Sei sulla pagina 1di 75

Scaletta importante per studiare e ripetere fisiologia

• Osservazione
• Ipotesi
• Sperimentazione
• Parametri (unità di misura)
• Rappresentazione (schemi e grafici)

La fisiologia è lo studio del normale funzionamento dell’organismo e delle parti che lo


compongono: come funziona il nostro corpo. Importante è lo studio della fisiologia a diversi livelli
(dalla cellula, ai tessuti, agli organi, ai sistemi) e del modo in cui essi si integrano e coordinano le
funzioni dei vari organi ed apparati, per garantire l’omeostàsi, in risposta alle perturbazioni.
Le cellule, a partire da una condizione iniziale totipotente, cominciano a differenziarsi, non solo
morfologicamente, ma anche dal punto di vista fisiologico. In altre parole, le cellule si specializzano
nello svolgere funzioni precise, perdendo magari la capacità di svolgerne altre.

LA MEMBRANA CELLULARE
La membrana cellulare delimita l’intera cellula, fungendo da barriera e contenendo all’interno i
vari organuli. Essa è formata da un doppio strato fosfolipidico, che la rende impermeabile all’acqua
o a tutte quelle soluzioni acquose presenti nel liquido interstiziale. Essa separa, dunque, il liquido
intracellulare (LIC) dal liquido extracellulare (LEC). Quest’ultimo è costituito dalla somma del
liquido interstiziale e dal plasma (liquido del sistema digerente, cardiovascolare, ecc.).
La composizione sia del LIC che del LEC viene sempre mantenuta stabile, proprio grazie
all’impermeabilità della membrana. Questa è, infatti, una barriera selettiva, che permette il
passaggio unicamente a determinate sostanze.
La membrana, oltre ai fosfolipidi, è costituita anche da:
• Molecole di colesterolo, che donano fluidità ed evitano che lo strato membranale risulti
rigido;
• Proteine. Queste si dividono in estrinseche o periferiche ed intrinseche o
transmembrana. Quest’ultime attraversano tutta la membrana plasmatica; le estrinseche,
invece, non possono interagire con le code fosfolipidiche e si dispongono, quindi, solo sulla
superficie.
La membrana cellulare, quindi, non è statica, ma viene detta modello a mosaico fluido, proprio
perché possiede questa capacità di muoversi e deformarsi a seconda delle necessità.

Le variazioni omeostatiche e il feedback


Una variazione interna ed esterna implicherà una variazione dell’omeostasi. Se l’organismo riesce a
compensare velocemente, si ritorna alla condizione di equilibrio omeostatico, altrimenti
l’organismo presenterà una patologia. L’omeostasi è controllata da meccanismi a feedback
negativo o positivo.
Il primo aiuto a mantenere la stabilità di un sistema, contrastando i cambiamenti dell’ambiente
esterno. Il secondo, invece, amplifica la possibilità di evoluzione dell’anomali. Un esempio di
feedback positivo è quello che controlla la secrezione dell’LH, l’ormone luteinizzante. L’ormone,
infatti, stimola la secrezione degli estrogeni, che stimola, a sua volta, il rilascio di altri LH, che
stimola maggior rilascio di estrogeni, e così via. Un’eccessiva produzione di estrogeni fa sì che
venga introdotto un nuovo elemento, capace di arrestare il rilascio di LH.
Anche il processo di termoregolazione corporea è regolato da un processo a feedback negativo. Un
feedback negativo, in generale, funziona così:
• Rilevazione anomalia
• Integrazione informazioni
• Attivazione meccanismi di ripristino
• Ripristino valore del parametro
La regolazione può realizzarsi sia a breve termine che a lungo termine. Inoltre, la regolazione può
essere di tipo locale o di tipo generale, se richiede l’intervento di più parti dell’organismo.

La membrana come sede di fenomeni elettrici


La membrana è sede di fenomeno elettrici. Essa è infatti dotata di un cosiddetto potenziale di
membrana, ossia uno squilibrio elettrico che si viene a creare fra il LIC e il LEC, a causa della
differenza di quantità di ioni disciolti in ciascun liquido. Analizzando quanto segue è possibile
osservare come alcuni ioni (positivi o negativi) si trovino o solo all’interno della cellula o solo
all’esterno, e creino, dunque, un grande squilibrio elettrochimico.
Na+: Molto concentrato nel LEC, poco nel LIC;
Cl-: Molto concentrato nel LEC, poco nel LIC;
K+: Molto concentrato nel LIC, pochissimo nel LEC;
HCO3-: Ione bicarbonato, più presente nel LEC che nel LIC;
Proteine: Al pH fisiologico dell’organismo, le proteine si trovano in forma ionizzata negativa. Esse
influiscono così come anioni sull’equilibrio elettrico della cellula. Sono concentratissime nel LIC,
mentre non si trovano mai nel LEC.
In ogni compartimento (plasma sanguigno, liquido interstiziale, LIC) è presente un equilibrio
elettrico, dato dal fatto che il numero di anioni e di cationi si bilanciano. Tuttavia, tra
compartimento e compartimento c’è sempre una differenza quantitativa totale di ioni. Questo è
necessario per il fenomeno dell’osmosi. La differente concentrazione di ioni fra i vari
compartimenti, infatti, permette la diffusione osmotica dell’acqua da maggior gradiente di
concentrazione a minore.

Le proteine di membrana e i differenti meccanismi di trasporto


membranale
Le proteine di membrana possono essere di 2 tipologie:
• Proteine che fungono da canali. Queste possono essere o sempre aperte (per esempio i
pori per l’acqua), o regolate da sistemi di apertura-chiusura. Il flusso che viene a crearsi
attraverso questi canali è detto flusso passivo, proprio perché è un flusso che sfrutta le sole
leggi fisiche e il gradiente di concentrazione.
• Proteine trasportatrici o carrier. Non formano mai un canale aperto fra i 2 lati. E’ un
tipo di trasporto che segue sempre le leggi della diffusione, ma che sfrutta una proteina di
trasporto. Questi tipi di flussi vengono detti flussi attivi. Il carrier può essere uniporto (se
trasporta una sola molecola), simporto (se trasporta due molecole nella stessa direzione) e
antiporto (se trasporta due molecole, ma in direzione una opposta all’altra; richiede utilizzo
di ATP).

Flussi ionici transmembranali


I flussi ionici avvengono secondo 2 meccanismi:
• Flussi ionici passivi, che avvengono per diffusione, attraverso canali ionici, sempre
secondo gradiente di concentrazione.
• Flussi ionici attivi, mediati invece da un carrier. Avvengono sia secondo gradiente che
contro gradiente di concentrazione.
Il flusso ionico passivo segue la Legge della Diffusione di Fick: FX = PX (C1 – C2).
Dipende quindi da:
• Intensità della forza spingente (C1 – C2)
• Coefficiente di permeabilità della membrana a un determinato ioni (PX).
PX, ovviamente, è direttamente proporzionale a FX. Questa legge è speculare alla Legge di Ohm per
un conduttore: IX = gx (V1 – V2).
Il potenziale di membrana, quindi, è la separazione di carice elettriche ai 2 lati della membrana
plasmatica. Questa differenza in numero di cariche fra LEC e LIC, accumula energia sotto forma di
gradiente elettrico. La membrana, dunque, diviene polarizzata (negativa all’interno e positiva
all’esterno). Il potenziale di membrana (Vm) corrisponde alla differenza di potenziale fra interno
(Vi) e esterno (Ve) della cellula.
Vm = Vi – Ve
Si misura in mV (millivolt) e il valore medio è di -70mV.

Il potenziale di membrana
I fattori che determinano, quindi, il potenziale di membrana sono:
• La presenza di ioni positivi e negativi, distribuiti in modo asimmetrico sui due lati della
membrana (gradiente di concentrazione);
• Permeabilità selettiva della membrana
• Pompa Na+-K+ (sodio-potassio), che mantiene asimmetrica la distribuzione degli ioni sui
lati della membrana, muovendosi anche contro gradiente di concentrazione.
Il potenziale di membrana permette la possibilità di generare segnale elettrici nelle cellule eccitabili
e la possibilità di scambiare materiali attraverso la membrana. Il potenziale consiste, quindi, in uno
stato stazionario (il quale indica una condizione di equilibrio dinamico) fra le concentrazioni
ioniche asimmetriche ai 2 lati della membrana, associato a flussi ionici (attivi e passivi), che si
bilanciano continuamente. Un aspetto che spiega perché le cariche negative siano all’interno della
cellula, mentre quelle positive all’esterno è dato dall’equilibrio di Gibbs-Donnan. Nel caso in cui i
canali proteici di membrana siano sempre aperti, i vari ioni fluiranno attraverso questi (secondo
gradiente) fino a che la concentrazione di ioni all’interno e all’esterno della cellula non sarà la
stessa. Nel caso, invece, in cui in un compartimento siano presenti anche molecole (come proteine)
che non possono passare attraverso i canali ionici, si avrà un aumento di cariche negative (le
proteine sono negative) in un compartimento e, dunque, una differenza di potenziale. L’equilibrio di
Gibbs-Donnan ci permette, allora, di comprendere la causa del fatto che in 2 compartimenti è
presente una perturbazione dell’equilibrio complessivo, che provoca necessariamente un aumento
della pressione osmotica, chiamata pressione oncotica.

Equilibrio elettrochimico
In una situazione di equilibrio elettrochimico, le forze chimiche ed elettriche di segno opposto,
attraverso la membrana, coincidono e i flussi ionici netti sono uguali a 0.
Potenziale di equilibrio del Na+: E’ la differenza di potenziale che si avrebbe a cavallo di una
membrana se il Na+ potesse attraversarla liberamente. Nel caso in cui il flusso ionico di Na + fosse
uguale a 0, ossia quando il flusso di Na + è uguale nelle due direzione, l’Equilibrio sarà di ENa =
+65mV.
Potenziale di equilibrio del Cl-: E’ la differenza di potenziale che si avrebbe a cavallo di una
membrana se il Na+ potesse attraversarla liberamente. Nel caso in cui il flusso ionico di Cl - fosse
uguale a 0, ossia quando il flusso di Cl - è uguale nelle due direzione, l’Equilibrio sarà di ECl =
-90mV.
Potenziale di equilibrio del K+:-: E’ la differenza di potenziale che si avrebbe a cavallo di una
membrana se il Na+ potesse attraversarla liberamente. Nel caso in cui il flusso ionico di K + fosse
uguale a 0, ossia quando il flusso di K+ è uguale nelle due direzione, l’Equilibrio sarà di EK =
-85mV.

Per calcolare questi valori è necessario rifarsi all’equazione di Nerst, che ci permette di trovare il
potenziale di equilibrio di ciascuno ione, a partire dalla concentrazione interna ed esterna di questo,
nel caso ideale che la membrana sia totalmente permeabile solo alla tipologia di ione considerato.
E = - dove E è il potenziale di equilibrio, R la costante dei gas, T la temperatura assoluta, F la
costante di Faraday e z la carica dello ione.
Come già detto, l’equazione di Nerst descrive il potenziale di membrana prodotto da un singolo
ione, nel caso ideale che la membrana sia permeabile solo a quello ione. La situazione che si
presente in realtà è molto diversa: la membrana non è mai permeabile ad una sola tipologia ionica,
ma a più di una. Per questo motivo si utilizza l’equazione di Goldmann, una derivazione di quella
di Nerst:
E = - dove P è la permeabilità dello ione.

Potenziale di membrana a riposo


Il potenziale di membrana varia fra -65mV (cellule nervose) e -90mV (cellule muscolari). Il
potenziale di membrana medio è di -70mV, a riposo. In questo caso, il Na + si trova più concentrato
all’esterno e tende ad entrare, sotto l’effetto del gradiente di concentrazione chimico e del gradiente
elettrico. Il K+, invece, è più concentrato all’interno e tende ad uscire sotto l’effetto del gradiente di
concentrazione chimico, ma a rientrare per effetto del gradiente elettrico. Il gradiente elettrico e il
gradiente chimico tendono a raggiungere un equilibrio dinamico. Il risultato è un valore medio fra i
vari potenziali di equilibrio degli ioni più influenti.

Pompa Na+ - K+
E’ l’elemento fondamentale per il bilanciamento dei flussi ionici di Na + e K+, attraverso la
membrana. La pompa, infatti, effettua un processo attivo di trasporto dei due ioni contro gradiente
elettrochimico. Essa utilizza, infatti, non i soliti canali ionici, ma particolari proteine
intermembranose.
3 ioni di Na+ si legano alla pompa, su siti specifici. L’idrolisi di ATP fornisce energia. La pompa si
apre verso l’esterno della cellula e, contemporaneamente, rilascia gli ioni Na + e lega 2 ioni K+. Ogni
3 ioni sodio espulsi, entrano due ioni potassio, in un rapporto, quindi, di 3:2. Questa pompa prende
il nome di pompa elettronegativa. A riposo, quindi, la cellula è in condizione di stato stazionario in
cui i flussi passivi attraverso i canali ionici sono continuamente equilibrati dai flussi attivi della
pompa Sodio-Potassio.

Un’attività cellulare dipendente dal gradiente di Na +: il trasporto di


glucosio
Facciamo un esempio pratico, per capire a cosa può servire avere, per la cellula, una differenza di
concentrazione (di sodio, per esempio), fra l’interno e l’esterno e come questo possa partecipare allo
svolgimento di alcune funzioni cellulari.
Qui in figura possiamo osservare una sezione di tubulo renale, ossia di quel sistema di tubicini che
permette al rene di convogliare il prodotto della filtrazione del sangue e di farlo diventare urina. Il
tubulo presenta un epitelio monostratificato, con cellule che presentano una membrana luminale
(rivolta verso il lume, a contatto col liquido prodotto dal rene) e una membrana basale (diretta verso
il liquido interstiziale).
La presenza del gradiente di sodio sulla membrana luminale, permette il riassorbimento del
glucosio. Finché il livello di glucosio nel sangue non raggiunge in certo limite, il sistema di
riassorbimento del glucosio è sufficiente per recuperare, dal liquido tubulare, tutto il glucosio che è
stato riversato dal rene nel tubulo. Nel caso, invece, che il glucosio sia presente in quantità
maggiori, questo viene recuperato in un modo diverso. Il glucosio però è una molecola di grandi
dimensioni, che non può attraversare la membrana, perché sulla membrana non sono presenti pori di
dimensioni sufficienti a farlo passare: deve, quindi, utilizzare un trasportatore. Quest’ultimo sfrutta
il gradiente del sodio: egli può legare sia il glucosio che il sodio. L’energia necessaria per trasferire
le molecole di glucosio verso l’interno della cellula viene proprio dal gradiente del sodio, il quale è
molto più concentrato all’esterno che all’interno. Le molecole di sodio, legandosi al trasportatore,
che a sua volte legano il glucosio, costringono il trasportatore ad effettuare il trasporto verso
l’interno della cellula. Molecole di glucosio entrano, pertanto, nella cellula, grazie agli ioni di sodio.
Il sodio, poi, viene ributtato fuori dalla pompa sodio-potassio. Una volta dentro, il glucosio viene
portato, grazie ad un altro trasportatore, fuori dalla cellula, dal lato della membrana basale.
Quindi, è importante ricordare come, nelle cellule dei tessuti eccitabili, la membrana cellulare può
alterare i valori del potenziale di membrana, fino a generare dei segnali elettrici di elevata intensità
che, non solo permettono di svolgere una funzione locale, ma che possono anche propagarsi a
grandi distanze.

Variazioni del potenziale di membrana


Abbiamo definito come unità di misura del potenziale di membrana (PdM) il mV (millivolt). La
rappresentazione delle variazioni del potenziale di membrana si può fare utilizzando un sistema di
assi cartesiani, in cui sulle ascisse poniamo il tempo (in ms) e sulle ordinate il PdM in mV. Su
questa scala utilizziamo la parte negativa, poiché il valore di riposo della cellula si stabilisce intorno
ai -70mV. Per cui, finché il PdM resta stabile, tracciamo una linea che rimane sempre allo stesso
valore. Abbiamo detto, però, che nelle membrane cellulari si manifestano delle variazioni del PdM,
determinate da variazioni della permeabilità ionica di sodio, potassio, ma anche calcio e cloro. Per
esempio, se entrano cariche positive, come gli ioni sodio, succede che il valore del PdM diminuisce
e avviene una cosiddetta depolarizzazione. Se le cariche positive entrate vengono fatte uscire,
avviene la cosiddetta ripolarizzazione. Se, infine, aumenta il numero cariche negative presenti
all’interno ( perché entrano cariche negative, come gli ioni cloro, o perché escono cariche positive),

avviene una iperpolarizzazione.

I potenziali graduati
I potenziali di piccola entità, vengono chiamati potenziali graduati. Questi vengono evocati dalla
presenza di uno stimolo, che andrà ad alterare il PdM. Se lo stimolo aumenta di intensità, aumenterà
di ampiezza la variazione del PdM: l’ampiezza è, quindi, direttamente proporzionale all’intensità
dello stimolo applicato. Più forte sarà lo stimolo, più ampio sarà il potenziale graduato. Le
variazioni del potenziale possono essere sia in senso depolarizzante che in senso iperpolarizzante. I
potenziali graduati possono anche propagarsi a breve distanza. Le alterazioni elettriche disturbano,
infatti, la situazione elettrica delle zone adiacenti: si dice, quindi, che il potenziale graduato si
propaga a breve distanza, mediante la manifestazione delle cosiddette correnti elettrotoniche.
Queste non sono altro che flussi ionici passivi, sia parallele che trasversali alla membrana. Queste
correnti elettrotoniche permetto al PdM di raggiungere zone adiacenti. Con l’aumentare
dell’intensità, ovviamente, diminuisce l’intensità della corrente elettrotonica.

Il potenziale d’azione e la legge del tutto o nulla


I potenziali graduati sono molto più piccoli, come variazione elettrica, del potenziale di azione
(PdA). Il potenziale graduato arriva al massimo intorno ai -40mV, mentre il PdA raggiunge lo 0, lo
supera e va a toccare il picco a valori positivi di potenziale. Il PdA è un fenomeno, quindi, molto
più imponente dei potenziali graduati, nel quale si ha anche un’inversione della distribuzione delle
cariche. Anche il PdA è accompagnato, nella sua propagazione, da correnti elettrotoniche.

Nella figura a sinistra abbiamo, sull’asse delle ascisse, il tempo (in ms) e, sull’asse delle ordinate, il
potenziale (in mV).
Allo stimolo d1 corrisponde il primo potenziale graduato, che sarà di ampiezza proporzionale
all’intensità dello stimolo. Allo stimolo d2, un po’ più intenso del d1, corrisponde il secondo
potenziale graduato, che quindi avrà un’ampiezza maggiore. Allo stimolo d3, ancora più intenso,
corrisponde un potenziale graduato molto ampio, che raggiunge la cosiddetta soglia (-40mV),
provocando un PdA. La soglia è un valore di differenza di potenziale, al di sopra del quale viene
innescato il PdA. In altre parole, essa rappresenta quel valore di differenza di potenziale che deve
essere raggiunta dal potenziale graduato, per poter provocare un PdA.

A differenza dei potenziali graduati (sotto-soglia), il PdA o avviene tutto, oppure non avviene: se la
soglia viene raggiunta, infatti, il PdA si manifesta, altrimenti non avviene. Gli stimoli sottoliminari
provocano i potenziali graduati. Uno stimolo liminare raggiunge la soglia, innescando un PdA e una
serie di processi a catena: lo stimolo liminare scatena un altro stimolo, questa volta sovraliminare,
che a sua volta ne scatena un altro, e così via. Tuttavia, è importante ricordare come, anche se il
potenziale graduato supera la soglia di un buon margine, il PdA derivante è sempre uguale, ossia ha
sempre la stessa ampiezza e la stessa durata. Il PdA ha, quindi, un’ampiezza costante, caratteristico
per il tipo di cellula. Questo può raggiungere lunghe distanze, ossia può arrivare a distanze molto

elevate, rispetto al punto in cui è stato provocato.


Facendo riferimento alla figura a lato, è possibile vedere come si propaga il potenziale graduato e,
di conseguenza, il PdA. Un potenziale graduato più ampio è associato a correnti più intense. Se ad
una certa distanza dal punto di stimolo (precisamente nella zona trigger), il potenziale graduato
raggiunge il valore soglia, allora questo provocherà un PdA, altrimenti tenderà a disperdersi e
diminuire progressivamente. Ecco, dunque, qual è il senso di stimoli più forti. Ci si potrebbe
chiedere, infatti: “Che senso ha effettuare stimoli più forti se, tanto, sopra soglia, il PdA è sempre
uguale, anche al variare dell’intensità dei potenziali graduati?”. La risposta è questa: uno stimolo
più intenso si disperde a distanze maggiori e, quindi, nel caso che la zona trigger sia piuttosto
distante, il potenziale graduato derivante da uno stimolo intenso, ha più possibilità di raggiungere la
zona trigger con valori ancora sovrasoglia e, di conseguenza, provocare un PdA.
Una caratteristica molto importante dei potenziali graduati è anche quella di potersi sommare:
• Sommazione spaziale: gli effetti degli stimoli che interessano aree adiacenti danno
origine a potenziali graduati che si sommano.
• Sommazione temporale: gli effetti degli stimoli che si succedono rapidamente su una
regione della membrana danno origine a potenziali graduati tanto ravvicinati nel tempo, che
un potenziale successivo si somma al precedente ancora non estinto. Un maggiore
ravvicinamento implica una maggiore sovrapposizione e, dunque, una maggiore ampiezza
risultante.

La secrezione di insulina
Quando le cellule del pancreas sono a riposo, non secernono insulina. Quando il glucosio nel
sangue aumenta, si vanno a chiudere i canali per il K +: il flusso normale di K+ attraverso questi
canali viene quindi ridotto. La membrana, così, si depolarizza. Questa depolarizzazione fa sì che si
aprano i canali voltaggio-dipendenti (ossia che dipendono proprio dalla depolarizzazione) per il
Ca2+, il quale entra nella cellula e, proprio meccanicamente, stimola la produzione di insulina, per
demolire il glucosio.

I canali voltaggio-dipendenti
E’ importante ricordare che l’insorgere di PdA è possibile solo in quelle cellule cosiddette
eccitabili, le quali presentano una membrana capace di depolarizzarsi e ripolarizzarsi, grazie alla
presenza di canali ionici, soprattutto canali voltaggio-dipendenti.

Questi appartengono ad un gruppo più generale di canali, che sono comunque proteine
transmembranali. La loro struttura tridimensionale permette il passaggio soltanto ad alcuni tipi di
ioni: esistono canali per il Na, alcuni per il K, ecc.
Un canale voltaggio dipendente presenta una porzione proteica, con delle cariche (positive o
negative), disposte secondo un dipolo, ossia distribuite in modo da formare un struttura che presenta
un’estremità positiva e una negativa. Facendo riferimento alla parte sinistra della figura, il campo
elettrico fa sì che il dipolo si orienti in modo da chiudere il canale. Se cambia la distribuzione delle
cariche attorno alla proteine, il dipolo tende ad aprirsi, permettendo il passaggio di ioni. La porta,
quindi, dipende dal campo elettrico di membrana.

I canali chemio-dipendenti
Qui, il passaggio fra uno stato aperto e uno stato chiuso, è fatto variare dal legame con una
particolare molecola chimica. Ogni volta che una molecola chimica si lega ad un recettore specifico
sulla proteina, questa cambierà la propria conformazione, aprendo o chiudendo il canale ionico. In
altre parole, la porta ha un sito di legame per una molecola messaggera e, in seguito al legame,
cambia posizione rendendo il canale pervio o impervio.

Stati dei canali ionici dipendenti


Nella famiglia dei canali ionici dipendenti, esistono:
• Dei canali a 2 stati, a cui appartengono i canali voltaggio-dipendenti per il K+
• Dei canali a 3 stati, a cui appartengono i canali voltaggio-dipendenti per il Na+
I primi presentano una sola porta, che apre il canale quando variano le condizioni elettriche o
chimiche circostanti e lo chiude quando le condizioni ritornano quelle iniziali (sono quelli appena

descritti).
I canali a 3 stati (attivato, chiuso e inattivato), invece, possiedono 2 porte, una all’ingresso del
canale e una all’uscita: la prima è la porta di attivazione, mentre la seconda è la porta di
inattivazione. La prima apre il canale quando variano le condizioni circostanti e lo chiude quando
tornano normali. La seconda chiude il canale mentre è attivo (ossia, lo inattiva), quando le
condizioni continuano a variare; questa porta si riapre, rimuovendo l’inattivazione, solo quando le
condizioni tornano normali. L’inattivazione è sempre successiva all’attivazione e limita la durata
del flusso di ioni.
Quindi, la prima porta, a causa della variazione elettrica, si apre, permettendo l’ingresso degli ioni.
Dopo un po’ di tempo, quindi con un po’ di ritardo, anche la seconda porta risente del cambiamento
elettrico e si chiude, inattivando il canale. La differenza fra i canali a 2 stati e i canali a 3 stati è che
i primi, quando il campo elettrico cambia, si attivano e, una volta alla situazione di riposo, si
chiudono. Nei secondi, quando il campo elettrico cambia, la prima porta si apre e, mentre il campo
elettrico permane nella sua variazione, si chiude la seconda porta, che inattiva il tutto. Al ritorno
alla situazione di partenza, la porta di inattivazione si riapre e si richiude la porta di attivazione.

Requisiti per il PdA


• Il potenziale di membrana deve essere mantenuto stabile, ossia possa partire da un
potenziale di riposo, definito dall’equilibrio di Goldmann, dall’attività della pompa sodio-
potassio e dalla permeabilità selettiva della membrana nei confronti del K e del Na.
L’equilibrio di questi elementi, permette che il potenziale di membrana venga mantenuto
stabile.
• Il PdA, però, si basa anche sulla possibilità di far variare questo equilibrio, ossia
attraverso i canali voltaggio-dipendenti per il Na e per il K e attraverso i vari canali passivi.

Il Potenziale di Azione (PdA) e il flusso ionico di Na+ e K+


Il PdA viene rappresentato su una base tempo espressa in ms e con una scala di valore in mV.
Per evocare un PdA è necessario uno stimolo, ossia una fonte di energia di natura elettrica, chimica,
meccanica o luminosa che provoca uno spostamento del potenziale di membrana dal livello di
riposto al livello di soglia. A questo punto, segue una rapida depolarizzazione, che raggiunge un
picco di +30mV. Una volta raggiunto il picco, il fenomeno si esaurisce e, attraverso una
ripolarizzazione, si torna al potenziale di membrana. Questo viene anche superato
(iperpolarizzazione) e, solo dopo, alcuni meccanismi riportano il potenziale all’equilibrio di
membrana. La forma e la durata di un potenziale d’azione possono variare secondo il tipo di cellula,

ma le sue componenti si mantengono:


• Una fase ascendente

• Una fase discendente

• Una fase di ritorno al valore iniziale

Vediamo dal punto di vista ionico cosa accade durante un PdA.

• A riposo, il PdM ha un potenziale di circa -70mV, con la presenza di piccole correnti di Na e K,


che sono compensate dalla pompa sodio-potassio.
• Lo stimolo per raggiungere la soglia deve poter provocare una depolarizzazione di almeno
15mV. Durante il raggiungimento della soglia si verifica uno squilibrio tra correnti di Na in
ingresso e di K in uscita. Quando la depolarizzazione raggiunge la soglia insorge un potenziale

d’azione.

• Insorge il PdA: in altre parole, quindi, il PdM raggiunge il valore di picco di +30mV. La
depolarizzazione risulta essere un segnale per i canali voltaggio-dipendenti per il Na, che si aprono
e permettono l’ingresso degli ioni Na: questi allontanano velocemente il valore di riposo della
membrana verso il picco, ossia verso il valore del potenziale di equilibrio del Na (circa +68mV),
anche se non lo raggiunge.

• Una volta raggiunto il picco, i canali per il Na si chiudono e si aprono quelli per il K, il quale
esce dalla cellula, comportando una ripolarizzazione della membrana, tornando ad un valore vicino
al potenziale di equilibrio del K (-95mV), sempre senza raggiungerlo. Tuttavia, questi sono molto
più lenti a richiudersi e provocano, per questo, un’iperpolarizzazione della membrana.

• Questo ciclo ricomincia, innescando un nuovo PdA. Fino a che non viene riaperta la porta di
inattivazione del canale voltaggio-dipendente per il Na, non parte un nuovo PdA. Questo è molto
importante e determina il fenomeno cosiddetto di refrattarietà, che è il proprio il tempo necessario
ai cancelli dei canali per il Na per ritornare alla condizione di riposo. La refrattarietà, quindi, limita
la frequenza dei PdA (i PdA, infatti, non possono sommarsi) e ne assicura lo spostamento
unidirezionale. Tra potenziale e potenziale devono passare almeno 10ms.

La propagabilità del PdA

La propagazione del potenziale d’azione è:

• Un processo veloce;
• Senza decremento (quindi non diminuisce, all’aumentare della distanza);

• Si propaga lungo la cellula (nervosa o muscolare).

Le correnti associate al PdA sono le correnti elettrotoniche. Facendo riferimento alla figura a lato,
possiamo vedere come, a potenziale di riposo, le correnti negative siano all’interno, mentre quelle
positive all’esterno. Nella zona in cui si trova il potenziale d’azione l’interno diventa positivo,
creando dunque una depolarizzazione locale. Grazie, poi, alle correnti locali, viene provocato un

potenziale d’azione anche nelle zone adiacenti.

Perciò, non si tratta di un’unica corrente che, diffondendosi, influenza le regioni adiacenti e che
viene smorzata con l’aumentare della distanza. Il PdA si rigenera sempre ex novo, in un preciso

tratto di membrana. Questo accade fino a che non viene raggiunta la periferia. Il potenziale
d’azione si rigenera lungo il percorso e il suo contenuto energetico viene trasferito interamente al
tratto di membrana successivo dove viene ricreato un nuovo PdA.

Le correnti elettrotoniche, che permettono la depolarizzazione della sezione di membrana adiacente


e, quindi, l’insorgere di un altro PdA, non si propagano solamente in avanti, ma anche indietro.
Tuttavia, le correnti che si propagano indietro, non riescono a generare un nuovo PdA, perché la
zona precedente è ancora in uno stato di refrattarietà: i PdA, quindi, si spostano in un’unica
direzione.

Se andiamo a misurare i fenomeni elettrici di una membrana con degli elettrodi, notiamo che, nel
punto in cui il PdA insorge, il fenomeno elettrico si delinea completamente (depolarizzazione,
ripolarizzazione, iperpolarizzazione e ristabilimento). Nel punto 2, il PdA ha depolarizzazione,
ripolarizzazione, ma non ha ancora completato la fase di iperpolarizzazione. Ecco che, quindi, le
correnti elettrotoniche possono provocare un PdA solo nei punti più vicini.

La velocità del PdA

La velocità di conduzione del potenziale d’azione dipende:

• Dal diametro della cellula: la resistenza interna Ri è inversamente proporzionale al diametro


della cellula. Perciò più è grossa la fibra e più bassa è la resistenza interna. La costante di lunghezza
(λ) è maggiore quando la resistenza interna è piccola. Dunque, le fibre con grande diametro hanno
una resistenza interna bassa e una costante di lunghezza maggiore; per questo motivo, la corrente si
propaga più velocemente, cioè percorre una distanza maggiore in un determinato tempo.

• Dalla mielinizzazione della fibra: la mielinizzazione determina un aumento delle proprietà


isolanti della membrana, perciò aumenta la resistenza di membrana (Rm). La costante di lunghezza
(λ) è maggiore quando la resistenza di membrana è grande.

La propagazione del PdA nelle cellule eccitabili dipende dalle loro proprietà fisiche. Perciò si dice
che le fibre eccitabili mostrano «proprietà di cavo».

Quindi, una cellula eccitabile può essere comparata ad un circuito elettrico:

1. La membrana è un isolante che impedisce la conduzione;

2. I canali ionici sono i conduttori (resistenza di membrana = Rm)


3. Il LIC e il LEC sono i conduttori (resistenze interna ed esterna = Ri e Re)

4. La pompa Na+ – K+ è il generatore di corrente

La costante di lunghezza sarà uguale a

Dunque, se aumenta la resistenza di membrana, aumenterà anche la costante di lunghezza.

La mielinizzazione è un fenomeno di formazione di una struttura accessoria alla fibra nervosa,


costituita dalle cellule di Schwann, che hanno la funzione di avvolgere le parti più delicate delle
cellule nervose, ossia gli assoni. Queste cellule si avvolgono sempre di più, fino a formare una vera
e propria guaina mielinica, che funge da isolante elettrico, aumenta la resistenza elettrica e non
permette variazioni del PdM. Fra i vari manicotti di mielina ci sono poi delle interruzioni, i nodi di
Ranvier: in questi punti, poiché non è presenta la guaina, il PdM è vulnerabile a variazioni; in
questo modo, durante la depolarizzazione le correnti non possono fluire attraverso la membrana
dove questa presenta alta resistenza e si propagano quindi lungo la fibra, all’interno, dove la
resistenza è più bassa, ossia solo lungo i nodi di Ranvier. Questo tipo di conduzione è chiamata
saltatoria ed è molto più rapida.

Riepilogo sul PdA

• Il potenziale d’azione è un fenomeno elettrico di membrana di tipo “tutto o nulla”;

• Consiste in una modificazione locale del valore del potenziale di membrana a riposo;

• Perché possa insorgere necessita di uno stimolo di intensità sufficiente da raggiungere la soglia
di depolarizzazione;

• Ha forma, durata e ampiezza caratteristiche e costanti per ogni tipo di cellula;

• Le fasi che lo caratterizzano sono: depolarizzazione e ripolarizzazione (+ iperpolarizzazione);

• Trova le sue basi ioniche in modificazioni successive della permeabilità di membrana per Na + e
K+ mediante la attivazione di canali voltaggio-dipendenti;
• Durante le fasi del PdA fluiscono nei due sensi, attraverso la membrana, correnti di ioni Na + in
ingresso e K+ in uscita, che producono sia l’alterazione che il ripristino del valore del PdM a riposo;

• Il potenziale d’azione è un fenomeno che si propaga velocemente e senza decremento lungo la


membrana di una cellula eccitabile mediante correnti elettrotoniche e, soprattutto, è un fenomeno
unidirezionale;

• La velocità di propagazione di un PdA dipende dal diametro della cellula e dalle proprietà
isolanti della membrana.

Le sinapsi

Una sinapsi è una struttura di collegamento funzionale fra due elementi eccitabili, che permette il
passaggio di informazioni da una cellula nervosa ad un’altra. La trasmissione sinaptica è, quindi,
l’invio a brevi distanze di segnali elettrici o segnali chimici. In questo modo, è possibile
raggiungere grandi distanze in poco tempo. La trasmissione sinaptica può avvenire sia fra due
elementi eccitabili che fra un elemento eccitabile e l’organo bersaglio.

Gli elementi che formano una sinapsi sono:

• L’elemento presinaptico

• Lo spazio sinaptico

• L’elemento postsinaptico

Le sinapsi possono essere divise secondo una classificazione strutturale in:

• Singole, quando esiste un solo elemento presinaptico e un solo elemento postsinaptico;

• Con divergenza, dove uno stesso elemento presinaptico si mette in contatto con diversi elementi
postsinaptici;

• Con convergenza, dove più elementi presinaptici si mettono in contatto con un solo elemento
postsinaptico.

Sempre secondo classificazione strutturale, abbiamo sinapsi:

• Asso-dendritiche, se il contatto è stabilito sui dendriti

• Asso-somatiche, se il contatto è stabilito sul corpo

• Asso-assoniche, se il contatto è stabilito direttamente con l’assone

Secondo classificazione funzionale, troviamo sinapsi:

• Elettriche

• Chimiche. Queste permettono la trasmissione si informazioni molto più elaborate.

Sempre secondo classificazione funzionale, abbiamo infine le sinapsi:

• Eccitatorie

• Inibitorie

Le sinapsi elettriche

Anche a livello delle sinapsi vige la regola dell’unidirezionalità dell’informazione sinaptica. In


questo tipo di sinapsi, lo spazio sinaptico è minimo (2nm) e le due membrane sono molto
ravvicinate. Esistono, poi, delle GAP junctions fra le due cellule sinaptiche.

La trasmissione del PdA avviene direttamente grazie alle correnti elettrotoniche. Quando il PdA
arriva al terminale assonico, è seguito da correnti elettrotoniche, che attraversano lo spazio
sinaptico, raggiungono la membrana postsinaptica e generano un nuovo PdA nel bottone
postsinaptico. Questo avviene perché i due bottoni sinaptici (e, a volte, anche grazie alle GAP
junctions) sono estremamente vicini fra loro. La corrente elettrotonica, dunque, provoca una
depolarizzazione nel bottone postsinaptico, con la conseguente insorgenza di un PdA. Queste
tipologie di sinapsi sono estremamente veloci, non presentano affaticamenti e non sono bersagli di
farmaci. Tuttavia, queste sinapsi non permettono la cosiddetta integrazione del segnale, ossia la sua
elaborazione: non consentono, quindi, informazioni troppo complicate e sono esclusivamente
eccitatorie. Ecco perché nel nostro organismo sono presenti quasi tutte sinapsi chimiche.

Le sinapsi chimiche

La prima caratteristica è che, a livello delle sinapsi chimiche, esiste un vero e proprio spazio
sinaptico, che rappresenta un’importante interruzione, impossibile da superare per semplice
diffusione elettrica: le correnti elettrotoniche non riescono a raggiungere il bottone postsinaptico. Le
sinapsi chimiche, quindi, hanno la necessità di convertire l’energia elettrica in energia chimica:
l’informazione viaggia attraverso l’invio di sostanze chimiche, i neurotrasmettitori, che andranno
ad influenzare dal punto di vista chimico la membrana postsinaptica, dando vita ad un nuovo PdA
nel bottone postsinaptico. Tutto questo impiega un certo tempo e provoca un ritardo sinaptico (10-

100ms).

Tuttavia, queste sinapsi sono molto recenti, dal punto di vista evolutivo: consentono la possibilità di
elaborare i vari segnali e trasmettere informazioni molto complicate. Comportano un certo
dispendio energetico e, quindi, si affaticano. Infine, presentano una vulnerabilità farmacologica e
sono sia eccitatorie che inibitorie.

La corrente elettrotonica, generata dal PdA, depolarizza la membrana, fino a giungere la parte
terminale del bottone presinaptico. L’arrivo del PdA, provocando una depolarizzazione della
membrana molto imponente, va a sollecitare i canali per il Calcio voltaggio-dipendenti, presenti
soltanto nella parte terminale del bottone presinaptico. Questi rispondono all’arrivo del PdA,
aprendosi: il calcio entra per gradiente chimico. L’ingresso del calcio nel terminale assonico, va a
stimolare un processo di migrazione di alcune vescicole, che racchiudono i neurotrasmettitori, verso
la membrana terminale del bottone presinaptico. Qui, le vescicole si fondono alla membrana,
rilasciando, per esocitosi, i neurotrasmettitori nello spazio sinaptico.
Questi raggiungono la membrana postsinaptica e si legano a degli specifici recettori, provocando la
conversione del segnale chimico in segnale elettrico.

E’ importante ricordare che, ogni tipo di neurone produce un solo particolare tipo di
neurotrasmettitore (Principio di Dale). I neurotrasmettitori liberati sono sempre un multiplo di un
numero definito. In altre parole, ogni vescicola trasporta sempre lo stesso numero di
neurotrasmettitori portati in ogni altra vescicola; quindi, il numero totale di neurotrasmettitori
liberati sarà uguale al prodotto fra il numero di vescicole e il numero di neurotrasmettitori in una
singola vescicola (liberazione quantale). I neurotrasmettitori utilizzati dall’organismo sono
l’acetilcolina (sinapsi colinergiche) e la noradrenalina (sinapsi adrenergiche).

Vicino ai siti di interazione dell’acetilcolina con la membrana sinaptica, c’è un enzima, chiamato
acetilcolin-esterasi, che ha il compito di degradare l’acetilcolina, non appena ha eseguito la sua
azione. Sul bottone postsinaptico sono presenti delle proteine, i recettori, capaci di riconoscere
l’acetilcolina. Una volta che questa ha reagito con il recettore, entra in azione l’enzima acetilcolin-
esterasi, che neutralizza la molecola.

I recettori sono altamente specifici per i neurotrasmettitori. La risposta che provocherà il


neurotrasmettitore, tuttavia, dipende dal recettore espresso dalla cellula bersaglio (o postsinaptica).
Per capire meglio, consideriamo un vaso sanguigno, che presenta un recettore di tipo α-adrenergico.
Nel momento in cui il neurotrasmettitore adrenalina si lega al recettore, provoca una vaso
costrizione. Se il vaso sanguigno, al posto del recettore α-adrenergico, presentasse invece un
recettore β-adrenergico, nel momento in cui il neurotrasmettitore adrenalina si lega, non
provocherebbe una vasocostrizione, ma una vasodilatazione. Ecco che, dunque, la risposta non
dipende dal neurotrasmettitore ma dal recettore specifico della cellula bersaglio o postsinaptica.

Ma come mai uno stesso neurotrasmettitore provoca risposte diverse, e anche contrari? Questo
perché esistono 2 tipi di recettori postsinaptici:

• I recettori ionotropi (ad azione diretta). Questi sono costituiti da una sola molecola proteica
transmembrana, che presenta un sito specifico per il neurotrasmettitore, ma che ha anche la
possibilità di aprire al suo interno un canale ionico. Nel momento in cui il neurotrasmettitore si lega
al sito, lo stesso recettore ionotropo apre il canale ionico. La risposta è molto rapida, proprio perché
tutto si svolge sulla stessa proteina.

• I recettori metabotropi (ad azione indiretta). Sono formati da due molecole distinte. La prima è
una molecola proteica, che presenta solo il sito specifico per poter legare il neurotrasmettitore. La
proteina canale che deve eseguire la risposta, invece, si trova a distanza. Nel momento in cui il
neurotrasmettitore si lega al sito sulla prima proteina, vengono emesse molecole messaggere, le
quali vanno ad agire sulla proteina canale, aprendola se è chiusa, o chiudendola se è aperta. La
risposta, ovviamente, è più lenta, ma più sofisticata. La complessità della risposta dipende dal
numero di messaggeri inviati alla proteina canale.

All’interno dei recettori colinergici troviamo il sottotipo cosiddetto nicotinico e il sottotipo


muscarinico (entrambi sensibili all’acetilcolina, ma il primo si lega molto bene anche alla nicotina,
mentre il secondo si lega bene anche alla muscarina). Questi recettori, dunque, presentano una
forma tale da poter legare sia l’acetilcolina che la nicotina, nel primo caso e sia l’acetilcolina che la
muscarina, nel secondo caso. I canali nicotinici sono ionotropi o ad azione diretta. Quando
l’acetilcolina o la nicotina (che quindi sono molecole agoniste, ossia si legano allo stesso sito,
provocando la stessa reazione; le molecola antagoniste, invece, riescono sempre a legare il sito, ma
non producono una risposta e, quindi, bloccano la trasmissione) si legano al sito, hanno una
funzione eccitatoria, ossia provocano un PdA nel bottone postsinaptico. I recettori muscarinici sono,
invece, del tipo ad azione indiretta (articolate in due molecole). In questo modo, permettono ai
recettori di essere sia di tipo eccitatorio (EPSP) che inibitorio (IPSP).

Convergenza di neuroni, sommazione e inibizione

Consideriamo il caso della figura sotto, in cui 3 neuroni presinaptici vanno ad influenzare un unico
neurone postsinaptico: è il caso della convergenza. Nel caso (a), tutti e 3 i neuroni presinaptici sono
di tipo eccitatorio. Tuttavia, questi scaricano 3 potenziali graduati, tutti sotto soglia. Nel momento
in cui i potenziali graduati, però, raggiungono il bottone postsinaptico, si sommano, raggiungendo
così la zona trigger con valore sopra soglia e dando vita ad un PdA.

Nel caso (b), solo 2 afferenze sono eccitatorie, e una inibitoria. Se la somma delle 2 eccitatorie è
uguale a quella inibitoria, le 3 informazioni si annullano a vicenda e la zona trigger non sarà
raggiunta da una corrente sufficiente da far partire un PdA.

Oltre alla sommazione appena vista (sommazione spaziale), esiste anche la sommazione temporale,
che si verifica quando due potenziali graduati provocati da uno stesso neurone presinaptico si
sviluppano a breve distanza temporale e le correnti ad essi associate si sommano nel propagarsi
verso la zona trigger, dando vita ad un PdA.

L’inibizione può essere di tipo presinaptico e postsinaptico. Nell’inibizione presinaptica, un


neurone cosiddetto modulatore effettua una sinapsi su un collaterale del neurone presinaptico,
inibendo quindi uno dei bersagli. Nell’inibizione postsinaptica, invece, tutti i bersagli postsinaptici
vengono inibiti: questo perché al bottone postsinaptico scaricano sia un segnale eccitatorio che uno
inibitorio, la cui somma risulta sotto soglia e non provoca un PdA.

La giunzione neuromuscolare

Riguarda il meccanismo con cui il sistema nervoso invia impulsi per la contrazione muscolare. Si
tratta di una sinapsi chimica. La giunzione muscolare, morfologicamente, vede delle terminazioni
nervose, collegate alla membrana della cellula muscolare, che svolge il ruolo di elemento
postsinaptico. La membrana postsinaptica presenta un’invaginazione per accogliere la terminazione
nervosa e delle ripiegature, che hanno l’obiettivo di aumentare la superficie di contatto fra i due
elementi sinaptici (le ripiegature aumentano anche il numero di recettori postsinaptici, rendendo il
processo di trasmissione neuromuscolare molto efficiente). Interessante ricordare come in questo
tipo di sinapsi, esiste un cosiddetto rapporto di trasmissione unitario, ossia alla terminazione
presinaptica arriva sempre un PdA, il quale si trasmette in maniera eccitatoria alla cellula bersaglio,
provocando un altro PdA (non c’è, quindi, richiesta di sommazione di potenziali graduati, per poter

raggiungere la soglia).

Il tipo di sinapsi è quella colinergica, ossia viene liberata l’acetilcolina dal motoneurone, la quale si
lega al recettore postsinaptico ionotropo, ad azione diretta (i recettori ionotropi colinergici sono
quelli nicotinici). L’acetilcolina, quindi, si lega al recettore ionotropo, che è anche un canale
cationico, il quale si lascia attraversare anche dal Na+ e dal K+. Il legame, quindi, permette
l’apertura del canale e il Na+ comincia ad entrare, provocando una depolarizzazione e, quindi,
l’insorgere di un PdA. Infine, l’acetilcolina viene demolita dall’enzima acetilcolina-esterasi. Il
potenziale d'azione, così generato, si propaga all'interno della cellula e dei tubuli trasversi, grazie
all'apertura dei canali Na+ voltaggio dipendenti. L'attivazione di recettori presenti nella membrana
di questi tubuli T fa aprire specifici canali per il rilascio del Ca2+, situati nelle cisterne terminali
del reticolo sarcoplasmatico.

Il calcio liberato dalle cisterne diffonde quindi nel citosol, raggiungendo concentrazioni 100 volte
superiori alla condizione di riposo e dando inizio alla contrazione muscolare.
Il muscolo

I muscoli scheletrici

Il muscolo scheletrico, insieme alle ossa, permette la deambulazione: è, quindi, volontario.

La striatura qui presente, è assente nel muscolo liscio (involontario). Il muscolo cardiaco, invece,
presenta caratteristiche molto simile a quelle del muscolo scheletrico, ma non è controllabile dalla
volontà.

Il muscolo scheletrico è un organo, che effettua la trasformazione di energia chimica in energia


meccanica. Utilizza un sistema metabolico e contrattile, tale da permette il lavoro meccanico, ossia
il movimento. Tuttavia, una gran parte dell’energia usata dal muscolo scheletrico viene trasformata
in calore: per questo motivo, i muscoli scheletrici servono anche per la termoregolazione.

Se prendiamo un muscolo e lo analizziamo in sezione, troviamo delle strutture connettivali di


rivestimento, che racchiudono le singole cellule muscolari, dette fibre muscolari. Ogni fibra
muscolare ha la stessa lunghezza dell’intero muscolo, ossia si estende da un estremo tendineo a
quello successivo. Il muscolo intero, infatti, è costituito da fasci di fibre muscolari, che decorrono
parallelamente. Le fibre muscolari sono cellule allungate polinucleate, perché derivanti dalla
confluenza di più cellule iniziali, i mioblasti: ogni fibra è, dunque, un sincizio. Interessante è
ricordare come il numero di cellule che formano un muscolo è geneticamente determinato: un
muscolo, quindi, non ingrossa perché aumenta il numero di cellule che lo compone, ma perché
aumenta il numero di proteine presenti all’interno di ogni singola cellula. Queste fibre muscolari
multinucleate sono circondate dal sarcolemma (ossia la membrana cellulare che circonda ogni fibra
muscolare); il sarcolemma, quindi, contiene i nuclei (addossati alla parete cellulare), il sarcoplasma
(ossia il citoplasma, che occupa pochissimo del volume totale della fibra), il reticolo
sarcoplasmatico e, ovviamente, le proteine contrattili (che occupano la maggior parte del volume
della fibra): queste sono la miosina e l’actina. Queste due sono organizzate in un modo
estremamente organizzato, a formare le cosiddette miofibrille. All’interno di ogni singola fibra
muscolare, quindi, troviamo queste miofibrille, ossia dei filamenti che vano dal polo al polo
opposto della fibra muscolare. Ogni miofibrilla è formata da altre strutture filamentose: i
miofilamenti. Questi sono raggruppamenti di proteine contrattili polimerizzati: actina e miosina,
infatti, non sono sparse nel citoplasma, ma si organizzano a formare questi miofilamenti. Due
molecole di miosina, per esempio, si uniscono a formare una struttura dotata di una coda e di una
testa. Tante strutture di questo tipo, a loro volta, si aggregano a formare un miofilamento. Un
miofilamento di miosina viene detto filamento spesso: questo è costituito da una struttura centrale,
dalla quale sporgono le varie teste della miosina. L’actina, invece, è formata da alcuni elementi base
(G-actina), che polimerizzano e divengono filamenti (F-actina): due molecole di F-actina si
avvolgono su se stessi a formare un filamento sottile.

Questi filamenti spessi e sottili si organizzano nel cosiddetto sarcomero, l’unità contrattile vera e
propria. I filamenti spessi si sistemano parallelamente gli uni agli altri e vengono tenuti in asse da
alcune proteine accessorie, che formano la linea M. I filamenti sottili, invece, sono ancorati ad una
struttura di sostegno, chiamata linea Z o disco Z e sono interposti ai filamenti spessi. Ogni
sarcomero è delimitato, quindi, da due dischi Z consecutivi. La parte in cui sono presenti i filamenti
spessi è chiamata banda A, mentre quella in cui ci sono i filamenti sottili è detta banda I. Tuttavia,
la banda A non è costituita solo da filamenti spessi; questi, infatti, li troviamo da soli, unicamente
nella parte centrale della banda A, ossia nella banda H. La banda A è, in realtà, costituita,
centralmente da filamenti spessi di miosina (banda H), e lateralmente da filamenti spessi e sottili,
intrecciati. Un sarcomero, dunque, è costituito da metà banda I, una banda A e un’altra mezza banda

I.

Tanti sarcomeri insieme formano la miofibrilla.

Oltre all’actina e alla miosina, troviamo poi altre proteine, come la nebulina, che aiuta l’actina a
mantenere il suo allineamento, o la titina, che invece aggiunge elasticità e stabilizza la miosina.
Altre proteine molto importanti sono la tropomiosina e la troponina. La prima è una proteina
filamentosa, che si adagia nei solchi formati dall’avvolgimento dei 2 filamenti di F-actina. La
tropomiosina, insieme alla troponina, hanno una funzione regolatoria: il sistema di regolazione del
muscolo scheletrico è associato, quindi, al filamento sottile.

Teoria dello scorrimento dei filamenti e il Ciclo di Cross Bridges

Quando il muscolo si accorcia, è stato scoperto che i filamenti continuano a possedere la propria
lunghezza: non si accorciano! Ma perché? L’accorciamento avviene, a livello del sarcomero, perché
i filamenti scorrono gli uni rispetto agli altri.

Durante la contrazione, quindi, avviene un’interazione fra i filamenti sottili e quelli spessi, tale che
questi ultimi trascinano i filamenti sottili verso il centro del sarcomero, provocando l’avvicinamento
delle linee Z. La contrazione, dunque, è data dallo scorrimento dei filamenti sottili su quegli spessi.

Quando il sarcomero è completamente contratto, sia la banda H che le bande I non sono visibili;
pian piano che il sarcomero si decontrae, ricompaiono le due bande I e, solo a riposo, torna visibile
anche la banda H. Il sarcomero, infine, è detto iperteso quando la banda H diviene grande quanto la
banda A. (Fai riferimento alla figura: aiuta molto).

Analizziamo, ora, la cosiddetta relazione tensione-lunghezza. La tensione sviluppata da una fibra


muscolare durante la contrazione è, infatti, correlata alla lunghezza del sarcomero. Nel grafico
poniamo, in coordinata, la forza esercitata dal muscolo e, in ascissa, il grado di allungamento del
sarcomero. Partiamo da una posizione di riposo in cui, se il muscolo si contrae, sviluppa il massimo
della forza possibile. Se, invece, il sarcomero viene allungato o accorciato, questo eserciterà una
forza molto più piccola. Ma perché? Nel primo caso, ossia nel caso che il sarcomero venga
allungato, la spiegazione è piuttosto ovvia: la forza, che è prodotta dalla sovrapposizione di actina e
miosina, diminuisce perché i filamenti sottili e quelli spessi vengono allontanati gli uni dagli altri e,
di conseguenza, l’interazione fra di essi diminuisce.

Nel secondo caso, invece, l’accorciamento del sarcomero non fa altro che intrecciare i filamenti
sottili e quelli spessi, i quali si ostacolano a vicenda.

Ma vediamo adesso, nello specifico, come avviene lo scorrimento dei filamenti.

A riposo, la tropomiosina copre i siti di legame per la miosina sulle molecole di actina. Un
improvviso aumento di concentrazione di ioni Ca2+, permette il legame fra gli ioni calcio e la
troponina; in questo modo, la posizione delle proteine regolatorie cambia e scopre i siti di legame
per la miosina. A questo punto, dunque, si ha l’attacco delle teste di miosina ai siti di legame
dell’actina e la formazione dei ponti crociati (cross bridges). Adesso si ha un idrolisi di una
molecola di ATP, che permette lo scorrimento dei ponti crociati, i quali trascinano i filamenti di
actina. Terminato questo passaggio, si ha la rottura dei ponti crociati e l’ATP si lega nuovamente
alle teste della miosina. Il ciclo ricomincia (Ciclo di cross bridges).

La forza che viene prodotta da un singolo sarcomero è proporzionale al numero di ponti crociati che
si vengono a formare. Il massimo grado di sovrapposizione per produrre la forza massima possibile
si ha quando il sarcomero possiede una lunghezza di circa 2,2 µm.
L’accoppiamento eccitazione-contrazione

Il motoneurone porta un PdA. A livello della giunzione neuromuscolare viene rilasciata


l’acetilcolina, la quale diffonde nello spazio sinaptico, dove incontra i recettori colinergici-
nicotinici. L’interazione apre dei canali chemio-dipendenti, che provocano un flusso di correnti di
ioni positivi di ingresso (Na+): questo depolarizza la membrana e si forma il cosiddetto potenziale
postsinaptico eccitatorio (con eccitazione locale proporzionale alla quantità di ioni rilasciati),
associato a correnti elettrotoniche, le quali raggiungono una parte della membrana successiva,
provocando l’entrata di altri ioni Na+, che indurranno una depolarizzazione e un conseguente PdA.

Quindi, complessivamente, l’effetto del motoneurone è quello di provocare l’insorgenza di un PdA


sulla membrana della cellula muscolare. Fin qui, però, sono tutti fenomeni di tipo elettrico. Nel
sarcolemma sono presenti delle particolari strutture, che permettono la comunicazione elettrica
all’interno della cellula.

Se prendiamo una sezione di un muscolo e isoliamo una singola fibra, individuando al suo interno
le miofibrille, notiamo come queste sono molto ravvicinate le une alle altre e, soprattutto, sono
accompagnate da strutture intracellulari accessorie del reticolo sarcoplasmatico, che vanno a
circondare ogni singola miofibrilla: i tubuli T. Il centro del sarcomero è accerchiato da un sistema
reticolare, che va a formare, ai due lati, delle cisterne terminali. Fra due cisterne terminali adiacenti
sono presenti i tubuli T, pieno di liquido extracellulare, il quale non viene mai a contatto col liquido
intracellulare. Un tubulo T e le due cisterne terminali affiancate formando una cosiddetta triade. La
funzione del tubulo T è quella di portare il PdA, che sta viaggiando lungo la membrana, a viaggiare
anche all’interno della fibra muscolare (altrimenti resterebbe un fenomeno elettrico di superficie e
solamente i sarcomeri superficiali ne sarebbero influenzati). Il reticolo sarcoplasmatico è la riserva
di calcio: grazie a questo, all’interno della cellula è presente già una cospicua quantità di ioni calcio,
che saranno attivati al momento opportuno per dare vita alla contrazione.

Ma come avviene l’interazione fra eccitazione, rilascio del calcio e contrazione?

Quando arriva il PdA al tubulo T, la membrana di quest’ultimo si vede invertire la disposizione


delle cariche: entrano, dunque, cariche positive all’interno. Quest’alterazione elettrica va a
provocare una modificazione della conformazione di una proteina di membrana (DHPR): è il
recettore per la diidropiridina (si crea, quindi, solo una modificazione conformazionale, ma non si
apre nessun canale). Questa, però, è in contatto con un’altra struttura di membrana (RYR), ossia il
recettore per la rianodina, il quale è un vero e proprio canale di membrana. Quest’ultimo è
sensibile alla variazione del DHPR: alla variazione, il recettore si apre e libera il calcio, che si trova
accumulato all’interno. L’aumento della concentrazione di calcio avviene proprio in prossimità
della troponina, permettendo l’interazione fra actina e miosina. Questo avviene per ogni singola
cellula muscolare.

Quando la contrazione deve finire, viene interrotta la trasmissione neuromuscolare e il calcio viene
riaccumulato, tramite trasporto contro gradiente di concentrazione di una pompa per il calcio ATP-
dipendente, nel reticolo sarcoplasmatico.

L’accoppiamento eccitazione – contrazione, quindi, rappresenta una trasformazione di un impulso


elettrico, in uno chimico e in uno meccanico.

Modalità di contrazione muscolare

La contrazione muscolare può avvenire secondo due manifestazioni:


• Secondo una contrazione isometrica: avviene mantenendo la lunghezza del muscolo a livelli
costanti.

• Secondo una contrazione isotonica: avviene mantenendo la tensione del muscolo a livello
costanti. La forza, infatti, derivante dalla contrazione, viene portata fino ad un certo livello e
mantenuta.

Un muscolo che si contrae in modo isotonico è, per esempio, quello che deve sollevare un peso di
20kg. Il muscolo, quindi, può aumentare il suo livello di forza, fino a che raggiunge il una forza
corrispondente al peso. Una volta raggiunto, il muscolo mantiene la forza sviluppata. Non c’è
bisogno che si sviluppi più forza del necessario: è sufficiente una forza uguale al peso, per
sollevarlo, mai maggiore.

Se la contrazione, invece, è isometrica (che normalmente si ha quando il carico opposto è superiore


al valore massimo che il muscolo può sopportare, come un muro cementato a terra), il muscolo si
contrae e sviluppa la forza massima consentita. Nonostante questo, il carico opposto sarà sempre
superiore alle possibilità del muscolo: questo non riuscirà ad accorciarsi. Per questo motivo, non
possiamo dire che il muscolo si accorcia, ma solo che si contrae.

Le fibre muscolari di un muscolo scheletrico non comunicano fra di loro: non hanno relazioni né di
tipo elettrico o citoplasmatico. Ogni cellula, quindi, per potersi contrarre, deve ricevere uno stimolo
da una precisa terminazione nervosa. Ogni fibra è chiamata unità motoria o motrice.

Le fibre muscolari scheletriche vengono classificate anche in base al tipo di metabolismo che
presentano: questo lo possiamo mettere in relazione col colore del muscolo. Esistono i muscoli rossi
e i muscoli bianchi. Le fibre bianche sono quelle che hanno il diametro maggiore e che effettuano
contrazioni molto rapide: sviluppano più forza ma in poco tempo. Le fibre rosse, invece, sono
quelle che contengono più mioglobina e che, pertanto, non producono grandi quantità di forza ma
devono solamente resistere per moto tempo in contrazione (muscoli posturali, ecc.) e che, dunque,
necessitano di un grande apporto di ossigeno.

Facendo riferimento al grafico a lato, possiamo vedere come, ogni volta che la fibra muscolare
viene raggiunta da un PdA, lo sviluppo di forza segue un tipico andamento a curva gaussiana: si ha
una crescita, un picco e una decrescita, tornando ai valori di riposo.

Se la sequenza dei PdA arriva in modo molto distanziato, ad ogni PdA corrisponde una singola
scossa (caso a). Quando la frequenza dei PdA aumenta, può capitare che la contrazione
corrispondente al primo potenziale non sia ancora terminata quando viene inviato il secondo PdA:
le due scosse, quindi, si sommano; il risultato è quello di raggiungere due picchi distinti di forza
prodotta, dei quali il secondo picco è più alto (caso b). Se, infine, una fibra muscolare viene
stimolata così rapidamente da non avere alcuna possibilità di rilasciamento tra uno stimolo e il
successivo, avviene una contrazione massima e persistente, detta tetano (caso c).

Determinanti della forza

Fra le determinanti della forza, troviamo:

• Il diametro della fibra: questo, infatti, influenza il numero di ponti actina-miosina che si
possono formare; in una fibra di grosso diametro è maggiore il numero di miofibrille, quindi il
numero di sarcomeri in parallelo, perciò il numero di filamenti spessi e sottili che possono interagire
e, di conseguenza, anche il numero di cross bridges che si formano e sviluppano forza.

• La lunghezza dei sarcomeri: influenza il numero dei ponti actina-miosina che si possono
formare.

• I tipi di miosina: la miosina esiste in 3 diverse isoforme principali nel muscolo scheletrico;
queste mostrano, fra loro, valori medi di massima forza diversi e velocità di contrazione diversa.
• La frequenza di stimolazione: ossia quello che abbiamo detto precedentemente, riguardo a
quanto viene stimolato un muscolo a contrarsi, fino a raggiungere il tetano.

Il muscolo cardiaco

Il muscolo cardiaco è anch’esso striato. E’ composto, infatti, da fibre muscolari, costituite al loro
interno da materiale contrattile altamente regolare. Quello che cambia è la modalità di produzione
della contrazione e il rapporto che si viene a stabilire fra una cellula e l’altra.

Il cuore si divide in 4 camere. La parete di ogni camera è costituita da strati sovrapposti di cellule
muscolari striate, i miociti. Questi sono fibre più irregolari, con tante estroflessioni, che permettono
lo stabilimento di connessioni, in modo da formare una rete tridimensionale di elementi cellulari. Il
rapporto, però, è anche funzionale: a livello di queste strutture esistono delle GAP junctions, che
permettono alle correnti elettrotoniche di attraversare le varie cellule. Per questo motivo, nel cuore
non c’è bisogno che ogni cellula sia raggiunta da una fibra nervosa, poiché le correnti si spandono
uniformemente in tutte le cellule, grazie alle giunzioni.

Il tessuto cardiaco, il miocardio, viene suddiviso in:

• Miocardio di lavoro, composto da tutte le cellule che possiedono capacità contrattile;

• Miocardio di conduzione composto da cellule che hanno perso completamente la capacità


contrattile e che si sono sviluppate nella conduzione elettrica. Queste si trovano distribuite in punti
particolari della massa cardiaca.

• Il sistema di conduzione del cuore è concentrato nella parete dell’atrio destro, allo sbocco della
vena cava, dove formano il nodo seno-atriale. Poi troviamo una seconda formazione, nel passaggio
fra il setto interatriale e il setto interventricolare, ossia il nodo atrio- ventricolare. Infine, troviamo
tutta una serie di elementi cellulari allungati, che decorrono all’interno del setto interventricolare e
che corrisponde al fascio di His. Da questo si dipartono delle cellule allungate, talmente sottili da
sembrare delle fibre nervose, che sono le fibre di purkinje, le quali hanno la funzione di diffondere
a tutta la massa cardiaca l’impulso elettrico. Queste cellule di conduzioni sono estremamente
importanti, poiché possono, in maniera del tutto indipendente, scatenare dei PdA interni al cuore:
non è necessario, quindi, che il cuore riceva un PdA da un elemento nervoso, che si debba mettere a
contatto.

Accoppiamento eccitazione-contrazione

Esiste anche nelle cellule miocardiche un affiancamento di miofibrille, che occupano tutto il volume
della cellula. Ogni miofibrilla è circondata dal reticolo sarcoplasmatico. Il sistema di accoppiamo
eccitazione contrazione è formato da reticolo sarcoplasmatico e sistema tubulare trasverso (ossia i
tubuli T). I tubuli T hanno, qui, un diametro 5 volte superiore: questo significa che saranno ricchi di
una quantità di liquido extracellulare maggiore; il calcio per la contrazione per il muscolo cardiaco,
infatti, oltre che dal reticolo sarcoplasmatico, arriva anche dal LEC, ossia dai tubuli T. Nel cuore,
inoltre, oltre alle triade, troviamo anche delle formazioni di tubuli T corrispondenti alla linea Z.

Come avviene l’accoppiamento eccitazione-contrazione nel cuore?Confronto muscolo scheletrico-


muscoLo cardiaco
Arriva un PdA, si depolarizza la membrana, che va ad influenzare il DHPR, il quale si comporta,
questa volta (a differenza del muscolo scheletrico) da canale. Il calcio entra secondo gradiente
elettrochimico nel citoplasma. Ma non è sufficiente questa quantità di calcio. Ecco che, quindi,
bisogna reclutare anche il calcio nel reticolo sarcoplasmatico. Il calcio stesso va a legarsi al canale
per il calcio, aprendolo. Si parla, quindi, di rilascio del calcio, indotto da calcio. Gli ioni calcio,
ovviamente, andranno a legarsi alla troponina, per dare inizio alla contrazione. Quando le cellule
devono rilasciarsi (sempre in modo alternato; ad ogni contrazione, deve seguire sempre un
rilasciamento), si interrompono i segnali elettrici, il calcio viene ripompato all’interno del reticolo
sarcoplasmatico e una parte viene ributtato nel LEC da una pompa Na-Ca.

Relazione tensione – lunghezza

Abbiamo visto come, nel muscolo scheletrico, i sarcomeri lavorino al massimo della loro forza
quando mantengono lunghezze intorno ai 2,2 µm, ossia nel caso in cui si possa venire a formare il
maggior numero di ponti bridges.

La relazione tensione-lunghezza assume un aspetto molto diverso nel muscolo cardiaco.

Intanto, come prima cosa da ricordare è la differenza tra forza passiva e forza attiva, che troviamo
anche nel muscolo scheletrico, ma che non abbiamo analizzato singolarmente (la forza totale
analizzata nel muscolo scheletrico, infatti, è la risultante delle due forze).

La forza passiva è la forza che si genera nel muscolo quando questo è stirato passivamente;
facciamo un esempio per capire meglio. Se prendiamo una molla e la tiriamo, notiamo subito che
nella molla si accumula una forza, una tensione, e lo noti perché, per tenerla stirata, noi stessi
dobbiamo eseguire una forza; col muscolo è lo stesso: se lo prendiamo e lo tiriamo, si viene a
sviluppare una forza: questa è proprio la tensione passiva.

La forza attiva, invece è la forza che il muscolo è in grado di generare da solo. Nel caso del
muscolo scheletrico, la forza attiva massima è la forza generata a lunghezze di 2,2µm.

Nel muscolo cardiaco, la situazione è differente: questo perché il cuore alterna due fasi, una in cui si
contrae (sviluppo attivo di forza) e una in cui è rilasciato (sviluppo passivo di forza). Queste fasi
sono sempre alternate e sono necessarie al funzionamento del cuore. Inoltre, il cuore deve poter
potenziale la sua capacità contrattile e il suo grado di riempimento, per poter sopportare la richiesta
da parte dell’organismo.

Osserviamo, adesso, il grafico a lato, riguardo alla relazione tensione-lunghezza nella sistole e nella
diastole. Durante la sistole (fase di contrazione), la tensione attiva è rappresentata da una linea
estremamente ripida, che si solleva con una grande rapidità. Quando il cuore si trova in diastole
(fase di rilasciamento), invece, possiamo notare come la linea corrispondente alla tensione passiva
sia poco ripida. Ma cosa significa questo? Ciò ha un importante conseguenza: il muscolo cardiaco,
ad una determinata lunghezza, sviluppa meno forza del muscolo scheletrico; tuttavia, anche una
piccola variazione della lunghezza del muscolo provoca un aumento della forza molto elevato.

Il muscolo cardiaco, rispetto al muscolo scheletrico, lavora ad una potenzialità molto ridotta: lavora,
infatti, in condizioni di riposo, a lunghezze di sarcomero che gli consentono uno sviluppo di forza
circa del 30% di quelle che sono le sue capacità massime. Questo significa che, a riposo, il cuore
garantisce tranquillamente l’apporto di sangue a tutto l’organismo; tuttavia, questo lavoro può
essere notevolmente aumentato, in caso di bisogno, ossia se l’organismo lo richiede. Questa
relazione è stata studiata da Frank e Starling: il muscolo cardiaco regola la forza della sua
contrazione, la sistole, in relazione alla quantità di sangue presente nel ventricolo alla fine
della diastole: più sangue sarà entrato, più ne sarà eiettato, garantendo così l'equilibrio tra
il precarico (ritorno venoso) e la gittata cardiaca.

Esprime, quindi, la capacità del riempimento ventricolare e la funzione di pompa del cuore
(funzione contrattile). Il riempimento ventricolare, infatti, indica quanto la parete del ventricolo può
essere dilatata. In caso di riposo, la camera ventricolare si riempie di un certo volume di sangue e la
parete viene distesa poco: ogni cellula che forma la parete viene allungata poco. Se aumentiamo il
riempimento ventricolare, la parete di distende grazie al fatto che ogni singola cellula si allunga
maggiormente. Per questo possiamo far coincidere il riempimento ventricolare con il grado di
allungamento dei sarcomeri. Tuttavia, mentre nel muscolo scheletrico allungare i sarcomeri implica
necessariamente una caduta di forza, nel muscolo cardiaco questo significa portare le singole cellule
verso quella che è la lunghezza ottimale per lo sviluppo massimo di forza. Il muscolo cardiaco,
dunque, può guadagnare forza nella contrazione quando il sarcomero si allunga (questo proprio per
il fatto che, a differenza del muscolo scheletrico, il cuore a riposo non sviluppa il massimo di forza,
ma solo il 30%).

Determinanti della forza nel muscolo cardiaco

Nel muscolo cardiaco, i determinanti della forza sono:

• La lunghezza dei sarcomeri (secondo la relazione di Frank-Starling). Aumentare la lunghezza


dei sarcomeri, aumenta la forza.

• Il numero di strati che formano le pareti del cuore. Una parete cardiaca con più strati di cellule
ha l’effetto di avere una contrazione maggiore.

• Le isoforme di miosina. Alcuni tipi di miosina si contraggono più velocemente e con più forza.

• L’influenza del SNA. Questo regola l’attività cardiaca, adattandola alla necessità dell’organismo.

• La quantità di calcio intracellulare.

Periodi refrattari e sommazione della forza

Nel muscolo scheletrico ad ogni PdA corrisponde sempre una nuova contrazione, che si può
sommare a quella precedente, fino a raggiungere il tetano.

Nel muscolo cardiaco, invece, il fenomeno elettrico mostra un andamento particolare. Il PdA
cardiaco ha una durata molto più lunga rispetto a quella della fibra muscolare scheletrica. Quindi,
cosa accade? Accade che non esiste quasi più lo sfasamento fra fenomeno elettrico e fenomeno
meccanico: finiscono per coincidere, dal punto di vista temporale. Quando sarà terminato il
fenomeno elettrico (quando la cellula sarà nuovamente tornata eccitabile e si viene, quindi, a
formare un nuovo PdA), la contrazione corrispondente sarà già esaurita. Ogni volta che abbiamo un
PdA, abbiamo una contrazione, che termina col terminare del PdA. Per questo motivo, nel cuore i
vari PdA non si possono sommare. Il fatto che i PdA non si sommino, permette il rilasciamento.

Il muscolo liscio

Il muscolo liscio non presenta striature, ma presenta un comportamento simile al muscolo cardiaco.
Lo troviamo a formare la parete degli organi cavi (vasi sanguigni, stomaco, tubo gastro-intestinale,
vescica, ecc.) e non è mai inserito su degli estremi ossei. E’ un muscolo del tipo involontario.

La maggioranza dei muscoli lisci, a differenza del cuore, hanno la necessità di ricevere l’impulso
nervoso da alcune terminazioni nervose, derivanti del SNA.

Nel muscolo liscio, non sono presenti sarcomeri: i filamenti spessi e sottili sono, infatti, organizzati
in modo regolare. Come nel muscolo scheletrico, la contrazione necessita di ioni calcio per formare
i ponti crociati fra actina a miosina, ma con modalità differenti.

Le contrazioni dei muscoli lisci sono molto lente e prolungate nel tempo.

Le fibre sono fusiformi e affusolate alle estremità. Possiedono un unico nucleo centrale allungato e,
nel sarcolemma, la membrana plasmatica presenta delle invaginazioni dette caveole. Queste hanno
un significato poco chiaro: sembrano essere come piccoli accenni di tubuli T. Tutte queste fibre
sono collegate fra loro o tramite desmosomi o tramite giunzioni GAP.

I muscoli lisci possono essere divisi in due gruppi:

• Il muscolo liscio unitario. E’ costituito da cellule collegate fra loro, tramite GAP junctions, a
formare degli strati sovrapposti. Il numero delle innervazioni che raggiungono questo tipo di parete
è abbastanza modesto e costituito da ingrossamenti della fibra nervosa autonoma, che rilascia PdA
sulle cellule superficiale; le cellule più profonde ricevono stimoli da quelle superficiali, proprio
grazie alle GAP junctions. Un tipo parete cellulare di questo genere, quindi, lavora in modo
coordinato, proprio come le cellule cardiache. Questo tipo di muscolo può presentare anche attività
spontanea; in altre parole, può provocare PdA autonomi (PdA pacemaker), che si originano sul
muscolo stesso. Infine, questi muscoli sono molto sensibili allo stiramento. Lo stiramento, infatti,
provoca l’apertura di alcuni canali di membrana, i quali fanno partire un PdA, anche senza aver
ricevuto un segnale elettrico (molto simile al muscolo cardiaco).

• Il muscolo liscio multiunitario. Qui, le cellule sono molto lontane le une dalle altre e non hanno
collegamenti fra di loro. E’ necessario, dunque, che ogni cellula venga raggiunta da una
terminazione nervosa. In questo tipo di muscoli non si manifesta mai sensibilità allo stiramento e
non presenta attività volontaria (molto simile al muscolo scheletrico).

Organizzazione dell’apparato contrattile e contrazione

Il sistema contrattile del muscolo liscio è costituito da filamenti spessi poco numerosi e da filamenti
sottili molto presenti, ancorati a corpi densi del citoplasma. Troviamo, inoltre, alcuni filamenti
intermedi (vimentina e desmina), che hanno lo scopo di collegare i corpi densi fra loro. Si viene,
dunque, a creare una sorta di rete che produrrà una contrazione del tipo raggrinzimento: la cellula
liscia si raggrinzisce e, da un aspetto allungato, assume un aspetto globoso.

Per quanto riguarda l’interazione molecolare, anche qui il filamento spesso presenta le testa di
miosina che sporgono e che vanno a legarsi sui siti di legame sul filamento di actina e determinano
il movimento. La modalità con cui viene messa in relazione lo stimolo che innesca la contrazione e
la contrazione stessa è molto articolata.

E’ sufficiente una depolarizzazione della membrana (non necessariamente un PdA) per determinare
un aumento della concentrazione di calcio e provocare la contrazione. Vediamo quali sono le varie
modalità di depolarizzazione.

Alcune cellule muscolari lisce rispondono allo stiramento: una deformazione della membrana
cellulare che provoca l’apertura di alcuni canali meccano-dipendenti, i quali si fanno attraversare da
ioni positivi in ingresso, provocando una depolarizzazione.

Alcune cellule sono sensibili all’azione di neurotrasmettitori: presentano sulla membrana dei
recettori per alcuni neurotrasmettitori e, nel momento del legame, provocano delle depolarizzazioni
e, dunque, dei potenziali postsinaptici eccitatori, inducendo il rilascio del calcio. Altre cellule
ancora producono, invece, autonomamente dei PdA: hanno un potenziale di membrana instabile,
che va incontro costantemente a squilibri tali da provocare PdA (scariche pacemaker).
Accoppiamento eccitazione-contrazione nel muscolo liscio

Alla depolarizzazione della membrana segue la variazione della concentrazione intracellulare di


calcio. Da dove viene il calcio per la contrazione? Viene, in parte, dal LEC: ci sono dei canali
voltaggio-dipendenti che fanno passare il calcio. All’aumento della concentrazione di calcio,
derivante dal LEC, segue la liberazione di calcio dal reticolo sarcoplasmatico.

Il calcio, a questo punto, si lega alla calmodulina e, successivamente, il complesso calcio-


calmodulina si lega, a sua volta, alla miosinachinasi sui filamenti spessi. Qui, la miosinachinasi
catalizza la fosforilazione delle teste della miosina, che si attivano e formano i legami con l’actina,
provocando lo scorrimento.

Differenza tra muscolo liscio e scheletrico: velocità, durata e forza di


contrazione

La forza di contrazione, nel muscolo scheletrico, in quello cardiaco e in quello liscio, raggiunge gli
stessi livelli massimali. Quello che cambia è la durata delle contrazioni e la velocità con cui il

massimo della forza viene raggiunta.

Nel muscolo liscio, infatti, il raggiungimento della tensione massima è molto lento (questo perché
l’attività ATP-asica è più bassa che negli altri tipi di muscoli). Nel muscolo cardiaco, abbiamo un
caso intermedio. Infine, nel muscolo liscio, il raggiungimento della forza massima è estremamente
rapido.
Il ciclo cardiaco

L’attività meccanica del cuore viene descritta nel cosiddetto ciclo cardiaco. Questo è basata su due
fasi principali: una sistole, che corrisponde alla fase di contrazione, e una diastole, che invece
corrisponde alla fase di rilasciamento. Le 2 fasi si alternano in modo regolare con un tempo
costante. Il ciclo cardiaco nel suo complesso dura circa 0,8s (0,3s per la sistole e 0,5s per la
diastole). La sistola atriale e la sistole ventricolare, però, non vengono contemporaneamente: è
necessario che le fasi di contrazione fra parte superiore del cuore e parte inferiore avvengano in una
sequenza alternata, scandita nel tempo.

Per descrivere queste fasi, possiamo analizzare una sola delle due parti del cuore (destra e sinistra),
tenendo sempre conto che ciò che avviene in una parte, avviene anche nell’altra (ventricolo sx e dx
e atrio sx e dx si contraggono, infatti, simultaneamente due a due).

• Nella prima fase troviamo tutto il cuore in diastole: tutte le cellule sono prive di stimolazione
elettrica e sono, dunque, rilasciate. Le pareti si trovano nella situazione di massima distendibilità
possibile. Questa fase è anche detta diastole tardiva. Qui, i ventricoli cominciano già a riempirsi

• Abbiamo, ora, la sistole atriale. Gli atri si sono riempiti di sangue e la contrazione atriale spinge
una piccola quantità di sangue nei ventricoli.

• Contrazione ventricolare isovolumica: la prima fase della contrazione ventricolare determina la


chiusura delle valvole atrio-ventricolari, ma non genera una pressione sufficiente ad aprire le
valvole semilunari (localizzate fra i ventricoli e le grosse arterie). Questa fase viene chiamata
isovolumica perché il volume, nonostante il ventricolo si stia contraendo, resta costante.

• Eiezione ventricolare: quando la pressione aumenta e supera la pressione delle arterie, le


valvole semilunari si aprono e il sangue viene eiettato.

• Rilasciamento ventricolare isovolumico: nel momento in cui i ventricoli si rilasciano, la


pressione nei ventricoli diminuisce, il sangue refluisce verso i lembi delle valvole semilunari e ne
provoca la chiusura.

Quando descriviamo un ciclo cardiaco, lo possiamo fare anche dal punto di vista del rapporto
pressione-volume. Facendo riferimento al grafico a lato, mettiamo in relazione il comportamento
pressorio del ventricolo e le variazioni di volume del ventricolo. Questo poligono che si delinea
all’interno del grafico ripercorre le fasi del ciclo. In A siamo all’inizio del ciclo cardiaco, dove il
ventricolo sx possiede un volume di sangue di circa 65mL: è il volume telesistolico, ossia quel
volume di sangue che rimane nel ventricolo alla fine della contrazione, o sistole, ovvero all'inizio
del riempimento. Il volume del ventricolo può aumentare fino a 135mL, quando il sangue passa
dall’atrio al ventricolo: siamo nella fase diastolica (diastole tardiva). Nel punto B abbiamo, quindi,
il massimo riempimento ventricolare: da A a B il ventricolo si riempie e il volume della camera
ventricolare aumenta. A questo punto, il ventricolo comincia a contrarsi: abbiamo la sistole
ventricolare, con una prima fase di sistole ventricolare isovolumica (rimane costante il volume, ma
aumenta la pressione), fino ad arrivare al punto C. Adesso, si aprono le valvole aortiche: la
contrazione ventricolare prosegue, la pressione aumenta e si comincia ad espellere il sangue
(eiezione ventricolare), arrivando al punto D.

A questo puto, termina la sistole ventricolare, il ventricolo si rilassa, cade la pressione, ma resta
costante il volume (rilasciamento ventricolare isovolumico): torniamo al punto A.

Il diagramma di Wiggers

Il diagramma di Wiggers riesce a mettere in relazione le fasi del ciclo cardiaco, l’andamento della
pressione ventricolare e atriale e il comportamento delle valvola atrio-ventricolari e aortiche.
Partiamo dalla sistole atriale, ossia da quando l’atrio si contrae e spinge il sangue verso i ventricoli.
In questo caso, il volume subisce un lieve aumento e, ovviamente, anche la pressione atriale
aumenta lievemente e, subito dopo, cale. Tuttavia, questo piccolo incremento di pressione è
sufficiente per completare il riempimento ventricolare. Quindi, alla fine della sistole atriale, il
ventricolo ha raggiunto il suo massimo valore di riempimento (65mL: volume telediastolico). A
questo punto comincia la sistole ventricolare: la pressione ventricolare aumenta, ma il volume non
subisce variazioni (siamo nella fase di contrazione ventricolare isovolumica). Ad un certo punto,
però, la pressione diviene molto elevata, tale da aprire le valvole aortiche e il sangue comincia ad
uscire: il volume decresce rapidamente (fase di eiezione ventricolare), raggiungendo un volume
minimo, che è il volume telesistolico (65mL). E’ in questa fase che viene raggiunto il picco
pressorio. Raggiunto il picco, la pressione comincia a scendere. Arrivati al volume minimo, la
pressione scende al di sotto di quella aortica e si ha la chiusura delle valvole aortiche. Il ventricolo
si rilascia: entriamo in diastole ventricolare; nella diastole ventricolare precoce il volume non
cambia e la pressione cala; ad un certo punto, però, si aprono le valvole atrio-ventricolari, il sangue
comincia a rifluire nel ventricolo e il volume aumenta (diastole tardiva): il riempimento viene
completato grazie alla fase successiva, ossia alla sistole atriale.

La gittata sistolica e cardiaca

Per quantificare l’attività meccanica del cuore, dobbiamo andare a misurare i volumi di sangue che
il cuore riesce ad inviare in circolo nell’arco di un minuto (gittata cardiaca).

La gittata cardiaca è data dal prodotto della gittata sistolica per la frequenza cardiaca e si esprime in
mL/m.

La gittata sistolica, a sua volta, corrisponde alla quantità di sangue inviata in circolo ad ogni ciclo
cardiaco, ossia alla differenza fra volume telediastolico e volume telesistolico: è circa 70mL. Se
moltiplichiamo questo volume per il numero di cicli in un minuto, troviamo la frequenza cardiaca
(circa 70bat/min). Quindi, la gittata cardiaca avrà un valore di circa 4900mL/m, ossia circa 5L/m.
Facendo riferimento alla figura, possiamo notare come il ventricolo abbia la capacità di espandersi
notevolmente, fino a raggiungere la capacità di 400mL. La forza con cui il sangue può essere
inviato in circolo può, poi, aumentare fino al doppio della forza a riposo.

Elettrofisiologia del cuore

A questo punto, dobbiamo analizzare come l’attività meccanica del cuore venga guidata dall’attività
elettrica. Il cuore, infatti, presenta:

• Eccitabilità, ossia la capacità di rispondere a stimoli adeguati con una manifestazione elettrica
propagata (PdA);

• Contrattilità, cioè la risposta contrattile conseguente al PdA;

• Conduttività, ossia la capacità di propagazione dell’eccitamento attraverso correnti


elettrotoniche;

• Refrattarietà, cioè l’incapacità di rispondere ad uno stimolo quando la membrana è


depolarizzata;

• Automatismo e ritmicità, ossia la capacità di far insorgere spontaneamente dei PdA e di


provocare, quindi, una conseguente contrazione ritmica (miocardio specifico o miocardio di
conduzione). Fra tutte le cellule, quelle che mostrano una frequenza di scarica più frequente è il
nodo seno-atriale: gli altri nodi vengono mascherati nella loro attività autonoma, dal nodo seno-

atriale (legge della dominanza del ritmo più frequente).

Un PdA cardiaco ha una forma, una durata e un’ampiezza diversa da quelli visti finora. Un
potenziale di azione muscolare, infatti, innanzitutto presenta un punto di partenza più basso, intorno
ai -90mV. Nel muscolo cardiaco, dopo il potenziale di riposo a -90mV, abbiamo un picco massimo
a circa +20mV e una durata totale di centinaia di millisecondi (estremamente diverso dai muscoli
scheletrici o lisci, che durano molto poco). Esiste, infatti, una fase che ne prolunga la durata, detta
plateau. Questo tipo di PdA, dunque, si suddivide in un numero maggiore di fasi, rispetto a quello
normale:

• Fase 0: corrisponde alla depolarizzazione. In questa fase infatti, si aprono i canali voltaggio-
dipendenti per il sodio, che depolarizzano la membrana in maniera estremamente veloce: viene
raggiunto il picco molto velocemente;

• Fase 1: i canali del sodio si chiudono, si aprono i canali per il potassio (che fluiscono verso
l’esterno) e si ha una ripolarizzazione. Questa viene interrotta da una fase mai incontrata finora, la
fase 2 o fase di plateau, che vede l’ingresso di calcio.

• Fase 2 o fase di plateau: qui, il valore di membrana viene mantenuto intorno allo 0. In questa
fase, gli ioni positivi del calcio in ingresso contrastano l’uscita degli ioni positivi del potassio,
permettendo al valore di membrana di rimanere costante. Ad un certo punto, il plateau viene
sovrastato dalla ripolarizzazione, derivante dalla chiusura dei canali per il calcio, e abbiamo la fase
3. Il significato di prolungare il PdA, in queste cellule, è quello di consentire al processo meccanico
di cominciare e terminare prima che la membrana possa ricevere un nuovo segnale per una nuova
contrazione: ha l’obiettivo di mantenere separate le singole contrazioni, l’una dall’altra.

• Fase 3: abbiamo una ripolarizzazione completa, che riporta il potenziale di membrana alla fase
4, che è la fase di riposo.

• Fase 4: è la fase di riposo, che in queste cellule ha una certa durata, corrispondente al periodo in
cui il cuore è in diastole.

Per tutto il tempo che dura il PdA, la membrana si mostra refrattaria a qualsiasi altro stimolo
elettrico. La cellula muscolare deve, comunque, ricevere un PdA da altri elementi eccitanti: questi
sono le cellule di conduzione del cuore.

La cellula del nodo senoatriale possiede un PdA molto particolare, come è possibile vedere dal
grafico. Intanto, per esempio, la fase 4, che dovrebbe essere la fase di riposo, è quei in fase di
depolarizzazione. Il motivo sta nel fatto che il loro potenziale di membrana è instabile: è proprio
questo che permette il raggiungimento della soglia e il PdA. Questa fase 4 è detta potenziale
pacemaker.

Ma perché si depolarizza spontaneamente questa membrana? Perché esistono dei canali, detti
canali funny, che hanno un comportamento anomalo; sono canali che, a valori di riposo, si aprono
lentamente e provocano una corrente di ioni positivi in ingresso e in uscita, fra i quali prevale la
corrente di ioni sodio in ingresso. Al raggiungimento della soglia, si aprono dei canali voltaggio-
dipendenti per il calcio, che si sostituiscono al sodio: la fase 0 di depolarizzazione è data, quindi,
dagli ioni calcio. Alla corrente di ioni calcio in ingresso, poi, si sostituisce un flusso di ioni potassio
in uscita, che ripolarizza la membrana, facendo sì che non si formi il plateau e riporta la membrana
al valore di “riposo”.

In condizioni fisiologiche normali, la frequenza cardiaca è controllata dalla struttura pacemaker che
presenta la fase 4 di depolarizzazione più veloce e il PdA più breve. Normalmente, quindi, sono le
cellule del nodo senoatriale che determinano la frequenza a cui batte il cuore. Le altre cellule del
sistema di conduzione in alcune condizioni possono funzionare da pacemaker. La loro frequenza di
scarica, però, è inferiore a quella del nodo SA e, in condizioni fisiologiche, non riescono a scandire
il ritmo cardiaco. Normalmente, quindi, è il nodo SA che comanda il resto delle cellule e scandisce
la frequenza cardiaca (legge della dominanza del ritmo più frequente): siccome il nodo SA, con la
sua capacità autoritmica, possiede una frequenza di scarica più elevata degli altri nodi, li sovrasta
nel funzionamento elettrico.

Diffusione dell’eccitamento nel cuore

Dal nodo SA, i PdA si diffondono alle varie cellule muscolari del cuore, seguendo dei veri e propri
tronchi di invasione. I PdA, quindi, si diffondono prima di tutto alle cellule degli atri, invadendo
completamente le pareti degli atri. In questo lasso di tempo, quindi, gli atri si contraggono (sistole
atriale). Dagli atri, il PdA raggiunge il nodo AV, tramite le vie internodali. Il nodo AV è composto
da cellule con diametro estremamente sottile, che quindi operano un ritardo nella diffusione del
PdA (più il diametro è piccolo, più è lenta la trasmissione elettrica). Questo ritardo permette il
corretto riempimento di sangue da parte dei ventricoli.

Da qui, il PdA si sposta, attraverso il sistema di conduzione ventricolare, verso l’apice cardiaco.

Una volta raggiunto l’apice, l’onda di depolarizzazione effettua una totale inversione, propagandosi
verso la base del cuore e investendo le restanti cellule cardiache.

Tracciato elettrocardiografico

Il tracciato elettrocardiografico è la rappresentazione grafica degli eventi elettrici che interessano il


cuore durante un intero ciclo cardiaco. Questo tracciato viene rilevato grazie alla sistemazione, in
particolari punti (descrivendo un triangolo), di alcuni elettrodi.

Un elemento base di un tracciato elettrocardiografico vede:

• Un onda P, che si manifesta come una depressione verso l’alto del livello di base; corrisponde
alla depolarizzazione degli atri.

• L’onda P è seguita da un complesso QRS, che corrisponde ad una piccola depressione verso il
basso (Q), una grande verso l’alto (R) e una piccola verso il basso (S). Durante questa fase si

manifesta la depolarizzazione dei ventricoli.

• Al complesso segue un periodo isoelettrico, in cui non assistiamo a nessuna depressione del
tracciato (fase di plateau).

• L’ultima fase è l’onda T, che si manifesta come una piccola depressione verso l’alto, che
corrisponde alla ripolarizzazione dei ventricoli.
NOTA: Sia nel caso dell’onda P, che era una depolarizzazione, sia nel caso dell’onda T, che era una
ripolarizzazione, entrambe le onde sono verso l’alto: non c’è, quindi, una relazione fra
depolarizzazione, ripolarizzazione e direzione in cui si muove l’onda; il fatto che l’onda sia verso
l’alto o verso il basso indica solo la direzione di avanzamento del PdA, rispetto alla posizione degli
elettrodi. La risultante di tutti i tracciati, relativi ad ogni elettrodo, danno il tracciato
elettrocardiografico.

L’intervallo P-R corrisponde al momento in cui l’eccitamento sta passando dagli atri ai ventricoli,
ossia a quel periodo in cui si ha il ritardo atrio-ventricolare, per permettere ai ventricoli di riempirsi
di sangue. Questo periodo, dunque, non deve essere troppo breve, altrimenti significa che i
ventricoli non riescono a riempirsi correttamente.

ECG normali e patologici

Nel caso a, possiamo osservare un ECG normale.

Nel caso b, invece, è visibile un blocco atrio-ventricolare di terzo grado, ossia un blocco atrio-
ventricolare completo. Possiamo vedere come, per esempio, siano presenti più di un’onda P, prima
del complesso QRS. Quest’ultimo, poi, non è nemmeno tanto regolare: manca a volte un’onda Q, a
volte un’onda R e a volte un’onda S. Infine, anche le onde T sono scomparse. Ma cosa è successo?
E’ successo che la comunicazione elettrica a livello del nodo AV si è interrotta: ognuno continua a
lavorare, dal punto di vista elettrico, in maniera indipendente dall’altro. Le onde P, infatti, si
susseguono in maniera corretta: sono i complessi QRS che sono del tutto sfasati.
Nel caso c, abbiamo una fibrillazione atriale. Qui scompaiono completamente le attività al livello
degli atri. In un caso di fibrillazione atriale, infatti, parallelamente al nodo SA, che scarica alla sua
frequenza i PdA, si attivano anche dei centri nella massa muscolare atriale, che iniziano a
comportarsi in modo autonomo, originando dei PdA.

In questo caso, è necessario individuare i punti anomali per bruciarli o annullarli dal punto di vista
elettrico.

Nel caso d, che non è compatibile con la vita, si ha una fibrillazione ventricolare. Questa patologia
deve essere corretta immediatamente, attraverso l’immissione di una grossa scarica elettrica
(elettroshock), che sovrasta le piccole correnti del cuore, riportando ordine nell’attività elettrica
cardiaca.

Diagramma di Wiggers completo

Dobbiamo, adesso, completare il diagramma di Wiggers, aggiungendo a ciò che già abbiamo visto

anche la componente elettrica del cuore (ECG).

Durante la fase in cui abbiamo un aumento della pressione atriale (sistole atriale), abbiamo l’onda
P. Poi troviamo il complesso QRS, in cui l’eccitamento invade i ventricoli e provoca l’eccitazione
delle cellule ventricolari. Successivamente, troviamo l’onda T, che corrisponde alla fase di eiezione
ventricolare, in cui il sangue esce dai ventricoli e la pressione decresce.

La regolazione dell’attività cardiaca


Il sistema nervoso può influenzare l’attività cardiaca, sia potenziandola sia attenuandola, grazie al
SNA; la branca ortosimpatica ha un effetto eccitatorio (normalmente avviene grazie al rilascio di
noradrenalina), mentre la branca parasimpatica ha un effetto inibitorio (normalmente avviene grazie
al rilascio di acetilcolina). La regolazione dell’attività cardiaca, infatti, si manifesta sotto forma di
modificazioni della gittata cardiaca che, dunque, si manifestano attraverso trasformazioni della
frequenza cardiaca e della gittata sistolica. L’influenza sulle fibrocellule, al fine di produrre
modificazioni, può essere esercitata tramite:

• Sollecitazione meccanica, quando il cuore è obbligato ad espandere le camere ventricolari, a


causa di un maggior apporto di sangue; si ha, dunque, un aumento della potenzialità contrattile delle

fibrocellule;

• Rilascio di neurotrasmettitori e ormoni, da parte delle fibre del SNA (sia dalla branca
ortosimpatica che parasimpatica);

• Variazioni della composizione chimica del LEC;

• Utilizzo di farmaci.

Se consideriamo la sollecitazione meccanica, dobbiamo richiamare la legge di Frank-Starling,


poiché questa ci mostra come aumenta la tensione ventricolare del cuore, all’aumentare del
riempimento ventricolare. Se aumentiamo la quantità di sangue nel cuore, già in condizioni passive
(ossia di diastole), il cuore aumenta la sua tensione, grazie all’elasticità delle sue pareti che,
contemporaneamente, permettono il riempimento, ma oppongono anche una certa resistenza. Ma,
cosa più importante da ricordare riguardo al diagramma, è che, come possiamo ben notare, anche
per piccolissimi aumenti di lunghezza (ossia di riempimento della camera ventricolare), abbiamo un
vertiginoso aumento della forza o tensione cardiaca.

Dunque, quando il circolo sanguigno richiede un maggior apporto di sangue agli organi periferici, la
prima cosa che viene fatta è quella di potenziare la contrattilità ventricolare. Ma come? Immettendo
nel ventricolo una maggior quantità di sangue e obbligando il cuore, di conseguenza, a contrarsi con
una maggiore forza, spingendo quindi una grande quantità di sangue in circolo.

Anche la composizione del liquido extracellulare può essere influente nell’attività cardiaca. Se, per
esempio, aumenta la concentrazione extracellulare di potassio, poiché la membrana cellulare è
abbastanza permeabile al potassio, significa consentire a piccole quantità di questo di penetrare
all’interno, portando il potenziale di riposo ad assumere valore più positivi del normale: l’ampiezza
del PdA risulterà, dunque, alterato e, di conseguenza, le prestazioni del cuore subiranno delle
conseguenze.

Anche il calcio ha delle conseguenze sull’attività elettrica del cuore, soprattutto sui PdA del nodo
SA. Questi, come abbiamo già detto, presentano, come prima fase, una fase di lenta
depolarizzazione, dovuta alla grande instabilità della membrana. Successivamente, abbiamo una
depolarizzazione più marcata, dovuta al calcio. Perciò, se diminuiamo la concentrazione di calcio
extracellulare, diminuiamo anche l’escursione elettrica del potenziale di membrana di queste cellule
e, dunque, la loro capacità di poter svolgere l’attività elettrica normale.

Fra i fattori influenti troviamo, poi, l’effetto dell’innervazione autonoma. La stimolazione da parte
del nervo vago, che contiene le fibre del SN parasimpatico, ha un effetto che riduce la frequenza di
scarica dei PdA del cuore.

Infine, esistono alcuni farmaci che vanno ad inibire la frequenza del nodo SA e, dunque, a
diminuire la gittata cardiaca.

Tutte queste forme di influenza sull’attività cardiaca, a differenza di quella descritta dalla legge di
Frank-Starling, che riguarda la modalità intrinseca di regolazione, vanno sotto i nome di influenze
estrinseche.

Effetti estrinseci del SNA sull’attività cardiaca

Esistono 3 principali tipi di effetti:

• Effetto cronotropo: è l’influenza che il SNA esercita sulla frequenza cardiaca (ossia il numero
di battiti al minuto). Sarà positivo quando viene aumentata la frequenza, negativo se viene
diminuita.

• Effetto dromotropo: è l’influenza che il SNA esercita sulla velocità con la quale vengono inviati
i PdA. L’effetto dromotropo positivo è esercitato dal SN ortosimpatico, mentre quello negativo
dalla branca parasimpatica.

• Effetto inotropo: è l’influenza che il SNA esercita sulla parete delle cellule contrattili e, quindi,
sulla forza contrattile. Ovviamente, l’effetto inotropo positivo sarà dato dall’effetto del SN
ortosimpatico, mentre quello negativo dal parasimpatico.

Effetto cronotropo

Cos’è che stabilisce la frequenza cardiaca? Ciò che la stabilisce è la velocità di depolarizzazione,
nella fase 4, del PdA del nodo SA, ossia la velocità di depolarizzazione della membrana, nella fase
di instabilità iniziale: più è rapida, prima viene raggiunta la fase di ingresso di ioni Ca 2+ e, dunque,
la vera e propria depolarizzazione, che dà inizio al PdA.

Effetto dromotropo

Viene esercitato su tutte le cellule di conduzione. Se la sollecitazione è quella di aumentare la


velocità di conduzione, il trasferimento dell’impulso elettrico avverrà più velocemente e, di
conseguenza, avviene più rapidamente anche la diffusione dei PdA nelle varie cellule cardiache,
concludendo un ciclo cardiaco in un lasso di tempo più breve (aumenta, dunque, anche la frequenza

cardiaca).

Effetto inotropo

Riguarda la forza di contrazione che le cellule della parete producono. Va, quindi, a coincidere con
la pressione che il ventricolo esercita sul sangue che deve essere inviato in circolo. Abbiamo già
visto come una parziale modificazione della contrattilità del cuore l’abbiamo per effetto intrinseco.
Questo effetto può essere potenziato da un altro effetto intrinseco, inotropo, di tipo positivo, da
parte del SNA, parasimpatico e ortosimpatico.

• Se consideriamo un ventricolo, in condizioni normali, quando si contrae, questo va a inviare in


circolo un volume corrispondente al rettangolino rosso in figura, che rappresenta la gittata sistolica.

• Se il cuore subisce una sollecitazione da parte, per esempio, di alcune catecolammine


(adrenalina o noradrenalina), la sua contrattilità aumenta così tanto da inviare in circolo una
quantità di sangue molto maggiore, aumentando quindi la gittata sistolica.

• Un’altra possibilità, per ottenere lo stesso risultato, è quella di aumentare il ritorno venoso di
sangue al cuore, così che il ventricolo si riempia maggiormente e, per effetto meccanico
(intrinseco), aumenti la contrattilità ventricolare e, di conseguenza, la gittata sistolica.

• Se, infine, reclutiamo entrambe le stimolazioni (stimolazione intrinseca, mediante il maggior


apporto di sangue al ventricolo e stimolazione estrinseca, mediante l’utilizzo di catecolammine),
abbiamo come risultato un aumento della gittata sistolica molto maggiore.

In che modo agiscono l’adrenalina e la noradrenalina?

La catena di eventi che portano dall’interazione del neurotrasmettitore all’aumento della forza di
contrazione, passa per dei recettori che vanno ad influire sulla quantità di calcio. Sia adrenalina che
noradrenalina vanno ad interagire con i recettori β1 e attivano un AMP-ciclico, ossia un messaggero
intracellulare. L’AMP-ciclico va a fosforilare (attivare) dei canali per il calcio voltaggio-dipendenti,
aumentando il tempo in cui questi restano aperti e, di conseguenza, aumentano anche il numero di
ioni calcio che fluiscono all’interno della membrana. Molto calcio va ad accumularsi nel reticolo
sarcoplasmatico, ma altrettanto viene rilasciato, dando inizio alla contrazione muscolare: una
grande quantità di calcio rilasciato implica una maggiore forza di contrazione.

Ma l’AMP-ciclico va a fosforilare anche una proteina (fosfolambano), che ha la funzione di


catturare il calcio (funge come una spugna, che assorbe e mantiene il calcio all’interno del reticolo
sarcoplasmatico). Il RS, quindi, si trova ad avere una maggiore concentrazione di calcio per la
contrazione.

In che modo agiscono, invece, acetilcolina e noradrenalina, per far variare la frequenza cardiaca?

I neuroni ortosimpatici vanno a produrre noradrenalina, che stimolano i recettori β1 delle cellule
autoritmiche. Questo provoca un aumento del tempo di apertura dei canali per il sodio e per il calcio
(canali funny), i quali determinano la depolarizzazione spontanea.
L’acetilcolina, viceversa, provoca una diminuzione dell’ingresso di calcio, con risultato di una
diminuzione della frequenza cardiaca.

L’apparato circolatorio

La funzione dell’apparato circolatorio è quella di distribuire il sangue all’organismo, scambiare i


nutrienti e i gas con i tessuti, trasportare in periferia le sostanze necessarie al metabolismo e portare
via dai tessuti tutto ciò che devono essere eliminate o al livello polmonare o a livello renale. I
parametri che bisogno prende in considerazione sono:

• Il flusso, ossia il volume di sangue che fluisce attraverso la sezione di un vaso o in un organo
nell’unità di tempo (mL/min);

• La pressione, cioè la spinta propulsiva ricevuta dal cuore (mmHg);

• La resistenza causata dall’attrito fra il sangue e le pareti del vaso; i vasi piccoli mostrano una
maggiore resistenza;

• La velocità, ossia la distanza percorsa da un volume di sangue nell’unità di tempo (cm/min).

I vasi si articolano in una serie di ramificazioni; i vasi con circolazione centrifuga (dal cuore verso
la periferia) sono quelli arteriosi che, solitamente, a parte l’eccezione coronaria, contengono sangue
arterioso, ossia ricco di ossigeno; i vasi che si muovono in direzione centripeta (dalla periferia verso
il cuore) sono quelli venosi, che contengono sangue povero di ossigeno. Fa eccezione il piccolo
circolo in cui, a livello polmonare, i vasi che vanno dal cuore alla periferia sono vasi arteriosi, ma
che portano sangue povero di ossigeno e, viceversa, i vasi venosi, che riportano il sangue al cuore,
lo portano ricco di ossigeno.

Le ramificazioni vedono vasi di vario diametro, fino ad arrivare al cosiddetto distretto capillare,
molto piccolo e capace di scambiare le varie sostanze attraverso la propria membrana.

La circolazione a livello cardiaco è del tipo doppio e completo. Se sezioniamo il cuore, vediamo
che, nelle due sezioni (sx e dx) del cuore, scorrono due tipi di sangue, uno ossigenato e uno povero
di ossigeno. Esiste, dunque, la possibilità, a livello dello stesso organo propulsore, di farsi
attraversare da due tipi di sangue, senza mai mescolarli. Quindi, avremo un’unica spinta, che si
esercita sia sulla parte sinistra che su quella destra, ma che va a spingere due tipi differenti di
sangue. In questo tipo di distribuzione troviamo una circolazione in serie dei vasi, quando
consideriamo i percorsi che vengono effettuati uno dietro all’altro (circolo sistemi e circolo
polmonare). In altre parole, se potessimo separare le due parti del cuore e metterle una di seguito
all’altra, osserveremmo una situazione in cui i due tipi di sangue non si mescolano mai, cioè
abbiamo due percorsi all’interno del cuore, che sono uno di seguito all’altro.

Troviamo poi una circolazione in parallelo, che riguarda i vari distretti circolatori, che
distribuiscono il sangue ai vari organi.
La pressione arteriosa

Il parametro che ci permette di valutare in modo più diretto la funzionalità del sistema circolatorio è
la misura della pressione arteriosa. Questo è un metodo non invasivo: prevede l’applicazione di un
manicotto, che viene gonfiato attorno al braccio, fino a che la pressione esercitata dall’esterno non
va ad ostruire l’arteria brachiale. A valle del manicotto viene poi posizionato il fonendoscopio che,
tramite auscultazione, permette di percepire i rumori all’interno del vaso. Un vaso in cui il sangue
scorre normalmente non produce dei suoni particolarmente percepibili; un vaso in cui il flusso è,
invece, alterato, produce dei fruscii e dei suoni, amplificati dallo strumento. Al manicotto è
collegato un manometro, il quale indica i valori di pressione. Nel momento in cui il manicotto
ostruisce completamente il vaso, il sangue non scorre. Tuttavia, appena il manicotto viene sgonfiato
piano piano, il sangue comincia a rifluire: è in questo momento che è necessario auscultare, al fine
di percepire particolari fruscii. Nel momento in cui si sentono questi fruscii, andiamo a leggere il
valore della pressione registrata, che corrisponde alla pressione massima del sangue all’interno del
vaso, ossia la pressione più alta, che permette al sangue di circolare (pressione massima arteriosa,
che normalmente sta attorno ai 120mmHg). Nel momento in cui, a forza di sgonfiare il manicotto,
non percepiamo più nessun fruscio, andiamo a misurare pressione minima arteriosa, che

normalmente deve aggirarsi attorno agli 80 mmHg.

La pressione è un valore che deriva dalla spinta del cuore e dalla resistenza che i vasi offrono al
flusso del sangue. La pressione varia sempre fra un valore massimo, che corrisponde alla pressione
sistolica, ossia a quando il cuore va in sistole, e fra un valore minimo, che corrisponde invece alla
pressione diastolica.

Nel momento in cui la pressione aumenta, magari per una sistole, l’arteria non resta rigida alla
variazione di flusso, ma si distende, come un palloncino: il vaso presenta, quindi, un certo grado di
elasticità. Questa dilatazione è al suo massimo quando il ventricolo è in sistole.

Il rilasciamento, al termine della sistole, del vaso, permette l’avanzare del sangue, mantenendo la
pressione propulsiva durante la diastole.

Viene chiamata pressione ematica la pressione idrostatica (ossia la pressione esercitata da un fluido
su una parete di un vaso) del sangue sulle pareti dei vasi e si misura in mmHg.

I valori massimi di pressione li troviamo all’interno del cuore e nei primi vasi in uscita. Man mano
che andiamo avanti, abbiamo dei valori di pressione ematica elevati, a livello dei vasi arteriosi
sempre più sottili, fino ad avere una caduta di pressione a livello dei capillari. Questo è normale,
proprio perché la minor pressione permette lo scambio di sostanze e gas.

A livello delle vene, la pressione mantiene sempre valori bassi, per riprendere a salire a livello del
cuore. Tuttavia, i valori minimi e i valori massimi che troviamo a livello del cuore destro (venoso)
sono estremamente inferiori a quelli del cuore sinistro. Abbiamo detto che i due atri e i due
ventricoli si contraggono contemporaneamente (i 2 atri insieme e i 2 ventricoli insieme); tuttavia, la
parete ventricolare destra, però, è molto più sottile di quella sinistra: si viene a produrre, dunque,
una pressione molto minore, nella parte destra del cuore.

Morfologia dei vasi

La capacità dei vasi di dilatarsi o meno risiede nella morfologia e nella struttura del vaso stesso. Se
consideriamo una sezione dei vari vasi, vediamo che i componenti principali sono:

• Una componente muscolare, ossia quegli strati di muscolatura liscia. La percentuale di presenza
della muscolatura liscia, nelle varie tipologie di vasi, cambia notevolmente: è molto elevata nelle
arterie, un po’ più bassa nelle arteriole e assente nei capillari. Questi, infatti, hanno una parete molto
sottile, costituita da solo endotelio. La muscolatura liscia non la troviamo nemmeno nelle venule,
ma ricompare nelle vene.

• Una componente endoteliale, che riveste la parte più interna di tutti i vasi.
• Una componente elastica, costituita da tessuto connettivo elastico, che rende il vaso dilatabile,
ma allo stesso tempo permette un ritorno alle condizioni iniziali. Questa componente è
particolarmente presente a livello delle arterie.

• Una componente fibrosa, che rende il vaso più rigido, conferendogli una limitazione al grado di
dilatazione.

Le varie componenti variano come percentuale di presenza nella parete, in funzione del ruolo che
deve svolgere.

Variazioni di flusso

Il flusso attraverso un distretto circolatorio può variare di diversi ordini di grandezza, in relazione
all’ambito funzionale dell’organo irrorato. Le modificazione del flusso sono ottenute grazie alla
variazione della resistenza e livello delle arteriole. Il flusso, infatti, è direttamente proporzionale al
gradiente di pressione e inversamente proporzionale alla resistenza.

Esiste un flusso di sangue, all’interno del vaso, quando fra i due estremi del vaso è presente una
differenza di pressione. Il flusso diviene zero, quando la differenza di pressione è uguale a zero.
Come può fare un’arteriola, per modificare la pressione periferica? Uno dei sistemi
immediatamente utilizzati è quello di aumentare le resistenze periferiche, ossia aumentare il grado
di costrizione delle arteriole: i vasi di diametro più piccolo offrono maggiore resistenza e, dunque, il
flusso diminuisce.

Situazione circolatoria a livello dei capillari

A livello dei capillari, vengono cedute le giuste quantità di ossigeno e vengono acquisiti le corrette
quantità di anidride carbonica. Contemporaneamente agli scambi gassosi, avvengono anche gli
scambi di tutte quelle sostanze nutritive, necessarie per il metabolismo.

In questo passaggio, le varie molecole sfrutteranno sia fenomeni fisici passivi, sia fenomeni fisici
attivi. I fenomeni passivi sono legati alle differenze di pressione tra l’interno del vaso e il liquido
interstiziale. Quando il sangue entra nel capillare, dal capo arterioso, possiamo misurare una
pressione idrostatica del capillare di circa 32mmHg. Esiste anche un valore di pressione oncotica,
che corrisponde a circa -25mmHg. La pressione idrostatica è la forza pressoria che tende a far
uscire il liquido dal vaso, mentre quella oncotica frena l’uscita del liquido dalla parete capillare. Nel
bilanciamento di queste due pressioni abbiamo un valore netto, che è comunque una risultante
rivolta verso l’esterno: sono circa 12mmHg che spingono il sangue verso l’esterno; questo
fenomeno è detto filtrazione netta. All’estremo venoso, la situazione si capovolge. Qui, infatti, la
pressione idrostatica diminuisce e va sotto il valore di pressione oncotica: il liquido, quindi, viene
riportato dentro al vaso: questo fenomeno è detto riassorbimento netto.

Esistono dei centri regolatori, a livello cerebrale, che si occupano di coordinare l’attività del cuore e
dei vasi, nel momento in cui le pressioni nell’organismo variano.

Prima di tutto, sono presenti dei barocettori, sulle pareti dei vasi, che sono sensibili alle variazioni
di pressione e che, in caso di necessità, stimolano il sistema nervoso ad agire. L’aumento
dell’attività parasimpatica avrà un effetto negativo sulla frequenza cardiaca, sulla forza di
contrazione e sulla velocità di conduzione: questo abbasserà la spinta propulsiva del sangue e
diminuirà la gittata cardiaca, con il risultato di affievolire la pressione arteriosa.
Contemporaneamente, avremo anche una vasodilatazione, sempre con l’effetto di abbassare la
pressione. Un procedimento analogo, ma contrario, avviene nel caso che la pressione sia troppo
bassa, a carico, però, del SN ortosimpatico.

L’apparato respiratorio

Esistono due diversi tipi di respirazione:

• La respirazione tissutale, a livello delle cellule;

• La respirazione polmonare, a livello del polmone.

La respirazione che normalmente si è soliti intendere è quella respirazione di tipo meccanico, che ci
permette di introdurre l’aria all’interno del polmone, al livello del quale abbiamo gli scambi gassosi.
Esistono delle molecole, come l’emoglobina, che permettono il trasporto dell’ossigeno nel sangue.
L’ultimo processo che dobbiamo considerare, poi, è quello della diffusione: l’ossigeno e l’anidride
carbonica, infatti, attraversano le membrane sfruttando il fenomeno fisico passivo della diffusione.
Quindi, i quattro processi della respirazione saranno:

• Ventilazione

• Perfusione
• Trasporto

• Diffusione

La ventilazione

La ventilazione è l’intromissione di aria ricca di ossigeno e la conseguente espulsione di aria povera


di ossigeno e ricca di anidride carbonica.

L’aria immessa, viene convogliata verso i polmoni, grazie alle vie respiratorie. I polmoni e la
gabbia toracica sono collegati dal sacco pleurico, ossia un sistema di due foglietti: uno viscerale,
attaccato al polmone, e uno parietale, attaccato alle coste; i due foglietti contengono uno spazio, in
cui è presente una piccola quantità di liquido pleurico, prodotto dalle membrane stesse. Le vie
respiratorie si dividono in vie respiratorie superiori (cavità nasali e faringe) e inferiori (laringe,
trachea, bronchi e bronchioli). I bronchioli vanno a legarsi alle strutture di base, che compongono il
polmone, ossia gli alveoli polmonari. A livello delle vie respiratorie, l’aria viene riscaldata,
umidificata e depurata o filtrata.

Dal bronchiolo, si passa ai cosiddetti bronchioli respiratori, dotati sulla parete di piccoli
rigonfiamenti dell’epitelio, che vanno a formare dei sacchetti, prima di formare gli alveoli veri e
propri. Gli alveoli polmonari sono costituiti da 2 tipi di cellule:

• Gli pneumociti di primo tipo, attraverso le quali avvengono gli scambi gassosi;

• Gli pneumociti di secondo tipo, che non eseguono scambi, ma sono i responsabili della
secrezione del surfactante, un composto glicoproteico che facilita gli scambi, riducendo la tensione
superficiale.

Esistono, poi, alcune cellule di difesa immunitaria: queste sono i cosiddetti macrofagi alveolari. Ma
come avviene la ventilazione polmonare? Tutto si basa sul lavoro del sistema torace-polmone.
Quando gabbia toracica e polmone sono collegati dai foglietti pleurici, presentano un volume di
circa 3L. Se togliamo i foglietti pleurici, la gabbia toracica assume un volume di riposo maggiore al
normale, mentre il polmone tende a collassare. Quindi, ciò significa che la gabbia toracica possiede
una naturale predisposizione ad espandersi, mentre il polmone a collassare. Poiché queste due
strutture sono collegate tramite i foglietti pleurici, ognuna delle due eserciterà una tensione sul
foglietto a cui è legato. Le due tensioni sono dirette in versi opposti: ciò va ad originare una
pressione negativa intrapleurica, ossia inferiore alla pressione atmosferica. Questa pressione
intrapleurica va a riflettersi anche su tutte le strutture interne al torace (cuore, bronchi, ecc.). Questa
pressione negativa ha l’unico scopo di mantenere unite la gabbia toracica e il polmone.

Per effettuare la ventilazione polmonare, è necessario l’intervento dei muscoli volontari del torace.
Tuttavia, questo sistema è anche controllato a livello autonomo, che ci permette di respirare anche
senza la nostra volontà. Il muscolo principale per la respirazione è il diaframma. Quando questo si
contrae, si abbassa, aumenta il volume della gabbia toracica e si ha, dunque, l’inspirazione; nel
momento in cui il diaframma si rilassa, torna ad assumere la sua forma originaria, diminuisce il
volume toracico e si ha, quindi, l’espirazione.

Nel momento in cui si ha l’inspirazione, si aumenta il volume del polmone; questo implica
necessariamente una diminuzione di pressione al suo interno (legge di Boyle): si va ad originare,
quindi, un gradiente di pressione fra il fuori (pressione atmosferica) e il dentro; l’aria, dunque,
tende ad entrare. Stessa cosa, ma contraria, avviene quando si espira.

Nel frattempo, però, varia anche la pressione negativa intrapleurica. Quando si ha una situazione di
massima espansione torace-polmone, siamo nel caso in cui viene esercitata la massima tensione sui
due foglietti. Il valore della pressione negativa va, quindi, ad aumentare e si ottiene il massimo
valore negativo, che abbiamo, dunque, alla fine della inspirazione. Alla fine della espirazione,
invece, il valore della pressione negativa intrapleurica raggiunge un valore più negativo. Importante
ricordare, però, come la pressione intrapleurica non raggiunga mai valori positivi, ma resti sempre
negativa.

Per valutare l’efficienza del sistema respiratorio, si rappresenta un tracciato spirografico. Viene
applicato un boccaglio alla bocca, collegato ad un sistema chiuso, che anticamente aveva uno
scrivente a penna, mentre oggi è automatico. Possiamo, così, stabilire una correlazione fra il volume
assunto dal polmone, nelle varie fasi della respirazione, e le curve del tracciato. In una respirazione
normale, possiamo andare a misurare quello che viene chiamato volume corrente, il quale
rappresenta il volume di aria che inspiriamo e buttiamo fuori ad ogni atto respiratorio (varia a
seconda della capacità del polmone). Al soggetto viene poi chiesto di effettuare un’inspirazione
forzata al massimo delle sue capacità: andiamo, quindi, a misurare il cosiddetto volume di riserva
inspiratoria. Successivamente, viene chiesto di eseguire un’espirazione forzata, che risulta ridotta
rispetto all’inspirazione: calcoliamo il volume di riserva espiratoria. Il polmone, tuttavia, anche
dopo un’espirazione forzata, resta sempre con un certo volume residuo di aria.

A questo punto, però, va distinto quello che è il volume che entra ed esce ad ogni atto respiratorio e
quello che, invece, è il volume che resta a contatto con le pareti alveolari e permette gli scambi. Si
distinguono, dunque, una ventilazione polmonare e una ventilazione alveolare. Con la ventilazione
polmonare, andiamo a descrivere il volume di aria che entra ed esce durante l’atto di respirazione,
in un minuto (circa 6 - 7.5L di aria).

Con la ventilazione alveolare, invece, andiamo a descrivere il volume che entra ed esce dagli
alveoli in un minuto. Del volume corrente che viene introdotto, però, non tutto riesce a raggiungere
gli alveoli. Questo perché una parte dell’aria resta nelle vie aeree, dove non effettua scambi
respiratori. Dobbiamo, quindi, togliere dal volume corrente il cosiddetto volume dello spazio morto
(circa 150 - 500mL di aria; quindi, di tutto il volume totale della ventilazione alveolare, solo 5L
sono utilizzati).

Dobbiamo, infine, definire il cosiddetto lavoro respiratorio. Questo rappresenta la forza esercitata
dai muscoli respiratori per effettuare la respirazione: essi devono, infatti, vincere la resistenza del
sistema torace-polmone, per permettere la respirazione. Il lavoro respiratorio dipende dalla
frequenza, dalla profondità del respiro, dalla distendibilità (compliance) del sistema polmone-torace
e dalla resistenza delle vie aeree.

La composizione dell’aria atmosferica vede la presenza di un 78% di azoto, di un 21% di ossigeno e


di uno 0.04% di anidride carbonica. Se introduciamo delle molecole di acqua nella composizione di
gas, questa va a diminuire la concentrazione percentuale degli altri gas, poiché il totale deve essere
sempre il 100%. Dunque, maggiore è l’acqua presente nell’aria atmosferica, minori saranno le
percentuali delle pressioni parziali degli altri gas. Sappiamo infatti, dalla legge di Dalton, che la
pressione totale esercitata a livello della miscela, è uguale alla somma delle singole pressioni
parziali, esercitate da ogni gas. L’inserimento, quindi, di acqua, provoca necessariamente una
riduzione della quantità delle altre specie gassose presenti nella miscela. Ciò che andremo a
ritrovare, a livello alveolare, delle rispettive pressioni parziali dei gas, saranno quelle percentuali di
gas a cui è stata aggiunta acqua: per esempio, del 21% di ossigeno, troveremo solo il 13,1%; del

79% di azoto, troveremo il 75,4%.

A livello alveolare, tuttavia, la CO2 passa all’alveolo; dunque, la pressione parziale di anidride
carbonica sarà aumentata, rispetto a quella atmosferica e raggiungerà circa il 5,3%.

Infine, nell’aria espirata troveremo una composizione intermedia fra l’aria alveolare e quella
atmosferica, poiché l’aria alveolare espirata va a unirsi con l’aria atmosferica dello spazio morto.

La perfusione e la diffusione

Ciascun alveolo è circondato da una fitta rete di capillari sanguigni, appartenenti al circolo
polmonare, in cui circola il sangue a bassa pressione, con un flusso molto elevato. Questo tipo di
organizzazione garantisce una superficie di scambio molto estesa (anche oltre i 100m 2). L’ossigeno
e l’anidride carbonica sono sostanze liposolubili che, dunque, possono attraversare il doppio strato
fosfolipidico. La membrana alveolo-capillare ha la funzione di separare l’aria dal sangue e di
effettuare gli scambi gassosi; ha uno spessore di circa 0,3 – 0,5µm per favorire gli scambi. Ma cosa
succede, in un alveolo, quando circola il sangue nel capillare che gli sta a diretto contatto? Accade
che, per quanto riguarda l’ossigeno, troviamo, nell’alveolo, una concentrazione del 13%, che
corrisponde ad una pressione parziale di circa 100mmHg. Il sangue che, invece, arriva all’alveolo,
ha una pressione parziale di ossigeno di circa 40mmHg. Si viene a creare, quindi, un gradiente di
pressione fra i 100mmHg dell’alveolo e i 40mmHg del sangue: l’ossigeno entra nel capillare. Man
mano che il sangue si carica di ossigeno, la pressione parziale di ossigeno nel capillare cresce, fino
a raggiungere lo stesso valore presente nell’alveolo, ossia 100mmHg (gradiente di concentrazione
ridotto a zero). Dunque, la velocità di diffusione dipende da:

• La grande estensione della superficie di scambio;

• L’elevata solubilità del gas nel sangue (per l’anidride carbonica è 25 volte superiore
all’ossigeno);

• Il sottile spessore della membrana alveolo-capillare;

• Il valore del gradiente derivante dalle pressioni parziali.

Un valore molto importante da considerare è il rapporto che c’è fra ventilazione e perfusione, il
quale ha un valore di riferimento di “0.8”. I flussi di aria e di sangue devono, infatti, essere
proporzionati, al fine di avere un adeguato scambio di gas. Se, infatti, eccede la perfusione, le
pressioni parziali di ossigeno e anidride carbonica si avvicinano a quelle del sangue (per esempio,
nel caso di apnea). Al contrario, se eccede la ventilazione, le pressioni parziali di ossigeno e
anidride carbonica si avvicinano a quelle atmosferiche (per esempio, nel caso di esercizio fisico).

Esistono dei meccanismi di controllo per adeguare reciprocamente ventilazione e perfusione. Se,
per esempio, assistiamo ad una diminuzione della pressione parziale di ossigeno e, di conseguenza,
ad un aumento della pressione parziale di anidride carbonica, i bronchioli subiscono una dilatazione
(per favorire l’afflusso di aria dall’esterno e, dunque, dell’ossigeno), mentre le arteriole polmonari
subiscono una costrizione, per limitare l’arrivo di anidride carbonica da parte delle arteriole
polmonari. La situazione sarà contraria nel caso in cui ci troviamo di fronte ad una diminuzione di
anidride carbonica e ad un aumento di ossigeno.

Il trasporto
Anidride carbonica e ossigeno vengono trasportati in modo diverso nel sangue. L’ossigeno viene
trasportato, per il 99%, grazie all’emoglobina e, per l’1%, si trova libero nel sangue (è questo che
determina la pressione parziale). Ogni molecola di emoglobina può trasportare 4 atomi di ossigeno.
Solo l’ossigeno presente in soluzione, ossia solo l’1%, è quello realmente disponibile per gli
scambi. Tuttavia, via via che viene consumato l’1% di ossigeno disciolto, l’emoglobina dissocia
l’ossigeno e lo rende disponibile per gli scambi.

Ci sono dei fattori che favoriscono questa dissociazione. A livello dei tessuti, infatti, il pH è più
acido e questo induce l’emoglobina ad essere meno affine per l’ossigeno.

L’ossigeno disciolto nel plasma è influenzato da molti fattori:

• La composizione dell’aria inspirata

• La ventilazione alveolare

• La diffusione dell’ossigeno tra gli alveoli e il sangue

• L’adeguata perfusione degli alveoli

Per quanto riguarda l’anidride carbonica, anche questa si trova in diverse forme. Essa si trova, per il
5%, disciolta nel sangue ed è quella che determina il valore della pressione parziale; un altro 5% è
trasportato dall’emoglobina (si trova legata non al gruppo eme, ma ad alcuni gruppi amminici); un
90% è, invece, sotto forma di ione bicarbonato disciolto.

Il sangue, con questo carico di anidride carbonica, arriva al circolo polmonare. Qui, lo ione
bicarbonato entra nel globulo rosso, si lega ad uno ione H e diventa acido carbonico. Questo,
mediante un enzima, forma acqua e anidride carbonica, che viene espirata. L’anidride carbonica
disciolta nel sangue, invece, viene passata all’alveolo e espirata normalmente.

Il controllo della ventilazione

Il controllo della respirazione è un’attività che si svolge sia a livello volontario che a livello
involontario. Esiste, infatti, un cosiddetto centro apneistico e un centro pneumotassico. Il primo ha
una funzione eccitatoria, mentre il secondo ha una funzione inibitoria.
L’apparato urinario

I reni sono degli organi pari, posti nella regione posteriore della cavità addominale, a livello delle
coste inferiori e sono retroperitoneali. Questi sono collegati a dei vasi, gli ureteri, nei quali viene
fatta fluire l’urina. Questa, poi, viene riversata nella vescica ed espulsa, infine, tramite l’uretra. La
principale funzione del rene è la regolazione omeostatica del contenuto di acqua e di ioni nel
sangue, definita bilancio idrosalino, con la conseguente produzione di urina. Le principali funzioni
del rene, tuttavia, sono:

• Funzione escretoria, ossia la rimozione di cataboliti, sostanze di scarto e metaboliti in eccesso.

• Regolazione dell’osmolarità.

• Mantenimento del bilancio ionico. I reni mantengono le concentrazioni degli ioni entro un
ambito di valori normali.
• Regolazione del pH.

• Produzione di ormoni. Anche se i reni non sono ghiandole endocrine, svolgono ruoli molto
importanti in questo ambito. Alcune cellule renali, infatti, rilasciano la renina, un enzima che regola
la produzione di ormoni implicati nel bilancio del sodio. Altri enzimi renali partecipano, inoltre, alla
formazione della vitamina D3, che regola il bilancio del calcio.

Il rene, come già detto, è un organo pari a forma di fagiolo, retroperitoneale. L’unità funzionale del
rene è il nefrone. Un rene contiene circa 1 milione di nefroni. Il nefrone può essere suddiviso in una
parte globulare, che è il corpuscolo renale, formato da un glomerulo (ossia una rete fitta di capillari
arteriosi), il quale è circondato dalla capsula di Bowman. Da questa, si diparte un lungo tubulo,
suddiviso in regioni. Il tubulo contorto prossimale, ossia quella parte che si trova più vicina al
corpuscolo renale, l’ansa di Henle (ascendente e discendente) e, infine, il tubulo contorto distale.
Vari tubuli distali si uniscono a formare il dotto collettore, che si immette nella vescica. Ogni tratto
di questa struttura ha una sua particolare funzione. Esistono, tuttavia, due tipi di nefroni:

• I nefroni corticali, disposti più esternamente, ossia nella parte corticale del rene. Qui, l’ansa di
Henle è avvolta da una vasta rete capillare.

• I nefroni iuxtamidollari, che possiedono solo il corpuscolo renale nella zona corticale, mentre
si approfondano totalmente nella regione midollare. Qui, l’ansa di Henle non presenta dei capillari
come nei nefroni corticali, ma dei capillari che hanno anche loro la forma tipica ad “U” e decorrono
parallelamente all’ansa: sono i vasa recta

Nel nefrone avvengono 3 processi:

• Filtrazione, cioè la produzione di ultrafiltrato, che avviene nel corpuscolo;

• Riassorbimento, ossi il recupero delle sostanze, che avviene nei tubuli;

• Secrezione, cioè l’eliminazione di sostanze, che avviene sempre nei tubuli.

La filtrazione

La quantità di liquido trattato dal rene è di circa 180L di una giornata, ossia 180L di ultrafiltrato in
una giornata; la quantità di urina eliminata, al giorno, è invece di circa 1,5L-2L. Quindi significa
che, di questi 180L, vengono recuperati quasi tutti, attraverso il processo di riassorbimento.

Le sostanze che lasciano il plasma sanguigno, devono prima di tutto attraversare 3 barriere di
filtrazione:

• L’endotelio dei capillari glomerulari. Questi sono capillari fenestrati, che permettono alla
maggior parte del plasma di filtrare, ma blocca gli elementi corpuscolati. Importantissime sono le
cellule mesangiali, situate tra i capillari glomerulari: esse contengono dei fasci citoplasmatici di
filamenti simili all’actina, che consentono loro di contrarsi e di modificare il flusso di sangue
attraverso i capillari.

• La lamina basale. Questa separa l’endotelio dei capillari dal rivestimento epiteliale della
capsula di Bowman. E’ costituita da glicoproteine e proteine normali. Essa agisce come un setaccio,
che filtra la maggior parte delle proteine plasmatiche.

• L’epitelio della capsula di Bowman. E’ costituita da cellule specializzate, chiamate podociti.


Questi presentano lunghe espressioni citoplasmatiche, chiamate pedicelli, che abbracciano i
capillari glomerulari e si intrecciano l’uno con l’altro, lasciando strette fessure per la filtrazione.
Anche qui vengono bloccate molte proteine.

Il processo della filtrazione glomerulare avviene solamente sulla base di fattori fisici: la
permeabilità delle membrane, che fungono da filtro; la differenza fra le pressioni in gioco.

Riguardo alle pressioni, è stata introdotta la cosiddetta ipotesi di Starling, secondo la quale il
processo di filtrazione è influenzato da 3 tipi di pressione:

• La pressione idrostatica del capillare (55mmHg), che rappresenta la pressione ematica, a causa
della spinta del cuore, con la quale il sangue arriva nel capillare glomerulare. Quindi è la pressione
che insiste sulle pareti del capillare e che spinge i liquidi ad uscire dal capillare.

• La pressione colloido-osmotica o oncotica. Questa è legata alla presenza delle proteine


plasmatiche nel sangue; questa forza si oppone alla precedente, richiamando il liquido verso
l'interno dei capillari: si oppone, quindi, alla filtrazione. All'aumentare della concentrazione
proteica del sangue aumenta la pressione oncotica e l'ostacolo alla filtrazione; viceversa, in
un sangue povero di proteine la pressione oncotica è bassa e la filtrazione maggiore. La
pressione colloido-osmotica del sangue che scorre nei capillari glomerulari è di circa 30
mmHg.
• La pressione idrostatica del filtrato accumulato nella capsula di Bowman. Questa si
oppone alla filtrazione. Il liquido che filtra dai capillari deve infatti opporsi alla pressione di
quello già presente nella capsula, che tende a spingerlo indietro.
La pressione idrostatica esercitata dal liquido accumulato nella capsula di Bowman è di
circa 15 mmHg.
Sommando le forze appena descritte emerge che la filtrazione è favorita da una pressione netta pari
a 10 mmHg, nel verso favorente della filtrazione.
Il volume del liquido che filtra nella capsula di Bowman per unità di tempo, è detto velocità di
filtrazione glomerulare (VFG), il cui valore medio è circa 125mL/min o, meglio, 180L/giorno. Un
valore incredibile se si considera che il volume totale di plasma è di circa 3L: questo significa che i
reni filtrano l’intero volume del plasma 70 volte al giorno, ossia circa 2,5 volte ogni ora. Il valore
della VFG è influenzata da:
• La pressione netta di filtrazione, appena descritta. La VFG è direttamente proporzionale
alla pressione netta di filtrazione.
• Il coefficiente di filtrazione. E’ un coefficiente che tiene conto della permeabilità e
dell’estensione della superficie. La VFG è direttamente proporzionale anche al coefficiente
di filtrazione; maggior sarà la permeabilità, maggiore sarà la VFG, ecc.
Un fattore che bisogna considerare è la frazione di filtrazione è la quantità di plasma che esce dalla
barriera glomerulare, per effetto del processo di filtrazione. Ricorda, infatti, che l’ultrafiltrato è
sempre plasma! Non ha subito nessuna modificazione! Del 100% del sangue che entra, un 20%
viene filtrato e l’80% continua il suo percorso.
Di questo 20% che è stato filtrato, il 19% viene riassorbito. Dunque, alla fine, solo l’1% del volume
plasmatico lo ritroviamo nelle urine.
La VFG è soggetta ad un’autoregolazione, ossia ad un processo di controllo locale, mediante il
quale il rene mantiene la VFG relativamente costante a fronte delle normali fluttuazioni della
pressione arteriosa, al fine di proteggere le barriere di filtrazione da pressioni sanguigne troppo
elevate, che potrebbero danneggiarla. L’autoregolazione, quindi, mantiene la VFG pressoché
costante, per valori compresi fra 80mmHg e 180mmHg.
La VFG è influenzata anche da alcuni ormoni e dal SNA. Questi possono modificare la velocità di
filtrazione glomerulare, in 2 modi:
• Variando le resistenze delle arteriole
• Modificando il coefficiente di concentrazione
La filtrazione glomerulare risente, dunque, della pressione sistemica. La funzione del rene, però,
deve essere mantenuta abbastanza costante ed entro i limiti fisiologici; quando cambia la pressione
sistemica, l’organismo cerca di far fronte a questa variazione. Un primo meccanismo di
mantenimento delle condizioni stabili è quello basato sulla risposta miogena, prodotta direttamente
dalle cellule muscolari delle arteriole che, stirate dalla pressione stessa, si contraggono, riducono il
flusso a livello de glomerulo e mantengono stabile la VFG. Un’altra modalità riguarda, invece, il
cosiddetto feedback tubulo-glomerulare.
Questo si basa sull’apparato Juxtaglomerulare, un sistema in cui lavorano insieme le cellule della
macula densa del tubulo contorto distale e le cellule juxtaglomerulari della parete dell’arteriola
afferente. Le prime sono in grado di rilevare le variazioni del flusso glomerulare e inviare dei
segnali alle cellule vicine, in modo da attivarle e compensare la variazione.
Il feedback funziona, dunque, secondo queste fasi:
• La VFG aumenta
• Il flusso nel tubulo distale aumenta e, quindi, anche il flusso a livello della macula densa
aumenta
• I mediatori paracrini della macula densa sono inviati all’arteriola afferente
• L’arteriola afferente si costringe
• Diminuisce, dunque, il flusso a livello capillare e aumenta la resistenza dell’arteriola
afferente aumenta
• La VFG diminuisce
La macula densa, però, agisce anche in modo più generalizzato. Quando questa rileva delle
variazioni di flusso a livello del glomerulo, riesce ad elaborare delle sostanze, che vengono mandate
in circolo e che riequilibrano la situazione a livello generale, ossia a livello sistemico. Nel caso in
cui la pressione arteriosa diminuisca, avremo una diminuzione della VFG. Questo fa diminuire il
flusso a livello della macula densa e viene rilevato, come elemento di segnalazione, la minore
quantità di NaCl presente nel liquido tubulare. Ecco che la macula densa attiva le cellule a produrre
la renina. Questa viene inviata in circolo e attiva una sostanza presente nel plasma, prodotta dal
fegato in maniera costante, ma attivata dalla renina: l’angiopepsinogeno. Questo viene convertito in
una prima forma attiva, l’angiotensina 1. A livello dei vasi sanguigni, l’angiotensina 1 viene
convertita in angiotensina 2. Questa va a stimolare le arteriole, producendo vasocostrizione, va ad
influenzare il centro di controllo cardiovascolare, aumentando la forza di contrazione del cuore.
Infine, vengono attivati altri sistemi, che vanno a stimolare sia la corteccia surrenale, che produce
l’aldosterone, sia l’ipotalamo, che produce un ormone per il riassorbimento idrosalino da parte del
rene (ADH o ormone antidiuretico). Si riequilibra, quindi, la situazione idrosalina e diminuisce la
pressione.
Un parametro importante, che si trova molto spesso nella pratica clinica, è la clearance
dell’inulina. Questa è un parametro, che ci permette di calcolare quella che è la VFG, senza dover
utilizzare dei metodi invasivi. Il flusso renale e il flusso a livello del glomerulo possono essere
individuati attraverso delle tecniche di micro puntura, che sono quindi invasive. La clearance
permette di ricavare la velocità di filtrazione glomerulare, sulla base di un calcolo, che utilizza
alcuni parametri facilmente rilevabili: si basa sul destino di una particolare sostanza presente nel
sangue; sostanza che, però, viene filtrata come le altre sostanze e che poi, nel percorso nel tubulo
del nefrone, non viene né assorbita e né secreta. E’ quindi una sostanza che, così come la assumo, la
ritrovo nelle urine.
Misuriamo la concentrazione di una sostanza, per esempio, dell’inulina (che iniettiamo noi):
precisamente 4 molecole su 100ml. Appena il filtro glomerulare sarà riuscito a produrre 100ml di
ultrafiltrato, questo conterrà, quindi, 4 molecole di inulina: tutte le sostanze che abbiamo immesso
nel plasma, infatti, le troviamo con la stessa concentrazione nell’ultrafiltrato. La ritroveremo, poi, in
stesse concentrazioni, anche nell’escreto o urina.
Quindi, il carico filtrato è uguale al carico escreto.
Il primo lo otteniamo moltiplicando la concentrazione della sostanza nel plasma per la VFG, che
però ancora non conosciamo. Il carico escreto, invece, lo otteniamo misurando la concentrazione
della sostanza nelle urine per la VFG.
Quindi, basterà raccogliere le urine della giornata e, sulla base della concentrazione della sostanza
nelle urine, calcoleremo la VFG. Ma come? Se il carico filtrato deve essere uguale al carico escreto,
possiamo ricavare la velocità di filtrazione glomerulare, dividendo il prodotto fra concentrazione di
escreto e velocità di filtrazione dell’escreto, fratto la concentrazione di plasma. Di conseguenza, la
dove U sta per la concentrazione urinaria del farmaco, V sta per il volume di urina escreta per ogni
minuto ed, infine, P sta per la concentrazione plasmatica del farmaco.
Per quanto riguarda il glucosio, per esempio, questo viene riassorbito completamente (100%) e,
dunque, nell’urina non lo ritroviamo: la sua clearance è uguale a 0. Poiché il glucosio viene
riassorbito, non ci dà importanti informazioni sulla capacità di filtraggio del rene: bisogna, infatti,
utilizzare sostanze che vangano filtrate. Per quanto riguarda l’urea, per esempio, questa viene
parzialmente riassorbita: troveremo nelle urine la metà dell’urea; la sua clearance è di 50ml al
minuto (il rene riesce a smaltire solo 50ml di urea al minuto).
Nel caso della penicillina, invece, non viene riassorbita, ma viene secreta: nell’urina, dunque,
troveremo una concentrazione superiore di quella iniziale (+50%): la clearance è, dunque, del
150ml al minuto. Quindi, ogni volta che la clearance di una sostanza è minore, significa che c’è
stato un riassorbimento; se è nulla, non c’è stato riassorbimento; se è maggiore, vuol dire che c’è
stata secrezione.

Riassorbimento e secrezione
Questi processi si svolgono lungo il tubulo renale.
Avvengono sia per trasporti liberi (attraversamento libero per differenza di concentrazione), sia per
trasporti mediati da particolari molecole, che possono essere di tipo passivo o di tipo attivo. Questi
processi hanno una localizzazione ben precisa, a seconda delle sostanze.
Riassorbimento e secrezione avvengono parallelamente e anche i processi attivi e passivi
avvengono in contemporanea. Nel TCP (tubulo contorto prossimale) avvengono il 60% dei
fenomeni di riassorbimento attivo (di Na, glucosio, amminoacidi), scambi passivi di K, H2O e ioni e
secrezione di creatinina e acido ippurico.
La sequenza del riassorbimento a livello del TCP vede il riassorbimento del Na per fenomeni attivi.
A livello dell’ansa di Henle, invece, abbiamo solo riassorbimento passivo di H 2O, Na e Cl. I
processi ricominciano, poi, a livello del TCD e del dotto collettore. A questo livello, i processi sono
ormone-regolati, ossia non avvengono più per semplice osmosi, ma rispondono a particolari ormoni
(aldosterone e ADH). Nel TCD, per esempio, si ha una grande influenza dell’aldosterone, per il
riassorbimento di Na, K e Cl, mentre nel dotto collettore si ha un’influenza dell’ADH per quanto
riguarda il riassorbimento di acqua.
Una via di passaggio è il trasporto transcellulare: le sostanze devono attraversano la membrana
luminale e quelle basolaterali dell’epitelio. In un’altra via, invece, ossia nella via paracellulare, le
sostanze attraversano l’epitelio passando dalle giunzioni tra cellule.
Nel TCP, la pompa sodio-potassio butta fuori l’Na e porta dentro il K: mantiene, quindi, bassa la
concentrazione di Na all’interno; per cui, la cellula spinge il Na ad entrare nella cellula e funge da
cotrasportatore, per esempio, per il glucosio, che può, dunque, entrare nella cellula (oltre al
glucosio, può portare anche altre sostanze, ovviamente).
Il Cl, invece, che può attraversare le membrane grazie alla via paracellulare, segue il suo gradiente
elettrochimico: è spinto a passare nel liquido interstiziale. In tutto, quindi, ciò che viene assorbito, è
l’NaCl. Quindi, in tutto, questo processo permette, contemporaneamente, di assorbire NaCl e di
assorbire altre sostanze (come il glucosio).
Le sostanze riassorbite per cotrasporto sono il glucosio, i fosfati e diversi aminoacidi.
• Glucosio: riassorbito per il 99% a livello del TCP per meccanismo di cotrasporto del Na.
Questo, tuttavia, è valido solo se la concentrazione plasmatica del glucosio si mantiene in
certi valori (dai 4,2 ai 6mM). Quando la concentrazione cresce fino a 20mM, i trasportatori
non riescono a trasportare più molecole di glucosio (sono saturi) e, dunque, questo glucosio
non viene più riassorbito e finisce nell’urina.
• Fosfati: riassorbiti per l’80% nel TCP, grazie al cotrasporto di Na. La stessa cosa che
avviene per il glucosio avviene anche per i fosfati. Se aumenta troppo la concentrazione dei
fosfati, si possono formare dei calcoli renali (depositi di fosfato di calcio).
• Aminoacidi: riassorbiti per il 99% nel TCP, grazie allo stesso meccanismo del glucosio.
Per quanto riguarda il riassorbimento dell’acqua, l’80% viene riassorbito nel TCP. Il resto, invece,
prosegue nel tubulo del nefrone e può essere riassorbita in misura maggiore e minore in relazione
all’ormone; per questo motivo, il riassorbimento del restante 20% è detto riassorbimento non
osmotico o facoltativo.

La vasopressina (ADH) e l’inserzione di pori per l’acqua


Il riassorbimento dell’acqua, a livello del dotto collettore, è sottoposto al controllo ormonale della
vasopressina o ADH. Quando si ha la perdita d’acqua da parte dell’organismo, aumenta
l’osmolarità del plasma e diminuisce il volume del LEC (per esempio, in seguito ad intensa
sudorazione). Questo stimola dei recettori, che stimolano l’ipotalamo, il quale aumenta il rilascio di
ADH da parte dell’ipofisi. Questa viene versata in circolo, raggiunge il liquido renale e provoca una
aumento del riassorbimento di acqua nel dotto collettore.
Una volta raggiunto le cellule del dotto collettore, infatti, la vasopressina si lega a dei recettori di
membrana che, promuovono l’aumento della produzioni di AMP-ciclico nella cellula. Questo va a
stimolare la migrazione e l’inserimento, nella membrana, di alcune piccole vescicole che formano
dei canali per l’acqua, le acquapurine, aumentando così il riassorbimento di acqua.
Riguardo, invece, al riassorbimento dei Sali, questo viene regolato dall’aldosterone, che viene
mandato in circolo, entra nella cellula del tubolo renale e va a legarsi ad un recettore. Questo
processo sollecita il nucleo, promuove un aumento dell’mRNA e, dunque, la sintesi di proteine che
formano nuovi canali, i quali permettono il riassorbimento di una maggiore quantità di Na e Cl.

Scambiatore di calore controcorrente


Quando il sangue raggiunge la periferia (per esempio, l’estremità delle dita), arriva con una certa
temperatura. Questo calore viene dissipato nell’ambiente. Ma, nel caso che fuori sia freddo, come
viene conservato il calore?
Il risparmio di calore viene ottenuto grazie al fatto che la branca che porta il sangue verso la

periferia e quella che, dalla periferia, lo porta verso il centro, sono molto vicine.
Quando sono lontane, il sangue che arriva in periferia dissipa il calore e, dunque, il sangue che torna
verso il centro risulta essere freddo. Nella situazione in cui le due branche siano vicine, invece, il
sangue più caldo che entra nell’ansa, consente al sangue più freddo, che torna verso il centro, di
riscaldarsi. Mediante lo scambiatore di calore controcorrente, quindi, il sangue che raggiunge l’arto
tramite le arterie cede calore al sangue che torna al corpo tramite le vene. Mentre il sangue più
freddo dall’estremità dell’arto torna al corpo, sottrae calore al sangue più caldo che si porta verso
l’arto. Questa disposizione riduce la perdita di calore verso l’ambiente.
Il sistema controcorrente renale, costituito dall’ansa di Henle, lavora utilizzando lo stesso principio,
solo che sono qui i soluti e non il calore che vengono spostati.
Il liquido fluisce dal tubulo prossimale alla branca discendente dell’ansa di Henle. Il tratto
discendente è permeabile all’acqua ma non trasporta ioni. Mano a mano che l’ansa scende in
profondità nella midollare l’acqua si muove per osmosi verso il liquido interstiziale,
progressivamente più concentrato, lasciando i soluti all’interno del lume. All’estremità delle anse di
Henle più lunghe, il liquido del tubulo raggiunge una concentrazione di 1200 mOsM. Quando il
liquido comincia a scorrere verso l’alto perché entra nel tratto ascendente dell’ansa, le proprietà
dell’epitelio tubulare cambiano. Il tubulo diviene impermeabile all’acqua, ma trasporta attivamente
Na+ e Cl- dal tubulo verso il liquido interstiziale. La fuoriuscita di soluti dal lume determina una
diminuzione costante dell’osmolarità del liquido all’interno del tubulo, da 1200 mOsM all’estremità
dell’ansa fino a 100 mOsM a livello della zona corticale. Il risultato netto del moltiplicatore per
controcorrente renale è la produzione di un liquido interstiziale iperosmotico a livello della
midollare e di un liquido ipoosmotico alla fine dell’ansa di Henle. Parallelamente a tutto questo
processo, l’acqua eliminata durante la fase discendente, viene assorbita dai vasa recta.

L’apparato digerente
E’ una delle fonti con le quali ingeriamo sia acqua, che Sali, che vari materiali nutritizi.
Funzioni nutritizia:
• Assunzione di materiale nutritizio
• Trasformazione in molecole semplici
• Assorbimento per utilizzo cellulare
• Escrezione
Bilancio idrico:
• Ingresso e uscita di acqua a livello del canale digerente: molta acqua, infatti, viene
assorbita, ma molta viene anche secreta per amalgamare il bolo e il chimo.
Funzione difensiva
• Tessuto linfatico associato all’intestino (GALT)
• Muco, enzimi e acidi

Prima di tutto abbiamo l’ingestione, ossia l’introduzione di materiale nutritizio, la masticazione e la


deglutizione; abbiamo poi la digestione, cioè la trasformazione chimica e meccanica del cibo; poi
l’assorbimento, quindi il trasferimento delle molecole dal lume del tubo al LEC e al sangue; Infine,
abbiamo l’escrezione, ossia l’eliminazione dei prodotti di scarto.
Lungo il percorso del tubo digerente, sono presenti degli sfinteri di muscolatura liscia, con uno stato
di contrazione costante, che li mantiene chiusi e che viene allentata soltanto nel caso in cui deve
essere consentito il passaggio del materiale nutritizio. Tutte queste funzioni appena descritte NON
sono soggette al controllo del SNA.
Il SNA, invece, regola la motilità della parete del lume digerente e la secrezione. La motilità
riguarda tutti quei movimenti della parete degli organi digerenti; la secrezione, invece, si riferisce al
rilascio di sostanze prodotte da cellule della parete del tubo verso il lume.
Struttura della parete del tubo
In generale, tutti i livelli della parete del tubo digerente sono costituiti da:
• Componente ghiandolare
• Componente muscolare, localizzata in parte sotto l’epitelio rivolto verso il lume e in
parte verso la parte basale dell’epitelio;
• Componente nervosa, ossia un insieme di cellule, raggruppate a formare una rete di
interazioni nervose, per permettere che, a livello del tubo digerente, si abbia un vero e
proprio centro di elaborazione nervosa di informazioni.

La motilità e gli schemi di contrazione


Esistono 4 tipi di motilità:
• Complesso motorio migrante, ossia un insieme di onde di contrazioni leggere, che
riguarda le parete nel tubo digerente negli intervalli fra un pasto e l’altro e servono a
continuare a far avanzare la massa ingerita, anche negli intervalli fra i vari pasti.
• Contrazione peristaltica, che consente la progressione del cibo. Si manifestano come
delle onde. Si basano sulla disposizione circolare e longitudinale della muscolatura liscia. La
muscolatura circolare, infatti, si contrae a monte, determina una strozzatura e spinge,
dunque, il bolo ingerito in avanti. Parallelamente, si contrae la muscolatura liscia
longitudinale, che permette al bolo di avanzare.
• Contrazione segmentale, rivolta a rimescolare il cibo. Le troviamo nello stomaco,
associate alle contrazioni peristaltiche. Si svolgono alternando zone di contrazione a zone di
rilasciamento. In questo modo, il cibo viene amalgamato, attraverso le contrazioni
segmentali, e fatto avanzare, attraverso contrazioni segmentali.
• Contrazione tonica, a livello degli sfinteri, per permettere al cibo o di soggiornare o di
avanzare da compartimento a compartimento.
Ciò che guida la contrazione delle cellule è un PdA, che deriva da stimoli di tipo meccanico.
Basta la sollecitazione di una cellula, per comunicare la contrazione a tutte le altre cellule (sincizio
unitario).
Per quanto riguarda la secrezione, nei liquidi prodotti troviamo enzimi digestivi, muco, ioni e
acqua. A livello dello stomaco viene prodotta una rande quantità di acido cloridrico (HCl): questo
consente sia un contributo alla funzione digestiva (l’elevata acidità aiuta l’emulsione dei grassi e
contribuisce all’attivazione del pepsinogeno), sia una funzione antibatterica: l’ambiente acido
uccide gli agenti patogeni. L’acido cloridrico viene prodotto grazie all’attività dell’anidrasi
carbonica, a partire dell’anidride carbonica. Questa promuove l’idrolisi dell’anidride carbonica in
ioni bicarbonato e ioni idrogeno. Nell’effettuare questa scissione, l’acqua viene indotta a dividersi
in H+ e OH-. Lo ione H+, grazie ad una pompa protonica (che butta fuori lo ione idrogeno), porta
dentro uno ione K+. Lo ione H+ buttato fuori, reagisce con lo ione Cl- che, formando HCl.

A livello del pancreas e dell’intestino, invece, l’ambiente è basico, poiché viene secreto il
bicarbonato. Sempre ad opera dell’anidrasi carbonica, la CO 2 con l’acqua, produce ione
bicarbonato e idrogeno. Lo ione bicarbonato viene portato verso il lume dell’intestino, mentre lo
ione Cl- viene portato verso l’interno della cellula. Lo ione H +, prodotto dall’idrolisi con la CO 2,
viene scambiato con il Na+, che entra passivamente nella cellula e che viene, poi, buttato fuori dalla
pompa sodio-potassio. Tutto questo trasporto passivo di ioni, produce energia, grazie alla quale lo

ione bicarbonato viene espulso nel lume dell’intestino.


Le cellule della mucosa gastrica hanno un’elevata capacità di produrre muco, il quale forma come
una gelatina di spessore molto elevato che, oltre a proteggere le cellule della mucosa gastrica
dall’acidità del liquido gastrico, include una grande quantità di ioni bicarbonato, i quali
neutralizzano gli ioni H presenti sotto forma di HCl a livello dello stomaco.

La digestione e l’assorbimento
I carboidrati che ingeriamo sono sotto forma di amido e disaccaridi. Questi vengono digeriti da
specifici enzimi. I prodotti sono dei monosaccaridi. Gli enzimi che digeriscono i carboidrati li
troviamo nella saliva, nel pancreas e nell’intestino.
Per quanto riguarda le proteine, gli enzimi che le digeriscono vengono detti peptidasi. I prodotti
sono aminoacidi. Le proteine vengono digeriti nello stomaco e nell’intestino. Gli enzimi prodotti
arrivano dal pancreas.
Riguardo ai grassi, questi devono prima essere emulsionati e, solo dopo, grazie alle fosfolipasi,
vengono demoliti in fosfogliceridi e acidi grassi. I grassi vengono scissi sia a livello dello stomaco
che dell’intestino.
La digestione viene seguita dall’assorbimento, ossia al passaggio dei nutrienti dal lume del tubo
digerenti al sangue, attraverso l’epitelio, a livello dello stomaco, dell’intestino tenue e del crasso.
Per quanto riguarda l’assorbimento dei carboidrati, il glucosio anche qui viene assorbito grazie al
cotrasporto del glucosio.
Riguardo alle proteine, gli enzimi che le digeriscono sono aggressiva anche contro le cellule
parietali. Per questo, vengono secreti in modo inattivo: vengono attivati solamente in presenza di
specifiche proteine. A livello dello stomaco, per esempio, il pepsinogeno viene attiva in pepsina
dall’acidità dell’HCl. La stessa cosa avviene a livello dell’intestino, dove il tripsinogeno viene
trasformato in tripsina. Anche nel caso delle proteine, queste vengono assorbite grazie a
cotrasportatori (come per il glucosio).
Per quanto riguarda i lipidi, la goccia di grasso non si mescola con l’ambiente acquoso, perché
idrofobo. Allora, questa viene scissa in micelle (piccole gocce lipidiche) grazie ai Sali biliari,
prodotti a livello del fegato. Una volta demolite, possono essere attaccate dalle lipasi, che le
trasformano in piccole molecole, che vengono poi assunte. Una volta all’interno delle cellule,
passano nell’ambiente extracellulare e vanno a formare die conglomerati (chilomicroni), che
vengono portati via grazie al circolo sanguigno e al circolo linfatico.

Regolazione delle funzioni digestive


Vengono regolate sia dal punto di vista:
• Nervoso: Grazie a impulsi nervosi, che arrivano dal SNC e del SNE (Sistema Nervoso
Enterico). Si attua attraverso dei cosiddetti riflessi. Un particolare stimolo attiva una via
nervosa, la quale si collega ad un organo effettore. Il riflesso, quindi, ha la caratteristica di
essere una via fra lo stimolo e la risposta: ogni volta che viene dato quello stimolo, si ha
quella precisa risposta. Questi stimolo possono essere di tipo lungo e di tipo corto. I primi
partono anche dalla regione encefalica e vanno a stimolare la muscolatura liscia del tratto
gastro-intestinale. Questi riflessi possono derivare anche da riflessi cosiddetti anticipatori
(per esempio, quando pensiamo al cibo) o emozionali (stress). I secondi, invece, si
realizzano sul luogo: sono stimolazioni che vengono effettuate direttamente sulla parete del
tubo digerente.
• Umorale: Vede l’intervento di sostanze di tipo umorale, immesse nel circolo sanguigno,
che stimolano le cellule a produrre più o meno enzimi, ecc.

Nella digestione possiamo distinguere 3 fasi:


• Fase cefalica (cavità orale ed esofago). Troviamo tutti quegli stimoli anticipatori ed
emozionali, ma anche gli stimoli derivanti dalla presenza del cibo in bocca. Da questo ne
segue la masticazione, la secrezione e la deglutizione (attività riflessa). Già l’attivazione di
tutti questi stimoli, prepara lo stomaco ad accogliere il bolo.
• Fase gastrica. Comincia il deposito del bolo e il rimescolamento. Parallelamente inizia
anche la secrezione di enzimi gastrici. Inoltre, viene sollecitata anche l’attività protettiva
dello stomaco, ossia la formazione della barriera di muco bicarbonato. Elemento importante
è anche la produzione del fattore intrinseco, che permette l’assorbimento della vitamina
B12.
• Fase intestinale. Qui viene accolto il cibo trattato in ambiente acido dallo stomaco.
Viene fatta cominciare la secrezione basica del bicarbonato, che tampona l’acidità del
chimo. Il passaggio da un ambiente acido ad uno basico fa sì che vengano disattivati gli
enzimi prima attivi e vengano, invece, attivati altri enzimi, associati al tratto intestinale.

Il sistema nervoso
Il SNC è localizzato nell’encefalo e nel midollo spinale. Dal SNC partono delle vie nervose, i
neuroni, che si dividono verso le regioni periferiche dell’organismo: sono i neuroni efferenti, che
portano le informazioni dal SNC verso la periferia. Si dividono in una porzione somatica, che
controlla i muscoli scheletrici (volontario). La sfera del SNA, che parte anch’essa dal SNC, riguarda
tutti quei nervi che vanno a regolari organi involontari.
Tutte le informazioni vengono prese da alcuni recettori, che le portano al SNC tramite vie afferenti;
qui, vengono elaborate e portate in periferia alcune risposte, tramite vie efferenti.
Schematicamente, possiamo vedere il SNP come diviso in:
• Efferente (direzione centrifuga)
• Afferente (direzione centripeta)
Tutte le fibre afferenti sono quelle sensoriali. Tutte le fibre efferenti, invece, sono quelle motorie.
Il termine “motorio”, quindi, non si riferisce solo al movimento, ma a tutti quei nervi che, dal SNC,
si muovono verso la periferia.
Il controllo può essere, poi, di tipo viscerale (involontario), o somatico (volontario).

I riflessi
I riflessi sono risposte rapide, involontarie, stereotipate (ossia che avvengono sempre nello stesso
modo) e innate. Un arcoriflesso è costituito da 5 fasi:
• Un recettore sensoriale
• Una via afferente sensoriale
• Un centro di integrazione (SNC)
• Una via efferente
• Un organo effettore
Il riflesso può essere:
• Monosinaptico o polisinaptico: il primo se c’è una sola sinapsi fra neurone sensoriale e
neurone efferente; il secondo se è presente anche un interneurone, fra il neurone sensoriale e
quello effettore;
• Unilaterale o crociato: il primo se lo stimolo e la risposta sono sulla stessa parte del
corpo; il secondo se la risposta avviene sulla parte opposta del corpo rispetto allo stimolo;
• Eccitatorio o inibitorio: il primo provoca la contrazione dei muscoli che eseguono la
risposta; il secondo provoca il rilasciamento dei muscoli.
Un esempio di arcoriflesso polisinaptico è il riflesso di flessione.
Lo stimolo è un nocicettivo (fiamma, puntura), il recettore è un cutaneo nocicettivo, il centro di
organizzazione è il midollo spinale (interneuroni), la via efferente è il motoneurone e l’organo
effettore è il muscolo flessore dell’arto. La risposta finale sarà la retrazione della parte corporea
interessata. L’entità della risposta dipende dal numero di muscoli coinvolti in funzione
dell’estensione dell’area stimolata, dell’intensità e della durata dello stimolo (sommazione spaziale
e temporale).
Un particolare tipo di riflesso è il riflesso miotatico. Se teniamo un braccio piegato e poniamo un
peso sul palmo della mano, questo grava sulla mano e allunga il muscolo. Si viene a stimolare, così,
un nervo detto fuso neuromuscolare. Questo scatena, quindi, una contrazione riflessa, che riporta il
braccio alla posizione originale.
Esiste, però, anche il riflesso miotatico inverso. Questo evita che un carico eccessivamente elevato,
provochi delle lesioni a livello tendineo. Quando il carico, infatti, è troppo grande, il recettore del
tendine muscolare si attiva e fa partire un riflesso inibitorio, che fa rilasciare il muscolo e abbassare
il braccio.
I riflessi, come già detto, sono delle risposte che l’organismo riesce a dare, anche se non le ha
apprese durante la vita. Alcuni riflessi, però, possono essere anche condizionati. In questi casi,
grazie all’apprendimento, è possibile influire con la volontà sul riflesso: grazie ad alcuni
interneuroni, è possibile creare alcune vie ascendenti, che collegano il riflesso al SNC; è possibile,
dunque, avere percezione cosciente del riflesso, che diventa, per questo motivo, condizionabile. Un
tipo di riflesso condizionato è quello, per esempio, della minzione. Quando la vescica si riempie,
per essere svuotata, si agisce su due sfintere: uno interno (involontario) e uno esterno (che viene
contratto volontariamente).
Nel riempimento, le pareti della vescica si stirano. Qui, sono presenti dei recettori da stiramento,
che inviano delle informazioni al SNC, il quale stimola il muscolo involontario a rilasciarsi.
Anche la deglutizione è un tipo di riflesso condizionato. La lingua, infatti, spinge il bolo contro il
palato e nella parte posteriore della bocca, innescando il riflesso della deglutizione. Lo sfintere
esofageo superiore si rilascia, mentre l’epiglottide si chiude per impedire che il materiale inghiottito
entri nelle vie aeree. Il cibo scende nell’esofago, spinto dalle onde peristaltiche e agevolato dalla
forza di gravità.

I recettori sensoriali e la loro classificazione


L’informazione viaggia sempre sotto forma di PdA. Ma allora come può, uno stimolo diverso da un
altro, provocare una risposta diversa?
Possiamo trovare una divisione per organizzazione strutturale: I tipo, II tipo e III tipo.
Divisione per tipo di stimolo: meccanocettori, chemiocettori, termocettori, fotocettori e algocettori.
Divisione per ubicazione: esterocettori e endocettori. Fra questi ultimi, troviamo gli enterocettori,
che rilevano informazioni dei visceri, dei vasi e delle funzioni dei vari organi; e i propriocettori, che
rilevano informazioni dalle articolazioni, dai muscoli, dai tendini.
Infine, abbiamo la divisione secondo l’adattamento: lento, intermedio e rapido.

Organizzazione strutturale dei recettori: I tipo


Sono quelli che presentano un corpo cellulare, dal quale si dirama un prolungamento, che si divide
subito in 2. Una funge da assone, mentre l’altra manda l’informazione verso un secondo neurone.
Sono, quindi, sempre neuroni a T. Questi neuroni sono chiamati cellule bipolari. Questi vengono
chiamati neuroni sensoriali primari, perché sono i primi che si mettono in rapporto con lo stimolo
diretto. Li troviamo nella cute, localizzati a diverse profondità.
Organizzazione strutturale dei recettori: II e III tipo
La cellula, qui, è una cellula non nervosa, specializzata a recepire lo stimolo e a trasmetterlo. Il II
tipo è costituito da una sola cellula non nervosa, mentre il III tipo è costituito da 2 cellule non
nervose.

Ogni tipo di stimolo, contiene un certo tipo di informazione, che possiede una determinata quantità
di energia: questa viene elaborata e trasformata in energia elettrica, che può viaggiare lungo le fibre
neuronali. Questo avviene grazie alle proprietà elettrofisiologiche dei recettori. Avviene secondo 2
tappe:
• La trasduzione: è la conversione dello stimolo in un segnale elettrico analogico adatto
ad attivare le terminazioni nervose: potenziale del recettore (potenziale di tipo graduato, con
ampiezza direttamente proporzionale all’intensità dello stimolo);
• La codificazione: è la conversione del potenziale del recettore in una scarica di
potenziali d’azione.
Nel caso di uno stimolo chimico, il recettore è un canale di membrana, strutturato in modo da essere
sensibile ad una molecola chimica. Quando si presenta la molecola questa interagisce con il canale
di membrana, lo apre e permette l’ingresso di molecole, che creano una depolarizzazione e un PdA.
C’è sempre una relazione proporzionale al numero di molecole che entrano, ossia all’intensità di
stimolo.
Nel caso di uno stimolo meccanico, questo sarà sensibile ad una deformazione di membrana:
quando questa viene stirata, si aprono i canali di membrana, che fanno partire il PdA.
Nei recettori di II tipo, invece, la cellula sensoriale rilascia un neurotrasmettitore, che va ad evocare
un potenziale postsinaptico del tipo eccitatorio che, andando ad invadere la regione encoder e fa

partire la seconda fase, ossia la codificazione.


Nei recettori di I tipo, è la terminazione nervosa stessa ad essere sensibile allo stimolo: viene
evocato il PdA del recettore, che si associa a correnti elettrotoniche, le quali interessano una zona
sensibile (encoder), dal quale partono i vari PdA.
In un recettore del II tipo o del III tipo, invece, c’è la tappa sinaptica da superare. La cellula
sensoriale, quindi, deve rilasciare un neurotrasmettitore, il quale solleciterà il neurone sensoriale
primario, generando un potenziale graduato eccitatorio, il quale invade la zona dell’encoder,
facendo partire la codificazione e, dunque, i vari PdA.
Nella codificazione, un aumento dell’ampiezza del potenziale del recettore provoca solo l’aumento
della frequenza di scarica dei potenziali d’azione, non dell’ampiezza dei potenziali d’azione.

Adattamento dei recettori sensoriali


Esistono 2 tipi di recettori:
• Recettori Fasici (On, Off e On/Off)
• Recettori Tonici
I recettori fasici On si adattano rapidamente, appena viene somministrato lo stimolo e poi smettono
di percepirlo. I recettori fasici Off, invece, percepiscono solo quando termina lo stimolo. I recettori
On/Off percepiscono sia l’inizio che il termine dello stimolo (risponde alle sole variazioni di
stimolo). Infine, i recettori tonici non si adattano mai allo stimolo o molto lentamente (tonici-
fasici).

Potrebbero piacerti anche