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DISPUTA SULLE TRE CONCEZIONI DEL PROCESSO DECISIONALE

“Disputa” deriva dal verbo latino disputare, che significa “chiarire per mezzo di esame e di discussione”; è
sinonimo letterario e di tono elevato di discussione, scambio e contrasto di opinioni e vedute. Ci sono tre
punti di vista sul processo decisionale:
1. La decisione è funzione di vincoli esterni (secondo William nel dialogo), è dettata da fattori esogeni, in
una logica dell’adattamento dell’impresa al suo ambiente (nessuna libertà del decisore). Secondo
questo approccio, le decisioni dell’impresa devono essere razionali: esse sono valutabili in termini di
efficienza. Si crede che, grazie a una analisi obiettiva, l’incertezza può essere eliminata e che quindi le
decisioni possono essere oggettivamente buone e pertinenti. Il punto di partenza del processo di
decisione è l’analisi della realtà (analisi dell’ambiente interno, dei concorrenti, della soddisfazione dei
clienti), poiché la realtà è considerata come un vincolo oggettivo e esterno. L’amministratore delegato
dell’azienda dovrebbe fare rete in base all’analisi dei dati del mercato perché permette di rimanere
indipendenti (pur coordinandosi con i partner) e di concentrarsi sul core business affidando ad altri le
attività meno redditizie. La libertà del decisore è trascurabile: la sua decisione è determinata dalla
realtà, alla quale cerca di adattarsi. Si tratta di una razionalità oggettiva e a priori.
2. La decisione esprime l’irriducibile e piena libertà umana (secondo Paula nel dialogo). Non esiste un
problema di rapporto tra vincoli esterni e decisioni: la realtà non è un dato che si impone agli attori,
non è un vincolo esterno; la realtà è costruita, cioè creata, dalle loro convinzioni, dai loro sogni, dalle
loro angosce. Non si tratta di rappresentazioni, ma di costruzioni della realtà. Secondo questo
approccio, le decisioni dell’impresa esprimono le convinzioni personali dei dirigenti, i loro modi di
pensare, le loro paure, i loro desideri, la fortuna, il quadro istituzionale nel quale si situa l’impresa ; si
parla di strategia per giustificare decisioni individuali già prese dall’amministratore delegato, che
agisce dall’inizio alla fine. Generalmente, le decisioni sono sempre imprevedibili: l’incertezza è totale.
La razionalità è, di fatto, una razionalizzazione, cioè una giustificazione a posteriori della decisione.
Secondo questo punto di vista, una buona decisione è una decisione che va bene al decisore, che gli
conviene e questo fa sì che le decisioni non possano essere previste.
3. Il processo di decisione non è né determinato né indeterminato (secondo Thomas nel dialogo). Ogni
decisione vincola le decisioni seguenti, ma questi vincoli sono anche delle risorse e opportunità per lo
sviluppo del processo decisionale. In ogni circostanza c’è uno spazio di libertà. Non v’è una realtà, vi
sono sempre diverse rappresentazioni della realtà. Secondo questo approccio, le azioni e le decisioni
sono sostenute dalle intenzioni di molti stakeholder in base al loro potere e alla loro influenza, per cui
gli obiettivi che si cerca di perseguire non sono né dati né chiari; essi si evolvono, si trasformano man
mano che il processo decisionale si costruisce e non sono sempre perfettamente coerenti. Le azioni e
le decisioni cercano di far fronte all’incertezza, sempre esistente, ma che può essere più o meno
influente, e non possono mai essere libere perché sono il frutto della convergenza tra più intenzioni. Il
comportamento dell’azienda nei confronti dell’ambiente non è necessariamente adattivo rispetto alle
esigenze della clientela, ma può essere anche proattivo; per cui la decisione non è mai pienamente
determinata. Non vi sono decisioni oggettivamente buone, ma si può valutare il rapporto tra i fini
desiderati (cercando di chiarire gli obiettivi) e i mezzi utilizzabili per cercare di raggiungerli. Il problema,
in questo caso, è mantenere una congruenza tra azione e obiettivi. Si tratta quindi di una razionalità
intenzionale e limitata, come è limitata la ragione umana.
Sulla base di riflessioni filosofiche ed epistemologiche, le molteplici teorie esistenti della decisione
esprimono diverse visioni del mondo. Queste tesi corrispondono a tre classi di teorie della decisione
definite dal loro posizionamento rispetto a questioni fondamentali, quali la libertà, la realtà, la razionalità,
l’incertezza. Queste tre visioni sono incommensurabili: nessuna posizione è vera, nessuna è falsa, ogni
approccio è valido in sé, ciascuno è coerente, ma nessun approccio può comprendere gli altri due. Le 3
visioni si basano sulla stessa formazione, gli stessi avvenimenti, le stesse informazioni, ma ogni posizione è
esprime una capacità di vivere e a sentire gli stessi avvenimenti in modo molto diverso.

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La disputa, quindi, mostra che non si può parlare della teoria della decisione, ma che ci sono tre concezioni
del processo decisionale. Quella più diffusa nell’economia è la prima perché considera variabili
maggiormente misurabili nella realtà.

RAZIONALITA’ E ORGANIZZAZIONE
La razionalità è un concetto centrale impiegato per comprendere le azioni e decisioni individuali e
organizzative (Weber, 1922). Esso afferma che ogni comportamento umano è orientato alla singola persona
ma anche agli altri (collettività) con cui si entra in relazione; sulla base di ciò, elabora alcune di tipologie
ideali di agire sociale orientati a sé stessi e agli altri:
- Agire determinato dalla tradizione (abitudine, usi, costumi, convenzioni non oggetto di
valutazione/discussione)
- Agire determinato dagli affetti/emozioni (vendetta, gioia,..)
- Agire determinato razionalmente rispetto al valore: il comportamento è determinato sulla credenza
che quest’ultimo abbia valore etico, senza preoccuparsi delle conseguenze
- Agire determinato in modo razionale rispetto allo scopo: il comportarsi in un certo modo è un mezzo
per raggiungere determinati obiettivi che si desiderano. Vengono, in questo caso, considerate le
conseguenze del comportamento rispetto
agli obiettivi perseguiti e si è disposti a perseguire degli scopi alternativi
Questi sono dei concetti tipico-ideali (“tipo puro”) perché non ci sono comportamenti determinati soltanto
in base alla
tradizione, agli affetti, al valore, allo scopo; ogni forma di comportamento, in realtà, mescola tutte queste
forme di agire sociale. Se, però, si vuole comprendere il comportamento individuale, collettivo e
organizzativo, conviene partire dal concetto di razionalità rispetto allo scopo. Quando si osserva nel
comportamento delle persone uno scostamento, allora quest’ultimo può essere considerato come variabile
che giustifica l’intervento anche di elementi legati alla tradizione, alle emozioni e ai valori nel
comportamento organizzativo, individuale e collettivo.
Sulla base della disputa sulle tre concezioni di processo decisionale, ci sono 3 visioni di razionalità:
1. La razionalità è solo ed esclusivamente rispetto allo scopo (secondo William nel dialogo, pseudonimo di
uno studioso di nome Williamson, che esprime questa concezione nella “Teoria dei costi di transazione”)
perché permette di ridurre o eliminare l’incertezza sugli obiettivi e sui modi per raggiungerli, permette di
adattarsi all’ambiente e di raggiungere obiettivi economici (come fatturato, redditività). Quindi, è una
razionalità oggettiva (o assoluta) e a priori. In questa visione, la razionalità è espressa in termini di efficienza
economica (non in termini di emozioni) e bisogna scegliere, fra le diverse soluzioni organizzative, quella che
massimizza tale efficienza. La decisione precede l’azione, tutte le alternative di azione possibili sono note
(razionalità assoluta) attraverso le analisi finanziarie, gli studi di settore e anche le conseguenze di ogni
alternativa sono note o passibili di previsione affidabile. Il decisore ha un sistema di preferenze date a
priori, stabili nel tempo e nello spazio, completo e si riduce o all’adattamento all’ambiente o
all’ottimizzazione del rendimento economico (massimizzazione del profitto); qualsiasi altra preferenza di
risultato è compatibile con gli obiettivi di adattamento all’ambiente e di massimizzazione dei risultati
economici (il sistema di preferenze è internamente coerente). Nel caso di limiti informativi/computazionali
esistono procedure che permettono un trattamento/riduzione dell’incertezza. È possibile assumere, quindi,
una decisione ottimale (che massimizza la funzione di utilità del decisore); se l’esecuzione della decisione
non produce le conseguenze desiderate, si è commesso un errore di decisione (l’errore è una colpevole
manchevolezza).
2. Vi è una razionalizzazione a posteriori (razionalità assoluta a posteriori): questa è la concezione di
Powell e Di Maggio (Paula nel dialogo) secondo cui la razionalità organizzativa è una finzione che le
organizzazioni usano per non perdere legittimazione e consenso. Le azioni e le interazioni precedono le
decisioni, le costruzioni di senso e significato: la conoscenza si forma solo nell’azione. Gli obiettivi sono solo

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una “messa in scena” per far credere, esternamente, che si sa dove si voglia arrivare. Questo filone di
pensiero è quello, ad esempio, dello studioso D.A. Gioia. Senso e significato sono riconosciuti/ri-costruiti
solo dopo l’azione. La razionalità emerge a posteriori (razionalizzazione a posteriori), è una giustificazione al
comportamento delle persone attraverso le categorie di scopo e mezzo delle azioni e interazioni sociali (si è
comportato così perché voleva, intendeva, credeva, sperava che..). Il comportamento, prima di metterlo in
atto, può essere irrazionale; a seguito del comportamento, per giustificarlo, si utilizza la razionalità e si
definiscono gli obiettivi per rendere il comportamento coerente (“coerenza a posteriori assoluta”).
3.La razionalità è intenzionale e limitata (secondo Thomas nel dialogo): gli obiettivi e gli scopi mutano nel
tempo e quindi i decisori cercano di essere, almeno nelle intenzioni, razionali. Se l’obiettivo cambia sempre
e le organizzazioni cercano di essere razionali, il focus sta nella ricerca continua di soluzioni soddisfacenti.
Questo è un elemento differente tra le prime due concezioni e dimostra che questa non è una via di mezzo
ma è un a vera e propria alternativa. Esistono limiti informativi e computazionali ineliminabili; esistono
obiettivi e livelli di aspirazione/preferenze di risultato ma non sono perfettamente comparabili e conciliabili
(conflitto) e non sono statici (cambiano nel tempo). Il senso dell’azione non è indeterminato né
determinato, si specifica e si modifica nel corso dell’azione. Le azioni e decisioni che si susseguono
incessantemente e inseparabilmente, producono continuamente nuove informazioni, nuove conoscenze e
perciò anche nuovi mezzi, nuovi fini e preferenze di risultato. Poiché le preferenze, le alternative di scelta e
le conseguenze non sono note, il decisore deve attivare processi di ricerca: la razionalità organizzativa è
quindi di tipo prevalentemente procedurale: c’è una ricerca continua di soluzioni soddisfacenti a problemi
mai completamente definiti.

2. Organizzazione
Ogni concezione di razionalità individua una idea di organizzazione. Ci sono 3 concezioni, quindi, di
organizzazione:
1. Concezione system-centered (“centrata sul sistema”): in coerenza con l’idea di razionalità assoluta,
oggettiva e a priori (rispetto allo scopo), l’organizzazione è intesa come un sistema predeterminato rispetto
agli attori, che può essere progettato ex-ante (prima dell’azione). Ne esistono due varianti:
 Meccanicista: l’organizzazione funziona “come una macchina”. Il sistema è chiuso all’incertezza: sono
completamente noti gli obiettivi e come conseguirli; le variabili considerate e la loro organizzazione
sono poche e sono totalmente controllate dall’organizzazione. Vengono considerati, in questo ambito,
dei “principi di funzionamento di organizzazione universali” ovvero principi validi sempre e che devono
sempre essere applicati. Questa è la concezione che sposa Taylor. Le conseguenze riguardano la
programmazione rigida del lavoro (“one best way” Tayloristica): qualsiasi deviazione dal modo ottimo di
organizzare il lavoro è una devianza che va sanzionata. A livello micro significa stabilire come svolgere,
ad esempio, una specifica fase del processo produttivo; a livello meso significa stabilire le relazioni tra i
diversi processi lavorativi, i livelli gerarchici, ecc. Ogni deviazione dai principi universali porta al
fallimento dell’organizzazione.
 Organicista: l’organizzazione funziona “come un organismo vivente”. Il sistema è aperto all’incertezza:
l’organizzazione è
pensata come un sistema sociale che vive di interscambio con l’ambiente. L’ambiente esterno, però,
pone delle
contingenze esterne ovvero delle condizioni variabili (comportamento dei clienti, dinamiche
tecnologiche) che fluttuano e che l’impresa non può gestire. Nonostante l’incertezza, il sistema
ammette equi-finalità che permette di raggiungere uno stato di stabilità: se l’incertezza sollecita
l’organizzazione a effettuare dei cambiamenti, l’impresa mette in atto una reazione che consente al
sistema di tornare nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovato se la perturbazione esterna non si
fosse manifestata. L’equi-finalità è quindi la possibilità di raggiungere lo stato di equilibrio a partire da
condizioni iniziali diverse e in modi diversi. Questo significa che non esiste una “one best way”, secondo

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questa concezione, ma esiste una “one best fit”: ci possono essere delle alternative per raggiungere
l’equilibrio e tali deviazioni sono valorizzate se funzionali ai bisogni del sistema di adattamento
all’esterno e se vi è equilibrio/integrazione interna (non vi devono essere conflitti all’interno
dell’organizzazione). Vi è, quindi, una programmazione flessibile del lavoro.
2. Concezione actor-centered (“centrata sugli attori”): si associa all’idea di razionalità assoluta a posteriori.
L’organizzazione è un sistema che emerge imprevedibilmente dalle interazioni tra gli attori: non esiste
un’organizzazione prima delle azioni, interazioni e volontà degli attori ma sono proprio quest’ultime che
costruiscono l’organizzazione (è un costrutto culturale). L’organizzazione non può essere progettata ex
ante; può essere solo osservata e compresa ex post, riscostruendo i vissuti soggettivi degli attori.
L’organizzazione è un universo conflittuale, risultato imprevedibile di scontri tra razionalità materiali
(interessi, valori, identità personali, significati vissuti) contingenti, multiple e divergenti di attori
relativamente liberi che utilizzano le fonti di potere a loro disposizione per perseguire propri interessi
specifici. Pur essendo prodotta dalle (inter)azioni degli attori e dai loro rapporti di forza, si separa dagli
stessi, imponendosi come fatto esterno e coercitivo perché vincola la libertà di azione degli attori.
3. Concezione process-centered (“centrata sul processo”): connessa all’idea di razionalità intenzionale e
limitata. Le unità di analisi, in questo caso, sono azioni, decisioni e premesse decisionali, le quali sono solo
analiticamente distinguibili; non c’è separazione tra soggetto e sistema: sono elementi analitici del corso di
azioni e decisioni. Il soggetto, in questo caso, è l’intenzionalità dell’azione/decisione, l’orientamento a un
risultato mentre il sistema è un insieme di regole che ordinano azioni verso esiti soddisfacenti.
L’organizzazione è un agire collettivo, un processo di azione/decisione di più persone finalizzato al
conseguimento di un risultato desiderato e che, a questo fine, si dà un ordine: produce e modifica le regole
e la struttura che danno ordine per il raggiungimento di risultati soddisfacenti. Poiché valori, obiettivi,
conoscenze cambiano nello spazio e nel tempo, la programmazione del lavoro è continuamente
modificabile e correggibile: ci sono delle decisioni che almeno in parte precedono le azioni, ma questo
programma è sempre modificato nel corso dell’azione perché si producono nuove conoscenze che
concorrono a modificare valori ed obiettivi.

AMBIENTE E CONFINI ORGANIZZATIVI


1. Ambiente organizzativo
Le teorie che si orientano alla variante meccanicista non prendono in considerazione l’ambiente perché non
ritenuta una variabile; le altre teorie, invece, aprono all’incertezza e quindi trattano il tema dell’ambiente
organizzativo. Ci sono 3 modi tipici di intendere l’ambiente organizzativo:
1. In coerenza con la logica system-centered, l’ambiente è un vincolo preesistente rispetto
all’organizzazione (variabile indipendente) a cui l’organizzazione deve adattarsi in termini di obiettivi,
strategia e struttura organizzativa (variabili dipendenti). Non esiste un unico modo di adattarsi all’ambiente,
ma si può scegliere tra alcune alternative (best fit). L’ambiente, infatti, può essere sia statico che dinamico.
Se l’ambiente è statico, la best fit dell’organizzazione (la soluzione che garantisce la massima efficienza)
sarà adattarsi all’ambiente tramite una struttura organizzativa meccanica che si caratterizza per
- una specializzazione orizzontale: a ogni individuo viene assegnato uno specifico compito senza entrare in
relazione con gli altri
- la supervisione diretta da parte del management e i problemi vengono risolti da esso
- la centralizzazione: le decisioni importanti vengono prese da coloro che occupano le posizioni gerarchiche
più elevate
- un flusso di informazioni verticale: dall’alto verso il basso
- le regole vengono poste dall’alto e ci si aspetta una conformità ad esse da parte dei membri dell’impresa
- la rigidità della struttura
Se l’ambiente è dinamico, secondo Burns e Stalker, la best fit dell’organizzazione sarà adattarsi all’ambiente
tramite una struttura organizzativa organica che è adatta a condizioni dinamiche in trasformazione che

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determinano continuamente nuovi problemi e quindi alla necessità di azioni impreviste che non possono
essere suddivise e distribuite in modo predeterminato e automatico in una struttura gerarchica. Quanto più
aumentano il ritmo e la portata dei cambiamenti, tanto meno l’onniscienza inerente alla gerarchia di
comando può essere concentrata ai vertici dell’organizzazione. Quindi, la struttura organizzativa organica si
caratterizza per:
- Adattamento e continua ridefinizione dei compiti individuali, attraverso l’interazione con gli altri
- Superamento del concetto di responsabilità come campo limitato di diritti, doveri e metodi
- Struttura reticolare del controllo, dell’autorità, delle comunicazioni: le sanzioni applicate alla condotta
dell’individuo nel suo
ruolo di lavoro derivano soprattutto da una comunanza di interessi col resto dell’organizzazione e non
soltanto dal
rapporto contrattuale fra un individuo e un’organizzazione impersonale, rappresentata per lui dal suo
immediato superiore
- Conoscenza e competenza tecnica ed economica possono essere situate in qualsiasi punto della rete che
diviene, quindi, il centro ad hoc del controllo, dell’autorità, della comunicazione. L’autorità non dipende
dalle posizioni gerarchiche ma dalle competenze
- Flussi di comunicazioni orizzontali piuttosto che verticali: le comunicazioni tra livelli gerarchici si avvicinano
più alla consultazione (informazioni, consigli) che al comando (precise istruzioni e decisioni)
- La stratificazione gerarchica permane anche nel sistema organico ma le posizioni sono differenziate sulla
base delle competenze o del bagaglio di conoscenze ed esperienze e nelle decisioni si avverte
maggiormente il “peso” degli esperti
- Sempre più difficile distinguere l’organizzazione formale da quella informale
- Il sistema gerarchico di comando, che nell’organizzazione meccanica assicura cooperazione e controllo, è
sostituito da un sistema di convinzioni condivise su valori e obiettivi
A questo concezione si rifà soprattutto la teoria sulle contingenze; tuttavia, pur essendo vero che
l’ambiente è la madre di tutte le contingenze e che il sistema è aperto all’incertezza, questo non pone in
discussione il presupposto della razionalità assoluta e a priori perché l’incertezza può essere arginata
attraverso tecniche sofisticate di raccolta delle informazioni sull’ambiente.
2. In coerenza con la logica actor-centered, non si parla propriamente di ambiente organizzativo ma di
ambiente attivato o di ambiente istituzionale:
 ambiente attivato (enacted environment) secondo la teoria di Weick: non esiste un ambiente dai
confini netti, chiari, ben definiti sottoposto ad un’analisi oggettiva. L’ambiente è una costruzione
sociale che trattiamo come fosse reale (ad esempio, l’amministratore delegato) e quindi esiste
l’ambiente “attivato” dal flusso di esperienza dell’amministratore delegato. In questo flusso di
esperienze quotidiane del soggetto, possono esserci eventi imprevisti, equivoci, discontinuità, intoppi
improvvisi che costringono il soggetto a fare attenzione. Questi sono la «materia prima» del
sensemaking, che si verifica anche in questo caso: per ridurre l’ambiguità (ridurre la dissonanza
cognitiva) e «farsi un’idea di ciò che può essere accaduto», il soggetto applica degli schemi
interpretativi, basandosi sulla passata esperienza, nel tentativo di «razionalizzare» (rigorosamente a
posteriori) ciò che è successo. Quindi, l’enacted environment è il risultato di processi riusciti di
sensemaking che sono conservati nella memoria per essere successivamente applicati per
razionalizzare future situazioni impreviste che possono sembrare simili. L’ambiente che ha senso e
significato è il risultato, non l’input.
 ambiente istituzionale (all’interno della teoria neo-istituzionalista di Powell e Di Maggio): l’ambiente è
un insieme di norme, regole formalizzate, requisiti (miti razionalizzati) di carattere simbolico e
culturale prodotti dalle interazioni tra organizzazioni (anche sotto influenza di organizzazioni
sovra/transnazionali come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale) che si impongono alle
organizzazioni che le hanno prodotte come vincoli e prescrizioni cui conformarsi al fine di ricevere

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legittimazione sociale e sostegno, cioè per sopravvivere. Due sono i concetti fondamentali in questo
ambito:
- Mito razionalizzato: credenza immaginaria resa plausibile da un discorso logico; è una regola che si
basa non su una prova empirica della sua razionalità/validità, ma che viene accettata come
razionale/valida perché tutti (o quasi) credono sia tale (es. la scelta razionale)
- Legittimità sociale: risorsa cruciale per la sopravvivenza di un’organizzazione che dipende da
quanto la società (l’ambiente istituzionale) in cui l’impresa opera ritenga accettabile cosa essa fa e
come lo fa
3. In coerenza con la logica process centered, l’ambiente organizzativo è influenzato dal Task Environment
(secondo il framework organizzativo di Thompson) e quindi da altri processi di azione (clienti, fornitori,
concorrenti per gli input e gli output, agenzie governative, sindacati, associazioni imprenditoriali, ecc)
rilevanti o potenzialmente rilevanti per la definizione e il raggiungimento degli scopi/obiettivi o “ campi
d’azione organizzativi” con cui l’organizzazione in oggetto ha rapporti di scambio e interdipendenza. Il
campo d’azione è l’insieme delle scelte di prodotto/servizio e la popolazione servita; gli obiettivi
organizzativi sono i campi d’azione futuri progettati da coloro che fanno parte della coalizione dominante.
La realizzazione di un campo d’azione vitale costituisce un problema essenzialmente politico; richiede la
ricerca e il mantenimento di una posizione (zona di convergenza) che può essere riconosciuta da tutte le
indispensabili organizzazioni «sovrane» (gli stakeholder nel task environment) come più conveniente
rispetto alle alternative disponibili e richiede che venga stabilita una posizione nella quale organizzazioni
diverse in situazioni diverse possano riscontrare interessi coincidenti. Quindi, il campo di azione non è mai
completamente certo.
Di conseguenza, l’organizzazione dipende dal suo ambiente organizzativo, che pone vincoli e contingenze
(condizioni su cui l’organizzazione non ha controllo e che possono variare o non variare) cui adattarsi,
almeno nel breve periodo. Tuttavia, le organizzazioni razionali non sono quelle del tutto dipendenti e
impotenti rispetto all’ambiente e, quindi, vengono utilizzate strategie cooperative per aumentare il potere
sull’ambiente. Esse possono, inoltre, cambiare intenzionalmente i propri obiettivi (e quindi il task
environment) per aumentare la propria capacità di autoregolazione futura attraverso il sondaggio delle
opportunità ambientali. Quest’ultimo è un comportamento di controllo che sonda l’ambiente in vista di
opportunità in parti di esso che non sono ancora significative ma potrebbero rientrare nel suo campo
d’azione in futuro (l’ambiente al di là del task environment attuale, può rappresentare un ambito in cui
l’organizzazione potrebbe entrare in un dato momento futuro) per anticipare ciò che accadrà nell’ambiente
stesso. L’organizzazione che anticipa le tendenze istituzionali (attraverso il sondaggio delle opportunità
ambientali) si trova in una posizione migliore per esercitare l’autoregolazione rispetto a
quell’organizzazione la quale attende che il problema del campo d’azione sorga.
Quindi, il campo di azione e il task environment sono sempre il frutto, almeno in parte, di scelte autonome
e sempre rivedibili.

REGOLAZIONE
In termini generali, possiamo definire la regolazione come l’ordine, insieme di regole che permettono il
coordinamento di una pluralità di azioni e decisioni di un soggetto singolo o collettivo. Le regole sono
considerate il fatto sociale per eccellenza. È un concetto strettamente associato a quello di mansione e
ruolo e si può si declinare a seconda del modo di concepire l’organizzazione:
1. In coerenza con la logica system-centered, regolazione e azione sono due momenti separati posti in
sequenza causale e necessaria. La formulazione delle regole ha priorità logica e cronologica rispetto
all’azione. La regolazione è intesa come regolamentazione e quindi come insieme di prescrizioni normative.
Queste ultime, a loro volta, sono regole che “hanno particolare urgenza” e che, quindi, devono essere
rispettate. Questa logica ha due varianti che coinvolgono anche la regolazione:

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 In base alla variante meccanicista, la regolazione è intesa come un insieme di prescrizioni normative
esaustive (predeterminazione completa) in grado di definire totalmente i contenuti e le modalità di
organizzazione del lavoro. Quindi, secondo la “one best way”, esiste un unico modo ottimale di
svolgere l’azione ovvero quello definito dalle prescrizioni normative esaustive. Questa visione di
regolazione è associata al concetto di mansione tayloriana
 In base alla variante organicista, si segue il principio del minimal critical specifications: la regolazione
è sempre vista come un insieme di prescrizioni normative ma non sono esaustive (predeterminazione
non completa) perché c’è incertezza; è possibile fornire solo le prescrizioni minime e chiave del lavoro
(obiettivi, scadenze, competenze richieste) determinate dalle esigenze di adattamento a contingenze
esterne. A livello di modalità di esecuzione, si ammette, quindi, una variabilità, ci sono delle
alternative, che però non sono infinite e libere perché predeterminate dai requisiti di competenza
(oggetto delle prescrizioni minime ma chiave stabilite) che bisogna tassativamente possedere per
svolgere il lavoro. Questo è possibile perché si presuppone una coincidenza tra obiettivi
dell’organizzazione e obiettivi individuali. A questa visione di regolazione è associato il concetto di
ruolo in senso funzionalista.
2. In coerenza con la logica actor-centered, regolazione e azione sono, anche secondo questa logica, due
momenti separati posti in sequenza causale e necessaria ma, in questo caso, l’azione e l’interazione sociale
hanno priorità logica e cronologica sulla formazione della regola. La regolazione effettiva, «reale» è
tendenzialmente soprattutto locale, autonoma (esprime l’infinita e irriducibile libertà degli attori
nell’organizzazione), emerge nella pratica quotidiana di lavoro. Se esiste una regola che precede l’azione,
essa è:
- Un vincolo, mai una risorsa rispetto alla libertà dei soggetti e all’azione efficace perché formulata da
persone lontane dalla pratica quotidiana del lavoro
- Un mito razionale, che si esibisce all’esterno per ottenere consenso e legittimazione sociale e che non
corrisponde all’organizzazione reale
3. In coerenza con la logica process-centered, regolazione e azione non sono due momenti separati da
porre in sequenza causale e necessaria, ma due aspetti solo analiticamente distinguibili. Non esiste azione
che non sia “regolata” ma ogni azione è anche “regolante” e, quindi, capace di produrre, riprodurre e
modificare le regole stesse. Nella regolazione effettiva, si distinguono:
 Regole previe: a loro volta, possono essere:
- Autonome: si parla di autonomia quando le regole che danno ordine a un processo di azione e
decisione sono prodotte dallo stesso processo di azione e decisione. Sono stabilite dai “gruppi di
esecutori”.
- Eteronome: si parla di eteronomia quando un processo di azione e decisione riceve le regole che lo
ordinano da un altro processo di azione e decisione (dall’esterno). Sono sempre interpretate e
negoziate e sono stabilite dalla “coalizione dominante” cioè soggetti in grado di prendere le
decisioni più importanti
In questo ambito, non si presuppone coincidenza tra gli obiettivi dell’organizzazione e gli obiettivi
individuali; inoltre, per raggiungere gli obiettivi organizzativi bisogna stabilire regole previe che limitano
la capacità dei soggetti di fare altrimenti. Di conseguenza, le regole previe sono frutto di scelte rispetto
a cui si danno alternative (ad esempio, alternative di obiettivi) che permettano una maggiore
convergenza tra gli obiettivi organizzativi e gli obiettivi individuali.
 Regola contestuali o intrinseche all’azione che sono autonome
Quindi, le regole, secondo la logica centrata sul processo (anche quelle previe e eteronome), sono certo un
vincolo ma
anche una risorsa per l’azione efficace. La regolazione effettiva è definita come una regolazione congiunta
tra regole previe eteronome (anche dette “regole di controllo”) e regole autonome contestuali all’azione o
previe. Queste ultime possono sia integrare le regole di controllo ma possono anche opporsi ad esse al fine

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di coordinare gli obiettivi organizzativi e quelli individuali. Questo processo di regolazione effettiva non
presuppone mai un soggetto individuale o collettivo che abbia una identità predefinita in quanto non c’è un
obiettivo organizzativo che prevale su quello individuale né viceversa ma si cerca sempre un compromesso
tra questi; inoltre, un’altra motivazione è legata al fatto che obiettivi, valori, preferenze di risultato
cambiano continuamente con la regolazione stessa che produce nuova informazione.
MANSIONE E RUOLO
Ci sono 3 concezioni di mansione e ruolo:
1. In coerenza con la logica system centered, dobbiamo distinguere la variante meccanicista e la variante
organicista:

Variante meccanicista
La mansione è definita come quella tayloriana e quindi come compito precisamente definito assegnato in
modo stabile ad una persona, potenzialmente per tutta la sua carriera lavorativa, insieme a prescrizioni
rigide circa i modi di svolgimento (movimenti, strumenti, tempi e luoghi). A ogni operaio dello stabilimento
deve essere ogni giorno assegnato un compito esattamente definito, non un compito vago o
approssimativo, ma circoscritto accuratamente e non facile da realizzare (large daily task). Il compito di
ogni operaio deve riferirsi a una intera giornata di lavoro; contemporaneamente si dovranno fornire al
lavoratore condizioni e strumenti standardizzati e istruzioni tali da metterlo in grado di portare a termine
con sicurezza il suo compito (standard conditions). L’idea di questa visione di mansione è fornita da F. W.
Taylor all’interno dell’ “L’organizzazione scientifica del lavoro”. Se la mansione è definita in questo modo,
significa che la regolazione dovrà consistere nella imposizione di dettagliate disposizioni di esecuzione del
lavoro e nel controllo del loro rispetto: la deviazione da queste disposizioni comporta una sanzione.
Come si arriva alla codificazione della mansione secondo Taylor? Si parte dalla volontà di Taylor di
massimizzazione del surplus (la differenza tra i ricavi di vendita di beni e servizi e i costi diretti e indiretti
sostenuti per produrli) in modo da renderlo tanto grande che non vi sarebbero stati più conflitti per la sua
ripartizione in fabbrica tra direzione (profitti) e lavoratori (salari). La variabile chiave per aumentare il
surplus è il tempo di esecuzione del lavoro (la velocità, il ritmo) per massimizzare la produttività (della
quantità di output dato l’input), minimizzare i costi unitari di produzione, minimizzare i prezzi, massimizzare
le quantità vendute e, quindi, massimizzare il surplus per i profitti e il salario. Questa ipotesi di fondo riflette
l’idea che il sistema è chiuso all’incertezza perché si ipotizza che il consumatore è esclusivamente
interessato al prezzo.
Per determinare esattamente il tempo di esecuzione è necessaria una analisi sistematica e di conoscenza
degli operai di prim’ordine guardando a come questi svolgono il lavoro (es. trasporto manuale dei materiali
grezzi nei depositi delle officine, scaricare materiale dai carri, ammassarlo in pile, caricarlo secondo le
richieste). Infatti, il loro lavoro viene suddiviso in operazioni elementari e ne viene misurata la durata
(tempi unitari di produzione). Nel caso di elementi importanti che ogni volta si presentano sotto una
diversa misura (a seconda, appunto, degli individui) viene eseguito un gran numero di osservazioni su
diversi operai di prim’ordine e se ne prende la media. Questa misura è il cottimo (quantità di pezzi lavorati
nell’unità di tempo) che è un’unità di performance ai tempi di Taylor. Per esso è fondamentale il cottimo
individuale piuttosto che quello di gruppo perché quest’ultimo può stimolare situazioni di free riding e di
iniquità. Gli elementi più difficili da calcolare sono quasi sempre la % di ore lavorative necessarie per il
riposo e il tempo da concedere per necessità accidentali e inevitabili (che sono comunque calcolabili). Si
riesce in questo modo a definire un tempo minimo (o standard) e, di conseguenza, la mansione in tutti i
suoi aspetti. Se il lavoratore riesce ad eseguire il compito nel tempo programmato, ottiene una grande paga
(high pay for success); se non ci riesce, vi è una devianza che deve essere sanzionata e punita
economicamente perché si ha una interruzione del processo di massimizzazione del surplus ( loss in case of
failure).

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Al fine di alimentare questo circolo virtuoso, secondo Taylor, bisogna istituire un ufficio programmazione
che indica in dettaglio come deve essere eseguita ciascuna operazione su ogni pezzo, nonché il tempo
necessario attraverso un foglio istruzioni (tutti gli ordini devono essere impartiti agli operai
dettagliatamente per iscritto). Esso, inoltre, esegue un’analisi completa delle operazioni successive da
eseguire su ogni pezzo per stabilire l’esatto ciclo che il lavoro deve seguire da un posto di lavoro all’altro
nell’officina. La standardizzazione di utensili, attrezzature e l’adozione di procedimenti standardizzati per
l’esecuzione di tutte le operazioni in serie costituiscono un fattore di grande importanza.
ESEMPIO: Nei magazzini di Amazon le fasi del processo di conversione (dallo stoccaggio, alle operazioni di
prelievo e imballaggio per i prodotti di spedizione) sono gestite attraverso un sistema basato sulle ICT, che
serve a registrare le merci in arrivo, tracciare la posizione esatta di tutte le merci immagazzinate e
raccogliere tutto dati sugli attuali processi produttivi. Viene anche utilizzato come sistema di controllo
digitale per monitorare le attività dei dipendenti: dove si trovano, quanti articoli gestiscono in un
determinato periodo di tempo e in che modo le loro prestazioni sono paragonabili a quelle dei loro colleghi.

Variante organicista
Non si parla di mansione ma di ruolo prescritto definito come comportamento atteso da un soggetto in
relazione ai bisogni funzionali del sistema di adattamento all’esterno e integrazione all’interno. Questa
nozione va di pari passo con il concetto di regolazione come insieme di prescrizioni normative non esaustive
ma chiave. Per capire questo concetto, bisogna analizzare una ricerca-intervento del 1951 di Trist e
Bamforth sui metodi di estrazione nelle miniere di carbone inglesi. Nonostante l’introduzione delle più
moderne tecniche di lavoro meccanizzate di estrazione del carbone (dette “a parete lunga”), infatti, non si
raggiungevano i guadagni di produttività sperati e si registravano fenomeni di disaffezione dei minatori.
Allora, la direzione dell’azienda in oggetto decise di far analizzare la situazione a due ricercatori che
riscontrarono il problema nella organizzazione taylorista del lavoro (“mass production engineering”) perché
i minatori si trovavano sempre in condizioni variabili di svolgimento del lavoro (ad esempio, variazioni di
pendenza). Il continuo modificarsi delle condizioni di miniera richiedeva frequenti modifiche che riguardano
sia i singoli compiti sia l’ordine con cui devono essere svolti, cioè l’esatto contrario di quanto diceva Taylor a
proposito della necessità di eseguire un’analisi completa delle operazioni successive da eseguire su ogni
pezzo per stabilire l’esatto ciclo che il lavoro deve seguire da un posto di lavoro all’altro nell’officina.
Quindi, in questo caso, si riconosce che si possono verificare degli imprevisti, ricompresi nella nozione di
varianza tecnica chiave cioè la deviazione, non prevedibile, da uno standard (uno stato normale, atteso o
medio) del processo di produzione e/o degli input che può pregiudicare il raggiungimento dell’output
atteso (quantità/qualità) e mettere in pericolo i lavoratori. Tutte queste deviazioni sono incertezze perché
non si sa se l’evento si verificherà o no, con quale portata e gravità di conseguenze. Nessuna pianificazione
può prevedere tutte le possibilità, può anticipare con perfetta accuratezza tutti i mutamenti ambientali o
può controllare perfettamente tutta la variabilità umana.
Per garantire gli obiettivi di produttività e garantire condizioni meno difficili di lavoro, è necessario passare,
secondo questa variante, da un programma rigido a un programma flessibile (il ruolo prescritto): ci si
aspetta che l’individuo sia in grado di adattare le prescrizioni alle particolarità delle circostanze specifiche,
tenendo conto delle informazioni presenti localmente e sfruttando conoscenze che derivano da formazione
ed esperienze pregresse. I comportamenti richiesti per il funzionamento efficiente dell’organizzazione sono:
 l’entrata e permanenza nel sistema (basso assenteismo e avvicendamento del personale)
 Raggiungere o superare gli standard quantitativi/qualitativi di esecuzione
 Comportamenti innovativi e spontanei come cooperare con i colleghi, dare suggerimenti creativi per
migliorare i metodi di produzione, l’auto-educazione (migliorare le proprie conoscenze e capacità),
creazione di un clima favorevole
all’organizzazione nell’ambiente esterno
Questi comportamenti permettono il passaggio:

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- dalla standardizzazione dalle modalità di esecuzione (procedure operative standard) alla
standardizzazione delle conoscenze necessarie a raggiungere gli obiettivi e risolvere i problemi
- dal comportamento prescritto al comportamento atteso
- dalla mansione tayloriana al ruolo funzionalista
Il ruolo prevede di fronteggiare l’imprevisto, di svolgere compiti addizionali rispetto alla mansione che
spesso richiedono di mettere in campo conoscenze pregresse.

2. In coerenza con la logica incentrata sull’attore (logica actor-centred), non si parla tanto di mansione ma
di ruolo, il quale non è progettato a priori ma assunto dall’attore. Si ipotizza che il contenuto e le modalità
di svolgimento del lavoro sono “plasmate” (in inglese, “ job crafting”) nel corso dell’azione, in contrasto e a
dispetto della mansione/ruolo progettati. Essi sono un danno per l’azione efficace, un limite alla libertà
dell’attore e non servono per l’efficacia dell’azione lavorativa. Non esistono mansioni e ruoli che abbiano
poteri di predeterminazione dell’azione (mansioni e ruolo progettati), ma il lavoratore stesso che
plasma/disegna, nell’interazione quotidiana, il proprio ruolo. Quindi si parla di “ruolo assunto” riconoscibile
solo dopo aver osservato il lavoro e come esso si svolge nella pratica quotidiana. Anche se è costruito
dall’attore mediante la sua azione quotidiana, il ruolo assunto ad un certo punto si “stacca” dall’attore e
diventa un fatto esterno vincolante producendo delle conseguenze perché questi comportanti non regolati
dalle regole previe, dalle mansioni e ruoli progettati, man mano che nel tempo vengono compiuti tendono
ad istituzionalizzarsi, per cui gli altri incominceranno ad aspettarsi questo tipo di comportamento assunto,
si formano nei soggetti esterni delle aspettative di comportamento che pesano sull’azione quotidiana
dell’attore e si pongono come un fatto esterno che vincola la libertà dell’attore. Quindi il ruolo, anche se
assunto, produce degli effetti non desiderati (vincolare la libertà dell’attore).
ESEMPIO INFERMIERI: prestando attenzione al mondo del paziente e trasmettendo informazioni
apparentemente non importanti agli altri membri del team di assistenza, gli infermieri hanno ricreato il loro
lavoro per quanto riguarda la difesa dei pazienti, piuttosto che la sola consegna di assistenza tecnica di alta
qualità. Gli infermieri hanno ampliato il loro set di relazioni per includere i familiari dei pazienti, sui quali gli
infermieri fanno affidamento per informazioni e input. Gli infermieri hanno coinvolto le famiglie dei pazienti
e li coinvolgono nel processo della malattia per ottenere il miglior risultato per il paziente.

3. Secondo la logica incentrata sul processo (logica process-centered) la mansione è


contemporaneamente:
 Una unità di lavoro da svolgere, cioè il contributo richiesto al soggetto al processo organizzativo. Esse
sono strumentali al raggiungimento degli obiettivi organizzativi.
 Una sfera di azione individuale, cioè una unità del percorso di carriera dell’individuo (qui l’individuo
cerca la soluzione ai problemi di carriera).
Thompson sostiene che vi sia una stretta connessione tra vita lavorativa e la vita extra lavorativa di un
soggetto; infatti, qualunque valore un individuo assegni alla carriera nella propria occupazione, rispetto ad
altre dimensioni/interessi/obiettivi della propria vita, difficilmente queste ultime possono essere
soddisfatte senza una soluzione adeguata al problema della carriera. Esso vede la mansione come un mezzo
attraverso il quale l’individuo cerca di soddisfare altri valori importanti nella propria vita al di fuori del
lavoro. Tale connessione si realizza attraverso gli incentivi: le organizzazioni devono incentivare il soggetto
affinché egli svolga al meglio la mansione. Gli incentivi variano da persona a persona ma anche in uno
stesso individuo nell’arco del tempo perché variano i bisogni, gli obiettivi, le motivazioni. Quindi, la
mansione è il risultato della negoziazione di contributi – lavorativi, richiesti dall’organizzazione in quanto
strumentali al conseguimento degli obiettivi organizzativi, e incentivi monetari e non, richiesti dai soggetti
per erogare il contributo richiesto, offerti in cambio dall’organizzazione.
Gli incentivi sono diversi tra di loro, ma hanno un obiettivo comune ovvero quello di soddisfare bisogni,
interessi, aspettative personali dei singoli individui, ne sono esempi: incentivi monetari (stipendio),

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condizioni fisiche di lavoro (locali, ambienti), opportunità di carriera, prestigio professionale, notorietà
dell’organizzazione , contenuto delle attività, competenze acquisite.
La mansione come contrattazione incentivi – contributi è, quindi, un processo politico intenzionalmente
orientato a realizzare un co-allineamento, sempre correggibile e modificabile, tra gli obiettivi organizzativi e
individuali (maggiori sono gli incentivi, tanto è più probabile che l’individuo accetti i contributi che
l’organizzazione gli richiede necessari al conseguimento degli obiettivi organizzativi). Attraverso la
contrattazione si definisce la mansione ricercando un equilibrio tra il contributo che l’organizzazione
richiede e l’incentivo offerto in cambio. L’allineamento non può essere perfetto ma c’è l’intenzionalità a
perseguirlo.
L’individuo può avere una diversa capacità di influenzare la contrattazione incentivi – contributi. Infatti, il
soggetto agente ha un potere di influenza che dipende dal grado di incertezza - certezza che caratterizza i
risultati desiderati e i mezzi per conseguirli. Possiamo quindi distinguere 4 situazioni o modalità di
regolazione dell’attività lavorative diverse, in base all’incertezza sulle relazioni di causa effetto e
all’incertezza sui risultati desiderati:
1. standardizzazione delle competenze professionali (ruolo prescritto): bassa incertezza sui risultati
desiderati (completa certezza sugli obiettivi del lavoro) e alta incertezza sulle relazioni di causa-effetto
(forte incertezza sulle attività da compiere per raggiungere un determinato risultato desiderato)  si
ha incertezza sulle relazioni di causa – effetto in quanto vi sono problemi imprevisti che richiedono il
contributo discrezionale del soggetto agente/operatore; in questo caso, il coordinamento si realizza
attraverso la standardizzazione delle capacità. Si ha quindi una predeterminazione di una serie di
possibili risposte/comportamenti alternativi, studiati in precedenza, all’evento imprevisto da attivare
quando esso di verifica.
2. standardizzazione delle modalità di esecuzione: bassa incertezza sui risultati desiderati (completa
certezza sugli obiettivi del lavoro) e bassa incertezza sulle relazioni di causa-effetto (conoscenza
completa delle attività da porre in essere per raggiungere i risultati desiderati)  è la situazione
tayloriana per cui è possibile coordinare l’attività lavorativa attraverso delle regole standardizzate e
rigide che definiscono obiettivi e modalità di svolgimento del lavoro; anche in queste situazioni il
soggetto ha la possibilità di influenzare la contrattazione incentivi – contributi, attraverso l’azione
sindacale.
3. regolazione reciproca e autonomia: alta incertezza sui risultati desiderati (completa incertezza sugli
obiettivi del lavoro) e alta incertezza sulle relazioni di causa-effetto (forte incertezza sulle attività da
compiere per raggiungere un determinato risultato desiderato)  situazione in cui si hanno obiettivi e
attività da perseguire non noti; il programma, sia in termini di attività da perseguire sia in termini di
obiettivi sia il soggetto, riguarda decisioni che devono essere prese “qui ed ora” attraverso uno
scambio di informazioni contestuali tra un gruppo di persone
4. regolazione a cascata: modalità di coordinamento/regolazione in cui si ha alta incertezza sui risultati
desiderati (completa incertezza sugli obiettivi del lavoro) e bassa incertezza sulle relazioni di causa-
effetto (conoscenza completa delle attività da porre in essere per raggiungere i risultati desiderati)  si
verifica quando il processo lavorativo si svolge su un oggetto umano e quindi gli obiettivi del lavoro da
svolgere dipendono anche dal feedback dell’oggetto umano. Gli obiettivi, pertanto, non possono
essere noti a priori (obiettivi non noti si contrappongono ad una conoscenza dell’attività da attuare che
sarà corretta e modificata in base al feedback del soggetto, ecco perché si definiscono a cascata).
Passando dalla standardizzazione delle competenze professionali (contributo discrezionale regolato
dall’esterno) alla standardizzazione delle modalità di esecuzione e, ancora di più, alla regolazione a cascata
fino alla regolazione reciproca e autonoma (contributo regolativo autonomo), via via aumenta la capacità di
influenza del soggetto sulla contrattazione incentivi – contributi perché si passa da un contributo
discrezionale ad una situazione in cui diventa sempre più importante il contributo regolativo autonomo del
lavoratore. Nella regolazione a cascata e nella regolazione reciproca – autonoma, il contributo autonomo

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del soggetto è importante perché aspetti chiave della prestazione lavorativa non possono essere
predeterminati e non possono essere circoscritti nemmeno negli aspetti chiave perché se si prova a
predeterminare si perde di efficacia; in questi casi è maggiore la capacità del soggetto di negoziare gli
incentivi dai lui richiesti. Quindi, tanto più gli obiettivi sono ambigui e/o quanto maggiore è l’incertezza circa
i mezzi per conseguire gli obiettivi,
- tanto meno è possibile predeterminare e circoscrivere i contributi di lavoro (senza perdere di efficacia)
- tanto più importante è la capacità di controllo e coordinamento del processo da parte del soggetto
(nell’ambito di un collettivo di lavoro) a cui si associa una maggiore capacità di influenzare la
contrattazione incentivi e contributi e quindi di orientare la regolazione del processo di lavoro, non
solo verso il raggiungimento degli obiettivi di lavoro ma verso una maggiore soddisfazione dei suoi
obiettivi personali, perseguendo efficienza nel senso Bernardiano del termine (che non è
ottimizzazione del rendimento economico).

COLLETTIVO DI LAVORO
Quando si parla di collettivo di lavoro si fa riferimento non tanto al singolo individuo ma a un collettivo. Il
lavoro è una forma di agire sociale contemporaneamente orientata a sé stessi, agli altri e all’oggetto del
lavoro (umano, materiale o simbolico). Tale orientamento è influenzato, almeno in parte, dalla
partecipazione ad un collettivo di lavoro: gruppo di individui associati orientati ad un progetto comune.
Questo elemento è una sfera importante per la formazione di valori, credenze, saperi, regole e norme
condivise che fanno da riferimento e concorrono ad organizzare le azioni e decisioni dei singoli al lavoro; è
un concetto importante anche nell’ambito di nuove forme di organizzazione del lavoro che tendono ad
individualizzare e a ridurre i vincoli spaziali e temporali (ad esempio il lavoro agile). Uno svantaggio di
queste forme è proprio l’isolamento del lavoratore e quindi la mancanza del collettivo di lavoro e dei
benefici di socialità e organizzativi che garantisce.

1. In coerenza con la logica system-centered, il collettivo di lavoro è inteso come sottosistema concreto
dell’organizzazione predeterminato rispetto agli attori e allo svolgimento delle attività lavorative. Dobbiamo
distinguere la variante meccanicista e la variante organicista:

Variante meccanicista
In questo ambito, si ha conoscenza completa delle relazioni di causa-effetto e si ha certezza di obiettivi.
Inoltre, tutte le variabili rilevanti per il funzionamento dell’organizzazione sono perfettamente controllabili
e questo fa sì che sia possibile determinare/isolare i contributi discreti/separati delle diverse parti
dell’organizzazione (mansione tayloriana, unità organizzative) al conseguimento dell’obiettivo organizzativo
(si presuppone interdipendenza per accumulazione ovvero che le diverse parti dell’organizzazione
contribuiscono alla massimizzazione del surplus senza dover interagire direttamente durante l’esecuzione
delle loro attività). Sapendo che il coordinamento si realizza mediante un programma rigido ovvero un
insieme di regole e procedure rigidamente preordinate che vincolano, contemporaneamente e
separatamente, l’azione di ogni parte dell’organizzazione, il collettivo di lavoro è definita come la somma di
questi contributi separati (le persone non interagiscono tra di loro); è una entità esaustivamente
determinata a priori. Taylor discreditava il lavoro di gruppo perché riteneva che disperdesse le risorse dei
singoli e sviluppasse fenomeni di free riding; per questo, nel concreto, egli stabiliva un cottimo individuale.

Variante organicista
Il collettivo di lavoro è un’entità predeterminata rispetto ai soggetti; in questo ambito, possiamo
identificare due correnti di ricerca che aderiscono alla variante organicista:
 Teorie delle prime Human Relations: l’obiettivo fondamentale del collettivo di lavoro è quello di
favorire l’integrazione

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dell’individuo nel tutto (sistema cooperativo in cui le parti collaborano armoniosamente senza conflitti
che possano compromettere la sopravvivenza del sistema). Non c’è una connessione diretta tra
collettivo di lavoro e efficienza, produttività, adattamento alle esigenze del sistema. Esso si forma
intorno a patterns di relazioni non previste dalla direzione e dalle prescrizioni normative: il collettivo di
lavoro è un’azione non logica che soddisfa i bisogni psico-sociali dei lavoratori (logica dei sentimenti)
mentre la direzione detta azioni logiche e quindi soluzioni organizzative che permettono di aumentare
la produttività e l’efficienza; se dovesse accadere che il collettivo di lavoro permetta un aumento della
produttività e dell’efficienza, ciò avverrebbe indirettamente e nella misura in cui produce conseguenze
che, ancorché non previste, non ricercate, inintenzionali, sono funzionali ai bisogni di integrazione ed
equilibrio interno del sistema (clima più umano, collaborativo verso il management, morale più alto,
maggiore soddisfazione)
 Approccio dei sistemi sociotecnici: secondo questa teoria invece, il collettivo di lavoro è una entità
predeterminata funzionale non solo all’integrazione degli individui all’interno dell’organizzazione ma
anche all’adattamento del sistema rispetto alle contingenze ambientali esterne, all’efficienza e alla
produttività. Esso è visto come un gruppo semi-autonomo di lavoro (spesso si parla più di
“discrezionalità che di autonomia) responsabile di una specifica fase, chiaramente identificata nei
sotto-obiettivi dell’intero processo di trasformazione degli input in output (risultati misurabili in
termini di qualità/quantità output) e della gestione delle varianze tecniche chiave. A questo fine, tale
gruppo deve essere dotato al proprio interno di competenze adeguate (multi-skilling, polivalenza, job
rotation) e della possibilità di variare il ritmo e la velocità di lavoro. Il gruppo di lavoro si ipotizza sia
predeterminato a priori sulla base dell’analisi dei requisiti del sistema tecnico ovvero un’analisi dei
compiti e delle loro interdipendenze funzionali all’obiettivo di ottimizzazione del rendimento
economico e capace di coniugare in modo ottimale la logica dei costi e dell’efficienza e quella dei
sentimenti (bisogni psico-sociali dei lavoratori).

2. In coerenza con la logica actor-centered, il collettivo di lavoro è una comunità di pratica e di


interpretazione. Nello e per lo svolgimento del proprio lavoro, specialmente di fronte a compiti complessi e
situazioni altamente incerte, gli attori sviluppano interazioni con altri, si raccontano storie, producono
simboli, riti e saghe. In tal modo, insieme, collaborativamente e armoniosamente, gli attori costruiscono un
sistema di interpretazioni condivise, che danno senso e significato al lavoro e sono più autentiche di quelle
ufficiali proposte da chi ha il controllo dell’organizzazione (job descriptions, corsi di formazione, manuali
operativi), e, nello stesso tempo, formano e riformano le comunità di pratica e di interpretazione che fanno
effettivamente funzionare l’organizzazione, al di là delle prescrizioni formali, che sono spesso inadeguate
alla logica di funzionamento interno e più adatte a cercare consenso nel campo organizzativo. Le comunità
di pratica e di interpretazione hanno carattere egualitario, non esistono relazioni gerarchiche perché la
conoscenza è costruita collaborando armoniosamente. Il collettivo di lavoro ha, dunque, carattere situato,
non pianificato e distribuito. Esso emerge intorno al lavoro da fare imprevedibilmente; si auto-costituisce in
modo spontaneo attraversando i confini organizzativi, all’esterno includendo clienti e fornitori e all’interno
coinvolgendo figure e ruoli indipendentemente dalla divisione formale del lavoro. L’attore può appartenere
a diversi collettivi di lavoro mediante i quali sviluppa identificazioni plurime, talvolta anche fortemente
contrastanti. Di fronte a situazioni di dissonanza, gli individui possono mettere in atto strategie di
negoziazione. Tuttavia, prevale una rinuncia degli individui alla ricerca di coerenza. L’individuo
contemporaneo mostra di avere molti Sé, anche fortemente contraddittori e deve cercare, attraverso
opportune tecniche di gestione della sua immagine, di tenerli insieme senza perdere la faccia entro i diversi
collettivi di cui fa parte caratterizzati da norme, valori, credenze diversi.
Nella misura in cui i collettivi di lavoro (e non la direzione o i vertici gerarchici) sono l’unica vera fonte di
regole, credenze, valori e conoscenze che realmente costituiscono risorse per l’azione efficace, la stessa
organizzazione dovrebbe essere concepita come una comunità (o un collettivo) di pratica e di

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interpretazione. La direzione dovrebbe smettere di porre regole previe e dovrebbe supportare, in modo
non intrusivo, queste comunità di pratiche.
ESEMPIO “Il caso dei tecnici addetti alla risoluzione di problemi sulle macchine” (Fonte: Brown e Duguid): la
documentazione ufficiale rappresenta il guasto alle macchine come un problema localizzato ma la macchina
e ciò che è necessario per farla funzionare sono molto più complessi di quanto indicato nei documenti
ufficiali. Allora, i rappresentanti producono complesse storie causali e le fanno circolare come parte della
loro normale pratica di lavoro non canonico. Nel raccontare queste storie, un rappresentante individuale
contribuisce alla costruzione e allo sviluppo della propria identità di rappresentante e reciprocamente alla
costruzione e allo sviluppo della comunità di rappresentanti in cui lavora: individualmente, nel raccontare
storie, il rappresentante diventa membro di questa comunità di pratiche.

3. In coerenza con la logica process-centered, il tema del collettivo di lavoro trova una trattazione più
sistematica nella Teoria della regolazione congiunta di Jean-Daniel Reynaud e nella Teoria del lavoro
d’organizzazione di Gilbert de Terssac. Secondo questi, lavorare è anche organizzare, cioè produrre,
mediante apprendimento e negoziazione, associandosi e contrapponendosi, le regole che ordinano le
azioni e relazioni tra i soggetti. Decisione e azione, in questo ambito, sono distinguibili soltanto
analiticamente e la regolazione effettiva è il risultato della combinazione di regole previe di controllo e
regole autonome, previe e contestuali all’azione.
In tale prospettiva, il collettivo di lavoro non è un’entità strutturata a priori da principi universali di
organizzazione o norme funzionali alla riproduzione sistemica, né è un’entità che emerge in modo caotico e
che è riconoscibile solo mediante narrazioni razionalizzanti a posteriori. Esso va inteso come processo
costruito intenzionalmente: si forma intorno alla produzione di regole autonome da parte di un gruppo di
soggetti che partecipano a una fase ben identificata nei sotto-obiettivi di un processo di produzione di beni
e servizi. La produzione della regola autonoma è l’esito, in parte ricercato, di un accordo e di un
compromesso, che richiede l’impegno dei partecipanti a scambiarsi saperi, mediare tra valori e interessi,
andando continuamente a modificare i rapporti di potere/dipendenza in vista dell’elaborazione collettiva di
regole che gli stessi partecipanti si impegnano a rispettare e a far accettare e riconoscere come efficaci e
legittime da altri. In tal senso, è un agire di più individui instaurato reciprocamente, dove il contenuto di
senso della relazione è stipulato mediante l’assunzione di impegni reciproci tra le parti. Ogni partecipante
orienta il proprio agire in base all’impegno di osservare da parte sua la stipulazione cui ha aderito e
all’aspettativa che anche gli altri faranno altrettanto. Ma ancorché “condivisi”, obblighi e impegni reciproci
tra le parti sono il risultato di un compromesso e di una negoziazione all’interno del gruppo di esecuzione
per arrivare a una strategia collettiva dalla quale ognuno trae vantaggio e che evidenzia come la
regolazione autonoma e il collettivo si costruiscano non solo attraverso la cooperazione ma anche
attraverso i conflitti.
Il collettivo si forma non tanto o non solo in opposizione con la direzione, ma affermando una regolazione
che ritiene più adeguata al perseguimento dell’efficacia organizzativa. Scambiandosi conoscenze, ognuno
aumenta la propria conoscenza organizzativa del processo di trasformazione e la propria competenza.
Nell’ambito di relazioni di potere asimmetriche, il collettivo elabora e afferma regole autonome in cambio
del riconoscimento della propria competenza nella gestione e della propria legittimazione a influire sulle
regole, sugli obiettivi organizzativi e i modi per conseguirli per orientarli verso il raggiungimento di
maggiore equità e giustizia, modificando così i rapporti previ di potere/dipendenza. Diversamente dalla
logica system-centered, si ammette che gli esecutori possano rifiutare i vincoli posti dalla direzione se, dati
quei vincoli, gli esecutori ritengono che non vi siano le condizioni per la produzione di una soluzione
efficace. La direzione è, allora, obbligata ad accettare una ridefinizione dei vincoli/obiettivi, secondo il
principio della razionalità intenzionale limitata.
ESEMPIO di regolazione dell’operazione di spurgo in cui sono coinvolti il capo-blocco e il sorvegliante:
rispetto all’operazione di

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spurgo, la procedura ufficiale prevede la separazione dei contributi dei due gruppi di esecutori: i
sorveglianti devono attendere l’autorizzazione della sala comando e, una volta realizzate tutte le
operazioni, avvertire l’assistente che la regolazione è stata effettuata. In realtà, in sala comando, il capo
blocco spiega ai sorveglianti il fine e le tappe di una sequenza operativa. Le decisioni in merito al
coordinamento dei compiti e delle persone assegnate al loro svolgimento sono il frutto di un accordo, non il
risultato dell’imposizione di un gruppo sugli altri; sono prese collegialmente da tutti i soggetti interessati. Il
capo-blocco spiega, discute, e concorda il programma con i sorveglianti in sala comando sia per facilitare ai
sorveglianti la comprensione delle operazioni che dovranno eseguire e ottenere la loro disponibilità a
eseguire le manovre che potranno essere loro richieste, sia per ottenere dai sorveglianti le loro conoscenze
contestuali sulle concrete condizioni di svolgimento delle operazioni previste: tali conoscenze contestuali
sono necessarie per verificare se gli ordini sono pertinenti rispetto ai vincoli locali e per valutare se è
necessario modificare la decisione.

FORMALE/INFORMALE
La distinzione e il rapporto tra formale e informale è una questione centrale nello studio
dell’organizzazione, almeno a partire dalle critiche mosse alla teoria “classica” dell’organizzazione di Taylor
e Fayol.
1. In coerenza con la logica system-centered, si distingue in variabile meccanicista e variabile organicista.

Variabile meccanicista
La questione del rapporto tra organizzazione formale e informale non si pone. Il sistema è chiuso ed è
possibile determinare in modo ottimale le conoscenze e le regole tacite utilizzate dai lavoratori
nell’organizzazione tradizionale, con conoscenze e regole esplicite e applicabili universalmente in quanto
ricavate dallo studio “scientifico” delle operazioni di lavoro. L’organizzazione informale e, quindi, le regole
informali, non devono esistere. La modalità di funzionamento ottimale è pienamente formalizzata (one best
way) e coincide con la rigida predeterminazione da parte della direzione delle mansioni e delle loro
modalità di svolgimento a livello micro e, a livello meso, della divisione dell’organizzazione in parti e delle
relazioni di sovra-subordinazione tra esse.
Fayol dice che in qualsiasi genere di azienda o impresa esistono 6 funzioni (o gruppi di operazioni): tecnica,
commerciale, finanziaria, sicurezza, contabilità, direttiva. Quest’ultima, a sua volta, si articola in:
- Programmare: significa prevedere/predeterminare il risultato da raggiungere, la linea di condotta da
seguire, gli stadi da attraversare, i mezzi da impiegare
- Organizzare e Comandare
- Coordinare e controllare: controllare significa verificare che tutto proceda in conformità al programma
adottato, agli ordini impartiti e ai principi stabiliti
Di conseguenza, secondo Fayol, la struttura organizzativa, ad ogni livello, coincide interamente con
l’organizzazione formale, rappresentata nell’organigramma, quale disegno (rappresentazione scritta) che
raffigura un insieme di caselle. Egli, che si occupa dell’organizzazione nel suo complesso (a livello meso),
afferma che dall’organigramma si vede l’insieme del personale, la costituzione e i limiti di ciascun servizio,
da chi è occupato ciascun posto, i capi ai quali ciascuna persona obbedisce e i subordinati ai quali comanda.
Rappresenta la gerarchia, i livelli di autorità (chi ha diritto a comandare e il potere di farsi obbedire in
relazione al posto ricoperto).
Ogni deviazione dal funzionamento formalizzato è una devianza che va rimossa perché comporta perdita di
rendimento, con conseguente sacrificio degli interessi sia della direzione aziendale (riduzione del profitto,
dell’efficienza burocratica) che dei singoli lavoratori (perdite di salario).

Variante organicista

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In questo ambito, l’organizzazione informale è messa a tema. Essa rappresenta lo scarto dell’esecuzione
effettiva rispetto al programma rigido imposto dalla direzione in relazione allo svolgimento dei compiti, alle
relazioni tra le persone, lo scarto tra il sistema sociale e quello tecnico. L’organizzazione informale
rappresenta, quindi, le regole del gruppo di esecuzione.
In questo caso, però, lo scostamento non è considerato necessariamente una devianza da eliminare. Sin
dalle ricerche di Hawthorne, l’informalità è vista quale elemento da valorizzare quando è funzionale a
soddisfare i bisogni del sistema di adattamento all’esterno e integrazione all’interno:
 secondo le prime Human Relations, l’informalità può anche contribuire in qualche misura a mantenere
livelli accettabili di produttività, ma risponde prioritariamente alla “logica dei sentimenti”.
L’organizzazione informale viene intesa come un patterns di relazioni tra le persone che non sono
rappresentate/previste nell’organigramma. Essa è valorizzata quando favorisce un buon livello di
integrazione
 è solo con l’Approccio dei sistemi sociotecnici che l’informalità viene collegata alla gestione delle
varianze del sistema tecnico, non prevedibili e capaci di compromettere il raggiungimento degli
obiettivi produttivi. Inoltre, l’organizzazione informale è rilevabile solo a confronto con quella formale
e in ogni caso non concerne mai gli aspetti chiave del funzionamento organizzativo (tra questi, in
particolare, gli obiettivi da raggiungere), che sono formalizzati e decisi dalla direzione in modo
essenziale (minimal critical specifications). Di conseguenza, in questo caso, l’organizzazione informale
è direttamente collegata all’efficienza e al rendimento economico e l’interpretazione della variabilità
della struttura/ regolazione si esaurisce nell’analisi dello scarto tra formale e informale e nella ricerca
della sua funzionalità.

2. In coerenza con la logica actor-centered, l’organizzazione formale è appannaggio delle decisioni della
direzione e quella informale è prerogativa di quelle del gruppo di esecuzione. Qui il punto di vista, però, è
completamente ribaltato, poiché si nega che le strutture formali progettate dai manager che dominano
un’organizzazione abbiano una valenza, anche minima, ai fini della regolazione effettiva dell’azione. I
modelli delle relazioni tra persone e unità/gruppi entro l’organizzazione sono interamente informali e
prodotti nelle pratiche quotidiane di lavoro. L’organizzazione informale si produce a dispetto e in contrasto
con la struttura organizzativa formale.
Quest’ultima è sistematicamente disattesa nell’attività effettiva di lavoro ed è ritenuta inefficace rispetto
alle richieste dell’attività lavorativa reale. La struttura organizzativa formale è solo un mito dotato di una
parvenza di razionalità (rational myth). Come i miti più classici, quello della struttura organizzativa formale
è socialmente costruito, prende forma in un ambiente istituzionale che legittima l’azione dei soggetti
collettivi che non hanno passibilità di dimostrare con l’evidenza empirica la razionalità delle loro pratiche.
Le organizzazioni, perciò, adottano struttura formali in omaggio a tali miti razionali, spesso imitando le
strutture di altre organizzazioni, a prescindere dalla loro effettiva efficacia ed efficienza nel regolare i
processi di lavoro e nel dirigere i comportamenti delle persone: il mancato allineamento con le regole
istituzionalizzate nell’ambiente di riferimento comporterebbe infatti la perdita di legittimazione e del
supporto da parte di altre istituzioni e, quindi, una riduzione delle chances di sopravvivenza futura della
singola organizzazione.
Un esempio è il “New Public Management” secondo cui i servizi pubblici potrebbero essere migliorati
importando pratiche e valori di successo dal mondo delle aziende private. Il NPM attua una controllo dei
risultati piuttosto che dei comportamenti, attraverso la predeterminazione, separatamente per ogni singola
organizzazione, unità operativa, manager e operatore, di obiettivi specifici e misurabili da raggiungere.
Tuttavia, nel campo dell’ erogazione dei servizi pubblici, in particolare dei servizi alla persona, tali regole
producono comportamenti organizzativi perversi o non desiderabili.

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3. In coerenza con la logica process-centered, la dicotomia formale/informale è una distinzione analitica,
che attiene ai modi di produzione delle regole che ordinano le azioni tecniche in vista del raggiungimento
degli obiettivi organizzativi e ai modi di produzione delle comunicazioni necessarie al coordinamento delle
persone nello svolgimento dei compiti.
Le regole/comunicazioni possono essere formali e informali, tacite e esplicite, coscienti e incoscienti, previe
e contestuali all’azione. Nella logica process-centered la distinzione formale/informale non è, come nella
logica system-centered, criterio interpretativo della variabilità strutturale, ma piuttosto una delle
manifestazioni in cui la regolazione si realizza. Quindi, in contrasto con le due logiche precedenti,
nell’organizzazione come processo di azione e decisione, le regole/comunicazioni informali non coincidono
con quelle prodotte dal gruppo di esecuzione, né con quelle prodotte dalla coalizione dominante. Ciò
permette di cogliere come un’organizzazione caratterizzata da processi decisionali centralizzati, elevato
numero di livelli gerarchici e regole impositive, possa di fatto avvalersi di canali orali per la comunicazione
di ordini che non ammettono discrezionalità.
Il rapporto tra formale e informale è concepito in termini duali anziché dualistici. Emblematica, a questo
proposito, è l’analisi di Barnard: formale e informale sono aspetti interdipendenti di uno stesso fenomeno,
il coordinamento consapevole di azioni cooperative. Questo di esprime precedentemente in modo
informale e solo successivamente e in parte in modo formale. L’organizzazione formale non può esistere
senza quella informale e viceversa. L’organizzazione formale prende vita ed è condizionata
dall’organizzazione informale, e una volta instaurata, richiede organizzazioni informali per funzionare;
d’altra parte, nessuna organizzazione informale può durare o espandersi senza l’emergere di una
organizzazione formale. Allo stesso tempo, Simon dice che nessuna organizzazione formale, una volta
istituita, può essere così dettagliata da ovviare al bisogno dell’organizzazione informale. Lo schema formale
dell’organizzazione differirà sempre in quanto ogni schema formale presenta lacune e si producono
cambiamenti rispetto ad esso.

STRUTTURA ORGANIZZATIVA
Il concetto di struttura organizzativa rappresenta un aspetto cruciale per capire la genesi, la trasformazione
e la fine di ogni organizzazione. Si analizza questo concetto sulla base di 3 logiche.
1. In coerenza con la logica system-centered, si distingue in variabile meccanicista e variabile organicista.

Variante meccanicista
In questo ambito, si definisce la struttura organizzativa come l’insieme delle relazione stabili tra le parti
componenti (mansioni e funzioni). In questa variante, sappiamo che il sistema è chiuso all’incertezza per cui
si può individuare una unica modalità di svolgimento del lavoro a livello micro, il programma è rigido perché
il controllo di tutte le componenti è completamente assicurato a priori e in mano al decisore, vi è una one
best way per cui non è ammessa variabilità (le deviazioni vengono sanzionate) rispetto ai principi universali
definiti. Per cui la struttura organizzativa coincide con la struttura gerarchica e, quindi, è l’insieme delle
mansioni in ordine gerarchico e la distribuzione formale delle responsabilità è perfettamente
rappresentabile nell’organigramma. Nella misura in cui tutto il coordinamento può essere esaustivamente
determinato a priori, le relazioni tra le parti componenti sono assolutamente stabili: non deve esistere
deviazione rispetto alle relazioni espresse nella struttura gerarchica. Secondo Fayol, la struttura gerarchica:
 Controlla che il programma d’azione sia attentamente preparato e con fermezza seguito
 Stabilisce una direzione unica, competente ed energica
 Formula decisioni chiare, esatte, precise e definisce nettamente le attribuzioni
 Fa osservare la disciplina (ubbidienza, conformità agli ordini)
 Controlla che gli interessi particolari siano subordinati a quelli dell’impresa

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 Assicura con particolare attenzione che vi sia unità di comando cioè il principio universale che deve
essere applicato in tutte le organizzazioni in ogni tempo e in ogni luogo per il quale ogni persona deve
ricevere ordini, comandi, istruzioni da un solo capo per evitare incertezza e fraintendimenti
 Applica sanzioni contro colpe e errori
Quindi, in questo ambito, per Fayol, vale il principio della centralizzazione per cui, dinanzi a determinati
problemi, chi assume le decisioni non è chi ha direttamente contatto con il problema ma il vertice della
struttura gerarchica perché esiste una rigida separazione tra decisione ed esecuzione. Questo principio vale
come principio universale solo se si ammette che il sistema sia chiuso all’incertezza.

Variante organicista
In questo ambito, si definisce la struttura organizzativa come l’insieme delle relazioni relativamente stabili
tra le parti componenti (ruoli, dipartimenti):
- Le relazioni sono stabili perché il sistema è aperto all’incertezza (vive di interscambi con l’ambiente
esterno) ma è in grado di raggiungere l’equilibrio, lo stato di stabilità, nonostante una gamma
considerevole di cambiamenti esterni. Si realizza il cambiamento esterno, l’organismo reagisce con un
cambiamento interno nella struttura tale per cui si riporta il sistema in una situazione di equilibrio;
questo significa che la struttura organizzativa cambia ma in un quadro generale di morfo stasi cioè di
mantenimento delle relazioni fondamentali tra le parti che compongono la struttura.
- Le relazioni sono relativamente stabili perché è ammessa l’equi-finalità e quindi la variabilità delle
soluzioni organizzative purché corrispondente ai bisogni funzionali (quali l’adattamento alle dinamiche
ambientali e l’integrazione all’interno).
Quindi, si passa dal principio della one best way al best fit.

La progettazione organizzativa (in entrambe le varianti)


La struttura organizzativa è progettabile ex-ante da un analista esterno in base a principi universali nella
variante meccanicista e in base a requisiti funzionali nella variante organicista. L’analista esterno è un
soggetto che analizza la struttura organizzativa come fosse un oggetto, un’entità predeterminata rispetto
allo svolgimento delle attività da parte degli attori. Esso può essere un manager dell’organizzazione o un
consulente esterno che progetta l’organizzazione sulla base di conoscenze oggettive (i principi universali
nella variante meccanicista e i requisiti funzionali nella variante organicista). La progettazione organizzativa
prevede una prima fase di osservazione (generalmente realizzata attraverso l’analisi della documentazione
aziendale, la raccolta di informazioni attraverso schede) finalizzata alla elaborazione di una
rappresentazione del sistema as is (come è adesso). Seguono l’analisi e la diagnosi sulla base della
conoscenza organizzativa detenuta dal progettista, dei problemi che il sistema presenta nella sua
configurazione attuale e, conseguentemente, la trasformazione che è necessario apportarvi per
incrementarne la funzionalità. Ne scaturisce una rappresentazione del sistema to be (come dovrebbe
essere), nella forma di un
nuovo organigramma, che individua unità e posizioni organizzative diversamente configurate o nuove e
stabilisce tra esse diverse o nuove relazioni. La nuova configurazione comporta cambiamenti a livello micro-
organizzativo e impone un adeguamento dei ruoli, delle funzioni e delle competenze dei lavoratori. Perciò, i
progetti di cambiamento organizzativo si corredano generalmente di iniziative di gestione del cambiamento
(change management): corsi di formazione, sistemi di incentivazione e altri strumenti tipici della gestione
delle risorse umane al fine di supportare l’adeguamento della popolazione aziendale alla nuova struttura.

Il confronto
Burns e Stalker, nello scritto “The management of innovation” del 1961, affermano che la struttura
meccanica di Taylor e Fayol debba essere applicata quando l’ambiente è statico; quando l’ambiente è
dinamico, invece, è necessario applicare una

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struttura organizzativa organica. Essi sintetizzano le caratteristiche della struttura organizzativa nei due casi:

2. In coerenza con la logica actor-centered, la struttura organizzativa è l’insieme delle relazioni


imprevedibilmente mutevoli tra le parti componenti e quindi tra l’insieme dei ruoli assunti nella pratica
quotidiana di lavoro (modi di comportamento e interazione che con la ripetizione si «cristallizzano»
diventando aspettative di comportamento stabili che gli altri hanno nei confronti dell’attore stesso).
L’imprevedibilità deriva dall’assunto che la struttura delle relazioni tra le persone e le unità organizzative in
cui sono inserite origini “qui ed ora” (hic et nunc) dalle interazioni interindividuali, a prescindere dalle
disposizioni formali vigenti. Non esiste alcuna regola previa che sia efficace.

Progettazione organizzativa
La struttura organizzativa non è progettabile ex ante, è un mito razionalizzato, ma è solo osservabile ex
post. In questo quadro, la possibilità di progettare la struttura organizzativa (ovvero di stabilire a priori la
regolazione dei processi di lavoro) viene meno e con ciò viene meno la possibilità della consulenza
organizzativa comunemente intesa. All’esperto di organizzazione rimane tuttavia la possibilità di un
contributo all’organizzazione modificandola attraverso un approccio «terapeutico» che stimola le
razionalizzazioni dei soggetti e, quindi, supporta gli attori nell’auto-riflessione sulle proprie modalità di
lavorare e di organizzarsi, sulla logica che ispira le loro pratiche. I resoconti sulle pratiche che scaturiscono
da questa attività, possono innescare una riflessione critica sul “modus operandi” dei singoli e
dell’organizzazione e quindi possono essere il preludio a processi di cambiamento organizzativo.

3. In coerenza con la logica process-centered, l’organizzazione è un processo di azioni e decisioni in cui


sono distinguibili tre piani di analisi:
- Obiettivi che sono sempre mutevoli
- Conoscenze tecniche (o tecnologia) che sono le conoscenze delle relazioni di causa ed effetto secondo
Thompson. Sono sempre mutevoli
- Struttura organizzativa che è l’ordinamento, sempre mutevole, finalizzato a orientare le azioni tecniche
verso il conseguimento soddisfacente degli obiettivi, anch’essi mutevoli. Essa non va intesa come entità ma
come azione strutturante ovvero come processo di produzione di regole di coordinamento e controllo che
danno ordine ai processi di lavoro. Tali regole possono essere, rispetto ai modi di produzione, formali e
informali, esplicite e tacite, previe e contestuali all’azione, consce e inconsce; rispetto alle fonti di

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produzione le regole possono essere autonome e eteronome. La variabilità strutturale (variabilità delle
regole), quindi, si esprime in variabilità modale delle regole e variabilità in base alle fonti di produzione e
non si esaurisce nello scarto tra formale e informale.
Roberto Albano analizza la struttura organizzativa e la variabilità strutturale anche in base alle modalità di
controllo e
coordinamento adeguate rispetto all’incertezza ammessa dalle scelte di obiettivi e tecniche, che sono 4:
 Standardizzazione delle modalità di esecuzione: corrisponde alla modalità di controllo e
coordinamento in cui vi è completa certezza sulle relazioni causa-effetto e completa certezza sui
risultati desiderati. Si tratta di attività relativamente semplici e ripetitive rispetto alle quali è possibile
definire obiettivi e modalità di esecuzione dei compiti. In termini tipico ideali, potremmo paragonare
questa modalità di controllo e coordinamento con quella sostenuta da Taylor. La differenza
fondamentale è che in questi contributi la standardizzazione della mansione è un tipo ideale per cui ci
sono, nella realtà, delle situazioni in cui gli obiettivi saranno relativamente certi ma mai
completamente certi; quindi, è possibile stabilire regole previe relativamente standardizzate, ma non
bisogna mai aspettarsi che queste regole siano pedissequamente applicate senza variazioni (come
invece riteneva Taylor) perché umanamente impossibile (c’è sempre una componente di
rielaborazione).
 Standardizzazione delle competenze professionali: corrisponde alla modalità di controllo e
coordinamento in cui vi è relativa certezza sui risultati desiderati ma non si ha una completa
conoscenza delle relazioni di causa e effetto. Si tratta di attività più complesse dove l’incertezza delle
relazioni causa ed effetto fa riferimento alla complessità delle conoscenze necessarie allo svolgimento
di una determinata attività. Non è possibile standardizzare le modalità di esecuzione del lavoro;
pertanto, si ricorre alla standardizzazione delle competenze che l’operatore deve possedere (ad
esempio, la standardizzazione delle competenze per svolgere il ruolo di medico-chirurgo che segue
determinate procedure perché non può codificare previamente tutti i passaggi da compiere
nell’operazione).
 Regolazione reciproca autonoma: corrisponde alla modalità di controllo e coordinamento in cui vi è
incertezza si sui risultati desiderati che sulle relazioni di causa-effetto. Vi è, quindi, una regolazione
contestuale all’azione rigorosamente autonoma attraverso una comunicazione diretta e bidirezionale
che coinvolge i clienti, i fornitori e diversi reparti dell’azienda e che riguarda sia gli obiettivi da
raggiungere sia il come raggiungerli.
 Regolazione a cascata: corrisponde alla modalità di controllo e coordinamento in cui vi è conoscenza
relativamente certa delle relazioni di causa ed effetto ma incertezza sui risultati desiderati . Si ha una
produzione “qui ed ora” di regole autonome da parte del collettivo di lavoro che riguarda il
conseguimento degli obiettivi (ad esempio, nel caso di un ricovero d’urgenza si stabilisce un piano
terapeutico le cui attività previste sono definite solo dopo aver accertato le condizioni del paziente).

Progettazione organizzativa
La struttura organizzativa non è progettabile interamente a priori in quanto una componente non
irrilevante delle regole di coordinamento e controllo è generata all’interno dei processi di lavoro; d’altra
parte, la strutturazione non è nemmeno intesa come interamente situata nell’azione, in quanto ogni agire è
sempre almeno in parte informato da regole previe (cioè preordinato). Conseguentemente, la
progettazione organizzativa non può essere affidata in esclusiva a un esperto di organizzazione . Questi, in
quanto soggetto esterno ai processi di lavoro, non può conoscere la regolazione contestuale e, quindi, non
può assumere azioni e decisioni di strutturazione dei processi. Il consulente di organizzazione può
comunque contribuire alla strutturazione di un processo di lavoro a cui è esterno nella misura in cui riesca a
rendere i propri saperi (relativi a metodi e strumenti di analisi organizzativa derivanti dall’organizzazione ad

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orientamento process-centered) utilizzabili dai soggetti che partecipano ai processi di lavoro interessati dal
cambiamento. Pertanto, la progettazione organizzazione è il frutto della ricomposizione di saperi:
 Il sapere ETIC del consulente di organizzazione che offre criteri di analisi tratti dalla teoria organizzativa
per strutturare un processo in maniera da favorire il conseguimento degli obiettivi
 Il sapere EMIC dei soggetti che partecipano al processo di lavoro e che posseggono conoscenze sullo
specifico processo organizzativo (sia direzione che gruppi di esecuzione)

HOLACRACY - ESERCITAZIONE su Formale/Informale e Struttura (progettazione) organizzativa


1. Descrizione dell’approccio
L’Holacracy, secondo il suo inventore B. Robertson, è un approccio nuovo radicalmente alla gestione
aziendale. Robertson è un imprenditore, CEO/AD di un’azienda (società di consulenza) ed è il responsabile
del modo di organizzare la sua impresa. Sponsorizza un’organizzazione che offra ai suoi membri la
possibilità di contribuire con i loro talenti e insights, di agire come sensori che consentono
all’organizzazione di percepire la realtà che la circonda, le informazioni critiche e di rispondervi in modo
rapido e affidabile. Riconosce che accanto alla gerarchia di autorità, formalizzata nell’organigramma,
esiste un’organizzazione informale. Sostiene anche che, nella ricerca di approcci alternativi
all’organizzazione, non bisogna perdere quanto di buono c’è nella gerarchia (ad esempio, il fatto che i capi
dividono il lavoro, l’accountability cioè la conformità dei comportamenti rispetto ai valori e alle regole) ma,
tuttavia, ritiene che l’ordine possa esistere senza capi che diano ordini e dirigano tutto, senza gerarchia.
L’ordine può esistere anche grazie a un sistema di regole che dà a tutti i membri organizzativi la possibilità
di usare la propria intelligenza e autonomia. La Holacracy sarebbe questo: un approccio all’organizzazione,
un sistema di regole per ottenere ordine senza capi, consentendo a tutti di esercitare autonomia,
intelligenza, quando necessario. Il “quando è necessario” è stabilito dai bisogni funzionali del sistema, una
logica che sovrasta tutti (anche i manager) e che corrisponde alla logica dell’adattamento dinamico
all’ambiente oltre che dell’integrazione all’interno.
La Holacracy implica grandi cambiamenti in un’organizzazione; alcuni di questi cambiamenti sono:
 Dynamic roles: risultato dell’interazione tra il soggetto e i suoi colleghi che cercano di capire cosa è
importante per portare a termine il lavoro
 Autorità distribuita
 Si lavora in Team e il cambiamento è intrinseco ai team: questi team funzionano come in un sistema
organico, come le cellule di un organo, come organi di un corpo, come nell’organismo umano
(Robertson usa una metafora). Ogni parte, quindi, svolge una funzione, fornisce un contributo al
sistema più ampio cui appartiene, esercita autonomia entro i confini del proprio ruolo. Questo è il
modo di affrontare la complessità.
 C’è un insieme trasparente di regole scritte su come attuare il cambiamento
 È possibile (ogni ruolo ha l’autorità di) fare qualsiasi cosa purché non sia contrario alle regole e
purché siano rispettati i confini delle attribuzioni proprie di ogni ruolo e tali confini non siano superati,
invadendo l’ambito di attribuzione/competenza di un altro ruolo (interdipendente con il primo)
 Esistono gruppi di ruoli che lavorano insieme e sono congiuntamente responsabili del
raggiungimento di un obiettivo comune

2. Analisi dell’approccio
1. Quale modo di intendere l’organizzazione formale/informale e il rapporto tra le due esprime lo
speaker/l’Holacracy?
Robertson non ha come punto di riferimento, sicuramente, la variante meccanicista della logica centrata sul
sistema perché quest’ultima considera l’informalità come una devianza dal programma rigido che comporta
una perdita di salario e profitto e che deve essere sanzionata; l’autore, invece, riconosce l’esistenza di
un’organizzazione informale accanto alla gerarchia di autorità formalizzata nell’organigramma.

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Si esclude anche che Robertson si orienti verso la concezione centrata sull’attore. Questo perché
l’Holacracy dà importanza
alle regole previe, scritte e trasparenti che sono elaborate per definire come attuare il cambiamento. Tale
postulato è
assolutamente contrario alla logica centrata sull’attore dove le regole previe e formali sono un vincolo per
l’azione efficace, sono un limite alla completa libertà dell’attore e sono un mito razionalizzato per ottenere
legittimazione nell’ambiente
istituzionale di riferimento.
Robertson e il suo approccio esprimono una concezione del rapporto tra formale e informale orientata alla
variante organicista della logica centrata sul sistema; in particolare, Robertson condivide molti dei
presupposti delle teorie delle contingenze e dell’approccio dei sistemi socio-tecnici, dove l’informalità e il
contributo con la propria intelligenza (nell’ambito di team) è funzionale alla gestione delle varianze e
all’ottimizzazione congiunta del rendimento economico, dell’integrazione all’interno e dell’adattamento
all’esterno. Ciò si può cogliere anche nell’ambito della metafora che lo speaker fa sugli organismi biologici e
sull’organismo umano. Ogni parte, infatti, è valorizzata per il contributo che fornisce al soddisfacimento dei
bisogni vitali del sistema, quando la dinamicità ambientale richiede azioni non prevedibili in anticipo che
non possono essere distribuite automaticamente in una gerarchia di autorità (e quindi un adattamento
dinamico all’ambiente).
È esclusa la logica centrata sul processo perché in questa concezione le regole previe sono frutto di scelte
organizzative rispetto a cui si danno delle alternative, non sono determinate dai bisogni di adattamento del
sistema all’ambiente esterno; in secondo luogo, nella logica centrata sul processo, l’autonomia non viene
esercitata quando necessario ma è affermata non solo per integrare le regole di controllo ma anche per
opporsi.

2. Quale concezione di struttura organizzativa?


La variante organicista legata alla logica centrata sul sistema è quella a cui Robertson si orienta anche per
quanto riguarda la struttura organizzativa. Essa è intesa come insieme di relazioni relativamente stabili tra
le parti componenti, tra ruoli e team. Sono relativamente stabili perché è ammessa variabilità,
cambiamento che però deve sempre mirare a riportare il sistema a una condizione di equilibrio per cui,
anche se esiste una gamma elevata di fattori contingenti esterni, l’organizzazione è capace di sviluppare
una reazione che permette di riportarla a una stabilità. Tale variabilità è espressa in termini di autonomia e
elaborazione di regole informali quando necessario (oltre a quelle formali).
Un altro elemento che ci orienta verso queste conclusioni riguarda il modo in cui viene descritto il
cambiamento organizzativo. Nella variante organicista, progettare la struttura organizzativa significa
determinare a priori le relazioni relativamente stabili tra le parti componenti; tale determinazione viene
assegnata a un analista esterno che confronta l’ “as is” con il “to be”. Quando Robertson descrive il
cambiamento organizzativo come tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, si esprime proprio negli
stessi termini dei contributi teorici legati alla variante organicista.

3. Quanto è nuovo l’approccio proposto?


Un cambiamento radicale sarebbe, secondo Robertson, il passaggio da una statica job descriptions a ruoli
dinamici definiti da
ogni soggetto nell’interazione con i colleghi. Questo elemento, però, era stato già introdotto nel 1961 da
Burns e Stalker che parlavano di adattamento e continua ridefinizione dei compiti individuali, attraverso
l’interazione con gli altri.
Un altro principio è quello dell’autorità distribuita; anche in questo caso, Burns e Stalker avevano elaborato
nel 1961 l’idea di flussi di comunicazioni orizzontali piuttosto che verticali con un avvicinamento della
comunicazione a livello gerarchico più alla consultazione (informazioni, consigli) che al comando (precise

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istruzioni e decisioni). Questi ultimi dicevano anche, prima di Robertson, che i problemi non sono deferibili
e che quindi la soluzione non è demandata al capo. In ultimo, essi dicevano, precedentemente
all’Holacracy, che la stratificazione gerarchica permane ma non concerne più gli aspetti di dettaglio del
lavoro ma solo gli aspetti chiavi: si crea un’organizzazione informale fondata su un sistema di valori e di
obiettivi condivisi.
L’Holacracy, quindi, non è affatto un approccio radicalmente nuovo alla gestione aziendale.

TECNOLOGIA
In generale, esistono due diverse definizioni. Nel linguaggio ordinario, la tecnologia può essere definita
come la componente materiale delle organizzazioni quali impianti, macchinari, attrezzature, strumenti,
nonché compiti e procedure per utilizzarli nel processo di trasformazione di oggetti/simboli. Questa è la
definizione sposata dalle Teorie di matrice oggettivista (logica centrata sul sistema) e soggettivista (logica
centrata sull’attore) ed è intesa come componente separata dal sistema sociale (e quindi dagli individui e le
loro relazioni). Quindi, in questo ambito, la tecnologia è reificata a priori (nella logica centrata sul sistema)
e a posteriori (nella logica centrata sull’attore) dove per “reificata” si intende che è intesa come oggetto
separato dal sistema sociale.
Altre teorie, ad orientamento process-centered, adottano una definizione diversa, più vicina all’etimologia
del termine (techné che significa perizia, saper fare) e rimanda a un’idea di tecnologia come conoscenza.

1. In coerenza con la logica system-centered, la tecnologia è vista come l’espressione del progresso tecnico,
cioè di un processo lineare, cumulativo ,irreversibile di sviluppo di conoscenze che produce nuovi artefatti,
nuovi impianti, nuovi strumenti e anche nuove modalità di configurazione dei compiti e delle procedure.
Esse sono una variabile esogena che non sono sotto il controllo dell’organizzazione e a cui l’organizzazione
deve adattarsi, pena l’inefficienza. Le modalità di questo
adattamento cambiano a seconda della variante.

Variante meccanicista
L’adattamento del sistema sociale alla miglior tecnologia disponibile ad ogni stadio del processo tecnico è
unico, invariabile e ottimale (one best way). La ripetitività del processo di trasformazione produce
conoscenza che può eliminare i difetti della tecnologia (ad esempio, è possibile realizzare la manutenzione
programmata in maniera tale che non si verifichino guasti alle macchine).

Variante organicista
L’adattamento è flessibile (best fit). In presenza di incertezza, ossia quando nel processo di trasformazione
si verificano varianze tecniche chiave (scostamenti imprevedibili da uno standard, da uno stato normale,
atteso o medio), la tecnologia richiede variabilità. Un ruolo fondamentale per il governo di tali varianze è
giocato dagli individui, che devono esibire disponibilità e capacità di apportare, di propria iniziativa,
qualsiasi intervento correttivo si renda necessario per ricondurre il flusso di trasformazione alla normalità.
La tecnologia permette l’adattamento flessibile all’ambiente esterno perché essa stessa è dotata di
flessibilità e permette, per esempio, di produrre gli stessi output o simili a partire da combinazioni diverse
di input. Un altro motivo per cui la tecnologia permette l’adattamento flessibile all’ambiente esterno è
quello per cui, a partire dagli stessi input, permette di produrre output diversi.
Un esempio tipico della variante organicista lo offre L. E. DAVIS nella “Evoluzione tecnologica e
organizzazione del lavoro”. Egli dice che <<uno dei fattori che contribuisce al processo di transizione è la
diffusione dell’impiego dei sistemi di produzione automatizzati e dei calcolatori elettronici. Tale evoluzione
comporta mutamenti di importanza determinante nel rapporto esistente tra la tecnologia e
l’organizzazione sociale della produzione. L’aspetto più importante dell’impiego di tecnologie sofisticate ed
automatizzate è che le attività di routine vengono assorbite dalle macchine; nei sistemi automatizzati gli

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individui sono gli agenti interdipendenti necessari a reagire a condizioni stocastiche; essi, cioè, operano in
un ambiente in cui gli eventi importanti esulano dalla routine e non sono prevedibili». Davis dice anche che
nel processo produttivo che impiega una tecnologia avanzata, l’individuo svolge un ruolo di regolazione del
sistema produttivo e di risoluzione dei problemi:
- Garantisce la regolarità del processo, neutralizza le variazioni, affronta e elimina l’imprevisto, opera
interventi non programmabili
- Il suo compito è innanzitutto quello di occuparsi di attività straordinarie, di ridurre i tempi passivi
prevenendo le inefficienze e elaborando strategie per correggerle

2. In coerenza con la logica actor-centered, la realtà è una costruzione sociale definita dai significati
soggettivi e la tecnologia è
una parte di questa costruzione culturale. La tecnologia è, quindi, un artefatto culturale il cui senso si
costruisce socialmente. Quindi, per comprendere lo sviluppo, uso e cambiamento, l’implementazione della
tecnologia nelle organizzazioni, bisogna guardare ai punti di vista dei gruppi di attori rilevanti in un contesto
di azione organizzato (i manager, i progettisti, gli utilizzatori). In questo ambito, ci sono due filoni di
interpretazione.

Primo filone interpretativo


Il primo filone pone l’attenzione sulle conseguenze impreviste e accidentali che derivano dall’introduzione
di nuove tecnologie all’interno dell’organizzazione. Un esempio è uno studio del 1994 condotto da
Orlikowski e Gash che, per studiare le conseguenze che derivano dall’introduzione di nuove tecnologie
all’interno dell’organizzazione, utilizza il dispositivo concettuale delle Technological frames. Partendo dal
fatto che bisogna guardare ai punti di vista dei gruppi di attori rilevanti, i frame tecnologici solo le
assunzioni, aspettative, credenze, conoscenze che informano il significato attribuito alla tecnologia (in
termini di ruolo nell’organizzazione, modo in cui dovrebbe essere utilizzata, cambiamenti associati al suo
uso, condizioni che ne rendono possibile l’uso) dai gruppi di attori rilevanti in un contesto di azione
organizzato. Di conseguenza, la tecnologia è un artefatto culturale il cui senso si costruisce socialmente e si
specifica in relazione alle preferenze, gli interessi, i valori, le identità, le motivazioni, i frame cognitivi dei
gruppi di attori rilevanti in un contesto di azione collettiva.
I due autori provano ad applicare questo concetto ad un caso concreto circa l’implementazione di una
nuova tecnologia a supporto del lavoro di gruppo/collaborativo in una grande impresa di consulenza.
Intorno a questo processo di implementazione, vengono identificati due attori rilevanti: gli user (i
consulenti) e i tecnici (i responsabili dell’implementazione della tecnologia all’interno dell’organizzazione).
Ci sono incongruenze tra l’interpretazione dei tecnici e degli utilizzatori riguardo alla tecnologia, in termini
di:
- Capacità e funzionalità: i tecnici tendono ad enfatizzare le capacità e funzionalità della tecnologia che
supportano il lavoro di gruppo; gli utilizzatori, invece, di fronte a nuove tecnologie, tendono ad enfatizzare
le funzionalità della tecnologia che supportano la comunicazione
- Perché è stata adottata dall’organizzazione: i tecnici ritengono che la tecnologia sia stata adotta
dall’organizzazione per stravolgere il modo di lavorare dell’azienda e fornire un miglior servizio al cliente
(valore per l’organizzazione); secondo gli
utilizzatori, la tecnologia è stata introdotta per rendere più efficiente le comunicazioni
- Come dovrebbe essere utilizzata nel lavoro quotidiano, condizioni e conseguenze d’uso: i tecnici pensano
che la tecnologia sia
uno strumento user friendly, per cui i consulenti non avrebbero avuto difficoltà ad utilizzare la nuova
tecnologia una volta che essa fosse stata acquistata e implementata. Gli user, invece, vedono l’introduzione
della nuova tecnologia come un cambiamento di natura tecnologica la cui responsabilità è in capo ai tecnici;
pertanto, si aspettano che questi facciano dei corsi di formazione

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Questo spiega, secondo gli autori, i conflitti, le difficoltà e le conseguenze impreviste che derivano
dall’implementazione della nuova tecnologia all’interno dell’organizzazione (resistenze da parte degli
utilizzatori, scetticismo, frustrazione, percezione che i benefici attesi non si sono affatto realizzati). Inoltre,
questo esempio fa capire che il senso e le funzionalità di un apparato tecnico non sono quelli inscritti in
esso dal progettista, ma quelli attribuitigli dai soggetti che lo scelgono e utilizzano, ovvero quelli emergenti
dal confronto nel tempo di più razionalità soggettive.

Secondo filone interpretativo


Pur partendo dal presupposto che la tecnologia è sempre un artefatto culturale il cui senso si costruisce
socialmente e si specifica in relazione alle preferenze, gli interessi, i valori, le identità, le motivazioni, i
frame cognitivi dei gruppi di attori rilevanti in un contesto di azione collettiva, si ha una prospettiva che
guarda più che altro alle relazioni di potere e quindi agli aspetti politici. La tecnologia così intesa non è
agente di cambiamento in quanto ciascun oggetto tecnico, oggettivandosi, diventa un dispositivo di
fissazione temporanea dei rapporti di dominazione e subordinazione prodottosi nel contesto di azione
organizzato e finisce per incorporare, materialmente e simbolicamente, delle relazioni sociali cristallizzate.
Secondo questa prospettiva, non esistono solo frame tecnologici diversi, non esistono solo conseguenze
impreviste, ma esiste anche un conflitto fra i diversi gruppi di attori perché ognuno cerca di imporre il
proprio frame tecnologico. I dispositivi tecnici sono quindi usati dal gruppo di attori dominante per
articolare, diffondere e imporre propri valori e norme di comportamento, la propria visione del mondo
sociale all’interno delle organizzazioni: il loro punto di vista rappresenta per gli altri, specularmente, un
vincolo e un impedimento alla loro libertà di azione e decisione.

3. In coerenza con la logica process-centered, si critica il riduzionismo tecnologico cioè le prospettive che
considerano la tecnologia come oggetto concreto, separato dall’organizzazione, circoscrivendo l’attributo di
tecnologico solo a ciò che concerne apparati e strumenti. La tecnologia viene qui definita come conoscenza
tecnica implicata in un’azione finalizzata . La pratica di un professionista, ad esempio il colloquio tra
terapeuta e paziente nevrotico, implica una tecnologia, anche se non sono utilizzati degli strumenti (come
un farmaco o l’esecuzione di una TAC). Questa definizione deve essere fatta risalire a Thompson che, nel
qualificare la tecnologia, parte dalla definizione di azione strumentale. Egli afferma che l’azione
strumentale si fonda, da un lato, sui risultati attesi e, dall’altro lato, sulle credenze riguardanti i rapporti di
causa-effetto; nella misura in cui le attività imposte dalle credenze umane sono ritenute capaci di produrre
gli esiti desiderati, possiamo parlare di tecnologia. Egli identifica diverse varianti di tecnologia; nell’esempio
del colloquio, si applica una tecnologia intensiva ovvero una pluralità di tecniche atte a realizzare un
cambiamento in un certo specifico oggetto; la selezione, combinazione, sequenza delle operazioni
necessarie, però, dipende dal feedback proveniente dall’oggetto stesso.
In quanto conoscenza tecnica, la tecnologia non si impone all’organizzazione dall’esterno, bensì è essa
stessa componente analitica del processo organizzativo, accanto a obiettivi e struttura: il piano tecnico di
un’azione collettiva va esaminato, valutato ed è argomento di scelta organizzativa al pari del piano degli
obiettivi e del piano della strutturazione delle azioni tecniche e delle relazioni sociali. La congruenza e il co-
allineamento di tali piani definisce la possibilità di riuscita di un’azione finalizzata; sono sempre possibili
alternative per ogni piano, anche quello tecnico. La conoscenza tecnica è sempre parziale, provvisoria, non
del tutto separabile dall’azione concreta, non necessariamente oggetto di un processo di sviluppo lineare,
cumulativo e irreversibile (perché non si avrà mai una conoscenza completa degli obiettivi visto che
quest’ultima si modifica continuamente). Così concepita, la tecnologia è condizione e conseguenza dello
sviluppo del processo: nessuna azione concreta che sia strumentale, che sia finalizzata, può tendere ad un
obiettivo senza la mobilitazione di una conoscenza; essa è anche una conseguenza perché, man mano che si
agisce, si produce nuova conoscenza. In altri termini, la logica process-centered postula l’esistenza di una

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relazione duale tra tecnologia e struttura organizzativa, in contrapposizione all’idea di un rapporto
dualistico tipica delle logico system e actor-centered.
Per quanto riguarda gli apparati tecnici (che non sono la tecnologia), questi sono intesi come strumenti di
lavoro usati per svolgere azioni orientate a risultati attesi. Quindi, gli apparati tecnici sono il frutto di
decisioni che attengono al piano della strutturazione sociale. Le modalità effettive con cui sono usati tali
apparati dipende dal modo (cooperativo/conflittuale) con cui si combinano le scelte di progettazione,
adozione, uso (regole controllo e autonome) dove
- le decisioni di progettazione definiscono le caratteristiche tecniche, funzionali, operative e fisiche di un
determinato artefatto e sono formulate da un progettista
- le decisioni di adozione sono tipicamente assunte dai manager e dalla direzione che stabiliscono quali
compiti devono essere sviluppate con un determinato artefatto
- le decisioni d’uso sono prese dagli utilizzatori e riguardano le funzionalità dell’artefatto da utilizzare.
Il più delle volte si arriva ad un compromesso nella scelta delle modalità con cui sono usati tali apparati.
Poiché tali decisioni
sono una componente della strutturazione, non separabile da essa, la influenzano dall’interno e il loro
prodursi e svilupparsi presuppone e produce conoscenza tecnica. Le decisioni di progettazione, adozione e
uso vanno pianificate contestualmente alle decisioni che riguardano le altre dimensioni organizzative. L’uso
di artefatti tecnici, allo stesso tempo, però, presuppone una conoscenza d’uso degli strumenti utilizzati nel
processo di lavoro.

TECNOLOGIA: CASI DI STUDIO di G. Masino (1999)


Si tratta di un contributo basato su una teoria dei rapporti tra tecnologia, apparati tecnici e organizzazione
di matrice processuale.

Caso di studio n.1


Aiuta ad imparare a distinguere analiticamente tra artefatto tecnico e tecnologia, a distinguere i
cambiamenti nelle diverse componenti del processo associati al modo in cui l’artefatto tecnico è utilizzato.
ANALISI DELLA SITUAZIONE IN
ESAME: i compiti da svolgere sono
la progettazione e il disegno. Per
questi è necessario definire chi e
con chi si svolge il compito di
disegno, dove lo si svolge e come.
Inoltre, bisogna definire quando lo
si svolge e perché. Le conoscenze
tecniche richieste sono le
conoscenze d’uso del CAD, la
conoscenza della logica di base
dell’input progettuale fornito dal progettista e la conoscenza dei compiti a monte delle fasi a valle.

Il modo in cui il CAD è utilizzato nel contesto in esame:


- Modifica la tecnologia, nel senso che cambia le conoscenze richieste dal compito di disegno
- Modifica la struttura dei compiti, il contenuto dei compiti di disegno
- Modifica la struttura sociale, chi fa cosa nell’ambito dell’ufficio, le relazioni tra disegnatori e progettisti
Le modalità effettive di utilizzo sono il risultato del modo in cui si combinano le decisioni di adozione e
quelle d’uso. Alla fine, si giunge ad un compromesso. Infatti, le decisioni di adozione impongono di
utilizzare il CAD nei compiti di disegno secondo procedure standardizzate, codificate, incorporate nello

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strumento stesso. Gli utilizzatori accettano tale regola (di controllo) perché in cambio hanno la possibilità di
interagire più frequentemente con i progettisti (regola autonoma su un altro piano di analisi) e ampliare le
proprie conoscenze. C’è quindi un allineamento tra le decisioni di adozione e le decisioni d’uso perché
frutto di compromesso, di uno scambio da cui tutte le parti in causa ottengono vantaggio: il management
efficienza e gli operatori delle modalità proficue di apprendimento delle conoscenze nuove loro richieste.

Caso di studio n.2


Aiuta a riflettere sulla relazione tra decisioni d’adozione/uso degli artefatti tecnici e decisioni relative ad
altri piani di analisi del
processo organizzativo.
Le decisioni di adozione impongono agli utilizzatori di usare il CAD per progettare secondo la logica del
«togliere» anziché dell’«aggiungere» (regole di controllo). Questo perché si pone un enfasi sulla riduzione
dei tempi di progettazione e complessivi di evasione della commessa. Gli utilizzatori accettano una
decisione di adozione che riduce la loro creatività perché può essere difficile produrre soluzioni innovative
in condizioni di pressione temporale e può portare situazioni di disagio sul lavoro. La soluzione proposta
può però essere pericolosa nel medio-lungo termine in quanto porta a un impoverimento delle
conoscenze/competenze e a perdita di capacità innovativa dell’azienda.

Caso di studio n.3


Aiuta a riflettere sulla relazione tra decisioni d’adozione/uso degli artefatti tecnici e decisioni relative ad
altri piani di analisi del processo organizzativo.
L’azienda punta non solo e non tanto sul contenimento dei tempi di risposta, ma sulla qualità del prodotto
offerto e sull’innovazione. Il CAD è adottato secondo modalità che privilegiano il suo uso nei compiti di
progettazione secondo la logica del «togliere» ma gli utilizzatori possono negoziare col management a
seconda dei singoli casi se operare secondo questa logica o elaborare nuove soluzioni creative. Questa
autonomia è accettata dalla direzione perché è veicolo di sviluppo di nuove conoscenze e competenze sia
del singolo sia dell’intera organizzazione.

SISTEMA INFORMATIVO
Il generale, il sistema informativo è l’insieme di informazioni in entrata e in uscita, formali e informali, che
un’organizzazione produce, trasforma e utilizza nell’ambito del suo funzionamento. Gli elementi essenziali
di un sistema informativo sono:
- l’informazione, quantitativa e qualitativa, formale (codificata in dati oppure in testi) o informale, in entrata
e uscita
- strumenti e tecniche per la raccolta, la circolazione, il recupero e l’elaborazione di dati e informazioni
(incluse le ICT)
- regole e procedure
- il network di attori in cui l’informazione è prodotta, archiviata, scambiata e usata
È quindi da intendere come un sistema sociotecnico di interazioni e comunicazioni.

1. In coerenza con la logica centrata sul sistema, dato il sistema e a partire da esso, è possibile determinare
e ottimizzare stati (tipi e quantità di informazione) e flussi di informazione (le comunicazioni) all’interno
dell’organizzazione. Dal punto di vista gestionale, l’analisi del sistema consente di individuare i rapporti tra i
vari sottosistemi dell’organizzazione, assegnare loro stati e flussi di informazione e progettare prodotti
tecnologici e canali comunicativi in grado di mettere a disposizione di ciascun soggetto la giusta quantità e il
tipo di informazione di cui necessita per i suoi obiettivi (e in particolare per l’ottimizzazione
dell’efficienza/rendimento economico). Questa visione presenta due varianti:

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 Variante meccanicista: questa variante non contempla, oppure considera come negativi, gli
scostamenti tra l’informazione che si prevede debba esser presente all’interno di un certo segmento
dell’organizzazione e quella realmente circolante in essa. Se esiste questa differenza, essa è una
devianza da sanzionare.
 Variante organicista: eventuali scostamenti sono ammessi e valorizzati se si dimostrano funzionali al
soddisfacimento dei bisogni del sistema.

2. In coerenza con la logica centrata sull’attore, si parte dal presupposto che non è possibile determinare a
priori la quantità di informazione presente e prodotta all’interno dell’organizzazione e dai soggetti che ne
fanno parte. Questo perché l’informazione si produce imprevedibilmente nelle interazioni tra i soggetti che
utilizzano tale informazioni per seguire i propri interessi personali, anche in contrasto con gli obiettivi
formali dell’organizzazione. È impossibile determinare a priori l’informazione impiegata e prodotta da
un’organizzazione e dai soggetti che ne fanno parte. È impossibile prevedere flussi e stati di informazione e
individuare regolarità tali da permettere la progettazione del sistema informativo. La sua esistenza
nell’organizzazione può essere riconosciuta solo “ex post factum” ovvero solo quando il sistema è emerso
nell’organizzazione stessa. Quindi, il sistema informativo di un’organizzazione esiste ed è conoscibile e
osservabile solo a posteriori. Il tentativo della direzione di creare un sistema informativo porta soltanto alla
creazione di un mito razionale per ottenere legittimazione all’esterno.
3. In coerenza con la logica centrata sul processo, una dimensione rilevante nell’analisi della struttura
sociale è proprio quella delle informazioni per il coordinamento delle persone, il cui contenuto riguarda il
compito, i modi e tempi di svolgimento, le relazioni tra compiti e quelle tra i soggetti agenti, gli obiettivi
organizzativi parziali e complessivi del processo organizzativo. Queste informazioni possono prodursi, in
parte, prima dell’azione e, in parte, contestualmente all’azione. Nell’analisi di queste informazioni si
distingue:
- tipo e collocazione della fonte di emissione e tempi di emissione (che possono essere precedenti o
contestuali all’azione)
- simmetria o asimmetria delle relazioni tra fonte e destinatario, formalità o informalità delle informazioni,
tempi di produzione delle informazioni (sia prima che durante lo svolgimento dei compiti)
- forme di trasmissione, con riferimento alle quali assumono rilevanza gli strumenti e i mezzi di
comunicazione utilizzati e i tempi di trasmissione
Ne deriva che i soggetti agenti, in base alle condizioni in cui si trovano (e dunque al loro campo di
possibilità), si comportano intenzionalmente per ricevere e produrre informazione, senza che ciò derivi
necessariamente dalla loro posizione all’interno del sistema e senza che il loro agire produca esiti
totalmente indeterminati. La trasmissione, la produzione e l’emissione delle informazioni e, in generale,
tipo e quantità di informazioni intenzionalmente trattate, sono, almeno in parte, preordinabili e non
generano esisti totalmente indeterminati. La preordinazione del sistema informativo (che non sarà
comunque mai completa) va condotta contestualmente a quella della struttura organizzazione (quindi alla
definizione di regole previe).
In questa preordinazione, non è possibile non coinvolgere i soggetti che dovranno utilizzare il sistema
informativo; i loro saperi (i saperi emic) sono fondamentali per la preordinazione del sistema informativo
(visto che essi lo utilizzeranno). È quindi richiesta una progettazione multi-stakeholders secondo una logica
circolare che faccia dialogare saperi etic e emic.

2. Il governo dei sistemi informativi in Magneti Marelli (caso)


Questo cambiamento circa i sistemi informativi riguarda l’Area Information Technology di Magneti Marelli.
Qual è la concezione di sistema informativo adottata in Magneti Marelli?
Tutto il caso è guidato dall’idea che il sistema informativo sia, di fatto, progettabile e che sia possibile
determinare, almeno in

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parte, a priori il tipo e la qualità informativa, gli stati e flussi comunicativi. Se questo è il presupposto di
fondo nella discussione, è esclusa la logica actor-centered. Quest’ultima, infatti, ritiene che il sistema
informativo di un’organizzazione esista e sia conoscibile e osservabile solo a posteriori e che sia impossibile
prevedere flussi e stati di informazione e individuare regolarità tali da permettere la progettazione del
sistema informativo.
Rimangono solo due opzioni: la logica system e process centered. Quale delle due?
Ci sono indicazioni all’interno del caso che ci fanno propendere per l’idea che il processo analizzato esprima
una logica system centered. Gli argomenti a favore di questa tesi sono sostanzialmente due:
1. La prima riguarda le modalità di coinvolgimento degli utilizzatori: nella logica centrata sul sistema essi
sono coinvolti solo nel momento della formazione all’uso dei prodotti tecnici per la gestione
dell’informazione. Nel nostro caso si nota come sia previsto un aggiornamento e una formazione continua
degli utilizzatori nell’uso del sistema; non si va oltre a ciò. Essi non sono coinvolti nella progettazione che è
completamente centralizzata e demandata a livello dirigenziale.
2. Si nota come non tutti gli elementi del sistema informativo sono puntualmente predeterminati; alcuni
aspetti sono decentrati al Demand Manager (ovvero colui che ha il compito di decidere quali sistemi
dovrebbero essere utilizzati all’interno delle divisioni) ma entro i limiti fissati dalle decisioni sull’architettura
del sistema. Quindi, le decisioni del Demand Manager non sono autonome bensì discrezionali perché
devono essere coerenti con le decisioni centralizzate che vengono prese circa l’architettura complessiva del
sistema e, quindi, circa gli aspetti chiave (ciò ci fa capire che, in particolare, viene seguita la variante
organicista)

COMPETENZA
1. In coerenza con la logica system centered, la decisione (cognizione), intesa come elaborazione mentale
di conoscenze astratte su un problema, è separabile dall’esecuzione (azione) e la precede. Ci sono due
varianti:
 variante meccanicista: i manager decidono prima contenuto e modalità di lavoro (che garantiscono
massimizzazione del surplus) e traducono le decisioni in istruzioni dettagliate che, dopo, gli esecutori
imparano e applicano. In questa prospettiva, è competente chi esegue bene gli ordini
 variante organicista: i manager predeterminano un set di competenze che il soggetto deve detenere
per esercitare discrezionalità (cioè variabilità nell’esecuzione) in maniera funzionale al sistema. La
discrezionalità, infatti, è legata all’idea che gli operatori non possano mettere in atto tutti gli
scostamenti rispetto al programma rigido ma solo quelli funzionali al soddisfacimento degli obiettivi
del sistema organizzativo; essa deve quindi essere controllata attraverso il set di competenze che il
manager che predetermina e limita l’azione degli operatori. In questa prospettiva, è competente chi
soddisfa le aspettative e consegue i risultati associati al proprio ruolo
Quindi, in entrambe le varianti, la competenza è un bagaglio associato a una posizione:
- un “saper fare” declinabile e verificabile in concreto come capacità di esecuzione di azioni tecniche riferire
alla mansione
nella variante meccanicista
- un “Sapere, saper fare, saper essere” declinabile e verificabile in concreto come capacità di adottare
modelli di comportamento conformi alle aspettative di ruolo nella variante organicista
In entrambi i casi, si assume che il corretto saper essere e saper fare sia determinabile a priori e che il suo
apprendimento sia garanzia di performance organizzativa ottimale.

2. In coerenza con la logica actor-centered, la cognizione, intesa come l’elaborazione consapevole di una
rappresentazione simbolica sul problema, segue l’azione. L’azione è sempre situata, cioè costitutivamente
influenzata dal contesto materiale e relazionale in cui si svolge, e conseguentemente la competenza è
indissolubilmente legata al contesto materiale e relazionale, unico, imprevedibile e imprevedibilmente

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mutevole in cui si svolge l’azione. La competenza non è mai predeterminabile a priori e tanto meno
predeterminabile rispetto a delle posizioni: è un bricolage di saper fare e saper essere che risulta dalle
interazioni del soggetto in una comunità di pratica e si nutre delle riflessioni sul proprio vissuto lavorativo
(razionalizzazioni a posteriori del senso e significato del proprio lavoro). Competente è chi riesce a
prendere parte (diventare, essere, rimanere insider) ad una comunità-di-pratica: comprendere le
dinamiche di interazione del contesto in cui si opera è espressione di competenza e condizione del suo
sviluppo.

3. In coerenza con la logica process-centered, la cognizione è una componente dell’azione e, quindi, la


distinzione tra decisione (cognizione) ed esecuzione (azione) è solo analitica ma non empirica: ogni
“esecutore” ha potenzialità di regolazione autonoma, almeno di generazione di regole contestuali nel corso
del loro agire. Ciò rende velleitario definire esaustivamente ex-ante istruzioni di esecuzione o competenze
di ruolo: l’agire individuale effettivo è in parte preordinato e in parte il frutto di regole contestuali
all’azione. Di conseguenza, la competenza inerisce tanto alla regolazione contestuale quanto alla
preordinazione e si concretizza come la capacità di giudicare l’azione in rapporto al processo, i rapporti di
reciproca congruenza tra obiettivi, tecniche e modalità di controllo e coordinamento (è diversa dalla
conoscenza). Guardando alle diverse modalità di controllo e coordinamento, la competenza è la capacità di
scegliere le modalità di controllo e di coordinamento più adeguate in rapporto alle condizioni di certezza e
incertezza che caratterizzano i risultati desiderati e le attività e i modi per conseguirli. Ad esempio, la
competenza permette di capire che il ricorso alla regolazione reciproca e autonoma è la modalità di
coordinamento più adeguata a fronteggiare un processo di lavoro caratterizzato da incertezza sui risultati
desiderati e sulle relazioni di causa-effetto.

FORMAZIONE
Formazione è ogni luogo e ogni momento del pensiero e dell’azione in cui si apprende ad apprendere, in cui
si conosce qualcosa, qualcuno e ci si conosce. È lo strumento attraverso il quale si sviluppa la competenza.

1. In coerenza con la logica system centered, la formazione è strumento atto a migliorare l’adattamento del
soggetto al sistema:
 variante meccanicista: la formazione è intesa come addestramento alla mansione, trasmissione di
conoscenze tecniche e operative richieste dalla mansione. Taylor, ne “L’organizzazione scientifica del
lavoro” afferma che <<il vero insegnamento deve giungere agli operai attraverso lezioni pratiche: essi
vedranno aumentare il ritmo e raddoppiare o triplicare la loro produzione; tutti dovranno constatare
che quelli che raggiungono un tale aumento di produttività ricevono un adeguato aumento di salario
che li soddisfa pienamente. Soltanto ponendo in massima evidenza queste lezioni pratiche si possono
far assimilare i nuovi concetti». Inoltre, «ogni operaio deve abituarsi a ricevere e applicare le istruzioni
riguardanti i dettagli che in passato erano lasciati al suo criterio individuale»
 variante organicista: la formazione è formazione al ruolo, trasmissione di sapere, saper fare e saper
essere richiesti dal ruolo. Katz e Kahn, ne “Psicologia sociale delle organizzazioni”, affermano che
<<l’interiorizzazione dei valori e degli obiettivi dell’organizzazione assicura la predisposizione a mettere
in atto i comportamenti e a svolgere le funzioni che assicurano l’adattamento del sistema
all’ambiente>>. Questi comportamenti possono essere:
- Suggerimenti per il miglioramento dei prodotti, metodi di lavoro dell’organizzazione (capacità di
problem-solving)
- Rapporti collaborativi con i colleghi
- Promozione di un’immagine positiva dell’organizzazione nei confronti della comunità di riferimento
dell’organizzazione
- Attitudine a sviluppare conoscenze e capacità per assumersi ruoli di maggiore responsabilità

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Sempre nell’ottica di migliorare l’adattamento del soggetto alla struttura organizzativa, Roethlisberger
e Dickson, ne “Management and the worker”, esaltano il counselling (colloquio in cui il lavoratore
parla di problematiche che riscontra e il counselor cerca di migliorare la situazione) che permette di
aumentare la qualità delle relazioni all’interno di un’organizzazione. Un’altra tecnica formativa è
l’Outdoor development che consente di sviluppare la capacità di mobilitazione di tutte le proprie
risorse anche in condizioni di emergenza e situazioni difficili. Essa prevede una formazione svolta in
condizioni ambientali inedite e estranee che richiedono forte impegno fisico e prevedono
l’assegnazione di compiti legati a problemi, persone e vincoli reali. In tal modo, si riescono a sbloccare
schemi mentali e comportamentali irrigiditi in quanto ci si trova al di fuori del proprio ambiente di
lavoro, senza la sicurezza fornita dall’esperienza professionale e dallo status gerarchico.

2. In coerenza con la logica actor-centered, la formazione è uno strumento atto a migliorare la


consapevolezza individuale delle dinamiche relazionali e la capacità individuale di farne parte . Essa è rivolta
al saper essere, utile a sostenere le strategie e le motivazioni individuali, a fronte di vincoli e costrizioni
dell’organizzazione. La formazione ha per oggetto i vissuti soggettivi, derivanti dall’esperienza lavorativa
diretta o dall’esperienza generata ad hoc mediante simulazioni proposte dal formatore. La riflessione,
guidata dal formatore, sull’esperienza personale, diretta o simulata, ambisce a far acquisire consapevolezza
delle dinamiche intersoggettive che alimentano la produzione di senso e della propria capacità di far parte
di una comunità di
pratiche. Un esempio di tecnica formativa proposta dal formatore che ha per oggetto il vissuto soggettivo è
la Tecnica dello psicodramma: «Con esso, l’individuo esteriorizza il proprio vissuto in un ambito teatrale,
recitando di fronte a un uditorio (una sorta di coro greco), che reagisce e commenta la rappresentazione
insieme a una équipe con funzione di supporto. Il ricercatore/terapeuta/regista dirige la recita centrata
sulla personalità individuale vista nei suoi rapporti interpersonali. La recita dovrebbe aiutare gli attori a
liberarsi dai loro blocchi psicologici, dando sbocco alla loro spontaneità creatrice e libertà individuale».

3. In coerenza con la logica process-centered, la formazione è un processo che ha come finalità quella di
supportare i soggetti a riflettere consapevolmente sulla regolazione del processo, sulla congruenza
reciproca tra diversi piani di azione e decisione (obiettivi, scelte tecniche, strutturazione) e sulle possibilità
di modificare il processo sia per migliorare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi sia per soddisfare
le aspettative e esigenze personali dei soggetti coinvolti (secondo criteri di benessere). Conseguentemente,
la formazione si connota come processo secondario di riflessione sul processo primario di lavoro con
l’obiettivo di migliorarlo. Questa riflessione ha ad oggetto gli obiettivi, le conoscenze tecniche necessarie a
raggiungere tali obiettivi, la strutturazione dei compiti e delle loro interdipendenze, la strutturazione degli
svolgimenti, le diverse espressioni del sapere e i diversi oggetti della conoscenza. Il processo primario (di
lavoro) attiva il processo secondario (di formazione) che contribuisce a modificare/migliorare il primo: essi
si possono solo distinguere analiticamente ma non concretamente.
I soggetti agenti sono sempre almeno in parte autonomi nella produzione di regole di lavoro e sempre
portatori di competenze (contestuali, «ingenue»). Inoltre, contrariamente agli approcci centrati sul sistema
e sugli attori in cui i contenuti e le modalità della formazione sono progettati da esperti o consulenti esterni
ai processi di lavoro (i soggetti sono passivi), nell’approccio centrato sul processo, i soggetti agenti nel
processo primario sono coinvolti nel processo formativo come parte attiva, già dall’individuazione del
fabbisogno formativo, in quanto essi stessi produttori di regole di lavoro e detentori di competenze
contestuali, ancorché <<ingenue>>, necessarie a quel miglioramento dei processi di lavoro che è l’obiettivo
della formazione.

CASO STUDIO: LA VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE IN FIAT AUTO


1. Descrizione del caso

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Questo caso studio ha come oggetto la progettazione e l’implementazione del sistema di valutazione delle
competenze in Fiat Auto tra il 1999 e il 2000. Il nuovo sistema di valutazione delle competenze è legato ad
alcune specifiche scelte di organizzazione delle attività produttive, del lavoro di fabbrica per far fronte a un
mercato automobilistico che, a seguito della crisi petrolifera e dei processi di internazionalizzazione,
risultava sempre più globalizzato e caratterizzato da un eccesso dell’offerta rispetto alla domanda. Alcune di
queste nuove soluzioni organizzative erano legate al modello della “Fabbrica integrata” prima e della
“Fabbrica modulare” poi:
 Fabbrica integrata: si fonda sul fatto che l’unità di base attorno alla quale creare l’organizzazione del
lavoro deve essere un gruppo di lavoro chiamato Unità Tecnologica Elementare (UTE). Queste erano
gruppi di lavoro assegnati allo svolgimento di intere fasi del processo produttivo. Questi gruppi sono
composti da diverse figure caratterizzate per eterogeneità e specializzazione delle posizioni coinvolte.
Esse dovrebbero possedere delle capacità e competenze polivalenti e polifunzionali; inoltre, tutti i
soggetti appartenenti sono collettivamente responsabili per il raggiungimento dei risultati in termini di
efficienza tecnica dell’UTE. Le figure interne all’UTE hanno però anche discrezionalità decisionale su
alcune fasi o operazioni produttive ma non hanno discrezionalità decisionali sugli obiettivi (determinati a
livello centralizzato).
 Fabbrica modulare: consiste in una serie di scelte di outsourcing che Fiat inizia a fare come
l’esternalizzazione ai fornitori di attività anche centrali per la produzione e progettazione del prodotto
finale (dalla manutenzione fino “cuore tecnico” della macchina ovvero il motore). Questi rapporti con i
fornitori esterni (che, però, rimangono sotto il coordinamento del team leader FIAT) diventano forti,
iniziando a richiedere ad essi comportamenti discrezionali e caratterizzati da spirito imprenditoriale.
In relazione a questi cambiamenti organizzativi, cambiano le competenze necessarie e richieste. I dirigenti
Fiat dicono che, a
seguito di queste nuove soluzioni organizzativi, <<servono sempre più ruoli imprenditivi e sempre meno
ruoli di mera esecuzioni. Molti ruoli attuali hanno bisogno di competenze più ampie, capaci di visione
d’insieme, non più solo competenze vicine alla propria area professionale o alla propria funzione>>.
Nell’ambito delle attività di gestione delle risorse umane, come premessa, c’è da dire che il nuovo sistema
di valutazione delle competenze è strettamente legato al cambiamento di tutto il sistema di valutazione e al
cambiamento del sistema di qualifiche formali (impiegati, quadri, expert, dirigenti) ed è guidato da valori
quali <<essere Gruppo>>, il valore dell’appartenenza e della identificazione con l’azienda. Questo nuovo
sistema di valutazione delle persone comprende:
- la valutazione delle competenze (o anche “valutazione della risorsa professionale”): l’obiettivo di questa
valutazione è individuare la differenza tra le competenze richieste (legate al ruolo da ricoprire) e quelle
effettivamente possedute dal personale. Per fare ciò, ogni ruolo ha una “carta di identità” che chiarisce
il tipo di competenze necessarie e il livello al quale le competenze devono essere possedute. Da ciò,
valutare le competenze significa attribuire un punteggio che dice in che misura le competenze sono
effettivamente possedute rispetto a quelle richieste. Questa valutazione è la base per definire il piano di
sviluppo personale e di formazione, il percorso di carriera e il livello di retribuzione fissa del soggetto.
- la valutazione dei risultati del lavoro: si premia con una retribuzione variabile il raggiungimento di
obiettivi aziendali, di team e individuali. La retribuzione variabile è una X% della retribuzione fissa e varia
al variare delle qualifiche ed è predeterminata nel suo limite massimo. Questa forma di retribuzione
aggancia la retribuzione individuale al risultato aziendale (la creazione di valore per l’azionista)
La Fiat ritiene che la competenza sia formata, innanzitutto, da capacità e qualità uguali per tutti che
individuano le caratteristiche individuali tipiche del manager (capacità di relazione, leadership, promozione
del cambiamento, capacità di decisione); tali capacità e qualità tipiche del manager sono richieste a tutti.
Accanto a queste due dimensioni, però, c’è anche la dimensione delle conoscenze che, a loro volta, si
dividono in:

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- Conoscenze di base: uguali per tutto il personale. Si richiede quindi a tutti una visione d’insieme dei
processi aziendali, dei collegamenti tra attività e processi. All’interno di queste conoscenze rientrano quelle
di gestione dei collaboratori, di economia aziendale, conoscenze sulle infrastrutture d’impresa e di sviluppo
del business.
- Conoscenze specifiche: diverse a seconda della professione di ogni individuo. Si richiedono competenze
specifiche del prodotto, della ricerca e sviluppo, dell’attività commerciale, degli acquisti, del processo
produttivo, della logistica, delle IT; ognuno è articolato in 12 tipi di conoscenze più specifiche.
Guardando ai primi risultati dell’implementazione di questo sistema, meno del 50% dei valutati hanno
evidenziato un livello di competenze possedute uguale o superiore a quello minimo desiderato, in
particolare rispetto a conoscenze di base, capacità e qualità. Alcune criticità individuate riguardano anche la
necessità di adeguare i profili predefiniti di competenze con l’evolversi dell’azienda, dei processi e
dell’ambiente.
Per questo, sono state previste politiche formative e di sviluppo che, nella fase dell’introduzione, si sono
concentrate sulle conoscenze specialistiche (in futuro riguarderanno anche le conoscenze di base). Queste
politiche prevedono interventi guidati dai team direzionali a livello di stabilimento focalizzati sulle discipline
e sotto-discipline considerate prioritarie. Sono stati, inoltre, pensati percorsi formativi e indicatori di
perfomance per valutare il nesso tra interventi formativi e concreti risultati ottenuti dai soggetti nel proprio
lavoro. Non a caso, il nuovo sistema <<spinge>> verso un cambiamento sostanziale delle competenze
esistenti in azienda che premia percorsi e esperienza inter-funzionali piuttosto che la cultura tecnica
specialistica.

2. Quale concezione di Competenza e Formazione guida l’introduzione del sistema di valutazione delle
competenze (delle persone) nel caso analizzato?
La concezione di competenza che segue Fiat nell’implementazione di questo sistema è sicuramente la
logica system-centered variante organicista. L’argomentazione è legata principalmente a due temi:
 Il nuovo sistema di valutazione è introdotto come conseguenza di nuove soluzioni organizzative
maggiormente flessibili adottate per fronteggiare i cambiamenti ambientali (mercato incerto e sempre
più competitivo e globale). Le competenze vengono predeterminate dalla struttura organizzativa e,
ancora prima, dalle esigenze di adattamento all’ambiente esterno.
 Tali soluzioni cambiano il comportamento richiesto alle persone . Esse non sono più esecutori di
prestazioni standardizzate e rigidamente predefinite ma sono risolutori di problemi, mobilitatori di
capacità e qualità funzionali al conseguimento di risultati individuali collegati a risultati di impresa. Fiat
passa da una modalità di coordinamento del lavoro basata su una programmazione rigida a una
modalità di coordinamento del lavoro basata su una programmazione flessibile, determinando solo gli
elementi chiave (obiettivi da raggiungere a livello individuale e le competenze necessarie a conseguirli) e
lasciando ai soggetti la possibilità di variare le modalità di esecuzione per fronteggiare varianze tecniche
impreviste.
Quindi, da un lato si richiede capacità di decisione e dall’altro se ne controlla l’esercizio non deviante in due
modi:
- Predeterminando il set di conoscenze e i comportamenti attesi
- Assicurandosi che i lavoratori siano identificati con gli obiettivi e i valori aziendali (attraverso la valutazione
e remunerazione dei soggetti per la capacità di esibire le competenze richieste e per questa via conseguire
risultati individuali di ruolo collegati a
risultati aziendali di creazione di valore per l’azionista)
Quindi, in Fiat la competenza è un sapere, saper fare, saper essere (capacità e qualità) associati ad un ruolo.
È competente chi soddisfa le aspettative di ruolo, adotta i modelli di comportamento attesi (chi risolve i
problemi, mobilita le proprie conoscenze, collabora coi colleghi, promuove il cambiamento, è imprenditivo)

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Allo stesso modo, la concezione di formazione che segue Fiat nell’implementazione di questo sistema è la
logica system-centered variante organicista per diversi motivi:
 La formazione assicura l’adattamento del soggetto alle aspettative del ruolo prescritto e alla struttura
organizzativa
 Tutti i piani formativi sono progettati in maniera top down: i soggetti agenti nei processi di lavoro sono
destinatari di un intervento formativo eteronomo (effettuato, quindi, da soggetti esterni) nelle fasi
fondamentali (rilevazione del fabbisogno, contenuto e modalità della formazione)
 Sono stati elaborati indicatori di performance per valutare il nesso tra intervento formativo e risultati di
lavoro concretamente ottenuti dai soggetti. I dirigenti Fiat sono consapevoli, infatti, che la formazione al
ruolo è garanzia nel medio
lungo termine di performance lavorativa ottimale

STRATEGIA
In tutti gli studi che si occupano di strategia, un aspetto che accomuna tutti i contributi è quello di trattare
esplicitamente o implicitamente il concetto di strategia in stretto legame con quello di “obiettivi” e di
“razionalità”.
1. In coerenza con la logica system-centered, gli obiettivi organizzativi sono compiutamente determinabili
in anticipo e la formulazione della strategia ne precede l’implementazione in quanto questa realizza in
modo efficiente gli obiettivi organizzativi.
Nella variante organicista, l’ambiente è visto come una realtà data, che vincola il comportamento
organizzativo; all’organizzazione va il compito di rispondervi identificando il best fit tra ciò che l’ambiente le
permette/impone di fare e ciò che essa sa fare meglio di altre organizzazioni comparabili. La percezione
dell’ambiente può essere inficiata dai bias cognitivi dei decisori (informazioni incomplete, incapacità di
stimare gli effetti dell’ambiente sulle performance). Essi, tuttavia, sono eliminabili attraverso tecniche di
sorveglianza, raccolta, elaborazione di informazioni e valutazione sempre più sofisticate.
In questo quadro, obiettivi e strategia sono il frutto di una scelta discrezionale entro un campo di
alternative predeterminato da vincoli esogeni (minacce e opportunità ambientali) e interni (competenze e
capacità organizzative distintive ereditate dal passato e immodificabili nel breve periodo).

2. In coerenza con la logica actor-centered, la strategia è un modo che gli attori partecipanti a una
comunità di pratiche mettono in campo per aggirare un ostacolo immediato, confrontarsi/superare le
ambiguità quotidiane, agendo in un modo che mira a essere coerente con il passato e a realizzare un
adattamento plastico a situazioni continuamente e imprevedibilmente mutevoli. Le strategie, così come gli
attori individuali, non sono separabili dalla pratica e non sono mai orientate a un risultato più ampio o a un
fine di lungo periodo ma sono sempre finalizzate a opporsi alle regole formali. Le strategie collettive
costituiscono l’esito non deliberato, dato per scontato e inconsapevole di valori, aspettative, schemi di
pensiero storicamente e socialmente determinati all’interno di una comunità di pratica e di interpretazione.

3. In coerenza con la logica process-centered, gli obiettivi organizzativi sono frutto di scelte intenzionali
sempre mutevoli. Di conseguenza, la strategia è una scelta (previa) del comportamento da tenere per un
determinato periodo di tempo, salvo ripensamenti e aggiustamenti, per realizzare in modo soddisfacente
gli obiettivi organizzativi. Essa consente di mantenere un certo grado di congruenza soddisfacente tra
obiettivi, tecnologie e struttura. Obiettivi e strategie sono prefigurati dalle colazioni dominanti ma tali
decisioni non sono mai unilaterali: la definizione di obiettivi e strategia poggia sulla capacità di mantenere
un compromesso accettabile per tutti gli stakeholders (clienti, fornitori, Stato, lavoratori) interni ed esterni.
Questo compromesso, però, è sempre rivedibile e provvisorio, in quanto il processo cambia interlocutori di
riferimento nel corso del suo sviluppo; ciò non solo perché possono verificarsi cambiamenti nel task
environment ma anche perché l’organizzazione può cambiare intenzionalmente obiettivi e, quindi, gli

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stakeholders di riferimento, al fine di fronteggiare e ridurre le incertezza che ne limitano la capacità di
autoregolazione futura. Gli obiettivi e le strategie previamente stabiliti sono, quindi, continuamente e
intenzionalmente ridefiniti durante lo sviluppo del processo organizzativo.

POTERE
Il potere è la capacità attuale o potenziale di un soggetto (individuale o collettivo) di influenzare la sfera di
azione e di decisioni di un altro soggetto (individuale o collettivo).
1. In coerenza con la logica system-centered, il potere è inteso come risorsa scarsa che qualcuno possiede a
scapito di altri e per la quale si compete/confligge. Il potere del soggetto dipende dalla sua posizione dentro
il sistema. In particolare:
 Secondo la variante meccanicista, essendo il sistema chiuso all’incertezza, questa posizione (da cui
dipende il potere del soggetto) è la posizione ricoperta nell’autorità gerarchica. Secondo Fayol, il potere
è strettamente legato all’autorità gerarchica e infatti afferma: <<Autorità è il diritto di comandare e il
potere di farsi obbedire. Si distingue, nel capo, l’autorità gerarchica, che viene dalla funzione, e
l’autorità personale fatta di intelligenza, di sapere, di esperienza, di valore morale, del dono del
comando>>. Da sottolineare come Fayol, anche se in modo marginale, afferma che il concetto di potere
sia connesso anche all’autorità personale (importante, invece, nella variante organicista).
 Secondo la variante organicista, il potere di un soggetto dipende dalle funzioni svolte per garantire il
soddisfacimento dei bisogni vitali (ovvero di integrazione interna e di adattamento verso l’esterno).
Quindi, in generale, in questa logica, si può dire che il potere è visto come una risorsa che solo il sistema
sociale può generare e che richiede piena conformazione degli agenti alle esigenze sistemiche.

2. In coerenza con la logica actor-centered, anche in questo caso, il potere è inteso come risorsa scarsa che
qualcuno possiede a scapito di altri e per la quale si compete/confligge. Il potere è la posta in gioco delle
strategie degli attori ed è una risorsa che si distribuisce ma il cui ammontare complessivo non può
aumentare. L’esito di tali giochi è indeterminato. Una volta determinata la configurazione, rilevabile solo ex
post, ai dominati non resta che opporre resistenza al sistema di dominio, cercando di sfruttare
opportunisticamente i margini di incertezza che inevitabilmente si presentano, al fine di erodere il potere
detenuto da altri a proprio vantaggio.
ESEMPIO: Bianchi, ricco notabile di una cittadina di provincia, domanda a Rossi, semplice artigiano, di
effettuare una riparazione nella propria casa. L’interesse di Rossi è quello di ottenere da tale prestazione il
massimo prezzo; l’interesse di Bianchi è quello di pagare il minimo prezzo. Ognuno cerca di far prevalere il
proprio obiettivo. Il rapporto di forza è a favore di Rossi se è l’unico in città che sa fare tale riparazione o ha
sufficiente lavoro da svolgere. Bianchi, però, non è completamente privo di risorse: può rinunciare a far fare
la riparazione o provare a mettere Rossi in una situazione di concorrenza rivolgendosi ad altri artigiani, a
meno che questi si mettano a loro volta d’accordo tra loro, togliendo così a Bianchi il suo potere. Questi
esempi sono un insieme di strategie che possono essere messe in campo dalle parti.

3. In coerenza con la logica process-centered, il potere è una componente che qualifica ogni relazione
sociale. Weber definisce la relazione sociale come un <<comportamento di più individui instaurato
reciprocamente secondo il suo contenuto di senso e orientato in conformità>> (per esempio la relazione
padre-figlio; amore, amicizia). Il potere non è espressione di un sistema dato a priori, culturalmente
omogeneo e armonio, anche se i rapporti di dominazione ereditati dal passato influenza certamente la
regolazione. Infatti, i rapporti di potere possono essere modificati intenzionalmente (ad esempio mediante
affermazione di autonomia) e i conflitti che ne derivano non sono necessariamente a somma zero
(guadagni perfettamente bilanciati da perdite di potere): non ci sono quasi mai situazioni in cui il potere sta
tutto da una parte e la dipendenza tutta dall’altra. Thompson, ne “L’azione organizzativa”, afferma che:
<<Se consideriamo il potere in un contesto di interdipendenza, potremo ammettere la possibilità che A e B

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accrescano contemporaneamente il loro potere, ovvero la possibilità che un’interdipendenza crescente si
traduca in un aumento di potere netto. Su questa possibilità sono basate le coalizioni. L’ospedale, ad
esempio, può essere completamente dipendente dai medici che controllano l’afflusso dei pazienti. Allo
stesso tempo, però, se l’ospedale è l’unico disponibile o sufficientemente superiore agli altri i medici
possono risultare fortemente dipendenti da esso. Di conseguenza, la concezione del potere radicato nella
dipendenza ci permette di considerarlo secondo l’ottica della somma diversa da zero (non si distribuisce ma
può portare a un aumento reciproco del potere)>>.

AUTONOMIA
Numerose sono le teorie dell’organizzazione che parlano di autonomia ma poche sono quelle che ne danno
una definizione
rigorosa. Pertanto, il modo più utile per orientarsi è utilizzare le diverse concezioni.

1. In coerenza con la logica system-centered, nella variante meccanicista il sistema è chiuso all’incertezza,
si conoscono gli obiettivi e come raggiungerli e, pertanto, l’autonomia è negata. Questo perché, in questa
variante, qualsiasi deviazione dal programma rigido è una devianza che deve essere sanzionata; di
conseguenza, non è proprio considerata la possibilità che ci possa essere autonomia. Questo tema, invece,
diventa centrale nella variante organicista. Infatti, in questo ambito, l’organizzazione è un sistema aperto
che ammette delle deviazioni dal programma rigido che sono valorizzate se garantiscono la massima
efficienza del sistema e l’integrazione dei membri nell’organizzazione. Di conseguenza, è valorizzata
un’autonomia responsabile, spesso usata in modo intercambiabile con il tema della discrezionalità. Questa
idea ha a che fare con il principio della scuola dei sistemi sociotecnici ovvero il principio del minimal critical
specification, il quale afferma che, per gestire le variazioni cui è sottoposto il sistema, i dirigenti dovrebbero
fornire solo le prescrizioni essenziali in ordine agli obiettivi, ai metodi per raggiungerli, ai compiti e
all’aggregazione dei compiti in ruoli e affidare al personale esecutivo il compito di adattare le prescrizioni
alle circostanze specifiche.

2. In coerenza con la logica actor-centered, l’autonomia è intesa come assenza di impedimenti e limiti alla
libertà di azione e decisione, alla indipendenza del soggetto, alla sua possibilità di vivere secondo i propri
valori, desideri, voleri e stati affettivi. In questo ambito, l’autonomia è quindi intesa come nel linguaggio
comune: il soggetto è autonomo nel momento in cui è indipendente. Tuttavia, la relazione con l’altro è
fonte di vincoli lesivi all’integrità/identità del soggetto. Per questo, nelle situazioni di lavoro organizzato, le
prescrizioni eteronome (le regole previe formulate da altri) impediscono al soggetto di esprimere la propria
personalità e di sviluppare appieno le proprie potenzialità.

3. In coerenza con la logica process-centered, la Teoria dell’Agire Organizzativo, elaborata da Bruno Maggi,
offre una definizione stipulativa di autonomia, che ne chiarisce il significato rispetto a quello di libertà e
discrezionalità. Il termine autonomia viene qui usato per indicare la capacità di produrre proprie regole di
azione e decisione, relativamente ai processi in cui si è coinvolti. Le regole autonome sono prodotte sia
prime dello svolgimento effettivo delle azioni, sia in progress. Altra cosa è la discrezionalità, termine con cui
si indica uno spazio d’azione e decisione previsto da una regola previa eteronoma entro il quale il soggetto
agente è obbligato a scegliere tra diverse alternative. In questa teoria, si evidenzia anche il fatto che, nei
processi organizzativi effettivi, le regole sono sempre frutto congiunto di eteronomia e autonomia: il peso
di ciascuna dipende dai rapporti di potere intra organizzativo e dai rapporti fra l’impresa e gli stakeholder
esterni. Infine, secondo razionalità intenzionale e limitata e coerentemente alla ricerca di soluzioni
soddisfacenti, l’autonomia si esprime nella scelta dei mezzi adatti a perseguire i risultati desiderati e nella
modifica di questi ultimi.

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PARTECIPAZIONE
In via generale, partecipare significa prendere parte a certe attività o processi ed essere parte di un
collettivo (per es. di lavoro). In pratica, il termine partecipazione ha a che fare con la ripartizione del lavoro
di azione e decisione, a sua volta attuato mediante regole.

1. In coerenza con la logica system-centered, la regolazione è intesa come normalizzazione


(uniformazione) dei comportamenti, a mezzo di regole previe; per cui:
 Seconda la variante meccanicista, la partecipazione all’organizzazione è predeterminata esaustivamente
a priori attraverso un contratto completo contenuto nelle prescrizioni mansionarie. Qualsiasi modalità di
partecipazione che eccede le prescrizioni presente nel contratto completo, viene considerata come
devianza da sanzionare. Di conseguenza, la partecipazione all’organizzazione, secondo questa variante,
non prevede autonomia
 Secondo la variante organicista, la partecipazione all’organizzazione non è predeterminata in modo
esaustivo ma solo rispetto ai soli aspetti essenziali (gli obiettivi, le scadenze, le competenze necessarie);
ci sono altri aspetti che sono demandati alla capacità degli operatori di assumere decisioni discrezionali.
In questo caso, la partecipazione all’organizzazione è comunque predeterminata dalle esigenze del
sistema, ma regolata da un contratto incompleto chiamato contratto psicologico, ovvero un contratto
nella relazione tra soggetto e sistema organizzativo in cui quest’ultimo si aspetta che il soggetto faccia
tutto ciò che è in suo potere per assicurare l’integrazione del sistema all’interno, l’adattamento del
sistema all’ambiente esterno e l’efficienza del rendimento economico anche se si verificano varianze
tecniche chiave. Tale contratto quindi si nutre di “Involvement”, “Empowerment”, “Commitment”.

2. In coerenza con la logica actor-centered, la regolazione è intesa come regolarità di comportamento che
emerge imprevedibilmente tramite istituzionalizzazione di azioni e interazioni che si ripetono nel tempo e
conflittuali. In quanto tale, essa è osservabile solo ex post. Di conseguenza, la partecipazione
all’organizzazione è una questione esclusivamente individuale: la partecipazione dei lavoratori dipende
interamente dalle loro capacità “strategiche” di riaffermare la loro autonomia in termini di libertà,
indipendenza e potenzialità. Quindi, la partecipazione in questo ambito dipende dalla capacità strategica di
aggirare, disattendere, penetrare le regole formali in vigore e conquistare accesso a sfere di azioni e
decisione altrimenti precluse. Da ciò deriva lo smascheramento dei concetti di commitment,
empowerment, trust considerati, in questa logica, soltanto come strumenti utilizzati dai manager di mero
controllo delle persone per orientarle a finalità che nulla hanno a che fare con la valorizzazione della
creatività/libertà dell’espressione individuale.

3. In coerenza con la logica process-centered, la regolazione è intesa come coordinamento consapevole di


azioni e decisioni rivolte verso un obiettivo comune (produzione di beni, erogazione di servizi destinati a
certi clienti) e la regolazione effettiva è sempre comporta da regole previe e da regole prodotte invece dai
soggetti agenti mentre svolgono azioni e prendono decisioni. Di conseguenza, la partecipazione
all’organizzazione non è un’esigenza a priori del sistema, né è l’esito di una strategia rivendicativa degli
attori; essa è, invece, una componente costitutiva di qualsiasi processo organizzativo. In particolare, la
partecipazione è tipica delle situazioni organizzative più complesse, dove vengono impiegate tecnologie
intensive (cioè tecnologie non ripetitive in cui la tipologia e la sequenza delle attività che devono essere
svolte non può essere predeterminata a priori ma bisogna aspettare il feedback dell’oggetto della
trasformazione). Ad esempio, questo è il caso dei servizi sanitari e socioassistenziali in cui l’obiettivo è la
cura del paziente; infatti, non si possono stabilire a priori le specialità mediche necessarie per curare il
paziente ma occorre aspettare che arrivi il paziente per capire il suo problema. Quindi, nelle situazioni più
complesse (nell’ambito delle tecnologie intensive), i soggetti partecipano concordano un programma

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d’azione; il che richiede la messa in comune di saper fare e produce sviluppo delle competenze e delle
conoscenze (apprendimento organizzativo).

APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO
Per apprendimento si intende un processo di sviluppo di conoscenza che può basarsi sull’esperienza e che
si esprime in una modifica relativamente permanente del comportamento potenziale.

1. In coerenza con la logica system-centered, al di là delle due varianti, la conoscenza viene definita
rappresentazionale perché è simbolica, astratta, mentale su un problema o situazione, codificata, esplicita e
precede necessariamente l’azione. Di conseguenza, la conoscenza organizzativa è un sottoinsieme delle
conoscenze individuali che sono condivise dai membri dell’organizzazione (sotto forma di best practices)
mediante codifica e immagazzinamento in memorie organizzative (archivi di un’architettura informatica-
informativa). L’apprendimento organizzativo è, quindi, una modificazione di queste memorie condivise.
2. In coerenza con la logica actor-centered, l’azione produce conoscenza pratica e tacita. La conoscenza
nasce dall’azione situata, qui ed ora, che si produce in un contesto materialmente e relazionalmente
connotato, con la partecipazione a una comunità di pratica e interpretazione. Le conoscenze pratiche
prodotte entro le comunità, istituzionalizzate in storie e narrazioni, possono istituzionalizzarsi come prassi
organizzative plurime: non si arriva mai a un insieme coerente e omogeneo di conoscenze condivise da
tutta l’organizzazione.

3. In coerenza con la logica process-centered, la conoscenza è sia rappresentazionale, esplicita, astratta, sia
tacita e pratica. La conoscenza organizzativa è la conoscenza che informa le scelte delle regole di
strutturazione (modalità di controllo e coordinamento in rapporto alle condizioni di certezza e incertezza di
obiettivi e mezzi per conseguirli). Di conseguenza, l’apprendimento organizzativo è:
- lo sviluppo della conoscenza organizzativa
- lo sviluppo della capacità del processo di azioni e decisioni di regolare il proprio continuo mutamento (di
conoscenze tecniche, di obiettivi, di modalità di controllo e coordinamento).
Tale capacità può essere supportata attraverso la formazione, intesa come processo secondario di
riflessione sulla regolazione in essere e sulle possibili alternative.

BENESSERE AL LAVORO
In generale, l’espressione benessere lavorativo, così come l’espressione sicurezza sul lavoro, può essere
ricondotta alla definizione di salute al lavoro e, quindi, come uno stato di completo benessere di cui si
devono garantire 3 dimensioni: benessere fisico, sociale e mentale dei lavoratori in tutte le occupazioni;
inoltre, consiste nel prevenire le malattie, nel proteggere i lavoratori dai rischi e nel promuovere
l’adattamento del lavoro alle persone e delle persone al proprio lavoro.

1. In coerenza con la logica process-centered, questo tema, se da un lato è stato sempre trascurato da
Taylor, è affrontato prevalentemente dai contributi che si ispirano alla variante organicista. In questo
senso, il sistema organizzativo è composto da due sottosistemi:
 Sistema tecnico (costituito da compiti, materiali, impianti): esso è dato e immodificabile in quanto
imposto dall’evoluzione tecnologica e dalla competizione, entrambe variabili esogene e indipendenti
dalla singola organizzazione. Inoltre, deve funzionare in modo efficiente (logica dei costi)
 Sistema sociale (costituito da persone e loro relazioni formali e informali): deve adattarsi in modo
flessibile in qualità e quantità al sistema tecnico, nel rispetto dei vincoli formali (come quelli giuridici).
Su queste basi, l’adattamento si realizza attraverso la configurazione della posizione di lavoro (job design)
che, con un approccio multidisciplinare, va progettata in modo da prevenire l’insorgere di malattie work-
related, ovvero rischi di natura fisica, chimica, biologica e psico-sociali o organizzativi (stress, mobbing,

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molestie). Questo viene fatto sulla base di nessi causali statistici aggregati che permettono di comprendere
il livello di esposizione a fattori di rischio e danni alla salute. La diagnosi dei rischi presenti e la prevenzione
delle malattie professionali richiede, di conseguenza, l’intervento di esperti esterni, ognuno per l’aspetto
della situazione di lavoro di cui ha competenza specialistica (biomedica, politecnica, sociale,
comportamentale, ecc.).
Da questo punto di vista, i rischi psico-sociali, e in particolare lo stress, in quanto caratterizzati a monte da
eziologie multifattoriali (non esisto uno ma più stimoli anche diversi che possono attivare la sindrome) e a
valle da patologie a-specifiche (non è possibile stabilire un collegamento diretto tra uno stimolo e
l’attivazione della sindrome o tra l’attivazione della sindrome e la conseguenza per la salute, sono una
grossa sfida interpretativa. La conseguenza è che, sotto questo aspetto, siamo fermi alle indicazioni di job
design degli anni 70, in base ai quali la maggiore soddisfazione sul lavoro (che è parificata al benessere sul
lavoro) è garantita dalla possibilità di assumere decisioni, dalla varietà dei compiti assegnati, dalla
complessità dei compiti assegnati, dall’adattabilità e dalla partecipazione a team di lavoro semi-autonomi
(nel senso di “autonomia responsabile” secondo la variante organicista della logica centrata sul sistema).

2. In coerenza con la logica actor-centered, la salute individuale è minacciata da prescrizioni eteronome


coercitive che impediscono al soggetto di esprime e sviluppare pienamente la sua personalità e le sue
potenzialità. Di conseguenza, il benessere è tutto nelle mani del soggetto, dipende dal suo potere, dalla sua
capacità di eludere, opporsi, correggere autonomamente il potenziale patogeno derivante dalla
partecipazione ad un’azione organizzata e dipende dalla diffusione, anche attraverso un’idonea formazione,
di culture della salute e sicurezza entro i sistemi d’azione organizzati. Spesso queste culture, però, si
presentano più come miti moderni dietro i quali fioriscono affari per aziende specializzate nel vendere
servizi per i loro dipendenti ad altre aziende.

3. In coerenza con la logica process-centered, i soggetti agenti in un processo organizzativo non sono mai
liberi: il coordinamento delle azioni di due o più soggetti che cooperano per un obiettivo comune ne limita
sempre la libertà di azione e decisione individuale. Inoltre, i soggetti non sono mai determinati: possono
produrre proprie regole di azione e decisione a vari livelli sia prima dello svolgimento dell’azione che dopo
l’azione, potendo orientare la regolazione del processo organizzativo verso il conseguimento di livelli
continuamente migliorabili di benessere fisico, sociale e mentale. In questo quadro analitico, il benessere al
lavoro si configura come problema di congruenza reciproca tra scelte relative a diversi piani come quelli
relativi agli obiettivi, alle scelte tecniche e alla struttura. La promozione del benessere si realizza con
l’analisi del lavoro: si tratta di un’analisi finalizzata alla prevenzione primaria e, quindi, alla valutazione
della congruenza reciproca tra obiettivi, conoscenze tecniche, struttura dei compiti e degli svolgimenti,
vissuti, caratteristiche fisiologiche dei soggetti agenti nel processo. L’analisi del lavoro mira a individuare
scelte organizzative alternative che permettono contemporaneamente di raggiungere in modo
soddisfacente gli obiettivi organizzativi e di migliorare progressivamente lo stato di salute dei soggetti .
L’analisi e l’intervento organizzativi sono un processo continuo che non è demandato a esperti esterni ai
processi oggetto di analisi e intervento, né rimesso alla quotidianità delle pratiche informali dei soggetti;
esso si ottiene componendo saperi emic (le conoscenze proprie dei soggetti che operano nei processi
primari di lavoro) e etic (conoscenze teoriche che servono a effettuare un intervento organizzativo a fini di
benessere) e con la partecipazione dei lavoratori. Ci sono dei soggetti esterni ma solo per aiuti metodologici

CULTURA ORGANIZZATIVA
La cultura è l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, espressi in modelli di comportamento, che
caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale. In particolare, un valore è un criterio di valutazione
dell’azione, in base al quale una certa azione viene approvata o disapprovata, considerata giusta o
sbagliata, legittimamente desiderabile o indesiderabile. Le teorie che guarda all’organizzazione sia come

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sistema dato a priori sia come entità emergente da una costruzione sociale, considerano la cultura come
qualcosa che l’organizzazione possiede; a partire da tali concezioni, è appropriato parlare di cultura
organizzativa come elemento distintivo delle organizzazioni.

1. In coerenza con la logica system-centered, la cultura è un attributo dell’organizzazione ed è unica


indivisibile. In particolare, nella variante organicista, la cultura organizzativa è intesa come un insieme
coerente di valori espliciti e impliciti e di artefatti culturali che svolge una “ funzione di latenza”, con la quale
un sistema fornisce agli attori sociali i valori, le norme, le idee da interiorizzare nel corso della
socializzazione organizzativa ai fini del mantenimento dell’integrazione interna. Il tema della cultura
organizzativa è particolarmente sottolineato nella variante organicista perché, enfatizzando la possibilità
dei soggetti di esercitare la discrezionalità, la cultura organizzativa diventa lo strumento fondamentale
indiretto per controllare che il soggetto eserciti discrezionalità in maniera non deviante.

2. In coerenza con la logica actor-centered, non si assume che la cultura sia unica e indivisibile ma che
l’organizzazione ha inevitabilmente più culture organizzative al suo interno, legate a segmenti specifici
dell’organizzazione (che sono le comunità di pratica e di interpretazione), non unite in una configurazione
relativamente stabile, coerente e armoniosa, ma in concorrenza o in conflitto tra loro. Comunque, anche
qui, la cultura è intesa come attributo dell’organizzazione.

3. In coerenza con la logica process-centered, la cultura è intesa come struttura profonda che organizza
ricorsivamente le azioni e interazioni sociali, cooperative, conflittuali e concorrenziali . La cultura non è
qualcosa che l’organizzazione ha ma un aspetto fondamentale, solo analiticamente distinguibile, del
divenire del processo. Quindi, piuttosto che di cultura organizzativa, è meglio parlare di processi culturali
perché il processo organizzativo nel corso del suo sviluppo produce continuamente nuova conoscenza e
nuovi valori.
In questa concezione, si riconosce che i valori del processo organizzativo influenzano il comportamento dei
membri dell’organizzazione e la loro partecipazione al processo di azione e di decisione; di converso, però,
si riconosce che ogni organizzazione non vive in un “vuoto sociale” e quindi non è possibile identificare un
circoscritta cultura organizzativa. Questa idea è espressa da un programma di ricerca formulato da Max
Weber e che venne messo a punto per una ricerca sul rapporto tra grande industria e condizione operaia.
L’obiettivo di questa ricerca doveva essere duplice:
- da un lato, definire quale influenza la grande industria esercita sull’indole personale, il destino
professionale e lo stile di vita extraprofessionale dei propri operai, quali qualità fisiche e psichiche sviluppa
in loro e come queste si manifestano nella condotta di vita globale dei lavoratori
- d’altra parte, in che misura la grande industria è legata a determinate qualità che sono il prodotto
dell’origine etnica, sociale, culturale, della tradizione e delle condizioni di vita della classe operaia

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