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Storia dell’etica contemporanea

1. Kant (1724-1804)
La trattazione morale kantiana si delinea all'interno della sezione dialettica trascendentale, inserita nella
critica della ragion pura attraverso la trattazione dell’ antinomia della libertà.

è possibile la libertà in un mondo dominato dal principio di causalità?

la risposta viene data tramite l’ idealismo trascendentale 1:


“tutto ciò che è intuito nello spazio nel tempo, di conseguenza tutti gli oggetti di un'esperienza
per noi possibile, non sono che fenomeni, ossia semplici rappresentazioni, le quali, così come
vengono rappresentate, […] non hanno, al di fuori del nostro pensiero, alcuna esistenza fondata
in sé. […] Il realista, nel senso trascendentale, trasforma queste modificazioni della nostra
sensibilità in cose sussistenti in sé, facendo di semplici rappresentazioni cose in se stesse”.
[Critica della ragion pura]
Non essendo la ragione teoretica in grado di procedere oltre il mondo dei fenomeni, governato dalla
causalità, si rende necessaria l'acquisizione di un nuovo punto di vista: quello della ragion pratica (tesi
paranaturalistica).
Pratico è tutto ciò che è possibile mediante la libertà
L'uomo ha la possibilità della libertà in quanto, essendo un essere razionale, partecipa del mondo
intellegibile, non soggetto alla legge di causalità; all’interno del mondo causale ciò che è limitato non è
tanto la libertà quanto l’azione.

Libertà = condizione ontologica della moralità (ratio essendi)


Moralità = ratio cognoscendi della libertà
Kant distingue la pratica dalla pragmatica: quest'ultima non ha che fare con la moralità ma con le regole
pratico-tecniche, ovvero quelle che riguardano l'uso dei mezzi per un fine (come per esempio la felicità >
posizione antieudaimonistica): lo spazio della ragion pratica risulta indipendente da condizionamenti
esterni (come anche la religione > Rottura con la tradizione settecentesca che vedeva i doveri divisi in tre
categorie: verso se stessi/verso gli altri/verso Dio).

Particolarmente importante è la posizione antieudaimonistica, giustificata tramite due argomenti:

 Funzionalistico: la ragione non è un buon mezzo per perseguire la felicità, lo sarebbe


eventualmente l'istinto.
 Indeterminatezza: Il carattere della felicità e soggettivo, l'agire su essa fondato è perciò motivo di
conflitto.

Il principio pratico su cui si deve fondare un'etica non è di tipo materiale, ma formale. Il primo è relativo
all'esistenza di una materia del volere (si vuole sempre qualcosa), la quale deve coincidere con il motivo del
volere, si fonda sul piacere derivante dalla rappresentazione dell'esistenza di una cosa, ha perciò
necessariamente a che fare con l'empiria: Kant rigetta l'idea che il principio dell'etica possa essere
empirico. In quest’ottica è evidente come sussista una divisione fra fatti e valori: i fatti non possono avere
valore prescrittivo, anche perché ciò significherebbe l’impossibilità di un miglioramento (che è invece
necessario).

L'agire pratico prende dunque le mosse dalla razionalità: il comando morale (possibile solo a grazie al
dualismo razionalità/sensibilità) si dà alla coscienza come un fatto razionale puro, ed è grazie adesso che il
soggetto arriva alla consapevolezza della sua libertà, in quanto può scegliere se seguirlo o meno.
Ogni cosa della natura opera secondo leggi. soltanto l'essere razionale può agire secondo la
rappresentazione delle leggi, ossia secondo principi, cioè può avere una volontà.
Il comando morale è ciò che Kant intende per legge pratica, ovvero una condizione ritenuta oggettiva per
ogni essere razionale, viene contrapposta alle massime, condizioni valide a livello soggettivo.

La massima è il fulcro dell’etica kantiana, ma non ne darà mai una definizione precisa.

Viene comunque introdotta una distinzione fra massime che rimangono soggettive e quelle che sono in
grado di raggiungere un oggettività attraverso la forma. Si può dunque affermare che la legge sia la
dimensione oggettiva del principio e la massima (intesa come principio secondo il quale si agisce) sia la
dimensione soggettiva (da notare l'ambiguità di definizione nel termine principio), la massima diventa legge
quando viene applicata (imposta) alla volontà imperfetta dell’uomo.
quando la volontà non è in sé stessa pienamente conforme alla ragione (come avviene negli
uomini), le azioni riconosciute necessarie oggettivamente, sono soggettivamente contingenti e la
determinazione di una volontà di questo genere secondo leggi oggettive è costrizione. […] la
rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto è costrittivo per la volontà, prende il nome
di comando (della ragione) e la formula del comando si chiama imperativo.
Gli imperativi che prescrivono di fare un'azione in vista di un fine sono detti ipotetici ed hanno
necessariamente validità soggettiva (non è detto che a tutti interessati raggiungere quel dato fine). il
comando morale invece è detto categorico, in quanto comanda l'azione per se stessa.

NB: la forma grammaticale non è sufficiente a definire il genere di imperativo, possono esistere imperativi
categorici in forma ipotetica (se vuoi essere morale non devi mentire) e ipotetici in forma categorica (vai a
comprare il gelato)

È detta volontà divina o santa quella che corrisponde ai comandi dell’imperativo categorico; esso ha a che
fare con la fase preliminare all’azione: quella dell’intenzione (o disposizione d’animo, gesinnung), la quale è
l’unica che conta per un giudizio morale, a prescindere dalle conseguenze. Da ciò:
Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come
principio di una legislazione universale. [critica della ragion pratica]
Dalla formulazione si evincono non solo i divieti, ovvero quelle azioni che violano la legge, ma anche gli
obblighi, che saranno le azioni contrarie a quelle vietate.

Nella Metafisica dei costumi Kant esprime l’idea che l’umanità sia un fine in sé, concetto centrale della sua
teoria pratica. Ciò non significa solo che nessun essere umano debba essere considerato come mero
strumento, ma anche che ognuno debba essere nella condizione di poter determinare quali siano i propri
fini. Ciò si collega con il secondo gruppo dei doveri imperfetti o di virtù (contrapposti ai doveri morali): la
promozione della felicità altrui (il primo è il perfezionamento di sé), che va inteso in quest’ottica come un
dovere ad aiutare il prossimo a cercare la sua felicità, che egli stesso determinerà. È da sottolineare che
Kant è contrario al paternalismo, infatti per adempiere a questi doveri è sufficiente
Far si che gli altri possano rintracciare la propria felicità negli oggetti più adatti
Non dare agli altri ciò che farebbe piacere a noi: ognuno ha il diritto di cercare la propria felicità dove
meglio crede.

Questo genere di doveri sono detti imperfetti perché non contengono un’indicazione determinata su come
e quando debbano essere adempiuti (hanno una latitudo, o spazio di manovra).
Non si può mai attestare con certezza, né per se stessi né tantomeno per gli altri, che un’azione
sia stata compiuta per amore del dovere e non per qualche altro motivo, o, meglio, anche per
qualche altro motivo [Fondazione della metafisica dei costumi]
Il comportamento è detto morale se e solo se si percepisce come una necessità di obbedienza alla legge
morale, non se si compiono le azioni per bontà d’animo (sarebbe dipendente dalla situazione/umore e
dettato da un’inclinazione naturale soggettiva) né per pura ottemperanza alla legalità: l’agire legale viene
in questo modo distinto dall’agire morale.

Ma quale motivazione dovrebbe spingere l’essere umano a scegliere di rispettare l’imperativo?


Perché una motivazione possa funzionare deve evidentemente premere sulla sfera della sensibilità, Kant
afferma che debba essere quindi qualcosa di analogo a un sentimento. E l’unico sentimento che per Kant è
in grado di essere morale è il rispetto, che da un lato tocca la nostra sensibilità, dall’altro deriva dal
riconoscimento razionale della maestà della legge, mentre non ha nulla a che fare con sentimenti come la
compassione (altrimenti mancherebbe il requisito dell’universalizzabilità, la piena cosapevolezza/razionalità
dell’azione e la pressione del motivo “lo faccio perché devo”). L’assunzione di motivazioni contrarie porta
all’agire male; il male deriva quindi necessariamente dalla libertà e non ha nulla a che fare con la natura
(che non è libera).

Per quanto Kant rifiuti una moralità edonistica riconosce apertamente che la ricerca della felicità è
ineliminabile nell’esistenza umana, si trova così necessariamente ad affrontare il tema della retribuzione
[Dialettica, Critica della ragion pratica]. È intuitivo come nella realtà l’equazione virtù → felicità non sia
vera, è ciò provoca un senso di frustrazione in chi agisce in modo morale: se il sommo bene (virtù →
felicità) fosse possibile allora la frustrazione sarebbe eliminabile. Si crea da questo punto di vista
un’antinomia, che oppone la necessità (razionale) di pensare il sommo bene come possibile all’impossibilità
di pensarlo realizzabile (razionalmente), proprio a causa del fatto che la libertà stessa si basa su una
determinazione della volontà in modo indipendente dalla natura, quella natura all’interno della quale poi si
pretende una ricompensa proporzionale alla virtù. Per risolvere questa antinomia Kant postula
l’immortalità e l’esistenza di Dio, fattori che dovrebbero permettere di vedere realizzato il sommo bene (in
un tempo post-mortem e con Dio come garante)

È essenziale tenere conto del fatto che per Kant la responsabilità morale è relativa all’intenzione e non alle
conseguenze dell’azione; in questo senso non si può mai essere certi della moralità delle azioni altrui, ma
neanche delle proprie: l’uomo tende a giustificarsi ed a non riconoscere le sue vere intenzioni,
rappresentandosi a se stesso in modo fallace.

2. Fichte (1762-1814)
Concentra la sua analisi sul concetto di libertà, radicalizzando il primato kantiano della ragion pratica, e la
articola in tre parti:

1. Moralità-natura, dove per natura si intende Non-io. Il rapporto con il non io è fondamentale per
riformulare i principi morali kantiano, considerati da Fichte vuoti e formali a causa della scarsa
importanza data dal filosofo alla dimensione della sensibilità. L’esercizio della libertà umana non
esaurisce per Fichte le sue conseguenze all’autodeterminazione, ma le riflette sul mondo del non io.
In questo senso il soggetto morale fichtiano va ripensato come un connubio di elementi razionali e
sensibili, da cui si ricava la tesi centrale della bestimmung (destinazione/determinazione): i
soggetti hanno una loro individualità, ognuno ha una destinazione che è determinata tanto dalla
sua costituzione naturale quanto dalla collocazione sociale.
2. Moralità-società: l’uomo diventa tale soltanto nella vita intersoggettiva (anticipazione dell’eticità
hegeliana). Il diritto ha una fondazione autonoma rispetto alla moralità, ma all’interno della
moralità esso trova giustificate le proprie strutture. L’elemento fondante dell’intersoggettività è la
comunicazione, strumento principale dell’educazione reciproca e padre del progresso materiale e
morale: questo il ruolo che per Fichte ha la chiesa, i dotti devono educare la gente comune.
3. Moralità-religione. Assume importanza centrale dalla svolta di fine secolo (1798-99): critica
addirittura le sue precedenti posizioni come uno stadio da superare in vista del raggiungimento
della vita beata.

3. Hegel (1770-1831)
Si concentra su una riflessione sulla morale, su un esame dell’universo pratico, lasciando da parte delle
effettive proposte normative.

La prima e fondamentale questione è quella della necessità di un mondo pratico sociale e collettivo
(eticità), contrapposto a quella che viene chiamata moralità, nonostante quest’ultima rimanga una tappa
fondamentale del percorso fenomenologico, senza la quale non si potrebbe giungere al livello etico. È
importante sottolineare come anche l’eticità non costituisca il culmine del percorso esperienziale,
individuato invece nello spirito assoluto (arte, religione, filosofia). La distinzione fra i due mondi (etico e
morale) è spiegata nell’opera Sulle diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale.
[nel mondo antico] l'eticità del singolo è una pulsazione dell'intero sistema e, essa stessa, l'intero
sistema.
La parola greca che designa l'eticità e la parola tedesca esprimono in maniera eccellente questa
sua natura, [invece] i moderni sistemi dell'eticità, che elevano a principio un per sé ed una
singolarità, non possono tuttavia evitare di riferirsi a queste parole [sittlicheit ed ethos], e questa
interiore allusione si rivela così potente che quei sistemi non potendo abusare di quelle parole per
designare il loro proprio oggetto, dovettero adottare la parola moralità [moralitat].
È evidente l’idealizzazione della polis greca, presa come modello di comunanza fra stato e individuo,
contrapporta all’etica individualistica dei moderni. La crisi dell’ethos si manifesta con l’emergere del
principio della soggettività di Socrate che, con il cristianesimo, è venuto a costituire un tratto distintivo
dell’etica moderna (particolarità, libertà individuale); questo approccio si può notare nel diritto privato
moderno (che nasce con la comparsa nel mondo romano del concetto di persona giuridica) e nel mondo
del lavoro e del bisogno (esempio estremo di frammentazione della società).

Nella figura dell’eticità confluiscono la famiglia, la società civile e lo stato: quest’ultimo è visto come un
intero organico, con un netto rifiuto di ogni teoria contrattualistica.

Il punto di partenza è comunque costituito dalla critica all’etica kantiana, focalizzata su opposizione fra
razionalità ed empiria, l’universalizzazione -che presupporrebbe la validità dell’imperativo anziché
dimostrarla-, il formalismo vuoto, l’assolutizzazione della gesinnung.

A proposito dell’ultimo punto, Hegel intende porre l’accento sull’importanza dell’azione in sé


Quel che il soggetto è, è la serie delle sue azioni.
Si problematizza in questa sede il rapporto fra l’azione e le sue conseguenze, la cui analisi prende il via
dalla percezione che ne aveva la tragedia greca: non vi è distinzione fra fatto e azione: il singolo individuo
non ha il potere di controllare le conseguenze in rapporto alle sue azioni, perché la percezione a questo
livello (singolo=moralità) è ancora limitata: non si può né disinteressarsi delle conseguenze né giudicare le
azioni dalle conseguenze, entrambi sono approcci astratti.

Con in Fichte, anche qui ricorre il tema della ricerca della realizzazione (felicità):
diritto del soggetto di trovare nell’azione il suo appagamento
l’intrinseco soggettivismo della questione (vedere come buono ciò che è per la coscienza valido al fine
dell’appagamento) porta necessariamente alla possibilità del male.
Qual è infine per Hegel una dottrina morale valida?
Un'imminente e conseguente dottrina dei doveri non può essere nient'altro che lo sviluppo dei
rapporti che ad opera delle idee della libertà sono necessari, e pertanto reali nella loro intera
estensione, nello stato.
[L'agire moralmente giusto è la rettitudine] semplice conformità dell'individuo ai doveri dei
rapporti ai quali esso appartiene. […] Che cosa l'uomo debba fare, quali sono i doveri che gli deve
adempiere per essere virtuoso, è facile a dire in una comunità etica.
Atteggiamento morale è adempiere ai doveri determinati dalla propria determinata condizione .

Sorge a questo punto un problema relativo alla realtà, che spiega la genesi del soggettivismo (il modello è
Socrate):
quando il sussistente mondo della libertà le è divenuto infedele, quella volontà non si trova più
nei doveri vigenti, e deve cercare di acquisire soltanto nell'interiorità ideale l'armonia perduta
nella realtà.
4. Etica ed evoluzione.

1. Darwin (1809-1882)
La novità più incisiva apportata dalla teoria evoluzionistica di Darwin e la fine della assoluta distinzione
qualitativa fra uomo e animali. a livello morale l'obiettivo di Darwin e quello di delineare la genesi del
cosiddetto senso morale o coscienza.
La differenza mentale tra l'uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di
grado e non di genere.
A fondamento della morale stanno dunque gli istinti sociali e la simpatia: ciò significa che qualsiasi animale
con istinti sociali abbastanza marcati possa avere un senso morale.

2. Spencer (1820-1903)
La riflessione Spenceriana, considerata la prima autenticamente utilitaristica, è caratterizzata da una forte
tendenza antimetafisica e da una fiducia incondizionata nella scienza e nel progresso: Si fonda sull'idea
dell'evoluzione, della sopravvivenza del più adatto, della lotta per l'esistenza come principi animatori di
tutto l'universo, compreso l'universo etico.

la fiducia nel progresso si riversa anche sul campo etico: evoluzione fisica ed evoluzione morale corrono
parallele, ciò significa che la stessa nozione di obbligo, inteso come dovere, tenderà a sparire perché il
comportamento morale non sarà più sentito come una costrizione.

questa visione finalistica dell'etica costringe Spencer a distinguere un etica assoluta (relativa a un'ideale
condotta di un uomo perfetto) di un'etica relativa (si riferisce uomini concreti e storici che stanno in un
certo stadio dell'evoluzione). Da ciò deriva anche il principio del libero mercato come lotta per l'esistenza;
tutto questo processo deve portare ad un mondo caratterizzato dalla più completa e perfetta felicità.
C'è un postulato in cui pessimisti ed ottimisti sono d'accordo. […] Il pessimista dice che condanna
la vita perché sta risulta essere più dolore che piacere. L'ottimista difende la vita credendo che
essa procuri più piacere che dolore.
3. Huxley (1825-1895)
si schiera contro l'etica Spenceriana, definendola teoria gladiatoria della lotta per l'esistenza, accetta invece
il paradigma evoluzionistico solo ed esclusivamente in campo biologico. il suo interesse è quello di
distinguere i principi della moralità dal puro e semplice meccanismo di selezione naturale.

la questione più interessante della sua riflessione è quella relativa al male. si afferma che se la natura è
totalmente indifferente al contenuto morale allora non potrà mai fornire il criterio di valutazione della
condotta. la natura potrà spiegare la socialità dell'uomo il formarsi di concetti morali, ma non giustificare
la valutazione morale stessa. in quest'ottica la moralità appartiene alla sfera dell’artificio
Sospetto che l'errore sia dovuto all' infelice ambiguità insita nell'espressione “sopravvivenza del
più adatto”: “il più adatto” può sembrare sinonimo di “il migliore di tutti”, il che sa di
connotazione morale.
4. Marx (1818-1883)
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, Un'ideale al quale la
realtà dovrà conformarsi. chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente.
nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati,
necessari, indipendenti dalla loro volontà […] l'insieme di questi rapporti di produzione costituisce
la struttura economica della società […] su cui si eleva la sovrastruttura giuridica e politica. […]
non è la coscienza che degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro
essere sociale che determina la loro coscienza.
la coscienza, dunque, comprende la vita morale e corrisponde ad una determinata struttura economica: ciò
determina un carattere derivato, eterodeterminato della moralità, centrale nella concezione marxiana.

La differenza fondamentale fra Marx e gli idealisti è la considerazione materiale dell'uomo, che lascia da
parte ogni questione metafisica: l'esistenza materiale è prodotta attraverso le relazioni sociali e la
condizione storica. Per questo motivo parlare di un essenza dell'uomo non è possibile.
solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue
disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale […] Nella comunità
reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa.
la possibilità di libero sviluppo di ogni essere umano esiste solo e solamente in funzione ad un altissimo
grado di risorse produttive, ma ciò non rappresenta un problema in quanto i bisogni e le capacità per
soddisfarli crescono proporzionalmente; la comunità produttiva deve avere sotto il suo controllo i mezzi per
la soddisfazione del bisogno, non essere da essi controllata, in modo che
essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più
adeguate alla natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un Regno della
necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, il vero
Regno della libertà che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel Regno della necessità.
[Il capitale]
5. Piacere e utilità.
L’utilitarismo nasce in Inghilterra alla fine del 700 e si interessa di questioni politiche, economiche e
giuridiche. È da sottolineare la centralità delle conseguenze nel giudizio morale

1. Bentham (1748-1832)
È considerato il padre del positivismo giuridico, è particolarmente interessato al problema della
definizione.

Per Bentham gli elementi costituenti concetti etico-giuridici sono entità fittizie (es. obbligo, dovere,
proprietà, ma anche quantità, qualità): sono realtà che non hanno consistenza empirica, ma fanno parte di
una di quelle categorie di oggetti delle quali in qualunque linguaggi, per amore del discorso, si
deve parlare come se fossero esistenti
Ma cosa distingue una realtà fittizia (es. obbligo) da un’entità fabolous (es. diavolo)?
Ogni entità fittizia ha qualche relazione con qualche entità reale
Ovvero, per distinguere questi due generi di entità, è necessaria la parafrasi: l’inserimento di tali termini in
una proposizione. Secondo questa distinzione saranno del tutto immaginari concetti come legge di natura e
diritti naturali, mentre saranno definiti entità fittizie i diritti giuridici, ovvero i diritti positivi (da cui
positivismo giuridico).

[Introduzione ai principi della morale e della legislazione, prefazione]

E l'opera maggiore dell'autore, in cui affronta i temi che gli stanno a cuore. L'opera si apre con una
questione fondamentale:
La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: Il dolore e il piacere.
Si delinea così la radice del criterio dei giudizi morali, basata dunque sulla felicità e sul principio di utilità, o
anche detto della maggiore felicità, ovvero
quel principio chi approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa
sembra avere ad aumentare diminuire la felicità della parte il cui interesse è coinvolto.
Bentham sostiene che le dottrine morali settecentesche, che hanno eretto come criterio di giudizio morale
quando il senso comune, quando il senso morale, quando la legge di natura sono fallaci in quanto
pretendono di assolutizzare un criterio che ha invece la sua fonte nella questione puramente soggettiva
della felicità (piacere/dolore)
Chiamo dolore ogni sensazione che un uomo ha più volentieri non provato che provato. chiamo
piacere ogni sensazione che un uomo in quell’istante ha più volentieri provato che non
Teoria del valore: Un'azione è conforme al principio di utilità quando la sua tendenza ad
aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla.
La comunità non è comunque considerata in senso hegeliano, Bentham è pur sempre un individualista; si
può considerare come la somma degli individui di un certo gruppo.

NB: Piacere, bene e felicità sono termini equivalenti.

Essendo dunque il piacere il criterio di giudizio dell'azione e necessario che il piacere possa essere misurato,
e Bentham ritiene possibile l'impresa, per la quale le dimensioni da tenere in considerazione sono intensità,
durata, certezza o incertezza, vicinanza o lontananza, fecondità, purezza ed estensione (ovvero numero di
persone coinvolte). questo modo di considerare la moralità porta Bentham all'esposizione di una tesi
innovativa sugli animali:
la domanda da porre non è: “possono ragionare?”, né “possono parlare?” ma “possono soffrire?”
Un altro tema importante è quello della distinzione fra la giustificazione di un'azione (ovvero il criterio di
scelta morale secondo cui un'azione è più doverosa di un'altra) e la motivazione che spinge a compierla; A
questo secondo punto l'autore è interessato in modo particolare poiché ritiene che attraverso le
motivazioni sia possibile influire sulla condotta, ed è a questo che serve la pena.
Ci sono due cose che tendono molto ad essere confuse, e invece per noi è importante tenere
accuratamente distinte: il motivo o la causa che, operando nella mente di un individuo, produce
un atto; e il fondamento la ragione che legittima un legislatore o un altro spettatore, a
considerare quell'atto con approvazione.
La pena è dunque diretta conseguenza dell'azione, fonte di motivi, ovvero di piaceri o dolori.

l'analisi dei motivi si inserisce all'interno dell' accurata analisi dell'atto, scomposta in quattro parti:
intenzione, consapevolezza, motivi, disposizioni, oltre chiaramente alla concausalità delle circostanze.
Sostiene che non si può parlare di buone o cattive intenzioni o di buone o cattive disposizioni, poiché
passibili di giudizio morale sono solo e soltanto le nozioni di dolore piacere: infatti sono i motivi la causa
dell'intenzione, anche se anche per quanto riguarda essi si possono solo apparentemente classificare come
buoni o cattivi. il modo più affidabile dunque di suddividere i motivi è quello di classificarli
a seconda dell'influenza che sembrano avere sugli interessi degli altri membri della comunità
possono dunque essere considerati sociali, antisociali o riferiti a se stessi.

2. Mill (1806-1873)
Prende come punto di partenza l’utilitarismo di Bentham, mentre a livello di struttura delle opere segue
una linea tracciata da pensatori come Comte (filosofia sistematica, visione della storia fiduciosa del
progresso scientifico e morale). Della teoria benthamiana critica in particolare due aspetti:

 Non accetta la visione pessimistica nei confronti della tradizione filosofica: critica il fatto che
Bentham ha ecceduto con le fratture, senza evidenziare i punti in comune, i fattori accettabili delle
teorie precedenti
 Considera eccessiva la concentrazione sulle conseguenze, e accusa Bentham di aver trascurato il
carattere, la personalità dell’agente.

Delle teorie intuizionistiche, per esempio, Mill accetta l’idea che l’etica possa essere considerata una
scienza; i suoi principi ultimi non possono essere dimostrati, ciò non significa che non possano essere in
qualche modo colti (intuiti, secondo gli uni, osservati ed esperiti secondo l’altro). Nell’opera [Utilitarismo]
Mill si occupa proprio di portare delle prove empiriche a favore della correttezza della teoria morale
utilitaristica.

La felicità è l’unica cosa desiderabile come fine: posto che ognuno desidera la propria felicità, se ne può
concludere che la massima felicità complessiva è qualcosa di desiderabile per l’insieme delle persone
> tendenza a massimizzare la felicità.

Rispetto a Bentham, che concentrava la sua attenzione sulla valutazione delle azioni, Mill si interessa in
anche alla formazione del carattere, come componente principale per una vita morale.

Alla base della sensibilità morale e della cognizione di quali siano gli obblighi morali sta proprio
l’inserimento del soggetto agente nella comunità di individui la cui felicità deve essere promossa: sarà
inevitabile l’identificazione dell’azione che porta alla propria felicità con quella che porta alla felicità altri, lo
stesso vale per le azioni che danneggiano la felicità.

[Sulla libertà] in quest’opera Mill prende in considerazione la possibilità di esprimere giudizi morali sul
prossimo: nei confronti di se stessi si può provare disapprovazione (o approvazione), non potrà però essere
definita disapprovazione morale. In questo ambito si delinea la distinzione fra ciò che è moralmente
obbligatorio (ovvero promuovere la felicità collettiva) e ciò che invece è semplicemente lecito, confine che
in Bentham risultava sfocato:
i cosiddetti “doveri verso se stessi” non sono moralmente obbligatori.
La teoria del valore. Mill introduce una distinzione qualitativa dei piaceri (per Bentham era solo
quantitativa), la soluzione quantitativa è funzionale se si vuole di calcolare quale azione sia giusto compiere,
ma non è soddisfacente: la soluzione proposta da Mill è che il confronto fra piaceri diversi possa essere
fatto solo da chi abbia fatto esperienza di entrambi. Colui che giudica deve inoltre farlo con ‘cognizione di
causa’: un vero piacere è quello in vista del quale si possa sopportare anche una temporanea
insoddisfazione (altrimenti si definisce soddisfazione, non felicità)
È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un
Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso
parere è solo una faccia della questione: l’altro termine del nostro raffronto ne conosce tutte e
due le facce.
La convenienza è quando si agisce solo e soltanto in vista del proprio tornaconto personale, la rettitudine è
invece quel comportamento che porta alla felicità collettiva; la rinuncia alla felicità personale è vista
positivamente solo quando ha conseguenze positive per la felicità generale.
La sanzione. Distingue fra sanzioni esterne ed interne, alle seconde dà più importanza in quanto connesse
al sentimento di responsabilità, definito come un dolore più o meno intenso che accompagna la violazione
del dovere.

3. Sidgwick (1838-1900)
[I metodi dell’etica] non è considerato dall’autore un testo utilitaristico, né in realtà un testo che sostenga
una qualche posizione filosofica specifica: egli passa in analisi sistematicamente tutte le varie teorie etiche
per valutarne la coerenza, dividendole nei tre grandi gruppi di egoismo, intuizionismo e utilitarismo per poi
identificarne i punti di contatto e di relazione.

In particolare sostiene che la prospettiva maggiormente coerente sia quella utilitaristica, che vada però
integrata con una base intuizionistica, la quale da sola risulta teoricamente troppo fragile; l’egoismo è
invece pienamente coerente a livello teorico ma moralmente inaccettabile.

Definisce l’intuizionismo sul piano normativo come


la teoria dell’etica che considera come fine praticamente ultimo le azioni morali e la loro
conformità a certe norme o dettami di dovere che sono prescritti incondizionatamente.
ma anche, in senso più classico, come una teoria della natura dei giudizi morali
noi abbiamo la capacità di vedere con chiarezza che certi tipi di azione sono giusti e ragionevoli in
sé.
L’intuizione è vista come un punto di partenza necessario per qualsiasi teoria morale, in quanto da un lato
l’idea di un giudizio morale puramente descrittivo è insostenibile, dall’altro non si può ricadere nel pieno
soggettivismo.

Le condizioni necessarie affinché una forma di intuizionismo sia sostenibile, possa quindi esistere un
assioma chiaramente autoevidente, sono:

a) I termini della proposizione devono essere chiari e precisi


b) L’autoevidenza deve essere vagliata attentamente (controllo)
c) Le posizioni accettate come autoevidenti devono essere coerenti fra loro
d) L’evidenza della proposizione deve avere un vasto consenso (verifica intersoggettiva)

Ma nessuno dei pretesi assiomi intuitivi del senso comune soddisfa questi requisiti, l’intuizionismo
proposto da Sidgwick ammette la possibilità di intuizioni che colgano assiomi molto generali, come
ciascuno è moralmente tenuto a considerare il bene di qualsiasi altro individuo allo stesso modo in cui
considera il proprio bene personale

Passaggio all’utilitarismo.
Viene così presentato come la forma finale in cui tende a passare l’intuizionismo quando con
rigore si pone il problema dei principi realmente autoevidenti.
Egoismo e utilitarismo sono entrambe teorie edonistiche, una particolare e l’altra universale, l’una
moralmente insostenibile l’altra alla base del criterio normativo del senso comune e capace di soccorrerlo
in caso di conflitti morali. L’opposizione fra queste due teorie risulta comunque per Sidgwick incomponibile,
tanto da portarlo a parlare di dualismo della ragion pratica: nulla garantisce che perseguire la felicità
generale (benevolenza) porti con sé il benessere del singolo (prudenza) o viceversa: solo l’ipotesi
dell’esistenza di un Dio giusto è in grado di sanare questa frattura, garantendo una coincidenza fra l’ambito
particolare e quello universale (ricorda molto Kant).

È necessario ricordare che per Sidgwick l’uomo può essere spinto all’azione anche da motivazioni diverse
rispetto a piacere e dolore (rifiuto dell’edonismo psicologico).
Il senso comune è un tassello centrale nell’opera: viene considerato (necessariamente) il punto di partenza
di qualsiasi posizione morale, ma allo stesso tempo rischia di cadere in una sorta di “fallacia naturalistica”
se vuole ergere a criterio normativo qualcosa che non è altro che una descrizione della realtà.

Il libero arbitrio è per Sidgwick una nozione puramente descrittiva, che nulla ha a che fare con una teoria
del dovere, ma che ha invece molto a che fare con una teoria della responsabilità (che condivide con Mill).

A livello di teoria del valore Sidgwick ritorna alle posizioni quantitative di Bentham, assimilando ad esse
anche le presunte differenze qualitative.

6. Assoluti materiali
Caratteristica comune dei filosofi trattati di seguito è innanzitutto il rifiuto per la filosofia accademica ed i
suoi maggiori rappresentanti: aprono una frattura nel loro tempo (Marx con la filosofia idealistica del
mondo borghese, Kierkegaard con la tradizione cristiano-borghese); ma anche la necessità di contrapporre
un assolutezza materiale a quella puramente razionale proposta da autori come Kant o Hegel.

1. Kierkegaard (1813-1855)
Il nucleo ispiratore della riflessione Kierkegaardiana è certamente il cristianesimo, la religione interiore, con
cui l’autore ha un rapporto tormentato.

L’idea centrale è quella secondo cui si danno sfere, articolate in tappe successive, caratterizzate da una
psicologia e visione del mondo singolare:

 Estetica
 Etica
 Religione

Il passaggio da una sfera all’altra prevede un completo riorientamento del soggetto, un cambiamento totale
del modo di esistere, il quale una volta approdato alla tappa successiva può guardare in modo critico
scientifico alla tappa appena superata.

La sfera etica ha una caratterizzazione particolare: da un lato è definita in contrapposizione con la sfera
estetica, dall’altro risulta come ‘schiacciata’ fra l’estetica e la religione. La questione fondamentale è quella
della scelta, tanto perché l’individuo sceglie di abbandonare la vita estetica per dedicarsi a quella etica
quanto perché è proprio il tema della scelta a caratterizzare la sfera etica, contrapposta all’indifferenza
della sfera estetica (il non-scegliere, che significa in pratica non-agire).

Altra caratteristica della vita etica è l’universalità del bene, vista sempre in contrapposizione con la
continua ricerca di differenziazione ed originalità della vita estetica. Questa universalità non è di tipo
kantiano ma piuttosto fichtiano, da intendere come il cammino del singolo verso una destinazione che ne
concretizzerà l’universalità.

L’universalità dell’etica non risulta però ancora sufficiente, come dimostra l’esempio di Agamennone che
sacrifica sua figlia per il bene della comunità, è richiesto un passaggio questa volta caratterizzato dalla fede
cieca e paradossale, di cui è il personaggio di Abramo a portare le insegne: abbandona la vita etica per
approdare alla religione, caratterizzata dall’uomo solo (senza comunità intorno) in rapporto diretto con Dio.

2. Schopenhauer (1788-1860)
[Il mondo come volontà e rappresentazione] processo sintetico: si parte dalla metafisica per arrivare
all’etica; [Il fondamento della morale; La libertà del volere umano] processo analitico: si parte
dall’esperienza morale ordinaria per esplicitarne i legami con la metafisica alla fine.

Caratteristiche principali del mondo:


 La rappresentazione è manifestazione di altro
 È retta dal principio di ragion sufficiente ed oggetto di studio della scienza
 È caratterizzata dall’esistenza della molteplicità (principium individuationis)
 La volontà è essenza genuina del reale
 Il secondo libro è dedicato ai vari gradi di oggettivazione della volontà
 La volontà è priva di un fine (non vuole qualcosa), non può essere quindi mai soddisfatta: da qui il
pessimismo schopenhaueriano
 L’unico modo di uscire dal circolo vizioso noia-sofferenza è negare la volontà, passando per l’arte o
peri il dolore, attraversando la privazione e l’ascesi

Pur partendo da Kant, Schopenhauer ne critica profondamente l’etica. Considera innanzitutto che il
fondamento della morale (pratica) non è da ricercare nella ragione, l’etica filosofica è sempre comunque
teoretica, descrittiva, non si occupa del dover-essere. Critica, inoltre, l’introduzione della questione del
sommo bene come una concessione all’eudemonismo, così come l’universalizzazione della massima
sarebbe una concessione all’egoismo, e soprattutto considera insostenibile l’esistenza di un imperativo
categorico: il dovere è sempre ipotetica perché, in qualche modo, presuppone un sistema di premi e
punizioni che funge da fine dell’agire.

Nella composizione della propria teoria morale Schopenhauer parte da un presupposto descrittivo, ovvero
il modo di agire della volontà, che è senza dubbio egoistico e volto all’autoconservazione che è l’impulso
principale nei viventi. Rifiutando l’idea che si diano doveri verso se stessi, conclude dunque che la morale
esiste solo nelle relazioni intersoggettive: l’unico fondamento possibile per un agire morale è il
superamento del principium individuationis, che fa provare all’individuo su di sé la sofferenza altrui e spinge
verso l’unico autentico sentimento morale: la compassione.

[La libertà del volere] è possibile dimostrare la libertà attraverso la conoscenza immediata? Per
Schopenhauer no: il carattere empirico è determinato dai motivi, che sono determinati dalla volontà;
nonostante ciò
Esiste ancora un fatto di coscienza […]. Si tratta del chiaro e sicuro sentimento di responsabilità
per ciò che facciamo, di imputabilità delle nostre azioni, fondato sull’incrollabile certezza che noi
stessi siamo gli autori delle nostre azioni.
Questa intuizione rimane misteriosa, ha la sua origine fuori dal tempo e dallo spazio e rimane solo
intellegibile.

3. Nietzsche (1844-1900)
[Genealogia della morale] critica non tanto una particolare teoria morale, piuttosto l’esistenza stessa della
morale, cosa che non è mai stata problematizzata, piuttosto è sempre stata assunta come tale. L’illusione
maggiore è proprio quella che possa esistere un ambito morale in qualche modo oggettivo, conseguenza di
una visione antropocentrica.
Non esistono affatto fenomeni morali, ma solo una caratterizzazione morale dei fenomeni.
L’obiettivo principale è dunque quello di demistificare la morale e l’uso che se ne fa.

Distingue innanzitutto fra un filosofare metafisico (tende ad assolutizzare i propri oggetti di indagine) ed un
filosofare storico (analizza il formarsi fluido degli oggetti): l’idea è quella secondo cui le concezioni, le
valutazioni morali siano legate al contesto in cui si sviluppano, sono dunque relative e non assolutizzabili.

L’analisi parte dall’origine dei concetti morali (come buono o obbligo), che viene individuata in questioni
psicologiche e sociologiche, dunque soggettive e soprattutto extramorali. In particolare l’origine della
morale viene dunque individuata nella tendenza a valutare (in particolare le azioni), bisogna sottolineare
che inizialmente la valutazione non si caratterizza come morale.
Vagabondando fra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino ad oggi, o
dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e
collegati fra loro: cosicché mi sono finalmente rivelati due tipi fondamentali. Esiste una morale
dei signori e una morale degli schiavi.
Esse coincidono con due distinte fasi storiche che vedono come punto di congiunzione la civiltà ebraica e la
rivolta degli schiavi, che ha portato ad un capovolgimento del modo di valutare fatti ed azioni, che è
passato ad essere un tipo di valutazione morale in cui buono significa moralmente giusto e sottende una
teoria del dovere.

La valutazione ha assunto un significato prescrittivo, così è diventata morale.

Nel metro valutativo dei padroni l’opposizione è fra nobile e spregevole e si riferisce a ciò che è
buono/dannoso per l’individuo, che diventa automaticamente buono/dannoso in se stesso. La causa
psicologica della nascita della morale degli schiavi viene rinvenuta nel risentimento nei confronti di chi è
stato in grado di affermare la propria persona senza bisogno di null’altro se non di se stesso: questo genere
di persona (il padrone) diventa quindi il malvagio e in opposizione a ciò si definisce il buono morale.
Si dà il pomposo travestimento della virtù rinunciataria, silenziosa, aspettante, come se la
debolezza stessa del debole fosse un effetto arbitrario, qualcosa di voluto, di scelto, un’azione, un
merito.
Per quanto riguarda il concetto di dovere ne viene individuata invece l’origine all’interno dei rapporti
giuridici, nel concetto di debito, innegabilmente valido ma lontano da una concezione morale.

La genealogia della morale si riassume dunque in un processo che parte da un apparato costrittivo di fondo
che ne è condizione, il quale si trasforma poi in un costume/usanza arrivando ad essere alla fine
considerato addirittura virtù.

Alla moralità passiva degli schiavi si contrappone dunque l’atteggiamento di chi dice sì alla vita, chi assume
un atteggiamento attivo, ciò che Nietzsche chiama volontà di potenza.

Altra questione fondamentale è la negazione in toto della libertà del volere, da cui consegue la negazione
della responsabilità: l’avvenire, comprese le azioni degli uomini, è totalmente deterministico.

Nella nuova ottica non sono più le azioni ad essere oggetto di valutazione, ma gli individui, la loro natura e il
loro carattere: il superuomo, sulla falsa riga della morale dei signori, sarà creatore di nuovi valori e principio
stesso del valutare.

7. Norme e valori
1. Il neocriticismo
Se ne può datare la nascita con l’uscita della Teoria kantiana dell’esperienza di Cohen del 1871, è una
corrente che si propone in qualche modo un ritorno a Kant, in polemica diretta con i sistemi degli idealisti e
con la volontà di tornare ad una visione della filosofia come teoria della conoscenza.

1. Cohen (1842-1918)
Non accetta il primato assoluto della ragion pratica sostenuto da Kant, mette piuttosto l’etica sullo stesso
piano della logica, a fondazione della filosofia. Così come la logica anche l’etica deve porre le sue basi su un
fatto scientifico, su una conoscenza, non su una fede: mentre la logica è fondata sulla scienza matematica
naturale, l’etica è fondata sul diritto e sulla scienza giuridica. Il fatto che Kant non abbia individuato questo
fatto ne costituisce il limite principale dell’etica, che si basa su una costante (criticata da Cohen)
opposizione interno/esterno, moralità/legalità, intenzione/azione.

L’etica per Cohen si manifesta e rivela nell’azione, con cui la volontà coincide, e non può essere ridotta al
Gesinnung (intenzione).
La concezione del soggetto morale è intersoggettiva:
l’io è soltanto un aspetto, una parte, una direzione del Tu. Nel volere puro non esiste un io senza
tu.
L’etica non è dunque una realizzazione dell’uomo come individuo ma la realizzazione dell’uomo come
pluralità di individui, accanto a questa totalità continua, comunque, a sussistere l’individualità; questo
genere di realizzazione, su ispirazione della Repubblica, è affidata allo stato:
sotto la guida del concetto statuale di persona giuridica, imparo a comprendere e a realizzare che
nella mia individualità naturalistica non sono in grado di produrre l’autocoscienza della volontà,
neppure allargando il mio Io con amore ed entusiasmo a livello di comunità relativa; ma soltanto
rinunciando ad ogni egoistico amore di sé, e imparando a volere e aa pensare il mio Io solo nella
correlazione di Io e Tu, in quella determinatezza ed esattezza che solo il diritto rende possibili, e
secondo quella totalità che soltanto lo stato realizza come unità.
Nonostante questa concezione faccia trasparire una vicinanza con posizioni hegeliane bisogna tenere
presente che per Cohen (a differenza che per Hegel, per cui ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale
è reale, e per Schelling e Spinoza) la distinzione fra essere e dover essere sussiste e viene rivenicata
kantianamente.

Nel quadro della percezione dell’uomo come fine in sé si contestualizza l’adesione di Cohen al socialismo.
Basa la sua riflessione sulla distinzione fra il concetto di persona al concetto di cosa: alla prima non si
attribuisce un valore, ma una dignità.

2. Vorlӓnder (1860-1928)
Si sviluppa nei primi anni del 900 un dibattito sul rapporto fra Kant e la tradizione socialista, in particolare
Marx, sulla scia del pensiero di Cohen, di cui Vorlӓnder può essere considerato il maggiore e più completo
esponente.

È consapevole che Kant non può essere considerato socialista a livello di posizione politica, in quanto
dichiaratamente sostenitore dello stato di diritto e liberale, ma sostiene che la definizione di socialismo
vada al di là dell’ottica di partito e che si caratterizzi piuttosto come un tipo di concezione etica del mondo.

Ritiene che il pensiero di Kant sia complementare con quello di Marx (da un lato metodo critico-
conoscitivo-etico, dall’altro metodo storico-evolutivo-economico), ma provvede a sottolineare i limiti delle
due visioni: non aver tratto tutte le possibili conseguenze dalle proprie tesi in un caso, non aver
approfondito la parte teorica normativa nel secondo. Volendo integrare Marx, troppo dipendente
dall’identità fra essere e dover-essere hegeliana, Vorlӓnder afferma che
La filosofia non può risolversi solo nella derivazione genetico-causale delle cose, cioè nella
spiegazione causale del loro divenire.
È invece indispensabile considerare anche la ricerca sul perché? e, nell’ottica di un progetto socialista,
anche il per quale fine?

2. Weber (1864-1920)
La nozione di valore era inizialmente utilizzata solo in campo socioeconomico, viene traslata nel linguaggio
filosofico da Lotze, ma ancora non aveva a che fare con l’etica in modo peculiare: indicava l’oggetto stesso
della filosofia, riferendosi per esempio anche a concetti come verità o bellezza. È in questo orizzonte che si
sviluppa il dibattito neokantiano, tenendo conto dell’influenza fondamentale di Nietzsche.

È proprio in questo contesto che nasce la riflessione weberiana, prendendo come punto di riferimento
l’autore della Genealogia.
La presunzione di fondare i valori nell’ambito razionale scientifico fa emergere un limite fondamentale:
l’impossibilità di fornire un’intuizione sul mondo, tenendo conto che la scienza non è in grado nemmeno di
giustificare razionalmente se stessa (i suoi assiomi). L’oggettività conoscitiva non dipende dall’assolutezza
degli assiomi (i quali sono invece condizionati soggettivamente) ma

1. Dalla capacità di tenere distinti giudizi di valore e giudizi di fatto


2. Dall’uso di spiegazioni di tipo causale.

Quale rapporto, dunque, fra scienza e valori?

La direzione della modernità è quella della crescente razionalizzazione del mondo circostante: la scienza è
in grado di provocare un disincanto dal momento che permette all’uomo di dominare la natura attraverso
un calcolo razionale; in questo contesto il valore, in particolare il valore etico, che connotazione assume?

Per Weber la modernità scientifica porta con sé un rivolgimento essenziale: se ai tempi di Platone il
politeismo di valori risultava conciliabile (kalòs kai agathos), il politeismo moderno è incomponibile: non vi
sono scelte alternative fra i valori, o una gerarchizzazione universalizzabile, bensì una lotta senza possibilità
di conciliazione.

I valori del mondo moderno si fondano nelle scelte soggettive dell’individuo.

A questo punto si manifesta l’utilità della riflessione razionale sull’etica e sui valori, da un lato infatti essa
non è in grado di fornire una guida normativa o una giustificazione ultima dei valori a livello oggettivo,
dall’altro però permette all’individuo di compiere quella scelta etica soggettiva con una perfetta
consapevolezza.

Altra questione che l’etica non è in grado di risolvere è quella della responsabilità (intenzione vs
conseguenze): può essere valida la massima cristiana secondo cui il cristiano agisce bene e rimette a Dio la
conseguenza? [saggio sull’avaluabilità] Weber finisce per sostenere una complementarità fra etica della
responsabilità ed etica dei principi: in un mondo puramente irrazionale a livello etico qualsiasi buona
intenzione andrà necessariamente a scontrarsi con la dura realtà, questo è il carattere tragico dell’agire,
l’inevitabile scontrarsi della volontà con il destino. Sostiene comunque che all’interno di questa
consapevolezza l’uomo debba continuare ad agire per realizzare i propri valori (non si realizzerebbe il
possibile se non si aspirasse sempre all’impossibile)

3. Etica e fenomenologia
Condivide con la corrente neokantiana l’attenzione per la questione del valore ed in generale per
l’assiologia (rapporto fra valori morali e realtà di fatto), ma aggiunge una critica a Kant per l’aver
sottovalutato la questione del valore in favore di quella del dovere. I maggiori esponenti condividono
inoltre

 La sottolineatura dell’elemento emozionale dell’esperienza morale


 L’importanza dell’evidenza intuitiva
 Oggettivismo morale e polemica antiedonistica/antisoggettivistica

È peculiare l’accostamento di un elemento tipicamente soggettivistico come la sfera dell’intuizione e


dell’emozione con una teoria dell’oggettività morale.

1. Brentano (1838-1917)
È considerato il precursore del movimento fenomenologico per l’attenzione al concetto di intenzionalità.

[Sull’origine della conoscenza morale] presenta aspetti che verranno poi sviluppati da Husserl e Scheler. Il
tema principale è quello della possibilità di una verità morale (problema epistemologico).
Se è la volontà a dover essere soggetto di moralità e immoralità, la volontà si orienta secondo
certi fini e secondo certi mezzi che servono a raggiungere quei fini.
Il problema che si pone qui è l’individuazione dei fini ultimi genuini, che non possano cioè essere a loro
volta considerati come mezzi; in questo contesto Brentano si trova a definire il concetto di intenzionalità:
ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medievali chiamarono
l’in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto che noi, anche se con espressioni non
del tutto prive di ambiguità, vorremmo definire il riferimento ad un contenuto, la direzione verso
un obietto (Objectum) (che non va inteso come una realtà, ovvero l’oggettività immanente). Ogni
fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno allo stesso
modo. Nella rappresentazione qualcosa è rappresentato, nel giudizio qualcosa viene accettato o
rifiutato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato ecc.
Brentano distingue fra rappresentazioni, giudizi e moti dell’animo; le ultime due classi hanno in comune
l’elemento intenzionale (accettare/respingere e amare/odiare) e, a differenza della rappresentazione,
possono essere considerate corrette o errate:
diciamo che qualcosa è vero quando l’accettazione che lo riguarda è giusta, diciamo che qualcosa
è buono quando l’amore che lo riguarda è giusto.
Il bene è ciò che è giusto amare, ciò che è degno di essere amato.

È oggettivo, per analogia con il giudizio, nel cui ambito è immediatamente intuibile se qualcosa sia vero o
falso. Questa struttura epistemologica basata sull’evidenza può essere chiamata intuizionismo.

2. Husserl (1859-1938)
Bisogna tenere presente che non ha redatto un’opera sistematica riguardante l’etica, ad ‘eccezione’ delle
lezioni sull’etica pubblicate postume (1988, 2004).

La convinzione di Husserl di poter tracciare un parallelo tra logica ed etica risulta evidente già nella critica
allo psicologismo (empirismo, soggettivismo, edonismo) mossa in entrambe le direzioni. Si dedica inoltre
alla costruzione di un modello di storia dell’etica che parte da Socrate (iniziatore dell’etica scientifica in
polemica con le teorie soggettivistiche dei sofisti) e si sviluppa nella modernità con l’opposizione fra
empiristi (morale del sentimento) e razionalisti (morale della ragione). I razionalisti hanno il vantaggio di
riconoscere l’oggettività del mondo etico, ma devono fare affidamento a basi teologiche/metafisiche; i
sentimentalisti rimangono invece più aderenti alla concretezza dell’esperienza morale ricadendo però nel
soggettivismo.

Riprendendo Brentano ed apportando delle modifiche Husserl distingue gli atti intenzionali in atti
intellettivi, valutativi/emozionali e della volontà: il giudizio di valore in particolare ha a che fare con la
modalità intenzionale del valutare, che non può essere in alcun modo scissa dalla sfera emozionale. Questo
non significa assimilare la sfera del sentimento a quella dell’irrazionalità: per Husserl l’etica dipende dalla
logica e quindi la valutazione dipende dalla conoscenza, senza la quale l’intenzione non potrebbe avere un
oggetto.:
alla base di ogni atto valutativo si trova un atto intellettivo “obiettivante” (un atto che
rappresenta, giudica, suppone), grazie al quale le oggettualità valutative si danno
rappresentativamente. Solo gli atti obiettivanti sono orientati alle oggettualità, a ciò che è e a ciò
che non è, mentre gli atti valutativi si rivolgono ai valori, e più precisamente ai valori positivi e
negativi.
È solo il sentire del sentimento ad essere soggettivo, il valore è invece oggettivo.

Un primo livello dell’indagine etica (sempre in parallelo con quella logica) è quello dell’ etica formale, che si
propone di fornire le linee generali del ragionamento valutativo, basato sul principio di non-contraddizione
e del quarto escluso (si danno valori positivi, negativi ed indifferenti)
L’idea dell’imperativo categorico viene ripresa (con sostanziali modifiche) con la consapevolezza che non
può fornire una guida su cosa sia praticamente richiesto, è così formulata:
realizzare il migliore fra tutti i beni raggiungibili è ciò che è corretto in senso assoluto e quindi
categoricamente richiesto. L’imperativo obiettivo “fai ciò che è meglio fra ciò che è
raggiungibile” è inattaccabile.
Per quanto riguarda l’etica materiale Husserl prende ispirazione da Fichte interessandosi alla vita etica individuale: c’è
una vocazione universale che si rivolge a ciascuno in modo determinato, spingendolo verso la sua destinazione. In
quest’ottica la correttezza etica risiede nel seguire la propria vocazione e realizzare la propria essenza, l’imperativo si
trasforma così in sii un vero uomo.

3. Scheler (1874-1928)
[il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori] è la più importante espressione dell’etica
fenomenologica.

Critica la filosofia moderna e l’uomo moderno in generale, modificando il tema del risentimento
nietzschiano, che diventa i sentimento del borghese moderno nella sua pretesa di rivendicazione
filantropica fondata sull’utile economico e sull’egualitarismo.

Il riferimento a Kant è costante, gran parte dell’opera è dedicata ad esaminarne criticamente il pensiero ed
esporre parallelamente le sue teorie che vanno a sanare la fallacia in cui Kant è caduto pretendendo di
costituire un’etica a priori a partire solo da un’etica formale; Scheler contrappone a ciò un’etica materiale
dei valori, definita dall’autore stesso come intuizionismo emotivo e apriorismo materiale.

Un punto messo in discussione da Scheler è l’opposizione fra sensibilità e razionalità, di cui Kant
rappresenta l’apice ma che caratterizza tutta la tradizione etica europea: l’etica è stata sempre configurata
come assoluta/apriorica/razionale oppure come relativa/empirica/emozionale.

L’errore kantiano è quello di assimilare la sfera emozionale a quella sensibile, escludendola quindi
dall’apriorità. Scheler definisce a priori
Tutte quelle unità di significato che giungono a datità autonoma mediante il contenuto di
un’intuizione immediata indipendentemente da ogni tipo di posizione dei soggetti che la
pensano e indipendentemente da ogni tipo di posizione di un oggetto
La nozione di a priori è dunque legata necessariamente a quella di esperienza, al contrario di quanto
accadeva in Kant ma in perfetta armonia con una posizione fenomenologica. A partire da ciò Scheler
sviluppa un’attenta analisi della dimensione emozionale, di cui la categoria principale è il sentire:
questa percezione affettiva ha, nei confronti del proprio correlato assiologico, la stessa relazione
della “rappresentazione” rispetto al proprio “oggetto”, appunto la relazione intenzionale.
Definiamo questa percezione affettiva dei valori come la classe delle funzioni intenzionali.
Gli oggetti della percezione affettiva sono inafferrabili dalla ragione
come lo è il colore per l’udito, è però una modalità dell’esperienza che ci manifesta autentici dati
oggettivi e un ordine eterno tra essi, appunto i valori e la rispettiva gerarchia.
e la componente emozionale è l’unica via d’accesso ai valori: è dunque la conoscenza dei valori ad essere
caratterizzata a priori, non la volontà come era per Kant.

I valori costituiscono un ambito proprio di oggetti e devono essere accuratamente distinti dai beni per non
cadere nel soggettivismo: anche se solo nei beni i valori giungono ad esistenza, né i valori coincidono con i
beni né è necessaria la rappresentazione di un bene per intuire un determinato valore che in esso si
concretizza. I valori, a differenza dei beni, si collocano fuori dalla storia e dai contesti, sono dunque assoluti
e oggettivi.
Tanto poco i nomi dei colori connotano mere proprietà di cose corporee altrettanto i nomi dei
valori designano mere proprietà di quelle unità date in forma di cose che definiamo beni.
I valori dunque non sono, ma semplicemente valgono.

La questione della gerarchia dei valori è affrontata da Scheler con la posizione dell’atto del preferire: la
gerarchia, oggettiva e invariabile, è soggetta a regole di preferenza variabili in base al contesto storico e
all’illusione del preferire (quando si preferisce un fine fondato su un valore inferiore).

 piacevole e spiacevole (livello più basso)


 Valori vitali che si rifanno alle qualità nietzschiane dei signori
 Valori spirituali
o Estetici (bello/brutto)
o Giuridici (giusto/ingiusto)
o della pura conoscenza della verità
 valori del sacro e profano che costituiscono il riferimento per tutti gli altri valori

la gerarchia è stilata attraverso alcuni criteri oggettivi (durata, estensione, profondità della soddisfazione
ecc.)

Non si trovano qui i valori morali: la moralità consiste nel rapporto che l’uomo ha con la gerarchia dei
valori; buono o cattivo per Scheler si riferisce dunque in primo luogo alla natura/essere della persona, poi
agli orientamenti della sua capacità etica e solo in ultima analisi ai singoli atti.

In questo contesto è chiaro come il concetto di dovere che in Kant aveva grande importanza si costituisca
solo come un derivato dell’intuizione della gerarchia dei valori e non come fondativo dell’etica stessa.

Il personalismo etico. La persona di Scheler si contrappone e critica la concezione astratta, razionale e


impersonale dell’io kantiano, è definibile come l’unità di essere concreta ed in se stessa essenziale di atti di
diversa natura. L’essere della persona “fonda” tutti gli atti essenzialmente diversi. Ogni persona sta alla
base di un microcosmo, ognuno dei quali è parte armonica (leibnizianamente) del macrocosmo a cui
corrisponde l’idea di una persona spirituale infinita e perfetta (Dio).

4. Hartmann (1882-1950)
Il processo di formazione è simile a quello di Scheler, con una riflessione critica su Kant del quale accetta
però più punti, in particolar modo questione della libertà.

[Etica]

1. Definizione dell’etica, statuto ontologico dei valori e rapporto dei valori con il dover essere
2. Cuore della teoria etica, dedicato al regno dei valori etici o assiologia dei costumi (storia delle idee
etiche)
3. Problema della libertà della volontà

L’etica materiale dei valori è frutto di una sintesi fra la tesi kantiana dell’apriorità della legge morale e la
molteplicità dei valori, la complessità dell’esperienza morale di Nietzsche. Di questo autore Hartmann non
condivide la posizione soggettivistica o nichilistica, ma vuole porre l’accento sul carattere conflittuale
dell’esperienza morale.

L’indagine etica si inserisce all’interno di quella ontologica, da ciò l’ontologizzazione del mondo dei valori
su cui la riflessione verte, con l’obiettivo di comprenderne il modo d’essere e il rapporto con la struttura del
mondo e della persona.

L’approccio di Hartmann è comunque antropocentrico, e soprattutto non religioso (a differenza di Scheler e


d’accordo con Kant [Metafisica dei costumi]).
I valori appartengono al regno dell’essere-in-sé ideale così come gli oggetti matematici ed i concetti logici, la
questione dell’oggettività dei valori in contrapposizione alla relatività della storia è trattata in modo affine a
Scheler.

L’accesso al valore è possibile tramite la componente emozionale:


accanto all’apriorismo del pensare e del giudizio, si pone un apriorismo del sentimento, accanto
all’a priori intellettuale un a priori emozionale altrettanto autonomo e originario. Primaria
consapevolezza del valore è acquisire percettivamente il valore.
I valori non-morali vengono detti di base perché condizionano quelli morali: mentre gli antichi tendono a
risolvere i valori morali all’interno di quelli non morali, i moderni tendono a fare il contrario. Questi si
distinguono in valori di beni (potere, felicità) e inerenti al soggetto (vita e consapevolezza, libertà,
sofferenza, forza, libero arbitrio); in questo contesto riprende la polemica anti-eudemonistica kantiana.

I valori morali sono a loro volta divisi fra valori morali di base e speciali (o di virtù). Del primo tipo sono sia il
bene, valore fondamentale non ulteriormente definibile prescindendo dalla situazione
Consiste nella preferenza del valore più elevato, il male nella preferenza del più basso
quindi nel rapporto con la gerarchia dei beni, sia valori nietzschiani di nobile (valore morale e non vitale
come per Scheler, che esprime la tendenza rivoluzionaria ad un continuo cambiare sguardo sul mondo del
valore e creare nuovi valori), pienezza (in contrapposizione al vuoto dell’imperativo formale di Kant,
rappresenta la complessità e la pienezza materiale del valore) e purezza (antinomica alla pienezza).

I valori morali speciali o virtù sono i valori del comportamento umano, tanti quanti le situazioni in cui
l’uomo si può trovare. Si raggruppano in categorie:

 Virtù platoniche
 Virtù aristoteliche o del giusto mezzo
 Virtù cristiane
 Virtù basate sul pensiero di Nietzsche

In particolare Hartmann affronta le virtù cristiane e soprattutto la questione dell’ amore verso il prossimo,
mettendone in risalto l’universalità, e le virtù nietzschiane ovvero l’amore del lontano (contrapposto al
prossimo), la virtù donante, l’amore personale e la personalità. Quest’ultima è da intendere come valore da
realizzare (in senso scheleriano di ispirazione fichtiana), non come statuto ontologico individuale:
l’ethos individuale si sovrappone a quello comune. Il dover essere morale dell’uomo non si
esaurisce con quello dei valori morali universali. Esso raggiunge il suo completamento soltanto
nel culminare nel valore morale speciale di “questa” persona.
La difficoltà della vita morale concreta dipende dal rapporto inversamente proporzionale che si ha fra
l’elevatezza di un valore e la sua forza: le virtù negative (più basse), come l’umiltà o la purezza, hanno forza
maggiore di virtù positive come pienezza e amore. Il rispetto delle virtù più basse è però condizione
necessaria (ma non sufficiente) per l’adempimento delle virtù superiori.
La trasgressione più grave è quella contro i valori più bassi, ma il più elevato merito morale si ha
con i valori più alti.
Problema della libertà. La riflessione parte dall’antinomia kantiana e si conclude con un nulla di fatto: la
libertà non può essere dimostrata, resta eticamente necessaria ma non si accorda con la causalità del
mondo.
8. Il tardo idealismo
Caratteristica comune è l’inserimento dell’uomo in un tessuto sociale, in cui l’individuo preso da solo non
può essere se non un’astrazione e si realizza solo in quanto parte della società, con il compito che svolge al
suo interno.

1. L’idealismo britannico
Le fonti d’ispirazione principali sono Hegel e Kant, per Green anche Fichte. La dimensione collettiva assume
un carattere fondamentale nello sviluppo della personalità individuale.

1. Green (1836-1882)
Ha come obiettivi polemici l’edonismo e l’utilitarismo in generale e l’idea di poter spiegare la natura umana
e la moralità esclusivamente attraverso gli elementi empirici naturali (atteggiamento antiempirista)

La nozione di individualità proposta da Green, partendo come si è detto dalla visione di Kant e Fichte, si
fonda sulla nozione di autocoscienza unitaria nelle sue componenti (riprende la critica a Kant di Hegel e
Fichte sul dualismo ragione-sensibilità), che è ciò che garantisce la libertà del volere permettendo di
superare la scissione fra deterministi e indeterministi (il mondo pratico è quello di ciò che dovrebbe essere,
distinto dal mondo empirico di ciò che è). L’accettazione da parte di Green del tema deterministico secondo
cui le azioni sono determinate da motivi, ma questo non annulla la libertà del volere: i motivi vengono
infatti riconosciuti dall’autocoscienza, scelti. La scelta avviene sì in un tessuto contestuale oggettivo, ma a
partire necessariamente dal carattere individuale e dalla volontà.

Di ispirazione fichtiana è il tema dell’autorealizzazione: l’oggetto della volontà ha la forma


dell’autosoddisfazione, della ricerca del proprio bene, che è personale e può essere colto solo come
direzione; è un percorso di perfezionamento all’ipotetico termine del quale l’uomo troverebbe la pace
dell’anima.
Con volontà si intende uno sforzo (o la capacità di un tale sforzo) da parte di un soggetto
autocosciente di soddisfare se stesso; con ragione, nel senso pratico, la capacità da parte di
questo soggetto di concepire uno stato migliore per se stesso come un fine da raggiungere con
l’azione.
Si procede evidentemente in una direzione diversa da quella di Kant, pur trattando sempre di ragion
pratica, in questo caso l’esistenza di regole e doveri è fondata teleologicamente sull’autorealizzazione
dell’uomo. Tale autorealizzazione si inserisce in una più ampia prospettiva di realizzazione della comunità:
ciascuno raggiungerà il proprio fine svolgendo il proprio compito all’interno della società.

Il tema kantiano dell’uomo come fine in sé è utilizzato come argomento contro l’utilitarismo: anche per
Bentham “uno vale uno”, ma l’uno viene considerato solo come fattore nel calcolo del piacere, mentre si
può dire che nella prospettiva kantiana la dignità attribuita all’individuo è maggiore.

2. Bradley (1846-1924)
[Ethical studies]

L’spirazione è hegeliana sotto molti aspetti, dalla critica all’unilateralità speculare di posizioni opposte
(edonismo-deontologia kantiana) anche al modo stesso di trattare la filosofia, ed in particolare qui l’etica:
tutto ciò che la filosofia deve fare è “comprendere ciò che è”, e la filosofia morale deve
comprendere le morali che esistono, non costruirle o dare indicazioni su come costruirle […]
l’etica non deve costruire il mondo morale, ma ridurre a teoria la moralità corrente nel mondo.
La struttura dell’indagine è la seguente:

1. Cos’è il soggetto morale? (nozione di responsabilità)


2. Si individua il fine della moralità
3. Si mostra come questo fine non possa essere dimostrato né realizzato attraverso l’utilitarismo o
l’edonismo
4. Neanche attraverso le deontologie di tipo kantiano
5. Si mostra la parziale validità di una teoria etica dei doveri sociali
6. Si mostra la morale individuale come ideale
7. Si analizza il problema della volontà cattiva
8. La conclusione è il carattere strutturalmente limitato della moralità e del punto di vista morale

A partire dal tema della responsabilità si sottolinea l’importanza del senso morale comune e si pongono le
basi per la costruzione di un soggetto morale, a cui possa appunto essere imputata una responsabilità.
Come per Green la questione centrale dell’etica è quella dell’autorealizzazione come fine, tesi che può solo
essere spiegata ma non dimostrata. Essenziale è che il soggetto non sia meramente un insieme di stati ma
un io unitario, un intero. L’autorealizzazione porta alla costituzione ed alla consapevolezza del proprio io
ma è solo nel rapporto intersoggettivo che si viene a creare l’intero infinito
Tu non puoi essere un intero a meno che tu non ti unisca a un intero
Questo modo di concepire la formazione dell’individuo attraverso la società è centrale nel testo [ My station
and its duties] in cui si esplicita che la realizzazione individuale passa attraverso la collocazione sociale di
ciascuno ed ai doversi sociali che devono essere adempiuti.

Per Bradley non sono accettabili le forme di autorealizzazione proposte dall’edonismo utilitaristico (pur
essendo molto concreto si concentra su una collezione frammentaria di stati di piacere, rendendo
impossibile la realizzazione dell’individuo come intero) e dalla deontologia kantiana (coglie la necessità di
universalità ma la sviluppa nella direzione astratta del dovere, che non tiene conto della necessaria
concretezza della realizzazione dell’individualità; inoltre risulta problematica anche la questione della netta
scissione dell’io fra razionalità e sensibilità). In particolare il sentimento del piacere non può essere
considerato come fine ma un derivato dell’autorealizzazione, vero ed ultimo fine della volontà.

La parte propositiva dell’etica di Bradley consiste proprio nel teorizzare la possibilità della realizzazione
individuale solo quando il soggetto è inserito nel tessuto sociale e svolge i compiti a lui assegnati dalla
collettività, quindi quando la sua soggettività non è più semplicemente sua. La consapevolezza del giusto e
dello sbagliato deriva per Bradley da un’intuizione, la quale è a sua volta influenzata dal tessuto sociale in
cui l’individuo è inserito: la conferma morale è dunque intersoggettiva (accetta i rischi di relativismo
derivanti da questa posizione)

La posizione ha anche dei limiti che l’autore riconosce: la società può trovarsi in una condizione negativa e
l’individuo può essere impossibilitato a realizzarsi in essa, questo genere di problemi portano la prospettiva
morale ad essere insoddisfacente, quindi da superare per approdare alla realizzazione religiosa (meh…)

2. Croce (1866-1952)
L’etica è una delle forme dell’attività pratica (l’altra è l’economia) che, insieme all’attività teoretica (estetica
e logica) esaurisce gli ambiti della filosofia delle forme dello spirito.
La moralità ha imperio assoluto sulla vita, e non c’è atto di vita, piccolo che si pensi, che essa non
regoli o non debba regolare. Ma la moralità non ha imperio alcuno sulle forme o categorie dello
spirito.
Questo passo è peculiare della filosofia crociana e questa rilevanza della moralità emerge nella visione della
storia, la quale ha un senso al tempo stesso razionale e morale (non si esaurisce nel suo contenuto, ovvero
le vicende politiche) ed è sempre e inevitabilmente progressiva.

Hegelianamente non si prefigge, a livello di filosofia pratica, di offrire una scienza normativa ma di
analizzare la sfera dell’attività pratica.
Le forme dello spirito hanno ognuna un oggetto peculiare: economica-l’utile, estetica-il bello (oggetti
individuali), etica-il bene e logica-il vero (universali). L’attività economica, con l’utile come suo oggetto, non
ha una caratterizzazione negativa per quanto sia incentrata sull’individuale, è piuttosto una condizione
necessaria per la realizzazione del buono (oggetto dell’etica).
Sono concepibili azioni prive di valore morale e tuttavia perfettamente economiche, ma non
azioni morali che non siano perfettamente utili o economiche.
La moralità vive in concreto nell’utilità, l’universale nell’individuale, l’eterno nel contingente.
Partendo da questa riflessione si può comprendere il rifiuto crociano dell’idea dell’esistenza di azioni
disinteressate e della tesi kantiana del contrasto fra piacere e dovere, oltre alla critica alle due posizioni
speculari che danno rilievo esclusivo l’una all’utile (utilitarismo) l’altra al buono (Kant).

Non accetta inoltre l’idea che si diano modelli generali d’azione, l’unica conoscenza teoretica che può
essere d’aiuto all’uomo nell’azione è quella storica; per il resto l’uomo agisce “istante per istante”.

Responsabilità e libertà. Intenzione, volizione e azione sono identificate, ma è importante distinguere


l’azione dall’accadimento: quest’ultimo non può essere imputato al singolo, ma è il risultato dell’opera del
Tutto (Dio). La volizione nasce in una situazione contestuale ben determinata da cui è necessariamente
condizionata, ma
Produce alcunché di diverso, cioè di nuovo, che prima non esisteva ed ora viene all’esistenza; ed è
iniziativa, creazione, atto di libertà.
L’analisi crociana prosegue sulla linea critica all’imperativo formale di Kant, a cui imputa di ricadere
nell’utilitarismo (vedi esempio del debito) per il non saper trovare basi e principi concreti al di là della sua
vuotezza. La legge morale non è altro che astrazione, derivata dalla volizione concreta e quindi da essa
dipende, inoltre non è fine in sé ma mezzo dell’universale morale:
[l’individuo] sa e sente che egli deve, caso per caso, affrontare la situazione di fatto, percepirla
nella sua originalità e originalmente produrre l’azione sua propria.
Questa visione porta chiaramente con sé un’accettazione della relatività della morale, come dimostra la
grande varietà dei costumi.

9. Espirt e persona
Si manifesta nei seguenti autori una concezione etica influenzata dalle attitudini spiritualistiche della
filosofia francese dell’800.

1. Bergson (1859.1951)
Ha un’approfondita conoscenza scientifica che lo porta ad una riflessione che interseca metafisica (ed etica)
con la biologia.

[Saggio sui dati immediati della coscienza] affronta la questione della libertà, la quale risulta assoluta e
innegabile in quanto si caratterizza per essere un’esperienza coscienziale non ulteriormente analizzabile
(non vuole ricadere nel determinismo).

[Le due fonti della morale e della religione]

Un tratto essenziale è la polemica antirazionalistica, che sottolinea da un lato i limiti di un approccio


razionale dall’altro la presunzione del pensiero razionalistico occidentale, in particolare prende di mira Kant

Quando si parla di fonti si intende forme o tipi di morale e religione che risultano essere opposte, alla base
delle opposizioni si trova però sempre un principio unico, la vita: l’idea è quella che le opposizioni non siano
altro che un momento di passaggio per giungere al ricongiungimento. Il criterio di distinzione fra le diverse
forme è la dicotomia chiuso/aperto: chiuso è tutto ciò che pretende di avere un fondamento
razionale/intellettuale, aperto ciò che coglie la sua radice nel meta-razionale/meta-intellettuale, ovvero il
misticismo.

Nel primo capitolo si analizza la questione dell’obbligo morale, che per Bergson ha la sua radice
nell’abitudine, che viene ad essere la seconda natura dell’uomo (si nega l’opposizione kantiana fra
sensibilità e razionalità), una sorta di necessità pratica dettata dalla pressione della società sulla volontà
degli individui (la società assegna dei compiti e un ruolo) che fa sorgere un vero e proprio sentimento
dell’obbligo (si parlerebbe altrimenti di obbligo legale e non morale).

L’opposizione fra intelligenza e istinto può dunque essere sanata: l’obbligo è un carattere socialmente
acquisito ma al tempo stesso questo carattere non può che essere radicato nella totalità della vita.

Il fatto che l’obbligo morale si debba solo a comunità circoscritte e non all’umanità intera è dimostrato
dall’esistenza della guerra, è perciò una morale chiusa, quindi insoddisfacente. Il passaggio ad una morale
aperta non è graduale, ma sostanziale e qualitativo. La differenza non è tanto normativa ma si rinviene a
livello di fondazione: è umana (anziché sociale), ha come tratto fondamentale ed è mistica, creativa,
fondata sull’emozione. L’universalità rivendicata dalla morale si basa sull’imitazione di un modello
esemplare e sull’universalità del proprio amore (rivolto a tutto e tutti), contrapponendosi alla vuota
universalità dell’imperativo. È la morale dello slancio contrapposta alla morale della pressione.

La critica più immediata è quella secondo cui la morale aperta non sia prerogativa di santi ed eroi, ma
Bergson precisa che il modello può essere ritrovato dentro di sé, con un atto creativo che ciascuno può
compiere raggiungendo la radice della propria esistenza.

2. Forme del personalismo


Questa linea teorica è figlia della crisi esistenziale dell’uomo europeo fra le due guerre.

È stato assimilato allo spiritualismo per il suo legame con temi di tipo religioso. Il punto di riferimento è
l’assolutezza e soprattutto l’unicità della persona come individuo, senza sottovalutare l’importanza del
momento intersoggettivo per il costituirsi dell’individualità stessa.

Questa linea di pensiero entra in polemica con Hegel, pensatore dell’impersonalità per eccellenza, accetta
alcune linee di pensiero dell’esistenzialismo senza aderirvi e fa costante riferimento alla trascendenza e
all’esperienza religiosa.

Eccezion fatta per Hegel tutta la tradizione filosofica occidentale conserva tracce di personalismo (dal
conosci te stesso all’etica cristiana, basata su un rapporto personale con Dio e sul concetto di amore)

1. Mounier (1905-1950)
Si rapporta costantemente con le altre due filosofie che vorrebbero proporsi come risposta alla crisi
dell’uomo borghese, ovvero esistenzialismo e marxismo.

Per Mounier, non qualunque individuo riesce ad essere una persona: la storia umana è una continua lotta
fra la tensione verso il livellamento, la spersonalizzazione e la volontà degli individui di diventare persona.

Dello spiritualismo tradizionale l’autore non accetta la denigrazione del corpo rispetto all’anima: l’uomo è
unione di entrambe, come vuole la più genuina tradizione cristiana.

L’azione ha diverse forme: modifica il mondo esterno, forma la persona, la avvicina al prossimo e forma il
mondo di valori. Il theorein stesso fa parte della sfera dell’azione, inteso come riflessione volta all’agire e
all’impegno. La libertà d’azione dell’uomo non è assoluta ma sempre condizionata dalla situazione.

Un punto su cui esistenzialismo e personalismo sono agli antipodi è la concezione dell’intersoggettività,


pensata dagli esistenzialisti solo come rapporto conflittuale e di asservimento (forma atea del tema
dell’altro); per Mounier il rapporto intersoggettivo e la comunicazione costituiscono l’esperienza centrale
della vita della persona, la quale si costituisce originariamente come movimento verso gli altri, si fonda
sulla capacità di uscire di sé (vincendo l’egoismo) per comprendere l’altrui punto di vista e accogliere su di
sé le pene e le gioie altrui.

Mounier afferma che il tema della soggettività o relatività dei valori è un tema arduo da affrontare:
essi non sono soggettivi in quanto non dipendono dalle particolarità empiriche di un dato
soggetto; e lo sono, in quanto non esistono in relazione a dei soggetti
il mondo dei valori può essere quindi colto tramite una visione transpersonale, solo ed esclusivamente nel
confronto con l’altro e si costituisce in modo simile a come l’aveva descritto Scheler (direzioni graduali).

Si pone il problema del male, che sembra essere un argomento contro i valori: per risolvere questo
problema non resta che appellarsi alla fede, dato che l’esperienza non può soccorrerci.

Ciò che è necessario tenere presente è che l’atteggiamento borghese della ricerca del quieto vivere, la
morale dell’adeguamento che non porta in sé tracce di irrequietezza e di sforzo non rappresenta la vita
personale genuina: è persona chi vive nell’inquietudine e nella costante tensione fra etica della legge
(esteriore) ed etica dell’amore (interiore)

2. Levinàs (1906-1995)
L’etica è collocata al centro della riflessione filosofica: è metafisica, filosofia prima. La costituzione della
filosofia occidentale intorno al soggetto ha costituito un’ontologia in cui il prossimo si perde, un’ egologia.
La relazione con l’altro è invece il punto da cui Levinàs prenderà le mosse per la sua riflessione. Al concetto
dominante nella precedente filosofia di totalità, visto come segno della predominanza dell’impersonalità e
legato all’ontologia, Levinàs sostituisce quello di infinito, concetto morale che ristabilisce il primato della
ragion pratica. Facendo riferimento al concetto di infinito contenuto nella terza meditazione cartesiana,
esprime la trascendenza che passa attraverso il volto dell’altro: l’esperienza intersoggettiva è una
rivelazione, riferita ad un desiderio metafisico diverso da qualsiasi altro tipo di bisogno.

Responsabilità. Il rapporto con il prossimo è definito religione in senso letterale, ovvero un vincolo, un
obbligo morale che non può mai essere adempiuto: in questo senso l’obbligo morale è per Levinàs infinito
Nessuno in nessun momento può dire “ho fatto tutto il mio dovere”, salvo l’ipocrita.
In [Altrimenti che essere] si definisce la responsabilità come concetto costitutivo della personalità: il
soggetto viene ad essere non solo nel rapporto con l’altro ma nel farsi carico dell’altro, senza la pretesa o
l’aspettativa di essere ricambiato.

Si è responsabili sempre e di tutto, non solo delle azioni che si compiono.


La domanda importante del senso dell’essere non è perché c’è qualcosa e non il nulla – questione
leibniziana tanto dibattuta da Heidegger – ma: non uccido io essendo?
10. Esistenza e situazione
Anche in questa corrente filosofica è solitamente vista la manifestazione della crisi della cultura europea del
900. Le fonti filosofiche maggiormente utilizzate sono Husserl con la riflessione fenomenologica ma
soprattutto Kierkegaard.

I tratti comuni sono sicuramente la riflessione sull’esistenza umana, sul tema kierkegaardiano della scelta
del singolo [Aut-aut] e sulla problematicità dell’agire libero. Dell’individuo si sottolinea la concretezza,
entrando spesso in polemica con l’astrazione dell’imperativo kantiano.

1. Bonhoeffer (1906-1945)
Condivide la consapevolezza di una crisi su più piani (storico, teologico, etico), che si manifesta con
l’avvento e il trionfo del nazismo.
La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo
concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nelle figure della luce, del
bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto
semplicemente sconcertante; ma per il cristiano, che vive nella Bibbia, è appunto la conferma
abissale della malvagità del male
Si manifesta così l’incapacità dell’etica tradizionale filosofica di reagire di fronte al male, la situazione
porta l’autore alla volontà di rifondazione dell’etica, tanto filosofica quanto cristiana; parte da un’analisi
delle etiche esistenti e delle loro fallacie:

 Etica razionale – assenza di ragione nel mondo


 Fanatismo etico – crede di potersi opporre al male armato della purezza di un principio
 Etica del dovere – rifiuta il rischio dell’azione libera e alla fine dovrà compiere il proprio dovere
anche nei confronti del diavolo
 Etica della libertà responsabile – finirà per non affrontare il male ed accettarlo per evitare il peggio
 Etica della virtù privata – etica dell’isolamento, costretta a chiudere gli occhi di fronte all’ingiustiza

La proposta di Bonhoeffer consiste in un’etica concreta e fondata sull’obbedienza a Dio, in polemica


diretta con un’etica dei principi o dell’interiorità, ne contrappone una fondata sulla concretezza della scelta
e sull’attività pratica. Questo genere di etica è dunque dichiaratamente cristiana, vede l’uomo e il mondo
non come fini ultimi ma penultimi, in quanto il fine ultimo è Dio.

Tendenza all’onnicomprensività. Critica alla visione di tradizione agostiniana luterana che divide il mondo
fra l’ambito del sacro e quello del profano: ciò fornisce un alibi pericoloso alla sfera politica in un periodo
storico in cui ha assunto i caratteri inquietanti della dittatura nazista
[non esistono] due spazi, ma solo l’unico spazio della realtà di Cristo, in cui la realtà di Dio e la
realtà del mondo sono unite.
L’importanza della mondanità per il cristiano è dunque tratto essenziale della critica di Bonhoeffer, contro
coloro che vedono il cristianesimo come una fuga dal mondo. E cristo, che patisce sulla croce, è il modello
stesso della vita etica.

Responsabilità. L’uomo è considerato responsabile tanto dell’intenzione quanto del successo dell’azione
che non può essere considerato eticamente neutrale, quindi della totalità della propria scelta. Tale scelta ha
luogo volta per volta nel contesto dell’azione concreta, “nella pericolosa libertà del proprio io”, il quale
concretamente non si trova mai isolato ma inserito nel confronto con gli altri, con il mondo e quindi con le
conseguenze stesse delle sue azioni.

2. Marcel (1889-1973)
È un pensatore asistematico, nella sua opera si intrecciano questioni di ontologia e di morale.

Il punto di partenza della riflessione è senza dubbio il problema della separazione fra l’uomo e il mondo che
gli si pone di fronte, dove la parola problema indica semplicemente ciò che sta di fronte; questo mondo è
detto dell’immanenza (uso linguistico che fa già pensare ad una volontà di andare oltre) ed è caratterizzato
dalla conoscenza astratta e dal controllo tecnico, è la categoria dell’avere che connota negativamente il
mondo moderno. In questo genere di esperienza il soggetto sarà ingombro di sé, indisponibile, alienato
(paragone con un capitale indisponibile).

A questa categoria viene contrapposta quella dell’essere, in cui il soggetto non vuole più stare di fronte al
mondo ma esistere in esso, parteciparvi; in questo senso piuttosto che di problema si parla qui di mistero
filosofico (da non confondersi con il mistero della fede) ovvero qualcosa di inverificabile,
metaproblematico.
Il problema è qualcosa che si incontra, che ci ostruisce la strada. È tutto intero davanti a me. Al
contrario, il mistero è qualcosa in cui mi trovo impegnato, la cui essenza non è quindi di essere
tutto intero davanti a me. È come se su questo piano la distinzione fra ciò che è in me e ciò che è
davanti a me perdesse di significato.
Il mistero diventa la categoria ontologica-conoscitiva fondamentale: mentre è possibile pensare al
progresso del pensiero problematico, per quanto riguarda il pensiero metafisico sul mistero non è possibile.
L’essere non è pienamente definibile, ad una definizione ci si può solo avvicinare.
Tanto più io partecipo al mistero dell’essere tanto meno sono in grado di dire a cosa sto
partecipando.
L’esistenza è pensata come un punto di partenza fondamentale di ogni agire, ma in quanto punto di
partenza è anche il punto più basso, è deficienza ontologica, inizio del percorso per giungere alla
partecipazione con l’essere. Il corpo è elemento essenziale dell’esistenza nel mondo: io sono il mio corpo,
fra i due termini non c’è relazione ma comunità non scomponibile.

Come non è separabile dal corpo l’esistenza non è separabile dall’intersoggettività, condizione che esprime
il contrario dell’indisponibilità dell’avere: esse è co-esse in diretta polemica contro l’astrattezza del cogito
cartesiano:
[una metafisica dell’essere è] la metafisica del noi siamo che si oppone radicalmente alla
metafisica dell’io penso
È nella disponibilità nei confronti degli altri che il soggetto realizza la propria individualità/personalità, nella
struttura del rapporto diretto dialogico con un tu (non con un lui in terza persona)

Tutta l’argomentazione pone le sue fondamenta sull’ultramondanità e trascendenza dei valori, basata
sull’atto di fede nei confronti del tu assoluto (Dio) da cui prendono origine tutte le categorie di cui sopra e
soprattutto della speranza, ovvero la fede di una volontà che si applica a qualcosa che non dipende da lei
avendo appunto fede in una sorta di connivenza fra lei e questo qualcosa.

3. Sartre (1905-1980)
Si occupa di questioni morali oltre che nella saggistica [L’essere e il nulla] anche nelle produzioni
romanzesche e teatrali.

I punti di riferimento della riflessione sartriana, soprattutto per quello che riguarda il tema della tensione
fra l’individuo e il contesto in cui si trova sono certamente Kierkegaard (importanza della singolarità), Marx
ed Hegel (processi storici/contesto). Il rischio della riflessione contemporanea è quello di ricadere o in una
morale che astrattamente non fa i conti con la storia o in una storicità amorale.

La morale è al tempo stesso necessaria ed assurda, in quanto l’agire puramente morale richiederebbe una
diversa condizione storica/contestuale: non si può fare una conversione morale da soli, la morale è
possibile solo se tutti sono morali. Una morale realistica deve dunque armonizzarsi con il contesto in cui
viene a doversi esprimere.

Libertà. È l’elemento essenziale e costitutivo della realtà umana: l’uomo non può essere altro che libero, in
quanto tale l’uomo può fare qualcosa di se stesso, della propria individualità. L’uomo si trova nel mondo
come pura possibilità infinita all’interno della quale si articola la scelta attraverso l’irrinunciabile ricorso alla
libertà. È un concetto tutt’altro che meramente positivo, piuttosto è definito da Sartre come una condanna ;
infatti, la coscienza della libertà è angoscia:
è nell’angoscia che l’uomo prende coscienza della propria libertà o, se si preferisce, l’angoscia è il
modo d’essere della libertà come coscienza d’essere, è nell’angoscia che la libertà è in questione
nel suo essere in quanto tale.
L’angoscia si prova verso se stessi, la paura verso il mondo; il mondo offre continuamente, nelle strutture
che circondano l’individuo e ne guidano le scelte, una scappatoia di fronte all’angoscia: la più evidente di
queste è certamente l’accettazione teorica del determinismo.
Io fuggo per ignorare ma non posso ignorare che fuggo, e la fuga dall’angoscia è solo un modo
per divenire coscienti dell’angoscia.
In questo contesto si articola la definizione di malafede come menzogna verso se stessi, ovvero una fuga da
se stessi e dalla propria libertà attraverso la costruzione di una personalità tanto rassicurante quanto falsa:
la malafede non può essere mai totalmente superata.

La purezza della libertà umana deriva dalla morte di dio: [Dostoevskij] se dio non esiste tutto è possibile,
tutta la responsabilità della scelta, dell’azione e delle sue conseguenze ricade quindi sull’uomo, il quale crea
i valori attraverso le sue scelte.
La libertà è libertà di scegliere, ma non libertà di non scegliere. Non scegliere, infatti, vuol dire
scegliere di non scegliere.
La questione dei motivi, tradizionalmente deterministica, non costituisce per Sartre un problema:
motivi e moventi hanno solo il peso che il mio progetto , cioè la libera produzione del fine e
dell’atto conosciuto da realizzare, conferisce loro. La realtà umana infatti non può ricevere i suoi
fini dall’esterno, né da una propria natura interna; essa piuttosto li sceglie.
La scelta non ha dunque un orizzonte di valori che si possa proporre come guida, avviene dunque in una
condizione di abbandono: non c’è una procedura razionale che sciolga oggettivamente i conflitti morali,
“siamo soli e senza scuse” di fronte al dilemma morale, condannati ad essere liberi di scegliere con le
nostre sole forze.

Situazione. Nell’analisi di questo termine, in cui vengono inseriti elementi marxiani, si nota un
capovolgimento del pensiero dell’autore, precedentemente teorico di una libertà assoluta. Questo concetto
emerge nel momento in cui si tratta di rendere operativa la libertà: la situazione rappresenta il campo di
applicazione della libertà, gli stessi ostacoli posti dalla situazione non sono altro che ulteriori conferme, in
quanto individuati da essa nel corso dello sforzo per il raggiungimento dei suoi fini.

Al fine di sciogliere ogni contraddizione Sartre sottolinea come la libertà di scegliere non sia da confondere
con la libertà di ottenere qualcosa.

Sartre analizza diverse strutture della situazione, in particolare è interessante quella della relazione
intersoggettiva. [L’essere e il nulla] prende come riferimento per la trattazione del tema la fenomenologia
hegeliana, si configura perciò nel rapporto di riconoscimento reciproco basato sul conflitto (critiche di
Mounier e Levinàs), che nasce dal fatto che l’altro costituisce in prima battuta un limite. Nei [quaderni per
una morale] si riconosce che nella precedente trattazione mancava la dimensione della comprensione e del
riconoscimento reciproci delle libertà e si nota una ripresa del tema kantiano del regno dei fini (etica della
realizzazione). Da questo punto di vista i rapporti conflittuali e alienati potrebbero dipendere solo dalla
situazione (società capitalistica) che se modificata potrebbe permettere un nuovo sguardo sull’esperienza
intersoggettiva.

11. Psicologia e società


La psicologia nasce nell’800 e diventa ben presto indipendente dalla filosofia, ma tiene presente il forte
legame con essa soprattutto per quanto riguarda le questioni morali.

1. Freud (1856-1939)
Si considera uno scienziato, non un filosofo, nonché artefice di una delle più sconvolgenti rivoluzioni della
storia del pensiero umano (le altre sono dovute a Copernico e Darwin), quella che mostra all’Io di “non
essere neanche più signore in casa propria”.
L’interesse di Freud sulle questioni morali si manifesta nel progetto di spiegare la genesi della coscienza
morale, della moralità come istituzione collettiva, realizzato nell’opera Totem e tabù, in cui l’analisi della
coscienza morale individuale e collettiva corrono parallele.

Il ruolo centrale viene assunto da una figura che rappresenta l’autorità (il padre come capo di una
comunità) la relazione (edipica) con la quale porta al delinearsi della coscienza morale.

La concezione dell’uomo da parte di Freud è indubbiamente pessimistica e si rifà all’ homo homini lupus
hobbesiano, sottolineando gli elementi di aggressività ed egoismo e la concentrazione sulla ricerca del
piacere come carattere costitutivo dell’esistenza, ricerca che è chiaramente destinata a non avere
soddisfazione (soffrire è molto più facile che godere).

Le norme morali in questo contesto svolgono il compito di regolare i rapporti intersoggettivi, altrimenti
caotici e fallimentari:
la moralità non è qualcosa di originario, come la natura pulsionale, ma qualcosa di derivato, di
secondario
nasce infatti proprio con l’intento di limitare le pulsioni naturali dell’uomo, ciò è manifesto nella sua
caratteristica principale: il divieto.

La genesi della morale freudiana prende ispirazione dalla tesi darwiniana secondo cui in origine l’uomo
fosse organizzato in orde comandate da un maschio adulto che avesse potere assoluto sui componenti e
soprattutto l’esclusiva sessuale sulle femmine
Vi è solo un padre prepotente, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia via i figli maschi
via via che crescono, nient’altro
Il potere assoluto viene spezzato quando i fratelli si coalizzano ed uccidono il padre dando vita al clan
fraterno, che avrà caratteristiche ben diverse.

L’atteggiamento dei figli è caratterizzato da un’ambivalenza emotiva: da un lato l’odio per la sua esclusività
sulle femmine, dall’altro l’ammirazione per il capo (situazione che in qualche misura si riproduce nel
bambino). Da queste due sensazioni prendono origine le prescrizioni morali, che si basano sui sentimenti di
senso di colpa e rimorso per l’omicidio del padre, che porta ad una sorta di obbedienza retrospettiva.

Nascono così le prime prescrizioni morali, relative all’omicidio e alla sfera sessuale (incesto), volte ad
evitare il conflitto fra maschi e la disgregazione della comunità; è da notare per Freud come la morale
corrente giudichi l’omicidio e l’incesto come innaturali.

L’assenza di moralità nelle orde corrisponde all’assenza di moralità del bambino, a cui le prescrizioni morali
provengono dall’autorità; il costituirsi della moralità personale deriva dal processo di interiorizzazione
delle proibizioni imposte dai genitori, che viene a creare il senso di colpa che sta alla base della morale.

Il senso di colpa in una prima fase esprime il timore della punizione, che si manifesta attraverso la rinuncia
alle pulsioni (caratteristica della vita in società) ed attraverso questo processo si forma il Super-Io che
prende il posto dell’autorità, a questo punto interiorizzata. Il super-io è visto in maniera positiva, come una
conquista sia dal punto di vista della coscienza morale sia da quello della civiltà.

Il super io è dunque una struttura derivata, non originaria; la contrapposizione originaria si ha fra Io ed Es: il
primo rappresenta la razionalità e il controllo, il secondo le pulsioni e le passioni. Il sorgere del super io è
una lacerazione all’interno dell’io, e svolge le funzioni di auto osservazione, censura, critica, mentre l’io
funge da mediazione fra questo e la parte pulsionale (es)
L’es è assolutamente amorale, l’io si sforza di essere morale, il super-io può diventare ipermorale,
e quindi crudele quanto solo l’es può esserlo
A livello normativo, perciò, l’indicazione è quella di mantenere l’equilibrio prudente fra le diverse parti.

2. Le teorie dello sviluppo morale


All’idea del formarsi della coscienza morale viene dedicata una notevole attenzione, nel tentativo di
rendere conto della complessità dell’esperienza negata dalla rigidità freudiana dell’esaurire la riflessione in
proposito nel complesso edipico.

Tratto comune di questi autori è l’interesse sull’individuo e la riflessione esclusiva dedicata ai processi
consci, lasciando da parte quelli inconsci.

1. Piaget (1896-1980)
Kantiana è l’ispirazione dell’autore quando afferma che
Ogni morale consiste in un sistema di regole
ed accetta quindi la centralità del concetto di norma; il rispetto della norma, nei confronti l’individuo si
rapporta in modo soggettivo, costituisce l’essenza della moralità.

L’analisi del comportamento infantile si sviluppa dal punto di vista originale dell’universo del gioco: in un
primo momento di fronte alle regole di un gioco l’atteggiamento è quello del rispetto unilaterale dovuto
alla coercizione (moralità eteronoma), successivamente si riconosce il valore delle regole in vista del
rispetto reciproco dei partecipanti del gioco (moralità autonoma).

Per i più piccoli la regola del gioco è sacra perché è tradizionale, per i più grandi dipende dall’accordo
reciproco.

Lo stadio della moralità eteronoma è detto realismo morale ed ha tre caratteristiche fondamentali:

 Il bene è identificato con l’obbedienza


 Ciò che deve essere osservato è la lettera, non lo spirito della regola
 La concezione della responsabilità ignora l’intenzionalità dell’azione concentrandozi sulle
conseguenze

La morale eteronoma viene superata attraverso le pratiche di socializzazione interne alle relazioni infantili,
le caratteristiche della moralità autonoma sono:

 Il rapporto con la norma è mediato da un rapporto orizzontale (fra pari) e non verticale (con
l’autorità), ciò determina il fatto che le norme siano modificabili
 Le regole vengono interpretate secondo lo spirito
 La responsabilità si applica sui motivi e sulla volontarietà dell’azione

2. Kohlberg (1927-1987)
Anch’egli prende le mosse da un modello kantiano di moralità, esempio più soddisfacente di etica dei
principi.

L’attenzione di Kohlberg è marcatamente rivolta al concetto di educazione morale, questione


probabilmente derivata dalla crisi morale manifestatasi nella Seconda guerra mondiale: la riflessione si
concentra dunque sul rapporto fra moralità, educazione e democrazia. Sia un’educazione autoritaria da
parte degli adulti sia un relativismo dei valori portano con sé dei grossi rischi.

Kohlberg riconosce che ogni caratterizzazione della moralità sottende ad una diversa teoria dello sviluppo
morale; offre una caratterizzazione dei propri assunti in costante riferimento all’etica novecentesca, in
esplicita polemica con l’idea che una metaetica possa essere normativamente neutrale:

1. La metaetica (definizioni e analisi del giudizio morale e della sfera della moralità) non è
normativamente neutrale
2. Il fenomenismo è la tesi secondo cui il ragionamento morale è il processo cosciente dell’uso del
linguaggio morale ordinario
3. L’universalismo è la tesi secondo cui si danno strutture invarianti di ragionamento morale in tutti i
tipi di cultura
4. Per il prescrittivismo il carattere essenziale di giudizi morali e del linguaggio è proprio quello di
essere prescrittivi
5. Cognitivismo metaetico: i giudizi morali possono essere considerati proposizioni genuine (passibili
dei essere giudicare vere o false)
6. Il formalismo è la possibilità di caratterizzare da un punto di vinta formale la moralità
7. La principledness caratterizza il punto di vista morale come qualcosa che si fonda su principi
universalizzabili
8. Il costruttivismo considera i principi morali come frutto di una costruzione intersoggettiva

Gli stadi dello sviluppo morale sono per Kohlberg più articolati rispetto a quelli di Piaget, i principali sono 3:

1. Livello preconvenzionale, l’individuo riconosce norme e valutazioni in termini di bene/male,


giusto/ingiusto, ma li interpreta facendo riferimento alle conseguenze edonistiche dell’azione
(premi/punizioni)
a. Il primo sottolivello è fondato sulla punizione e sull’obbedienza
b. Il secondo sull’uso strumentale dei valori ai fini dei propri bisogni
2. Livello convenzionale, volto a soddisfare le aspettative del gruppo sociale di appartenenza e
promuovere in mantenimento delle sue istituzioni. Si articola nelle due fasi dell’accordo
interpersonale:
a. Conformità alle immagini stereotipate
b. Vedere come moralmente corretto quel comportamento che porta al mantenimento
dell’istituzione precostituita
3. Livello postconvenzionale, i principi vengono scelti autonomamente e ritenuti validi a prescindere
dall’autorità del gruppo. Si articola a sua volta in
a. Stadio del contratto sociale, si accetta l’idea del cambiamento delle regole se questo può
portare un vantaggio intersoggettivo (etica utilitaristica)
b. La correttezza è definita sulla base di principi etici scelti autonomamente fondati su
reciprocità, uguaglianza, universalità e coerenza (modello kantiano).

4. Gilligan (1936-)
Sulla scia del pensiero di Kohlberg nasce un filone filosofico interessato alla rilevanza della differenza di
genere: la tesi di Gilligan è quella di una effettiva differenza di percezione delle realtà morali (quindi anche
di costruzione del giudizio morale) fra soggetti maschili e femminili.

L’indagine corre parallelamente sui piani teorico ed empirico-psicologico.

È da tenere presente come l’insistenza sul tema della differenza porti con sé il rischio di legittimare gli
stereotipi di genere e presuppone la visione di una natura umana maschile e di una femminile viste come
statiche piuttosto che come forme culturali storiche.

Il rimprovero della Gilligan è quello di aver posto un modello di giustizia sostanzialmente maschile, basato
su un modo maschile di guardare alle questioni morali: questa impostazione dei problemi morali è da
integrare, in quanto paradossalmente ha considerato come carenze morali proprio quelle caratteristiche
femminili che la stessa mentalità maschile ha eretto come stereotipi positivi.

il conflitto morale, utilizzato da Kohlberg per caratterizzare lo sviluppo della moralità, viene affrontato in
modo diverso da soggetti di genere diverso. Mentre l’etica maschile si fonda su principi e regole posti in
connessione con il caso specifico, quella femminile sembra fondarsi su un processo deliberativo più
complesso, che fa attenzione a tutte le componenti del dilemma, inclusi i soggetti che possono essere
investiti dalla decisione in questione.

Della dimensione morale tradizionale si mettono dunque in luce le carenze fondamentali:

 Il peso della dimensione emozionale e sentimentale nella scelta morale


 L’importanza degli elementi che vanno al di là dell’obbligo e del dovere, che non possono essere
considerati moralmente irrilevanti (supererogazione)
 Il limite costituito dal carattere astratto dei soggetti morali, che cozza con la concretezza dei
rapporti fra soggetti determinati: dietro questa astrattezza si nasconde un soggetto morale
innegabilmente maschile.

3. La teoria critica
O scuola di Francoforte è il nome di un gruppo di intellettuali che si riunisce per fondare un istituto di
ricerca sociale, che nasce sulla scia della preoccupazione contemporanea, relativa alle modificazioni del
rapporto fra individuo e società apportate dall’avvento del capitalismo e dalla preoccupazione data
dall’avvento del nazismo e del suo rapporto con il liberalismo.

I precedenti teorici possono sicuramente essere individuati in Hegel e Marx, ma rilevante è anche l’utilizzo
di nuovi strumenti teorici come quello della psicoanalisi.

Comune a questi pensatori è l’interesse per la sorte dell’individuo nella società di massa e per la possibilità
di un’esistenza eticamente significativa.

1. Horkheimer 1895-1973)
La prospettiva di Horkheimer non può essere definita radicalmente pessimistica dal punto di vista morale (si
lascia spazio ad un ipotesi di politica come espressione del sentimento morale), né si ritrovano al suo
interno tracce di teleologia o necessitarismo: l’alternativa ad una società migliore è possibile e viene
identificata in un completo imbarbarimento conseguente alla profonda crisi 8dicotomia della società
borghese)

Un tratto caratteristico del pensiero di Horkheimer è la continua tensione fra il riconoscimento di una sfera
morale e la sottolineatura della dimensione storica e limitata della moralità.

Alla fine del medioevo si manifesta il sorgere di un soggetto moralmente autonomo, ma solo
apparentemente: le sue scelte libere sono illusorie, sempre legate alla società che le condiziona. L’era
moderna fa crollare l’autorità e fa nascere negli uomini il tentativo di decidere in modo autonomo il valore
morale delle loro azioni, elaborando principi dell’agire. Come si è visto la morale non è una categoria
eterna ma storicamente costituita e condizionata.

Kant è punto di riferimento per fronteggiare le critiche nietzschiane alla morale, attraverso l’opposizione fra
moralità ed interesse personale, che rende manifesto come l’agire secondo il proprio interesse (carattere
principale della moralità borghese) non sia necessariamente il modo razionale di agire.

La critica più dura da parte di Horkheimer è rivolta a chi pretende, sostenendo l’oggettività della morale, di
indicare un regno eterno dei valori o di dimostrare la moralità
La morale non può essere provata, neppure un singolo valore è motivabile sul piano puramente
teorico.
La moralità non è dunque giustificabile né su un piano razionale né su un piano intuitivo, viene piuttosto
definita come una condizione psichica, è perciò oggetto di studio della psicologia nel suo caratteristico
aspetto sentimentale (particolare attenzione per il sentimento morale, fa emergere un’attitudine normativa
basata sull’idea dell’uomo come fine in sé)
La compassione diventa il concetto fondamentale dell’etica di Horkheimer, caratterizza i rapporti fra gli
uomini ed i rapporti con gli altri animali: la genuinità dei rapporti umani può essere radicata solo in una
solidarietà fra esseri viventi.

2. Adorno (1903-1969)
[Minima moralia] presentano un’esposizione aforistica, la trattazione è interamente dedicata
all’esperienza soggettiva e volta a mostrarne le inevitabili aporie. Il tema morale della retta vita è
considerato dall’autore obsoleto e ridotto ad essere nient’altro che una triste scienza.

Il carattere totalizzante del modo di produzione capitalistico fa si che la vera vita non possa darsi, né possa
darsi per questa una riflessione adeguata.

L’intera trattazione, volutamente paradossale, è caratterizzata da una celebrazione della vita soggettiva che
corre parallela alla sottolineatura della sua non-verità: l’esperienza individuale è andata inevitabilmente
perduta, ciò è stato reso manifesto dall’evento storico dei campi di sterminio.

Al tempo stesso solo una prospettiva soggettivistica ed individuale può conservare una capacità critica nei
confronti del mondo oggettivo. Si sviluppa così una sorta critica a quell’individualità borghese che lotta nel
suo piccolo per non essere assorbita dal mondo, mentre non si espone mai nell’intervento sul mondo o
nell’azione politica. Nonostante ciò, questa rimane l’unica possibilità etica, quella di un tentativo di
sopravvivenza nel contesto di una vita falsa.

12. Lo statuto dell’etica


A partire dagli inizi del 900 prende piede la cosiddetta tradizione analitica dell’etica, che ha come caratteri
fondamentali l’attenzione per il linguaggio, per il rigore argomentativo e per la chiarezza espositiva.

In particolare in ambito etico è peculiare la sua tematizzazione della distinzione fra i diversi livelli di
indagine etica

 Livello NORMATIVO: quel genere di teorie etiche che attraverso dei criteri normativi/valutativi si
mettono nella condizione di giudicare persone, caratteri o in generale enti come giusti o buoni e di
dare delle indicazioni su cosa sia il dovere
 Livello METAETICO: si occupa di quegli aspetti concettualmente importanti per capire lo statuto o
il significato dei giudizi morali, secondo molti è normativamente neutrale; si occupa di questioni
semantiche (significato dei termini e degli enunciati morali) e ontologiche (realtà oggettiva dei
valori e dei principi morali)

1. Moore (1873-1958)
[Principia ethica]
Come in tutti gli altri studi filosofici, le difficoltà e i disaccordi dei quali la sua storia [dell’etica] è
piena sono dovuti in prevalenza a una causa molto semplice, e cioè al tentativo di dare risposta
a certe domande senza prima scoprire esattamente a quale domanda si desiderasse rispondere
L’intento manifestato è dunque quello di chiarire, analizzandoli, i termini e i concetti che si vogliono
utilizzare, con la consapevolezza che l’analisi non rappresenta il fine della riflessione ma in ogni caso una
tappa obbligatoria.

Per Moore le questioni di cui l’etica si deve occupare sono innanzitutto quelle di valore intrinseco, ovvero
Quale genere di cose abbiano valore per se stesse
dall’altra parte l’interrogativo su cosa si abbia il dovere di fare.

L’autore dichiara esplicitamente i propri debiti teorici nei confronti della tradizione fenomenologica ed in
particolare di Brentano, non stupisce quindi il fatto che egli consideri l’etica come un particolare tipo di
conoscenza (in quanto tale può essere vera o falsa: compito dell’etica è anche quello di interrogarsi su quali
proposizioni morali possano essere dette vere o false.

La questione da cui l’analisi prende le mosse è quella di definizione del termine buono, inteso come quel
predicato che è attribuibile in modo assoluto alle cose buone (in ogni mondo possibile), considerato come
concetto centrale dell’etica da cui derivano tutti gli altri (come dovere).

Il termine buono è indefinibile.


Questo perché non può essere analizzato, ovvero ulteriormente scomposto in parti, e solo ciò che è
complesso si può definire:
buono è una nozione semplice, proprio come “giallo” è una nozione semplice; proprio come non
si può in alcun modo spiegare a qualcuno che già non lo conosca che cosa sia il giallo, così non si
può spiegare cosa sia il buono.
La differenza fra i due concetti è che mentre giallo è un predicato naturale, buono non lo è.

L’obiettivo di Moore è quello di sottolineare come l’etica e le questioni etiche non possano essere ridotte
ad altri piani, soprattutto quello descrittivo, mentre le teorie etiche sono solitamente partite da una
definizione descrittiva del termine buono: questo procedimento si basa sul passaggio indebito dal
descrittivo al prescrittivo (legge di Hume) e rappresenta un obiettivo polemico dell’autore.

HUME aveva già messo in risalto la differenza fra essere e dover essere e sottolineato la
problematicità del passaggio dall’una all’altra sfera; dedica inoltre alcune pagine alla questione
della definizione di natura e naturale, prendendo spunto dal più antico motto naturalista: “vivere
secondo natura”

La open question è l’argomento di questa critica: se il predicato buono è definibile nel modo X (es. ciò che è
piacevole) allora non avrebbe senso chiedersi se una cosa che corrisponde alla definizione X (una cosa
piacevole) sia buona, domanda che invece di solito ci si pone e che tra l’altro non sempre ha una risposta
positiva.

La presunzione di definire buono tramite delle proprietà è detta fallacia naturalistica, dove per naturalismo
si intende quella posizione che derivi una prescrizione o un valore da una descrizione (mentre
tradizionalmente significava spiegare i fatti solo attraverso processi naturali), è perciò una fallacia formale
dovuta al fatto di non cogliere la netta distinzione fra fatti e valori (differenza qualitativa).

Oggetto di polemica sono in particolare l’etica evoluzionistica di Spencer, all’edonismo in generale quindi
anche all’utilitarismo di Sidgwick e Mill.

In risposta a Spencer in particolare Moore afferma che nulla garantisce che l’evoluzione (innegabile a livello
descrittivo - fatti) rappresenti qualcosa di buono dal punto di vista etico (possa essere fonte di prescrizioni -
valori): chi garantisce che ciò che è biologicamente più evoluto è migliore sul piano morale?

Alla fallacia naturalistica sono soggette anche le teorie metafisiche quando pretendono di fondare la
definizione di buono su delle qualità, per quanto non sensibili.

Le proposizioni etiche hanno un valore di verità (cognitivismo metaetico).


Per quanto riguarda l’impostazione ontologizzante secondo cui le qualità morali esistono a prescindere
dall’uomo Moore sembrerà sostenerla all’interno dei principia, per poi allontanarsene successivamente;
rimane comunque indubitabile la sua posizione oggettivista (critica aperta contro il soggettivismo).

Moore distingue il valore come mezzo dal valore intrinseco: il predicato buono può infatti essere attribuito
ad una cosa che è sempre buona oppure a qualcosa che sia condizione necessaria per l’esistenza di altre
cose a cui si può attribuire tale predicato. Chiaramente il valore come mezzo è dipendente dal valore
intrinseco, inoltre, a differenza del valore intrinseco, può essere dimostrato in forma argomentativa; quello
intrinseco invece è coglibile solo tramite un’intuizione.

I valori intrinseci, che Moore ritiene di non dover ulteriormente spiegare, sono le relazioni umane (amore,
amicizia ecc) e bellezza > argomento contro l’edonismo.

[Il concetto di valore intrinseco]

Moore si trova nella condizione di dover affrontare il rapporto fra predicati descrittivi e predicati
valutativi: non nega che ci sia una relazione fra come una cosa è fatta e la sua natura valoriale (altrimenti si
dovrebbe ammettere la possibilità di due cose esattamente uguali a livello descrittivo che possano essere
valutate una come buona e l’altra come cattiva, il che è una contraddizione logica). Non si può però
accettare che il valore di una cosa si esaurisca nelle sue proprietà: la questione rimane irrisolta.

Hare chiamerà questo il problema della sopravvenienza.

2. L’intuizionismo di Oxford
Caratteristica comune a questi autori è l’accettazione della legge di Hume (carattere irriducibile dell’etica),
oltre che il rifiuto del soggettivismo e il fatto che la moralità non possa essere esaurita in un percorso
razionale, ma che necessiti in ultima analisi di affidarsi ad un’intuizione, in ultimo ritengono che i giudizi di
valore siano conoscenza genuina (possono essere veri o falsi).

La loro posizione metaetica è quindi definibile come cognitivismo.

Il fatto di intuire un certo valore non coinvolge la sfera del sentimento: si può essere in obbligo verso
qualcuno ed intuire questo fatto senza necessariamente sentirsi in obbligo.

Per un intuizionista, inoltre, la differenza fra affermare che “X è buono” e “la penna è sul tavolo” risiede
solo nel fatto che il primo è un enunciato prescrittivo, il secondo descrittivo, ma entrambi sono apodittici.

La differenza fra gli intuizionisti e Moore è che questi accanto al termine buono pongono al centro
dell’indagine etica anche i concetti di giusto e dovere.

1. Prichard (1871-1947)
[Does moral philosophy rest on a mistake? – 1912]

Non condivide l’idea mooreana che le nozioni di giusto e dovere siano derivate da quella di buono (del
quale denuncia la forte ambiguità), né lo statuto dell’intuizione proposta da Moore (sia l’oggetto che i
caratteri).

A differenza del termine buono, dovere si riferisce soltanto ad azioni, in questo contesto rivolge a Moore
una critica che ricorda quella della open question:
un dovere, se mai deve essere derivato, può essere derivato solo da un altro dovere, e non dal
buono, a meno di non inserire un’ulteriore premessa che dica che ciò che è buono deve essere.
Dal punto di vista delle azioni il termine buono si riferisce ai motivi, mentre la giustezza non ha nulla a che
fare con essi (e quindi con il buono)

L’obbligo morale viene percepito in modo immediato, attraverso un’intuizione, e non necessita ulteriori
argomentazioni
Questa apprensione è immediata, esattamente nel senso in cui è immediata un’apprensione
matematica, per esempio l’apprensione che questa figura di tre lati, in virtù del fatto che ha tre
lati, deve avere tre angoli.
[Duty and interest, lezione inaugurale all’università di Oxford] La motivazione. Mette in dubbio il fatto che
l’accettazione/riconoscimento di un obbligo possa, senza l’intervento di altri elementi, motivare all’azione.

2. William David Ross (1877-1871)


[The right and the good, Foundations of ethics]

È allievo di Prichard e ammiratore di Moore, nonostante intenti contro di lui una serrata critica: in
particolare non accetta l’affermazione secondo cui giusto significhi causa di buoni risultati (le cose possono
essere giuste ma non buone); Moore stesso abbandonerà poi questa tesi rispetto al concetto di giusto, per
abbracciare la tesi utilitaristica secondo cui è giusto l’atto che dà migliori risultati.

Il nome stesso dell’opera suggerisce la polemica contro l’esclusività che Moore attribuisce al termine
buono: Ross sottolinea così l’importanza di giusto, il fatto che probabilmente sia un concetto ancora più
importante e l’ambiguità del concetto di buono.

Per Ross il termine giusto, così come buono, è irriducibile ed indefinibile.

In polemica con Kant sostiene che la giustezza di un’azione non dipenda dalla motivazione, ma dall’azione
in sé.

Che un’azione sia moralmente obbligatoria è condizione necessaria affinché sia giusta, ma non vale il
contrario (non ogni azione giusta è doverosa).

Ross è convinto che vi sia un sistema oggettivo di verità morali, conoscibile solo intuitivamente, costituito
dai cosiddetti doveri prima facie (posizione deontologica: fonda che però possono trovarsi in conflitto fra
loro in alcune situazioni, per questo sono detti potenziali, condizionali e distinti dai doveri attuali
(procedimento che trova riscontro nel senso morale comune):

Doveri prima facie Doveri attuali


Vengono colti con l’intuizione vengono scelti tramite una riflessione
Sono principi generali e potenziali Sono le azioni che è doveroso compiere in
dell’agire concreto
Sono oggettivi Dipendono dalla situazione

Il disaccordo morale per i cognitivisti si basa su questioni di ignoranza, si pone il problema dell’esistenza di
un disaccordo morale genuino o se il disaccordo sia solo nel modo di mettere in opera certi principi (es.
onorare i morti)

Qui viene delineato il rischio morale, presente in quanto non esistono doveri assoluti: non si può mai
essere sicuri della correttezza di una riflessione e bisogna tener conto della carenza di informazioni
Vi è quindi molta verità nella descrizione di un atto giusto come un atto fortunato
L’analisi di Ross sul termine buono è estremamente accurata e prende le mosse fra la distinzione dei suoi
usi:

 Uso attributivo, “un buon corridore”: relativo, valido nel suo genere
 Uso predicativo, “la conoscenza è buona”: senso assoluto

Approda poi al tema del valore intrinseco e del rapporto fra proprietà descrittive e valutative:
anche se buono e bello sono qualità, esse non sono qualità come giallo e duro. Vi è la differenza
essenziale che mentre le seconde sono qualità costitutive, le prime sono qualità secondarie che
dipendono da quelle costitutive
le proprietà valutative dipendono dall’insieme totale delle caratteristiche descrittive, mentre
se una macchia di colore avrà una forma di un triangolo equilatero essa sarà un triangolo
equilatero a prescindere dalle dimensioni e dal colore della macchia.
3. Il non cognitivismo: l’emotivismo
Questa tradizione nega ai giudizi morali la connotazione di proposizioni genuine. Pone le sue basi nella
riflessione empiristica e più in particolare in riflessioni di natura epistemologica, per passare poi ad
occuparsi di questioni etiche nell’ottica di delimitare il linguaggio valutativo rispetto a quello
scientifico/descrittivo.

Come i cognitivisti anch’essi rifiutano il naturalismo rifacendosi alla legge di Hume e riconoscono il carattere
limitato del ragionamento in ambito morale.

Tratti comuni a questi pensatori sono quelli di fondare i giudizi morali su emozioni e sentimenti, rifiutando
per questo la possibilità di attribuzione del valore di verità al giudizio morale, l’impostazione antimetafisica
e antidealistica e la considerazione del compito della filosofia come analisi e chiarificazione concettuale.

1. Hӓgerstrӧm (1868-1939)
[Sulla verità dei giudizi morali – 1911]

Nel testo si esplicita una riflessione non cognitivistica, che accetta la divisione fra fatti e valori ma nega
l’apoditticità dei giudizi morali.

La sua riflessione prende le mosse dalle abissali differenze che caratterizzano le posizioni morali, da cui
deriva la polemica contro una concezione cognitivista e quindi oggettivista della sfera morale. L’origine
delle idee morali risiede per Hӓgerstrӧm nel costume e nella graduale e sistematica interiorizzazione di
esso: in questo senso la pretesa di oggettività della morale può essere spiegabile su un piano psicologico.

Considera che il piano morale sia inevitabilmente scisso dalla questione del giusto e dello sbagliato, in
quanto sarebbe come chiedersi se “l’oro è giusto” è una proposizione vera o falsa: Hӓgerstrӧm considera la
questione ridicola.

2. Russel (1872-1970)
[Is there an absolute good?]

Il linguaggio morale ordinario ha la pretesa di essere oggettivo, che essendo infondata, porta ad errore
tutte le etiche che da esso prendano le mosse.

[Religione e scienza, capitolo su La scienza e l’etica]

Il titolo stesso del capitolo fa pensare alla divisione fra fatti e valori; si sostiene qui la tesi che le questioni
valoriali si collochino al di fuori della scienza e della conoscenza, che possono al limite
Discutere le cause dei desideri e i mezzi per attirarli, ma non contenere alcun giudizio
genuinamente etico, perché si riferisce a ciò che è vero o falso.
La composizione di un conflitto morale può avvalersi solo di mezzi emotivi, non di mezzi intellettuali: i valori
morali sono questione di gusti, non di verità (carattere soggettivo del valore).
L’etica è un tentativo di conferire un’importanza universale e non semplicemente personale ad
alcuni dei nostri desideri
3. Wittgenstein (1889-1951)
La teoria etica di Wittgenstein si basa sulla teoria delle proposizioni del Tractatus che ha al suo centro
l’affermazione secondo cui la proposizione è un’immagine della realtà.

Wittgenstein intende l’etica come la materia che include tutte le asserzioni


Su ciò che è veramente importante, o sul significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di
essere vissuta, o sul modo giusto di vivere
Anch’egli nega ai giudizi etici lo status di proposizioni genuine, ancora di più, sostiene che non si possano
dare proposizioni etiche, ovvero che l’etica non possa formularsi.

4. Odgen (1889-1957) e Richards (1893-1957)


[Il significato del significato]

Nell’opera gli autori distinguono una funzione simbolica del linguaggio da una funzione emotiva di esso:
alcune parole, come per esempio i termini etici e le proposizioni come “x è buono” sono simbolicamente
vuote (non si riferiscono a “qualcosa” nella “realtà”) ma emotivamente efficaci
[l’espressione] serve soltanto come segno emotivo che esprime il nostro atteggiamento verso
qualcosa, ed evoca forse atteggiamenti analoghi in altre persone, o le incita ad agire in un modo
o nell’altro.
5. Ayer (1910-1989)
[Linguaggio, verità e logica – capitolo su etica e teologia]

L’opera è una delle principali esposizioni sull’emotivismo. Nonostante Ayer sia un neoempirista le sue tesi
metaetiche non derivano in modo necessario da questa posizione, come dimostrano le teorie di altri autori:

Carnap (1891-1970)
[La costruzione logica del mondo] esprime una concezione del valore che per quanto sia basata sul
sentimento rimane oggettiva e cognitivistica (intuizionismo emozionale di tipo cognitivistico)
In realtà un giudizio di valore non è altro che un comando in una forma grammaticale
fuorviante, esso non è né vero né falso. Non asserisce niente e non può essere provato o
confutato.
Shilick (1882-1936)
Si può collocare nella metaetica cognitivistica sul lato opposto rispetto all’intuizionismo, ovvero il
naturalismo; pone infatti in diretta connessione la nozione di buono con la definizione ciò che
procura piacere e con ciò che è richiesto dalla società

Queste due alternative disponibili nel circolo di Vienna, intuizionismo e naturalismo, lasciano insoddisfatto
Ayer, che critica l’idea che l’etica possa consistere in posizioni sintetiche (conoscitive).

Per occuparsi dell’etica bisogna innanzitutto individuarne l’oggetto, ciò è possibile analizzando il sistema
etico comune, il quale contiene concetti etici raggruppabili in 4 classi:

 Definizioni di termini etici


 Descrizioni di fenomeni morali
 Esortazioni alla virtù morale
 Giudizi etici

È la prima classe a costituire l’oggetto della filosofia: un trattato filosofico sull’etica non deve contenere
espressioni etiche ma solo la loro analisi, in questo contesto Ayer teorizza esplicitamente la
distinzione fra etica e metaetica.
Ayer è convinto della grande divisione fra fatti e valori in linea con la quale sostiene che i concetti morali
non possano essere ricondotti a concetti non morali: critica attraverso la open question la tesi naturalistica
ed attacca anche la tesi intuizionistica, sostenendo che i concetti etici non si possano pensare come
garantiti da una “misteriosa intuizione intellettuale”, sono infatti inverificabili sia in senso empirico sia in
senso intersoggettivo (problema del disaccordo). L’intuizionismo ricade inoltre in una sorta di fallacia
naturalistica quando pretende di passare da una peculiare proprietà colta attraverso l’intuizione al fatto che
qualcuno debba portarla ad esistenza.
Per Ayer i termini etici sono pseudoconcetti senza significato fattuale o empirico, ma solo espressioni di
approvazione o disapprovazione morale: l’espressione del giudizio morale ha un carattere puramente
emotivo,
lo si impiega per esprimere un sentimento verso certi oggetti, non per fare qualche asserzione in
proposito
non servono solo ad esprimere il sentimento, ma anche a farlo sorgere in altri per convincerli, laddove non
si possa usare l’argomentazione razionale, o spingerli all’azione ( non cognitivismo metaetico
emotivistico).
Il giudizio morale costituisce un’espressione, non un’asserzione, infatti non è né vero né falso.

6. Alf Ross (1899-1979)


Sostiene con forza il non cognitivismo e critica qualsiasi pretesa di conoscenza in ambito morale, prendendo
in esame le più diverse teorie morali, inoltre è convinto che l’indagine morale debba essere rigorosamente
metaetica e non normativa.

In particolare, per Ross, una metaetica intuizionistica come quella di Moore finisce per dogmatizzare il
senso comune
Le pretese verità etiche razionali sono solo pregiudizi più profondamente radicati di altri
Il conflitto fra valori non è una tesi conclusiva a favore del non cognitivismo tanto quanto la conferma
intersoggettiva non prova l’oggettività dei valori e il cognitivismo.

L’enunciato di valore ha per Ross una funzione di sintomo (esprime l’atteggiamento dell’individuo) e di
segnale (vuole provocare negli altri tale atteggiamento). Accettare una proposizione come vera è
un’operazione del tutto diversa da accettare un principio come valido, ed il passaggio automatico dall’una
all’altra cosa è illecito.

Accetta la tradizionale posizione soggettivistica del non cognitivismo, negandone le conseguenze


potenzialmente rischiose.

7. Stevenson (1908-1979)
[Etica e linguaggio, Facts and values]

Occuparsi di etica significa condurre un’analisi metaetica, distinta da una riflessione normativa e dall’etica
descrittiva (prerogativa dei sociologi), che abbia come obiettivo quello del chiarimento dei termini etici.
Socrate era impegnato in etica analitica quando chiedeva, per esempio, se la virtù è conoscenza o
se la virtù, come conoscenza, possa essere insegnata.
Dichiara più volte la sua vicinanza ad Odgen e Richards ed in generale a tutti gli emotivisti, rispetto ai quali
compie comunque un’analisi più raffinata, occupandosi di definire meglio concetti come attitude o belief e
ponendo particolare attenzione alla questione degli usi linguistici.

Stevenson mostra uno spiccato interesse nei confronti della morale ordinaria, di cui si propone di tener
conto nella sua complessità, la quale corrisponde alla complessità dell’esperienza morale
I nostri giudizi etici rappresentano la nostra personalità in tutta la sua complessità. Per quanto
possano essere guidati da un pieno uso della nostra intelligenza, essi non nascono soltanto
nell’intelletto.
Di Moore vengono accettati sia l’argomento della open question sia la tesi dell’indefinibilità di buono, ma
non il fatto che buono sia in ultima analisi una peculiare caratteristica non naturale coglibile con
l’intuizione: l’essere buono, in quanto predicato assegnato a delle cose che hanno determinate
caratteristiche, non solo dipende dalle caratteristiche ma consiste in esse.
La teoria del significato di Ross ha un carattere psicologico: le parole che non hanno un oggetto di
riferimento nella realtà, come i termini etici, hanno comunque un significato; in generale il significato dei
segni può essere:

 Descrittivo, ovvero volto a produrre quei processi mentali che vengono chiamati conoscitivi
(credenze)
 Emotivo, volto quindi a suscitare in chi ascolta uno stimolo emozionale. Per definire questo genere
di approccio Stevenson introduce il concetto di attitudine, per sottolineare quanto questo genere di
sensazione sia meno immediata del comune sentimento. In quest’ambito sono coinvolti termini
come orrore, crudeltà, espressioni come ahimè e soprattutto i termini etici, che
esprimono/evocano un’attitudine, né vera né falsa, ovvero la disposizione ad essere pro o contro
qualcosa.

L’uso del linguaggio viene distinto fra descrittivo e dinamico, il quale è caratteristico di chi voglia esprimere
sentimenti e dunque invogliare il prossimo a fare (o non fare) qualcosa.

Il disaccordo morale è il tema con cui apre Etica e linguaggio, per Stevenson tema centrale dell’etica,
prendendo in analisi la differenza fra il disaccordo di attitudini e il disaccordo di credenze. Il disaccordo
morale genuino riguarda le attitudini, non le credenze, e non può essere definito una contraddizione dal
momento che non riguarda la verità proposizionale/logica. Spesso il disaccordo non è genuinamente
morale, si basa infatti anche su un disaccordo di credenze, ma il rapporto fra questi due generi di
disaccordo non è a livello logico, bensì a livello di fatti. Il disaccordo morale è componibile attraverso
l’argomentazione solo quando ha le sue radici in un disaccordo di credenze, anche perché la
modificazione delle credenze può portare alla modificazione dell’attitudine (in ambito etico esiste la
possibilità di un condizionamento non razionale, detto persuasivo).

4. Sviluppi del non cognitivismo: l’analisi del linguaggio morale


L’attenzione da parte di questi autori viene dedicata non tanto rigidamente allo statuto dell’etica quanto
alla questione degli usi del linguaggio.

1. Toulmin (1922-)
[Ragione ed etica] avrà un’influenza fondamentale sulle riflessioni successive.

Toulmin parte dalla critica della metaetica tradizionale, innanzitutto per quanto riguarda l’idea che i termini
etici raffigurino qualcosa e che (come accade in Moore) questo qualcosa siano qualità non naturali.

Nell’affrontare il problema del significato parte dal presupposto che esso sia radicato nell’uso concreto che
dei termini si fa, una teoria del significato non è quindi completa se non si basa su una teoria del linguaggio,
che rappresenta il contesto di utilizzo dei termini. Il contesto è oltre che linguistico anche innegabilmente
sociale, questo aspetto evidenzia come il compito dell’etica sia quello di armonizzare e comporre gli
interessi, con un netto abbandono della neutralità normativa e la relativizzazione dell’etica rispetto alla
comunità in questione.
Non esiste una ragione più generale da fornire al di là di quella che mette in relazione l’azione in
questione con una regola socialmente accettata.
Toulmin sostiene che ciò di cui l’etica ha bisogno non sia una teoria ma un’analisi descrittiva del codice
morale della società a cui si appartiene, in quest’ottica il giudizio morale è giustificato dall’appartenenza al
codice: il rischio evidente di sfociare nel conformismo morale è risolto nel carattere provvisorio ed ipotetico
del codice.

2. Norwell-Smith (1914-2006)
[Etica]
L’indagine riesce a mantenersi su un piano descrittivo, nell’esplicita intenzione dell’autore di distinguere il
piano teoretico da quello partico.

L’intuizionismo, nel voler difendere l’autonomia della morale, si trova costretto a postulare una speciale
categoria di oggetti, le verità morali, ricadendo inevitabilmente nella legge di Hume; inoltre, le conseguenze
dell’intuizionismo possono rendere inconciliabile il disaccordo morale.

La logica del discorso morale ha regole proprie che non hanno a che vedere con l’esistenza di fatti, a
meno che non si tratti di una disputa empirica mascherata.

Norwell-Smith propone una distinzione fra diversi usi di parole (piuttosto che classi), la cui molteplicità
deve essere sottolineata soprattutto a livello di linguaggio morale: si distinguono parole descrittive, di
attitudine/proposizionali e gerundive, interessante è notare che queste parole possono essere usate in
proposizioni che hanno un uso diverso (es. una parola gerundiva in una proposizione descrittiva); vengono
individuate infine le cosiddette parole-Giano (duplici) delle quali fa parte buono.

3. Hare (1919-2002)
Per quanto condivida le polemiche non cognitivistiche contro l’intuizionismo considera che l’attacco
emotivista (Ayer, Stevenson) rischi di dare al linguaggio morale una caratterizzazione troppo irrazionale ed
arbitraria.

Mette in luce per la prima volta il rapporto fra metaetica ed etica normativa. Finirà per teorizzare uno
stretto rapporto di dipendenza fra la sua teoria metaetica (prescrittivismo universale) e la teoria normativa
dell’utilitarismo delle preferenze.

La funzione svolta dai termini etici all’interno del linguaggio è per Hare prevalentemente prescrittiva,
consistente nel lodare, nel biasimare e nel guidare la condotta; questa posizione è opposta al
descrittivismo (intuizionisti e naturalisti).

Hare sostiene la legge di Hume (divisione fra fatti e valori) ma accusa apertamente l’intuizionismo di essere
causa di fanatismo morale.

Individua alcune caratteristiche formali (normativamente neutrali) dei giudizi morali:

1. Prescrittività: i giudizi morali sono volti a lodare o biasimare la condotta, in questo senso sotto di
essi si celano degli imperativi. Hare si pone il problema dell’akrasia, ovvero quella condizione in cui
non si segue nel concreto il giudizio morale che si è approvato.
2. Universalizzabilità: riguarda la relazione fra proprietà descrittive e proprietà valutative, già vista
con Moore e Ross. Fra due azioni che vengono giudicate in modo diverso ci deve necessariamente
essere qualche differenza che vada oltre il giudizio stesso, le proprietà descrittive sono quindi
fondamentali ai fini del giudizio morale (sopravvenienza)
3. Predominanza:
i principi morali sono superiori, o più autorevoli di, qualsiasi altro principio
come ad esempio un principio estetico, a livello logico.

La preoccupazione normativa si esplicita nella trattazione del disaccordo morale, in cui si fa l’esempio del
conflitto fra il liberale (libertà) e il fanatico (ragione), che risulta incomponibile, Hare non vuole
assolutamente cadere nel soggettivismo, si spinge quindi ad accettare una posizione utilitaristica delle
preferenze (basata appunto sulla somma dell’intensità delle preferenze) che finirà per risolvere il conflitto a
favore del liberale.
4. Preti (1911-1972)
È particolarmente interessato alla relazione fra moralità e politica, in cui, antihegelianamente, la dinamicità
è vista come la capacità positiva di portare rinnovamento nella configurazione del mondo del costume e dei
valori.

Per quanto critichi Moore e Scheler in quanto oggettivisti, trae dalla loro riflessione alcuni spunti, a partire
dalla centralità delle nozioni di valore e buono, contrapposte a termini prescrittivi come dovere,
sottolineando una maggiore ampiezza della sfera della valutazione rispetto a quella della descrizione.; a
Scheler riconosce anche l’importanza attribuita all’emozione.

Il conflitto morale è per Preti in ultima analisi incomponibile, proprio a causa della fondazione dell’etica
nell’emozione (soggettivismo)
Il valore è un metavalore: intrinsecamente coincide con la stessa gerarchia dei valori,
praticamente con la volontà diretta a realizzare un mondo di valori in quanto dati in gerarchia
In questo senso i valori sono semplici astrazioni di ciò che realmente sono le cose di valore, i beni.

La moralità è una concezione pratica del mondo, consiste nel confronto con i valori e nella possibilità
stessa della loro realizzazione; i valori però non necessariamente sono valori morali
La moralità consiste nel rendere il mondo migliore: non moralmente migliore, ma solo migliore.
5. Scarpelli (1924-1993)
Assume una posizione non cognitivistica anche in questo caso profondamente influenzata da Hare, mette in
luce i limiti di una pretesa argomentazione razionale all’interno della moralità, quindi anche la difficoltà di
comporre i disaccordi morali.

Ciò non significa rinunciare assolutamente alla razionalità della morale, anzi:
un’etica razionale è in conclusione possibile. Sono possibili, anzi, più etiche razionali. Ma le etiche
razionali poggiano su principi non assumibili razionalmente
Per Scarpelli, inoltre, la metaetica non è in grado di dare una fondazione conoscitiva dell’etica (come
avrebbero voluto i cognitivisti), ma la deduzione si prospetta contraria: sarà l’etica (normativa), piuttosto, a
stare alla base di una metaetica divisionistica che accetti la validità della legge di Hume.

L’intento dell’autore è quello di non sostenere una posizione che pretenda la scelta di un’etica ma di
sostenere la pluralità e la tolleranza fra le diverse posizioni.

6. Tendenze attuali
1. La crisi della metaetica classica
A partire dalla fine degli anni 50 i tre tratti principali della metaetica novecentesca vengono messi in
discussione:

1. Viene rivalutato il naturalismo, che con la critica di Moore sembrava definitivamente messo da
parte: all’open questioni molti rispondono che una definizione non deve per forza risolversi in
un’identità concettuale (es acqua-H2O); la stessa legge di Hume (che non si possa derivare il dover
essere dall’essere) viene messa in discussione con l’esempio della promessa, sollevando dubbi sulla
validità della grande divisione fra fatti e valori: i dati empirici non possono certo portarsi dietro
delle conclusioni per come sono dati, ma necessitano di un’appropriata riorganizzazione.
2. Viene messa in discussione l’ambizione di un’analisi neutrale dei termini etici, mettendo in rilievo
sia il disaccordo fra analisi metaetiche sia la necessità per alcuni autori di giungere comunque ad
una teoria normativa (Hare): I critici del non cognitivismo sostengo la necessità di riferire i giudizi
morali a dei contenuti
3. La crisi dell’etica novecentesca sembra richiedere un brusco ritorno all’etica normativa, lasciando
da parte l’idea che la filosofia morale debba occuparsi solo di metaeica.

2. Il ritorno del naturalismo


Elizabeth Anscombe [Modern moral philosophy – 1958]
Rivendica una posizione naturalistica, ribadisce il significato descrittivo dei termini valutativi e riprende la
nozione aristotelica di virtù

Peter Geach
Prende le mosse dall’analisi mooreana del termine buono e si ricollega alla distinzione già vista in Ross fra
uso dichiarativo e attributivo. A Geach è da attribuire anche la tesi sugli argomenti condizionali, che
dimostra (in critica contro gli emotivisti, che sostenevano il significato emotivo di buono nell’ordine
dell’espressione di approvazione) che un enunciato morale non per forza approva o disapprova qualcosa:
“se X è buono allora deve essere promosso”, non si sta aderendo né all’idea che X sia buono né a quella che
debba essere promosso.

È sostenitore dell’etica della virtù.

Philippa Foot
La sua intenzione è quella di
Rompere, davvero radicalmente, con l‘antinaturalismo di Moore e con teorie soggettiviste come
l’emotivismo e il prescrittivismo
La polemica della Foot si scaglia quindi contro la dicotomia fra fatti e valori. In [Natural goodness] da una
struttura neoaristotelica a questa battaglia. Per parlare di moralità non ci si può limitare ad un’analisi logico
formale, ma bisogna rifarsi a dei contenuti:
il giudizio morale su azioni e disposizioni umane è un esempio di un tipo di valutazione
caratterizzato dal fatto che i suoi oggetti sono esseri viventi
la valutazione è aristotelicamente teleologica: la normatività naturale dipende dal genere di esseri viventi
che si è e quindi dalle funzioni che si è destinati a svolgere

3. Mackie
[Etica. Inventare il giusto e l’ingiusto – 1997]

Mackie crede fermamente nella distinzione fra etica normativa e metaetica ma è convinto che la metaetica
novecentesca abbia tralasciato una questione fondamentale, ovvero la domanda sull’oggettività dei valori
morali (ontologica), concentrandosi esclusivamente sulle questioni semantiche. La questione ontologica si
lega a una questione epistemologica e al problema della motivazione.

Non ci sono valori morali oggettivi.

Anche se l’analisi del linguaggio morale ordinario porterebbe a credere il contrario, ma ciò non è altro che
la proiezione dei nostri sentimenti nella realtà esterna (vedi Hume), oggettivazione dei nostri desideri e
delle nostre esigenze connessa con la necessità di rafforzare il codice etico della società.

L’etica è un sistema normativo di tipo legale da cui è stato rimosso il legislatore (riprende Anscombe e,
pur inconsapevolmente, Schopenhauer) che tradizionalmente, nella società occidentale, si identifica con
Dio.

La teoria metaetica di Mackie è volta quindi a sottolineare l’errore per cui, partendo dal linguaggio morale
ordinario ci si convince che esistano valori morali oggettivi quindi giudizi morali genuini, ma dato che si
parte da un presupposto errato non si può che ammettere che i giudizi morali sono tutti falsi.
Oltre al classico argomento del conflitto morale, a sostegno della soggettività dei valori Mackie propone
l’argomento della queerness: l’esistenza di valori morali oggettivi presupporrebbe che questi fossero dei
particolari (strani, appunto) tipi di enti, coglibili attraverso un’altrettanto strana facoltà. Alla base di ogni
pretesa oggettività morale sta dunque un intuizionismo, che però non è in grado di spiegare in che modo
queste intuizioni dovrebbero motivare alle azioni (fallacia naturalistica) né il modo in cui sarebbero in
relazione con la realtà.

4. Realismo ed antirealismo
La riflessione di Mackie porta a superare la divisione fra cognitivisti e non cognitivisti quando essa si
riferisca al disaccordo fra coloro che riconoscono e coloro che negano la verofunzionalità dei giudizi morali:
sia le posizioni realistiche che quelle antirealistiche sorte in quegli anni tendono almeno in una certa misura
a considerarle verofunzionali, queto è il motivo per cui la riflessione si è spostata di nuovo dal piano
semantico a quello ontologico.

McDowell e Wiggins
Fondano la cosiddetta teoria della sensibilità che vuole essere un compromesso fra oggettivismo e
soggettivismo e si fonda sull’idea che la percezione morale possa essere accostata alla percezione di
qualità secondarie come il colore.

Le qualità che danno luogo ai giudizi morali suscitano nei soggetti delle risposte che sono soggettive
nei limiti del fatto che lo stimolo è lo stesso per tutti (oggettività del mondo – soggettività della
percezione): la moralità non sta nel mondo ma nella relazione tra il soggetto e il mondo.
I valori non sono semplicemente là – non sono là indipendentemente dalla nostra
sensibilità – più di quanto non lo siano i colori; tuttavia, come per i colori, ciò non ci
trattiene dal supporre che siano là indipendentemente da qualunque particolare
evidente esperienza di essi.
Nagel – Uno sguardo da nessun luogo
La riflessione che sostiene l’oggettività dei valori può basarsi anche su forme di razionalità pratica: ai limiti
che porta con sé un’argomentazione razionale nella sfera morale si cerca di far fronte proponendo
assunzioni che costituiscano buone ragioni o basi per la costruzione di un sistema di principi, ricadendo nel
problema che tali assunzioni rischiano di essere pesantemente normative.

L’oggettività etica si può dunque fondare su ragioni impersonali in vista di un realismo normativo. La
domanda centrale dell’etica è
Che cosa c’è ragione di fare o volere, considerando le cose da questa prospettiva impersonale?
Kantianamente è la razionalità a guidare l’atteggiamento morale, in quanto è imprsonale.

Queste asserzioni avrebbero come scopo quello di evitare di ricadere da un lato ni pericoli del realismo,
dall’altro in quelli del relativismo.

13. Criteri normativi


1. Sviluppo e revisione dell’utilitarismo
1. Moore
Dell’utilitarismo accetta la centralità delle conseguenze nella valutazione delle azioni (conseguenzialismo),
ma non la teoria del valore.
Propongo di chiamare utilitarismo ideale questa concezione dell’etica che combina il principio
utilitarista per cui l’etica deve essere teleologica con una concezione non edonistica del fine
morale. Secondo questa concezione, le azioni sono giuste o sbagliate a seconda che tendano a
produrre per tutto il genere umano un ideale o un bene che include il piacere ma non è limitato
ad esso.
Per Moore il dovere consiste in
Quella azione che causerà l’esistenza di un bene maggiore nell’universo rispetto a ogni altra
possibile alternativa
L’autore tiene inoltre a sottolineare come un’azione giusta non per forza sia da considerarsi un dovere, ad
esempio le caso in cui due azioni portino come conseguenza la stessa quantità di bene.

La valutazione di un’azione dipende strettamente dalle conseguenze, infatti se un soggetto compisse


un’azione dalle conseguenze innegabilmente negative, ma avesse avuto ogni ragione di credere che le
conseguenze sarebbero state positive
Tenderemmo a dire non che la sua azione è giusta, ma piuttosto che la persona non merita
recriminazione
Di fronte all’obiezione secondo cui allora il dovere si riduca a ciò che è conveniente/utile, More offre anche
altri criteri per determinare la nozione di dovere:

 È utilizzato solo in relazione a quelle azioni che suscitano sentimenti di approvazione o


disapprovazione
 Sono azioni che di solito gli individui sono tentati a non compiere
 L’omissione di un dovere implica conseguenze sgradevoli per qualcuno che non è il soggetto agente

Teoria del valore. Come già detto Moore non accetta la teoria del valore utilitaristica, che perché cadrebbe
nella fallacia naturalistica dal momento in cui afferma che buono è ciò che provoca piacere. Ma della teoria
del valore utilitaristica ad essere criticato è soprattutto il monismo, ovvero l’idea che sia solo il piacere a
dare motivo all’azione: ritiene paradossale sostenere che un mondo in cui non esistesse null’altro che il
piacere sarebbe migliore di uno che contenesse una quantità lievemente minore di piacere ma che
comprendesse anche scienza, amore, bellezza.

2. Il processo di revisione dell’utilitarismo


La maggiore difficoltà che si cercherà qui di sciogliere sarà quella di conciliare l’utilitarismo con l’impianto
morale ordinario.

Harrod – Utilitarism revised


Considera la dimensione teleologica essenziale e costitutiva per la sfera della moralità:
gli atti sono moralmente significativi quando riguardano i fini delle altre persone e sono
moralmente buoni quando promuovono quei fini.
L’utilitarismo deve però essere integrato con la maggiore scoperta kantiana, ovvero quella di agire secondo
una massima che possa diventare una legge generale, in quanto ci sono azioni la cui violazione diffusa
avrebbe nel complesso peggiori conseguenze delle eventuali buone conseguenze che si avrebbero
attraverso le singole violazioni del principio. Il test riformulato diventa:
quest’azione, se compiuta da tutti in circostanze che siano simili per gli aspetti rilevanti,
condurrebbe al crollo di qualche metodo di convivenza stabilito per garantire i propri fini?
Queste considerazioni apriranno la strada per la distinzione fra utilitarismo dell’atto e utilitarismo della
norma. La teoria di Harrod si può ritrovarsi nel secondo, che ha la caratteristica di non riferire più il giudizio
alla singola azione ma alla norma, ovvero a classi di azioni: la valutazione si sposta dalle conseguenze
dell’azione alle conseguenze del rispetto di una norma, o di un sistema di norme.

Rawls
[Two concepts of “rule”]

Anch’egli noto per le sue critiche all’utilitarismo, mette al centro della sua analisi il concetto di pratica,
inteso come un’attività definita da regole. Si impegna a difendere l’utilitarismo dalle due obiezioni classiche
della pena (è giusto condannare un innocente quando ciò porti a buone conseguenze) e della promessa
(l’utilitarismo non riesce a giustificare l’obbligo a mantenere le promesse). La pratica della pena o della
promessa ha senso solo in un’istituzione, in un sistema di norme, che non ammette eccezioni particolari se
non quelle stabilite dalla norma stessa: le regole sono logicamente prioritarie rispetto alle azioni
particolari e ne guidano lo svolgimento. Il rischio di questa concezione è quello della staticità del sistema di
norme, che non può in questo modo essere messo in discussione

Brandt – A theory of the good and the right (1979)


Critica i codici morali monistici (basati su una sola norma) ovvero l’egoismo etico e l’utilitarismo dell’atto,
intende inoltre rispondere all’obiezione secondo cui i vantaggi dell’utilitarismo della norma sarebbero solo
apparenti perché se formulate in modo corretto le prescrizioni delle due versioni di utilitarismo sarebbero
uguali. A ciò Brandt risponde con la distinzione fra diverse interpretazioni di currency (diffusione) di un
codice morale, e quindi della sua utilità: l’utilità viene valutata nel caso in cui tutti rispettino la norma
(Harrod) oppure sulla base del fatto che la norma venga riconosciuta come valida (Brandt, sostiene questa
tesi con la proposta di un codice ideale, che eviterebbe anche di cadere nelle accuse di staticità fatte a
Rawls)

Sui contenuti di questo codice vengono date indicazioni solo di tipo generale, dovrebbe essere il risultato
della collaborazione fra filosofi e scienziati sociali.

L’utilitarismo dell’atto per Brandt:

 non tiene conto della complessità della deliberazione morale, in cui si interagisce con fattori fuori
dal controllo (es. le azioni degli altri): il calcolo di un’azione che tenga conto solo del singolo atto
non tiene conto della coordinazione intersoggettiva, necessaria per la vita sociale
 lo definisce una moralità per i santi, che non distingue fra gli obblighi morali e le azioni
supererogatorie, elimina la possibilità di azioni indifferenti e rischia di cadere in un fanatismo
morale.

Hare
Accetta l’idea secondo cui un utilitarismo della norma ben formulato offrirebbe in sostanza le stesse
indicazioni di un utilitarismo dell’atto, la sua riflessione sull’utilitarismo si pone piuttosto in opposizione ad
una teoria del valore fondata sulla nozione di felicità, indeterminata e ben lungi dall’essere un concetto
empirico: deve essere sostituita dal concetto di soddisfazione delle preferenze o dei desideri degli individui
coinvolti, nella convinzione che non sia legittimo dare ai propri interessi maggior valore rispetto che a quelli
degli altri.

Questa visione cade nella considerazione di preferenze cattive, come potrebbero essere quelle del sadico:
Hare afferma che logicamente questa contraddizione non può essere sciolta, più tardi riuscirà a trovare
un’argomentazione che però si ferma al piano empirico: la soddisfazione del sadico sarà sempre
quantitativamente inferiore alla soddisfazione delle preferenze delle sue vittime.

Harsanyi
Ritiene l’etica una parte della teoria generale del comportamento razionale, che
consiste nel perseguimento coerente di alcuni scopi ben definiti, e li persegue in conformità a
qualche insieme ben definito di preferenze o priorità.
A livello di teoria dell’obbligo sostiene l’utilitarismo della norma, che ha diversi vantaggi

 Permette di prendere in considerazione le strategie d’azione altrui, che nell’utilitarismo dell’atto


vanno assunte come date; questo è un elemento di grande importanza per quanto riguarda la
collaborazione fra individui
 Rende maggiormente conto delle implicazioni che l’adozione di codici morali alternativi può avere
per l’individuo
 È più aderente alla percezione comune degli obblighi morali

Teoria del valore


Non è per nulla ovvio che facciamo tutto quello che facciamo per conseguire piacere ed evitare
la pena
Nel decidere ciò che è bene e ciò che è male per un determinato individuo, il criterio ultimo
possono essere soltanto i suoi bisogni e le sue preferenze
Da questo punto di vista si pone il problema della conoscenza, legato al fatto che le preferenze degli
individui potrebbero cambiare nel momento in cui questi acquisissero una conoscenza completa di tutte le
implicazioni: per questo motivo alcune preferenze possono essere irrazionali ed alcune devono essere
assolutamente escluse in quanto antisociali.

Smart - Utilitarismo estremo e ristretto (1956)


La posizione è quella dell’utilitarismo estremo, ovvero dell’atto e in forma edonistica.

Consapevole dei limiti dell’argomentazione razionale etica, sostiene che l’unica dimostrazione della validità
dell’utilitarismo a cui ci si possa appellare è quella di tipo persuasivo (Stevenson): è possibile infatti che non
si dia un sistema accettato da tutti, o anche dalla stessa persona in stati d’animo diversi.

L’idea di Smart è quella di perseguire una benevolenza generalizzata, ovvero una disposizione a ricercare la
felicità per tutta l’umanità (o per tutti gli esseri senzienti).

Critica il culto della norma, che rischia di prescrivere azioni che conducono ad un’inevitabile sofferenza, in
cui sembrano ricadere tanto le etiche deontologiche quanto l’utilitarismo della norma: se l’utilitarista
difende il suo principio in quanto interessato alla felicità umana, è incoerente che vi rinunci per aderire ad
una norma, sostiene quindi che un utilitarismo della norma è in fin dei conti equivalente ad un utilitarismo
dell’atto.

Smart risponde ad alcune delle critiche tradizionali, come quella della promessa (spesso è giustificabile
venire meno ad una promessa) o quella dell’aderenza al senso comune (un’etica prescrittiva non deve
occuparsi di come i costumi sono, ma di come devono essere).

Per quanto riguarda la teoria del valore accetta l’edonismo in una forma di calcolo quantitativo.

Williams – Una critica dell’utilitarismo (1973)


Critica la concentrazione solo ed esclusivamente sulle conseguenze dell’azione e non sull’agente il quale,
secondo gli utilitaristi dovrebbe non tener conto del fatto che è lui/lei a dover compiere tale azione

3. Deontologia e diritti
1. La deontologia contemporanea: da William David Ross ai kantiani
Ross
Per Ross la versione mooreana è il risultato più soddisfacente che una teoria utilitaristica avrebbe potuto
raggiungere. A livello di teoria dell’obbligo Ross muove a Moore critiche di monismo simili a quelle che
Moore aveva mosso all’utilitarismo tradizionale per quanto riguarda il valore.

La critica all’utilitarismo parte dalla questione tradizionale della promessa, in generale questa concezione
filosofica trasferisce tutto il perso dell’obbligo sul futuro (conseguenze) senza tenere conto del passato
come fonte di obblighi. Inoltre semplifica troppo le relazioni intersoggettive, vedendo gli atri solo come
eventuali beneficiari di azioni senza tener conto di rapporti anche sentimentali complessi.

Se una promessa può essere rotta è solo perché intervengono altri principi (prima facie)
Sul piano normativo l’azione costruttiva di Ross va in direzione di un rinnovamento della posizione
deontologica.

2. La teoria dei diritti


Il concetto di diritto proviene dalla filosofia giuridico-politica; il dibattito ruota intorno all’esistenza di diritti
morali ed alla possibilità di fondare su di essi una teoria etica normativa e si sviluppa nel corso degli anni ’70
in polemica sia con l’utilitarismo che con le teorie deontologiche, che non terrebbero conto
dell’indipendenza dell’individuo e dei limiti del controllo dello stato su di esso.

Mackie
Sostiene che parlare di diritti anziché di doveri porterebbe un vantaggio dal momento che i diritti sono
qualcosa che vorremmo avere al contrario dei doveri.

Il dovere ha senso solo se relativo ad un Dio legislatore, ed anche in questo caso in vista di altri fini: un
dovere fine a se stesso rappresenterebbe un segno di tirannia; l’autolegislazione kantiana, inoltre, non è
considerata razionale proprio per la mancanza di fini.

Per quanto riguarda l’utilitarismo, questa posizione rischia di sacrificare il benessere del singolo in nome di
uno stato di cose impersonale (ovvero il bene comune).

I diritti sono per Mackie prima facie, in quanto i diritti finali degli individui dipendono dalla mediazione fra i
diversi diritti prima facie in un ordine gerarchico riferito in primo luogo agli interessi vitali delle persone (il
diritto fondamentale è quello di poter scegliere come vivere.

Gewirth
A partire dalla struttura normativa dell’azione, costituita dalle condizioni fondamentali di libertà e
benessere, ritiene si possa giustificare una teoria etica fondata sui diritti: sono proprio queste due
condizioni dell’agire ad essere i diritti principali dell’individuo che, sulla base del principio della coerenza
generica, devono essere riconosciuti anche agli altri individui.
Agisci in accordo con i diritti generici dei tuoi destinatari così come con i tuoi

14. La critica della teoria etica e l’etica della virtù


Alla fine del 900 si sviluppa la cosiddetta antiteoria, che mette in discussione la necessità, la possibilità e la
desiderabilità di una teoria normativa, in collegamento al pensiero di Anscombe, per la quale bisognerebbe
rinunciare all’idea stessa di una teoria morale o del dovere, per dedicarsi ad una filosofia della psicologia
cercando di chiarire i fondamenti di un’etica descrittiva della virtù.

I tratti comuni principali sono quindi la critica all’esclusiva concentrazione della riflessione etica sulle azioni
giuste e la volontà di attenzionare i caratteri delle persone, fino ad allora considerati un punto trascurabile.

Stocker – La schizofrenia delle teorie etiche moderne (1976)


Per l’autore le teorie etiche moderne hanno creato una e propria schizofrenia fra i criteri di correttezza
morale delle azioni, concentrati sulla nozione di obbligo, e i motivi che dovrebbero spingere all’azione in
vista del raggiungimento dell’eudemonia. Si manifesta dunque una scissione fra le teorie morali e
l’esperienza concreta, che risulta molto più complessa, ad esempio a livello di relazioni interpersonali (es:
devo curare mia madre anche se non ne ho voglia).

MacIntyre
Sulla base di un’analisi di storia delle filosofie morali dichiara fallito il progetto illuministico di creare una
morale, cosa già manifesta dai tempi di Nietzsche. La discussione etica contemporanea si sviluppa intorno a
concetti che non hanno più nulla a che fare con i contesi concreti da cui provengono; la soluzione proposta
è quella di un’etica teleologica di matrice aristotelica.
Williams
Pur accogliendo la critica neoaristotelica alla morale moderna ci tiene a sottolineare l’importanza delle
lacerazioni e dei conflitti di cui la vita etica è permeata, rifiuta quindi l’idea aristotelica di unità della virtù.

Von Wright
Concentra la sua riflessione sulla questione delle virtù, definite come tratti del carattere che orientano le
scelte

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