneficenza. Vi infine una sfera obbligatoria della
beneficenza; si tratta dei doveri negativi, di astensione dal danneggiare altri, che Bentham
indica con il termine giustizia o meglio, per evitare confusioni con la sfera legislativa, con il
termine probit. Sia l'articolazione tra doveri verso se stessi e verso gli altri, sia quella
dell'obbligazione stretta della probit e obbligazione larga della beneficenza richiamano i
modelli giusnaturalistici, con la differenza che qui anche la giustizia pu essere considerata
un aspetto della beneficenza. Si tratta di una differenza decisiva, giacch, contrariamente
alla alla tradizione giusnaturalistica, per Bentham il dovere largo di beneficenza pu spesso
implicare la violazione di quello stretto di probit.
L'enfasi della simpatia e sulla benevolenza attenua significativamente il problema della
compatibilit tra la psicologia benthemiana e la sua etica normativa. Valutando la sua opera
nel complesso, sembra che l'edonismo psicologico di Bentham non possa dirsi egoismo
psicologico; sebbene infatti la causa efficiente dell'azione sia il proprio piacere, i motivi di
essa non sono confinati al proprio benessere; detto in altri termini, pur essendo sempre
mossi dai propri piaceri o dolori, gli esseri umani perseguono anche piaceri altrui.
L'etica modifica il peso rispettivo dei diversi motivi in gioco, al fine di produrre il risultato
migliore dal punto di vista del benessere in generale. Il sistema benthemiano perci
fondato sull'autointeresse, ma, attraverso l'intervento del deontologo, contribuisce al
benessere universale; l'ideale cui aspira una completa armonia tra motivazioni egoistiche e
regole di benevolenza universale. Questa conciliazione tra autointeresse e benevolenza
universale pu essere difficile nel caso del governante, il quale da un lato utilizza le sanzioni
per ottenere artificialmente l'armonia degli interessi dei governati, ma dall'altro a sua volta
portatore di interessi privati. In un primo tempo Bentham ritenne possibile tenere sotto
controllo i sinistri interessi dei governanti attraverso l'influsso del filosofo utilitarista, per il
quale, secondo l'ideale settecentesco del dispotismo illuminato, immaginava una veste di
consigliere del principe. Una volta convertito alla democrazia, individu invece nei vincoli
posti dall'opinione pubblica e nella costante alternanza alla guida del governo gli strumenti
per limitare il pericolo che i governanti perseguano il proprio interesse a scapito di quello
della comunit.
al principio di utilit. Inoltre, non solo le sanzioni legislative, ma anche quelle morali,
religiose e simpatetiche possono trasformare le ragioni per agire in obblighi; e in base a tali
sanzioni chiaramente concepibile un obbligo di massimizzare il benessere sociale
attraverso il calcolo edonistico, almeno nei limiti in cui ci non sia in conflitto con i diritti
giuridici. Queste osservazioni sembrano gi fornire sufficienti ragioni per vedere in
Bentham un sostenitore di quello che nel linguaggio contemporaneo, si chiama utilitarismo
dell'atto e che in molti casi giustifica un ricorso diretto al calcolo edonistico; se poi ci si
volge alla Deontology questa interpretazione riceve ulteriori conferme. Qui infatti Bentham
afferma che nessun atto pu venire propriamente chiamato virtuoso in alcun senso
ammissibile se non in quanto tende all'accrescimento della somma di felicit; e cos, al
contrario, per il vizio; e aggiunge che scopo dell'opera quello di indicare a ogni uomo, in
ogni occasione, quale linea di condotta prometta di condurlo in massimo grado alla propria
felicit. Non c' alcun passo della Deontology in cui si faccia riferimento a regole generali
per realizzare la felicit, o a un sistema di diritti che vincoli la produzione del benessere
aggregato; anzi, la discussione dell'uomo di principi propone proprio l'esempio negativo di
un individuo che si ostina a seguire le regole anche quando sono in contrasto con l'utilit.
Sembra perci corrette ritenere che il consiglio del moralista pratico serva a delineare il
quadro generale delle tendenze degli appetiti e delle passioni umane per indirizzare i calcoli
felicifici da compiere in ciascuna occasione.
Resta infine il problema della fondazione. Bentham si limita ad affermare l'autoevidenza del
principio di utilit e a sostenere che i principi che vi si oppongono costituiscono palesi
assurdit o opinioni ingiustificate. L'unica ragione positiva in favore del principio sembra
essere il suo naturale collegamento con la concezione antropologica espressa dall'incipit
dell'Introduction: poich gli esseri umani ricercano il piacere e fuggono il dolore, il massimo
piacere universale lo scopo adeguato alla condotta. Questo ragionamento sembra incorrere
in due difficolt, spesso denunciate sotto l'etichetta di naturalismo: da un lato, la riduzione
dei concetti morali alle propriet naturali di piacere e dolore, dall'altro la derivazione del
dover essere dall'essere.
Il primo errore quello rilevato da George Edward Moore, il quale ritiene tutte le teorie
morali che non riconoscono il carattere sui generis del bene colpevoli di una fallacia
naturalistica; l'edonismo di Bentham esposto a questa critica, perch di qualunque stato
piacevole ci si pu sempre chiedere se sia anche buono e la domanda non ha risposta
evidente, ma dipende dalle circostanze. Per Bentham, in effetti, il bene non una qualit
morale distinta dal piacere, ma interamente riducibile ad esso e, nella misura in cui non lo
, privo di significato: chiedersi se un piacere sia buono una domanda priva di senso,
giacch qualsiasi piacere, in quanto piacere, buono. L'affermazione il piacere buono
una tautologia in favore della quale non si pu dare alcuna ragione; il che non implica per
ridurre tutte le affermazioni normative a tautologie, a meno di intendere anche giusto come
identico a produttivo delle migliori conseguenze. Ora, vero che Bentham sostiene che le
parole deve, giusto e ingiusto hanno un significato solo se indicano la conformit al
principio di utilit, ma non sembra che con ci Bentham volesse stabilire il significato di
questi termini, nel qual caso egli finirebbe appunto col dire che ci che conforme al
principio di utilit conforme al principio di utilit. Egli intende invece il principio di utilit
come un sentimento che, quando accompagna un'azione, approva la sua utilit coma qualit
da cui dovrebbe essere diretta la misura dell'approvazione o disapprovazione dell'azione
attribuita. Sembra perci che la tendenza ad aumentare la felicit o l'infelicit causi
l'approvazione o la disapprovazione di un atto e che le parole deve, giusto e ingiusto
indichino appunto tale approvazione o disapprovazione. Se cos, la posizione di Bentham
sensata, a onta di quanto sostiene Moore; il che, peraltro, non toglie che l'identificazione del
bene con il piacere venga semplicemente presupposta.
Il secondo tipo di errore cui ci si riferisce con l'accusa di naturalismo quello denunciato da
Hume per cui si passerebbe senza alcuna dimostrazione dal piano descrittivo della
psicologia a quello prescrittivo dell'etica; Bentham porrebbe a fondamento dell'utilitarismo
la sua convinzione che gli esseri umani di fatto ricerchino solo il piacere. Ora, non solo la
tesi psicologica problematica e non viene dimostrata ma soprattutto la conclusione
identifica indebitamente il fine ultimo di fatto con il fine ultimo di diritto: seppure si volesse
ammettere che ricercare il piacere sia ci che gli esseri umani di fatto fanno, non si sarebbe
dimostrato che costituisca anche ci che essi debbono fare. Sembra per difficile attribuire a
Bentham questa posizione, dato che egli si premura spesso di distinguere tra dimensione
normativa e dimensione descrittiva; anzi la distinzione in questione il punto centrale della
sua critica al giusnaturalismo e ai diritti naturali, che costituisce un elemento qualificante
dell'intera sua opera. Inoltre, in un passo della Chrestomathia, Bentham richiama l'is-ought
paragraph di Hume, dichiarando di averlo considerato un'osservazione di importanza
capitale per l'etica, fin da quando lesse il Treatise per la prima volta molti anni prima: Ad
ogni sguardo, dal quale questi due oggetti [l'essere e il dover essere] non sono stati
completamente separati l'uno dall'altro, l'intero settore dell'etica deve sempre essere stato, e
sempre rester, un labirinto privo di indizi. Infine, sia nel Constitutional Code sia nella
seconda prefazione alla seconda edizione del Fragment, Bentham dice chiaramente che,
mentre il principio della massima felicit dichiara il fine, ci che deve essere, quello
dell'universale preferenza di s indica ci che , o meglio l'ostacolo che si frappone al
perseguimento di quel fine; sicch si rende necessario un terzo principio che indichi come
realizzare l'unione degli interessi per accordare ci che con ci che deve essere. Il
principio etico non si limita a canonizzare una descrizione psicologica, sia perch impone di
superare la preferenza di s in vista della massima felicit generale sia perch impone di
razionalizzare la stessa ricerca dell'interesse individuale, per massimizzarlo a lungo termine.
In questo senso, si pu rileggere anche l'incipit dell'Introduction, sottolineando che esso
parla di assumere la descrizione psicologica a fondamento del sistema: si tratta dunque di
una decisione normativa, indipendente dall'analisi psicologica e non ricavabile da quella, e
che pertanto evita l'errore denunciato da Hume.
Se per non l'edonismo psicologico a fondare il principio di utilit, le ragioni in suo favore
si riducono, da un lato, al consenso su di esso da parte di molti philosophes, che contribuiva
a renderlo, per Bentham, semplicemente evidente, dall'altro alla problematica dimostrazione
indiretta del suo valore, rispetto ad altri candidati come il principio della simpatia. Tale
dimostrazione, per, evidenzia tutt'al pi che l'utilit pu essere un principio fondamentale,
senza in alcun modo mostrare che sia l'unico o il miglior principio possibile. Non solo
Bentham non ha analizzato tutte le teorie che sono stata formulate, o che potrebbero essere
formulate, ma non ha nemmeno seriamente confutato quelle che ha preso in considerazione.
Pertanto, lecito concludere che l'utilitarismo resti privo di un'effettiva giustificazione.
CAPITOLO TERZO Il radicalismo filosofico
L'utilitarismo imparzialista di William Godwin
L'Introduction di Bentham pass largamente inosservata, e non venne ristampata fino al
1823; grande eco ebbe invece, nel 1793, l'Enquiry Concerning Political Justice di William
Godwin. Espressione paradigmatica del radicalismo morale e politico suscitato dalla
che io sia contento di morire. Le regole morali sono eterne e immutabili; non c' che un
modo giusto per agire ed anche il modo in cui necessariamente sceglieremo di agire, se ci
lasciamo influenzare dalla ragione, perch i nostri giudizi producano in maniera
deterministica le nostre azioni. Al pari di Bentham, Godwin nega che gli esseri umani siano
l'origine autonoma delle loro azioni, e perci che i concetti di virt e merito morali, intesi
come collegati al libero arbitrio, abbiano un senso. Gli esseri umani non sono che i veicoli
attraverso cui operano certe cause e tra queste vi anche la mente umana con le sue
credenze; si pu dunque parlare di atti volontari o involontari in rapporto al ruolo svolto
dalle credenze dell'agente nel causare l'azione. La virt la qualit di un carattere che ha
una disposizione a produrre atti felicifici, da definire in base al calcolo dei piaceri: se la
scelta tra avvantaggiare me stesso o altre venti persone, devo optare per la seconda
soluzione, perch a parit di altre condizioni, venti venti volte meglio di uno. Chi non
governato dall'aritmetica morale del caso, o agisce in base a una disposizione direttamente
in contrasto con quell'aritmetica, ingiusto.
Godwin respinge l'idea che ci siano doveri di gratitudine verso i genitori, perch, se la
gratitudine porta a preferire qualcuno per motivi diversi dalla sua utilit, contraria alla
giustizia; respinge anche l'idea che si debbano preferire le persone che conosciamo, perch
tale preferenza non che un effetto dell'imperfezione della nostra natura.
Contro questa svalutazione dei legami familiari si scagli il teologo Samuel Parr in un
sermone pronunciato nel 1800 che denunciava le conseguenze immorali dell'imparzialismo
godwiniano. Per Godwin, ogni regola di senso comune va rispettata solo se farlo determina
le migliori conseguenze e violata quando la violazione produce risultati migliori.
Non c' alcuna appropriatezza intrinseca nel punire i colpevoli e non punire gli innocenti,
perch merito e colpevolezza presuppongono il libero arbitrio e sono privi di senso una
volta ammesso che le azioni umane sono necessarie. La pena pu essere giustificata solo in
vista dell'utilit pubblica; ma la repulsione di Godwin per la coercizione tale che egli
sembra non ammetterla nemmeno per la sua funzione deterrente. Infatti, se lo scopo della
pena insegnare agli uomini la giustizia, esso pu essere utilizzato con altri mezzi; se non
ha tale scopo, una pura dimostrazione di forza ed perci moralmente ingiustificata.
Lo scopo del progresso politico giungere all'eliminazione del governo come istituzione
permanente; non alla soppressione violenta delle forme di governo stabilite, ma alla pacifica
instaurazione di una societ senza governo.
Godwin un lucido esemplare di utilitarista dell'atto e anzi forse l'unico autore che ha
condotto al suo estremo logico l'idea di un calcolo dell'utilit globale. Ci lo ha esposto alla
critica che denuncia l'impraticabilit della sua teoria. Sembra impossibile soddisfare le
condizioni per un'azione razionale; come osserva uno dei primi commentatori, devo passare
tutta la mia vita a riflettere, prima di poter muovere con certezza il primo passo. Inoltre, i
critici hanno denunciato l'immoralit di un sistema iperrazionalista che riduce l'uomo a una
macchina per la produzione del piacere, contesta tutte le regole tradizionali e nega valore
alle relazioni particolari. In verit, Godwin riconosce l'importanza delle emozioni per l'agire
umano; non si devono sacrificare le emozioni alla ragione, ma piuttosto estendere le nostre
affezioni benevole in maniera universale, alla luce di una piena consapevolezza dei fatti.
Godwin convinto che, una volta conosciuti tutti i fatti ed eliminata l'influenza distorcente
del governo, gli esseri umani avranno emozioni pienamente in linea con i principi di
imparzialit e della massima felicit.
Tra le associazioni pi resistenti vi sono quelle legate a strumenti essenziali della felicit
umana, come la ricchezza, il potere e la dignit, e alle relazioni con gli altri esseri umani, in
particolare quelle amicali, familiari, tra concittadini o membri della stessa classe sociale.
Anche gli affetti connessi a queste relazioni nascono dall'associazione di idee. Per esempio,
l'amicizia nasce dall'idea di una comunanza tra due individui che hanno per un certo tempo
perseguito assieme i propri piaceri, il che lega stabilmente l'idea dell'altro a treni di idee
piacevoli. La nostra stessa idea dei dolori e dei piaceri di un altro uomo solo l'idea dei
nostri dolori, o dei nostri piaceri, associata all'idea di un altro uomo. Mentre in Bentham la
simpatia apriva un varco nella psicologia edonistica verso l'unit generale, Mill insiste sulla
sua riduzione ai piaceri individuali.
Ogni idea di piacere costituisce un motivo, ma non ogni motivo conduce all'azione, perch
altri motivi possono risultare pi forti; la scelta l'effetto del motivo pi forte, il quale
determinato dall'educazione che, agendo sulle associazioni, produce disposizioni stabili del
carattere. La disposizione alla beneficenza nasce dall'associazione del piacere altrui con il
nostro e dall'influsso della sanzione morale che ci garantisce il piacere dell'approvazione
altrui e il dispiacere della perdita di reputazione. Queste associazioni sono cos forti che il
desiderio di essere degni di lode finisce per sopravanzare quello di essere lodati. Il senso
morale una disposizione stabile a giudicare in base alle giuste associazioni, ossia in base
all'esperienza delle conseguenze positive o negative derivanti da azioni nostre o altrui.
In generale, l'associazione stabile tra certi atti e il piacere della lode instilla in noi
un'abitudine a giudicare chi ci determina ad agire spontaneamente, senza che si debba
postulare una facolt di intuizione morale.
Nel 1829, un giovane e storico polemista whig Macaulay, pubblic sulla Edimburg Rewiev
una critica acuta e brillante del saggio di Mill sul governo, rimproverandogli il metodo
astorico mediante il quale egli vorrebbe dedurre la scienza del governo da una nozione
astratta di natura umana. Secondo Macaulay, la generalizzazione fondamentale sulla natura
umana alla base dell'edificio milliano, ossia che gli esseri umani agiscono solo per ricercare
il proprio interesse, falsa o banalmente vera: o si intende, cio, con interesse il benessere
individuale, e allora evidente che gli esseri umani si prendono cura del benessere di molte
persone diverse da loro; oppure si intende con interesse la soddisfazione di un desiderio, e
allora la tesi vera, per chiaro che il desiderio in questione pu essere rivolto al
benessere proprio ma anche a quello altrui. Se la tesi dell'autointeresse fosse vera nel primo
senso, non si potrebbe offrire alcuna garanzia al popolo contro gli abusi dei governanti e la
stessa democrazia rappresentativa sarebbe destinata al fallimento.
O Mill ammette che il principio dell'autointeresse sia violato, vuoi dal popolo che si affida
al ceto medio, vuoi dal ceto medio stesso, oppure ammette che l'interesse del popolo e
quello del ceto medio coincidano, e quindi che la soluzione migliore non sia il suffragio
universale, ma un sistema rappresentativo con condizioni di accesso elevate, ossia
un'aristocrazia intellettuale.
La critica di Macaulay venne ripresa in un volume da Mackintosh che dedica un capitolo a
esaminare l'opera di Bentham e dei suoi seguaci, in particolare le tesi di Mill sull'etica, il
governo e l'educazione. A questo punto Mill si decise a scrivere una lunga replica in cui
risponde punto per punto a Mackintosh, approfittandone per rifare i conti anche con
Macaulay. Il Fragment on Mackintosh un'opera paradigmatica della personalit di Mill: un
saggio di 400 pagine, scritto in risposta a un capitolo di una trentina di pagine e a un
articolo di analoga ampiezza, pieno di un'evidente animosit nei confronti dei propri critici e
inteso pi a ridicolizzare gli interlocutori, facendo spesso l'elogio di se stesso, che a
contrapporre loro argomentazioni pacate. Mill analizza parola per parola ci che Mackintosh
scrive degli utilitaristi: ogni periodo e ogni singola frase sono per lui insensati, confusi,
lessicalmente infelici, o nel migliore dei casi banali; spesso tradiscono l'ignoranza e la
malafede dell'autore.
Mackintosh accusa Bentham di voler fare dell'utilit il motivo fondamentale della condotta
umana, ma con ci, secondo Mill, dimostra di aver frainteso: l'utilitarismo, infatti, non fa
dipendere la moralit di un atto dai suoi motivi, ma dalla sua intenzione, ossia dalle sue
conseguenze prevedibili. Sia chi lavora sia chi ruba agisce per denaro, ma le loro azioni
sono rese moralmente diverse dalle diverse conseguenze cui mirano. A mano a mano che i
casi vengono classificati, si stabiliscono delle regole cui far ricorso come a decisioni
prestabilite; quando un atto riconducibile sotto una di queste, si pu fare a meno dei
calcoli, confidando nella realizzazione di un surplus di conseguenze positive. Un atto
perci immorale quando si consapevoli di produrre una preponderanza di conseguenze
negative, oppure non ci si cura delle conseguenze: la superiorit delle conseguenze positive
o negative accertata da un calcolo, compiuto dall'individuo, o che si presume sia
correttamente espresso in una regola generale. Senza questo calcolo non c' alcuna moralit
o immoralit degli atti; proponendo di eliminare i calcoli per affidarsi ai sentimenti.
Mackintosh elimina ogni moralit e ogni razionalit. Infatti, bench gli affetti sociali su cui
egli insiste siano fonte di buoni motivi, non sempre i buoni motivi producono buone
intenzioni; il calcolo va applicato non solo a regole e a disposizioni, ma anche ai singoli atti:
nei casi non riconducibili sotto una regola, agisce moralmente solo chi compie una stima
diretta del bene dell'atto particolare. Tra le regole pi importanti, ci sono quelle che
sanzionano una certa parzialit in favore delle persone a noi pi vicine; contrariamente a
Godwin, Mill ritiene che la limitata capacit di beneficenza degli esseri umani faccia s che i
migliori effetti vengano prodotti se ciascuno cerca di favorire le persone che conosce meglio
e verso cui ha le pi forti simpatie.
Per Mill solo la considerazione della tendenza delle azioni consente di definire i buoni
sentimenti; non si tratta perci di eliminare i sentimenti, dato che le intenzioni sono generate
da motivi e disposizioni prodotti dalle associazioni a partire dalle affezioni spontanee.
Attraverso l'educazione, si dovranno creare associazioni buone che conducano a
disposizioni felicifiche per s e per gli altri; i sentimenti morali sono associazioni positive
create per stimolare al compimento di azioni utili e associazioni negative per distogliere
quelle dannose. L'etica utilitarista non trascura affatto i piaceri pi elevati e spirituali, come
pensa Mackintosh, ma ne spiega l'origine attraverso i meccanismi associativi; dal punto di
vista politico, per, bisogna presumere che ciascuno ricerchi esclusivamente il proprio
interesse. Rispondendo a Macaulay, Mill dichiara che il termine interesse indica gli oggetti
principali del desiderio umano, ossia la ricchezza, il potere, la dignit, l'agio, nonch la fuga
dalla povert, dall'impotenza, dalla degradazione e dalla fatica. Il fatto che possano esserci
eccezioni non toglie che questa sia la legge fondamentale della natura umana; finch
l'educazione morale non avr esteso e rafforzato negli esseri umani quegli affetti per la
felicit generale che oggi si riscontrano in misura molto ridotta, l'unica garanzia di una
buona legislazione consiste in un sistema che propizi una coincidenza di interessi tra
governanti e governati.
Per la sua difesa incondizionata di Bentham e per certe posizioni talvolta unilaterali, Mill
stato spesso indicato come l'esempio paradigmatico di utilitarista puro. In verit, in
economia politica egli molto pi ricardiano che benthamiano; e anche in etica, insistendo
sul ruolo delle associazioni, Mill valorizza alcuni aspetti della scuola del senso morale,
andando oltre alla liquidazione operante da Bentham. C' poi almeno un punto in cui Mill
propone una tesi antibnethamiana. In uno dei suoi ultimi saggi, discutendo la nozione di
utilit, nega che possa essere ridotta a quella monetaria: vi sono diversi tipi di utilit, alcuni
collegati al benessere del corpo, altri a quelli della mente; tra questi, i piaceri della
conoscenza che spesso non servono a indirizzare la propria condotta, ma producono
comunque grandi soddisfazioni di tipo contemplativo.
L'affermazione della superiorit dei piaceri mentali una tesi inedita nell'ambito del
benthamismo; da un lato respinge la monetarizzazione dei piaceri sostenuta da Bentham,
dall'altro sembra correggere l'angusta concezione utilitarista della natura umana.
James Mill ha contribuito in modo decisivo a rendere l'utilitarismo una scuola. lui ad
applicare sistematicamente le dottrine benthamiane a settori come la teoria del governo,
l'educazione, la libert di stampa; con la sua febbrile attivit pubblicistica, Mill riesce a
focalizzare l'attenzione su Bentham come figura centrale dell'impostazione basata sul
principio di utilit. Ne testimone il capitolo di Mackintosh, che la prima opera di un
esponente dell'aristocrazia intellettuale britannica a fare seriamente i conti con Bentham
come filosofo. Mill si impegna a difendere l'utilitarismo da queste critiche, sottolineando la
novit del benthamismo rispetto al consequenzialismo teologico; tuttavia, gi nella sua
opera, ci sono i germi di una formulazione meno radicale della teoria, che di l a poco altri
benthamiani avrebbero presentato.
Verso una riforma della teoria: John Austin
L'utilitarismo andava acquisendo influenza, ma era esposto all'attacco dei critici che ne
negavano i fondamenti psicologici e ne contestavano le conclusioni normative. Accanto alle
sprizzanti repliche milliane, una diversa strategia che gli utilitaristi cominciano a usare
quella di introdurre correzioni alla teoria, presentandole per come semplici spiegazioni e
accusando i critici di non aver compreso. Cos procede John Austin, allievo di Bentham e
attivo sostenitore del radicalismo fino al 1832. l'unica opera pubblicata da Austin The
Province of Jurisprudence Determined (1832), che contiene l'introduzione al corsodi
giurisprudenza da lui tenuto presso lo University College di Londra tra il 1828 e il 1832.
Le lezioni di Austin sono la prima formulazione della cosiddetta giurisprudenza analitica,
che individua l'essenza del diritto nel suo carattere di comando positivo; mentre la common
law concepisce le regole giuridiche come norme consuetudinarie, che i giudici si limitano a
dichiarare e ad applicare, la jurisprudence austiniana insiste sul carattere essenzialmente
positivo del diritto, interpretando le decisioni giudiziarie come atti di conversione in diritto
di consuetudini pregiuridiche. Austin non si occupa dunque della scienza della legislazione,
ossia del diritto positivo quale dovrebbe essere, ma della giurisprudenza, ossia del diritto
positivo quale esso , delle caratteristiche essenziali del fenomeno giuridico. Non si tratta di
fare buone leggi, ma di individuare i principi, le nozioni e le distinzioni comuni a tutti i
sistemi giuridici. Austin pone al centro della sua concezione della legge le nozioni di
comando e di sanzione, ovvero di ottenimento coattivo dell'obbedienza, e le nozioni
collegate di superiore e inferiore. Una legge, nel senso pi ampio, una regola posta da un
essere intelligente per la guida di un altro essere intelligente soggetto al potere del primo. Il
tipo di comando che costituisce una legge si caratterizza per la manifestazione della volont
di un superiore, collegata alla minaccia di un male o di una sofferenza qualora tale volont
non venga eseguita. Un comando una legge se obbliga, ossia se impone un dovere grazie
al potere di un superiore e alla minaccia di una sanzione; Austin si richiama ai modelli
volontaristi di Hobbes e Pufendorf, delineando un'immagine giuspositivista del diritto.
Questo approccio si espone alla critica di non riuscire a rendere ragione del fondamento
ultimo di un sistema giuridico in un insieme di regole costituzionali.
Per Austin il punto di vista da cui possono essere valutate le leggi positive quello morale;
in quest'ottica che, all'inizio delle sue lezioni, egli presenta un excursus sull'utilitarismo.
Le leggi, in senso proprio, si distinguono in divine e umane: le prime, poste da Dio e fornite
dalla massima autorit e sanzione, si distinguono in leggi rivelate e in leggi non rivelate.
Per ricostruire queste ultime, occorre un indice affidabile della volont divina, indice che
non pu consistere nel senso morale o in una coscienza morale innata: l'unico indice
affidabile costituito dalla bont di Dio e dalle tendenze delle azioni. Il principio dell'utilit
generale pertanto il fondamento della scienza dell'etica, o della deontologia, ossia di quella
scienza che si occupa, da un lato, di come dovrebbe essere il diritto positivo, dall'altro di
come dovrebbe essere la moralit positiva, ovvero quell'insieme di regole poste dalle
opinioni diffuse circa certi comportamenti, come le leggi dell'onore o della moda; queste
ultime sono dette leggi impropriamente, dato che sono prive di una sanzione giuridica.
Austin, che non condivideva l'ateismo di Bentham e Mill, riprende perci la fondazione
teologica di Paley, pur utilizzando il principio di utilit, con Bentham e Mill, per criticare le
regole positite. Egli parte dalla rilevazione di alcuni comuni e gravi fraintendimenti della
teoria dell'utilit generale, nonch dell'esistenza di difficolt considerevoli alla quali essa
effettivamente fatica a sottrarsi; per risolverle, fornisce una presentazione estremamente
moderata e problematica della teoria. In particolare, nega che l'utilitarismo chieda di
compiere un calcolo edonistico rispetto a ogni atto, affermando invece che il calcolo va
operato solo in riferimento alla classe di cui l'atto membro. Le norme morali e giuridiche
devono tenere conto della tendenza delle azioni, ossia della totalit delle loro conseguenze
probabili. I comandamenti di Dio, come le leggi positive umane, non riguardano azioni
specifiche, n obbligano una singola persona; riguardano classi di atti e obbligano tutti i
membri della comunit. Inoltre, le regole morali vanne seguite senza eccezioni anche
quando la violazione sarebbe benefica, perch la tendenza di una singola azione pu essere
stabilita solo attraverso la sua generalizzazione. [palese richiamo a Kant]
Il principio di utilit si applica perci alle regole generali, mentre i singoli casi vengono
decisi in riferimento alle regole.
Austin replica all'obiezione comune secondo cui non avremmo il tempo n la capacit per
calcolare in ogni circostanza tutte le conseguenze delle azioni e perci, se volessimo
calcolare davvero l'utilit, finiremmo per produrre conseguenze meno buone. In realt,
l'utilit il parametro ultimo della nostra condotta, non il parametro immediato: essa
costituisce il termine di paragone immediato solo nei confronti delle regole alle quali la
nostra condotta si conforma, ma non di azioni specifiche o individuali. Le nostre regole
sono modellate sull'utilit; la nostra condotta sulle nostre regole. Anzi, la convinzione che le
azioni di una certa classe sono comandate o proibite da Dio genera uno speciale sentimento
di approvazione o disapprovazione morale ed questo sentimento che guida direttamente
l'azione; perci, da un lato il calcolo utilitaristico giustifica le regole e non le singole azioni,
dall'altro il sentimento morale guida l'azione anche in mancanza di ogni riferimento
consapevole al calcolo felicifico.
Austin difende un utilitarismo indiretto, nel quale il ricorso al principio di utilit
estremamente parsimonioso. Austin si avvicina cos a quello che, nel Novecento, verr
chiamato l'utilitarismo delle regole: bench la tendenza felicifica sia propria delle singole
azioni, essa pu essere conosciuta solo guardando alla classe di cui l'azione fa parte e quindi
la massima utilit si pu realizzare al meglio attraverso l'adesione costante delle regole. Vi
sono peraltro casi anomali ed eccezionali nei quali le considerazioni tratte dalle circostanze
possono prevalere su quelle derivanti dalla tendenza delle azioni. In questi casi,
considerando le ragioni dalle quali avevamo ricavato la regola, sarebbe assurdo ritenerla
valida senza eccezioni; occorre perci rigettare la regola, riferirci direttamente al principio
sul quale le nostre regole furono modellate e calcolare le conseguenze specifiche al meglio
della nostra conoscenza ed abilit. Cos, Austin tiene fede all'istanza di una riforma
utilitaristica della morale ordinaria, esponendosi nuovamente alle critiche che hanno
motivato la sua formulazione indiretta dell'utilitarismo: egli stesso riconosce che qui
l'applicazione del principio di utilit sarebbe probabilmente investita da tutte le difficolt
che l'obiezione comune qui discussa gli imputa generalmente, e perfino che il principio di
utilit non fornisce, in questo caso, una soluzione certa; d'altro canto, l'utilitarismo offre
quanto meno una procedura ragionevole per trattare le inevitabili divergenze di valutazione
pratica. Per Austin l'utilit il parametro ultimo di giustificazione, ma non il criterio
decisionale: non nemmeno, generalmente, il motivo dell'agire virtuoso.
Distinguere tra giustificazione ultima, fondata sull'utilit generale, e motivazione all'agire,
limitata al benessere individuale, consente anche di evitare conseguenze paradossali.
La massima utilit viene realizzata agendo in base a motivi diversi da quelli dell'amore
universale; quando ci proponiamo scopi particolari, relativi al benessere nostro, o dei nostri
familiari e amici, pi facile che agiamo nella maniera migliore e pi efficace.
L'opera di Austin contiene tutti gli ingredienti di una formulazione moderata
dell'utilitarismo, che consente di rispondere alle principali obiezioni e di presentarlo come
una teoria credibile e non pericolosa. A questi ingredienti, oltre che alla distinzione tra
piaceri superiori e inferiori, far riferimento John Stuart Mill nel costruire un utilitarismo
molto diverso da quello originario.
CAPITOLO QUARTO La revisione dell'utilitarismo in John Stuart Mill
Educazione radicale e critica dell'utilitarismo
Jeremy Bentham e James Mill credevano profondamente nella possibilit di migliorare
l'umanit con le leggi e l'educazione; un caso esemplare di questa fede utilitarista nella
pedagogia il percorso educativo che Mill, con la supervisione di Bentham, intraprese nei
confronti del proprio figlio maggiore, John Stuart. A partire dall'et di tre anni, questi venne
arruolato in un progetto pedagogico inteso a fare di lui un philosophical radical: razionalista,
empirista, ateo, critico di ogni tradizione e superstizione. Come racconta nell'Autobiografia,
egli fu sottratto alla compagnia dei suoi coetanei, collocato in una solitudine innaturale e
priva di legami affettivi e obbligato da un lato a rendere costantemente conto al padre dei
propri progressi negli studi, dall'altro a fungere da tutore per i propri fratelli pi piccoli.
L'esito di questo percorso, dir Mill molti anni dopo, fu che la descrizione cos spesso fatta
da un benthemiano quale pura macchina ragionante, anche se del tutto inapplicabile alla
maggior parte di quanti sono stati designati con quel titolo, durante due o tre anni della mia
vita non fu del tutto falsa se riferita a me. A vent'anni Mill cadde in uno stato di profonda
depressione e di rifiuto di tutto ci cui era stato educato. Fino ad allora egli aveva
identificato la propria felicit con l'obiettivo dei radicali di riformare il mondo; d'un tratto,
chiedendosi se la realizzazione di tutte le riforme cui aspirava lo avrebbe reso veramente
felice, si rese conto di dover dare una risposta negativa. Mill si accorse che l'abitudine
all'analisi razionale aveva inaridito in lui la fonte dei sentimenti; per un certo periodo
consider il benthamismo come una gabbia in cui era stato troppo a lungo rinchiuso e che
gli aveva precluso lo sviluppo di una personalit autonoma e l'accesso alle sfere pi elevate
dell'arte e della letteratura. Al termine di questo travaglio Mill non pot non fare i conti con
la filosofia benthemiana. Scrisse in particolare due saggi: il primo, molto polemico venne
libero. Whewell difende la morale statica, della mera opinione e dell'abitudine, e perci si
contrappone a chi difende la morale progressiva, della ragione dell'argomento. Mill
individua in Whewell tre argomenti contro l'utilitarismo. Il primo l'impossibilit di
calcolare tutte le conseguenze. A questo risponde che per l'utilitarismo sufficiente un
calcolo approssimativo. D'altro canto, non si deve operare su casi singoli, ma su classi di
azioni, per le quali pi facile effettuare un calcolo relativamente sicuro. Ogni regola
naturalmente ha delle eccezioni, ma questo vale per tutti i sistemi etici; l'importante che
l'eccezione sia a sua volta una regola generale, sicch, non lasciando le convenienze al
giudizio parziale dell'agente nel caso individuale, non pu scuotere la stabilit della regola
pi ampia nei casi cui la ragione dell'eccezione non si estende.
Il secondo argomento di Whewell che la moralit dell'azione non pu dipendere dalla
felicit che produce, perch, al contrario, la felicit a dipendere dalla moralit dell'agire; la
felicit dipende dall'approvazione, propria o altrui, della propria condotta. Scrive in effetti
Whewell: L'azione virtuosa, dice il benthemiano, perch produce piacere; in particolare il
piacere che nasce dall'approvazione dei vicini; l'approvano e la ritengono virtuosa, dice
anche, perch d piacere. La virt dipende dal piacere, il piacere dalla virt. A questo
riguardo Mill osserva che Bentham non fonda sulla sanzione pubblica la moralit delle
azioni, ma solo la motivazione ad agire: il test della virt invece costituito da fatti, ossia
dalle tendenze delle azioni. L'approvazione morale presuppone le idee di utilit e danno,
perch ricerchiamo la felicit e approviamo quello che tende a produrla.
Il terzo argomento la supposta reductio ad absurdum derivante dalla considerazione
riservata da Bentham alla felicit degli animali. Per Whewell intollerabile l'idea che un
surplus di piacere per gatti e cani possa giustificare il sacrificio della felicit umana; infatti, i
piaceri degli uni e degli altri sono diversi e non abbiamo un legame di umanit con gli
animali come con gli uomini. Per Whewell, dobbiamo essere umani con gli animali, ma non
a motivo della nostra comune animalit, bens della nostra superiore umanit. Secondo Mill,
questo ragionamento porta a giustificare la schiavit: infatti, il sentimento di superiorit dei
bianchi e il legame che esiste tra loro del tutto naturale, sicch essi troverebbero
intollerabile dare uguale considerazione ai neri. Nella tesi positiva di Whewell, Mill
individua soltanto una serie di circoli viziosi. Egli afferma che la regola dell'azione fare
ci che giusto; ma poi dice che giusto significa ci che dobbiamo fare (primo circolo).
Dice poi che giusto significa ci che non viola i diritti altrui. Se vogliamo sapere quali siano
i diritti, sembra che si debba guardare alle leggi vigenti: ma Whewell dice anche che i diritti
legali possono essere contrari al giusto ed essere giudicati in base a ci che giusto: perci,
la morale deve conformarsi alla legge e la legge alla morale (secondo circolo). Infine,
Whewell dice che i diritti sono fondati sulla natura umana, ma poi afferma anche che la
ragione per cui l'essere umano deve avere i diritti che altrimenti la morale sarebbe
impossibile. Conclude Mill: Volevamo sapere cos' la morale e il dr. Whewell dice che
conformarsi ai diritti. Chiediamo come egli sa che ci sono diritti, e risponde che altrimenti
non potrebbe esserci morale. Questo il terzo circolo vizioso.
L'utilitarista afferma invece che i diritti che dovrebbero esistere sono quelli utili in vista
della massima felicit. Anche Whewell, quando cerca di giustificare le regole morali, fa
ricorso al principio di utilit, ossia mostra che certe regole sono necessarie per soddisfare
certi desideri umani. Mill ne conclude che non possibile essere coerentemente intuizionisti
perch o si ricade nell'utilitarismo oppure si sanzionano i sentimenti prevalenti dell'umanit
come regole indiscutibili, dimenticando la qualit delle credenze false che sono sempre state
sostenute dalla maggioranza. Mill in realt attribuisce a Whewell una serie di tesi che questi
era lungi dal sostenere. Non vero che Whewell considerasse l'intuizione un processo di
conoscenza non razionale e misteriosa; la riteneva invece una facolt della ragione. Non
vero che affermasse la conoscenza diretta di singole verit morali; pensava invece che
apprendiamo come autoevidenti alcuni assiomi fondamentali, da cui si possono poi ricavare
conclusioni specifiche e non attraverso semplici deduzioni. Non vero che considerasse le
opinioni diffuse il tribunale ultimo della moralit; riteneva invece che dalle leggi e dai
costumi delle societ pi avanzate si dovesse partire, per svilupparne e correggerne le
conclusioni alla luce degli assiomi fondamentali. Non vero che definisse la moralit come
conformit ai diritti legali, giacch distingue attentamente i diritti dal giusto e considera i
primi solo un aspetto del secondo; i diritti stabiliti dalla legge sono condizioni minime
perch la morale possa esistere, ossia perch vi sia una societ umana che vive sotto una
legge suprema. Infine Whewell non conclude affatto che, siccome non abbiamo un legame
di umanit con gli animali possiamo essere crudeli con loro; dice invece che la crudelt
verso gli animali un vizio.
Utilitarianism
All'inizio della seconda met del secolo, Mill si decide a scrivere un'opera pi sistematica
sull'utilitarismo; vuole darne una presentazione nuova rendendo la teoria accettabile per
l'opinione pubblica e per gli intellettuali che la influenzano. La polemica contro
l'intuizionismo sempre centrale, perch per Mill l'appello alle intuizioni una scusa per
sanzionare i pregiudizi pi radicati; Mill cerca per di fornire dell'utilitarismo una nuova
immagine che non contrasti con le convinzioni morali ordinarie, ma piuttosto consenta di
giustificarle razionalmente, fornendo al tempo stesso un criterio per migliorarle. Il risultato
un'opera doppiamente ambigua: da un lato, Mill dichiara non di voler correggere elementi
centrali dell'utilitarismo, ci che in effetti sta facendo, ma di correggere i fraintendimenti dei
critici; dall'altro, presenta una teoria ibrida che fin da subito parsa a molti poco coerente.
Eudemonismo qualitativo
Nel primo capitolo di Utilitarianism Mill richiama la sua concezione dell'etica come impresa
sistematica. Questa esigenza di sistematicit condivisa dagli intuizionisti pi avvertiti, i
quali ammettono sia che il senso morale una facolt razionale, sia che fornisce solo
principi generali, non conclusioni particolari su giusti e l'ingiusto. Questi due punti erano
stati rimproverati da Mill a Whewell nel saggio del 1852; si direbbe che nel giro di pochi
anni egli abbia mutato radicalmente parere. Posti questi punti, osserva Mill, la differenza tra
utilitaristi e intuizionisti concerne soltanto il fatto che quest'ultimi considerano i principi
evidenti a priori, anzich frutto di osservazione, e non indicano un ordine di priorit tra di
essi. Mill si propone appunto di introdurre una maggiore scientificit nella morale,
mostrando come tutti i principi secondari si riconducano a quello della massima felicit. La
definizione di utilitarismo da cui parte il secondo capitolo in perfetto stile benthemiano:
l'utilitarismo la dottrina secondo cui le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui
tendono a procurare felicit, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della
felicit. Per felicit si intende il piacere e l'assenza di dolore; per infelicit il dolore e la
privazione di piacere. Ammettere che solo il piacere sia desiderabile per se stesso, riconosce
Mill, espone l'utilitarismo all'obiezione di avere una concezione povera e meschina della
natura umana. Tuttavia a) gi gli epicurei riconoscevano accanto ai piaceri sensibili, quelli
intellettuali, immaginativi e morali; b) gli utilitaristi affermano chiaramente che quest'ultimi
sono superiori, per la loro maggiore durata e sicurezza e minore onerosit; c) coerente con
il principio di utilit ammettere che la capacit felicifica dei piaceri dipenda dalla loro
qualit, oltre che dalla loro quantit. Certi piaceri, cio, sono superiori non perch generano
una felicit pi lunga o pi stabile, ma perch impegnano facolt umane pi elevate; queste
producono esperienze di soddisfazione pi elevate, che una maggiore quantit di esperienze
inferiori non pu controbilanciare.
In accordo con la tradizione classica, Mill afferma la superiorit dei piaceri intellettuali su
quelli fisici sulla base del giudizio concorde dei giudici competenti, ossia di coloro che
hanno esperienza di entrambi; questi preferiscono senz'altro i piaceri che impegnano le
nostre facolt superiori, anche se vi si associano maggiori insoddisfazioni. Quando Mill dice
che i giudici competenti preferiscono i piaceri superiori, presumibilmente non intende che
essi verranno sempre scelti a preferenza di quelli inferiori; ci significherebbe escludere a
priori alcuni piaceri inferiori di particolare importanza, come quelli dell'alimentazione o del
sesso. Non chiaro per quale altro criterio adottino i giudici competenti, non disponendo
di un'unica unit di misura per definire un ordinamento cardinale dei piaceri: se si orientano
verso una qualche mescolanza tra diversi elementi del benessere, la nozione benthemiana
della massimizzazione sembra perdere ogni significato. Il che mostra che sostenere la
superiorit dei piaceri spirituali significa abbandonare la teoria edonistica standard, per la
quale il valore di ogni attivit pu essere computato in rapporto alla quantit di stati mentali
semplici di piacere e dolore che essa produce. Per Mill la perfezione spirituale, il rispetto di
s, l'esercizio di facolt estetiche e intellettuali sono elementi della felicit che vengono
ricercati indipendentemente dal piacere.
Mill abbandona la concezione benthemiana dei piaceri come stati omogenei, sostenendo che
la piacevolezza delle diverse esperienze dipende dagli atteggiamenti dei giudici competenti;
sostiene una concezione oggettivista della vita buona, nella quale l'esercizio delle facolt
superiori rende di per s migliore la vita umana; sostituisce al metodo democratico
benthamiano di computare le valutazioni soggettive di intensit e durata dei piaceri quello
aristocratico di affidarsi alle preferenze dei giudici competenti. Se ancora possibile
considerare questa teoria una forma di edonismo, si tratta di un edonismo profondamente
modificato; gli stati piacevoli al centro dell'attenzione non sono semplici sensazioni, ma
esperienze complesse generate dal processo associativo che opera non meccanicamente a
comporre diverse idee, ma quasi chimicamente a produrne di nuove: tali esperienze
presuppongono un certo sviluppo del carattere, che perfezioni l'esercizio delle facolt
superiori. Il piacere un aspetto di queste esperienze, ma non pi un elemento isolabile in
quanto tale, n ci che viene soprattutto ricercato in esse; si ricerca invece la felicit, intesa
come insieme di esperienze piacevoli, collegate a particolari attivit. Inoltre, il fatto che le
attivit che coinvolgono le facolt superiori abbiano valore a spiegare le preferenze dei
giudici competenti, non il contrario.
Nel prosieguo del capitolo Mill discute varie altre obiezioni: in primo luogo, che la felicit
sia irraggiungibile per gli essere umani. A ci replica che certo la felicit impossibile, se
con essa si intende una vita di continuo rapimento estatico; tutti coloro che hanno indicato
nella felicit lo scopo della vita ne hanno per dato un'immagine pi realistica, in cui ai
momenti di estasi segue una piacevole tranquillit che consente di coltivare i molti interessi
estetici e intellettuali di cui si sostanzia una vita umanamente piena. D'altro canto, il
progresso della civilt promette di ridurre sensibilmente le principali fonti dell'infelicit
umana, come la povert e la malattia. Un'altra obiezione quella della romantica che vede
proprio nel sacrificio della felicit ci che nobilita l'esistenza umana. A ci Mill risponde
che sicuramente la maggior parte degli uomini fa a meno della felicit, ed eroi e martiri vi
rinunciano spesso volontariamente; ma tale rinuncia va esaltata solo se intende procurare o
processo di educazione e rafforzate dalle sanzioni esterne, ossia dai sentimenti di simpatia e
di solidariet umana.
La prova dell'utilitarismo e il ruolo della giustizia
Mill presenta quella che ritiene l'unica prova possibile del principio di utilit. Intende la
prova come una serie di considerazioni che posson orientare l'intelletto a fornire il suo
assenso al principio, pur non costringendolo in senso assoluto.
Il primo passo dato dall'osservazione empirica che tutti gli esseri umani desiderano la
felicit e ogni altra cosa viene desiderata o come mezzo in vista della felicit o come parte
di essa. L'unica prova, nota Mill, del fatto che qualcosa desiderabile che sia di fatto
desiderata, cos come l'unica prova del fatto che qualcosa visibile che sia vista; perci, la
sola ragione del perch la felicit generale desiderabile, che tutti desiderano la propria
felicit, se e in quanto la credono raggiungibile. Per dimostrare che la felicit il fine ultimo
non basta dire che di fatto desiderata, occorre mostrare che idealmente desiderabile.
Altrimenti, l'osservazione si riduce alla banalit secondo cui per ciascuno desiderabile ci
che di fatto desidera. vero che i desideri attuali possono essere indicativi di ci che
idealmente desiderabile, ma Mill non offre ragioni per affermare che ci che attualmente
desideriamo si avvicini significativamente a ci che idealmente desiderabile.
Altrettanto evidente la fallacia contenuta nel secondo passo della prova, consistente nel
passare dalla desiderabilit per ciascuno della propria felicit alla desiderabilit per ciascuno
della felicit generale. Scrive Mill: la felicit di una persona un bene per quella persona, e
quindi la felicit generale un bene per l'insieme di tutte le persone. Questo argomento
dimostra che la somma dei beni individuali un bene per la somma degli individui; ma
perch qualcosa possa essere un bene per un aggregato di persone occorre che l'aggregato
possa essere soggetto di desiderio o di azione,il che escluso dall'impostazione
metodologicamente individualista che Mill riprende da Bentham. L'argomento consente
dunque di predicare solo dell'intero ci che dovrebbe dimostrare predicabile di ciascun suo
membro; bench Mill abbia detto di non voler fornire una prova formale, questo secondo
passo un plateale non sequitur, basato sulla fallacia di composizione.
Un modo per salvare la prova milliana intendere per quella persona e per l'insieme di
tutte le persone non come punti di vista, ma come collezioni del bene; Mill starebbe
dunque dicendo che, se la felicit un bene quando collocata in A e lo anche quando
collocata in B, allora la somma delle felicit di A e B a sua volta un bene. Presupponendo
che la felicit sia interpersonalmente aggregabile e che l'esser desiderato sia evidenza della
desiderabilit di qualcosa, non ragione di essa, si pu ritenere che la prova dimostri che la
felicit generale un bene, ossia che in s qualcosa di desiderabile. Dato che la felicit di
A un bene, quella di B un bene, quella di C un bene, ecc., la somma di tutti questi beni
deve essere un bene. Tale conclusione, per, molto debole, dato che non stabilisce n che
di fatto le persone desiderino questo bene aggregato n che dovrebbero desiderarlo; Mill
dimostra solo che la felicit generale un bene, se viene considerata da un punto di vista
impersonale, ma non fornisce ragioni per desiderarla a chi non abbia gi un'elevata simpatia
per i propri simili: ancor meno, dimostra che tale felicit generale sia l'unico fine cui
dovrebbe indirizzarsi ogni agente razionale.
Se non si vuole concludere che Mill compia meri errori logici, si deve ammettere che egli
presupponga degli assunti che non dimostra. In primo luogo, l'assunzione morale, secondo
cui la moralit potrebbe resistere al dubbio scettico; la prova non perci rivolta contro
l'egoista, ma contro altri approcci morali, come l'intuizionismo. Ci ne limita molto il valore
perch il contrasto tra utilitarismo ed egoismo ben pi profondo di quello tra utilitarismo e
intuizionismo. In secondo luogo, l'assunzione aggregativa, per cui la felicit pu essere
sommata. Inoltre, quella teleologica, per cui le regole sono giustificate dal bene che
producono. Infine, l'assunzione di imparzialit, per cui la differenza tra persone irrilevante
nel calcolare l'utilit; questa assunzione, dove Mill risponde all'obiezione di Spencer per cui
il principio di utilit presupporrebbe quello di uguaglianza. Egli scrive che in realt il
principio presuppone solo che quantit uguali di felicit siano egualmente desiderabili, non
importa se provate dalla stessa persona o da persone diverse; con ci afferma il valore
agente-neutrale delle ragioni per agire: se un atto promuove il bene di qualcuno, chiunque
ha una ragione per compierlo. Presupponendo queste assunzioni, la prova cessa di essere
una pura fallacia logica; tuttavia, almeno l'ultima senza dubbio un principio intuitivo. Per
fondare l'utilitarismo, perci, Mill deve venire a patti con l'intuizionismo; il punto in
questione semmai quali intuizioni accettare.
Il terzo passo della prova vuole mostrare che al desiderio della felicit si riduce ogni altro
desiderio. Mill ammette che cose come la virt sono desiderate di per s e non in quanto
contribuiscono ad un aggregato di felicit; e spiega questo fatto ricorrendo alla dottrina
associazionistica: in origine non si desiderava affatto la virt, non c'era alcun motivo di
desiderarla, se non per la sua capacit di condurci al piacere e soprattutto di proteggerci dal
dolore. Ma, grazie all'associazione cos formatasi, possiamo sentirla come un bene in s e
desiderarla come tale, con un'intensit pari a quella con cui desideriamo altri beni.
Dunque, tutto ci che si desidera lo si desidera come un mezzo per la felicit o come una
parte di essa, e perci la felicit l'unico fine dell'agire umano.
Dire che il desiderio della virt si spiega con la piacevolezza dell'idea di virt non significa
dire che l'oggetto di questo desiderio sia il piacere che la virt genera. Anzi, ammettere che
la virt sia ricercata di per s incompatibile con il dire che desiderata come parte della
felicit: desiderare la virt come parte della felicit significa non desiderarla di per s.
Infine, di cose come la conoscenza e l'autonomia, Mill pu sostenere che siano desiderate
come parte del benessere, ma non della felicit, intesa come piacere o assenza di dolore.
Da un lato, la prova di Mill dimostra solo che la propria felicit un fine razionale per ogni
individuo, non che la felicit generale sia un fine per ciascuno; dall'altro, sembra basata
sull'indebito passaggio dal fatto empirico per cui tutti desiderano la felicit alla conclusione
valutativa per cui la felicit intrinsecamente desiderabile.
Secondo Moore, poi, Mill sosterebbe che buono significhi desiderabile e perci cadrebbe
platealmente nella fallacia naturalistica: Mill viene a dirci che dobbiamo desiderare qualcosa
perch di fatto la desideriamo; ma la sua affermazione secondo cui devo desiderare si
identifica con effettivamente desidero fosse vera, egli avrebbe solo il diritto di dire:
Desideriamo questo e quest'altro, perch lo desideriamo; e questa non assolutamente
una proposizione etica, ma una mera tautologia.
In verit, Mill non sostiene n che desiderabile significhi desiderato, n che giusto significhi
produttivo delle migliori conseguenze e perci non commette la fallacia naturalistica di cui
questi critici lo accusano; ritiene invece si debba partire da ci che desiderato per arrivare
a ci che di per s desiderabile. Ci non toglie che il suo tentativo di provare il principio di
utilit partendo dai desideri dati non riesce.
L'ultimo capitolo dell'Utilitarianism affronta l'obiezione per cui il sentimento della giustizia
sarebbe distinto dall'utilit e irriducibile a essa. Con giustizia, osserva Mill, si intende
originariamente la conformit a una legge esistente; il significato si poi esteso alla
conformit a leggi che dovrebbero esistere, nonch a regole morali. La giustizia dunque
una parte della moralit; quest'ultima si distingue dalla semplice convenienza per il fatto di
esigere un certo comportamento: non sempre, infatti, si obbligati a fare ci che conviene,
ma solo ci a cui si collega un dovere, ovvero ci la cui omissione giustifica una punizione.
La giustizia concerne quei doveri morali che, per il particolare rilievo dell'utilit in gioco,
determinano corrispettivi diritti nei riceventi; si tratta di ci che il giusnaturalismo chiama
doveri di obbligazione perfetta, contrapposti ai doveri imperfetti di beneficienza.
Il sentimento della giustizia quel certo desiderio, proprio della natura animale, di
respingere o ritorcere un torto o un danno inflitto a noi o a coloro verso cui abbiamo
sentimenti simpatetici: desiderio esteso fino a includere tutti gli esseri umani, grazie alla
nostra capacit di ampliare la portata della nostra simpatia e di concepire il nostro interesse
personale in una forma intelligente. Da questi due ultimi elementi, il sentimento di giustizia
deriva la propria moralit; dal primo il suo peculiare potere emotivo e la forza con cui si
impone. La giustizia si lega ai diritti, ossia alla protezione sociale di certi interessi
individuali che vengono difesi perch utile farlo; perci non si contrappone all'utilit, ma
ne fondata. Essa concerne i bisogni centrali per il benessere individuale e sociale, come
quello della sicurezza, i quali generano regole dotate di particolare obbligatoriet; non
per un criterio morale indipendente, giacch su molte questioni, come la teoria della pena,
il rapporto tra produttivit e salario o l'equit fiscale, esistono idee contrastanti di giustizia.
La stessa uguaglianza, per Mill, si pu ritenere un elemento del principio di utilit, dato che
quest'ultimo chiede che la felicit di tutti abbia il medesimo rilievo, ossia che ciascuno conti
per uno, e nessuno per pi di uno. Ci che c' di pi specifico nella giustizia dunque che si
riferisce a requisiti morali molto rigorosi, associati a uno speciale sentimento relativo al
male e alla sua punizione; un sentimento non trascendente, ma spiegabile
naturalisticamente. I diritti sembrano costituire un vincolo alla produzione della massima
utilit e in quanto tali godere di una giustificazione indipendente d essa. Inoltre,
discutibile che il diritto a un'eguale considerazione sia derivabile dal principio di utilit: al
contrario, se esso indica la pretesa a un'effettiva eguaglianza di trattamento, pu
chiaramente entrare in conflitto con l'obiettivo della massimizzazione del benessere.
On Liberty
On Liberty un saggio in cui Mill difende la libert individuale dalle inferenze dello Stato e
dell'opinione pubblica, affermando che ciascuno libero di agire secondo le proprie
preferenze e i propri gusti, fintanto che non causi danni ad altri; questo liberalismo politico
si radica in una prospettiva morale che assegna un valore centrale al carattere individuale.
Mill sostiene esplicitamente una concezione pluralista del bene, affermando che, fintanto
che gli uomini non possono aspirare a una conoscenza completa della verit, bene che vi
sia diversit di opinioni e modi di agire.
Solo sviluppando autonomamente la propria personalit l'individuo umano si afferma come
tale; in caso contrario, non che l'imitatore di qualcun altro. vero, dice Mill, che sono
pochi quelli che potranno migliorare le pratiche consolidate; ma senza la libert di innovare
non c' alcun progresso e anche le migliori pratiche scadono a conformit meccanica.
Occorre perci favorire l'eccentricit per rompere il dispotismo della consuetudine e
contrastare il processo di omogeneizzazione della societ.
Per Mill l'esito da evitare assolutamente la tirannia della maggioranza, che reprime la
libera costruzione di per s. Per altro verso, la difesa degli esperimenti di vita prosegue la
polemica milliana contro l'intuizionismo. Il motivo principale per respingere l'interferenza
con la condotta individuale infatti che la tradizione e la consuetudine non hanno altro
sostegno che se stesse e il desiderio di conformismo del pubblico; salvo che, con lievi
camuffamenti, questo criterio viene spacciato all'umanit come fosse dettato dalla religione
o dalla filosofia. Qui Mill assimila nuovamente l'etica intuizionista ai sistemi fondati
dall'ipse dixit criticati da Bentham; e la sua analisi delle conclusioni della morale di senso
comune appare in singolare contrasto con quanto detto in Utilitarianism, dove riconosce che
le norme morali diffuse sanzionano le pratiche che l'esperienza dimostra utili in vista della
felicit umana. L'ideale di Mill resta quello della libera costruzione di s che conduce a
saper fruire dei piaceri superiori ed egli si sforza di inserirlo nel quadro utilitarista
affermando che l'utilit che costituisce l'ultima istanza in etica va intesa nel suo senso pi
ampio, fondata cio sugli interessi permanenti dell'uomo in quanto essere capace di
progredire. Tuttavia, l'enfasi non cade sulla felicit come piacere e assenza di dolore, ma sul
contributo che lo sviluppo autonomo della personalit fornisce al benessere individuale alla
felicit generale, ma sul danno che verrebbe all'individuo dai limiti alla libert di
sperimentare stili di vita personali.
Mill rivendica il diritto dell'individualit e all'esplorazione di possibilit proprie: cos
sconfessa ogni affermazione generale sulla natura umana e mette in pericolo la compatibilit
di questa prospettiva con l'utilitarismo. C' insomma una distanza consistente tra la teoria
milliana, che nel quadro utilitaristico inserisce elementi romantici e perfezionisti, e
l'utilitarismo, che alla libert individuale attribuisce valore solo come mezzo in vista
dell'utilit generale e che pu limitare il suo esercizio in nome di tale fine ultimo. La
posizione utilitarista ortodossa non pu che sostenere che la libert politica o civile, come la
costrizione politica o giuridica, pu essere generalmente utile o generalmente nociva, e
merita il plauso non in se stessa, ma in quanto porti al bene generale. In Mill, invece,
assume un'importanza talmente centrale da non poter essere mai sospesa. Anche su questo
punto, Mill propone una profonda riforma dell'utilitarismo, nella quale l'elemento romantico
e liberale pareggia l'importanza del principio di utilit. Nella misura in cui sia ancora
possibile difendere le posizioni di On Liberty da un punto di vista utilitarista, si tratter di
un utilitarismo indiretto in cui la promozione dell'utilit generale tenuta largamente sullo
sfondo. Resta pertanto una tensione irrisolta tra la concezione benthemiana della felicit che
Mill nominalmente difende e l'appassionata difesa delle prerogative del singolo, che nasce
dalla sua esperienza di rifiuto dell'utilitarismo e di apertura alla cultura romantica.
Quest'ultima sembra essere la voce pi propria di Mill, il quale a differenza di Bentham, non
riduce l'individualismo a un fatto psicologico, ma lo considera un ideale morale. Le stesse
cause politiche a cui si dedicato sono diverse: non centrate su obiettivi di utilit pubblica,
ma sulla difesa della libert di parola e altri diritti individuali; in tutti questi contesti
difficile pensare che al vertice dei suoi pensieri non ci fossero la libert e la giustizia. Mill
ha tentato di riconciliare l'utilitarismo con alcuni aspetti del pensiero morale tradizionale e
con elementi centrali delle temperie filosofica romantica: l'importanza delle regole morali,
la pluralit dei motivi dell'agire, il valore della coscienza e del carattere individuali, la
centralit della libert. Per quanto condivisibile fosse lo sforzo alla base di questo
ripensamento, il risultato una teoria parzialmente ambigua e dotata di un equilibrio interno
precario.
CAPITOLO QUINTO Utilitarismo intuizionista
A differenza di Bentham e Mill, Henry Sidgwick ricevette un'educazione religiosa, da
giovane era un fervente cristiano. Entrato nel 1855 al Trinity College di Cambridge, ne
divent fellow nel 1859, restandovi poi come docente per tutta la vita; Sidgwick perci il
primo degli utilitaristi a essere un accademico di professione.
La sua opera principale The Methods of Ethics (1874), uno dei pi importanti libri di etica
dell'Ottocento e il primo trattato sistematico di un autore utilitarista. Sidgwick non divenne
mai un ateo n disprezz mai la religione; verso il 1870 assunse per un atteggiamento
critico rispetto all'ortodossia anglicana, diventando un razionalista con vaghe tendenze
teistiche. Secondo Sidgwick, la Bibbia contiene errori, ma anche esperienze di trascendenza
che possono portare a una comprensione teistica della realt; l'istanza ultima di giudizio
per la ragione, per cui nessuna formulazione della verit di fede va esente da critica.
L'impossibilit di comporre il suo ideale positivista di scientificit con la fede religiosa
continu a tormentare Sidgwick per tutta la vita. Come scrisse nel saggio The Ethics of
Conformity and Subscription, composto per spiegare le ragioni delle sue dimissioni da
Cambridge, la teologia deve sottostare alle stesse condizioni delle scienze positive per
essere intellettualmente rispettabile, dev'esservi spazio per una libera discussione su
questioni teologiche e tolleranza per opinioni dissenzienti.
La concezione sidgwickiana della filosofia espressa con chiarezza in alcune delle sue
ultime lezioni, pubblicate con il titolo Philosophy, Its Scope and Relations. La filosofia tenta
di produrre una conoscenza sistematica delle cose in generale, ovvero gli specifici settori
che sono oggetto di altre scienza, ma che queste non cercano di strutturare in un sistema
complessivo. Tale sistematizzazione attualmente non esiste: ci sono tante filosofie, ma non
c' la filosofia. Ma senza il tentativo di produrre una sistematizzazione pi ampia si mina
anche il terreno di quella pi circoscritta ricerca della verit in cui consiste la scienza.
Lo scetticismo, per Sidhwick, inconfutabile ma anche indifendibile, perch difenderlo
significa ammettere la verit di certi criteri di verifica delle proposizioni. La scienza, per,
produce di fatto conoscenze: le credenze scientifiche possono essere ritenute certe per una
certezza discorsiva, ossia perch vengono apprese in connessione con altre credenze; oppure
per una certezza intuitiva, quando connettono nozioni chiare e distinte. Sidgwick corregge
per la concezione cartesiana ammettendo che anche le intuizioni possano essere fallaci:
infatti, ci che dapprima sembra chiaro pu non apparire pi tale in un secondo momento.
L'errore dell'empirismo, invece, consiste nel ritenere infallibili le proposizioni particolari;
inoltre, anch'esso deve ammettere un elemento intuitivo a fondamento delle sue induzioni
generali, a pena di rinunciare a principi scientifici universali come quello dell'uniformit
della natura. La verifica discorsiva, enfatizzata dall'empirismo, e quella intuitiva,
sottolineata dal razionalismo, si sostengono e si rafforzano a vicenda; a esse Sidgwick
aggiunge la verifica ecumenica, ossia il test di accordo generale: il primo criterio tende a
evitare conflitti tra diversi giudizi sostenuti contemporaneamente; il secondo tra diversi
giudizi sostenuti in momenti diversi; il terzo tra diversi giudizi sostenuti da individui
diversi. Nessun criterio garantisce un'assoluta certezza, ma la loro convergenza conferisce la
massima affidabilit alle nostre credenze. Sidgwick era un intuizionista, ma il suo
intuizionismo non era quello di un ego puro cartesiano, n del s solipsistico degli empiristi,
che riduce ogni pretesa di conoscenza ai suoi dati di senso, bens un'epistemologia
fallibilista che sottolineava altres le dimensioni sociali della conoscenza.
I metodi dell'etica e le nozioni morali fondamentali
L'obiettivo di Sidgwick quello di porre l'etica su basi scientifiche; non criticando la
moralit del senso comune (Msc) per affermare l'utilitarismo, ma rigorizzando
filosoficamente tale moralit e cos dissolvendone la contrapposizione con l'utilitarismo.
I Methods of Ethics esprimono al meglio la concezione sidgwickiana della filosofia; sono
un'opera tecnica, fatta di analisi dettagliate. Nella prefazione Sidgwick dichiara di aver
voluto sottrarre l'etica all'edificazione per porla sulla strada della scienza; e pur
sottolineando l'analogia tra la propria opera e quella aristotelica vuole rovesciare
l'affermazione aristotelica secondo cui il fine non la conoscenza ma l'azione. Sidgwick
mira a descrivere con obiettivit come ragiona il senso comune, per poi procedere alla sua
verifica filosofica. Con metodo egli intende una procedura razionale per raggiungere
conclusioni; come nella scienza, anche in etica il metodo che consente di pervenire a un
accordo sulle conclusioni. Qui si tratta di conclusioni su ci che giusto o si deve fare, le
quali non possono essere ricavate da premesse descrittive, ossia dall'analisi di ci che . Il
compito non trovare il metodo migliore, ma spiegare quelli che il senso comune adotta
implicitamente, mostrare le loro conseguenze, accettare se possono accordarsi tra loro e
risolvere, ove possibile, eventuali conflitti. Le conclusioni normative dipendono
dall'individuazione di un fine, ossia di ci che desiderabile in s, e non come mezzo per
qualcos'altro. Ora, secondo Sidgwick, i beni che, almeno prima facie, vengono considerati
dei fini ultimi sono soltanto due: la felicit e la perfezione umana. Sidgwick ritiene la
felicit un fine sufficientemente chiaro, e anzi, con Butler, sostiene che un amore
ragionevole di s sia il fine pi naturale. Molti ritengono poi che sia altrettanto razionale
perseguire la felicit altrui e che la felicit generale vada ricercata come fine categorico.
Infine, alcuni affermano che la ricerca della felicit non sia che una parte del dovere o della
virt e che la perfezione umana comprenda anche altri principi di giustizia, buona fede o
veracit. Da questa ricognizione dei fini ultimi effettivamente perseguiti, Sidgwick ricava i
tre metodi che riassumono i processi ordinari del pensiero morale: l'egoismo razionale che
mira alla felicit individuale; l'edonismo universale, ovvero l'utilitarismo, che mira alla
felicit generale; l'intuizionismo che identifica la virt con il rispetto di certe norme generali
e a cui si riducono i sistemi che perseguono la perfezione della natura umana. Sidgwick
riconosce che, attraverso qualche assunzione plausibile, si possono collegare i fini ultimi a
ciascuno dei tre metodi; ad esempio, la felicit pu essere collegata non solo all'egoismo e
all'utilitarismo, ma anche all'intuizionismo, se si ammette che seguire le norme intuitive sia
il mezzo pi sicuro per raggiungerla: in questo caso, si rifiuta il metodo dell'utilitarismo, ma
non il suo principio, ossia si concede che la felicit la ragione ultima dell'agire. In ogni
caso, per Sidgwick i tre metodi sono esaustivi: ad esempio, il criterio di agire in conformit
con la natura o non costituisce un principio normativo, ma solo descrittivo, o sanziona in
maniera poco plausibile ci che originale, non artificiale o consuetudinario, o si riduce a
uno dei tre metodi. A sua volta, il criterio teologico non un principio autonomo, giacch,
per conoscere la volont di Dio, si deve presupporre che Egli voglia la felicit umana, o la
perfezione della nostra natura o che seguiamo i doveri che intuitivamente si presentano alla
nostra coscienza. Infine, il criterio dell'autorealizzazione, che comanda di sviluppare le
nostre facolt dando a ciascuna il posto dovuto, implica l'adozione di qualche ideale di
perfezione, oppure l'idea che esprimere il nostro carattere sia il mezzo per realizzare la
felicit; anch'esso, perci, pu essere ricondotto ai tre metodi individuati. I metodi non sono
delle teorie morali, ma dei modi per raggiungere conclusioni normative; una teoria morale,
invece, tenta di ordinare sistematicamente le credenze morali in base all'adozione di uno o
pi principi fondamentali.
Un aspetto della riconciliazione tra intuizionismo e utilitarismo riguarda la definizione dei
concetti morali fondamentali. Sidgwick abbandona infatti il naturalismo degli utilitaristi
precedenti, riconoscendo le ragioni dell'intuizionismo, quali erano state difese da Grote
contro Mill: ought un concetto originario, non derivabile da premesse descrittive, non
riducibile all'emozione collegata all'approvazione o disapprovazione di certi comportamenti;
infatti solo la convinzione della verit degli enunciati morali a fornire una specifica qualit
morale a certe emozioni. N si pu sostenere che ought indichi il dolore che potrebbe
derivare dalla disapprovazione altrui; questo dolore pu spiegare l'obbligo giuridico, ma non
coglie la peculiarit di quello morale, che pu prescindere da tale disapprovazione. Quando
infatti si dice che la disapprovazione deve seguire la condotta immorale, si presuppone che
il dovere sussista anteriormente a tale disapprovazione e indipendentemente da essa. La
stessa concezione religiosa dell'obbligo morale vede nel fatto che un atto sia doveroso la
ragione per la quale Dio ci punir se non lo compiamo, non l'espressione dell'attesa di una
tale punizione. L'irriducibilit delle nozioni di giusto e di dovere non toglie che esse siano
apprese dalla ragione; non c' un senso morale come facolt sui generis, poich ci
implicherebbe sentimenti variabili da individuo a individuo, mentre Sidgwick non dubita
dell'esistenza di una verit morale oggettiva. I giudizi morali sono degli imperativi che
forniscono di per s impulsi o motivi ad agire, bench non siano motivi sempre
predominanti. Il rapporto tra l'adozione di un giudizio razionale e gli impulsi non razionali
un elemento imprescindibile del nostro pensiero pratico, indipendentemente dalla teoria
normativa che sosteniamo; perci, termini come giusto e dovere hanno il medesimo
significato in un sistema egoistico e in uno utilitarista o intuizionista; e anche se si volesse
riconoscere l'esistenza di fini incondizionati, sarebbe comunque irrazionale rifiutare di
adottare i mezzi necessari in vista di un fine ricercato, ossia resterebbe un obbligo peculiare
derivante dagli imperativi ipotetici.
Sidgwick abbandona pertanto anche la concezione humiana del rapporto passioni-ragione,
abbracciando una posizione non lontana da quella kantiana; tale posizione distingue tra la
volizione di un fine e l'emergenza di un desiderio e, pur ammettendo l'interferenza delle
passioni, afferma il predominio della ragione sugli impulsi non razionali, ossia la sua
capacit pratica. I giudizi morali sono a un tempo dettami della ragione e ragioni
potenzialmente efficaci per agire: Quando dico che la conoscenza del fatto che, o il giudizio
che, si deve fare X, nel senso pi stretto del termine si deve un dettame o un precetto della
ragione diretto alle persone cui esso diretto, per implicazione vengo ad affermare che negli
esseri razionali questa conoscenza di per s fornisce un impulso e un motivo ad agire, anche
se, naturalmente, questo solamente un motivo tra gli altri motivi, che possono anche essere
in conflitto con il primo.
In termini contemporanei, Sidgwick adotta una concezione dei giudizi morali che al tempo
stesso razionalista e internista.
Non si pu concepire come un precetto o un dettame della ragione una legge psicologica che
guida invariabilmente la mia condotta, e questo perch un precetto deve essere una norma
dalla quale so che possibile deviare. Sidgwick nega che i nostri desideri siano sempre
rivolti a provare sensazioni gradevoli; quando diciamo che facciamo qualcosa perch ci
piace, molto spesso intendiamo solo che lo facciamo per una scelta volontaria.
Bisogna riconoscere che il desiderio del piacere e il desiderio di molte altre cose che spesso
sono in conflitto con esso sono impulsi ugualmente originari. Se poi si dice che l'impulso
originario del piacere genera ogni altro impulso attraverso l'associazione di idee, la sostanza
non cambia; ci che conta quel che gli esseri umani sono attualmente, non come fossero
originariamente n come potrebbero essere in una condizione ideale che non esiste.
Da questi assunti antiempiristi segue una concezione del bene diversa da quella
dell'utilitarismo classico. In prima istanza, riconosce Sidgwick, diciamo che una cosa
buona se un mezzo che conduce al piacere, a una riflessione pi profonda, per, emerge
l'impossibilit di identificare buono e piacevole. Infatti, in primo luogo ci sono diversi tipi di
bont che derivano dalle cose e dalle azioni e non plausibile ridurli tutti a un unico tipo di
piacere; inoltre, come nel giudizio estetico, probabile che la bont produca un certo
piacere solo in persone dotate di un certo gusto morale; infine, chiaro che l'affermazione il
piacere il bene non una tautologia ma una proposizione dotata di significato. Quindi, non
possibile identificare bene e desiderato, ma semmai bene e desiderabile: il bene futuro e
nel complesso di un uomo sta in ci che ora desidererebbe e cercherebbe nel complesso, se
in questo momento avesse accuratamente previsto e adeguatamente capito tutte le
conseguenze di tutte le diverse linee di condotta a lui disponibili.
Sidgwick abbandona la concezione benthamiana dei piaceri come stati mentali semplici e
omogenei; non esiste una qualit intrinseca che accomuna tutte le sensazioni che chiamiamo
piaceri, ma la sola qualit loro comune la loro relazione al desiderio e alla volizione
espressa dal termine generale desiderabile.
Il bene ultimo complessivo ci che desidererei se i miei desideri fossero pienamente in
accordo con la ragione; questo ideale comporta un uguale interesse per tutta la mia esistenza
e, nel caso di un bene non egoistico, un uguale interesse per ogni esistenza. Senza dubbio
questa teoria del valore non edonista nel senso benthamiano; alcuni la ritengono una sorta
di compromesso tra una teoria dello stato mentale semplice e la concezione novecentesca
che identifica il benessere con la soddisfazione delle preferenze. Pi precisamente, si
tratterebbe di una teoria dei desideri informati, ossia di una tesi naturalistica che identifica il
bene con ci che viene desiderato in condizioni epistemiche favorevoli. Altri per osservano
che non l'essere desiderate, per Sidgwick, a fondare il valore delle cose, le quali restano
desiderabili indipendentemente da ogni desiderio attuale; perci, ritengono che la revisione
sidgwickiana del naturalismo utilitarista lo avvicini a una teoria del valori oggettivi.
L'intuizionismo e la morale del senso comune
Al termine del primo libro, Sidgwick distingue due sensi del termine intuizionismo. Da un
lato quello epistemologico che indica l'elemento intuitivo alla base della conoscenza morale;
questa l'accezione di intuizionismo che Sidgwick accetta, perch l'intuizionismo di
Bentham e Mill non consente di sapere che il piacere l'unico fine ultimo, ma solo che certi
tipi di azione tendono a condurre al piacere: l'esperienza ci informa sui fatti, non giustifica
valori. D'altro canto, c' il senso normativo, per cui intuizionismo indica un metodo
dell'etica che definisce la correttezza delle azioni a priori, ossia non considerando le loro
conseguenze probabili, ma la loro conformit a dettami di dovere presupposti. Questa teoria
si contrappone all'induttivismo utilitarista e, in una delle sue versioni, l'oggetto polemico
principale dei Methods. Sidgwick distingue tre versioni, o tre fasi, dell'intuizionismo. La
forma pi semplice sostiene che abbiano una conoscenza immediata di singoli giudizi su
azioni particolari; per certi versi questa prospettiva affine a quella induttivista perch nega
una conoscenza diretta delle norme generali, interpretandole come esito di un'induzione da
giudizi particolari. Il problema dell'intuizionismo percettivo che queste intuizioni
particolari non sono sempre indubitabili, n sempre coerenti tra di loro, n univoche tra
diversi giudizi competenti. Per questo la forma pi comune di intuizionismo quello
dogmatico, che considera autoevidenti le regole generali di condotta. Questo approccio, che
costituisce l'obiettivo polemico principale del libro, si concentra su quelle norme che
apparivano a Sidgwick a volte dubbie e confuse, altre volte dogmatiche, irragionevoli e
incoerenti. La necessit di portare ordine in questo insieme normativo confuso conduce a
una terza fase dell'intuizionismo, quella filosofica, che procede a ricercare uno o pi principi
che, a un livello ancora pi elevato di astrazione, consentano di dedurre e giustificare le
norme della Msc. L'analisi filosofica evidenzia i principi davvero autoevidenti che possono
giustificare giudizi particolari e regole generali. Mentre i primi due livelli forniscono
conoscenze morali materiali su singole azioni o norme generali, il terzo fornisce principi
formali suscettibili di unificare le diverse norme e giudizi particolari. Al livello
dell'intuizionismo filosofico si realizza per Sidgwick quella conciliazione tra intuizionismo
e utilitarismo che costituisce l'esito dell'analisi della Msc compiuta nel terzo libro. Il primo
utilitarismo aspirava a sovvertire le regole della Msc; Bentham, osserva Sidgwick, assuma
una posizione troppo puramente distruttiva e tratta la morale del senso comune come inutile
acrimonia e disprezzo. Per Sidgwick, la Msc il materiale che l'etica filosofica deve
sistematizzare; una teoria va rifiutata se in radicale conflitto con il senso comune, ma non
pu nemmeno assumerlo come criterio ultimo di verit. Il terzo libro cerca dapprima di
formulare le regole della Msc nella maniera pi accurata possibile, per poi discutere se
l'intuizionismo dogmatico riesca a costruire un sistema etico coerente.
Il filosofo non ha il compito di giustificare la Msc, ma quello di enunciare in modo ampio e
chiaro quelle intuizioni primarie della ragione la cui applicazione scientifica ci consente sia
di rendere sistematico sia, contemporaneamente, di correggere il pensiero morale comune
dell'umanit. L'obiezione all'intuizionismo quindi che esso accetta acriticamente le regole
della Msc, senza operarne quella critica e quella sistematizzazione che costituiscono il
compito principale di una teoria filosofica. Per preparare il passaggio all'intuizionismo
filosofico, Sidgwick formula quattro criteri per accettare una proposizione come intuizione.
1) In primo luogo, dev'essere formulata in termini chiari e precisi. 2) Inoltre, va affermata
solo dopo un'attenta riflessione; un'intuizione non pu nascere da mere impressioni o
impulsi, n limitarsi a riflettere la tradizione o un'autorit riconosciuta: un dettame della
ragione e dev'essere indipendente da sentimenti, costumi e modi di pensare storicamente
determinati. 3) Le intuizioni devono formare tra loro un sistema coerente; se due intuizioni
si contraddicono, una di esse va riformulata o abbandonata. 4) L'autoevidenza delle
intuizioni deve essere riconosciuta da tutti i giudici competenti, in quanto la verit la
stessa per tutte le menti; il fatto che qualcuno neghi una certa proposizione non pu non
mettere in dubbio la sua autoevidenza. Alla luce di questi criteri, Sidgwick ritiene che le
massime della Msc, relative a prudenza, benevolenza, giustizia, veracit, mantenimento
delle promesse, non costituiscano autentiche intuizioni: sono tutte troppo vaghe per essere
autoevidenti, e o non si riesce a trarne una norma precisa oppure, quando si cerca di renderle
precise, ci si imbatte in differenze di opinioni tra gli esperti.
Il problema centrale, per Sidgwick, l'impossibilit di delimitare la validit delle norme
accettate senza far riferimento a un altro principio; e in genere ci viene fatto ricorrendo la
principio di utilit. Ci mostra che i principi della Msc non sono indipendenti e
autoevidenti, perch, affinch lo siano, i limiti di ciascun principio devono poi essere
presunti implicitamente dall'intuizione che rivela il principio stesso. Anche se si ammette
che alcune clausole possano essere incorporate nel dovere di mantenere le promesse
risultando a tutti chiare ed evidenti, in molte situazioni la coscienza resta perplessa, perch i
limiti dell'obbligo rimangono incerti: ad esempio, quando la promessa stata fatta in seguito
ad affermazioni false, quando sono state celate conseguenze importanti, quando al
promettente si fatto credere che le conseguenze sarebbero state diverse, quando c' stata
coercizione, oppure le circostanze sono nel frattempo cambiate.
La conclusione del terzo libro mira a confutare la duplice implicazione contenuta
nell'asserzione di Whewell che quella intuizionista una morale indipendente: da un lato,
che i principi intuitivi della Msc determinano assolutamente e conclusivamente la moralit
delle azioni; dall'altro, che non c' alcun principio ad essi superiore. Sidgwick mostra che
nessun principio, tra quelli ammessi dall'intuizionismo dogmatico, riesce a incorporare le
eccezioni accettabili senza diventare dubbio e non universalmente accettato. Ne segue che i
principi della Msc non sono indipendenti, sia perch non determinano conclusivamente
l'obbligatoriet delle azioni, sia perch la loro effettiva obbligatoriet determinata da un
altro principio. Infatti, in molte circostanze c' bisogno di un principio valido senza
eccezioni per definire la validit dei principi dipendenti. Perci, la moralit del senso
comune pu ancora essere perfettamente adeguata a dare indicazioni pratiche alla gente
comune in circostanze comuni, ma il tentativo di farla assurgere a sistema di etica
intuizionista porta in primo piano le sue inevitabili imperfezioni, senza peraltro aiutarci a
eliminarle. In sostanza, non c' nei Methods un serio confronto con il tentativo di Whewell
di elevare la Msc a sistema di etica intuizionista, ma solo una discussione della Msc stessa,
con riferimenti generici ai tentativi degli intuizionisti dogmatici di risolvere i problemi cui
essa va incontro. Ci configura un'evidente disparit rispetto a quanto accade nel quarto
libro, dove quando Sidgwick riscontra un errore in Mill segue il piano del suo libro e cerca
di correggerlo nei termini dell'utilitarista con cui Mill lavorava.
I principi primi autoevidenti e l'edonismo etico
La discussione della Msc si completa attraverso la dimostrazione che il principio di utilit
in grado sia di sostenere la validit generale dei giudizi di senso comune sia di
sistematizzarli in una struttura in cui i conflitti possano essere risolti. Questo consente a
Sidgwick di mostrare che la Msc conduce all'utilitarismo, perch richiede un principio che
possa risolvere i conflitti tra regole, definirne la validit ed estenderne la portata ai nuovi
casi. Sidgwick osserva che alcuni principi generalissimi, pi volte evocati nella rassegna
della Msc, si possono considerare autentiche intuizioni. Si tratta di principi di carattere
astratto, che non consentono di ricavare conclusioni normative immediate, ma che appaiono
indubbiamente veri non appena li si afferri. Il primo il principio di giustizia o imparzialit,
in base al quale non pu essere che un certo trattamento da parte di A nei confronti di B sia
giusto, e che lo stesso trattamento da parte di B nei confronti di A sia invece ingiusto per il
solo fatto che essi sono due individui diversi, e senza che ci sia una qualche differenza tra le
nature dei due o le circostanze che si pu considerare una base ragionevole per una
differenza nel trattamento.
Una seconda intuizione contenuta nel principio secondo cui dobbiamo assumere un
atteggiamento imparziale nei confronti di tutte le parti della nostra vita, mirando a realizzare
il maggior bene complessivo; questo assioma di prudenza razionale impone di tenere in
considerazione il futuro al pari del presente, senza attribuire valore alla mera differenza di
priorit o posterit nel tempo.
Dal punto di vista dell'universo, il bene di un qualche individuo specifico non pi
importante del bene di un altro individuo, a meno che non ci siano speciali ragioni di
credere che probabile che si realizzi un bene maggiore nell'un caso rispetto all'altro. Se
perci razionale ricercare il bene in generale, non limitandosi a una parte, non dovremmo
tener conto della differenza tra le persone, ma promuovere il bene complessivo al massimo
grado, sia esso collocato in una vita o in un'altra. Dai du principi secondo cui a) il bene di
ciascuno conta come quello di ogni altro e b) la ragione comanda di promuovere il bene
completo e non solo una parte, si pu ricavare la massima della benevolenza universale, per
la quale, a parit di altre condizioni, doveroso perseguire il bene di ciascun altro al pari del
proprio. Tutti gli assiomi non fanno che applicare ripetutamente l'idea iniziale di
imparzialit, eliminando progressivamente le limitazioni arbitrarie ai principi accettati;
perci, essi indicano dei vincoli universali che si impongono a una considerazione razionale
dell'agire. Sidgwick traduce subito l'istanza di imparzialit in termini di bene, per ottenere
imprecisi, le stime quantitative che essi offrono sono sufficienti, secondo Sidgwick, per gli
scopi principali dell'utilitarismo.
all'utilitarismo delle regole, in base al quale si deve aderire alla Msc anche a costo di
rinunciare all'azione ottimifica. In realt, per Sidgwick compito dell'utilitarismo riformare
la Msc, vuoi sostituendo alcune regole vuoi sostituendo nuove eccezioni a regole accettate;
la sua posizione perci lontana dalle prospettive di pura apologia dell'esistente proprie del
neoidealismo a lui contemporaneo. Occorre sempre valutare il livello di accettazione della
nuova regola, perch, se molti non la seguono, i costi dell'aver eroso la fiducia nella regola
stabilita potrebbero essere superiori ai benefici; particolare prudenza va poi esercitata
nell'accettare singole eccezioni a regole che non si intendono cambiare, data la sottigliezza
necessaria per comprendere la regola modificata. In questo contesto, Sidgwick avanza la
paradossale dottrina dell'utilitarismo esoterico, ossia l'idea che, in circostanze rare e
particolari, possa essere giusto fare o raccomandare segretamente ci che non sarebbe giusto
fare pubblicamente e non sarebbe opportuno raccomandare apertamente. E poich
l'utilitarista deve tener conto delle conseguenze che ci che giusto in pochi casi potrebbe
avere su tutti gli altri casi in cui sbagliato, l'idea stessa che la segretezza possa rendere
giusta un'azione che altrimenti non lo sarebbe, deve essere essa stessa tenuta relativamente
segreta, e allo stesso modo sembra conveniente che la dottrina che afferma l'utilit della
moralit esoterica debba essere essa stessa mantenuta esoterica. Sembra perci che un
utilitarista debba desiderare una societ costituita in misura prevalente da non utilitaristi; a
meno di un profondo cambiamento della natura umana, la situazione migliore infatti che
l'utilitarismo venga professato solo da una cerchia ristretta e segreta. Questa conclusione,
che sembra condurre a una prospettiva poco liberale della societ, dubbia anche per via
della discutibile affidabilit epistemica del giudizio di una minoranza di saggi autoelettisi.
Secondo John Rawls, il rapporto istituito da Sidgwick tra regole della Msc e principi
utilitaristi sarebbe analogo al suo modello di equilibrio riflessivo, in cui si realizza un
progressivo aggiustamento reciproco tra giudizi morali ponderati e i principi di una teoria la
cui iniziale plausibilit deriva dall'esprimere e sistematizzare tali giudizi: sia i giudizi sia i
principi sono accettati condizionalmente e possono essere modificati nel corso della
riflessione. Si pu per dubitare che la procedura dei Methods corrisponda a questo
modello, dato che Sidgwick sembra riporre massima fiducia nella Msc e limitare al minimo
l'intervento correttivo del principio di utilit. Lo stesso fatto di disporre di una procedura
decisionale definita e di un codice morale facilmente utilizzabile una rilevante quota di
utilit da conteggiare, che pu riequilibrare l'eventuale perdita di utilit derivante dalla
mancata violazione delle regole in singoli casi. Perci, da un lato egli viene meno al
principio generale per cui un utilitarista deve sostenere che sempre ingiusto che un uomo
faccia consapevolmente qualcosa di diverso da ci che egli crede conduca maggiormente
alla felicit universale; dall'altro, riconosce che il fine cui mira il principio di utilit viene
per lo pi realizzato proprio aderendo alla Msc, che garantisce un'utilit maggiore di ogni
altra procedura decisionale.
Per Sidgwick, l'egoismo un metodo razionale, che consente di ottenere risultati perfino pi
accurati rispetto a quello utilitarista, anche se quest'ultimo ha un potere esplicativo maggiore
e fornisce una pi chiara sanzione della Msc. Entrambi si fondano su assiomi autoevidenti:
l'uno su quello della prudenza, unito all'idea che sia razionale mirare al bene in generale;
l'altro su questi assiomi uniti all'idea che dal punto di vista dell'universo il bene di uno non
conta pi di quello di un altro. Perci, se l'egoista si limita ad affermare che perseguire il
proprio interesse giusto dal suo punto di vista, non lo si pu convertire all'utilitarismo, se
non nei limiti in cui la benevolenza razionale nel suo interesse; solo se si spinge a
sostenere che il principio egoista corretto dal punto di vista dell'universo gli si pu
mostrare che la sua felicit non pi importante di quella di chiunque altro.
Sidgwick liquida un ulteriore elemento dell'utilitarismo classico, ossia l'idea che si realizzi
un'armonia, se non necessaria e prestabilita almeno empiricamente abbastanza certa, tra
interesse individuale e felicit collettiva e che vi sia pertanto continuit tra edonismo
egoistico ed edonismo universale. Per Sidgwick si tratta di due metodi dell'etica diversi,
entrambi razionali ma incompatibili, che trovano convergenze occasionali e non garantite a
priori. Tale difficolt enfatizzata dal fatto che per lui l'egoismo, da motivo dominante nella
psicologia umana, diventa un metodo per ottenere conclusioni, razionalmente giustificate su
che cosa sia giusto fare: se si ammette un tale metodo, e si sostiene persino che sia radicato
nella Msc, la distanza dagli altri due metodi diventa obiettivamente invalicabile.
L'unico modo per razionalizzare completamente la morale sarebbe affermare l'esistenza di
un Essere supremo, garante del nesso tra felicit e virt; ci consentirebbe di realizzare una
perfetta coincidenza tra ci che razionale dal punto di vista del bene universale. Questa del
governo morale del mondo la soluzione classica al problema del dualismo che Sidgwick
trovava in particolare in Butler, anche se Sidgwick pone un dualismo pi profondo di quello
tradizionale, contrapponendo non razionalit strumentale e razionalit morale, ma morale
egoistica e morale universalistica. In ogni caso, per Sidgwick l'affermazione teologica non
giustificabile, n il nostro desiderare che sia vera la rende pi probabile; anche la soluzione
kantiana dei postulati, che egli aveva momentaneamente accettato, respinta con forza nei
Methods. L'opera di Sidgwick costituisce a un tempo il pi importante tentativo di
formulare l'utilitarismo in maniera filosoficamente adeguata e il principio della sua
dissoluzione. Essa produce uno sforzo monumentale per collocare la tesi benthamiana nel
quadro di una teoria generale della ragion pratica, fornendole una fondazione intuizionista e
riconciliandola con le nostre regole morali ordinarie, senza cadere nell'eclettismo milliano.
Il risultato complessivo, per, poco confortante: all'intuizione morale utilitarista si
contrappone un'intuizione contraria, per cui la decisione diventa una mera opinione; inoltre,
una volta riconosciuta l'importanza di un codice morale stabile, il principio di utilit rischia
di svolgere un ruolo puramente teorico in rapporto alla Msc, la quale non vi fa ricorso se
non in maniera implicita e inconscia. L'idea che, se vuole riformare la Msc, l'utilitarismo
debba diventare esoterico in fondo l'ammissione della sua impossibilit: una teoria
inapplicabile perch una societ di utilitaristi sarebbe utilitaristicamente indesiderabile;
perch l'utilitarismo realizzi il suo programma occorre che la maggior parte dei membri
della societ non accettino l'utilitarismo.
CAPITOLO SESTO L'utilitarismo ideale
Il consequenzialismo non edonistico di Moore
La ricerca filosofica di George Edward Moore ( 1873-1958) muove dalla critica allo
psicologismo: gli oggetti del giudizio non sono astrazioni da eventi psicologici, ma concetti,
ossia contenuti universali esistenti indipendentemente dalla mente. Questo realismo sui
concetti alla base della metaetica presentata in Principia Ethica (1903) e si colloca agli
antipodi rispetto al naturalismo utilitarista e al suo associazionismo psicologico. Sulla scia
di Sidgwick, Moore accetta l'aspetta metaetico dell'intuizionismo, ossia la semplicit e
l'irriducibilit del bene, respingendone invece l'aspetto normativo, ossia l'affermazione di
precetti morali autoevidenti. Le affermazioni morali primarie riguardano il valore degli stati
di cose; esso dipende da una qualit peculiare, il bene, che non si pu identificare con
nessuna propriet naturale; ogni tentativo di identificazione lascia aperta la domanda sulla
bont di ci che risulta. Se buono e piacevole fossero identificabili, la domanda la tal cosa
piacevole, ma buona? Risulterebbe retorica e la sua risposta evidente; il fatto che non lo
sia segnala che l'identificazione ingiustificata. Il bene perci una propriet indefinibile e
irriducibile ad altro; Moore dice che si tratta di una propriet non naturale, senza intendere
che sia qualcosa di metafisico, ma solo una propriet che si collega a quelle naturali senza
identificarsi con esse; una propriet semplice, come il giallo, che si pu solo cogliere
intuitivamente. Tale peculiarit garantisce l'autonomia dell'etica, ossia la sua irriducibilit
alle scienze naturali o alla religione. Moore non intende postulare alcuna peculiare facolt di
percezione di oggetti non naturali, ma solo segnalare che le proposizioni morali non sono
suscettibili di prova; il che non implica che siano vere perch conosciute in questo modo, al
contrario di quanto sostenevano gli intuizionisti precedenti.
La tendenza dei filosofi a identificare il bene con l'una o l'altra propriet naturale da
Moore stigmatizzata con l'espressione fallacia naturalistica. I Principia Ethica sono dedicati
in larga parte a criticare gli approcci tradizionali che secondo Moore incorrono in tale
errore. A queste teorie sfugge il fatto che chiunque comprende la differenza tra chiedere se
una cosa buona e se essa piacevole, desiderata o approvata; la prima domanda non
coinvolge questioni fattuali, ma una dimensione valoriale a esse irriducibile: perci
chiunque, quando pensa a valore intrinseco o pregio intrinseco, o quando dice che una
data cosa dovrebbe esistere ha in mente quell'unico oggetto. L'utilitarismo offre esempi
particolarmente evidenti di questo errore: quando Bentham afferma che la massima felicit
il fine giusto dell'azione, intendendo con giusto ci che conduce alla felicit generale, sta
dicendo che la produzione della massima felicit ci che produce la massima felicit;
formula una tautologia. Giusto pu significare ci che conduce alla felicit generale solo se
lo si applica ai mezzi per un fine, non al fine in se stesso. Moore distingue due domande
fondamentali in etica: la prima riguarda quali tipi di cose dovrebbero esistere di per s;
l'altra quali azioni dovremmo compiere. Alla prima domanda si pu rispondere facendo
appello all'intuizione di ci che di per s in grado di rendere migliore il mondo; alla
seconda osservando la tendenza delle azioni a promuovere tale bene. Per Moore avere
intuizioni morali non significa assentire razionalmente a proposizioni sul dovere, ma
cogliere in maniera quasi estetica l'intrinseca preferibilit di certi stati di cose. L'insieme
formato da una cosa buona e una indifferente pu essere molto migliore della cosa buona da
sola e l'insieme di cose indifferenti pu costituire un intero dotato di valore. Moore fa
l'esempio della coscienza di un oggetto bello per mostrare che questa totalit non
riducibile alla somma delle sue parti, giacch l'aggiunta della coscienza non sempre
conferisce un gran valore, e spesso anche nessun valore, alla totalit di cui parte. In base a
questo principio, le parti di una totalit non hanno il valore di mezzi, ma di elementi del
valore intrinseco; non diventano di valore per il fatto di essere parti, ma sono condizione per
l'esistenza del valore. Si tratta di una relazione complessa, analoga a quella tra le parti di un
dipinto e il suo valore artistico, che non pu essere interpretata in termini causali. Le
proposizioni sul giusto e sul dovere possono invece essere provate empiricamente, ossia
osservando la loro tendenza a produrre conseguenze pi o meno buone; perch implicano a
un tempo affermazioni sul valore intrinseco e relazioni causali dell'atto con certe
conseguenze. Dire che x la cosa giusta da fare significa dire che x , insieme con le sue
conseguenze, presenta una somma di valore intrinseco maggiore di ogni alternativa
possibile; perci la certezza molto ridotta.
Nell'avanzare proposizioni normative basate sul valore intrinseco delle conseguenze
positive, si passa dall'essere al dover essere; tale passaggio giustificato giustificato dal
fatto che a certe configurazioni complessive di stati di cose, a certi fatti naturali, si associa
in misura particolare la propriet non naturale. Perci, la denuncia della fallacia naturalistica
non va confusa con il problema is-ought, cio con l'impossibilit di passare dall'essere al
dover essere. Contro il naturalismo utilitarista, Moore sostiene una fondazione intuizionista
dell'etica, ma, avendo fatto propria la critica di Sidgwick all'associazionismo e all'edonismo
psicologici, procede a confutare anche l'edonismo etico. Moore argomenta contro
l'affermazione secondo cui i beni come la bellezza sarebbero oggetti razionali della volont
solo se fruiti da esseri umani. Per Moore, se si immagina un mondo fornito di ogni bellezza
ipotizzabile e un altro di ogni bruttezza, ammettendo che nessun essere umano sia mai
vissuto o mai vivr in nessuno dei due, razionale giudicare migliore il primo, piuttosto che
il secondo; supposto infatti che nessun bene pi grande potesse essere raggiunto in nessuna
delle due situazioni, la bellezza sarebbe comunque da preferirsi alla bruttezza, anche in
mancanza di ogni contemplazione umana. Moore riprende poi le argomentazioni platoniche
del Filebo, per mostrare che il piacere senza la coscienza di provarlo sarebbe privo di
valore; ne conclude che buono come fine non il piacere, ma il piacere unito alla coscienza
di provarlo. Se poi si sostiene che proprio tale coscienza del piacere ci che gli utilitaristi
hanno sempre implicitamente inteso come bene, il metodo dell'isolamento assoluto consente
di confutare anche questa posizione.
vero semmai che non si approva nulla che non produca un qualche piacere, ma questa
una tesi diversa; inoltre, pu darsi che ci che determina tale approvazione sia il fatto che
tale maggior piacere si accompagna a una maggior quantit di altre cose, che sono il vero
motivo dell'approvazione. Anche ammettendo che ci sia poco o nessun valore nella bellezza
in s, per il principio delle totalit organiche non detto che tutto il valore stia nel
godimento che suscita; possibile che il valore appartenga all'intero stato e solo a esso.
La coscienza del piacere un costituente di molte totalit di valore e pu darsi che, di per
s, abbia pi valore della contemplazione della bellezza; ma la totalit costituita dalla
piacevole contemplazione della bellezza ha un valore infinitamente pi grande. Inoltre, il
senso comune considera superiori certi piaceri anche se non sono pi piacevoli e anche se
non producono un maggior numero di stati piacevoli. In sostanza, isolando la coscienza del
piacere da ogni altra cosa, ci rendiamo conto che essa non pu costituire l'unico bene: per
quanto grande sia il valore di tale coscienza, molti stati mentali complessi nei quali essa
figura solo come parte sono indubbiamente di maggior valore. Nell'ultimo capitolo, Moore
presenta il suo ideale morale, ossia dice quali cose sono di per se stesse buone; i suoi due
beni sommi sono l'affetto per le persone e la fruizione di ci che bello, nell'arte e nella
natura. Inoltre, anche la conoscenza della reale esistenza dell'oggetto contribuisce al valore:
la fruizione di un oggetto di valore inferiore realmente esistente ha pi valore della fruizione
di uno di valore superiore solo immaginato. Anche l'affetto per le persone non si limita alla
fruizione delle loro qualit spirituali, ma si estende alla fruizione della bellezza corporea in
cui esse trovano espressione; la combinazione di questi due aspetti d luogo a una totalit
organica di grande valore. Moore afferma la superiorit della sfera spirituale, ma sostiene
che uno stato di cose in cui le propriet materiali siano incluse debba essere molto migliore
di qualunque altro da cui siano assenti. Quello di Moore un ideale morale molto
sofisticato, lontano sia dal grezzo piacere degli utilitaristi, sia dallo spiritualismo
trascendentale dei neoidealisti; con un'etichetta introdotta pochi anni dopo da Rashdall, la
sua posizione stata definita utilitarismo ideale. Tale denominazione per problematica,
dato che Moore abbandona uno dei tratti essenziali dell'utilitarismo, ossia il welfarismo;
nella misura in cui ammette l'esistenza di valori indipendenti dal riferimento alla coscienza
di individui senzienti, spinge l'idea che, per avere valore, una cosa debba contribuire al
benessere di qualcuno. Questa connessione necessaria con il benessere sottolineata in tutte
le forme di utilitarismo; la sua negazione solleva seri dubbi sull'appartenenza dei Principia
Ethica alla tradizione utilitarista. Nella successiva opera Ethics (1902), Moore assume un
atteggiamento leggermente diverso rispetto all'edonismo. Egli ammette sia che l'esistenza di
un'eccedenza di piacere sul dolore costituisca spesso un criterio per distinguere le azioni
giuste da quelle ingiuste, sia che l'esistenza di un valore intrinseco necessariamente
collegata alla sua consapevolezza da parte di un essere cosciente; in altri termini, rinuncia
alla tesi per cui la bellezza sarebbe intrinsecamente di valore anche se non vi fosse nessuno
a contemplarla, riavvicinandosi all'idea che nulla pu avere valore intrinseco se non
contribuisce al benessere di un individuo senziente. Questa posizione abbastanza in linea
con la tradizione welfarista: sebbene il piacere non sia l'unico valore intrinseco, non possono
dirsi tali nemmeno l'amore e la bellezza in s, ma solo in quanto siano piacevolmente
esperiti da chi li comprenda autenticamente.
Il circolo di Bloomsbury era un gruppo di intellettuali conformisti, tra cui l'economista
Keynes e gli scrittori Virginia Woolf, che aspiravano a una rivoluzione intellettuale e morale
rispetto al conformismo repressivo dell'epoca vittoriana. Essi videro nei Principia un nuovo
vangelo morale, che li liberava dallo scientismo positivista indicando nell'arte, nell'amicizia
intellettuale e nell'amore i vertici del valore umano. In una lettera Strachey affermava che
Principia Ethica aveva fatto naufragare e mandato in frantumi tutti gli scrittori di etica da
Aristotele e Cristo a Herbert Spencer e Bradley, applicando per la prima volta il metodo
scientifico al ragionamento.
Moore enfatizza a tal punto l'idea che l'essere utile l'unica considerazione che rende giusto
un atto da dichiarare evidente l'identit tra le proposizioni questa la cosa giusta da fare e
questa cosa produrr la massima quantit di bene possibile nell'universo. La sua
concezione dell'utilitarismo che un'azione pu dirsi giusta se e solo se produce
un'eccedenza di piacere sul dolore almeno pari a ogni altra azione disponibile all'agente, ed
ingiusta se produce un'eccedenza di piacere sul dolore inferiore rispetto a un'altra azione
disponibile. L'enfasi sulla massimizzazione si collega a un'analoga enfasi sul calcolo delle
conseguenze; calcolare tutte le conseguenze di ciascun corso d'azione l'unica procedura
che consente di determinare correttamente l'azione da compiere: non si pu fare affidamento
sul tipo di azione, o la classe a cui appartiene. Poich il valore delle conseguenze dipende
anche dalle circostanze, improbabile che un'azione sia giusta o ingiusta in tutti i casi; ci
sono senza dubbio azioni giuste o ingiuste nella grande maggioranza dei casi. Infine, Moore
chiarisce che il criterio di valutazione dell'agire implica la considerazione delle conseguenze
effettive, non di quelle probabili o che si potevano prevedere; tale criterio non si riscontra
negli utilitaristi classici, i quali insistevano sulla tendenza degli atti e dunque su quelle che,
in base all'esperienza precedente, si potevano ritenere le loro conseguenze probabili.
Secondo Moore, invece, l'azione giusta solo quella che determina le conseguenze
ottimifiche; chi ha scelto l'azione che prometteva le migliori conseguenze, ma che poi,
sfortunatamente, risultata non ottimifica, ha agito in maniera sbagliata.
Una conclusione giustificata richiede la conoscenza di tutti gli effetti di tutte le alternative
possibili, del loro valore e del valore assunto dalla totalit cui danno luogo assieme a tutti gli
altri eventi dell'universo: una volta assunto uno standard epistemico cos elevato diventa
inevitabile concludere che non abbiamo mai alcuna ragione di ritenere che un'azione sia
nostro dovere; non possiamo mai avere la certezza che una qualsiasi azione produrr il
massimo valore possibile. Ci che si pu sperare di fare indicare l'azione che ha la
maggiore probabilit di produrre conseguenze buone, considerando un numero limitato di
alternative. L'esito pratico non pu essere che affidarsi alle regole esistenti. Le conclusioni
pi certe circa la probabilit di conseguenze benefiche riguardano infatti l'utilit di alcune
regole generali e di altre universalmente riconosciute, queste sono regole necessarie, relative
a interessi umani fondamentali, la cui generale osservanza sarebbe utile in ogni societ,
indipendentemente dalle nostre opinioni sulla nozione di bene in se stesso. Bench non si
possa negare che abbiano eccezioni giustificabili, a regole di questo tipo bisogna
incondizionatamente obbedire: Sembra che quando in gioco una regola generalmente utile,
si possa dire che essa va sempre osservata, non per la ragione che essa sia utile in tutti i casi
particolari, ma perch in ciascun caso particolare la regola ha maggiore probabilit di essere
utile. Sebbene ci possano essere sicuramente casi in cui la regola andrebbe infranta, noi non
possiamo mai sapere quali siano questi casi e perci non dobbiamo infrangerla mai.
D'altro canto, seppure l'infrazione fosse giustificata in un singolo caso, correrebbe il rischio
di generarne altre ingiustificate, e quindi di incoraggiare azioni ingiuste, da parte dell'agente
o di altri. Si deve ricorrere al calcolo delle conseguenze solo quando non c' una regola
accettata; nel farlo, per, occorre sempre tener presente l'impossibilit di calcolare tutti gli
effetti. Moore offre tre indicazioni per aiutare la decisione in casi dubbi: a) in primo luogo,
ci che un individuo preferisce, anche se di minor valore, infine pi appropriato, perch
l'inclinazione facilita il perseguimento del bene; b) va data la preferenza a se stessi e a
coloro per cui si ha grande interesse, perch ci aumenta la probabilit di realizzare i beni
ricercati; c) con buona pace di Sidgwick, si deve scontare l'utilit dei beni pi lontani,
perch sono meno sicuri.
Ancor pi rilevante l'esclusione di poter sostituire nuove regole a quelle esistenti, in base
alla loro maggiore utilit attesa. Questa strategia riformatrice non ritenuta percorribile da
Moore, perch queste regole inevitabilmente imporrebbero cose che alla maggior parte delle
persone appaiono impossibili, o presupporrebbero condizioni diverse per produrre i loro
effetti positivi. Nella stragrande maggioranza dei casi, perci, l'azione che massimizza
l'utilit per Moore quella con cui l'agente si conforma alle regole diffuse.
Il consequenzialismo di Moore, pur essendo ispirato alla formulazione centrata sui singoli
atti, risulta affine, a livello di procedura decisionale, a quello che verr denominato
utilitarismo delle regole; in particolare, a quella forma che fa leva sulle regole reali, cio
sostiene che quelle esistenti, se effettivamente osservate, sono di per s ottimifiche. Mentre
infatti per Sidgwick occorre mirare a quei piccoli cambiamenti che possono incrementare
l'utilit generale, per Moore le regole esistenti e osservate devono semplicemente essere
seguite. Per un verso, Moore riduce il paradigma classico al solo consequenzialismo; per
altro verso ne sterilizza in misura quasi completa la portata rivoluzionaria rispetto alla
morale comune. Una prima difficolt nasce dalla discussione dell'obiezione che insiste sul
nesso tra i motivi di un'azione e il suo essere giusta o ingiusta. Moore ne distingue due
forme: la prima sostiene che, oltre a produrre le migliori conseguenze possibili, l'azione
deve anche essere compiuta per un certo motivo; non nega dunque il principio
consequenzialistico, ma solo che tutte le azioni che producono le migliori conseguenze
siano giuste. La seconda forma sostiene invece che i motivi determinino completamente il
giusto e perci implica che vi siano azioni giuste che non producono le migliori
conseguenze. Moore risponde riprendendo la tradizionale distinzione tra valutazione
dell'atto e valutazione dell'agente: i motivi sono ragione della lode o del biasimo meritati
dall'agente. Dire che un'azione merita lode non significa dire che giusta, ma che giusto
lodarla, ossia che giusto valutare positivamente il motivo per cui l'agente l'ha compiuta.
Possiamo anche affermare che i motivi buoni tendono generalmente a produrre azioni
giuste, sicch opportuno biasimare chi agisce per motivi cattivi, anche se nel caso
particolare quei motivi possono non condurre a un'azione ingiusta e anche se non sono i
motivi a rendere ingiusta l'azione. Il problema, per, che affermare il carattere
intrinsecamente buono di certi motivi incompatibile con la separazione utilitarista tra
difendere un punto di vista razionale testimonia contro la loro posizione; lo stesso principio
su cui si basa la loro preferenza del piacere sembra metterli nella necessit di approvare uno
scopo simile per altre persone.
Anche l'utilitarismo edonistico incorre in una contraddizione: se infatti, come sostiene
Sidgwick, esiste un ordine razionale dell'universo, strano che la ragione porti a scegliere
fini diversi dal piacere. Se gli esseri umani cono in grado di preferire ci che ragionevole a
ci che piacevole, la ragionevolezza di questa preferenza non pu dipendere dal fatto che
essa conduca al piacere; il perseguimento del bene superiore potr condurre anche a quello
inferiore, ma non solo un mezzo in vista di quello. In sostanza, la stessa insistenza di
Sidgwick sull'autorit della ragione implica che l'essere razionali sia un valore intrinseco e
non strumentale; il che significa che la virt, intesa come determinazione razionale alla
benevolenza universale, un elemento essenziale del bene, accanto e al di sopra del piacere.
La coscienza comprende tre elementi: il pensiero, il sentimento e la volizione, per cui il
bene umano integrale include non solo il piacere, come elemento sensibile della coscienza, e
la virt, intesa come buona volont di perseguire il bene della volont, ma anche una certa
perfezione delle attivit intellettuali.
La teoria del valore di Rashdall molto pi aristotelica che utilitarista; ci che vale, in una
vita umana, un insieme armonico e complesso di capacit intellettuali, morali e pratiche, le
quali non si riducono a stati soggettivi e soprattutto non al piacere che producono. Per
Rashdall il piacere sempre parte del bene, come riflesso soggettivo di qualcosa che di per
s dotato di valore. Moore suggerisce un ideale morale estetizzante ed elitario, mentre
Rashdall presenta un'elaborazione sistematica della concezione eudemonistica classica; il
primo si presenta come annunciatore di un nuovo vangelo morale, il secondo di inserisce in
una tradizione che da Platone e Aristotele arriva fino a Cumberland e Butler.
Per sostenere la sua concezione eudemonista della vita buona, Rashdall ricorre
all'intuizione: il solo modo per mostrare che il piacere non il vero scopo della vita fare
appello alla propria coscienza morale e a quella degli altri; le molte parti del bene, e i loro
relativi valori, vengono appresi intuitivamente e paragonati tra loro dalla ragion pratica.
Rashdall sottolinea per anche la maggior coerenza della sua teoria con il senso comune.
Questo riferimento alla Msc fatto valere anche nella teoria dell'obbligo; collegandosi alla
tradizione intuizionista e alla rivisitazione operante di Sidgwick, Rashdall sostiene che la
giustificazione ultima dell'utilitarismo ideale sta nell'essere implicato da quelli che sono gli
unici principi autenticamente autoevidenti, ossia gli assiomi sidgwickiani di prudenza,
giustizia e benevolenza razionale. Perci, mentre Moore postula l'identit tra giusto e
produttivo delle migliori conseguenze e propone una concezione peculiare di intuizione,
Rashdall si collega alla concezione tradizionale delle intuizioni come proposizioni
autoevidenti sul dovere, e cerca di mostrare che le uniche accettabili sono quelle che
sostengono l'utilitarismo ideale. Rashdall respinge la concezione deontologista dell'obbligo:
le regole degli intuizionisti sono vaghe, generano conflitti e non possono non ammettere
eccezioni, dal momento che, in particolari circostanze, le azioni possono avere conseguenze
impreviste. Perci, per determinare la loro validit occorre far riferimento alle conseguenze
sul benessere umano complessivo. Il suo criterio morale diventa il pieno sviluppo delle
capacit umane, in linea con la concezione classica dell'eudaimonia; e la teoria che ne deriva
avrebbe anche potuto definirsi eudeminismo universale. La sua concezione del valore
molto pi plausibile di quella di Moore e la sua strategia epistemologica, intuizionista e
coerentista, decisamente pi convincente, egli ritiene poi che, rispetto all'utilitarismo
edonistico, la sua tesi presenti il vantaggio di spiegare meglio la distinzione ordinaria tra le
diverse virt. Se il bene cos composito, e se non esiste alcuna caratteristica semplice che
funga da unit di misura comune a tutti gli elementi apprezzabili di una vita umana, come si
potranno operare scelte giustificate in nome della massimizzazione del bene atteso?
Rashdall riconosce l'esistenza di questo problema, osservando che la sua teoria presuppone
la commensurabilit non solo dei piaceri, ma di tutti gli elementi che costituiscono il bene
umano integrale. Tale commensurabilit non significa che una data quantit di un certo
elemento possa compensare la mancanza di altri; in particolare, falso che una sufficiente
quantit di beni inferiori possa compensare la mancanza di quelli superiori. Il suggerimento
di Rashdall che, per quanto concerne la virt propria, non mai lecito preferire una
qualsiasi quantit di beni inferiori al compiere il proprio dovere; se invece sono in gioco
effetti della nostra azione su altri, la coscienza ordinaria suggerisce che una considerevole
quantit di beni inferiori venga preferita a una piccola quantit di beni superiori.
La virt deve avere il primo posto: ma quale quantit di altri beni sufficiente per rendere
giusto che la su violi? Inoltre, possibile che diverse virt entrino in conflitto tra loro.
Non c' modo di misurare con esattezza cose come la cultura o la carit e il valore di un
bene relativo a molte circostanze. Ma l'impossibilit di ridurre giudizi di questo tipo a
precisione numerica non implica che i giudizi non vengano compiuti, o che non siano
quantitativi. Per l'appunto, tali giudizi vengono compiuti in maniera intuitiva e soggettiva,
pesando i diversi fattori secondo criteri imponderabili; mentre la teoria classica forniva un
criterio semplice e chiaro per valutare le conseguenze, l'utilitarismo ideale finisce per fare
affidamento esclusivamente sull'intuizione. Rashdall osserva che possono darsi conflitti tra
l'obiettivo di massimizzare il bene e quello di distribuirlo equamente; in particolare, una
distribuzione che non tenga conto delle capacit soggettive di trasformare le condizioni di
benessere in effettivo godimento del benessere rischia di avere risultati negativi sulla
quantit di benessere prodotto. La possibilit di beneficiare di condizioni particolari
consente ad alcuni di realizzare pi efficacemente beni che altrimenti non sarebbero
realizzati, sicch una certa misura di ineguaglianza necessaria in vista del massimo bene.
Il principio di eguaglianza va perci inteso non come diritto di ciascuno alla medesima
quota di beni, n a un'effettiva eguaglianza di opportunit, ma alla medesima considerazione
dei propri interessi; un diritto compatibile con una distribuzione fortemente diseguale. Non
solo Rashdall ne trae la conclusione che spesso non sbagliato sottrarre una piccola parte
del benessere inferiore della societ per consentire a una minoranza molto dotata di godere
del maggior benessere derivante dalle attivit intellettuali, ma anche che il miglioramento di
quelle che egli chiama le razze pi elevate dell'umanit possa comportare una minore
considerazione per quelle inferiori. Questa tesi abbandona l'egualitarismo utilitaristico in
favore di un principio perfezionistico per il quale la vita pi elevata intrinsecamente, in s
e per s, pi di valore di quella inferiore, sebbene possa essere raggiunta solo da un minor
numero di persone. Se, nell'affermare he il piacere sempre un elemento del valore,
l'utilitarismo ideale si distingue dal perfezionismo, nel difendere l'intrinseca superiorit della
vita intellettuale adotta chiaramente una concezione perfezionistica della giustizia.
L'opera di Rashdall, invece, integralmente dedicata a presentare e a difendere una
posizione utilitarista; paradossalmente, per, si tratta di un testo che, lungi dal fornire
finalmente una giustificazione sistematica, segna un irrimediabile distacco dalla
formulazione classica.
Diventa allora pi plausibile riconoscere, accanto a una pluralit di aspetti del bene, una
pluralit di caratteristiche che rendono giusta un'azione, il che finisce per ridurre la
benevolenza universale a un aspetto di una pi ampia concezione dell'agire virtuoso. Questo
il programma svolto dai neointuizionisti della prima met del Novecento, che ereditano la
metaetica non-naturalista di Moore associandovi una teoria deontologica del giusto. In
particolare, David Ross riformula l'intuizionismo tenendo conto sia del fatto che le norme
della Msc non sono verit eterne sia dei conflitti cui possono essere esposte; per ovviare a
questa difficolt, introduce la nozione di dovere prima facie, ossia dichiara che i precetti
ordinari sono considerazioni che tendono ad essere un dovere e che lo diventano
effettivamente solo quando non sono in contrasto con altri precetti. Nei casi di conflitto
occorre bilanciare il peso delle diverse considerazioni nelle specifiche circostanze; ci
sembra condurre infine a una rinnovata moralit delle conseguenze, dato che tra i nostri
doveri principali c' quello di produrre il maggior bene possibile e il bene caratterizzato
come uno stato di cose dotato di valore intrinseco. Tuttavia Ross non ritiene la virt
commensurabile al piacere e alla conoscenza e perci limita il bilanciamento all'interno
delle diverse considerazioni right-making; tale parziale consequenzialismo perci del tutto
estraneo alla prospettiva utilitarista.
CAPITOLO SETTIMO Il preferenzialismo
Economia del benessere e preferenzialismo
L'utilitarismo classico identificava l'utilit con il piacere, inteso come stato mentale
semplice. Nel quadro della rivoluzione marginalista, che propugnava una scienza economica
fondata matematicamente, difendere questo approccio significava impegnarsi ad affermare
la possibilit di misurazioni cardinali dell'utilit e di confronti interpersonali di utilit.
Questo progetto venne perseguito da Edgeworth, il quale introdusse il termine hedon per
indicare l'unit di misura del piacere, il minimo incremento di piacere percepibile; la somma
di queste unit d luogo a una funzione di utilit inidivduale e la somma delle funzioni di
utilit inidviduale conduce a una funzione di utilit generalizzata.
Molti, per, giudicarono inattendibili questi tentativi di matematizzare l'utilit e sostenne
che l'economia scientifica richiedesse l'abbandono dell'edonismo. In particolare, sotto
l'influenza di Pareto, molti economisti accettarono una nozione di utilit come soddisfazione
delle preferenze ordinali degli individui rispetto a coppie di alternative sociali; questa
prospettiva nega che l'utilit delle varie opzioni possa essere stimata attribuendo loro un
valore cardinale e si accontenta di elencarle in un ordine di preferenza. L'agente economico
ideale dell'economia neoclassica diventa perci quello che massimizza la propria utilit
attesa, definita dall'ordinamento soggettivo delle proprie preferenze, sotto il vincolo di una
determinata quantit di risorse. A differenza degli stati mentali di piacere, una preferenza
osservabile: che un agente preferisca x a y si evince dal fatto che sceglie x e non y.
Alcuni economisti mantennero una certa apertura nei confronti delle nozioni di utilit
cardinale e di confronto interpersonale dell'utilit. In particolare, Pigou, proponendo di
sostituire la nozione di desiredness a quella di utilit, sosteneva che l'intensit del desiderio
di qualcosa costituisse un indice affidabile della soddisfazione derivante dall'ottenerla; ci
almeno in rapporto a scelte presenti, data l'irrazionale preferenza umana per i beni presenti
rispetto a quelli futuri. L'intensit di questo desiderio poteva poi essere misurata dalla
quantit di reddito che si disposti ad investire per soddisfarlo. Ci consentiva di ottenere
una stima del benessere derivante dall'acquisto di un certo bene, indubbiamente rozza ma
sufficiente per gli scopi della teoria economica; vero, poi, che il benessere economico non
che una parte della felicit umana, ma incidere sul reddito lo strumento principale che
economia e politica possiedono per influenzare il benessere complessivo.
Su queste basi, la nuova economia del benessere poteva riproporre l'ideale utilitarista della
massima felicit intendendola come costruzione di una funzione di utilit sociale che
Infine, una terza caratteristica, che distingue quelli morali da altri giudizi valutativi, la
predominanza, ossia il fatto che essi hanno un'importanza preminente e non possono essere
predominati da altre considerazioni. L'argomentazione morale consiste nello svolgimento
delle conseguenze da premesse che vengono semplicemente adottate senza alcuna possibile
giustificazione razionale. Ogni argomento morale muove perci da premesse ingiustificate e
anche l'utilitarismo non che uno dei sistemi normativi possibili; e comunque, in linea di
principio, pu coprire una parte sola della moralit, anche se una parte molto importante.
Infatti, il requisito dell'universalizzabilit non esclude che si prescrivano principi di
discriminatori, a patto che chi li prescrive accetti di essere a sua volta discriminato; perci il
prescrittivismo universale resta aperto a un ampio insieme di ideali morali.
In seguito Hare osserva che la vita morale quotidiana non pu che essere governata da un
insieme di risposte preordinate e riassunte nei principi morali ordinari. Tuttavia, se ci si
ferma a questo livello intuitivo, ci si scontra con la realt del conflitto morale: sorgono cio
situazioni nelle quali tali principi si trovano in un conflitto non risolvibile mediante un
bilanciamento intuitivo. In questi casi, occorre passare al pensiero critico: e poich a questo
livello si deve valutare la consistenza delle intuizioni ricevute, il ricorso a intuizioni morali
sostanziali farebbe cadere in un circolo vizioso. Perci, il pensiero critico utilizza
unicamente intuizioni linguistiche: Pensare criticamente significa fare una scelta
rispettando i vincoli imposti dalle propriet logiche dei concetti morali e dai fatti non
morali: nient'altro. Ora, portare a fondo il requisito di universalizzazione significa adottare
principi che tengano conto delle preferenze di tutti gli individui coinvolti, pesando ciascuna
preferenza in base alla sua intensit. Prescrizioni giustificate saranno quelle adottate da un
decisore perfettamente razionale, pienamente informato sui fatti e sulle preferenze di tutti gli
individui coinvolti, il quale acquisisca tali preferenze e le relative motivazioni attraverso un
meccanismo di immaginazione empatica. L'universalizzazione esige che scegliamo il nostro
giudizio morale o principio finale come se bisognasse applicarlo a tutti i casi ipotetici in cui
occupiamo i ruoli ora occupati da altri. Il prescrittivismo universale conduce per
all'utilitarismo preferenzialista: le implicazioni logiche dell'uso dei termini morali portano a
principi equivalenti a quelli dell'utilitarismo dell'atto. Si risolve cos la questione
dell'ipotetico fanatico coerente, le cui prescrizioni sarebbero vincenti solo in casi irreali,
ossia qualora l'intensit delle sue preferenze fosse superiore alla somma di quelle di tutti gli
altri. In realt, se il fanatico fa uso del linguaggio morale, la logica a esso intrinseca lo
porter ad abbandonare la sua posizione; se invece vuole preservare nel suo razzismo deve
rinunciare al pensiero morale e diventare amoralista. Un agente razionale non deve
utilizzare come procedura decisionale standard il calcolo utilitaristico, ma piuttosto le regole
ordinarie che garantiscono decisioni sicure e solerti. Il principio di utilit serve a selezionare
le regole che guidano il comportamento ordinario e a ragionare criticamente nei casi in cui
sia necessario. Il livello intuitivo proprio del prolet, un individuo ordinario, dotato di tutte
le debolezze proprie della condizione umana; quello critico di un arcangelo, ma prescrittore
ideale immune di irrazionalit ed egoismo. La posizione di Hare presenta vantaggi
importanti ma si espone anche a diverse obiezioni. In primo luogo, il meccanismo di
immedesimazione presuppone capacit empatiche molto maggiori di quelle ordinarie. Esso
comporta la capacit di assumere i gusti, la sensibilit, i valori di ogni altro individuo per
giudicare le sue reazioni alle diverse scelte e stabilirne le preferenze; non a caso Hare pone a
modello di pensiero morale un arcangelo. Inoltre, la valutazione delle preferenze altrui
richiede che si ignorino le proprie preferenze attuali per formarsene di nuove che siano
esatte repliche di quelle altrui. La richiesta di adottare preferenze che non si condividono
appare poco plausibile; farlo significherebbe considerare le proprie preferenze prive di
rapporti con la verit della cosa. Se una preferenza morale l'atteggiamento giusto nelle
circostanze, non affatto necessario che chi immagini se stesso in una diversa posizione
acquisisca una preferenza diversa; e anche se ammettesse che avrebbe una preferenza
diversa, potrebbe sostenere che essa sia irragionevole o immorale e quindi da non
considerare nella situazione attuale.
Una diversa obiezione consiste nell'osservare che il criterio di universalizzabilit, che
vorrebbe essere un principio formale, in realt incorpora assunzioni sostantive. A questo
riguardo, John Mackie ha distinto tre stadi dell'universalizzazione: a un primo livello, essa
consiste nel ritenere irrilevanti le differenze numeriche, ossia nel considerare una certa
massima adottabile indipendentemente da chi l'agente. Questo principio si pu considerare
un requisito logico dell'uso morale dei termini come buono e deve; la richiesta che le azioni
siano guidate da giudizi che si conformano a questa speciale logica per un principio
morale effettivo, ossia una richiesta di equit. E adottarlo non esclude prescrizioni suggerite
da abilit, risorse o interessi particolari, n da preferenze o ideali parziali. A un secondo
livello, l'universalizzazione implica il porsi al posto degli altri mantenendo le proprie
preferenze e i propri valori: questo un test morale tradizionale, ma dubbio che sia parte
del significato dei termini morali. Adottarlo significa accettare un principio sostanziale, che
peraltro non pu escludere le iniquit derivanti dal ricorso a ideali e valori parziali. solo al
terzo stadio che si raggiunge la considerazione imparziale di tutti gli interessi reali; ma
questa tesi, osserva Mackie, del tutto falsa dal punto di vista logico, ossia non in alcun
modo parte del significato dei termini morali: piuttosto l'incorporazione nel pensiero
morale in un principio sostanziale di tipo liberale. Ne segue che l'utilitarismo non
giustificato dalle regole d'uso dei termini morali, ma da una decisione ulteriore che deve
essere argomentata. Per pensare criticamente avremmo bisogno di una quantit di
informazioni sulle conseguenze di cui non disponiamo; pur sottolineando la limitatezza e la
parzialit delle nostre capacit, Hare non mostra come si possono superare questi limiti e
calcolare scientificamente la conseguenze. Il calcolo utilitaristico rischia perci di essere
l'espressione di opinioni personali. Infine un sistema che chiede di aderire alle regole come
strategia ordinaria e di abbandonarle in caso di conflitto di dubbia praticabilit: un
individuo razionale finirebbe con il convincersi della bont delle regole ordinarie, rifiutando
di adottare il pensiero critico. Si pone il problema dell'effettiva possibilit di far
interiorizzare questo sistema; non a caso Sidgwick aveva proposto che l'utilitarismo restasse
una dottrina esoterica. Rinunciando a questo escamotage, Hare sembra non fornire alcuna
soluzione al problema del rapporto tra i suoi due livelli.
Difficolt del preferenzialismo
L'obiezione pi naturale consiste nell'osservare che l'intensit di un desiderio insufficiente
a discriminare gli oggetti cui si rivolge: i desideri di un fanatico che persegua con
determinazione qualche progetto politico perverso potrebbero essere pi intensi di quelli di
molti individui normali. E bench Hare dichiari che l'unica opzione per un fanatico coerente
quella di divenire un amoralista, questa conseguenza dipende in verit solo da fattori
circostanziali: il fatto che la preferenza del fanatico non sia condivisa da molti altri a
renderla irrilevante, mentre non impossibile che il pensiero critico porti ad adottare le
preferenze di una maggioranza di fanatici coerenti che intendano opprimere una minoranza
di non fanatici. Il preferenzialismo puro deve tener conto di preferenze e desideri che
appaiono immorali. Questa una conseguenza inevitabile di una posizione che sembra
invertire la direzione esplicativa tra il bene e il desiderio; infatti, il valore di una cosa
sembra essere la ragione del nostro desiderarla, non il suo effetto: il fatto che una cosa sia
in s apprezzabile a farcela preferire, non la nostra preferenza a renderla apprezzabile.
Un'altra difficolt riguarda il fatto che desideri e preferenze si estendano per lunghi
intervalli temporali: perci, da un lato la maggior parte di essi riguarda qualcosa che
accadr, o accaduto, in un momento diverso da quello attuale, dall'altro essi possiedono
qualit e intensit diverse nel corso del tempo. Inoltre, una preferenza A, molto intensa al
tempo t1, potrebbe essere debole al punto t2, quando potrebbe gi essere attiva una nuova
preferenza B, dotata della medesima intensit e incompatibile con la prima. L'elaborazione
di un computo complessivo di tutti i desideri e tutte le preferenze richiederebbe di ponderare
l'intensit relativa di ciascun desiderio in ciascun momento, per determinare l'utilit della
sua soddisfazione. Un'ulteriore difficolt data dal fatto che, a differenza dell'edonismo, il
preferenzialismo pu avere un legame molto tenue con il benessere individuale. Infatti, ci
che realizza il mio desiderio che accada x l'esistenza dello stato di cose x; di tale stato di
cose, tuttavia, potrei non venire mai a conoscenza, sia perch potrebbe realizzarsi in un
tempo futuro in cui non esister pi, sia perch potrei non esserne pi informato. Il
preferenzialismo dovrebbe nondimeno considerare l'evento x come un effettivo contributo al
mio benessere, anche se non chiaro come esso migliori la mia qualit di vita. In altri
termini, questa teoria sembra eliminare l'unico elemento plausibile dell'edonismo, ossia il
fatto che un fattore irrinunciabile del benessere dato dall'esperienza soggettiva di certi
eventi. Queste difficolt possono essere superate se si considerano solo le preferenze attuali
e si introduce un requisito di esperienza, ossia la condizione che si abbia consapevolezza del
verificarsi dello stato di cose desiderato. Anche questa versione per esposta a importanti
obiezioni. Infatti, non detto che la soddisfazione di preferenze attuali, informate e relative
a stati di cose di cui si ha esperienza, generi benessere; alla prova dei fatti, ci che
preferivamo pu rivelarsi scarsamente benefico. In altri termini, mentre la felicit
certamente desiderabile, i desideri e le preferenze che abbiamo possono rivelarsi falsi,
illusori o di breve durata e quindi incapaci di generare vero benessere. Il che porta a dire
che, poich solo l'esperienza a decidere che cosa sia davvero benefico, non importante il
riferimento a desideri e preferenze anteriori, ma l'esperienza attuale della soddisfazione.
Un diverso problema riguarda la formazione adattiva delle preferenze, ossia la tendenza a
modellarle sulle circostanze, e in particolare a conformarle alla previsione delle possibilit
reali. Liberarsi da preferenze adattive pu diminuire il benessere, generando frustrazione,
ma produce individui pi autonomi; accettare le preferenze come sono significa accettare
che ogni guadagno in termini di benessere sia pi importante di ogni guadagno in termini di
autonomia. L'autonomia dei desideri sembra essere pi importante della loro soddisfazione.
Inoltre, basarsi sulle preferenze adattive rischia di appiattire i desideri verso quelli pi
elementari, pi sicuri da realizzare, e quindi di inibire la capacit di proporsi grandi ideali e
di immaginare migliori condizioni di vita. Un ulteriore pericolo, per l'autonomia degli
individui, data dall'ipotesi di considerare non solo le preferenze interne, relative ai propri
interessi, ma anche quelle esterne, relative agli interessi altrui.
Se infatti si scontrano le preferenze esterne, un insieme sufficientemente ampio di persone
che preferiscono che A non faccia x pu rendere sbagliato, da parte di A, fare x, anche se x
ci che A preferisce fare. Una difficolt di tipo pi tecnico data dal teorema di
impossibilit di Arrow, in base al quale, per ogni gruppo sociale di almeno due individui e
per un insieme di almeno tre opzioni, non si possono costruire funzioni di scelta sociale che
rispettino i cinque requisiti ragionevoli: a) l'universalit: la funzione di scelta sociale deve
creare un ordinamento delle preferenze deterministico e completo; b) la non imposizione:
ogni risultato deve poter essere raggiunto a partire da un certo insieme di preferenze; c) la
non dittatorialit: la funzione di scelta sociale non deve seguire l'ordinamento delle
preferenze di qualcuno ignorando quelle di altri; d) la monotonicit: se un individuo
modifica il proprio ordinamento di preferenze promuovendo una data opzione, la funzione
di scelta sociale deve promuovere tale opzione o restare invariata, ma non pu assegnare a
tale opzione una preferenza minore; e) l'indipendenza dalle alternative irrilevanti:
dev'esserci compatibilit tra l'applicazione della funzione sociale a un sottoinsieme di
opzioni e la sua applicazione all'intero set di alternative possibili. La conclusione di Arrow
generalizza un problema gi noto nel Settecento come il paradosso di Condorcet: le
preferenze di ciascun individuo sono transitive, ma la procedura di decisione collettiva le
rende cicliche. Ci sembra rendere impossibile operare scelte collettive basandosi sulle
preferenze espresse dagli individui coinvolti.
Un ultimo problema dato dalla dimostrazione del conflitto tra una concezione liberale e il
criterio di efficienza paretiana: il preferenzialista ordinalista non pu indicare una funzione
di scelta sociale senza violare i diritti e l'autonomia individuale; identificando benessere e
soddisfazione delle preferenze, il preferenzialismo non garantisce che il benessere tenga
conto dell'individualit del soggetto e rispetti le sue prerogative. Alla luce di queste
difficolt, una concezione preferenzialista accettabile dovrebbe, da un lato, introdurre
vincoli alle condizioni in cui le preferenze vengono formulate e al tipo di preferenze
ammissibili; dall'altro, mirare a giustificare un sistema stabile di regole che garantiscano al
meglio sia la coordinazione e la coesione sociale sia il rispetto dell'autonomia e dei diritti
individuali.
CAPITOLO OTTAVO L'utilitarismo delle regole
Harsanyi: utilitarismo e teoria della scelta razionale
Uno dei principali tentativi contemporanei di sviluppare una teoria che risponda alle
difficolt avanzate nei confronti dell'utilitarismo classico legato al nome di John Harsanyi,
economista e filosofo morale. Egli inserisce l'etica nel quadro di una teoria generale della
razionalit ed enfatizza il ruolo delle regole sociali, sviluppando l'indicazione di Harrod di
un utilitarismo generalizzato. Harsanyi un preferenzialista, ma reagisce alla tendenza degli
economisti del benessere a seguire un approccio comportamentista, ossia a considerare solo
le preferenze rivelate nelle scelte effettive e a limitare le alternative alle opzioni date. Per
lui, la teoria economica deve basarsi anche su scelte e preferenze ipotetiche; occorre inoltre
valutare non solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: un comportamento razionale
non solo massimizza l'efficienza nel perseguire un fine dato, ma sceglie il fine stesso in base
al suo costo di opportunit, ossia al costo di rinunciare a fini alternativi. La teoria della
scelta razionale tiene conto dei fattori di rischio e di incertezza che la teoria economica
classica non contemplava: il rischio si riferisce alle probabilit oggettive che si assumono
note al decisore; l'incertezza alle probabilit soggettive del decisore se egli non conosce
quelle oggettive. La teoria bayesiana della decisione definita da quattro assiomi: a) la
completezza, ossia la ordinabilit di qualsiasi tipo o insieme di beni; b) la continuit, ossia il
mutamento delle preferenze al mutare delle probabilit assegnate alle conseguenze; c)
l'equivalenza probabilistica, ossia l'indifferenza tra due scommesse che danno premi con la
stessa probabilit; d) il principio della cosa sicura, ossia la preferenza, a parit di probabilit,
per la scommessa che d un premio preferito. La teoria della razionalit comprende tre
sezioni: la teoria dell'utilit, che mira a massimizzare la soddisfazione degli interessi di un
singolo individuo; la teoria dei giochi, che riguarda la massimizzazione dell'utilit di pi
l'utilit sociale; l'utilitarismo delle regole, invece, considera variabili anche le strategie di
tutti gli altri utilitaristi delle regole, mantenendo costanti solo quelle degli agenti non
utilitaristi. Se prendiamo un'azione cooperativa come quella di recarsi a votare per un
provvedimento che si ritiene importante, l'utilitarista dell'atto si sobbarcher il disagio di
votare solo se ritiene il proprio voto necessario per approvare il provvedimento; ma poich
questa eventualit remota, la maggior parte degli utilitaristi dell'atto non voter, il che avr
un chiaro effetto di disutilit sociale. Al contrario, gli utilitaristi delle regole, dovendo
generalizzare le proprie massime, potranno scegliere solo tra votare tutti e non votare
nessuno e perci andranno tutti a votare, consentendo l'approvazione del provvedimento.
L'utilitarismo delle regole garantisce pertanto un effetto di coordinazione che consente di
realizzare benefici rilevanti in molte azioni cooperative. Non tutti per sono in grado di
operare la necessaria critica delle proprie preferenze manifeste per pervenire a quelle vere:
se si accettano le preferenze come risultano dalla correzione operata dalle limitate capacit
critiche di ciascuno, in molti casi si dovr tenere conto di preferenze irrazionali; e anche se
si afferma che esse vadano ulteriormente corrette alla luce di un'informazione pi ampia,
resta comunque il pericolo di dover tenere conto di preferenze sadiche, violente o razziste,
da parte di individui pienamente razionali e dotati di credenze fattuali corrette che
perseguano coerentemente il proprio piano di vita. Per ovviare a questa difficolt, Harsanyi
esclude le preferenze antisociali. Questo requisito giustificato dal fatto che tali preferenze
contraddicono l'appartenenza alla comunit morale, per cui non possono essere considerate
nel definire il bene di questa comunit. In questo modo la tesi utilitarista sembra scivolare
implicitamente verso una concezione oggettiva del bene. Far leva su una nozione
sostanzialmente normativa come quella di comunit morale significa rinunciare al
presupposto di neutralit della teoria della scelta razionale: invece di generare imperativi
morali muovendo da una base avalutativa di preferenze soggettive, Harsanyi li fonda su un
impegno generale di benevolenza, che verrebbe contraddetto da preferenze antisociali. Con
ci, introduce un criterio sostanziale per individuare le preferenze accettabili; ma allora si
potrebbe ammettere fin dall'inizio che certe caratteristiche oggettive vincolano le preferenze
valide e costituiscono il fondamento pi profondo della teoria del bene. La formulazione di
Harsanyi non sembra comunque soddisfare tutte le nostre intuizioni sulla giustizia; in
particolare non esclude il sacrificio dell'utilit individuale in nome dell'aumento di quella
complessiva. L'enfasi dell'utilit media evita di dover scegliere un mondo sovrappopolato
con livelli della qualit della vita appena sufficienti a preferenza di uno popolato da poche
persone molto felici; in quest'ultimo caso, infatti, l'utilit media senz'altro superiore. Non
protegge per da situazioni in cui, a parit di individui esistenti, gravi disuguaglianze della
distribuzione dei beni sociali massimizzino a un tempo l'utilit totale a quella media.
Si pu applicare al sistema di Harsanyi l'osservazione per cui nell'utilitarismo non c' alcuna
ragione di principio per la quale i maggiori vantaggi di alcuni non dovrebbero compensare
le minori perdite di altri; o, in termini pi rilevanti, poich la violazione della libert di
pochi non potrebbe essere giustificata da un maggior bene condiviso da molti.
Appoggiandosi alla figura dell'osservatore imparziale simpatetico per comporre in un unico
sistema di desideri le preferenze di tutti i membri della societ, l'utilitarismo adotta per
individui separati una procedura decisionale valida per un imprenditore che vuole
massimizzare il proprio profitto: in sostanza, esso non prende sul serio la distinzione tra le
persone. Infine, la massimizzazione dell'utilit media sembra implicare che, in un mondo
con elevati livelli di felicit, sia sbagliato generare un individuo moderatamente felice,
perch ci riduce l'utilit media, e potrebbe essere corretto eliminare gli individui che si
trovano al di sotto del livello medio, sempre per incrementare il valore di riferimento. Per
evitare queste conseguenze, si dovrebbe accettare la tesi della priorit dell'esistenza, ovvero
l'idea che l'incremento dell'utilit possa essere realizzato solo aumentando la felicit delle
persone gi esistenti e non creando nuove persone felici; questa tesi per dubbia.
L'utilitarismo del codice morale di Brandt
Un'altra importante formulazione dell'utilitarismo delle regole quella di Richard Brandt,
anch'egli inserisce l'utilitarismo nel quadro di una concezione della razionalit, basata non
sul modello economico della scelta razionale, ma sugli studi empirici di psicologia. Per
rispondere alla domanda su quale tipo di codice morale sia razionale desiderare egli
distingue tre aspetti della razionalit: a) un agente razionale se, assumendo i suoi desideri
e le sue avversioni come dati, tutti i fattori cognitivi sono stati corretti per quanto possibile e
quindi se ha considerato tutta l'informazione disponibile in termini di credenze logicamente
e scientificamente giustificate; b) desideri e avversioni sono a loro volta razionali se sono
stati influenzati al massimo grado dalle informazioni disponibili, ovvero se sono
sopravvissuti all'esposizione a una psicoterapia cognitiva, intesa come il processo di
confrontare i desideri con le informazioni rilevanti, attraverso la loro ripetuta
rappresentazione in maniera idealmente vivida e al momento appropriato; c) un'azione
pienamente razionale se entrambe queste condizioni sono soddisfatte. In base a questa
definizione riformatrice di razionalit giusto fare ci che comandato dal codice di
condotta dettato dai desideri che sono sopravvissuti alla massima esposizione critica ai fatti
e alla logica. Quella di Brandt un'etica naturalistica, in quanto i criteri morali sono
giustificati da una concezione empirica della razionalit e sono tanto affidabili quanto le
teorie scientifiche su cui si appoggiano. Razionale un termine a un tempo descrittivo e
normativo: da un lato agire razionalmente porta, nel lungo periodo, a massimizzare la
soddisfazione dei desideri e pu quindi essere raccomandato con successo ad agenti che
mirano a una tale soddisfazione, dall'altro gli esseri umani hanno un interesse fondamentale
a evitare la dissonanza cognitiva e perci sono motivati a evitare sia credenze incoerenti sia
desideri e avversioni irrazionali. Poich una persona razionale aspira a soddisfare i propri
desideri razionali, il codice morale ideale sar teleologico, ossia selezioner le regole in base
ai risultati attesi. Immaginiamo, per, una societ composta di egoisti: il semplice desiderio
di perseguire al meglio il proprio interesse li porterebbe ad accettare norme minime di
equit e di protezione dal danno reciproco. D'altro canto, un certo grado di benevolenza
caratterizza empiricamente tutti gli esseri umani; se le persone razionali sono almeno
parzialmente benevole, accetteranno un codice sociale che si avvicina a quello che
massimizza l'utilit. L'unico caso in cui il codice pi razionale si distinguerebbe
sensibilmente da quello utilitarista quello adottato da una persona razionale in una societ
di persone pienamente benevole; questa persona accetterebbe solo un livello di protezione
minimo dal danno, avvantaggiandosi per il resto il pi possibile della benevolenza altrui.
Il principio dell'utilitarismo delle regole si pu dunque formulare cos: un'azione giusta se
e solo se non sarebbe proibita dal codice morale ideale per la societ nella quale viene
compiuta, dove un codice morale si ritiene ideale se e solo se la sua vigenza produrrebbe
almeno altrettanto bene per ogni persona della vigenza di qualunque altro codice morale; e
un'azione obbligatoria se richiesta da un tale codice. Il codice morale, per Brandt, deve
invece applicarsi agli esseri umani come sono realmente; individui ordinariamente
coscienziosi ma non disposti a far fronte a richieste eccessive. Perci, non bisogna basarsi
sull'utilit che deriverebbe da una piena conformit al codice, ma su quella garantita dalla
sua accettazione da parte di tutti o della maggior parte dei membri di una data societ. In
questo modo si tiene conto, da un lato, del fatto che, deve esservi un impegno consapevole
nei suoi confronti; dall'altro, del fatto che individui ordinariamente coscienziosi non
manifesteranno una conformit assoluta e costante alle sue regole. Non si deve valutare il
benessere prodotto da un codice dalle sue conseguenze effettive, ma dall'utilit
ragionevolmente attesa dalla sua vigenza. Per considerare vigente un codice non occorre che
sia riconosciuto dalla totalit dei membri di una societ; sufficiente che lo sia da una
percentuale elevata di membri, pari ad esempio al 90%.
il codice ideale conterr perci un insieme di regole che riprendono e in parte modificano
quelle attuali e sono sufficientemente generali e chiare da poter essere imparate da tutti
senza eccessivi costi di insegnamento e interiorizzazione. Perci, esso non potr essere
troppo diverso da quello attuale; attraverso una strategia graduale, si potr per modificare
anche sensibilmente la Msc, in vista della massima utilit sociale.
Nel caso di conflitto di uno stesso codice, l'utilitarismo delle regole non potr comandare di
compiere l'atto che produce le migliori conseguenze, poich finirebbe per coincidere con
l'utilitarismo dell'atto; n potr accettare di incorporare sempre nuove eccezioni alle sue
regole, perch questo aumenterebbe i suoi costi di apprendimento e mantenimento.
L'utilitarista delle regole determiner che cosa sia giusto fare in base alla rilevazione di
quale tipo di atto genera la maggior avversione nelle persone moralmente pi educate; e tale
avversione sar determinata dalla quantit di danni che verrebbe probabilmente prodotta se
ciascuno si sentisse libero di indulgere al tipo di comportamento in questione.
Nel quadro del suo naturalismo ideale, Brandt rivaluta in parte l'interpretazione del
benessere in termini classici del godimento di esperienze piacevoli; mentre infatti la tesi
preferenzialista non pu dimostrare l'effettivo nesso tra soddisfazione dei desideri e
promozione della felicit, per la teoria classica il grado di piacevolezza di un'esperienza
fissato dalla grandezza della volont che essa continui di per s, che tale esperienza causa in
quel momento. Se si identifica la felicit con il godimento di un'esperienza piacevole, ossia
con la volont di continuarla o ripeterla, il grado di felicit di ciascun momento sar identico
all'intensit di tale volont. Perci, calcolare quale atto massimizza l'utilit risulta
relativamente semplice: basta indicare, per ogni momento futuro della vita di un individuo
Y, che differenza fa, quanto al suo godimento, se facciamo A oppure B e poi sommare i
valori positivi o negativi connessi a tutti gli stati. A sua volta, l'utilit generale deriva dalla
somma delle curve che descrivono la felicit di tutti gli individui coinvolti.
Un'obiezione al metodo di Brandt consiste nel chiedersi se davvero la sua razionalit
procedurale e avalutativa consenta di pervenire a conclusioni morali. vero che sottoporre i
propri desideri a psicoterapia cognitiva elimina quella irrazionali, e che molti di tali desideri
dipendono da erronei condizionamenti culturali; ma si pu dubitare che adottare un simile
metodo, in mancanza di ogni riferimento a valori morali, possa generare impegni morali di
qualche genere. Una diversa obiezione fa leva sull'inevitabile parzialit della conformit alle
regole: aderire a un codice morale che sarebbe ottimifico in una situazione di piena o
sufficiente conformit alle regole potrebbe essere controproducente nel mondo reale, in cui
la conformit sempre inferiore. Mentre l'utilitarismo dell'atto consente di variare le proprie
scelte in ragione di ci che fanno gli altri, quello delle regole impone di seguire le regole
indipendentemente dal fatto che gli altri cooperino o meno: il che pu generare gravi
problemi, se spesso le persone non cooperano. Brandt pu replicare che osservare le regole
razionale se la mancata osservanza altrui produce solo una minima perdita di conseguenze
positive, mentre se la mancata osservanza altrui dannosa per s e benefica per chi le
infrange la violazione giustificata. L'utilitarismo delle regole non chiede di sacrificarsi per
chi, pur essendo in grado di reciprocare, non si impegna a seguire le regole. Inoltre, se la
codice morale: l'utilitarismo delle regole nella sua forma pi semplice preferibile rispetto a
quello che incorpora tutte le circostanze massimizzanti, perch i costi per rendere vigenti un
codice cos complicato sarebbero troppo elevati. Per la stessa ragione, non si deve pensare
che la soluzione di eventuali conflitti tra le regole del codice ideale si basi sull'imperativo di
produrre le migliori conseguenze: una tale regola non figurerebbe nemmeno nel codice
ideale. Harsanyi ha invece enfatizzato gli effetti di coordinazione, aspettativa e
incentivazione generati dal suo sistema; se si tiene conto dell'utilit derivante dalla
possibilit di contare sul contributo degli altri nelle azioni cooperative e dalla fiducia
reciproca che instilla nei membri di una comunit, si vede che l'utilitarismo delle regole non
affatto irrazionale. In ogni caso, si pu ammettere che occasionali violazioni siano
giustificate quando la conformit al codice ottimifico causerebbe una grave perdita di utilit;
concedere questo non equivale a ricadere nell'utilitarismo dell'atto, dato che quest'ultimo
giustifica ogni violazione, anche marginalmente ottimifica, mentre l'utilitarismo delle regole
consente violazioni solo per prevenire disastri.
Un'ultima obiezione che, sebbene riduca il contrasto con la Msc, l'utilitarismo delle regole
non soddisfa ancora tutte le nostre intuizioni sulla giustizia. Secondo Harsanyi, per,
un'enfasi eccessiva sull'uguaglianza rischia di porsi in contrasto con e nostre opinioni
ponderate; infatti, potrebbe giustificare che, nell'impossibilit di riequilibrare i livelli di
benessere migliorando la posizione di quelli che stanno peggio, si peggiori la situazione dei
pi avvantaggiati, diminuendo il benessere complessivo.
Per la teoria della scelta razionale, si deve massimizzare l'utilit media attesa, attribuendo a
ogni ruolo sociale il medesimo peso e, per il postulato di equiprobabilit, il medesimo
valore probabilistico: irrazionale far dipendere il proprio comportamento da qualche
eventualit sfavorevole senza considerare la sua probabilit.
Brandt ha invece osservato che, per il principio dell'utilit marginale decrescente, il
trasferimento di risorse materiali dalla parte meno numerosa dei pi abbienti a quella pi
numerosa dei pi avvantaggiati tende a determinare un incremento di benessere aggregato;
ci consente di sostenere politiche di sostanziale redistribuzione senza ammettere che
l'equit sia in s un elemento da massimizzare. Se poi si insiste sull'impossibilit pratica di
definire precise funzioni di utilit individuale, si pu anche concludere che la distribuzione
egualitaria sia quella che ha pi probabilit di massimizzare effettivamente la felicit.
In linea di principio, infatti, l'utilitarismo dovrebbe tenere conto della diversa capacit di
trasformare le risorse in effettivo godimento del benessere. Anche l'utilitarismo delle regole,
perci, non pu escludere casi in cui vi siano informazioni sufficienti a definire le rispettive
funzioni di utilit e regole distributive inique massimizzino il benessere aggregato: in questi
casi, il benessere di qualcuno andrebbe sacrificato per un maggior benessere aggregato.
Se per accetta i principi di equit solo in maniera condizionale, la teoria si espone al rischio
di autoconfutazione; infatti, posta la pubblicit dei principi morali e la necessit di
bilanciare le conseguenze positive e negative delle regole e delle loro eccezioni, l'utilitarista
esposto al ricatto di chi minaccia di compiere azioni peggiori se si cerca di migliorare uno
status quo negativo; ad esempio, sostenitori utilitaristi dei diritti civili possono essere
bloccati nel loro tentativo di rimediare alle diseguaglianze sociali dalla minaccia di
ritorsioni da parte dei sostenitori dello status quo: tale minaccia non sarebbe invece efficace,
e quindi non verrebbe avanzata, contro dei non utilitaristi. Cos, aderire all'utilitarismo
potrebbe produrre risultati utilitaristicamente peggiori rispetto ad accettare certe regole
indipendentemente dalle conseguenze. Questo rischia di condurre all'utilitarismo esoterico
di Sidgwick, nel quale anche l'efficacia delle poche eccezioni giustificate sarebbe
parassitaria rispetto alla Msc; ma tale posizione condanna l'utilitarismo a un atteggiamento
l'argomento di Hare basato sulla logica del linguaggio morale, dato che la maggior parte
delle persone, pur utilizzando il linguaggio morale, non utilitarista, e anzi considera
sbagliato dare il medesimo peso a ogni ideale morale.
L'utilitarismo di Singer si caratterizza per l'enfasi sul fatto che non solo gli esseri umani, ma
anche tutti gli animali in grado di provare piacere e dolore hanno interessi; chi possiede la
sensibilit ha per lo meno l'interesse a evitare il dolore e ricercare il piacere. Per Singer,
adottare in maniera coerente il principio di imparzialit significa affermare che tutti gli
animali sono uguali, ossia che si deve attribuire pari considerazione agli interessi di tutti gli
individui senzienti. La considerazione non deve dipendere dalla capacit: come non
riteniamo pi rilevanti gli interessi e i bisogni di un individuo umano con un quoziente
intellettivo pi alto, cos non dovremmo condizionare la considerazione degli interessi e dei
bisogni all'appartenenza all'una o all'altra specie. L'idea centrale che la sofferenza sia un
male da evitare, dovunque si trovi. Perci, il principio richiede un'eguale considerazione per
le sofferenze di tutti gli animali; la tradizione etica occidentale pecca invece di specismo in
quanto considera decisiva l'appartenenza di specie per giustificare disparit di trattamento.
la capacit di soffrire a segnare i confini della comunit morale, non l'appartenenza di specie
n il possesso della razionalit e del linguaggio; questi ultimi, d'altronde, sono posseduti
anche dagli animali non umani, la cui differenza con gli umani soltanto di grado; infine,
non affatto vero che tutti gli esseri umani siano dotati di razionalit e linguaggio e tutti gli
animali non umani ne siano privi: vero invece che alcuni umani ne sono privi, mentre
molti non umani ne sono dotati.
Una delle conclusioni pi significative di Singer quella per cui vi sarebbe il dovere di
diventare vegetariani; non perch vi sia un divieto generale di uccidere animali non umani,
ma perch vietato infliggere loro sofferenze ingiustificate. Tali sono quelle causate dalle
odierne condizioni di allevamento intensivo che alterano il loro modo di vita; il nostro
mangiare carne sarebbe giustificato solo se fossimo certi che deriva da pratiche di
allevamento compatibili con la dignit dell'animale. Singer non sostiene perci la sacralit
della vita senziente; un'illiceit assoluta di uccidere non esiste, n per gli animali n per gli
esseri umani. Egli distingue nettamente tra la sofferenza e l'uccisione; mentre la sofferenza
senz'altro un male, indipendentemente dal tipo di creatura che soffre, il fatto che la
prosecuzione della vita sia o meno un bene dipende dalla sue condizioni: sia per i non umani
sia per gli umani possono esservi condizioni di vita cos negative da giustificare la loro
uccisione indolore. D'altro canto, capacit come l'autocoscienza, la possibilit di progettare
il futuro e di intrattenere relazioni profonde possono dotare la vita umana di maggior valore
rispetto a quella di un animale non umano e quindi giustificare che le si accordi la
preferenza. Questa preferenza non specista, dato che non si basa sulla mera appartenenza
di specie, ma sulla presenza di differenze rilevanti nella capacit degli esseri posti a
confronto.
Per Singer vanno distinte 3 categorie di viventi: a) gli individui non coscienti privi di valore
perch privi di interessi; non essendovi sentience, manca la base per l'attribuzione di
interessi; b) gli individui coscienti ma non autocoscienti sono dotati di valore e i loro
interessi devono essere considerati nel calcolo complessivo delle conseguenze; vanno per
considerati in maniera aggregativa, ossia le perdite di alcuni possono essere compensate dal
guadagno di altri, purch si realizzi un saldo complessivo di utilit: in altri termini, questi
individui sono sostituibili; c) gli individui coscienti e autocoscienti possono concepire se
stessi e possiedono un'elevata razionalit; ci consente loro di immaginarsi al di l delle
sensazioni momentanee di piacere e dolore e di avere interessi che godono di un'ampia
distensione temporale.
La vita degli individui appartenenti alla prima classe moralmente irrilevante; le ragioni per
proteggerla sono indirette, ossia fanno leva sui riflessi che essa pu avere sugli individui
delle altre categorie. La vita degli individui solo coscienti richiede che si eviti di infliggere
loro sofferenze ingiustificate; questi individui possono essere uccisi in maniera indolore se
ci produce un saldo di conseguenze migliore, ad esempio perch l'individuo ucciso viene
sostituito da un altro che gode di una vita pi piacevole. La vita degli individui autocoscienti
invece dotata di particolare valore ed a questi che si applica propriamente la norma non
uccidere. L'utilitarismo preferenzialista ne d peraltro una giustificazione pi forte rispetto
a quello classico: quest'ultimo deve giustificare tutte le uccisione che producono un saldo
positivo di piaceri su dolori e pu escludere l'uccisione di chi non vuole morire solo
invocando ragioni indirette, come gli effetti di insicurezza generati nei superstiti; il
preferenzialismo , invece, tiene conto anche della frustrazione delle preferenze future di
colui che viene ucciso e perci ha ragioni dirette molto forti contro l'uccisione di un
individuo autocosciente che desidera continuare a vivere.
Egualitarismo e qualit della vita
Tra i viventi non coscienti vi sono non solo vegetali e animali invertebrati, ma anche esseri
umani marginali, come embrioni, feti in fase precoce, individui in stato vegetativo o
affetti da demenza molto avanzata: tutti costoro sono privi di sensibilit e pertanto di
interessi. Per Singer, attribuire a questi individui un qualche valore in s significherebbe
peccare di specismo; infatti, la mera appartenenza alla specie homo sapiens moralmente
irrilevante. A sua volta, la categoria degli individui solo coscienti non contiene soltanto
animali non umani, ma anche individui umani, come i feti a partire da un certo stadio della
gravidanza e i neonati. Per Singer, un confronto onesto tra animali non umani e umani solo
coscienti su caratteristiche come la razionalit, l'autocoscienza o l'autonomia porta spesso a
privilegiare i primi. Se dunque gli animali solo coscienti sono sostituibili, lo sono anche i
feti umani; perci lecito abortire un feto senziente, purch lo si faccia in maniera indolore,
dato che gli interessi della madre prevalgono sui rudimentali interessi del feto. A maggior
ragione l'aborto sar giustificato se porta alla nascita di un nuovo individuo pi felice; ad
esempio, se una diagnosi genetica prenatale rivela che il feto affetto da una malattia che
render la qualit della sua vita inferiore a quella di un bambino normale, la scelta corretta
abortire e sostituire questo bambino con un altro che sperabilmente non avr la stessa
malattia. E poich non c' alcuna differenza decisiva tra un feto e un neonato, anche
l'infanticidio pu essere giustificato, purch l'individuo malato sia sostituito da un altro pi
fortunato. Infine, anche gli adulti privi delle facolt superiori, ma ancora in grado di provare
piacere e dolore, possono essere uccisi con l'eutanasia non volontaria.
Singer definisce persone gli individui in grado di concepire se stessi come entit continue
nel tempo e dichiara che tali individui hanno un serio diritto morale alla vita; tale diritto va
peraltro inteso come un principio intuitivo, nel senso di Hare, e pu talvolta essere violato al
livello critico. In ogni caso, l'insieme degli individui autocoscienti e razionali non si
sovrappone a quello dei membri della specie homo sapiens: non solo gli umani marginali
non presentano tali caratteristiche, ma vari animali non umani, come le scimmie
antropomorfe e i mammiferi acquatici, probabilmente lo possiedono. Secondo Singer,
perci, una volta accettato di attribuire valore in base alle caratteristiche effettive dei singoli
individui, si deve riconoscere che non tutti gli esseri umani sono persone e non tutte le
persone sono esseri umani.
Anche tra le persone il principio di imparzialit comporta solo l'eguale considerazione degli
interessi, non l'uguaglianza di trattamento; che due individui vengano trattati in maniera
uguale o diversa dipende dalle conseguenze. Ci risalta chiaramente dalla difesa singeriana
dell'allocazione di risorse sanitarie basata sul QALY (anno di vita qualitativamente
adeguato). Quest'ultimo un indice per la valutazione dei risultati delle prestazioni sanitarie
e il criterio allocativo che ne deriva chiede il destinare le risorse per interventi che, a fronte
di un certo investimento economico, consentano di acquistare il massimo numero di QALY.
Il valore in QALY viene definito stabilendo che un anno di vita in buona salute valga 1 e la
morte 0: un anno di vita in condizioni di infermit ha un valore compreso tra 0 e 1, a
seconda della qualit di vita, ed determinato dalle preferenze sociali. Un'accusa ricorrente
al criterio dei QALY di discriminare anziani e portatori di handicap nell'accesso ai
trattamenti sanitari; a parit di altre considerazioni, infatti, esso suggerisce di dare la priorit
a chi ha un'attesa di vita pi lunga, o una vita di qualit migliore, perch ci massimizza i
benefici medici realizzati. In un volume scritto con vari colleghi, Singer offre tre repliche a
questa obiezione. In primo luogo, la discriminazione degli anziani e degli handicappati
lungi dall'essere certa; vero che il sistema tende a privilegiare i pi giovani e i
normodotati, ma anche vero che anziani e handicappati presentano una maggiore quantit
di bisogni sanitari e hanno perci maggiori opportunit di beneficiare del trattamento
medico. Decisiva invece la capacit di produrre un miglioramento nella qualit e quantit
di vita maggiore, il criterio in questione chiede di trattare questa persona. Infine,
massimizzare i QALY solo un aspetto della massimizzazione del benessere sociale; perci,
se esiste nella societ una forte resistenza a discriminare certe categorie, si dovranno
correggere i risultati derivanti dall'analisi economica in vista della massimizzazione del
benessere complessivo. In sostanza, la teoria non riconosce alcun valore intrinseco
all'equalizzazione delle condizioni di benessere, se viene acquistata a scapito dell'utilit
totale, n attribuisce un valore in s al trattamento di quelli che stanno peggio: se questi
possono anche trarre maggiori benefici alle cure verranno trattati prioritariamente, in caso
contrario non riceveranno una priorit particolare, perch la teoria non ammette allocazioni
basate sul bisogno, ma solo sull'utilit attesa. evidente l'enfasi di Singer sulla nozione di
massimizzazione: in linea con l'approccio classico, il sistema dei QALY mira alla
massimizzazione dell'utilit aggregata ed perci egualitario solo nel senso che, a parit di
altre condizioni, i QALY guadagnati da una persona hanno lo stesso valore di chiunque
altro, non nel senso di garantire un'eguale opportunit di accedere a trattamenti sanitari. Si
tratta di passare dalla sacralit della vita umana, ossia dall'idea che ogni vita umana ha un
valore, solo la vita umana ha un valore e ogni vita umana ha il medesimo valore, a un'etica
basata sulla qualit della vita: per quest'ultima, non ogni vita sacra, non ogni vita umana
ha eguale valore e non solo la vita umana ha valore.
Imparzialismo e giustizia globale
Singer parte da un principio molto semplice: dobbiamo impedire che accada un male ad
altre persone, se nel farlo non sacrifichiamo nulla di analoga importanza morale. Ad
esempio, se un bambino sta annegando in un lago poco profondo di fronte a noi e noi
potremmo salvarlo facilmente, al solo costo di sporcarci i vestiti, evidente che dobbiamo
salvarlo, perch il sacrificio da affrontare non paragonabile al valore della sua vita. Ora,
non c' nulla che distingua questo caso dalle situazioni di carestia e povert che uccidono
ogni giorno migliaia di persone nel mondo; in particolare, la differenza non pu risiedere nel
fatto che queste persone non sono fisicamente sotto i nostri occhi, perch non c' ragione di
pensare che i doveri morali siano pi impellenti nei confronti dei vicini e meno nei confronti
dei lontani; non pu consistere nel fatto che, in questo caso, non siamo gli unici a poter
intervenire, dato che l'essere condiviso con molti altri non diminuisce l'urgenza del nostro
dovere; infine, non pu risiedere nell'idea che i doveri di non danneggiare siano pi forti di
quelli di beneficenza: in entrambi i casi, non si tratta di promuovere la felicit altrui al
massimo grado ma solo di impedire mali facilmente evitabili e tutte le teorie morali
accettano una quota di beneficenza doverosa. La conclusione di Singer che dobbiamo
contribuire a combattere la povert, la denutrizione e la mancanza di assistenza sanitaria
donando la quota del nostro reddito che eccede la somma necessaria ai bisogni fondamentali
della nostra famiglia; non si tratta di carit o di supererogazione, ma di un dovere basato sul
principio di eguale considerazione degli interessi. Questa tesi solleva almeno tre ordini di
perplessit. a) in primo luogo, si deve pensare che la morale consista nell'evitare di
danneggiare gli altri e non implichi un impegno per il loro benessere. Il principio di Singer,
invece, impone un tale impegno in misura molto elevata. Infatti, poich l'efficacia del nostro
intervento dipende dalla cooperazione di molte persone, nel caso che molti non cooperino ci
costringer ad aumentare il nostro contributo fino a raggiungere il punto di utilit marginale,
quando donare un dollaro in pi significherebbe porre se stessi in condizioni analoghe a
quelle dei destinatari degli aiuti. b) In secondo luogo, il principio sembra richiedere una
piena imparzialit tra i bisogni propri e quelli degli sconosciuti beneficiari dei nostri aiuti
umanitari, il che spinge a un livello eccessivo l'esigenza di universalit del pensiero morale;
tutte le tradizioni morali riconoscono l'importanza di coltivare i propri interessi e di
riservare un trattamento particolare alle persone a noi pi care. c) Infine, seppure fosse
razionalmente giustificato, il principio sarebbe concretamente inapplicabile per via del suo
contrasto con la psicologia umana: convincere le persone ad agire in base all'utilitarismo
imparzialista sembra del tutto impossibile. Per quanto riguarda il primo argomento, Singer
osserva che le nazioni pi ricche non sono affatto incolpevoli delle condizioni in cui versano
quelle pi povere: molti dei problemi dei paesi in via di sviluppo sono causati dallo
sfruttamento delle risorse naturali da parte di multinazionali occidentali che spesso agiscono
di concerto con i governanti corrotti di quei paesi. Se dunque siamo causa attiva di quella
povert e di quelle morti, dobbiamo contribuire a risolvere il problema. vero che esso ha
una complessit tale che si deve sempre tener conto di ci che stanno facendo gli altri per
definire i limiti del nostro dovere di contribuire; ma il fatto che gli altri non ottemperino ai
doveri morali non pu essere una scusante. Per quanto riguarda l'obiezione basata sui limiti
della natura umana, vero che potenti forze psicologiche ci spingono a impegnarci di pi
per una vittima identificabile che per individui di cui ignoriamo il volto: nel primo caso si
attiva il sistema di risposta effettivo, pi immediato e motivazionalmente efficace, nel
secondo quello deliberativo, pi astratto ed emotivamente neutro. D'altro canto, la
globalizzazione rende vicine anche le persone pi lontane, i sistemi di comunicazione
consentono di partecipare in tempo reale alle tragedie mondiali e le nuove tecnologie
rendono possibili aiuti efficaci a individui e paesi a noi remoti. vero, infine, che tendiamo
a demotivarci rispetto a un obiettivo comune se ci rendiamo conto che molti non stanno
facendo il loro dovere; ma, nuovamente, riconoscere questa inclinazione psicologica non la
giustifica e il fatto che ci sia chi non fa la sua parte non ci autorizza a lasciar morire persone
che potremmo facilmente aiutare. L'obiezione pi forte quella che fa leva sull'imparzialit.
Ci si pu chiedere: il genitore che tratta i suoi figli come quelli degli altri non per ci
stesso un cattivo genitore? Singer pensa che non sia cos, ossia che, bench si debbano
amare i propri figli e soddisfare i loro bisogni fondamentali, vi siano dei limiti a ci che un
genitore pu fare in loro favore; in particolare, discutibile che un genitore si preoccupi di
soddisfare bisogni voluttuari dei propri figli trascurando quelli vitali dei figli altrui.
Dal punto di vista teorico, l'unico principio giustificabile quello che impone la beneficenza
fino al punto in cui donare significa sacrificare qualcosa di tanto importante quanto le vite
che potrebbero essere salvate; perci Singer respinge tutti i tentativi di giustificare principi
che impongono obblighi meno esigenti. Dal punto di vista pratico, per, riconoscendo la
difficolt di un criterio morale cos esigente, Singer propone che le persone benestanti che
hanno un reddito fino a 148.000 dollari debbano donare il 5% del proprio reddito e le
persone pi ricche contribuiscano in maniera progressivamente crescente. Se anche i soli
contribuenti americani si adeguassero a questo standard, i denari raccolti sarebbero
sufficienti ad arginare la povert mondiale, andando ben al di l dei modesti obiettivi del
millennio stabiliti dall'Onu nel 2000. Questo radicale egualitarismo, che richiama quello di
Godwin, porta da un lato a sottolineare la differenza che la qualit della vita fa rispetto al
valore di un'esistenza, dall'altro a mettere in discussione i nostri modi di pensare ordinari
che fanno della beneficenza nei confronti dei meno avvantaggiati qualcosa di meritorio ma
non obbligatorio. Nel contesto dei problemi pi urgenti del mondo contemporaneo, Singer
ripropone una formulazione rigorosa dell'utilitarismo. Ecco presentati i principali problemi
nella conclusione.
CONCLUSIONI
Valore
Una discussione che non cessa di tormentare l'utilitarismo riguarda la teoria del valore; esso
si identifica con il benessere, ma ci sono almeno tre teorie che ambiscono a spiegare questa
nozione. Quella pi diffusa il preferenzialismo, soprattutto nella versione che fa leva su
preferenze informate, coerenti e imparziali, ma ha presentato molte obiezioni. A fronte di
queste difficolt alcuni hanno rivalutato l'edonismo, osservando ad esempio che il piacere
certamente connesso al benessere, che il calcolo dell'utilit facilitato se si considera solo
l'esperienza attuale di piacevolezza e che l'edonista pu giustificare la superiorit dei piaceri
intellettuali per via della loro maggiore fecondit e durata; le difficolt cui va incontro
l'edonismo per sono imponenti.
Giustificazione
Un secondo problema irrisolto dell'utilitarismo riguarda la giustificazione. Nella discussione
attuale, due sono le strategie pi spesso utilizzate. La prima fa leva sull'intrinseca razionalit
dell'utilitarismo i cui massimi esponenti sono Harsanyi e Brandt. Ma questo argomento
risulta instabile, perch la ragione che giustifica l'adesione alle regole la medesima che
pu giustificare la loro violazione. Questa strategia giustificativa rischia di generare
incertezza nell'agente, nella misura in cui il suo stesso principio lo espone alla tentazione di
violare i precetti del sistema cui aderisce. Una seconda strategia invece nasce dalla critica
per cui l'utilitarismo violerebbe convinzioni morali fondamentali e irrinunciabili. La replica
standard a questa critica consiste sia nell'osservare che la collisione tra l'utilitarismo e la
Msc meno pervasiva di quanto si pensi, sia nell'insistere che la coerenza con le opinioni
morali diffuse non essenziale per una teoria morale.
Esigenza
che costituiscono il carattere dell'agente. Tra le repliche che concedono molto a questa
obiezione vi il consequenzialismo della soddisfazione che rinuncia a chiedere l'utilit
massima e perci giustifica vari tipi di compromesso tra le richieste della morale imparziale
e i desideri e gli impegni personali. Analoga la prospettiva di chi accetta una prerogativa
agente-centrata, ossia la facolt di discostarsi dalla ricerca del benessere collettivo nei limiti
necessari a perseguire i propri progetti individuali; ci amplia i criteri di correttezza degli
atti, ammettendo la liceit di atti non ottimifici che assumono particolari rilievo dal punto di
vista dell'agente. In questa linea, si pu giungere a concepire l'utilitarismo come l'etica della
virt che attribuisce priorit alla formazione di un carattere che ha le maggiori probabilit di
generare atti benefici: un temperamento dedito univocamente alla massimizzazione rende
incapaci di godere a pieno di ci che si fa, mentre sviluppare una pluralit di motivi e
desideri consente di fruire di un ampio ventaglio di esperienze piacevoli. Vivere nel modo
migliore significa compiere gli atti, avere i motivi, seguire le regole e possedere un carattere
che massimizzino l'utilit complessiva.
Ci si pu chiedere per quanto resti dell'utilitarismo originario. Il ruolo del principio
utilitarista sembra ridursi a suggerire piccoli interventi correttivi, da attuare nei casi in cui
l'utilit da produrre attraverso la violazione dei vincoli ordinari sia molto consistente. Nella
maggior parte dei casi, l'agente utilitarista agir e sentir in maniera identica a quello non
utilitarista, per il quale la virt ha un valore intrinseco.