Anno 2015
A. M. G
BIOFISICA
1
INTRODUZIONE
E
BIOFISICA
Fisiologia:
definizione
La
fisiologia
è
lo
studio
delle
funzioni
degli
organi
e
della
loro
integrazione
che
permettono
all’organismo:
-‐ il
mantenimento
di
condizioni
che
consentano
la
vista
(omeostasi);
-‐ l’interazione
con
l’ambiente;
-‐ la
riproduzione
e
lo
sviluppo.
Non
si
può
estrapolare
dal
contesto
la
fisiologia
e
la
funzione
di
un
determinato
organo,
in
quanto
le
funzioni
sono
estremamente
correlate
tra
loro.
Biofisica
Per
biofisica
si
intende
l’utilizzo
della
fisica
per
lo
studio
delle
funzioni
biologiche.
La
biofisica
è
diventata
la
fisiologia
delle
membrane
cellulari,
quindi
lo
studio
delle
membrane
del
nervo,
del
muscolo
e
della
sinapsi.
Considerate
le
funzioni
di
tessuti
eccitabili
(tessuto
nervoso
e
muscolare),
si
comprende
che
alla
base
di
queste
funzioni
c’è
la
polarizzazione
della
membrana
cellulare:
tutte
le
cellule
di
questi
tessuti
mostrano
un
potenziale
di
membrana
modificabile.
In
un
motoneurone
spinale,
cellula
presa
come
riferimento,
è
-‐70mV,
interno
negativo
(a
riposo,
l’interno
è
negativo).
In
una
cellula
di
miocardio
da
lavoro,
il
potenziale
è
-‐85mV.
Parlando
di
attività
del
muscolo
o
del
sistema
nervoso,
si
parla
sostanzialmente
di
modificazioni
del
potenziale
di
membrana
che
producono
passaggio
di
corrente
ionica
attraverso
la
membrana.
La
corrente
è
trasportata
quindi
attraverso
il
movimento
degli
ioni
(che
si
trovano
in
un
mezzo
conduttore),
strettamente
correlato
al
funzionamento
del
SNC.
Le
modificazioni
del
potenziale
di
membrana
possono
essere
divise
in
due
categorie:
-‐ potenziale
d’azione:
si
presenta
in
molteplici
forme.
È
detto
anche
spike
o
impulso
nervoso,
ed
è
una
variazione
del
potenziale
di
membrana
che
si
propaga
senza
modificazione
di
ampiezza
per
distanze
molto
lunghe.
Per
comprendere
questa
definizione
(caratteristica
fondamentale
per
l’impulso
nervoso),
basta
pensare
ai
neuroni
cortico-‐spinali
(che
devono
coprire
distanze
lunghe
anche
metri)
o
ai
motoneuroni
frenici
(che
da
C4
si
porta
al
diaframma)
di
animali
come
giraffe
o
balene;
-‐ potenziali
graduati
o
elettrotonici:
non
sono
potenziali
di
trasmissione,
in
quanto
muoiono
nello
spazio
di
poche
centinaia
di
micron.
Quando
una
cellula
genera
un
potenziale
d’azione,
esso
corre
e
arriva
alla
terminazione
sinaptica,
dove
induce
la
liberazione
del
neurotrasmettitore.
Quest’ultimo,
esocitato
dall’assone
presinaptico
interagisce
con
il
neurone
bersaglio,
modificandone
il
potenziale
d’azione:
la
membrana
può
depolarizzarsi
(da
-‐
70mV
si
sposta
a
-‐65mV)
e
in
questo
caso
viene
favorita
l’insorgenza
del
potenziale
d’azione
(eccitazione);
se
la
membrana
si
iperpolarizza
(da
-‐70
a
-‐95mV),
invece,
si
ha
inibizione
sinaptica.
I
segnali
ricevuti
da
un
neurone
si
sommano
a
livello
di
alberi
dendritici
e
corpi
cellulari,
determinando
la
possibile
risposta
cellulare,
che
può
essere:
-‐ il
neurone
viene
eccitato
a
sufficienza
da
produrre
un
potenziale
d’azione;
-‐ il
neurone
viene
eccitato,
ma
non
abbastanza
da
produrre
il
potenziale
d’azione;
-‐ il
neurone
viene
inibito,
rendendo
più
difficile
l’eccitazione.
Tra
nervo
e
muscolo,
il
potenziale
d’azione
passa
sempre
dal
nervo
al
muscolo,
il
quale
viene
percorso
dal
potenziale
d’azione
sulla
sua
superficie,
che
ne
induce
la
contrazione
progressivamente.
Il
potenziale
di
membrana
nasce
dal
fatto
che
la
concentrazione
ionica
non
è
uguale
nei
due
compartimenti
delimitati
dalla
membrana
(extracellulare
ed
intracellulare).
Il
sodio
(così
come
calcio
e
cloro)
è
sempre
più
concentrato
al
di
fuori
della
cellula,
mentre
il
potassio
all’interno.
In
più,
l’interno
della
cellula
è
ricco
di
anioni
non
presenti
nel
liquido
extracellulare
(gruppi
fosfati
e
proteinati).
L’esistenza
di
gradienti
di
concentrazione
per
gli
ioni
produce
delle
spinte
diffusionali:
se
c’è
differenza
di
concentrazione,
gli
ioni
si
sposteranno
da
dove
sono
più
concentrati
a
dove
lo
sono
di
meno
e
il
flusso
di
correnti
elettriche
risultanti
determinerà
potenziali
diffusionali.
Il
potenziale
di
membrana
è
quindi
conseguenza
della
diversa
concentrazione
degli
ioni
e
le
correnti
da
essi
generate
nel
loro
movimento
attraverso
la
membrana.
2
Canali
ionici
Le
correnti
sono
trasportate
da
ioni
che
devono
attraversare
il
doppio
strato
lipidico,
motivo
per
cui
sono
necessari
canali
ionici.
I
canali
ionici
sono
glicoproteine
integrali
di
membrana
che
sono
assemblate
in
modo
tale
da
attraversare
tutto
il
doppio
strato
fosfolipidico.
Possono
avere
struttura
unitaria,
ma
generalmente
sono
formate
da
diverse
subunità.
Si
possono
quindi
distinguere
canali
omomeri
(tutte
le
subunità
sono
uguali)
ed
eteromeri
(le
subunità
sono
diverse).
Le
subunità
delimitano
un
canale
acquoso
attraversabile
dagli
ioni.
La
velocità
di
passaggio
è
elevata,
circa
100
milioni
di
ioni
al
secondo.
La
proprietà
fondamentale
di
questi
canali
è
la
selettività:
molti
canali
hanno
selettività
specifica
per
un
determinato
ione.
La
selettività
è
di
fondamentale
importanza
in
quanto
determina
sostanzialmente
il
segno
della
risposta
(quindi
eccitazione
o
inibizione
del
neurone)
della
membrana
al
neurotrasmettitore.
L’esempio
è
il
canale
per
il
sodio
voltaggio
dipendente.
In
alcuni
casi,
come
nelle
cellule
cardiache,
l’unica
subunità
che
forma
il
canale
è
la
subunità
α,
un’unica
catena
amminoacidica
su
cui
si
ritrovano
4
domini
successivi
ripetuti.
Ogni
dominio
è
formato
da
6
segmenti
ad
α
elica,
ricchi
di
amminoacidi
idrofobici
che
attraversano
la
membrana.
I
segmenti
sono
collegati
da
loop
che
si
formano
o
verso
l’esterno
o
verso
l’interno
della
cellula.
Anche
i
domini
sono
collegati
da
loop
e
il
più
importante
è
quello
che
forma
la
regione
P
(tra
S5
ed
S6),
la
quale
determina
la
selettività
dello
ione.
Gli
ioni
entrano
nel
canale
con
la
loro
sfera
di
idratazione
(o
acqua
di
solvatazione,
una
sfera
di
molecole
di
acqua
attratte
dalla
sua
carica
elettrica):
tanto
più
piccolo
è
lo
ione,
più
è
maggiore
la
forza
con
cui
le
molecole
di
acqua
sono
attratte
(infatti
la
sfera
è
più
grande
quanto
maggiore
è
la
densità
della
carica
alla
superficie
dello
ione).
A
parità
di
carica
totale,
gli
ioni
più
piccoli
avranno
una
densità
di
carica
maggiore
e,
di
conseguenza,
una
sfera
di
idratazione
più
ampia.
Per
cui,
uno
ione
piccolo
crea
una
corona
di
molecole
di
acqua
maggiore
di
quella
di
uno
ione
grande,
le
cui
cariche
sono
disperse.
Arrivato
in
una
regione
detta
filtro
di
selettività,
lo
ione
si
coordina
con
una
sola
molecola
d’acqua
e
un
gruppo
espresso
sulla
parete
del
canale
(nel
caso
del
sodio,
un
gruppo
–COO−).
Quando
c’è
corrispondenza,
l’interazione
avviene
in
tempi
minori
del
microsecondo
(anche
un
centesimo
di
microsecondo).
Il
canale
per
il
sodio,
legato
alla
molecola
d’acqua,
forma
un
complesso
il
cui
diametro
corrisponde
esattamente
alla
dimensione
del
diametro
del
canale
nella
regione
del
filtro
di
selettività.
Esistono
diverse
sostanze
che
riescono
ad
entrare,
in
quanto
molto
vicine
al
dimetro
critico
(spesso
dimensioni
inferiori).
Al
contrario,
ioni
come
il
K+
non
sono
permeabili
in
quanto
le
dimensioni
molecolari
del
complesso
superano
quelle
del
diametro
del
canale
nel
punto
del
filtro
di
selettività.
I
canali
passivi
possono
essere
definiti
come
canali
aperti
a
riposo,
ma
in
realtà
un
canale
non
è
mai
sempre
aperto,
in
quanto
oscilla
tra
stati
on
e
off.
I
canali
ad
accesso
variabile
sono
canali
che
a
riposo
sono
chiusi
e
la
cui
apertura
avviene
solo
in
caso
di
eventi
particolari
(meccanismi
di
gating),
come
l’interazione
con
una
molecola
all’esterno
(ligando),
che
determina
l’apertura.
Si
tratta
di
tutti
i
canali
regolati
da
neurotrasmettitori.
Altri
canali
si
aprono
per
fosforilazione
(quando
un
gruppo
fosfato
è
attaccato
a
una
regione
interna
del
canale,
dal
versante
3
citoplasmatico).
Altri
ancora
sono
detti
canali
voltaggio
dipendenti
e
la
loro
apertura
dipende
quindi
dal
voltaggio
(sono
quelli
che
permettono
di
generare
il
potenziale
d’azione).
Un’altra
categoria
comprende
i
canali
regolati
da
deformazione
meccanica:
elementi
fibrillari
legano
il
canale
al
citoscheletro
o
alla
membrana,
per
cui
le
trazioni
esercitate
sulla
membrana
determinando
una
tensione
e
quindi
l’apertura
del
canale.
Questi
canali
permettono
di
generare
una
variazione
di
potenziale
in
un
meccanocettore
(permettono
all’elemento
nervoso
di
essere
sensibili
a
stiramento,
tensione
o
pressione).
Esistono
infine
recettori
che
si
aprono
per
stimoli
termici,
detti
TRP
(transient
receptor
potential).
Esempio
di
canale
regolato
da
ligando:
recettore
nicotinico
per
l’acetilcolina
Normalmente,
il
canale
è
chiuso
e
al
legame
di
due
molecole
di
acetilcolina
inizia
ad
alternare
stati
di
apertura/chiusura.
Nel
periodo
in
cui
non
c’è
corrente,
ci
sono
soltanto
piccole
fluttuazioni,
all’apertura
del
canale
si
osserva
una
corrente
di
cariche
positive
rivolta
verso
l’interno,
nuovamente
il
canale
si
chiude,
per
poi
riaprirsi
e
così
via.
L’apertura
è
completata
in
circa
1µsec.
Una
serie
di
molecole
sono
in
grado
di
agire
sul
recettore,
modulandone
la
risposta
all’acetilcolina.
Quindi,
quando
l’acetilcolina
si
lega
al
canale,
la
probabilità
di
apertura
del
canale
dipende
dalle
altre
sostanze
che
hanno
interagito
con
il
canale.
Molte
di
queste
sostanze
sono
tossiche.
Esistono
anche
regolazioni
fisiologiche
(meccanismo
di
gating
specifico):
fosforilazione/defosforilazione
del
canale
(che
altera
la
capacità
di
rispondere
al
neurotrasmettitore).
Questi
modulatori
si
legano
in
siti
diversi
rispetto
a
quelli
dell’acetilcolina.
Altre
sostanze,
invece,
competono
con
l’acetilcolina
per
il
legame
al
suo
sito:
-‐ agonisti:
legandosi
al
suo
sito
sul
canale,
svolgono
la
stessa
azione
dell’acetilcolina,
aprendo
il
canale.
La
capostipite
di
queste
sostanze
è
la
nicotina,
che
dà
il
suo
nome
al
canale
ionico
(recettore
nicotinico);
-‐ antagonisti:
legano
lo
stesso
sito
dell’acetilcolina,
ma
una
volta
sostituiti
ad
essa,
si
limitano
ad
impedire
l’azione
fisiologica
del
neurotrasmettitore,
quindi
non
aprono
il
canale.
In
realtà,
il
canale
non
ha
soltanto
lo
stato
chiuso
e
quello
aperto.
Il
terzo
stato
è
detto
stato
refrattario,
che
non
vuol
dire
che
il
canale
è
chiuso.
Lo
stato
refrattario
non
fa
passare
corrente
in
quanto
scatta
un
meccanismo
di
chiusura
diverso
rispetto
a
quello
dello
stato
chiuso:
il
poro
viene
nuovamente
obliterato,
ma
in
un
punto
diverso
da
quello
su
cui
opera
il
meccanismo
di
gating.
Tutti
i
canali
ionici
si
inattivano
più
o
meno
rapidamente,
chiudendo
il
canale
in
una
zona
più
interna
rispetto
a
quella
di
chiusura.
Per
questo
motivo,
il
primo
meccanismo
di
inattivazione
è
la
stessa
variazione
di
PM
responsabile
dell’apertura
(il
canale
resta
aperto
per
un
tempo
breve).
Un
altro
meccanismo
di
inattivazione
può
dipendere
dallo
ione
che
entra
attraverso
il
canale
stesso.
Il
canale
per
il
calcio
voltaggio
dipendente,
ad
esempio,
può
essere
inattivato
dallo
stesso
calcio:
il
canale
viene
bloccato
una
volta
che
il
calcio
si
lega
alla
parte
interna.
Anche
la
defosforilazione
inattiva
il
canale:
se
il
canale
ha
subito
una
fosforilazione,
nel
momento
in
cui
viene
rimossa
dalla
fosfatasi,
il
canale
si
inattiva.
Nel
caso
dei
canali
attivati
da
ligando,
l’inattivazione
può
essere
generata
dalla
prolungata
esposizione
al
ligando
stesso:
questo
processo
prende
il
nome
di
desensitizzazione
e
può
essere
associato
alla
fosforilazione
del
canale.
Lo
stato
aperto
e
chiuso
sono
in
equilibrio
dinamico
(il
canale
oscilla
tra
questi
due
stati),
ma
una
volta
passati
in
stato
refrattario,
il
canale
è
obbligato
a
passare
di
nuovo
allo
stato
chiuso
per
venire
poi
aperto.
Un
canale
in
stato
refrattario
è
inattivato.
Il
suo
passaggio
in
stato
refrattario
può
verificarsi
nei
processi
di
desensitizzazione,
i
quali
interessano
i
canali
ligando-‐dipendenti.
Si
tratta
del
fenomeno
per
cui
all’aumento
di
livelli
dei
neurotrasmettitori,
diminuisce
la
sensibilità
del
sito
per
il
neurotrasmettitore
stesso.
Nascono
dei
processi
che
rendono
i
canali
refrattari
all’apertura,
che
contribuisce
alla
desensitizzazione.
Nella
desensitizzazione,
i
canali
sensibili
al
ligando
vengono
rimossi
dalla
membrana.
Al
contrario,
quando
una
via
afferente
viene
persa
e
non
rilascia
più
neurotrasmettitore,
il
canale
diventa
più
4
sensibile
al
neurotrasmettitore
cui
non
viene
più
esposto
(iper-‐sensitizzazione).
I
canali
ionici
possono
essere
registrati
con
la
tecnica
del
patch-‐clamp,
che
ha
permesso
di
studiare
dal
punto
di
vista
funzionale
il
significato
delle
diverse
componenti
del
canale
ionico
e
che
consiste
nell’apporre
una
pipetta
sulla
superficie
di
una
cellula
e
produrre
una
suzione
che
sigilla
l’interno
della
pipetta,
isolandolo
completamente
dal
liquido
esterno
alla
cellula.
Per
lo
studio,
si
determina
l’espressione
su
oocita
di
rana
dei
canali
proprio
dell’uomo.
È
stato
possibile
comprendere
la
funzione
della
sequenza
di
amminoacidi
sostituendo
parte
della
sequenza
e
studiandone
le
conseguenze:
l’eliminazione
della
sequenza
della
regione
P,
ad
esempio,
determina
la
perdita
di
selettività.
Si
utilizzano
elettrodi
a
punta
piuttosto
larga,
anche
2µm
(normalmente
per
registrare
intra-‐
cellularmente
si
usano
elettroni
con
punte
di
diametri
minori
di
1µm,
circa
0.2
µm).
La
punta
molto
larga
viene
fatta
scaldare
in
modo
da
farle
perdere
le
asperità
che
potrebbero
danneggiare
la
cellula.
La
pipetta
viene
applicata
sulla
cellula
e
si
effettua
aspirazione
sufficientemente
lieve
da
non
rompere
la
membrana,
ma
abbastanza
forte
da
poter
unire
la
pipetta
alla
membrana
(generare
un
sigillo),
in
modo
che
la
resistenza
tra
il
liquido
contenuto
nella
pipetta
e
l’esterno
della
cellula
sia
dell’ordine
dei
GΩ
(Giga
Ohm).
Una
volta
creato
questo
Giga-‐seal
(sigillo)
si
può
misurare
la
corrente
generata
da
un
unico
canale.
Se
la
procedura
non
avviene
in
modo
corretto,
la
corrente
non
raggiunge
sempre
lo
stesso
livello,
ma
due
o
tre
livelli
a
seconda
di
quanti
canali
siano
contemporaneamente
aperti,
oppure
nessuno.
Si
misura
la
probabilità
(P0)
di
apertura
del
canale,
ovvero
il
rapporto
tra
il
tempo
in
cui
il
canale
è
aperto
e
il
tempo
di
osservazione,
i
tempi
medi
di
apertura
e
di
chiusura
e
la
corrente
totale
che
passa
attraverso
la
cellula
(osservabile
rompendo
la
cellula
mediante
suzione),
detta
corrente
macroscopica
(somma
delle
correnti
che
passano
attraverso
i
singoli
canali,
la
quale
dà
la
corrente
totale
che
passa
attraverso
la
membrana).
Le
leggi
dell’elettricità
mettono
in
relazione
la
corrente
che
passa
attraverso
il
canale
e
la
differenza
di
potenziale
che
genera
la
corrente.
In
particolare,
questa
relazione
è
espressa
dalla
legge
di
Ohm,
per
la
quale:
I
=
ΔV/R
1/R
=
G
I
=
ΔV
x
G
Dove
G
è
la
conduttanza
ed
è
uguale
a
1/R,
dove
R
è
la
resistenza,
ΔV
la
differenza
di
potenziale,
I
la
corrente.
Un
grafico
che
riporta
la
corrente
che
passa
in
un
canale
in
funzione
della
differenza
di
potenziale
permettere
di
dividere
i
canali
in
due
categorie.
Alcuni
canali,
i
canali
Ohmici,
seguono
la
legge
di
Ohm,
quindi
la
relazione
tra
corrente
e
differenza
di
potenziale
è
espressa
da
una
linea
retta:
la
conduttanza,
o
la
resistenza,
è
costante.
Gli
altri
canali,
detti
canali
rettificanti,
tra
cui
alcuni
importantissimi
per
la
vita
(come
quelli
espressi
nel
cuore),
non
hanno
resistenza
costante.
Rispetto
a
un
canale
a
resistenza
costante,
mostrano
una
corrente
maggiore
all’aumento
della
differenza
di
potenziale,
mentre
quando
la
differenza
di
potenziale
diminuisce
cambia
di
segno,
la
corrente
è
minore
di
quella
che
ci
si
può
attendere
da
un
canale
ohmico.
Si
tratta
quindi
di
un
canale
in
cui
la
resistenza
è
piuttosto
bassa
(quindi
la
conduttanza
elevata)
quando
la
corrente
esce
dalla
membrana,
mentre
la
conduttanza
è
bassa
e
la
resistenza
elevata
quando
la
corrente
entra
nella
membrana,
quando
si
è
rovesciato
il
flusso
della
corrente.
Non
si
tratta,
però,
di
un
comportamento
voltaggio
dipendente
(non
c’è
un
sensore
di
voltaggio),
ma
è
dovuto,
molto
più
banalmente,
al
movimento
di
alcune
molecole,
legato
al
movimento
delle
cariche,
che
tappa
il
canale
e
rende
più
difficile
il
passaggio
degli
ioni.
Canali
voltaggio
dipendenti
I
canali
voltaggio
dipendenti
sono
canali
che
si
aprono
alla
depolarizzazione
della
membrana
o
(meno
frequentemente)
alla
sua
iperpolarizzazione.
Possiedono
un
elemento
sensibile
al
voltaggio
che
cambia
conformazione
alla
depolarizzazione
(o
iperpolarizzazione)
della
membrana,
determinando
l’apertura
del
canale.
Esistono,
di
questo
tipo,
canali
per
il
sodio,
il
potassio,
il
calcio
e
il
cloruro.
Sono
legati
alla
5
possibilità
di
generare
potenziali
d’azione,
di
rilasciare
neurotrasmettitore,
nella
generazione
di
attività
pacemaker.
Un
pacemaker
è
un
micro-‐stimolatore
che
genera
impulsi
e
dà
la
frequenza
al
cuore.
Normalmente,
le
cellule
del
cuore
generano
impulsi
ripetuti,
li
comunicano
alle
cellule
contigue
e
determinano
il
battito.
Anche
le
cellule
responsabili
della
posizione
eretta
del
collo
possiedono
attività
pacemaker,
che
è
quindi
definibile
come
attività
tonica
e
continua
endogena,
generata
dalla
cellula.
Questi
canali
in
genere
si
aprono
ad
un
certo
livello
di
depolarizzazione,
detto
“soglia”.
Il
fatto
che
abbiano
una
soglia
fa
sì
che
abbia
una
soglia
tutto
ciò
che
dipende
dalla
loro
funzione.
Infatti,
il
potenziale
d’azione
avrà
una
soglia
e
avverrà
quando
la
depolarizzazione
avrà
raggiunto
un
livello
soglia,
anche
se
la
soglia
del
potenziale
d’azione
non
coincide
con
quella
del
canale
ionico.
I
canali
per
il
sodio,
il
potassio
e
il
calcio
hanno
aspetti
strutturali
comuni,
differenti
da
quelli
del
canale
per
il
cloruro.
In
tutti
i
canali
voltaggio
dipendenti
il
sensore
del
voltaggio
è
il
quarto
segmento
ad
α-‐elica
(S4),
che
si
muove
verso
l’alto
in
risposta
alla
depolarizzazione.
La
nomenclatura
dei
canali
è
duplice:
-‐ nomenclatura
stabilita
dallo
scopritore
del
canale:
ad
esempio,
i
canali
responsabili
dell’attività
pacemaker
del
cuore
sono
detti
canali
di
tipo
F
(dove
F
sta
per
funny)
e
la
corrente
è
la
corrente
F
(primi
canali
voltaggio
dipendenti
scoperti
che
si
aprono
in
caso
di
iperpolarizzazione,
per
cui
erano
“buffi”);
-‐ nomenclatura
ufficiale:
sigla
della
specie
ionica,
la
tipologia
del
canale
(ad
esempio
v
per
voltaggio
dipendente),
isoforma
specifica
della
subunità.
Per
la
subunità
considerata
ci
sono
nove
isoforme
(1-‐9)
per
il
canale
per
il
sodio:
Na
v
1.1
Canali
per
il
sodio
voltaggio
dipendenti
Il
funzionamento
dei
canali
per
il
sodio
voltaggio
dipendenti
è
molto
simile,
nonostante
le
differenze
tra
i
tessuti.
Sono
composti
da
una
o
più
subunità,
di
cui
la
fondamentale
è
la
subunità
α.
Nel
miocardio,
è
presente
solo
la
subunità
α,
nel
muscolo
scheletrico
sono
presenti
le
subunità
α
e
la
subunità
β1,
nel
SNC
esiste
anche
la
subunità
β2
(quindi
le
subunità
sono
tre)
e
la
β1
può
essere
sostituita
dalla
β3.
Nel
cuore,
nel
muscolo
e
in
un
assone
amielinico,
i
canali
per
il
sodio
sono
distribuiti
in
maniera
uniforme
lungo
tutta
la
superficie
della
membrana,
invece,
per
quanto
riguarda
i
neuroni,
i
canali
sono
localizzati
nel
cono
di
emergenza
dell’assone.
In
una
fibra
mielinica,
i
canali
sono
localizzati
a
livello
dei
nodi
di
Ranvier.
La
soglia
di
attivazione
è
bassa
(si
aprono
per
piccole
depolarizzazioni)
e
il
canale
passa
rapidamente
in
stato
refrattario
(inattivazione
rapida)
in
quanto
la
stessa
depolarizzazione
che
apre
il
canale
lo
chiude.
Infatti,
il
potenziale
d’azione
è
estremamente
rapido
nel
caso
in
cui
dipenda
soltanto
dai
canali
per
il
sodio.
Una
volta
che
il
canale
è
diventato
refrattario,
anche
la
cellula
nervosa
diventa
refrattaria,
ovvero
non
è
più
in
grado
di
generare
potenziale
d’azione
e
non
risponde
più
agli
stimoli
che
lo
generano.
La
subunità
α
è
organizzata
in
modo
che
le
4
regioni
P
siano
a
contatto
e
determino
il
filtro
di
selettività,
per
cui
è
quella
che
concorre
alla
formazione
del
poro
funzionale.
Le
subunità
β,
quando
presenti,
sono
localizzate
in
maniera
periferica
rispetto
alla
subunità
α
e
non
intervengono
nella
selettività,
ma
intervengono
nei
meccanismi
di
apertura
e
chiusura
(modulazione
della
cinetica).
Il
pesce
palla
contiene,
soprattutto
a
livello
di
visceri
e
gonadi,
la
tetrodotossina
(TTX),
una
tossina
che
chiude
i
canali
per
il
sodio
(si
lega
al
canale
dall’esterno,
obliterandolo
completamente),
e
che
determina
quindi
la
morte
per
soppressione
del
potenziale
d’azione.
La
tetrodotossina
è
importante
sperimentalmente,
in
quanto
può
aiutare
a
studiare
il
funzionamento
dei
canali.
I
canali
espressi
sui
miocardiociti
la
legano
con
minore
affinità
di
quelli
del
tessuto
nervoso.
6
I
canali
per
il
sodio
non
sono
tutti
omogenei
e
una
differenza
riguarda
in
particolare
i
canali
Nav
da
1.6
a
1.9,
i
quali
hanno
inattivazione
più
lenta
e
mostrano
una
coda
di
corrente:
il
meccanismo
di
refrattarietà
non
è
completo,
permettendo
l’eccitazione
della
cellula,
per
cui
sono
associati
alla
produzione
di
scariche
neuronali
persistenti.
Sono
maggiormente
sensibili
al
blocco
da
TTX.
Ha
un
significato
fisiologico
per
il
mantenimento
del
tono
muscolare
e
della
stazione
eretta,
ma
anche
patologico
(alterazione
della
scarica
motoneuronale,
che
determina
insorgenza
di
crampi).
Il
riluzolo
altera
le
proprietà
del
canale,
bloccando
queste
correnti
persistenti.
I
bloccanti
classici
usati
farmacologicamente
per
il
canale
del
sodio
devono
essere
meno
potenti
della
tetrodotossina:
si
tratta
di
anestetici
locali
(lidocaina,
xilocaina),
che
interagiscono
col
canale
dal
versante
interno,
o
altri
bloccanti
come
la
carbamazepina.
Se
sono
ionizzati,
penetrano
nella
membrana
e
possono
agire
dall’interno
del
canale,
se
sono
in
forma
non
polare
(sostanze
acide,
quindi
l’idrogenione
non
è
stato
ceduto),
passano
sfruttando
le
loro
caratteristiche
idrofobiche
attraverso
il
doppio
strato
fosfolipidico.
Hanno
maggior
affinità
per
lo
stato
inattivato.
Un
altro
farmaco
è
la
carbamazepina,
un
farmaco
antiepilettico
che
stabilizza
lo
stato
inattivo.
Gli
anestetici
locali
hanno
azione
(abbastanza)
selettiva
sulle
fibre
di
piccolo
diametro.
Il
diametro
delle
fibre
è
legato
alle
informazioni
trasportate:
le
più
piccole
sono
le
fibre
del
dolore,
che
sono
quindi
le
prime
ad
essere
bloccate.
Successivamente,
quelle
che
determinano
informazioni
termiche,
tattili
e
in
seguito
propriocettive.
L’ischemia,
invece,
blocca
prima
le
fibre
di
grosso
diametro
(propriocettive),
poi
quelle
tattili,
termiche
e
dolorifiche
(reazioni
delle
mani
al
freddo:
i
movimenti
delle
dita
diventano
goffi
e
grossolani).
Le
mutazioni
delle
subunità
contribuiscono
ad
alcune
malattie.
Esistono
quattro
mutazioni
della
subunità
α
che
inducono
allungamento
del
tempo
di
apertura
del
canale,
generando
quindi
una
corrente
di
sodio
in
ingresso
che
dura
più
a
lungo
del
normale.
Due
esempi
sono:
-‐ sindrome
del
QT
lungo:
si
va
incontro
ad
aritmia
ventricolare.
Il
potenziale
d’azione
delle
cellule
cardiache
dura
più
a
lungo
perché
i
canali
per
il
sodio
voltaggio
dipendenti
generano
una
corrente
più
duratura
e
non
si
inattivano,
comportandosi
come
i
canali
1.6-‐1.9.
Il
potenziale
d’azione
si
allunga
e
si
altera
l’elettrocardiogramma.
La
mutazione
è
a
livello
della
subunità
α;
-‐ una
mutazione
puntiforme
nella
subunità
β
produce
effetti
simili
nel
SNC.
L’inattivazione
del
canale
diventa
lenta
e
le
cellule
sono
molto
eccitabili
(possono
originarsi
crisi
epilettiche).
Canali
per
il
potassio
voltaggio
dipendenti
I
canali
per
il
potassio
voltaggio
dipendenti
(Kv)
e
calcio
dipendenti
(Kca,
regolati
dai
livelli
di
calcio
intracellulare)
sono
legati
alla
ri-‐polarizzazione
della
cellula
e
sono
importanti
per
regolare
la
frequenza
della
scarica
neuronale.
Inoltre,
generano
l’iperpolarizzazione
postuma
(e,
di
conseguenza,
determinano
la
frequenza
della
scarica
di
PDA
nei
neuroni
continuamente
attivi),
una
iperpolarizzazione
che
segue
al
potenziale
d’azione
(una
depolarizzazione
della
membrana).
La
struttura
dei
canali
per
il
potassio
voltaggio
dipendenti
è
uguale
a
quella
del
canale
calcio
dipendente
(quattro
subunità
α,
composte
da
sei
domini
transmembrana),
e
si
attiva
quando
la
depolarizzazione
della
membrana
provoca
ingresso
del
calcio,
il
quale
apre
questi
canali
per
il
potassio.
Nei
motoneuroni
spinali
di
mammifero,
sono
determinanti
per
la
durata
dell’iperpolarizzazione
postuma.
In
questo
canale,
quelli
che
nel
canale
per
il
sodio
erano
quattro
domini
di
una
subunità
sono
diventati
quattro
subunità
distinte
(sono
stati
troncati
gli
amminoacidi
che
permettevano
i
collegamenti
tra
domini).
La
regione
importante
per
la
selettività
è
sempre
tra
il
5
e
il
6
segmento,
il
sensore
per
il
voltaggio
è
nel
quarto
segmento
(come
nel
canale
per
il
sodio).
Il
loop
attaccato
a
S1
rappresenta
l’elemento
che
genera
l’inattivazione
del
canale.
Altri
canali
per
il
potassio
sono
quelli
passivi,
a
rettificazione
interna
(nel
cuore),
modulati
da
ATP
e
altri
accoppiati
a
proteine
G.
La
regione
P
è
sempre
la
stessa,
in
quanto
è
quella
che
determina
la
selettività
del
canale
per
il
potassio,
ma
le
quattro
subunità
in
questo
caso
sono
formate
da
due
soli
domini.
Il
canale
KATP
si
ritrova
nelle
cellule
β
delle
isole
di
Langerhans
del
pancreas.
Il
glucosio
ematico
entra
nella
cellula
attraverso
il
proprio
carrier
e
l’aumento
di
ATP,
dovuto
al
suo
metabolismo,
tende
ad
aumentare
la
probabilità
di
chiusura
del
canale
per
il
potassio.
La
conseguenza
è
una
depolarizzazione
che
quindi
apre
i
canali
per
il
calcio.
Lo
ione
entra
nella
cellula
e
genera
il
rilascio
di
insulina.
In
alcune
patologie,
aumenta
la
risposta
di
tali
canali
all'ATP
(per
via
di
una
mutazione),
per
cui
la
membrana
si
7
depolarizza
più
di
frequente
e
si
libera
troppa
insulina,
con
conseguente
ipoglicemia.
Un
esempio
di
patologia
collegata
a
questo
fenomeno
è
l'ipoglicemia
infantile
da
iperinsulinemia.
Anche
mutazioni
a
carico
dei
canali
per
il
potassio
voltaggio
dipendenti
sono
alla
base
di
malattie
genetiche.
La
malattia
nervosa
atassia
episodica
è
caratterizzata
da
attacchi
episodici
in
cui
i
movimenti
sono
scoordinati,
per
cui
il
movimento
non
è
fine,
ma
goffo
e
sregolato
(sintomi
tipici
di
lesioni
al
cervelletto).
Sebbene
il
meccanismo
non
sia
chiaro,
sono
state
evidenziate
sei
mutazioni
puntiformi
della
subunità
α.
Mutazioni
a
carico
del
canale
per
il
potassio
si
ritrovano
anche
nei
soggetti
affetti
dalla
sindrome
del
QT
lungo
di
tipo
1,
in
cui
il
potenziale
dura
più
a
lungo
del
normale
per
riduzione
della
corrente
di
potassio
voltaggio
dipendente.
Altra
malattia
legata
ai
canali
per
il
potassio
è
l'epilessia
familiare
infantile
benigna,
in
cui
si
ha
diminuzione
nell'espressione
di
questi
canali.
Canali
per
il
calcio
I
canali
per
il
calcio
voltaggio
dipendenti
sono
formati
da
una
subunità
α1
(costituita
da
quattro
segmenti
transmembrana,
che
forma
il
poro
idrofilo,
così
come
avviene
nei
canali
del
sodio)
e
delle
subunità
ancillari
β,
γ
e
δ.
La
subunità
β
è
sito
di
fosforilazione
ed
è
fondamentale
in
quanto
l’aggiunta
di
fosfato
aumenta
la
probabilità
che
il
canale
voltaggio
dipendente
si
apra
in
seguito
a
depolarizzazione.
Le
subunità
α2-‐δ
è
importante
per
la
regolazione
legata
alle
proteine
G,
che
consente
l'interazione
con
recettori
metabotropici.
I
canali
per
il
calcio
voltaggio
dipendenti
possono
essere
divisi
in
due
categorie:
-‐ canali
a
soglia
elevata
(HLA,
high
voltage
activated),
i
quali
cominciano
ad
aprirsi
quando
il
PM
raggiunge
i
-‐20
mV;
-‐ canali
a
bassa
soglia
(LVA,
low
voltage
activated),
che
si
aprono
per
depolarizzazioni
maggiori
(valori
più
negativi,
intorno
a
-‐65/-‐50
mV).
Canali
ad
alta
soglia
(HVA)
I
più
importanti
canali
ad
alta
soglia
sono
i
canali
L,
N
e
P/Q.
I
canali
L
sono
presenti
nel
muscolo,
nelle
cellule
endocrine
e
nei
miocardiociti.
Hanno
una
conduttanza
molto
elevata
(20-‐25
pS,
picoSiemens)
e
lenta
inattivazione.
In
generale,
la
corrente
di
calcio
è
prolungata
nel
tempo
(a
differenza
di
quelle
generate
da
canali
per
il
sodio
voltaggio
dipendenti)
e
svolge
funzioni
fisiologiche
di
fondamentale
importanza.
Nel
muscolo
cardiaco
è
responsabile
dell'accoppiamento
elettromeccanico:
il
canale
è
fondamentale
per
generare
la
contrazione.
Questi
canali
sono
anche
necessari
per
il
normale
potenziale
d'azione
del
muscolo
cardiaco
(plateau
del
potenziale
d’azione
cardiaco),
la
cui
lunghezza
è
molto
maggiore
rispetto
a
quella
del
muscolo
scheletrico
(grazie
all'attivazione
di
questi
canali
in
seguito
all’attivazione
di
quelli
per
sodio).
Il
rapporto
di
durata
è
di
300
a
1
ms
(nel
miocardiocita,
infatti,
il
potenziale
d'azione
è
sostenuto
da
questi
canali).
Inoltre,
sono
importanti
nell'esocitosi
(cellule
endocrine)
e
per
la
generazione
di
aumenti
di
concentrazione
intracellulare
(transienti)
di
calcio
per
l'attivazione
di
funzioni
cellulari
(rilascio
di
sostanze
da
siti
di
storage,
come
il
reticolo
endoplasmatico).
I
canali
L
sono
il
bersaglio
dei
calcio-‐antagonisti,
farmaci
utilizzati
per
la
cura
dell’ipertensione
(regolando
la
contrazione
della
muscolatura
liscia
dei
vasi),
nonostante
siano
canali
voltaggio
dipendenti
e
non
dipendenti
da
ligando.
Esistono
tre
classi
di
sostanze
bloccanti
(che
inibiscono
l’apertura
del
canale
alla
depolarizzazione),
ognuna
delle
quali
si
lega
in
un
sito
specifico
della
subunità
α:
1,4-‐diidropiridine
(nifedipina),
benzotiazepine
(diltiazepam)
e
fenilalchilammine
(verapamil).
L’esistenza
di
siti
di
legame
per
queste
sostanze
lascia
supporre
l’esistenza
di
sostanze
endogene
che
li
leghino
e
modulino
la
funzione
di
questi
canali
(ipotesi
non
confermata).
Le
catecolamine,
invece,
ne
facilitano
l’apertura
e
in
questo
modo
esercitano
azioni
sul
cuore
(come
quella
di
aumentare
la
forza
di
contrazione,
detta
azione
inotropa
positiva).
I
canali
N
sono
espressi
sulle
terminazioni
assoniche
del
sistema
nervoso
autonomo,
ma
anche
su
terminazioni
nervose
centrali.
Sono
soggetti
a
modulazione
negativa
da
dopamina
e
noradrenalina
attraverso
proteine
G.
sono
inattivati
selettivamente
da
sostanze
come
la
ω-‐conotossina-‐GVIA
(prodotta
da
una
conchiglia
dei
mari
tropicali).
8
I
canali
P/Q
sono
espressi
sui
neuroni
centrali
(particolarmente
presenti
nel
cervelletto).
La
loro
funzione,
come
quella
dei
canali
N,
è
quella
di
indurre
la
liberazione
del
neurotrasmettitore
mediante
esocitosi
e
sono
inibiti
dalla
ω-‐conotossina-‐MVIIC
e
dalla
ω-‐agatossina-‐IVA
(veleno
di
ragno)
Canali
a
bassa
soglia
(LVA)
I
canali
a
bassa
soglia
sono
detti
canali
di
tipo
T
e
si
attivano
per
valori
del
potenziale
di
membrana
che
oscillano
tra
i
-‐65
e
i
-‐50
mV.
Si
inattivano
più
velocemente
dei
canali
N,
ma
sono
molto
più
lenti
rispetto
a
quelli
del
sodio
e
hanno
conduttanza
bassa
(9
pS).
Sono
presenti
nelle
cellule
nervose,
endocrine
e
cardiache,
nei
fibroblasti
e
negli
osteoclasti.
Sono
i
canali
più
espressi
a
livello
del
nodo
senoatriale
e
contribuiscono
quindi
alla
generazione
del
potenziale
pacemaker
(funzione
più
nota).
Canale
Caratteristiche
Localizzazione
Funzioni
Modulatori
Canali
ad
alta
soglia
Tipo
L
-‐
Elevata
conduttanza
-‐
Muscolo
-‐
Accoppiamento
-‐
Bloccanti:
-‐
Lenta
inattivazione
scheletrico
elettromeccanico
diidropiridine,
-‐
Cellule
endocrine
-‐
Plateau
del
PdA
benzotiazepine
e
-‐
Miocardiociti
cardiaco
fenilalchilammine
-‐
Esocitosi
-‐
Facilitatori
-‐
Attivazione
dell’apertura:
funzioni
cellulari
catecolamine
Tipo
N
-‐
Subiscono
-‐
terminazioni
del
-‐
Bloccanti:
modulazione
sistema
nervoso
conotossina-‐GVIA
negativa
da
autonomo
dopamina
e
-‐
terminazioni
noradrenalina
nervose
centrali
-‐
Liberazione
Tipo
P/Q
-‐
neuroni
centrali
neurotrasmettitore
-‐
Bloccanti:
conotossina-‐
MVIIC
e
agatossina-‐IVA
Canali
a
bassa
soglia
Tipo
T
-‐
Inattivazione
rapida
-‐
cellule
nervose
-‐
Generazione
del
-‐
bassa
conduttanza
-‐
cellule
cardiache
potenziale
-‐
cellule
endocrine
pacemaker
delle
-‐
fibroblasti
cellule
del
nodo
del
-‐
osteoclasti
seno
Canali
per
il
cloro
Le
informazioni
riguardanti
i
canali
per
il
cloro
sono
ridotte.
Si
tratta
di
canali
estremamente
eterogenei
e
possono
essere
voltaggio-‐dipendenti,
calcio-‐dipendenti
e
regolati
dal
volume
della
cellula
(il
volume
determina
la
trazione
esercitata
sulla
membrana
dagli
elementi
citoscheletrici).
Ad
esempio,
i
canali
di
tipo
CLC
sono
canali
voltaggio
dipendenti,
ne
esistono
nove
(CLC
1-‐7,
Ka
e
Kb)
e
si
possono
trovare
sia
a
livello
della
membrana
plasmatica
(CLC
1-‐2,
Ka,
Kb)
che
negli
organelli,
dove
controllano
l'eccitabilità
cellulare
(in
particolar
modo
a
livello
del
muscolo
scheletrico,
dov’è
detta
eccitabilità
muscolare).
Non
tutte
le
regioni
ad
α
elica
attraversano
la
membrana
da
parte
a
parte.
La
funzione
è
legata
al
controllo
del
pH
nel
lume
degli
organelli,
sebbene
non
se
ne
conosca
la
modalità.
Oltre
alle
due
funzioni
citate,
sono
coinvolti
nei
movimenti
di
ioni
e
acqua
attraverso
gli
epiteli.
Sono
costituiti
da
due
subunità,
ognuna
delle
quali
costituisce
un
canale,
per
cui
risultano
come
una
coppia
di
canali
associati
che
non
sono
indipendenti
e
che
generano
profili
di
corrente
differenti.
Infatti,
si
osservano
tre
livelli
di
intensità
(compreso
il
livello
zero),
in
quanto
il
canale
si
può
trovare
in
tre
stati:
aperto,
semiaperto
e
chiuso.
Mutazioni
dei
canali
CLC-‐1
causano
miotonia
congenita,
che
risulta
in
una
eccessiva
eccitabilità
delle
cellule
muscolari
(per
via
della
riduzione
della
corrente
di
ioni
cloro
dovuta
alla
mutazione).
La
corrente
che
passa
attraverso
CLC-‐1
serve,
pertanto,
a
mantenere
la
cellula
a
riposo.
9
I
canali
CFTR
(regolatore
transmembranario
della
fibrosi
cistica)
sono
implicati
nella
fibrosi
cistica.
Sono
formati
da
due
subunità
(che
determinano
il
poro
per
il
cloruro)
cui
sono
associati
due
elementi
leganti
nucleotidi
(NBD1
e
NBD2)
e
un
elemento
regolatore
R,
che
modula
il
processo
di
apertura.
Sembra
che,
affinché
il
canale
possa
aprirsi,
è
necessario
che
entrambi
gli
elementi
NBD
leghino
ATP,
la
cui
idrolisi
chiude
il
canale.
Uno
dei
sintomi
del
quadro
patologico
della
fibrosi
cistica
è
la
produzione
di
secreti
poco
fluidi,
dovuti
all’incapacità
delle
cellule
secretrici
di
produrre
normali
flussi
di
acqua
e
sali,
generando
così
secreti
altamente
viscosi
che
occludono
il
lume
delle
strutture
ghiandolari
con
gravi
conseguenze,
come,
ad
esempio,
l’accumulo
di
muco
nelle
vie
aeree.
Il
modo
con
cui
molte
cellule
producono
un
secreto
acquoso
è
caricandosi
di
cloruro:
la
fuoriuscita
di
cloruro
si
accompagna
al
passaggio
osmotico
di
acqua.
In
caso
di
malfunzionamento,
il
meccanismo
si
altera.
POTENZIALE
DI
MEMBRANA
Il
potenziale
di
membrana
è
un
potenziale
di
tipo
diffusionale
che
viene
generato
da
gradienti
ionici
che
esistono
a
cavallo
della
membrana
cellulare.
Nei
primi
anni
del
Novecento,
si
credeva
che
la
membrana
fosse
permeabile
solo
al
potassio
(mentre
nella
membrana
inattiva
esistono
canali
per
il
cloro
e,
in
numero
minore,
permeabili
al
sodio).
Il
fisiologo
Bernstein,
che
si
accorse
che
la
membrana
era
polarizzata
e
che
era
altamente
permeabile
al
potassio,
mentre
sembrava
totalmente
impermeabile
del
sodio
(in
realtà
è
poco
permeabile),
formulò
l'ipotesi
che
il
potenziale
di
membrana
(PM)
fosse
un
potenziale
di
diffusione
del
potassio.
Il
potassio,
infatti,
essendo
molto
più
concentrato
all'interno
rispetto
al
liquido
interstiziale,
tende
a
fuoriuscire
dalla
cellula
generando
il
potenziale
di
membrana
e
lasciando
cariche
negative
non
compensate
che
polarizzano
negativamente
l’interno
della
membrana.
La
polarità
raggiunta
neutralizza
gli
effetti
del
gradiente
di
concentrazione.
La
presenza
del
PM
non
viola
il
principio
di
elettroneutralità
della
cellula
e
dell'ambiente
esterno.
Il
numero
di
cariche
contenute
all'interno
della
cellula
(positive
e
negative)
è
incomparabile
con
quello
necessario
alla
polarizzazione
della
membrana,
dal
momento
che
la
carica
netta
all'interno
della
cellula
è
altamente
trascurabile.
La
tendenza
del
potassio
ad
uscire
genera
una
differenza
di
potenziale,
che,
quando
i
flussi
in
un
senso
e
nell'altro
si
equivalgono,
diventa
stabile.
Entro
i
limiti
delle
misure
sperimentali
di
allora,
l'ipotesi
di
Bernstein
era
accettabile
ed
è
importante
per
stabilire
il
potenziale
di
equilibrio,
ovvero
il
PM
per
il
quale
non
vi
sono
flussi
netti
dello
ione
(la
polarità
raggiunta
neutralizza
gli
effetti
del
gradiente
di
concentrazione).
Quando
si
arriva
a
questa
situazione
di
equilibrio,
la
probabilità
che
uno
ione
esca
dalla
cellula
spinto
dal
gradiente
di
concentrazione
è
uguale
a
quella
che
vi
rientri
per
effetto
del
gradiente
elettrico.
Secondo
l’ipotesi
di
Bernstein,
il
PM
era
un
potenziale
di
equilibrio
per
il
potassio
(Ek).
Tuttavia,
quando
fu
possibile
registrare
il
potenziale
di
membrana
in
relazione
al
flusso
di
ioni,
si
verificò
che
l’ipotesi
di
Bernstein
non
era
esatta
e
l'equazione
di
Nerst
non
era
rispettata,
per
cui
furono
necessarie
delle
ipotesi
alternative.
Innanzitutto,
si
osservò
che
la
membrana
era
permeabile
in
parte
al
sodio
(seppure
in
misura
minore).
In
un
esperimento,
fu
misurata
la
concentrazione
di
sodio
radioattivo
all'interno
dell'assone
che
era
stato
preventivamente
collocato
in
una
soluzione
contenente
sodio
radioattivo
(l'assone
veniva
sciacquato
per
registrare
la
radioattività
all'interno
del
citoplasma).
Il
potenziale
di
equilibrio
del
potassio
ha
un
valore
al
di
sotto
del
potenziale
di
membrana
e
può
avere
un
valore
di
-‐100
mV/-‐105mV.
Il
sodio,
invece,
ha
una
carica
positiva
ed
è
molto
concentrato
all'esterno:
sia
per
concentrazione
(il
rapporto
estero/interno
si
aggira
intorno
ai
150:1)
che
per
gradiente
elettrico
tende
ad
entrare
nella
cellula.
Il
potenziale
necessario
per
equivalere
il
flusso
di
sodio
per
una
tale
concentrazione
(potenziale
di
equilibrio
del
sodio,
ENa)
è
di
60
mV.
Il
potenziale
di
equilibrio
di
membrana
(PM)
è
abbastanza
vicino
al
potenziale
di
equilibrio
del
potassio,
mentre
è
molto
lontano
dal
potenziale
di
equilibrio
del
sodio.
La
determinazione
formale
del
potenziale
di
equilibrio
è
data
dall'equazione
di
Nerst:
essendo
la
concentrazione
di
potassio
maggiore
all'interno,
il
valore
del
logaritmo,
e
quindi
dell'equazione,
risulta
negativo.
10
L’equazione
di
Nerst
(che
permette
di
calcolare
Ek)
risulta
uguale
a:
𝑅𝑇 𝐾 ! 𝑜𝑢𝑡
𝐸! = ∙ ln( ! )
𝑧𝐹 𝐾 𝑖𝑛
dove
[K+]out
indica
la
concentrazione
esterna
dello
ione
potassio,
[K+]in
quella
interna.
Il
sodio,
entrando
nella
cellula
(spinto
sia
da
gradiente
elettrico
che
da
gradiente
di
concentrazione),
la
depolarizza
e
la
diminuzione
del
potenziale
determina
che
il
potassio
non
sia
più
trattenuto,
per
cui
inizia
a
uscire.
Il
potenziale
di
membrana
si
è
allontanato
dal
potenziale
di
equilibrio
del
potassio.
Dal
momento
che
i
canali
per
il
potassio
sono
in
numero
maggiore
rispetto
a
quelli
del
sodio,
basta
poco
perché
venga
equilibrato
il
flusso
di
ioni
in
uscita:
quando
la
corrente
di
K+
in
uscita
(Ik)
uguaglia
quella
in
ingresso
di
Na+
(Ina)
la
membrana
cessa
di
depolarizzarsi
e
raggiunge
un
nuovo
equilibrio
elettrico.
Il
nuovo
PM
è
più
vicino
a
Ek
in
quanto
i
canali
per
il
potassio
sono
più
numerosi
ed
è
sufficiente
un
piccolo
allontanamento
del
PM
da
Ek
per
produrre
una
corrente
che
bilancia
esattamente
quella
del
sodio.
Dal
punto
di
vista
formale,
applicando
la
legge
di
Ohm
si
ottiene
l’equazione
di
conduttanza.
La
relazione
tra
I,
G,
PM
ed
E
permette
di
esprimere
la
legge
di
Ohm
tenendo
conto
del
fatto
che
la
corrente
si
annulla
quando
PM
=
E
e
non
quando
PM
=
0
ed
è:
I
=
G
(PM
-‐
E)
La
corrente
di
potassio
è:
I(k)
=
GK
ΔV=
GK
(PM
–
EK)
Dove
GK
è
la
conduttanza
per
il
potassio
La
corrente
del
sodio
è:
I(Na)
=
GNa
ΔV
=
GNa
(PM
–
ENa)
Dove
GNa
è
la
conduttanza
per
il
sodio.
All'equilibrio,
la
somma
delle
due
correnti
(tenendo
conto
del
segno)
dovrà
essere
pari
a
0
(la
corrente
di
sodio
è
uguale
ed
opposta
in
segno
a
quella
del
potassio)
GNa
(PM
–
ENa)
=
−
GK
(PM
–
EK)
PM
(GK
+
GNa)
=
GK
EK
+
GNa
ENa
(GK
+
GNa
=
G
tot)
𝐺𝐾 𝐺
PM
=
( )E
+
( 𝐺𝑁𝑎
)ENa
𝐺𝑡𝑜𝑡 K 𝑡𝑜𝑡
Il
potenziale
di
membrana
dipende
non
solo
da
EK,
ma
anche
da
ENa
e
dalle
rispettive
conduttanze
(poiché
GK
rappresenta
la
frazione
più
cospicua
di
Gtot,
PM
sarà
molto
più
vicino
a
EK
che
a
ENa).
E
cambia
cambiando
la
conduttanza
agli
ioni.
Considerando
anche
il
cloruro,
esso
è
più
permeabile
del
sodio,
ma
non
quanto
il
potassio.
l’equazione
di
conduttanza
si
può
riscrivere
includendo
anche
Cl−:
ΔV
=
I
∙
R
=
I/G
I
=
ΔV/G
Im
=
0
IK
+
INa
+
ICl
=
0
(la
somma
delle
correnti
è
zero)
(PM
−
EK)GK
+
(PM
−
ENa)GNa
+
(PM
–ECl)GCl
=
0
PM
(GK
+
GNa
+
GCl)
=
EK
GK
+
ENa
GNa
+
ECl
GCl
𝐺𝐾 𝐺 𝐺
PM
=
EK
(
𝐺𝑡𝑜𝑡
)
+
ENa
( 𝐺𝑁𝑎 )
+
ECl
( 𝐺 𝐶𝑙 )
𝑡𝑜𝑡 𝑡𝑜𝑡
Il
cloro
può
essere
in
genere
trascurabile
perché
il
suo
potenziale
equivale
o
si
discosta
poco
da
quello
di
membrana
e
di
fatto
non
concorre
a
determinare
il
PM.
Infatti,
il
cloro
è
più
concentrato
fuori
dalla
cellula
e
la
sua
concentrazione
non
è
modificata
da
meccanismi
attivi,
come
trasportatori,
in
quanto
si
distribuisce
passivamente
e
il
suo
gradiente
di
concentrazione
è
determinato
dal
gradiente
elettrico
e
non
viceversa.
Molto
spesso,
ECl
=
PM.
Per
ciò
che
concerne
il
calcio,
invece,
la
membrana
è
sigillata
(perché
questo
ione
influenza
le
funzioni
cellulari)
e
la
sua
conduttanza
a
riposo
può
essere
trascurata
in
quanto
virtualmente
uguale
a
zero:
GCa
=
0
La
permeabilità
è
una
grandezza
che
viene
definita
in
base
alla
diffusione
e
non
in
funzione
della
legge
di
Ohm
(come
la
conduttanza).
L'equazione
di
campo
di
Goldmann
esprime
il
PM
in
funzione
della
permeabilità
(non
è
richiesta
la
dimostrazione):
!" !" [!!]!"# ! !"# [!"!]!"# !!"# [!"!]!"
PM
=
ln
! !" [!!]!" !!"# [!"!]!" !!"# [!"!]!"#
11
Se
si
modifica
la
conduttanza
di
uno
ione,
il
potenziale
di
membrana
si
sposta
verso
lo
ione
la
cui
conduttanza
viene
aumentata.
Quindi,
il
PM
viene
modificato
dai
cambiamenti
di
permeabilità
ionica:
ad
esempio,
l’aumento
della
permeabilità
al
sodio
depolarizza
la
cellula,
l’aumento
di
quella
per
il
potassio
la
iperpolarizza.
Per
il
cloro,
l’aumento
della
sua
permeabilità
iperpolarizza
la
cellula
se
il
valore
di
PM
è
al
disopra
di
ECl,
mentre
non
produce
variazioni
se
PM
=
ECl.
Un
ruolo
fondamentale
in
questo
contesto
è
esercitato
dalla
pompa
sodio/potassio,
che
mantiene
il
gradiente
di
concentrazione
dei
due
ioni
e
in
questo
modo
evita
che
il
continuo
efflusso
di
potassio
e
la
continua
entrata
di
sodio
scarichino
il
gradiente
elettrico,
abolendo
così
il
potenziale
di
membrana.
Se
la
cellula
è
abbastanza
piccola,
la
corrente
generata
dalla
pompa
è
sufficiente
per
produrre
una
modica
iperpolarizzazione
della
membrana.
Nei
tessuti
alterati,
si
osserva
una
graduale
scarica
del
gradiente
e
il
PM
va
lentamente
verso
0.
Se
si
avvelenano
altri
tessuti,
il
gradiente
si
abbassa
immediatamente
(brusca
depolarizzazione)
per
poi
scendere.
In
questi
tessuti
la
pompa
tende
di
suo
a
iperpolarizzare
la
membrana,
per
il
rapporto
di
scambio
che
è
3:2
(due
ioni
potassio
entrano,
3
ioni
sodio
escono).
Il
contributo
della
pompa
è
determinante
solo
per
quelle
cellule
che
hanno
una
conduttanza
bassa
(cellule
piccole).
Nei
miocardiociti
solo
alcuni
mV
sono
determinati
dalla
pompa.
Equilibrio
Donnan
L’equilibrio
Donnan
è
una
condizione
che
si
può
creare
quando
due
compartimenti
liquidi
sono
separati
da
una
membrana
semipermeabile
(che
lascia
passare
liberamente
un
aione
e
un
catione).
L’
anione
e
il
catione
devono
trovarsi
vicini
all'equilibrio
elettrochimico
(il
loro
potenziale
di
equilibrio
coincide
con
il
potenziale
di
membrana).
Se
in
uno
dei
compartimenti
si
trova
un
anione
impermeante,
quel
compartimento
si
troverà
in
una
situazione
di
osmolarità
maggiore
(il
sistema
non
è
in
equilibrio
osmotico)
e
richiamerà
liquido
dal
compartimento
ad
osmolarità
minore.
Questa
condizione
è
vicina
a
quella
della
cellula,
in
cui
K+
e
Cl-‐
(permeanti)
hanno
potenziali
di
equilibrio
vicini
al
potenziale
di
membrana
e
all’interno
della
quale
esistono
proteinati
e
gruppi
fosfato
impermeanti
e
carichi
negativamente.
Le
cellule
non
sono
quindi
osmoticamente
stabili
e
abbiamo
un
flusso
di
acqua
dall'esterno,
che
tende
a
gonfiarle.
Nelle
cellule
vegetali,
la
rigidità
della
parete
si
oppone
al
flusso
osmotico;
in
quelle
animali,
la
pompa
sodio/potassio
consente
di
rendere
la
membrana
di
fatto
impermeabile
al
sodio,
creando
uno
stato
stazionario
osmotico
che
rimane
fintanto
che
il
metabolismo
garantisce
l'attività
della
pompa.
Se
la
pompa
cessa
di
funzionare
a
causa
della
mancanza
di
ATP,
la
cellula
si
può
rigonfiare
fino
a
scoppiare
(i
maggiori
danni
da
ipossia
sono
dovuti
a
questo
meccanismo).
Per
questo
motivo,
si
ha
una
sensibile
diminuzione
dei
danni
se
si
iniettano
durante
l'ipossia
soluzioni
contenenti
destrani
(polimeri
impermeanti
che
aumentano
la
pressione
osmotica
del
sangue).
Scoperta
del
Potenziale
di
Membrana
I
fisiologi,
alla
fine
dell’Ottocento,
hanno
compreso
l'esistenza
del
PM
partendo
dalla
considerazione
che
esiste,
a
riposo,
una
differenza
di
potenziale
fra
la
superficie
integra
e
quella
lesa
di
un
nervo
o
di
un
muscolo,
indicata
col
nome
di
potenziale
di
lesione
o
demarcazione:
la
parte
lesa
risulta
negativa
rispetto
alla
porzione
integra
del
muscolo
e
si
registrava
quindi
un
flusso
di
cariche
positive
dalla
parte
integra
a
quella
lesa.
Interpretarono
correttamente
questa
osservazione,
ammettendo
che
l’elettrodo
sulla
parte
integra
misurasse
il
potenziale
extracellulare,
mentre
quello
sulla
parte
lesa
risentisse
del
potenziale
intracellulare,
in
quanto
la
lesione
aveva
esposto
il
citoplasma,
mettendolo
in
contatto
con
l’interstizio.
Il
potenziale
di
membrana
sarebbe
coinciso
con
il
potenziale
di
equilibrio
per
il
K+,
in
quanto
questo
era
l’unico
ione
che,
secondo
gli
studiosi
di
allora,
avrebbe
potuto
attraversare
liberamente
la
membrana.
Una
seconda
osservazione
fu
che,
quando
il
muscolo
si
contraeva,
il
potenziale
di
demarcazione
si
annullava:
questa
scomparsa
prese
il
nome
di
potenziale
d’azione.
Quando
il
muscolo
si
contraeva,
il
potenziale
di
membrana
si
sarebbe
azzerato
in
quanto
la
membrana
sarebbe
improvvisamente
diventata
permeabile
a
tutti
gli
ioni.
12
Risposta
di
un
tessuto
eccitabile
alla
corrente
La
stimolazione
di
un
tessuto
può
avvenire
in
2
modi:
-‐
stimolazione
intracellulare:
prevede
l'inserimento
di
un
elettrodo
nella
cellula,
causando
polarizzazione
o
depolarizzazione.
L'altra
parte
deve
essere
posta
sul
versante
extracellulare;
-‐
stimolazione
extracellulare:
anodo
e
catodo
sono
posti
all'esterno
della
cellula.
Il
flusso
di
cariche
entra
dalla
parte
dell'anodo
e
fuoriesce
dalla
parte
del
catodo
(movimento
di
cationi).
Il
risultato
deriva
da
quale
parte
viene
posta
in
vicinanza
del
neurone.
Il
potenziale
di
membrana
(PM)
è
alterato
dal
passaggio
di
corrente
attraverso
la
membrana
stessa.
La
direzione
del
passaggio
della
corrente
determina
il
segno
della
risposta
della
membrana.
Se
si
stimola
una
cellula
passando
corrente
fra
un
elettrodo
inserito
al
suo
interno
e
uno
posto
all’esterno,
la
membrana
si
depolarizzerà
quando
l’elettrodo
intracellulare
è
collegato
al
polo
positivo
(anodo)
e
quello
esterno
al
polo
negativo
(catodo),
mentre
si
iperpolarizzerà
se
l’elettrodo
intracellulare
è
collegato
al
polo
negativo.
La
corrente
depolarizzante
(considerando
il
movimento
dei
cationi)
esce
dalla
cellula,
mentre
quella
iperpolarizzante
vi
entra.
Se
la
depolarizzazione
è
sufficiente,
la
cellula
emetterà
un
impulso
nervoso.
Se
invece
si
usano
elettrodi
extracellulari
(come
quelli
utilizzati
per
la
stimolare
i
nervi
periferici
e
produrre
i
riflessi
spinali),
la
depolarizzazione
si
verifica
nelle
cellule
sotto
il
catodo
e
l’iperpolarizzazione
in
quelle
sottostanti
all’anodo,
a
causa
del
movimento
dei
cationi,
che
escono
all’anodo
e
entrano
al
catodo.
Se
uno
dei
due
elettrodi
è
remoto,
la
densità
di
corrente
da
esso
generato
sulla
membrana
cellulare
è
bassa
e
l’effetto
trascurabile.
Un’eccezione
si
ha
quando
si
stimola
extracellularmente
la
superficie
della
corteccia
motoria
cerebrale
(che
si
effettua
con
l’anodo,
e
non
con
il
catodo):
in
questo
caso,
il
dendrite
apicale
viene
iperpolarizzato
dalla
corrente
in
ingresso,
che
fuoriesce
dallo
stesso
dendrite,
dal
corpo
cellulare
e
dalla
regione
del
cono
di
emergenza
dell’assone
(regione
a
bassa
soglia),
attirata
dal
catodo
posto
in
un
punto
del
corpo.
A
livello
del
cono
di
emergenza
l’eccitabilità
è
elevatissima
e
la
corrente
uscente
depolarizza
il
neurone
fino
a
fargli
emettere
un
potenziale
d’azione
(PDA).
Se
si
stimola
invece
con
il
catodo
la
superficie
corticale,
la
corrente
esce
dal
dendrite
a
questo
livello,
depolarizzando
una
struttura
poco
eccitabile,
mentre
il
cono
di
emergenza
viene
iperpolarizzato.
Risposte
graduate
(elettrotoniche)
La
risposta
della
membrana
alla
corrente
consiste
in
un
cambiamento
del
potenziale
di
membrana
(PM)
che
si
sviluppa
più
lentamente
dello
stimolo,
raggiunge
un
valore
massimo
proporzionale
alla
corrente
utilizzata
e
decade
lentamente
non
appena
la
corrente
cessa:
la
risposta
della
membrana
dura
più
a
lungo
dello
stimolo
che
la
ha
provocata.
Queste
risposte
di
membrana
vengono
indicate
come
potenziali
elettrotonici
o
graduati
(perché
hanno
ampiezza
proporzionale
a
quella
dello
stimolo).
I
potenziali
elettrotonici
dipendono
dalle
caratteristiche
fisiche
della
membrana.
Se
si
passa
corrente
depolarizzante,
la
cui
intensità
viene
aumentata
passando
da
uno
stimolo
al
successivo,
si
osserverà,
in
corrispondenza
di
un
valore
critico
di
intensità
(soglia)
la
nascita
di
un
fenomeno
completamente
diverso,
il
potenziale
d’azione,
che
consiste
in
una
brusca
inversione
del
PM
e
che
si
estingue
(a
livello
di
un
assone)
in
circa
1
millisecondo.
Questo
fenomeno,
a
differenza
delle
risposte
elettrotoniche
è
“tutto
o
nulla”,
cioè
la
sua
ampiezza
(costante)
non
dipende
dall’intensità
dello
stimolo:
basta
che
questo
sia
superiore
al
valore
della
soglia.
Se
la
corrente
è
iperpolarizzante,
tale
fenomeno
non
si
verifica
e
l’iperpolarizzazione
della
membrana
continua
a
crescere
proporzionalmente
all’intensità
dello
stimolo.
Al
di
sotto
di
stimoli
soglia,
le
risposte
della
membrana
a
polarizzazioni
e
depolarizzazioni
hanno
un
andamento
abbastanza
simmetrico.
Mentre
la
corrente
che
genera
il
cambiamento
di
potenziale
viene
modificata
velocemente
dallo
sperimentatore,
il
potenziale
di
membrana
si
muove
con
un
certo
ritardo:
si
ha
quindi
una
distorsione
nel
tempo.
Inoltre,
si
ha
una
distorsione
spaziale
per
cui
l'effetto
diminuisce
all'allontanamento
dal
punto
di
applicazione.
La
distorsione
dipende
dalle
caratteristiche
fisiche
della
membrana:
capacità
di
membrana
(un
doppio
strato
lipidico
che
separa
due
mezzi
conduttori,
per
cui
si
comporta
da
condensatore)
e
resistenza
transmembranaria.
13
Maggiore
è
la
capacità,
maggiore
sarà
la
carica
necessaria
a
ottenere
la
stessa
variazione
di
potenziale.
La
membrana
ha
una
capacità
(Cm)
che
è
definita
come
il
rapporto
tra
la
carica
(Q)
necessaria
per
produrre
una
variazione
del
PM
e
la
variazione
stessa
(ΔV):
Cm=
ΔQ/ΔV
ΔV
=
ΔQ/Cm
La
capacità
di
membrana
dipende
dall’estensione
della
superficie:
si
può
definire
una
capacità
specifica
(Cspecifica),
definita
come
rapporto
fra
Cm
e
la
superficie
di
membrana:
il
suo
valore
è
piuttosto
costante
da
cellula
a
cellula
e
corrisponde
a
circa
1
μF/cm2
Cm
=
Cspecifica
x
superficie
Chiaramente,
maggiori
sono
le
dimensioni
della
cellula,
maggiore
sarà
la
capacità
della
sua
membrana.
Inoltre,
i
canali
ionici
della
membrana
formano
un
passaggio
per
la
corrente,
che
è
caratterizzato
da
un
certo
valore
di
resistenza
(RM).
La
resistenza
è
determinata
dai
canali
ionici
e
anche
se
riferita
a
una
stessa
superficie
varia
in
funzione
del
numero
di
canali.
Anche
per
la
resistenza
di
membrana
possiamo
definire
una
resistenza
specifica
(definita
come
la
resistenza
di
1cm2
di
membrana).
In
questo
caso
però
Rm
=
Rspecifica/
superficie
Infatti,
la
resistenza
diminuisce
all'aumentare
della
superficie.
La
resistenza
specifica
si
esprime
in
Ohm
per
cm2
(Ω
x
cm2)
e
varia
da
10
a
106
da
cellula
a
cellula,
in
relazione
al
livello
di
espressione
dei
canali
ionici
aperti
a
riposo.
Se
si
fosse
utilizzata
la
conduttanza,
la
relazione
di
proporzionalità
sarebbe
stata
la
stessa.
La
resistenza
di
membrana,
Rm,
determina
il
voltaggio
finale
prodotto
dal
passaggio
della
corrente
e
da
essa
dipende
la
depolarizzazione
della
membrana
stessa.
La
corrente,
infatti,
deve
attraversare
la
membrana,
dove
produce
una
variazione
di
potenziale
(∆V)
proporzionale
alla
resistenza
di
membrana,
secondo
la
legge
di
Ohm.
∆!
I
=
!!
∆V
=
I
x
RM.
Se
la
variazione
di
potenziale
prodotta
è
costante
(stazionaria),
allora
è
uguale
al
prodotto
della
corrente
iniettata
(I)
per
la
resistenza
di
membrana
(RM).
Poiché
R
=
1/G
(dove
G
sta
per
conduttanza)
!
∆V
=
!
Tenendo
conto
che
la
conduttanza
(resistenza)
della
membrana
è
determinata
essenzialmente
dai
canali
per
il
K+
e
il
Cl-‐
aperti
a
riposo,
allora
!
∆V
=
I
x
(! ! ! !"#)
Dato
che
la
variazione
di
potenziale
dipende
dalla
resistenza,
la
quale
a
sua
volta
dipende
dalle
dimensioni
cellulari,
un
neurone
piccolo
avrà
una
resistenza
maggiore
rispetto
ad
un
neurone
grande
(possiede
meno
canali
ionici).
Si
viene
a
creare
quindi
una
relazione
tra
eccitabilità
del
neurone
e
dimensioni
dello
stesso.
Quindi,
a
parità
di
corrente
iniettata,
i
neuroni
di
piccole
dimensioni
saranno
maggiormente
depolarizzati
rispetto
ai
grandi
e,
di
conseguenza,
raggiungeranno
più
facilmente
la
soglia
per
il
potenziale
d’azione.
I
neuroni
piccoli
sono
i
neuroni
più
facilmente
eccitabili
(quando
la
corrente
attraversa
il
noma,
l’elemento
determinante
è
la
resistenza
di
membrana).
Infatti,
durante
una
contrazione
prolungata
che
man
mano
aumenta
di
intensità,
i
primi
motoneuroni
ad
essere
attivati
sono
quelli
di
piccole
dimensioni
(principio
del
reclutamento
in
base
alle
dimensioni
cellulari)
e
in
seguito
vengono
reclutati
neuroni
di
dimensioni
via
via
maggiori.
Un
metodo
per
misurare
la
resistenza
di
membrana
è
iniettare
corrente
attraverso
un
micro-‐elettrodo
(la
sinapsi
funziona
come
un
iniettore
di
corrente
costante):
conoscendo
la
corrente
iniettata,
si
può
ricavare
la
resistenza.
La
risposta
della
membrana
si
sviluppa
lentamente,
seguendo
una
legge
esponenziale
rappresentata
dall’equazione
di
carica:
∆V
=
I
x
RM
x
(1-‐e−t/τ)
14
dove
τ
rappresenta
la
costante
di
tempo
della
membrana
(il
tempo
necessario
perché
essa
raggiunga
il
63%
del
potenziale
o
voltaggio
finale).
Maggiore
è
la
costante
di
tempo,
maggiore
è
il
tempo
necessario
per
la
produzione
dell’effetto
depolarizzante.
Quando
la
corrente
iniettata
cessa,
la
membrana
non
ritorna
al
valore
di
PM
originale
immediatamente,
ma
seguendo
l’equazione
di
scarica:
∆V
=
I
x
RM
x
e−t/τ
Dopo
un
tempo
uguale
a
τ,
la
membrana
è
calata
al
37%
del
potenziale
raggiunto
durante
l’iniezione
di
corrente.
Quindi,
in
questo
caso
τ
è
il
tempo
necessario
per
arrivare
dal
37%
della
massima
variazione.
La
costante
di
tempo
dipende
dalle
proprietà
elettriche
della
membrana
ed
è
uguale
al
prodotto
della
capacità
per
la
resistenza
della
membrana
(valori
assoluti,
validi
per
tutta
la
membrana):
Τ
=
RM
x
CM
L’iniezione
di
corrente
in
un
punto
della
membrana
cellulare
produce
una
variazione
di
PM
che
si
estende
alle
regioni
adiacenti
(in
quanto
la
corrente
fuoriesce
attraverso
la
membrana
delle
regioni
adiacenti
e
ne
fa
variare
il
potenziale
di
membrana).
Ma
la
differenza
di
potenziale
generata
dal
passaggio
di
corrente
(che
sia
sinaptica
o
artificiale)
si
attenua
man
mano
che
ci
si
allontana
dal
punto
in
cui
la
corrente
elettrica
è
stata
iniettata.
Questo
fenomeno
è
dovuto
alla
distribuzione
della
corrente
sinaptica
e
non-‐sinaptica,
cioè
dipende
dal
fatto
che
la
corrente
si
ripartisce
tra
la
resistenza
di
membrana
e
quella
citoplasmatica.
Di
volta
in
volta,
la
corrente
si
divide
in
due
flussi:
uno
prosegue
nel
citoplasma,
l’altro
fuoriesce
dalla
membrana.
A
livello
della
sinapsi,
l’ingresso
della
corrente
depolarizza
la
regione
in
cui
la
corrente
stessa
entra.
La
corrente,
quindi,
si
distribuisce
lungo
la
membrana
ed
esce
attraverso
i
canali
ionici:
in
tutti
i
punti
in
cui
fuoriesce,
la
membrana
si
depolarizza.
Poiché
la
variazione
di
PM
dipende
dall’intensità
della
corrente
(ΔV
=
I
x
RM),
il
suo
valore
decresce
man
mano
che
ci
si
allontana
dal
punto
di
iniezione,
in
quanto
la
frazione
di
corrente
che
attraversa
la
membrana
si
riduce
sempre
di
più.
Il
fattore
che
determina
l’attenuazione
spaziale
(quanta
corrente
passa
per
la
membrana
in
ogni
punto)
è
il
rapporto
fra
la
resistenza
del
citoplasma
e
quella
della
membrana:
maggiore
è
la
resistenza
di
membrana,
maggiore
è
la
frazione
di
corrente
che
scorre
nel
citoplasma,
per
cui
questa
potrà
raggiungere
regioni
localizzate
lontano
dal
punto
di
iniezione;
maggiore
è
la
resistenza
del
citoplasma,
maggiore
sarà
in
ogni
punto
la
quota
di
corrente
che
scorre
attraverso
la
membrana,
per
cui
la
corrente
citoplasmatica
si
esaurirà
in
prossimità
dell’elettrodo.
Un
altro
fattore
che
interviene
è
la
facilità
con
cui
la
corrente
fuoriesce
dalla
membrana.
Infatti,
se
la
resistenza
di
membrana
è
bassa,
la
corrente
esce
e
il
potenziale
non
si
propaga,
ma
si
esaurisce
immediatamente.
L’attenuazione
della
variazione
di
PM
lungo
la
membrana
è
definita
dalla
costante
di
spazio
(λ),
che
corrisponde
alla
distanza
dal
punto
di
iniezione
della
corrente
per
cui
l’ampiezza
della
variazione
di
PM
si
è
ridotta
al
37%
del
valore
iniziale.
La
legge
che
esprime
il
decadimento
della
risposta
in
funzione
della
distanza
(s)
dal
punto
di
iniezione
è:
∆V
=
∆V0
x
e−s/λ
dove
∆V0
corrisponde
al
valore
della
risposta
nel
punto
di
iniezione.
La
costante
di
spazio
è
legata
alla
resistenza
del
citoplasma,
a
quella
della
membrana
e
al
diametro
dell’assone
(parametri
dimensionali).
Indicando
con
RSM
la
resistenza
(specifica)
di
membrana
di
un
cm
di
assone
(espressa
in
Ω
x
cm)
𝑢𝑛 𝑠𝑒𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 2 𝑐𝑚 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑛𝑒 ℎ𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑒𝑡à 𝑑𝑖 𝑢𝑛
𝑠𝑒𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑚
e
con
RSA
la
resistenza
specifica
di
un
cm
di
assoplasma
(espressa
in
Ω/cm)
2 𝑐𝑚 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑛𝑒 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑠𝑠𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑝𝑝𝑖𝑎 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑑 𝑢𝑛 𝑠𝑒𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑚, 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑙𝑒
𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑜𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑒𝑟𝑖𝑒 𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑖𝑛 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑙𝑙𝑒𝑙𝑜
La
costante
di
spazio
corrisponde
a:
!!"
λ
=
!!"
15
Più
elevata
è
la
resistenza
di
membrana
e
più
bassa
è
la
resistenza
dell’assoplasma,
tanto
maggiore
è
la
costante
di
spazio.
I
due
parametri
RSM
e
RSA
sono
dipendenti
dalla
geometria
dell’assone,
in
particolare
dal
suo
diametro.
La
costante
di
spazio
può
essere
espressa
in
funzione
di
parametri
resistivi
indipendenti
dalle
dimensioni
assonali.
Indicando
con
rM
la
resistenza
di
un
cm2
di
membrana,
con
rA
la
resistenza
di
un
cm3
di
assoplasma
e
con
r
il
raggio
assonale:
!! !! !! !
λ=
( )/( )
=
( )/( ! )
=
(𝑟 ∙ 𝑟! )/( 2 𝑟! )
!!" !" ! ! !
Infatti,
la
resistenza
di
membrana
di
un
cm
di
assone
si
ottiene
dividendo
la
resistenza
di
membrana
corrispondente
a
un
cm2
di
membrana
per
la
circonferenza
(2πr)
dello
stesso
segmento
assonale
(1
cm),
mentre
la
resistenza
dell’assoplasma
di
un
cm
di
assone
corrisponde
alla
resistenza
di
1
cm3
di
assone
diviso
per
la
sezione
trasversa
dell’assone
medesimo.
Le
unità
di
misura
di
rM
e
rA
sono,
rispettivamente,
Ω
x
cm2
e
Ω
x
cm.
Tipici
valori
di
λ
sono
1mm
per
gli
assoni
e
qualche
centinaio
di
μm
per
i
dendriti.
A
causa
del
valore
della
costante
di
spazio
degli
assoni,
le
variazioni
di
PM
attribuibili
alle
semplici
proprietà
fisiche
della
membrana
si
estinguono
dopo
qualche
centinaio
di
micron.
Attraverso
questi
segnali,
un
neurone
cortico-‐spinale
non
riuscirebbe
mai
a
controllare
i
motoneuroni
spinali,
che
possono
essere
distanti
anche
più
di
un
metro,
per
cui
è
necessario
un
meccanismo
diverso
rispetto
alle
risposte
elettrotoniche.
POTENZIALE
D’AZIONE
Il
potenziale
d’azione
(PDA,
o
impulso,
o
spike)
è
una
rapida
e
brusca
inversione
del
potenziale
di
membrana
(l’interno
diventa
positivo),
la
cui
durata
varia
da
poco
più
di
un
millisecondo
(assone)
ad
alcune
centinaia
di
millisecondi
(cellule
miocardiche).
Può
essere
seguito
da
un’iperpolarizzazione
(detta
postuma)
della
membrana
rispetto
ai
livelli
di
riposo,
ovvero
il
PM
(potenziale
di
membrana)
scende
al
di
sotto
del
valore
di
riposo,
per
tornare
gradualmente
al
valore
di
riposo
stesso.
Nasce
solo
se
la
membrana
cellulare
viene
depolarizzata
al
disopra
di
un
livello
critico,
detto
soglia.
Si
tratta
di
un
fenomeno
“tutto
o
nulla”:
se
la
soglia
è
superata,
il
PDA
si
manifesta
con
la
sua
normale
ampiezza,
se
non
viene
superata,
non
si
manifesta
affatto.
Il
PDA
ha
la
proprietà
di
propagarsi
senza
decremento
in
ampiezza
per
tutta
la
lunghezza
dell’assone,
che
può
arrivare
a
qualche
metro.
Dopo
la
nascita
di
un
PDA,
c’è
un
periodo
di
tempo
durante
il
quale
la
membrana
è
completamente
ineccitabile,
il
periodo
refrattario
assoluto,
che
dura
fino
a
quando
la
membrana
non
è
tornata
in
prossimità
del
valore
del
PM
a
riposo.
Successivamente,
comincia
un
periodo
di
eccitabilità
alterata,
durante
il
quale
la
membrana
è
nuovamente
eccitabile,
ma
sono
necessari
stimoli
più
intensi
per
far
nascere
il
PDA
(periodo
refrattario
relativo).
Questo
periodo
dura
fino
a
quando
la
membrana
non
è
ritornata
ai
valori
di
PM
a
riposo
ed
è
quindi
prolungato
dall’iperpolarizzazione
postuma.
Nel
primi
anni
del
Novecento,
la
teoria
di
Bernstein
assumeva
che
il
PDA
fosse
un
semplice
annullamento
(e
non
un
rovesciamento)
del
potenziale
di
lesione
che
si
osservava
quando
il
muscolo
si
contraeva.
Fu
ipotizzato
che
il
potenziale
di
membrana
fosse
in
potenziale
di
equilibrio
per
il
potassio
(unico
ione
in
grado
di
attraversare
la
membrana)
e
che
la
sua
scomparsa
fosse
dovuta
ad
un
cortocircuito
della
membrana
cellulare,
la
quale
diventava
improvvisamente
permeabile
a
tutti
gli
ioni,
annullando
così
il
PM.
Questa
ipotesi
venne
smentita
da
un
esperimento
che
prevedeva
l’inserimento
di
un
elettrodo
in
un
assone
di
calamaro
(che
ha
dimensioni
di
0.8-‐1
mm):
fu
dimostrato
che,
durante
il
PDA,
il
PM
non
si
annullava,
come
previsto
dalla
teoria
di
Bernstein,
ma
cambiava
di
segno
(overshoot,
l’interno
diventa
positivo).
Visto
che
la
membrana
rovescia
la
sua
polarità,
si
ritenne
che
il
PDA
fosse
dovuto
ad
un
aumento
della
conduttanza
al
Na+,
che
sarebbe
diventato
lo
ione
più
permeante
attraverso
la
membrana
(cambiamento
della
permeabilità
ionica
della
membrana
che
sposta
il
potenziale
di
membrana
verso
il
potenziale
di
equilibrio
dello
ione
di
cui
aumentava
la
permeabilità,
60
mV).
Per
verificare
l’ipotesi,
furono
alterate
le
concentrazioni
di
sodio
nel
liquido
extracellulare
e,
di
conseguenza,
il
potenziale
di
equilibrio
del
sodio
(la
riduzione
del
potenziale
di
equilibrio
può
essere
ricavata
con
l’equazione
di
Nerst
per
quelle
concentrazioni).
Utilizzando
l’equazione
di
conduttanza,
si
può
trovare
il
valore
percentuale
della
conduttanza
al
Na+
che
corrisponde
al
valore
raggiunto
dal
PM
al
picco
del
potenziale.
Facendo
una
stima
del
nuovo
potenziale
di
equilibrio,
fu
osservato
che
l’ampiezza
del
16
PDA
diminuiva
alla
riduzione
della
concentrazione
di
sodio
in
maniera
consistente
con
la
riduzione
del
potenziale
di
equilibrio
del
sodio.
𝐺𝐾 !
PM
=
EK
(
𝐺𝑇
)
+
ENa
( !!"
)
!
!"
Equazione
di
Nerst:
ENa
=
x
ln
([Na+]out/[Na+]in)
!"
Eliminando
completamente
il
sodio
dal
liquido
extracellulare,
il
PDA
viene
abolito:
il
sodio
gioca
un
ruolo
fondamentale
in
questo
fenomeno.
I
fisiologi
Hodgkin
e
Huxley
cercarono
quindi
di
comprendere
fino
a
che
punto
il
PDA
potesse
essere
spiegato
dalle
variazioni
di
permeabilità
ionica
innescate
dalla
depolarizzazione.
Era
innanzitutto
necessario
misurare
le
variazioni
di
permeabilità
(o
conduttanza)
ionica
indotte
dalla
depolarizzazione
sopra-‐soglia
e
il
loro
decorso
temporale.
A
partire
da
questi
dati,
applicando
i
principi
di
Ohm,
calcolarono
l’evoluzione
nel
tempo
del
PM
utilizzando
l’equazione
di
conduttanza
e
verificarono
che
corrispondesse
al
PDA
effettivamente
osservato.
PM=
EK
(GK/GT)
+
ENa
(GNa/
GT)
Ma
per
calcolare
la
conduttanza
(resistenza)
è
necessario
utilizzare
la
legge
di
Ohm:
I
=
∆V
x
G.
Durante
il
PDA,
il
voltaggio,
le
correnti
ioniche
e
la
conduttanza
(la
resistenza
di
membrana
varia
nel
tempo
in
funzione
del
voltaggio)
cambiano
continuamente.
Poiché
la
conduttanza
è
funzione
sia
del
tempo
che
del
voltaggio
[G
=
f
(t,
ΔV)],
non
la
si
può
calcolare
applicando
semplicemente
la
legge
di
Ohm.
I
fisiologi
scelsero
di
bloccare
la
variabile
voltaggio,
mantenendo
un
valore
costante
sopra-‐soglia,
e
misurare
la
resistenza
osservando
le
variazioni
di
corrente.
Infatti,
esiste
una
tecnica,
detta
blocco
del
voltaggio
(voltage
clamp),
che
permette
di
mantenere
costante
il
voltaggio
transmembranario
misurando
contemporaneamente
la
corrente
che
attraversa
la
membrana
come
conseguenza
del
PDA.
In
questo
modo
si
può
ottenere
la
conduttanza
a
tempi
successivi
(variazioni
di
resistenza
nel
tempo)
dividendo
la
corrente
misurata
per
il
voltaggio
costante.
Quando
si
depolarizza
la
membrana
al
disopra
della
soglia
mantenendo
il
voltaggio
costante,
la
corrente
di
membrana
mostra
un
caratteristico
andamento
bifasico,
con
una
componente
iniziale
diretta
verso
l’interno
e
una
tardiva
diretta
verso
l’esterno.
La
componente
iniziale
si
annulla
se
la
membrana
viene
depolarizzata
al
valore
del
potenziale
di
equilibrio
per
il
Na+
(il
potenziale
di
membrana
a
cui
viene
portato
l’assone
durante
il
blocco
del
voltaggio
corrisponde
al
potenziale
di
equilibrio
per
il
sodio,
+60mV)
e
si
rovescia
di
segno,
dirigendosi
verso
l’esterno,
quando
la
depolarizzazione
imposta
alla
membrana
supera
il
valore
del
potenziale
di
equilibrio
per
il
Na+.
Quindi,
a
+60mV
non
veniva
osservata
corrente,
né
in
entrata
né
in
uscita;
a
potenziale
maggiore
di
+60mV
la
corrente
era
in
uscita
(il
gradiente
elettrico,
più
potente
del
gradiente
di
concentrazione,
determina
l’uscita
del
sodio).
Sostituendo
il
Na+
del
liquido
extracellulare
con
la
colina,
la
componente
tardiva,
rivolta
verso
l’esterno
può
essere
isolata
(eliminando
la
prima
corrente,
quella
iniziale).
Essa
è
costituita
da
ioni
K+:
dipende
dal
potenziale
di
equilibrio
per
il
K+
e
inoltre
viene
bloccata
dal
tetraetilammonio.
Sottraendo
la
corrente
in
uscita
dalla
corrente
totale,
si
ottiene
il
decorso
temporale
della
corrente
in
entrata.
La
componente
iniziale,
legata
al
Na+,
è
invece
annullata
dal
TTX,
tetradotossina,
bloccante
specifico
dei
canali
del
Na+.
Ognuna
delle
due
correnti
può
essere
calcolata
per
sottrazione
rispetto
alla
corrente
totale
dopo
il
blocco
dell’altra.
Confrontando
le
due
correnti,
si
osserva
che,
mentre
la
corrente
di
Na+
si
inattiva
velocemente,
quella
di
K+
è
persistente.
La
curva
che
indica
la
corrente
ottenuta
in
presenza
di
colina
(10%
Na+)
non
si
esaurisce
e
l’inattivazione
avviene
in
tempi
lunghi.
Dividendo
i
valori
di
corrente
osservati
per
la
differenza
fra
il
valore
del
PM
stabilito
dal
voltage
clamp
(VM)
e
il
potenziale
di
equilibrio
di
ognuno
dei
due
ioni,
si
potevano
calcolare
le
variazioni
di
conduttanza
ionica
per
il
Na+
e
per
il
K+
indotte
17
dallo
stimolo.
Le
variazioni
di
conduttanza
dipendevano
dall’ampiezza
della
depolarizzazione.
La
conduttanza
poteva
così
essere
espressa
come
funzione
del
voltaggio
e
del
tempo.
La
soglia
del
PDA
non
corrisponde
al
valore
di
depolarizzazione
per
cui
si
aprono
i
canali
per
il
Na+
voltaggio
dipendenti,
in
quanto
in
realtà
l’apertura
comincia
per
valori
inferiori
alla
soglia.
Quindi,
la
soglia
del
PDA
è
al
di
sopra
della
soglia
di
apertura
dei
canali
ionici
(il
PDA
nasce
a
canali
ionici
aperti).
Per
questi
valori,
la
corrente
in
ingresso
di
Na+
(che
entrando
depolarizza
la
cellula)
viene
annullata
dall’uscita
di
K+
(tramite
canali
passivi)
prodotta
dalla
depolarizzazione,
impedendo
quindi
la
nascita
del
PDA.
La
soglia
del
PDA
è
il
punto
di
rottura
dell’equilibrio
fra
le
due
correnti:
la
corrente
di
Na+
supera
quella
di
K+,
depolarizza
ulteriormente
la
membrana,
aumentando
ancora
la
conduttanza
per
il
Na+
(fa
aprire
altri
canali)
e,
di
conseguenza,
la
corrente
di
Na+
in
ingresso.
Questo
sistema
di
auto-‐rinforzo
è
detto
ciclo
di
Hodgkin.
L’intensità
della
corrente
di
Na+
prodotta
da
uno
stimolo
sopra-‐soglia
dipende
dall’intervallo
trascorso
rispetto
allo
stimolo
sopra-‐soglia
precedente.
Quando
l’intervallo
è
inferiore
ad
un
millisecondo,
la
corrente
di
Na+
risulta
completamente
cancellata.
All’aumentare
dell’intervallo,
la
corrente
riappare
e
aumenta
progressivamente,
fino
a
tornare
ai
valori
osservati
con
il
primo
stimolo
in
circa
12
msec.
Il
periodo
in
cui
la
corrente
di
Na+
non
può
essere
evocata
corrisponde
al
periodo
refrattario
assoluto,
in
cui
il
PDA
non
può
essere
generato.
Quando
riappare
la
corrente
di
Na+
si
entra
nel
periodo
refrattario
relativo,
in
cui
per
generare
il
PDA
è
necessario
aumentare
l’intensità
dello
stimolo.
Quindi
è
l’inattivazione
dei
canali
per
il
sodio
voltaggio-‐dipendenti
che
produce
il
fenomeno
della
refrattarietà.
Se
si
stimola
la
membrana
con
una
corrente
di
intensità
lievemente
superiore
alla
soglia,
subito
dopo
il
periodo
refrattario
assoluto
la
stessa
intensità
di
corrente
dà
origine
a
risposte
di
membrana
di
natura
elettrotonica,
che
si
estinguono
in
uno
spazio
breve:
esse
sono
generate
dalla
corrente
per
il
Na+,
ora
insufficiente
per
raggiungere
la
soglia.
Solo
verso
la
fine
del
periodo
refrattario
relativo
l’intensità
della
corrente
torna
ad
essere
sufficiente
per
generare
un
PDA,
che
appare
però
alterato
nell’ampiezza
e
nella
forma.
La
registrazione
dell’attività
di
singoli
canali
mette
in
evidenza
come
la
loro
probabilità
di
apertura
è
massima
subito
dopo
l’inizio
della
depolarizzazione
della
membrana,
per
poi
arrivare
a
zero
in
pochi
msec
se
la
membrana
viene
mantenuta
depolarizzata
su
di
un
livello
costante.
La
conduttanza
dei
singoli
canali
è
dell’ordine
dei
10-‐30
picoSiemens.
La
conduttanza
del
canale
per
il
sodio
non
è
più
elevata
di
quella
per
il
calcio
di
tipo
L,
ma
il
numero
di
canali
presenti
sulla
membrana
è
maggiore,
e
per
questo
motivo
la
corrente
di
sodio
associata
al
PDA
è
maggiore
della
corrente
di
calcio.
Nello
sviluppo
delle
loro
equazioni,
Hodgkin
and
Huxley
avevano
espresso
la
conduttanza
ai
diversi
ioni
(GK
e
GNa)
in
funzione
del
tempo
e
del
voltaggio.
Rielaborandole,
arrivarono
ad
esprimere
la
conduttanza
per
il
Na+
(GNa)
come
prodotto
di
un
valore
GNa
max
(corrispondente
alla
massima
conduttanza
per
il
Na+
realizzabile
a
livello
della
membrana,
ovvero
quanto
tutti
i
canali
sono
aperti)
per
altri
due
parametri,
M
ed
h,
che
variavano
fra
0
e
1
e
il
cui
prodotto
è
minore
o
uguale
a
uno,
entrambi
una
funzione
del
potenziale
di
membrana
e
del
tempo:
GNa
=
M3h
GNa
max.
La
conduttanza
dipende
dalla
probabilità
di
apertura
dei
canali
al
Na.
Se
la
probabilità
è
50%,
la
conduttanza
al
Na
corrisponderà
alla
metà
della
conduttanza
massima.
In
questo
modo,
il
prodotto
M3h
viene
a
corrispondere
alla
probabilità
che
un
singolo
canale
sia
aperto.
Poiché
questo
termine
è
un
prodotto
di
quattro
fattori,
tre
dei
quali
uguali
(M3),
questo
implica
che
l’apertura
del
canale
è
condizionata
da
quattro
eventi
contemporanei,
tre
dei
quali
(M3)
hanno
la
stessa
probabilità
di
verificarsi:
la
probabilità
che
i
quattro
eventi
si
verifichino
insieme
dà
la
probabilità
di
apertura
del
canale.
Se
si
considerano
i
valori
di
M
e
H
ottenuti
verso
la
fine
di
stimoli
molto
lunghi
può
osservare
che
M
è
zero
a
potenziale
di
riposo
ed
aumenta
progressivamente
all’aumentare
della
depolarizzazione
(fino
a
un
valore
prossimo
a
1
per
voltaggi
elevati),
mentre
H
segue
l’andamento
opposto.
Ovvero,
H
=
1
quando
il
PM
è
al
di
sotto
del
valore
di
riposo
(membrana
iperpolarizzata)
e
diminuisce
verso
lo
0
man
mano
che
si
depolarizza.
Questi
dati
sono
stati
interpretati
ammettendo
che
M
rappresenti
la
probabilità
che
si
verifichi
un
evento
necessario
per
aprire
il
canale,
come
ad
esempio
la
rimozione
di
un
blocco
al
suo
interno.
Poiché
il
termine
M
è
presente
al
cubo,
i
blocchi
da
rimuovere
sarebbero
tre,
ognuno
caratterizzato
dalla
stessa
18
probabilità
di
rimozione,
detti
porte
M,
che
vengono
aperte
(gating
iniziale
che
apre
il
cancello)
dalla
depolarizzazione
della
membrana.
La
probabilità
di
apertura
di
queste
porte
aumenta
rapidamente
con
la
depolarizzazione
della
membrana.
H
rappresenterebbe
invece
la
porta
di
inattivazione,
un
blocco
che
non
è
presente
a
riposo
(o
meglio,
è
presente
solo
in
una
piccola
parte
dei
canali),
ma
che
lentamente
si
instaura
quando
la
membrana
viene
depolarizzata
sopra
soglia.
Poiché
la
chiusura
della
porta
H
è
più
lenta
dell’apertura
della
porta
M,
c’è
un
intervallo
di
tempo
in
cui
il
Na+
può
attraversare
il
canale.
La
probabilità
che
la
porta
H
sia
aperta
è
massima
quando
la
membrana
viene
iperpolarizzata.
Naturalmente,
in
questo
caso,
tutte
e
tre
le
porte
M
sono
chiuse.
Il
fatto
che
la
percentuale
di
porte
h
aperte
sia
maggiore
al
di
sotto
del
normale
valore
di
PM
ha
come
conseguenza
che,
se
la
membrana
viene
depolarizzata
partendo
da
un
potenziale
di
membrana
più
negativo
del
normale,
la
corrente
di
Na+
generata
sarà
maggiore
del
normale
(tutti
i
canali
sono
pronti
ad
essere
aperti).
Questo
può
comportare
l’abbassamento
della
soglia
per
generare
il
PDA.
In
alcuni
casi,
la
semplice
ripolarizzazione
della
membrana
ai
suoi
valori
di
riposo
può
favorire
la
nascita
di
un
potenziale
d’azione
tramite
un
fenomeno
detto
eccitazione
di
rimbalzo
(rebound).
Ricapitolando,
la
porta
H
è
aperta
a
riposo
(permettendo
il
passaggio
degli
ioni),
ma
alla
depolarizzazione
della
membrana
si
chiude
lentamente
e
la
corrente
passa
solo
nel
breve
periodo
di
tempo
in
cui
entrambe
le
porte,
M
ed
H,
sono
aperte
contemporaneamente.
Per
quanto
riguarda
la
corrispondenza
fra
le
porte
M
e
h
previste
da
Hodgkin
e
Huxley
e
la
struttura
molecolare
del
canale
per
il
Na+
voltaggio-‐dipendente,
bisogna
rilevare
che
i
gruppi
che
si
muovono
per
aprire
il
poro
non
sono
tre,
ma
quattro
(si
tratta
dei
4
segmenti
S4),
mentre
il
gruppo
che
inattiva
il
canale
(porta
H)
è
uno
solo:
il
loop
fra
il
terzo
e
il
quarto
dominio
della
subunità
α.
Quest’ultimo,
con
la
depolarizzazione,
cambia
la
sua
conformazione
e
determina
una
sorta
di
tappo
del
canale
dall’interno.
È
possibile
che
il
posizionamento
di
tre
segmenti
S4
renda
automatico
il
corretto
posizionamento
del
quarto
(obbligato
da
condizioni
molecolari).
Le
equazioni
di
Hodgkin
e
Huxley
permettono
di
determinare
le
variazioni
di
conduttanza
al
Na+
e
al
K+
prodotte,
nel
tempo,
da
uno
stimolo
sopra-‐soglia
che
genera
il
PDA.
Si
può
osservare
l’aumento
iniziale
rapido
della
conduttanza
per
il
Na+,
che
si
estingue
velocemente
e
quello
ritardato
della
conduttanza
per
il
K+
(la
permeabilità
rimane
più
a
lungo
elevata),
che
raggiunge
il
suo
picco
quando
quella
per
il
Na+
quasi
esaurita.
Queste
variazioni
di
conduttanza
permettono
di
ricostruire
esattamente
il
potenziale
d’azione
osservato.
Resta
quindi
dimostrato
che
esso
è
generato
dalle
variazioni
osservate
nelle
conduttanze
ioniche.
La
corrente
di
potassio
non
è
sempre
presente
con
la
stessa
intensità
ed
è
detta
rettificatrice
refrattaria.
Negli
assoni
mielinici,
dove
la
costante
di
tempo
della
membrana
è
piccola,
l’incremento
della
conduttanza
al
K+
è
piuttosto
ridotto:
in
questo
caso
la
ripolarizzazione
è
garantita
dall’inattivazione
della
conduttanza
per
il
Na+.
Negli
assoni
amielinici,
in
cui
la
costante
di
tempo
è
maggiore,
deve
anche
esservi
un
maggior
incremento
della
conduttanza
per
il
K+
per
poter
ripolarizzare
la
membrana
velocemente,
in
quanto
la
semplice
inattivazione
della
conduttanza
al
Na+
produrrebbe,
a
causa
del
valore
elevato
della
costante
di
tempo,
un
ritorno
piuttosto
lento
della
membrana
verso
il
potenziale
di
riposo.
L’incremento
della
conduttanza
al
K+
spiega
perché
dopo
il
PDA
si
osserva
una
iperpolarizzazione
postuma,
in
cui
la
membrana
è
iperpolarizzata
rispetto
al
suo
valore
a
riposo.
Il
PDA,
a
differenza
dei
potenziali
graduati,
si
propaga
senza
decremento
in
quanto
si
rigenera
punto
per
punto
e
quindi
si
svincola
dall’attenuazione
che
interessa
i
segnali
che
si
propagano
senza
tale
fenomeno
auto-‐rigenerativo
(cioè
passivamente).
19
Nella
zona
in
cui
il
potenziale
di
membrana
si
è
invertito,
l’interno
della
cellula
ha
un
potenziale
elettrico
maggiore
rispetto
a
quello
delle
zone
adiacenti,
mentre
all’esterno
il
potenziale
è
minore.
Di
conseguenza,
le
cariche
positive
si
sposteranno,
lungo
l’assoplasma,
verso
le
zone
adiacenti,
mentre
all’esterno
queste
torneranno
dalle
zone
adiacenti
verso
la
regione
a
potenziale
di
membrana
invertito
(circuito
locale).
Questo
flusso
di
corrente
depolarizza
le
due
regioni
adiacenti
alla
zona
di
inversione
del
potenziale
di
membrana.
Nella
regione
a
valle
viene
superata
la
soglia
e
nasce
un
nuovo
PDA,
che
avanza
verso
il
terminale
assonico,
mentre
in
quella
a
monte,
questo
processo
è
impedito
dal
periodo
refrattario.
Quando
l'avanzamento
non
è
lungo
un
assone,
ma
in
un
complesso
tridimensionale,
come
a
livello
del
cuore,
la
refrattarietà
è
critica.
Per
portare
a
soglia
il
segmento
a
valle,
bisogna
scaricare
la
capacità
di
membrana,
trasportandovi
una
carica
(∆Q)
proporzionale
alla
capacità
della
membrana
(Cm):
∆Q
=
∆V
x
Cm.
La
carica
è
trasportata
dalla
corrente
che
scorre
nel
circuito
locale,
secondo
la
legge:
I
=
∆Q/∆t
dove
I
è
l’intensità
della
corrente.
Quindi,
la
velocità
di
conduzione
diminuisce
all’aumentare
della
capacità
di
membrana,
perché,
a
parità
di
corrente
nel
circuito
locale,
è
necessario
un
tempo
maggiore
per
trasportare
una
quantità
di
carica
maggiore
(maggiore
è
la
capacità
di
membrana,
maggiore
è
la
carica
necessaria
per
far
variare
il
suo
potenziale).
Inoltre,
maggiore
è
la
corrente
che
scorre
nel
circuito
locale,
minore
il
tempo
necessario
per
trasportare,
per
la
stessa
capacità
di
membrana,
la
carica
necessaria
per
depolarizzare
la
membrana
al
di
sopra
della
soglia:
∆t
=
∆Q
/I
Il
fattore
principale
nel
determinale
l’intensità
della
corrente
è
la
resistenza
del
circuito
locale,
in
particolar
modo
quella
del
citoplasma.
Più
bassa
è
la
resistenza,
maggiore
sarà
la
velocità
di
conduzione.
Normalmente,
la
resistenza
esterna
si
considera
trascurabile
rispetto
a
quella
interna,
ma
esistono
eccezioni.
Ad
esempio,
se
un
assone
viene
immerso
nell’olio,
la
resistenza
dell’ambiente
esterno
è
elevata,
il
circuito
rimane
aperto
solo
perché
la
porzione
adiacente
alla
membrana
è
costituita
da
ambiente
acquoso
(che
bagna
la
membrana
stessa)
ma
la
velocità
di
conduzione
si
riduce.
Approssimativamente,
la
velocità
di
conduzione
è
proporzionale
all’inverso
del
prodotto
tra
resistenza
(rA)
e
capacità
(cM)
di
1
cm
di
assone:
!
velocità
di
conduzione
∝
!! ! !!
Sia
la
capacità
che
la
resistenza
sono
legate
al
diametro
della
fibra:
all’aumentare
del
diametro,
aumenta
la
capacità
di
membrana
e
diminuisce
la
resistenza
del
citoplasma.
La
capacità
è
proporzionale
al
raggio
dell’assone,
mentre
la
resistenza
è
inversamente
proporzionale
alla
sezione
dell’assone,
cioè
al
quadrato
del
raggio.
!
Quindi,
all’aumentare
del
raggio,
il
rapporto
aumenta
(in
quanto
il
termine
rA
x
cM
diminuisce)
e,
!! ! !!
di
conseguenza,
aumenta
anche
la
velocità
di
conduzione
(la
conduttanza
aumenta
e
la
resistenza
diminuisce
più
di
quanto
non
aumenti
la
capacità).
Gli
invertebrati
hanno
sviluppato
assoni
di
raggio
maggiore,
come
quello
gigante
del
calamaro
(1
mm
d
diametro),
che
permettono
la
reazione
di
fuga
dell’animale.
Gli
assoni
dei
mammiferi,
invece,
pur
essendo
più
piccoli
possono
condurre
a
velocità
ancora
maggiore
rispetto
a
quello
del
calamaro,
in
quanto
sono
dotati
di
guaina
mielinica.
Lo
sviluppo
della
guaina
mielinica
è
estremamente
importante,
perché
permette
di
raggiungere
elevate
velocità
di
conduzione
in
numerosi
assoni
senza
che
i
nervi
aumentino
enormemente
il
loro
diametro.
L’assone
mielinico
conduce
più
velocemente
di
quello
amielinico
per
diversi
motivi.
In
primis,
i
canali
per
il
Na+
voltaggio
dipendenti
sono
localizzati
solo
a
livello
dei
nodi
di
Ranvier
e
non
dei
tratti
internodali.
Pertanto,
il
PDA
nasce
in
numero
di
punti
discreti
dell’assone,
saltando
da
un
nodo
all’altro
(conduzione
saltatoria).
In
questo
modo,
il
processo
è
velocizzato
rispetto
all’assone
amielinico,
dove
la
corrente
che
scorre
nel
circuito
locale
deve
portare
a
soglia
tutti
i
segmenti
successivi
della
membrana.
20
In
secondo
luogo,
la
costante
di
tempo
dell’assone
(uguale
al
prodotto
della
resistenza
di
membrana
per
la
capacità
della
membrana
stessa)
è
diminuita,
in
quanto,
anche
se
la
resistenza
dei
tratti
internodali
è
aumentata
dal
rivestimento
lipoproteico,
la
loro
capacità
è
ancor
più
ridotta
a
causa
dell’aumento
della
distanza
fra
citoplasma
e
liquido
interstiziale
(i
due
conduttori
si
allontanano
tra
loro).
Di
conseguenza,
la
membrana
viene
portata
a
soglia
assai
rapidamente.
La
dimensione
della
capacità
è
di
gran
lunga
superiore
all’aumento
della
resistenza,
quindi
il
prodotto
r
x
c
(dove
r
è
la
resistenza
di
membrana
e
c
la
capacità),
ovvero
la
costante
di
tempo,
diminuisce,
ed
essendo
la
τ
breve,
l’assone
si
depolarizza
velocemente.
Inoltre,
a
causa
dell’elevata
resistenza
del
tratto
internodale,
la
corrente
generata
dal
PDA
a
livello
di
un
nodo
viene
quasi
tutta
proiettata
sul
nodo
successivo,
senza
cortocircuito
attraverso
la
membrana
internodale.
Questi
assoni
hanno
quindi
una
costante
di
spazio
λ
assai
elevata
(proprio
perché
la
resistenza
di
membrana
aumenta
e
la
corrente
non
esce
negli
spazi
internodali):
ne
consegue
che,
quando
il
PDA
è
generato
a
livello
di
un
nodo,
la
soglia
viene
raggiunta
non
solo
nel
primo
nodo
successivo,
ma
anche
nel
secondo.
Quindi
il
PDA
non
procede,
normalmente,
saltando
da
un
nodo
all’altro,
ma
saltando
due
nodi
(il
salto
può
anche
essere
di
3
nodi
in
3
nodi):
questo
fenomeno
è
importante
perché
garantisce
un
margine
di
sicurezza
alla
conduzione,
che
potrebbe
essere
bloccata
da
fattori
locali
che
abbassano
l’eccitabilità
di
singoli
nodi.
Nella
sclerosi
multipla
(e
in
generale
nelle
malattie
dovute
a
de-‐mielinizzazione)
si
assiste
a
una
degenerazione
della
mielina,
con
conseguente
rallentamento
della
velocità
di
conduzione
e
compromissione
delle
funzioni
sensoriali
e
motorie.
Oltre
al
rallentamento
e
alla
maggior
suscettibilità
al
blocco
di
conduzione,
la
perdita
della
mielina
porta
a
degenerazione
degli
assoni.
La
degenerazione
è
dovuta
alla
sovra-‐espressione
dei
canali
del
sodio
NaV1-‐6,
che
appaiono
anche
nei
tratti
internodali.
In
questo
modo,
si
arriva
ad
un
incremento
della
corrente
di
Na+
durante
il
PDA,
il
quale
sovraccarica
la
pompa
sodio
potassio
e
determina
aumento
della
concentrazione
di
sodio
intracellulare.
Essendo
la
concentrazione
di
sodio
legata
a
quella
del
calcio,
ne
consegue
diminuzione
dello
scambio
Na+/Ca++
e
la
minor
estrusione
del
Ca++
ha
come
conseguenza
un
aumento
della
calcio
intracellulare,
il
quale
innesca
i
meccanismi
della
degenerazione
assonica
e
fenomeni
di
apoptosi
(tramite
l’attivazione
di
caspasi).
21
FISIOLOGIA
DEL
SISTEMA
CARDIO-‐CIRCOLATORIO
IL
CUORE
Esistono
due
tipi
di
tessuto
miocardico:
-‐ miocardio
specifico:
genera
il
battito
cardiaco
(il
cuore
batte
da
solo,
senza
necessità
dell’intervento
del
SN)
e
della
conduzione
dell’eccitazione
(PDA)
al
cuore.
Comprende
il
nodo
senoatriale,
il
tessuto
di
conduzione
atriale,
il
nodo
atrio
ventricolare,
il
fascio
di
His
e
le
fibre
di
Purkinje;
-‐ miocardio
aspecifico:
è
la
forza
lavoro
del
cuore,
deputato
allo
sviluppo
di
tensione.
Tutte
le
cellule
cardiache
sono
tra
loro
accoppiate
da
sinapsi
elettrotoniche
(accoppiamento
elettrico).
Di
conseguenza,
il
PDA
generato
dalle
cellule
del
nodo
seno-‐atriale
si
può
diffondere
a
tutti
gli
altri
miocardiociti.
Per
questo
motivo,
nel
cuore
vale
la
legge
del
“tutto
o
nulla”:
è
sufficiente
che
una
cellula
cardiaca
(qualunque)
venga
eccitata
perché
si
abbia
la
contrazione
di
tutto
il
cuore.
La
corrente
generata
dal
potenziale
d’azione
di
una
cellula
investe
le
cellule
adiacenti,
le
quali
vengono
portate
a
soglia
e
generano
il
potenziale
d’azione.
All’attivazione
di
una
cellula
cardiaca,
inevitabilmente
si
attivano
tutte
le
altre.
Sistema
di
conduzione
Il
sistema
di
conduzione
permette
la
contrazione
coordinata
del
cuore.
Il
rallentamento
della
velocità
di
conduzione
che
si
ha
a
livello
del
nodo
atrioventricolare
(ritardo
di
conduzione
atrio-‐ventricolare)
fa
in
modo
che
il
ventricolo
si
contragga
solo
quando
la
contrazione
atriale
si
è
esaurita,
completando
il
riempimento
ventricolare:
l’atrio
funge
come
una
pompa
di
innesco
per
il
ventricolo.
La
rete
delle
fibre
del
Purkinje
permette
una
rapida
diffusione
dell’impulso
lungo
l’endocardio
(dove
sono
più
distribuite),
mentre
il
PDA
avanza
più
lentamente
attraverso
la
parete
ventricolare,
nella
direzione
endocardio-‐pericardio,
ottenendo
una
contrazione
progressiva
di
una
vasta
porzione
della
camera
ventricolare
diretta
dall’interno
(endocardio)
verso
l’esterno
(epicardio).
In
questo
modo,
si
ha
la
contrazione
contemporanea
di
diversi
settori
della
parete
ventricolare,
con
un
maggior
sviluppo
di
tensione
e
una
più
efficace
azione
di
pompa.
Un
malfunzionamento
del
sistema
di
conduzione
determina
la
perdita
di
diffusione
veloce
e
una
diminuzione
dell’area
della
camera
ventricolare
che
si
contrae,
perdendo
fino
al
20%
dell’efficienza
meccanica.
Omeostasi
ionica
e
potenziale
di
membrana
Come
in
tutte
le
cellule
eccitabili,
nel
miocardiocita
la
pompa
sodio/potassio
mantiene
elevata
la
concentrazione
intracellulare
del
K+
e
bassa
quella
del
Na+.
Esistono
poi
meccanismi
responsabili
della
regolazione
della
concentrazione
intracellulare
del
calcio,
riportandola
a
valori
bassi
quando
il
muscolo
si
rilascia.
w
In
particolare,
lo
scambiatore
sodio/calcio
estrude
uno
ione
calcio
attraverso
il
sarcolemma,
sfruttando
l’energia
liberata
dall’ingresso
nel
citoplasma
di
tre
ioni
Na+
(secondo
gradiente).
È
possibile
che
questo
scambiatore
agisca
in
senso
inverso
in
determinate
condizioni,
come
durante
il
potenziale
d’azione:
la
membrana
si
depolarizza
e
si
crea
un
flusso
di
ioni
all’interno
della
cellula.
w
La
pompa
del
calcio,
stimolata
dalla
calmodulina,
è
un
secondo
elemento
che
estrude
il
Ca++
attraverso
il
sarcolemma
(contro-‐gradiente),
questa
volta
idrolizzando
direttamente
l’ATP.
Si
tratta
di
un
meccanismo
importante
per
mantenere
bassa
la
concentrazione
dello
ione
durante
la
diastole,
regolato
dalla
concentrazione
stessa
di
calcio:
all’aumento
della
concentrazione,
il
calcio
interagisce
con
la
calmodulina,
forma
il
complesso
calcio/calmodulina
e
attiva
la
pompa.
w
Un
trasporto
attivo
primario
del
calcio
avviene
anche
dal
citoplasma
al
reticolo
sarcoplasmatico
grazie
alla
pompa
SERCA.
Il
potenziale
di
membrana
(PM,
-‐85/90mV
nel
miocardio
aspecifico)
dei
miocardiociti
è
principalmente
dovuto
al
potenziale
diffusionale
del
K+.
Ad
esso
può
dare
un
piccolo
contributo
la
pompa
Na+/K+
che,
scambiando
tre
ioni
Na+
con
due
ioni
K+,
crea
una
corrente
positiva
in
uscita
che
fa
variare
il
potenziale,
rendendolo
più
negativo,
nelle
cellule
di
piccole
dimensioni,
caratterizzate
da
un’elevata
resistenza
di
membrana.
La
variazione
di
PM
è
uguale
al
prodotto
di
tale
corrente
per
la
resistenza
di
membrana.
La
presenza
dello
scambiatore
sodio/calcio
crea
una
dipendenza
reciproca
fra
le
concentrazioni
intracellulari
di
Ca++
e
Na+
intracellulari.
Infatti,
se
la
concentrazione
intracellulare
di
Na+
aumenta,
il
gradiente
transmembranario
per
il
Na+
diminuisce
e,
di
conseguenza,
diminuisce
l’estrusione
di
Ca++
attraverso
la
membrana.
Questo
spiega
gli
effetti
della
digitale,
farmaco
che,
a
basse
dosi,
incrementa
la
forza
di
contrazione
del
cuore,
in
quanto
riduce
l’attività
della
pompa
Na+/K+,
incrementando
la
concentrazione
intracellulare
di
Na+
e,
di
conseguenza,
quella
del
Ca++,
responsabile
del
livello
di
tensione
sviluppato
dal
miocardiocita.
Corrente
per
il
potassio
e
rettificazione
interna
I
canali
per
il
K+,
normalmente
aperti
a
riposo,
mostrano
rettificazione
interna
(non
sono
canali
ohmici):
la
resistenza
del
canale
è
maggiore
per
la
corrente
in
uscita
(il
K+
esce
quando
il
valore
di
PM
è
meno
negativo
del
potenziale
di
equilibrio
del
K+)
che
per
quella
in
entrata
(il
K+
entra
quando
il
valore
di
PM
è
più
negativo
del
potenziale
di
equilibrio
del
K+).
La
rettificazione
interna
dipende
dalle
poliamine
e
dal
Mg++,
che
tappano
il
canale
quando
la
membrana
si
depolarizza.
A
potenziali
più
negativi,
per
cui
normalmente
il
K+
tende
ad
entrare
nella
cellula,
il
blocco
è
rimosso
e
il
canale
conduce
meglio.
La
rettificazione
non
sarebbe
quindi
legata
alla
direzione
della
corrente
di
per
se,
ma
piuttosto
al
valore
del
potenziale
di
membrana.
Il
potenziale
d’azione
del
cuore
dura
300
ms
e,
in
questo
arco
di
tempo,
la
cellula
è
depolarizzata.
In
queste
condizioni
potrebbe
perdere
enormi
quantità
potassio
e
una
perdita
eccessiva
ne
farebbe
aumentare
la
concentrazione
nel
liquido
extracellulare.
La
rettificazione
interna
impedisce,
quindi,
l’aumento
della
concentrazione
extracellulare
del
K+
durante
la
depolarizzazione
della
cellula,
il
cui
PDA
dura
centinaia
di
millisecondi.
L’equazione
di
Nerst
permette
di
prevedere
le
conseguenze
dell’assenza
della
rettificazione.
𝑅𝑇 !! !"#
Ek
=
(
𝑥𝐹
)
x
ln
(
[!!]!"
)
[K+]out
=
4
mE/l
[K+]in
=
145
mE/l
Ek
=
58
x
log
(4/145)
=
-‐
90.44
mV
[K+]out
=
6
mE/l
[K+]in
=
145
mE/l
Ek
=
58
x
log
(6/145)
=
-‐
80.22
mV
Quando
la
concentrazione
di
K+
nel
liquido
extracellulare
supera
il
valore
di
4
mE/l,
la
membrana
si
depolarizza.
Questo
avviene
perché
nell’equazione
di
Nerst
il
rapporto
fra
la
concentrazione
esterna
e
quella
interna
di
K+
è
aumentato
e,
di
conseguenza,
il
potenziale
di
equilibrio
per
il
K+
(Ek)
diventa
meno
negativo.
Se
Ek
diventa
meno
negativo,
lo
diventa
anche
il
potenziale
di
membrana.
Quando
la
concentrazione
di
K+
nel
liquido
extracellulare
supera
il
valore
di
8
mE/l,
l’eccitabilità
dei
miocardiociti
diminuisce
e
il
cuore
si
arresta.
La
depolarizzazione
inattiva
i
canali
del
sodio
voltaggio
dipendenti
e
la
permeabilità
al
potassio
aumenta:
la
membrana
perde
eccitabilità.
Durante
interventi
in
cui
è
necessario
collegare
il
paziente
alla
macchina
cuore-‐polmone,
occorre
fermare
il
battito
cardiaco
utilizzando
la
soluzione
cardioplegica,
una
soluzione
di
cloruro
di
potassio
altamente
concentrata.
Quando
il
potenziale
è
zero,
la
corrente
è
zero.
Aumentando
o
diminuendo
la
differenza
di
potenziale,
le
correnti
entranti
e
uscenti
sono
perfettamente
simmetriche.
Il
potenziale
d’azione
(PDA)
presenta
una
forma
diversa
nei
diversi
tipi
di
cellule
miocardiche
(è
eterogeneo).
Nel
PDA
delle
cellule
del
miocardio
aspecifico
distinguiamo
quattro
fasi:
0-‐
fase
di
rapida
ascesa:
è
dovuta
ad
una
corrente
per
il
sodio
a
rapida
inattivazione,
che
entra
nella
cellula
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti;
1-‐
fase
di
ripolarizzazione
iniziale:
la
ripolarizzazione
veloce
è
associata
ad
una
corrente
di
potassio
voltaggio
dipendente,
anch’essa
a
rapida
inattivazione,
che
esce
dalla
cellula
depolarizzata;
2-‐
fase
di
plateau:
è
legata
a
diversi
meccanismi
ionici.
In
primis,
è
coinvolta
la
corrente
in
entrata
di
calcio
voltaggio
dipendente
(ICa)
a
lenta
inattivazione
(attraverso
i
canali
T
e
L).
L’aumento
di
calcio
citoplasmatico
diminuisce
la
conduttanza
di
questi
canali.
Una
piccola
frazione
dell’ingresso
di
Ca++
è
dovuta
al
fatto
che
la
depolarizzazione
produce
una
inversione
della
direzione
di
lavoro
dello
scambiatore
sodio/calcio
,
per
cui
la
molecola
estrude
sodio
e
fa
entrare
calcio
nella
cellula
(durante
la
prima
metà
del
plateau).
Inoltre,
durante
il
plateau
scorre
una
coda
della
corrente
di
sodio
iniziale,
la
cui
inattivazione
non
è
stata
totale.
Infine,
l’aumento
della
resistenza
nei
canali
per
il
K+
aperti
a
riposo,
contribuisce
a
mantenere
la
fase
2,
minimizzando
la
tendenza
della
membrana
a
ripolarizzarsi
(la
corrente
in
ingresso
di
sodio
e
calcio
è
bilanciata
dalla
corrente
in
uscita
di
potassio).
In
questa
fase,
la
membrana
è
mantenuta
a
un
potenziale
costante
e
il
flusso
netto
di
corrente
attraverso
la
membrana
è
uguale
a
zero;
3-‐
fase
di
ripolarizzazione:
in
questa
fase
avviene
la
ripolarizzazione,
a
causa
dell’inattivazione
di
ICa
(diminuzione
conduttanza
per
il
calcio)
e
dell’apertura
sempre
maggiore
di
canali
per
il
K+
voltaggio
dipendenti
(aumento
conduttanza
per
il
potassio):
questa
corrente
di
K+
in
uscita
prende
il
nome
di
rettificatrice
ritardata.
Contribuiscono
ad
essa
almeno
tre
componenti,
indicate
come
KS,
KR,
KU,
caratterizzate
rispettivamente
da
cinetica
lenta,
rapida
e
ultrarapida;
4-‐
fase
di
riposo
della
cellula.
Una
riduzione
dell’attività
metabolica
può
determinare
sofferenza
del
miocardio,
in
quanto
viene
diminuita
l’attività
della
pompa
sodio/potassio,
che
influenza
il
potenziale
di
membrana.
La
conseguente
depolarizzazione
ischemica
di
circa
10
mV
aumenta
la
concentrazione
intracellulare
di
sodio
mentre
quella
di
potassio
diminuisce,
producendo
quindi
inattivazione
di
INa.
Quando
il
PDA
giunge
in
queste
regioni
ischemiche,
le
cellule
non
possono
esprimere
la
corrente
di
Na+
(la
depolarizzazione
tonica
ha
effetto
deleterio
sui
canali
per
il
sodio
voltaggio
dipendenti,
facendo
chiudere
le
porte
H),
ma
si
ha
ugualmente
l’apertura
dei
canali
per
il
Ca++
voltaggio
dipendenti,
con
l’insorgenza
di
risposte
lente
(PDA
al
Ca++),
che
hanno
una
più
bassa
velocità
di
conduzione:
il
PDA
non
viene
abolito,
ma
cambia
progressivamente.
La
risposta
fisiologica
veloce
diventa
una
risposta
lenta,
che
rappresenta
il
potenziale
cardiaco
in
assenza
della
corrente
del
sodio
(quindi
la
porzione
dovuta
alla
corrente
del
calcio).
In
condizioni
fisiologiche,
nel
nodo
del
seno
e
in
quello
atrio-‐ventricolare,
i
PDA
sono
risposte
lente,
perché
INa
è
molto
debole
o
assente.
I
canali
per
il
calcio
sono
di
due
tipi:
-‐ canali
di
tipo
T:
si
aprono
per
valori
di
PM
più
vicini
a
quelli
di
riposo
(hanno
soglia
più
bassa),
si
inattivano
rapidamente
e
hanno
la
resistenza
più
elevata
(cioè
conducono
di
meno).
Nel
nodo
seno
atriale
sono
più
numerosi
dei
canali
L;
-‐ canali
di
tipo
L:
hanno
soglia
più
elevata
e
si
inattivano
più
lentamente
dei
T
(cinetica
lenta).
La
loro
conduttanza
è
più
elevata
e
sono
molto
abbondanti
nel
nodo
atrioventricolare.
I
canali
di
tipo
L
(espressi
sulla
muscolatura
liscia
dei
vasi)
sono
il
bersaglio
di
una
importante
famiglia
di
farmaci
antiipertensivi,
i
calcio
antagonisti.
Inoltre,
sono
modulati,
attraverso
il
recettore
β-‐
noradrenergico,
dalle
catecolamine.
Esistono
tre
classi
di
calcio
antagonisti:
le
1,4
diidropiridine
(come
la
nifedipina,
N),
le
fenilalchilammine
(verapamil,
V)
e
le
benzotiazepine
(diltiazem,
D),
che
si
legano
a
tre
siti
distinti
sul
canale
per
il
Ca++,
che
vengono
indicati
con
le
iniziali
di
questi
farmaci
(N,V,D).
La
cinetica
lenta
di
questi
canali
ha
come
conseguenza
il
fatto
che
all’aumento
della
frequenza
del
battito
cardiaco,
automaticamente
si
riduce
la
durata
del
potenziale
d’azione:
aumentare
la
frequenza
infatti
equivale
a
diminuire
il
tempo
tra
un
battito
e
quello
successivo
(il
tempo
tra
la
nascita
di
un
potenziale
d’azione
e
quello
successivo).
Se
questo
tempo
viene
ridotto,
il
potenziale
d’azione
successivo
trova
un
background
di
attivazione
della
corrente
rettificatrice
ritardata,
quindi
la
sua
fase
di
plateau
dura
di
meno.
La
corrente
di
K+
voltaggio
dipendente
rettificatrice
ritardata,
che
produce
la
ripolarizzazione,
ha
cinetica
molto
lenta
ed
è
quindi
ancora
attivata
nel
periodo
successivo
al
PDA.
Questo
porta
ad
un
accorciamento
della
durata
del
PDA
quando
la
frequenza
cardiaca
aumenta:
in
tal
caso,
infatti,
il
PDA
successivo
viene
generato
quando
la
rettificatrice
ritardata
è
significativamente
attivata
e,
di
conseguenza,
si
ha
una
maggior
uscita
di
K+
durante
la
fase
di
plateau.
Il
periodo
refrattario
assoluto
nel
miocardio
aspecifico
corrisponde
a
0.25-‐0.30
sec
(quindi
per
tutta
la
durata
del
potenziale
d’azione)
e
dura
finché
la
conduttanza
per
il
Na+
voltaggio
dipendente
è
inattivata.
Successivamente,
c’è
un
periodo
refrattario
relativo
di
0.05
sec,
dovuto
al
fatto
che
la
conduttanza
al
Na+
è
ancora
parzialmente
inattivata
e
la
conduttanza
per
il
K+
rettificatrice
ritardata
è
ancora
parzialmente
attivata.
I
PDA
che
nascono
in
questo
periodo
sono
di
ampiezza
inferiore
rispetto
al
normale
e
la
loro
salita
è
più
lenta.
Queste
caratteristiche
fanno
sì
che
la
velocità
della
loro
conduzione
sia
più
bassa
della
norma
(sono
dei
potenziali
disturbatori
del
ritmo).
Nel
complesso,
il
periodo
refrattario
dura
quanto
lo
sviluppo
di
tensione
da
parte
della
cellula.
Pertanto,
lo
sviluppo
di
tensione
successivo
comincia
solo
quando
la
tensione
generata
dal
PDA
precedente
si
è
già
esaurita.
Questo
fa
si
che
nel
cuore
non
sia
possibile
né
la
sommazione
della
tensione
sviluppata
durante
scosse
successive,
né,
a
maggior
ragione,
la
contrazione
tetanica
in
seguito
alla
stimolazione
ad
alta
frequenza.
La
contrazione
tetanica
non
è
compatibile
con
l’azione
di
pompa
del
cuore.
Per
quanto
riguarda
il
muscolo
scheletrico,
invece,
si
ha
possibilità
di
attivazione
mentre
la
tensione
prodotta
dall’attivazione
precedente
si
sta
ancora
sviluppando.
Quando
viene
compiuta
un’azione
di
questo
tipo,
le
tensioni
sviluppate
si
sommano
e
il
muscolo
sviluppa
sempre
più
tensione,
fino
a
raggiungere
la
tensione
tetanica
(dove
per
tetano
si
intende
una
tensione
continua
del
muscolo).
La
contrazione
tetanica
può
avvenire
anche
quando
le
scosse
sono
massimali.
Quando
vengono
attivate
tutte
le
fibre
muscolari
contemporaneamente
si
ha
la
massima
estensione
della
scossa
singola
del
muscolo,
se
vengono
date
due
scosse
singole
che
si
sovrappongono
si
ottiene
una
tensione
maggiore.
Nel
muscolo
scheletrico
(in
cui
il
potenziale
d’azione
dura
poco
rispetto
allo
sviluppo
di
tensione),
questo
meccanismo
aumenta
lo
sviluppo
di
tensione,
mentre
nel
cuore
non
può
avvenire
poiché
il
potenziale
d’azione
dura
esattamente
quanto
lo
sviluppo
di
tensione.
I
miocardiociti,
quindi,
possono
essere
riattivati
soltanto
quando
la
tensione
cessa.
Inotropismo
di
frequenza
Nonostante
la
mancanza
di
contrazione
tetanica,
nel
miocardio
isolato
la
tensione
sviluppata
aumenta
con
la
frequenza
dello
stimolo:
inotropismo
di
frequenza.
Quindi,
ad
una
stimolazione
con
frequenza
maggiore
segue
un
aumento
dello
sviluppo
di
tensione:
aumentando
la
frequenza,
la
cellula
emette,
nell’unità
di
tempo,
un
numero
maggiore
di
potenziali
d’azione.
Questo
fenomeno
non
avviene
da
parte
del
cuore,
ma
da
parte
delle
sue
cellule
ed
è
dovuto
al
fatto
che
la
concentrazione
di
Ca++
citoplasmatica
aumenta
durante
gli
stimoli
ad
alta
frequenza.
Probabilmente,
questo
fenomeno
è
dovuto
al
fatto
che,
in
un
determinato
periodo
di
tempo,
i
canali
voltaggio
dipendenti
per
il
Ca++
restano
aperti
più
a
lungo
e,
di
conseguenza,
anche
la
concentrazione
di
calcio
citoplasmatica
rimane
più
a
lungo
sugli
elevati
livelli
sistolici.
In
questo
modo,
i
siti
citoplasmatici
aspecifici
(situati
sui
vari
organelli)
che
possono
legare
il
calcio
si
saturano
e
la
concentrazione
dello
ione
sale
maggiormente
quando
si
aprono
i
canali
del
reticolo
sarcoplasmatico,
in
quanto
il
calcio
si
lega
di
meno
ai
siti
aspecifici
e
una
percentuale
maggiore
dello
ione
rimane
libero
nel
citoplasma.
Normalmente,
quando
aumenta
la
frequenza
cardiaca,
il
cuore
batte
con
più
forza
per
via
dell’inotropismo
dovuto
al
simpatico
(e
non
inotropismo
di
frequenza).
Se
il
cuore
viene
guidato
ad
un
aumento
di
frequenza
(come
nel
caso
di
impianto
di
pacemaker),
non
si
assiste
ad
un
aumento
della
forza
di
contrazione
del
cuore
o
del
volume
di
sangue
eiettato.
Infatti,
l’aumento
di
frequenza
viene
associato
ad
un
aumento
della
forza
di
contrazione
nella
singola
cellula,
mentre
considerando
il
cuore
in
toto
bisogna
tenere
presenti
altre
variabili.
Se
si
aumenta
la
frequenza
di
contrazione
(senza
associare
una
stimolazione
contemporanea
del
simpatico),
il
cuore
non
ha
il
tempo
di
riempirsi
e
non
si
contrae
in
maniera
efficace.
In
realtà,
l’inotropismo
di
frequenza
esiste
anche
nel
cuore
in
toto,
ma
non
è
osservabile.
Transienti
di
calcio
Il
potenziale
d’azione
genera
un
incremento
della
concentrazione
di
Ca++
intracellulare
(transiente
del
Ca++)
che
produce
la
contrazione
della
cellula.
Questi
transienti
sono
visualizzabili
mediante
indicatori
che
vengono
iniettati
all’interno
della
cellula
e
diventano
fluorescenti
in
presenza
di
calcio:
l’intensità
della
luce
emessa
è
proporzionale
alla
concentrazione
dello
ione.
L’ampiezza
del
transiente
del
Ca++
(così
come
lo
sviluppo
di
tensione)
dipende
dalla
concentrazione
extracellulare
di
calcio:
all’aumento
di
concentrazione
di
calcio
nel
liquido
extracellulare,
aumentano
sia
il
transiente
che
lo
sviluppo
di
tensione.
Ciò
suggerisce
che
il
transiente
del
Ca++
dipenda
dall’ingresso
di
calcio
nella
cellula
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti.
Infatti,
il
transiente
del
calcio
associato
al
potenziale
d’azione
non
si
verifica
in
mancanza
di
calcio
extracellulare.
L’intensità
della
tensione
sviluppata
dipende
a
sua
volta
dall’ampiezza
del
transiente
di
calcio
e,
di
conseguenza,
dalla
concentrazione
extracellulare
dello
ione.
La
dipendenza
dello
sviluppo
di
tensione
(e
del
transiente
del
calcio)
dalla
concentrazione
extracellulare
del
Ca++
è
tipica
del
muscolo
cardiaco
e
non
si
ritrova
nel
muscolo
scheletrico
(in
cui
non
è
necessario
che
il
calcio
entri
nella
cellula
per
attivare
la
contrazione).
Il
transiente
del
Ca++
si
verifica
solo
se
lo
ione
entra
all’interno
della
cellula
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti,
come
dimostrato
dal
fatto
che
se
si
sostituisce
il
calcio
con
il
bario
(ione
permeante
attraverso
i
canali
per
il
Ca++,
ma
che
non
ne
condivide
le
funzioni)
nel
liquido
extracellulare,
si
abolisce
il
transiente
del
calcio,
e
di
conseguenza
si
abolisce
lo
sviluppo
di
tensione.
Anche
se
nel
miocardio
i
tubuli
T
sono
più
larghi
e
contengono
più
calcio
che
nel
muscolo
scheletrico
e
il
transiente
di
Ca++
è
abolito
impedendo
l’ingresso
dello
ione
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti
corrispondenti,
il
calcio
che
genera
il
transiente
non
è
quello
che
entra
attraverso
i
canali
localizzati
lungo
la
membrana
dei
tubuli
T.
Infatti,
la
quota
di
calcio
che
attraversa
la
membrana
è
troppo
piccola
per
produrre
in
modo
diretto
il
transiente,
serve
solo
per
indurre
il
rilascio
di
calcio
dal
reticolo
sarcoplasmatico
(RS).
Quest’ultima
quota,
più
consistente,
è
quella
responsabile
del
transiente,
come
indicato
dal
fatto
che
l’abolizione
del
rilascio
di
calcio
dal
RS,
ottenuta
mediante
una
sostanza
specifica,
la
rianodina
(rende
la
membrana
del
RS
impermeabile
al
calcio),
abolisce
sia
il
transiente
che
lo
sviluppo
di
tensione.
L’utilizzo
di
rianodina
determina
una
prolungazione
del
potenziale
d’azione.
Infatti,
se
si
blocca
il
rilascio
del
calcio
dal
reticolo
sarcoplasmatico,
la
concentrazione
citoplasmatica
di
calcio
diminuisce
e
il
canale
per
il
calcio
voltaggio
dipendente
continua
a
funzionare
(non
viene
più
inattivato
dal
calcio),
per
cui
il
potenziale
d’azione
dura
più
a
lungo.
Il
fatto
che
il
rilascio
dal
reticolo
sarcoplasmatico
dipenda
dalla
corrente
di
calcio
in
ingresso
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti
spiega
in
che
modo,
nel
miocardio,
la
concentrazione
del
Ca++
extracellulare
determina
l’ampiezza
del
transiente
e
della
forza
di
contrazione:
una
concentrazione
extracellulare
maggiore
aumenta
il
gradiente
che
spinge
il
calcio
ad
entrare
e,
di
conseguenza,
aumentano
la
corrente
di
Ca++
voltaggio
dipendente,
il
rilascio
di
Ca++
dal
RS
e
l’ampiezza
del
transiente.
Rilascio
di
calcio
dal
reticolo
sarcoplasmatico
Nel
miocardio,
il
calcio
entra
nella
cellula
attraverso
i
canali
voltaggio
dipendenti
(di
tipo
L)
dei
tubuli
T
detti
recettori
della
diidropiridina,
in
quanto
legano
le
diidropiridine
(una
classe
di
calcio-‐antagonisti).
Nel
citoplasma,
lega
la
calmodulina
e,
formando
il
complesso
calcio-‐
calmodulina,
interagisce
con
la
subunità
inferiore
del
canale
per
il
Ca++
che
si
trova
sulle
membrane
del
reticolo
sarcoplasmatico
(complesso
del
piede),
provocandone
l’apertura.
Questo
canale
viene
bloccato
all’interazione
con
la
rianodina.
Il
calcio
contenuto
nel
reticolo
a
elevata
concentrazione
fuoriesce
nel
citoplasma,
dando
origine
al
transiente.
Nel
muscolo
scheletrico,
il
canale
del
reticolo
sarcoplasmatico
viene
aperto
principalmente
con
un
altro
meccanismo,
più
debole
nel
miocardio,
che
consiste
in
un’interazione
diretta
di
un
gruppo
della
subunità
α
del
canale
del
tubulo
T
con
il
canale
per
il
calcio
del
reticolo,
a
seguito
di
un
cambiamento
di
conformazione
della
subunità
stessa
indotto
dalla
depolarizzazione.
Quando
la
depolarizzazione
è
finita,
la
corrente
di
Ca++
attraverso
la
membrana
dei
tubuli
T
cessa
e
il
reticolo
sarcoplasmatico
ridiventa
impermeabile
al
calcio
(il
canale
per
il
calcio
espresso
sulla
membrana
del
reticolo
sarcoplasmatico
si
inattiva
a
causa
di
un
processo
non
ben
definito,
probabilmente
si
tratta
di
un’inattivazione
spontanea).
La
maggior
parte
del
calcio
del
citoplasma
viene
riportato
nel
RS
grazie
all’azione
della
pompa
SERCA,
localizzata
sulla
membrana
dell’organulo
e
responsabile
della
rimozione
del
calcio
dal
citoplasma
per
l’88%.
Quote
più
piccole
vengono
portate
fuori
dalla
cellula
grazie
allo
scambiatore
sodio/calcio
e
alla
pompa
del
Ca++
del
sarcolemma.
Infine,
un’altra
piccola
quota
dello
ione
viene
portata
nei
mitocondri.
In
questo
modo,
la
concentrazione
di
calcio
nel
citoplasma
cala
ai
livelli
diastolici,
con
rilassamento
del
muscolo.
Nel
muscolo
scheletrico,
nel
momento
in
cui
il
potenziale
cessa,
la
subunità
del
canale
del
tubulo
T
cessa
di
interagire
con
il
complesso
del
piede
(canale
per
il
calcio
del
reticolo)
e
il
canale
si
chiude.
La
pompa
SERCA
è
continuamente
attiva
e
concentra
il
Ca++
all’interno
del
RS.
Viene
regolata
dal
fosfolambano,
molecola
che
ne
inibisce
l’attività
e
che
può
essere
fosforilata
allo
scopo
di
rimuovere
l’inibizione
esercitata
sulla
pompa
del
calcio
quando
si
trova
nella
forma
defosforilata.
La
fosforilazione
viene
prodotta
sia
dal
complesso
Ca++/calmodulina
(il
quale
rispecchia
un’aumentata
concentrazione
citosolica
di
calcio),
che
dalla
fosfochinasi
A,
attivata
dal
recettore
β-‐noradrenergico
e
regolata
da
cAMP.
Esistono
due
siti
di
fosforilazione
sul
fosfolambano,
per
cui
le
stimolazioni
possono
essere
additive.
Durante
la
sistole,
l’attività
della
pompa
è
elevatissima,
ma
senza
nessun
effetto
(è
inutile,
genera
soltanto
calore
e
riscalda
il
citoplasma),
in
quanto
il
reticolo
sarcoplasmatico
è
permeabile
al
Ca++,
che
fuoriesce
immediatamente
da
esso
non
appena
viene
riportato
al
suo
interno.
Dopo
un
lasso
di
tempo,
il
canale
per
il
calcio
sul
reticolo
sarcoplasmatico
sembra
inattivarsi
e
la
sistole
termina
perché
il
calcio
riportato
nel
reticolo
non
può
più
uscire.
A
questo
punto,
più
è
veloce
l’attività
della
pompa
SERCA,
più
è
veloce
il
rilasciamento
muscolare.
Il
legame
del
calcio
con
la
proteina
regolatrice
troponina
(subunità
C)
sposta
la
molecola
di
tropomiosina
(che
nasconde
il
sito
in
cui
la
testa
della
molecola
di
miosina
può
interagire
con
l’actina)
e
libera
un
sito
sulla
molecola
di
actina
su
cui
la
miosina
si
può
attaccare.
L’interazione
tra
actina
e
miosina
produce
l’accorciamento
del
sarcomero.
La
molecola
di
miosina
ha
già
raggiunto
un
elevato
livello
di
energia
potenziale
all’arrivo
del
calcio
(è
pronta
a
scattare),
in
quanto
lega
ADP
e
fosfato
(ha
già
idrolizzato
ATP
per
aumentare
la
sua
energia
potenziale).
Al
momento
dell’interazione,
l’energia
potenziale
viene
liberata.
Inizia
così
il
ciclo
dei
ponti
trasversi.
Una
volta
che
la
testa
della
miosina
ha
reagito
con
l’actina,
essa
ruota,
producendo
una
trazione
sul
filamento
di
actina.
Quest’ultimo,
grazie
all’azione
asincrona
delle
teste
che
ruotano,
viene
spinto
verso
il
centro
del
sarcomero,
che
si
accorcia.
Dopo
la
rotazione
della
testa
della
miosina,
il
ponte
rimarrebbe
bloccato,
ostacolando
un
ulteriore
scorrimento,
se
l’ATP
non
si
legasse
alla
testa,
producendo
lo
scioglimento
del
ponte
(la
molecola
di
miosina
si
distacca
dal
filamento
di
actina).
A
questo
punto,
l’idrolisi
dell’ATP
da
parte
della
testa
della
miosina
cambia
la
conformazione
della
testa
medesima,
che
si
carica
di
energia
potenziale,
la
quale,
dopo
il
successivo
attacco
all’actina,
produrrà
la
rotazione
del
ponte,
contribuendo
all’ulteriore
accorciamento
del
sarcomero.
Se
questo
meccanismo
non
avvenisse,
il
muscolo
si
troverebbe
irrigidito
(rigor
mortis
del
cadavere).
La
tensione
sviluppata
dal
meccanismo
dei
ponti
trasversi
dipende
dalla
concentrazione
di
calcio
libero
nel
citoplasma,
secondo
una
relazione
sigmoide.
In
diastole
la
concentrazione
del
Ca++
è
di
10-‐7
m/litro
e
sale
a
circa
10-‐6
in
sistole.
Tensione
e
lunghezza
Lo
sviluppo
di
tensione
dipende
dalla
lunghezza
del
sarcomero.
Innanzitutto,
si
distinguono
la
tensione
attiva
(tensione
prodotta
dalla
contrazione
muscolare,
che
dipende
dalla
lunghezza
del
sarcomero)
e
quella
passiva.
Fino
ad
una
certa
lunghezza,
il
muscolo
cardiaco
non
è
in
grado
di
sviluppare
tensione
attiva.
Al
di
sopra
di
questa
lunghezza
soglia,
la
tensione
sale
progressivamente,
raggiunge
un
massimo
e
torna
poi
a
zero.
Normalmente,
il
muscolo
cardiaco
lavora
nella
porzione
ascendente
della
curva
(il
sarcomero
è
corto
e
l’aumento
di
lunghezza
aumenta
lo
sviluppo
di
tensione).
Invece,
la
tensione
passiva,
dovuta
alle
semplici
proprietà
elastiche
del
muscolo
non
contratto
e
del
tendine
(che
agiscono
come
delle
molle,
sviluppando
tensione
quando
sono
stirati)
aumenta
progressivamente
al
disopra
della
una
lunghezza
soglia
(fino
ad
un
valore
per
cui
il
tessuto
si
lacera).
Il
muscolo
cardiaco,
a
parità
di
lunghezza,
sviluppa
una
maggior
tensione
passiva
rispetto
al
muscolo
scheletrico
per
via
del
maggior
contenuto
di
collagene
e
titina
(una
proteina
della
linea
Z).
La
tensione
attiva
è
invece
maggiore
nel
muscolo
scheletrico,
probabilmente
perché
in
questo
tessuto
i
livelli
di
calcio
che
si
raggiungono
nel
citoplasma
durante
la
sistole
sono
maggiori
rispetto
a
quelli
del
muscolo
cardiaco.
Dal
punto
di
vista
qualitativo,
le
curve
che
descrivono
i
due
fenomeni
(andamento
della
tensione
attiva)
sono
uguali:
sono
curve
a
campana,
in
cui
la
tensione
è
massima
in
corrispondenza
di
una
certa
lunghezza.
In
entrambi
i
casi,
quando
il
sarcomero
è
corto
la
tensione
è
zero,
se
si
aumenta
la
lunghezza
aumenta
la
tensione,
successivamente
torna
a
zero.
In
entrambi
i
muscoli,
la
relazione
fra
tensione
attiva
e
lunghezza
dipende
dal
numero
di
ponti
trasversi
che
si
possono
formare
alle
diverse
lunghezze
del
sarcomero.
Il
numero
di
ponti
è
massimo
in
un
intervallo
di
valori
di
lunghezza
(ottimali)
che
permettono
la
formazione
di
tutti
i
ponti
trasversi.
Alle
lunghezze
maggiori
di
quelle
ottimali,
le
teste
della
miosina
nella
parte
centrale
del
sarcomero
non
possono
più
agganciare
l’actina.
Aumentando
la
lunghezza
si
può
arrivare
ad
un
punto
in
cui
la
formazione
di
ponti
non
è
più
possibile.
A
lunghezze
inferiori
rispetto
a
quelle
ottimali,
i
ponti
nella
regione
centrale
vengono
rotti
dai
filamenti
di
actina
collegati
alla
linea
Z
opposta.
Quando
il
sarcomero
si
è
accorciato
tanto
che
la
linea
Z
tocca
gli
estremi
dei
filamenti
di
miosina,
tutti
i
ponti
sono
rotti
e
non
c’è
più
sviluppo
di
tensione.
Muscolo
scheletrico
e
muscolo
cardiaco
Il
muscolo
scheletrico,
nella
maggior
parte
dei
casi,
ha
una
lunghezza
vicina
ai
punti
di
massima
efficienza,
che
diminuisce
nel
momento
in
cui
inizia
ad
accorciarsi.
Al
contrario,
il
muscolo
cardiaco
lavora
a
basso
profilo,
lasciando
un
largo
margine
di
incremento
in
modo
da
poter
modulare
la
forza
di
contrazione
(che
dipende
dal
volume
di
sangue
che
arriva
al
cuore,
il
quale
varia
nell’unità
di
tempo).
Se
il
volume
cardiaco
aumenta
e
i
suoi
valori
restano
alti,
si
va
incontro
a
scompenso
cardiaco:
il
cuore
non
ha
ulteriore
margine
di
incremento,
per
cui
se
aumenta
il
volume
del
sangue,
questo
si
accumula
nel
circolo
polmonare
e
determina
edema
polmonare
(gli
alveoli
si
riempiono
di
liquidi
e
si
“annega”).
Ad
esempio,
se
si
considera
un
sarcomero
lungo
circa
3.6
µm,
si
osserva
che
a
questa
lunghezza
non
c’è
sovrapposizione
tra
i
filamenti
di
actina
e
quelli
di
miosina
(i
ponti
trasversi
non
possono
agganciare
l’actina
e
sviluppare
tensione),
il
muscolo
è
troppo
lungo
e
non
può
funzionare.
All’accorciarsi
del
muscolo,
i
filamenti
si
sovrappongono
e
inizia
a
svilupparsi
tensione,
la
quale
raggiunge
il
valore
massimo
quando
la
sovrapposizione
è
massima.
Da
qui,
la
tensione
inizia
nuovamente
a
diminuire
e
i
filamenti
di
actina
provenienti
da
una
linea
Z,
all’accorciarsi
del
sarcomero,
vanno
a
staccare
i
ponti
trasversi
creati
col
filamento
di
actina
sul
lato
opposto
del
sarcomero.
La
tensione
diminuisce
fino
ad
arrivare
a
zero
(tutti
i
ponti
sono
staccati).
In
entrambi
i
tipi
di
muscolo,
se
il
muscolo
è
troppo
corto
non
sviluppa
più
tensione.
Nel
muscolo
cardiaco
esistono
altri
meccanismi
che
concorrono
a
generare
la
relazione
fra
tensione
e
lunghezza,
che
non
sono
presenti
nel
muscolo
scheletrico.
Innanzitutto,
nelle
cellule
cardiache,
l’affinità
della
troponina
per
il
calcio
aumenta
all’aumentare
della
lunghezza
del
sarcomero
(si
tratta
di
un
dato
ben
documentato,
ma
non
ancora
chiaro).
Potrebbero
esistere
canali
per
il
calcio
attivati
dallo
stiramento
cellulare
(regolazione
di
natura
meccanica
associata
alla
regolazione
elettrica).
Inoltre,
esso
viene
regolato
da
proteine
contrattili
(meno
importanti
nel
muscolo
scheletrico).
Il
primo
meccanismo
di
regolazione
riguarda
la
catena
leggera
della
miosina.
Infatti,
la
miosina
del
miocardio
può
essere
fosforilata
da
una
chinasi
c-‐AMP
dipendente
(controllata
dal
recettore
β-‐noradrenergico,
attivato
dalle
catecolamine)
e
da
una
chinasi
Ca++/calmodulina
dipendente.
La
catena
leggera
fosforilata
ha
una
più
elevata
attività
ATPasica,
che
produce
una
maggior
velocità
di
contrazione.
Quindi,
la
velocità
di
contrazione
viene
a
dipendere
dal
livello
di
Ca++
intracellulare
(complesso
calcio/calmodulina)
e
dall’attivazione
del
simpatico
(catecolamine).
Questo
meccanismo
non
è
rilevante
nel
muscolo
scheletrico.
Un
altro
punto
di
regolazione
è
la
fosforilazione
della
subunità
T
della
troponina.
La
troponina
diminuisce
la
sua
sensibilità
al
Ca++
quando
è
fosforilata
(da
una
chinasi
c-‐AMP
dipendente
controllata
dal
recettore
β-‐noradrenergico
attivato
dalle
catecolamine):
questo
effetto
non
modifica
significativamente
lo
sviluppo
di
tensione,
perché
la
concentrazione
del
calcio
presente
nel
citoplasma
durante
la
sistole
è
comunque
in
grado
di
saturare
la
troponina,
mentre
aumenta
invece
la
velocità
di
rilasciamento
quando
la
concentrazione
di
calcio
intracellulare
diminuisce
(diastole).
In
questo
modo,
le
catecolamine
aumentano
la
velocità
di
rilasciamento
del
miocardio
(si
esaurisce
velocemente
lo
sviluppo
di
tensione).
Ricapitolando,
il
muscolo
cardiaco,
pur
avendo
struttura
analoga
a
quella
del
muscolo
scheletrico,
presenta
alcune
differenze
funzionali
importanti.
-‐ Lo
sviluppo
di
tensione
dipende
dalla
concentrazione
di
calcio
extracellulare,
mentre
quest’ultimo
parametro
non
modifica
la
contrazione
del
muscolo
scheletrico;
-‐ il
rilascio
di
calcio
dal
reticolo
è
Ca++
dipendente,
mentre
nel
muscolo
scheletrico
è
voltaggio
dipendente;
-‐ a
differenza
del
muscolo
scheletrico,
il
miocardio
non
può
andare
incontro
a
contrazione
tetanica;
-‐ nel
miocardio
la
relazione
tensione-‐lunghezza
è
influenzata
dal
fatto
che
l’affinità
della
troponina
per
il
calcio
aumenta
con
la
lunghezza
del
sarcomero;
-‐ nel
miocardio,
ma
non
nel
muscolo
scheletrico,
la
troponina
viene
fosforilata
da
chinasi
attivate
dal
calcio
e
dalle
catecolamine,
che
diminuiscono
la
sua
affinità
per
il
Ca++,
aumentando
così
la
velocità
di
rilasciamento;
-‐ nel
miocardio
l’affinità
della
miosina
per
l’ATP
aumenta
con
la
fosforilazione,
mediata
da
chinasi
attivate
dal
calcio
e
dalle
catecolamine.
In
questo
modo,
a
differenza
di
ciò
che
avviene
nel
muscolo
scheletrico,
la
velocità
di
contrazione
viene
a
dipendere
dalla
concentrazione
di
Ca++
intracellulare
e
dall’attivazione
del
simpatico.
Sistema
di
conduzione
del
cuore
Il
sistema
di
conduzione
del
cuore
svolge
importanti
funzioni:
-‐ genera
il
battito
cardiaco
e
conduce
il
potenziale
d’azione
al
cuore;
-‐ fa
ritardare
l’attivazione
ventricolare
rispetto
a
quella
atriale;
-‐ fa
contrarre
sincronicamente
i
diversi
settori
delle
camere
ventricolari
(per
ottimizzare
lo
sviluppo
di
tensione).
Il
battito
cardiaco
è
generato
dal
pacemaker
cardiaco
primario,
localizzato
nel
nodo
del
seno.
Il
potenziale
di
membrana
(PM)
di
queste
cellule
presenta
un
valore
di
circa
–60/-‐70
mV
all’inizio
della
diastole.
Successivamente,
va
incontro
ad
una
depolarizzazione
(diastolica)
spontanea
che
termina
quando
il
PM
raggiunge
il
valore
di
circa
-‐40
mV,
soglia
per
il
potenziale
d’azione
(PDA).
In
queste
cellule
il
PDA
dura
circa
100
msec.
Il
potenziale
che
si
verifica
nella
diastole
è
detto
potenziale
diastolico
e
ad
esso
segue
l’innesco
di
un
fenomeno
più
rapido.
La
depolarizzazione
diastolica
è
dovuta
a
una
serie
di
fattori
concomitanti.
-‐ Quando
la
membrana
viene
ri-‐polarizzata,
si
ha
una
forte
attivazione
della
corrente
di
K+
rettificatrice
ritardata
(IK).
Quando
la
membrana
si
depolarizza,
questa
corrente
che
l’aveva
ri-‐polarizzata,
diminuisce
(durante
la
depolarizzazione
diastolica
si
ha
quindi
una
continua
diminuzione
della
conduttanza
di
membrana
al
potassio);
-‐ la
ripolarizzazione
attiva
la
corrente
“funny”
(If),
associata
a
cariche
positive
che
entrano
nella
cellula
e
la
depolarizzano,
conducendola
verso
la
soglia.
Fu
definita
funny
in
quanto
fu
la
prima
corrente
osservata
che
si
attivava
alla
ripolarizzazione
della
membrana
(quando
la
polarizzazione
della
membrana
aumenta);
-‐ in
prossimità
della
soglia
per
il
PDA
(ultima
parte
del
potenziale
diastolico)
si
attiva
la
corrente
di
calcio
trasportata
dai
canali
T
(ICa),
che,
prima
di
generare
il
PDA,
contribuisce
all’ultima
fase
della
depolarizzazione
diastolica.
Quando
la
corrente
che
scorre
in
questi
canali
diventa
sufficientemente
forte,
si
innesca
una
specie
di
ciclo
di
Hodgkin,
che
fa
scattare
il
potenziale
d’azione
(momento
in
cui
si
arriva
alla
soglia);
-‐ infine,
il
processo
si
avvale
di
una
corrente
in
entrata
di
Na+
che
passa
attraverso
canali
aperti
a
riposo
ed
è
facilitato
dalla
bassa
permeabilità
al
K+
della
membrana
delle
cellule
del
nodo
del
seno
e
del
nodo
atrioventricolare.
Ne
risulta
un
continuo
ingresso
di
sodio
meno
ostacolato
dall’uscita
di
potassio.
Il
PDA
generato
grazie
alla
depolarizzazione
diastolica
sale
lentamente
poiché
i
canali
per
il
Na+
sono
inattivati
dai
valori
del
PM
superiori
a
-‐60
mV,
per
questo
il
PDA
è
generato
esclusivamente
dai
canali
per
il
Ca++,
sia
di
tipo
T
che
di
tipo
L.
Dati
recenti
indicano
che
un
altro
fattore
può
contribuire
alla
depolarizzazione
diastolica:
il
rilascio
di
calcio
da
parte
del
reticolo
sarcoplasmatico
(RS).
Infatti,
la
pendenza
della
depolarizzazione
diastolica
si
riduce
e
la
frequenza
cardiaca
diminuisce
se
il
rilascio
di
calcio
viene
bloccato
mediante
la
somministrazione
di
sostanze
analoghe
alla
rianodina
(come
ZD7288).
Conduzione
del
PDA
La
velocità
di
conduzione
atriale
è
di
0.3
m/sec
e,
secondo
alcuni
autori,
esisterebbero
fasci
internodali
atriali
(medio,
anteriore
e
posteriore)
a
conduzione
veloce
(1
m/sec).
Attraverso
questi
tre
fasci
di
conduzione,
in
circa
30
ms,
il
PDA
che
nasce
dal
nodo
del
seno
arriva
al
nodo
atrio-‐ventricolare
(AV).
Il
PDA
impiega
130
ms
per
attraversare
il
nodo
AV
(in
cui
la
conduzione
rallenta
bruscamente),
dove
la
velocità
di
conduzione
corrisponde
a
0.05
m/sec.
Il
rallentamento
della
conduzione
nel
nodo
AV
è
dovuto
a
tre
fattori:
-‐ dimensioni
cellulari
ridotte,
cui
corrisponde
una
bassa
velocità
di
conduzione;
-‐ a
questo
livello,
i
PDA
sono
risposte
lente
al
calcio,
che
salgono
lentamente,
generano
poca
corrente
nel
circuito
locale
e
quindi
sono
condotti
lentamente;
-‐ scarso
accoppiamento
elettrotonico
fra
le
cellule
del
nodo
AV:
la
corrente
scorre
male
tra
cellula
e
cellula.
In
condizioni
normali,
il
nodo
AV
può
condurre
solo
dall’atrio
al
ventricolo
e
non
viceversa
(vengono
bloccate
le
eccitazioni
retrograde):
le
sinapsi
elettrotoniche,
pur
accoppiando
le
cellule,
non
le
accoppiano
in
ugual
misura
per
le
due
direzioni
del
flusso
di
corrente.
Inoltre,
la
barriera
fibrosa
atrio-‐ventricolare
impedisce
il
rientro
delle
eccitazioni
nell’atrio.
Tragitti
muscolari
anomali
possono
però
ricondurre
il
PDA
dal
ventricolo
all’atrio,
producendo
gravi
disturbi
del
ritmo.
Il
PDA
nel
nodo
AV
è
prodotto
soprattutto
da
canali
per
il
calcio,
essenzialmente
di
tipo
L
(il
potenziale
è
sensibile
ai
calcio-‐antagonisti).
Nella
porzione
iniziale,
atrio-‐nodale
(AN),
la
percentuale
di
canali
per
il
calcio
(lenti)
è
del
60%
(il
restante
40%
sono
canali
voltaggio
dipendenti
per
il
sodio).
Nella
parte
centrale
(nodale,
N)
la
percentuale
dei
canali
lenti
sale
alll’80%
e
nella
parte
terminale
(nodale-‐Hiss,
NH)
è
ancora
il
60%.
Tutti
i
fattori
che
diminuiscono
la
corrente
voltaggio
dipendente
di
calcio
(acetilcolina,
calcio
antagonisti)
diminuiscono
la
velocità
di
salita
del
PDA
nel
nodo
AV
e,
di
conseguenza,
diminuiscono
la
velocità
di
conduzione.
Invece,
quelli
che
potenziano
la
corrente
di
calcio
(le
catecolamine)
aumentano
la
velocità
di
salita
del
PDA
e
la
velocità
di
conduzione.
Dopo
160
ms
dall’origine
dell’eccitazione
elettrica
nel
nodo
seno-‐atriale,
il
PDA
giunge
alla
porzione
distale
del
fascio
di
Hiss.
Dopo
190
ms
il
PDA
è
giunto
al
termine
delle
fibre
di
Purkinje
(necessita
solo
di
30
ms
per
completarne
l’innervazione).
Le
fibre
del
Purkinje,
infatti,
conducono
il
PDA
molto
più
velocemente
(1.5-‐4
m/sec)
del
miocardio
aspecifico
ventricolare
per
via
dell’elevato
grado
di
accoppiamento
elettrotonico
fra
le
fibre
del
Purkinje
e
alle
loro
grandi
dimensioni.
Le
fibre
del
Purkinje
penetrano
per
un
terzo
della
parete
ventricolare
e
si
distribuiscono
alla
regione
endocardica.
In
questo
modo
il
PDA
viene
distribuito
velocemente
all’endocardio
e
avanza
più
lentamente
attraverso
la
parete
del
ventricolo
(si
propaga
verso
l’epicardio):
in
questo
modo
la
contrazione
delle
diverse
regioni
ventricolari
è
più
sincrona
e
quindi
aumenta
la
tensione
sviluppata
in
sistole.
L’attivazione
del
ventricolo
viene
completata
in
60
msec,
seguendo
il
decorso
spirale
della
muscolatura.
Sia
le
cellule
del
nodo
seno-‐atriale
(SA),
che
quelle
del
nodo
AV
hanno
proprietà
autoritmiche
(sono
in
grado
di
generare
spontaneamente
potenziale
d’azione).
Inoltre,
anche
alcune
delle
fibre
del
Purkinje
si
possono
depolarizzare
spontaneamente.
È,
però,
il
nodo
del
seno
che
detta
il
ritmo
cardiaco
(è
il
pacemaker
dominante),
in
quanto
è
quello
che
ha
la
frequenza
più
elevata
(le
sue
cellule
sono
unite
in
un
sincizio
funzionale).
Di
conseguenza,
le
altre
cellule
pacemaker
non
sono
in
grado
di
generare
il
loro
PDA,
in
quanto,
prima
che
la
loro
membrana
sia
arrivata
a
soglia
grazie
alla
depolarizzazione
diastolica
spontanea,
vengono
invase
dal
PDA
proveniente
dal
nodo
SA,
che,
a
causa
della
maggior
frequenza,
ha
già
completato
il
ciclo
di
eccitazione.
Normalmente,
il
nodo
SA
ha
una
frequenza
di
70–80
PDA/min,
il
nodo
AV
di
40-‐60
PDA/min
e
le
fibre
di
Purkinje
di
15-‐
40
PDA/min.
Il
battito
cardiaco
può
essere
attivato
in
regioni
diverse
dal
nodo
del
seno
(avviatori
ectopici)
quando
una
regione
diversa
dal
nodo
SA,
per
svariate
cause,
genera
un
PDA
prima
del
nodo
del
seno.
Se
questo
PDA
trova
il
miocardio
eccitabile
(che
non
si
trova
in
periodo
refrattario)
lo
attiva,
producendo
un’extrasistole
(battito
ectopico).
La
tensione
sviluppata
dall’extrasistole
è
inferiore
a
quella
di
un
battito
normale
(infatti
produce
un
battito
debolissimo),
perché
il
cuore
non
ha
completato
il
suo
riempimento
e
le
cellule
ventricolari
si
contraggono
ad
una
lunghezza
inferiore
alla
norma.
All’extrasistole,
fa
seguito
una
pausa
compensatoria
(che
va
dall’inizio
dell’extrasistole
al
battito
successivo)
dovuta
alla
refrattarietà
del
miocardio,
che
impedisce
al
PDA
successivo
generato
nel
nodo
SA
di
propagarsi
(si
avrà
un
battito
in
meno).
La
pausa
può
mancare
se
la
frequenza
cardiaca
è
bassa
e
l’extrasistole
(Extr)
si
inserisce
fra
due
battiti
normali
(interpolata)
in
modo
tale
che
le
cellule
siano
ridiventate
eccitabili
quando
comincia
il
nuovo
PDA
nel
nodo
SA.
Se
avviene
la
pausa
compensatoria
(Pc),
il
battito
successivo
è
più
forte
del
normale,
in
quanto
il
ventricolo
ha
avuto
più
tempo
per
riempirsi.
Se
una
cellula
cardiaca
comincia
a
scaricare
con
una
frequenza
superiore
a
quella
del
nodo
SA
e
i
suoi
PDA
trovano
il
miocardio
eccitabile,
detta
il
ritmo
cardiaco
(diventa
pacemaker),
producendo
una
tachicardia
(aumento
della
frequenza
cardiaca
rispetto
al
suo
normale
valore).
ANOMALIE NELLA CONTRAZIONE CARDIACA
Nel cuore esistono almeno tre tipi di cellule che possono attivare un potenziale pacemaker, per cui
quando il pacemaker primario non funziona possono prendere il suo posto le cellule del nodo atrio
ventricolare e le cellule di Purkinje (le quali non hanno uno spike al calcio, è l'ingresso di sodio che
causa una salita rapida). In condizioni normali, queste cellule sono dominate dal pacemaker primario,
(che ha frequenza più elevata) ed entrano in azione quando quest'ultimo smette di funzionare.
Visto che queste cellule (pacemaker secondario) sono tenute a freno costantemente, non entrano in
azione immediatamente in caso di necessità, per cui nel periodo di tempo interposto tra l'inattivazione
del pacemaker primario e l'attivazione di quello secondario il soggetto potrebbe svenire (la ripresa del
battito non è immediata, c'è un periodo di latenza che va da 5 a 30 secondi).
Il battito generato dal nodo atrio-ventricolare ha una frequenza più bassa di quella normale (generata
dal nodo seno-atriale), le cellule di Purkinje hanno frequenza ancor minore.
La funzione del cuore si espleta efficacemente se esso si contrae in maniera ordinata: l'impulso che
arriva alle cellule di Purkinje deve raggiungere l’endocardio dei ventricoli, contemporaneamente
giungere verso l’epicardio e verso la base del cuore.
Il potenziale d'azione non deve generare onde
circolari (che seguano la circonferenza del cuore) che
non si annullino, in quanto sarebbe impedito il
rilasciamento del cuore. La trasmissione circolare è
impedita dalla modalità di trasmissione dell’impulso,
che dipende dalla refrattarietà del tessuto: il
tessuto a monte del fronte d’onda non può essere
eccitato, quindi la refrattarietà indica la modalità di
avanzamento. Se la durata del periodo refrattario
diminuisce, può avvenire attivazione delle zone a
monte dello stimolo.
La durata del periodo refrattario dipende dalla
durata del PDA. Pertanto, i potenziali d'azione ectopici che nascono durante il periodo refrattario
relativo, a causa della loro ridotta durata (che quindi determina un periodo refrattario ridotto),
possono generare alterazioni nella conduzione dell’impulso: il potenziale d'azione torna ad eccitare
una zona che era stata già eccitata e può dare origine a propagazione circolare del PDA.
Anche un allungamento della durata del potenziale d'azione, prodotto da un fenomeno ischemico
che ritarda la ripolarizzazione del tessuto, può produrre anomalie nella conduzione dell’impulso.
Questo si può
verificare quando
viene generato un
battito ectopico che
trova la regione
ischemica refrattaria
e, di conseguenza, si
propaga in maniera
anomala.
Un altro elemento importante nel determinare l’ordinata
conduzione dell’impulso è la velocità di conduzione. Se la
conduzione lungo un tratto di miocardio rallenta (se la
conduttanza voltaggio dipendente si inattiva, come in caso
di ischemia, ovvero per mancanza di ossigeno e quindi
inattivazione della pompa sodio/potassio), il fronte
dell’onda si modifica
profondamente, perde la
sua compattezza, e quella
regione potrà essere
ancora eccitabile quando le regioni a valle si sono depolarizzate,
generando cosi condizioni favorevoli al rientro dell’eccitazione.
Quindi, una velocità di conduzione non uniforme può generare
un’alterazione nella diffusione del PDA.
ELETTROCARDIOGRAMMA
L’elettrocardiogramma è la registrazione delle differenze di potenziale che l’attività del cuore genera
tra punti della superficie
corporea. La differenza di
potenziale registrata tra gli
elettrodi posti sul corpo
permette di osservare le
fasi del ciclo cardiaco. Il
segno della DDP dipende
dalla posizione degli
elettrodi e dalla direzione
di avanzamento del PDA
nel cuore.
In un elettrocardiogramma standard, si incontrano:
– onda P: un’onda positiva (le differenze di potenziale positive sono quelle che vanno verso
l’alto) dovuta alla depolarizzazione atriale;
– oltre alle onde, si osservano tratti (segmenti isoelettrici che separano le onde). Il tratto PQ è
quello che segue l’onda P ed è il tempo in cui il potenziale d’azione viaggia all’interno del nodo
atrioventricolare senza produrre potenziale e nessun tracciato elettrocardiografico;
– complesso QRS: l’onda Q e quella S sono negative, l’onda R è positiva ed è interposta tra le
altre due. È dovuto alla depolarizzazione ventricolare (60ms).
– tratto ST: più lungo, in cui le cellule ventricolari sono in plateau (150 ms).
– onda T: è quella dovuta alla ripolarizzazione del ventricolo (140 ms).
La durata dell’intervallo QT indica quanto dura in media la contrazione del cuore (che dura più o
meno quanto il potenziale d’azione). La ripolarizzazione dell’atrio non è osservabile in quanto
mascherata da QRS.
Per la teoria del dipolo l’attività elettrica di un miocardiocita genera un campo elettrico nel volume
conduttore che la contiene solo quando la sua polarizzazione non è uniforme lungo tutta l'estensione
della membrana cellulare
(per il teorema di Gauss). Se
una cellula è tutta a
potenziale di riposo, normale,
non genera campo elettrico.
Se una cellula ha su tutta la
sua membrana un potenziale
che corrisponde al potenziale
d’azione, +40mV, non genera
campo elettrico. Per generare
un campo elettrico, la cellula
deve essere a un capo a
riposo, all’altro depolarizzata.
Il teorema di Gauss spiega
questo fenomeno. Nella
cellula a riposo, ogni
elemento di membrana è
polarizzato e forma un dipolo,
ma il campo elettrico
generato da un pezzo di membrana è annullato dal campo elettrico generato dal pezzo di membrana
adiacente. Nel momento in cui si crea depolarizzazione, nella regione di transizione tra tessuto a
riposo e tessuto depolarizzato si formano dipoli che creano un campo elettrico. Dal punto di vista
formale, la dimostrazione richiede l’uso del flusso del vettore attraverso la superficie e l’angolo solido.
Si arriva alla conclusione che il campo elettrico c’è solo
quando la membrana non ha polarizzazione uniforme.
Nella fase 2, quella di plateau, la cellula cardiaca ha
polarizzazione uniforme e non genera campo elettrico,
nella fase 4 la polarizzazione uniforme genera dipoli
opposti (i cui campi elettrici si annullano
reciprocamente), mentre è in grado di generarlo in fase
0 e in fase 3.
Il campo elettrico di una cellula è identico a quello di un
dipolo con la carica negativa dalla parte meno
polarizzata e la carica positiva dalla parte opposta (a
riposo).
Quando il potenziale d’azione arriva in fondo, le cellule
sono tutte in plateau e il campo elettrico non si genera. Il
dipolo viene rappresentato come un vettore orientato
verso la regione della cellula a riposo (polo positivo). I
dipoli sono generati nella regione dove il potenziale di
membrana sta cambiando (linea di confine che separa il
tessuto attivo dal tessuto a riposo). Nel cuore attivo,
molti dipoli sono generati simultaneamente, originando un dipolo risultante, pari alla somma
vettoriale dei singoli dipoli.
Il campo elettrico generato da una superficie è uguale a quello che
si ottiene da un dipolo formato dalla somma vettoriale di tutti
dipoli presenti lungo la superficie polarizzata: i dipoli che
formano la superficie polarizzata sono numerosi e sommati
corrispondono a un dipolo in grado di generare il campo globale
registrato dall’ECG.
Il dipolo risultante, dipolo cardiaco, dà alcune informazioni
interessanti, anche se incomplete, su quella che è la disposizione
relativa, nel cuore, del tessuto attivo e del tessuto a riposo: ad
esempio, un dipolo orientato verso il basso mostra che il tessuto a
riposo si trova in basso e quello attivato sta sopra.
Il dipolo non cambia se si aggiungono o tolgono regioni attivate
disposte perpendicolarmente e simmetricamente rispetto al suo
asse. Quindi, un dipolo può corrispondere a diverse distribuzioni
Generazione di dipoli elettrici durante
dell’eccitazione nel cuore. Con l’elettrocardiogramma, si può
l’invasione del ventricolo (il tessuto
depolarizzato e tratteggiato). I dipoli a, b, conoscere il dipolo cardiaco in un istante di tempo o la sua media
c, d ed e si sommano generando la in un certo intervallo, avendo cosi un’idea di come si sta
risultante XY. Il campo elettrico risultante propagando il potenziale d’azione nel cuore.
polarizza i tessuti come indicato. Una volta trova il dipolo equivalente del cuore, esso non dà
un'idea chiara, in quanto dipoli opposti si annullano (la
depolarizzazione del ventricolo coincide con la ripolarizzazione del setto, l'elettrogardiogramma
mostra solo la risultante di questi due eventi).
Sono molti di più i dipoli che si annullano rispetto a quelli che sommati formano il dipolo risultate, per
cui dall’elettrocardiogramma (che permette di individuare solo il dipolo risultante) si analizza ben
poco dell’attività cardiaca.
La direzione del dipolo risultante dipende dalla posizione relativa delle regioni attivate e a riposo, la
sua ampiezza dipende innanzitutto dall’estensione della superficie polarizzata. Un ventricolo piccolo
genera un ECG di ampiezza inferiore rispetto a un ventricolo di dimensioni maggiori. Le dimensioni del
cuore sono importanti in quanto determinano la dimensione della superficie polarizzata (il numero di
dipoli che si sommano per dare la risultante).
Un altro fattore è il gradiente spaziale, che dipende dalla differenza di potenziale tra il tessuto attivato
e il tessuto a riposo.
Il PM del tessuto depolarizzato è +50mV, mentre quello del tessuto a riposo è -90mV. Quindi, la
differenza tra i due è 140mV. La distanza spaziale che esiste tra le cellule a +50mV e quelle a -90mV è
di 300µm: in questa distanza, il PM cambia di 140 mV. Il gradiente spaziale è il rapporto tra la
differenza del potenziale di membrana (calcolata come PM tessuto attivo – PM tessuto a riposo) e la
distanza tra le cellule attivate e quelle a riposo, quindi:
50mV – (-90mV) / 0.3 mm = 140mV/0.3mm = 467 mV/mm
All’interno dello spessore del miocardio, durante il ciclo cardiaco non si troveranno mai cellule in tutte
le fasi. Il ventricolo è spesso circa 1 cm (0.01 m), per cui in depolarizzazione si troveranno cellule in
fase 4 e cellule all’apice del potenziale d’azione: in poco spazio il
potenziale di membrana effettuerà un salto notevole (l'endocardio è
depolarizzato completamente, l'epicardio ancora a riposo). Durante la
ripolarizzazione, in cui la variazione di potenziale è più lenta, non si
hanno mai differenze cosi grandi tra cellule in differenti stati di
polarizzazione tra epicardio ed endocardio. Quindi, l'onda di
ripolarizzazione ventricolare ha ampiezza minore rispetto a quella di
depolarizzazione.
Questo dipende dalla lunghezza d’onda del potenziale d’azione
(estensione di miocardio interessato dal potenziale d'azione, L), che è
di circa 0.15 m, molto più elevata dello spessore del ventricolo.
L = 0.3 sec x 0.5 m/sec = 0.15 m
A livello dell’endocardio, le cellule sono a +50 mV, che sono vicine a cellule a risposo, per cui il
gradiente spaziale sarà elevato.
Il campo elettrico generato dal cuore investe tutti i tessuti conduttori,
per cui si possono registrare con elettrodi differenze di potenziale
sulla superficie corporea. L’ECG dà informazioni su come variano nel
tempo l’ampiezza relativa e la direzione del dipolo cardiaco.
Le linee di derivazione sono le linee che uniscono i due punti tra cui
si calcola la differenza di potenziale. Poiche il dipolo cardiaco dipende
dalla direzione di avanzamento del potenziale d’azione e dall’ampiezza
della superficie che separa tessuto attivo e tessuto a riposo, tutti i
processi patologici che alterano questi parametri alterano anche il
dipolo cardiaco e, di conseguenza l’EKG.
La differenza di potenziale tra due punti è proporzionale all’ampiezza
del dipolo e alla sua proiezione sulla linea di derivazione.
Se si ruota una striscia di miocardio, si ruota il campo elettrico,
spostando la carica positiva verso l’alto (passando da un andamento
orizzontale a uno verticale), la differenza di potenziale diminuisce
progressivamente: la variazione è dovuta al fatto che il campo
elettrico è vincolato alla striscia di miocardio che lo genera.
La differenza di potenziale diventa zero quando l’asse di derivazione
è perpendicolare all’asse del dipolo.
Il dipolo cardiaco in un piano può essere ricostruito mediante due
diversi elettrocardiogrammi. Se si vuole definirlo nello spazio, allora
le derivazioni a disposizione devono essere tre.
Si tratta di un semplice problema geometrico. Si considerano tre linee
di derivazione: una linea di derivazione passa tra ascella destra e
ascella sinistra, le altre due passano dall’ascella alla linea pubica
corrispondente, formando un triangolo. Istante per istante, lungo ogni
linea di derivazione si avrà un particolare valore di differenza di
potenziale che indica l’orientamento del dipolo cardiaco, che si sposta
continuamente.
Il dipolo può essere risolto in maniera istantanea, al tempo t, un
istante preciso nel tempo scelto arbitrariamente. Si registra il valore di differenza di potenziale che si
raggiunge in ogni linea di derivazione. La derivazione
lungo un asse dà un valore in mV proporzionale alla
proiezione del dipolo sull'asse medesimo. Istante per
istante, si conoscono le proiezioni del dipolo lungo le
linee di derivazione. Bastano due proiezioni, ad esempio
+2mV e +5mV, per ottenere il dipolo risultante.
Geometricamente, si innalzano le perpendicolari delle
proiezioni (su ognuno dei due assi) dai punti di inizio e
fine del vettore per ricostruire la direzione del dipolo che
ha generato le due proiezioni. In questo modo, si è in
grado di comprendere l’orientamento prevalente del
tessuto a riposo rispetto al tessuto depolarizzato.
Nelle derivazioni unipolari, uno dei due elettrodi deve essere localizzato su una zona a potenziale
costante. Nessun punto della superficie corporea è a potenziale costante durante il ciclo cardiaco, per
cui si considerare il cuore come un generatore di forza elettromotrice posta al centro di un triangolo
equilatero i cui vertici corrispondono alle due ascelle e alla regione pubica (triangolo di Einthoven). In
queste condizioni si può assumere (con lieve imprecisione) che:
VL + VR + VF = 0
Di conseguenza, se si cortocircuitano attraverso delle resistenze gli elettrodi L, R e F (la somma dei
potenziali agli apici viene effettuata dalla macchina per cortocircuito degli elettrodi), si ottiene un
terminale a potenziale costante, detto elettrodo centrale terminale di Wilson, che si può
considerare come posto nel cuore al centro del dipolo, dove il potenziale è zero.
Nelle derivazioni
precordiali si registra la
differenza fra sei diversi
punti della superficie
toracica e il centrale
terminale. Nelle
derivazioni unipolari di
Wilson si registra la
differenza di potenziale
fra ognuno degli elettrodi
L, R, F e il centrale
terminale. Le derivazioni
sono indicate come VL VR e VF e l'asse di ognuna di queste derivazioni si ottiene unendo il punto
corrispondente del triangolo di Einthoven (L, R, F) al centro del cuore.
EKG
La pratica clinica prevede la distinzione tra EKG fisiologici e patologici.
Dal punto di vista fisiologico, invece, aiuta a definire il dipolo cardiaco, in
modo da comprendere da che parte stanno tessuto attivo e tessuto a
Le derivazioni bipolari e quelle riposo.
di Goldberger (unipolari Per un’analisi elettrocardiografica, sono necessarie tutte le derivazioni.
aumentate) danno vita a un
Ogni asse di derivazione studia quello che succede lungo una particolare
sistema di riferimento esa-
assiale. direzione. Durante l’attivazione ventricolare, si può avere facilmente un
dipolo cardiaco orientato come visibile nell’immagine. Esso genera dipoli
positivi nelle derivazioni soprattutto dalla 3 alla 6, V2 è il punto di transizione, mentre in V1 il
potenziale prevalente è negativo. V1, infatti, si trova dalla parte del tessuto depolarizzato perche il
ventricolo destro è più sottile di quello di sinistra e si attiva prima: nel momento in cui questa parete
viene invasa dall’onda, il PDA arriva subito
all’epicardio. La cellule della parete ventricolare
sono in fase di plateau e l’elemento che genera il
campo elettrico, quindi, si sposta dall’altra parte:
è la superficie polarizzata a livello del ventricolo
sinistro, che in questo momento diventa la parte
negativa del dipolo.
Con le derivazioni classiche, si studiano
componenti del dipolo nel tempo. La prima
derivazione, ad esempio, permette di ottenere
una misura del dipolo cardiaco per tutta la
durata del ciclo cardiaco. Il tracciato
elettrocardiografico rappresenta il valore del
dipolo cardiaco (della sua proiezione) lungo
quella direzione in ogni momento del tempo.
⦁ Tratto PQ
All’onda P, segue un silenzio elettrico, il tratto PQ. L’onda P è dovuta alla depolarizzazione dell’atrio e
termina quando tutte le cellule atriali sono andate in plateau (campo elettrico pari a zero), mentre il
ventricolo è ancora a riposo. Ventricolo e atrio, pur essendo a polarizzazione diversa, insieme non
creano un dipolo per via dell’anello fibroso che separa i due tessuti (non ci sono elementi di
transizione a potenziale non uniforme). L’unico contatto tra i due è il nodo atrio-ventricolare,
costituito da poche cellule, non sufficienti a creare un campo elettrico rilevabile dalla superficie del
corpo. Per visualizzare questa situazione, occorre effettuare un EKG in situ .
Una cellula polarizzata uniformemente come quella atriale, in plateau, o quella ventricolare, a riposo,
non crea un campo elettrico.
⦁ Onda Q
Il setto interventricolare si attiva generalmente a partire dalla branca sinistra e dalla parte sinistra del
cuore il potenziale d’azione si dirige verso la parte destra. L’attivazione del setto (che si depolarizza in
10 ms) dà origine a dipoli orientati da sinistra verso destra e leggermente verso il basso. Il dipolo cosi
orientato genera, a livello della prima e della seconda derivazione, onde negative. La parte positiva del
dipolo è orientata verso il polo negativo della registrazione, il quale è in entrambe le derivazioni
l’elettrodo posto all’ascella destra. La differenza di potenziale tra ascella sinistra e destra e piede
sinistro e ascella destra è negativa: si tratta dell’onda Q, che emerge in prima e seconda derivazione.
Per quanto riguarda la terza derivazione, viene prodotta una differenza di potenziale positiva, in
quanto rispetto all’asse di derivazione il potenziale registrato a livello del piede è maggiore rispetto a
quello registrato nell’ascella destra.
⦁ Onda R
In terza derivazione, l’invasione del setto contribuisce allo sviluppo dell’onda R.
L’invasione ventricolare procede e i due fronti d’onda si congiungono a livello del setto formando un
unico fronte compatto. In questa distribuzione della superficie depolarizzata, l’orientamento del dipolo
è verso il basso e verso sinistra. Questo dà origine, in tutte le derivazioni, all’onda R, elemento più
cospicuo dell’attivazione ventricolare.
Il pattern elettrocardiografico di base può variare fisiologicamente tra individui.
Il ventricolo destro è più sottile e viene invaso prima del ventricolo sinistro, per cui il fronte d’onda
raggiunge l’epicardio. Il ventricolo destro si trova in plateau mentre quello sinistro è da attivare, per
cui il tessuto a riposo si trova a sinistra, quello depolarizzato a destra. Il vettore ruota quindi verso
sinistra e in alto, portando a un ulteriore sviluppo dell’onda R in prima e seconda derivazione, mentre
in terza derivazione l’onda R cambia di segno (vettore che punta verso il polo negativo della
registrazione).
⦁ Onda S
Si genera cosi l’onda S dell’elettrocardiogramma, che avviene quando l’attivazione ventricolare è in
fase di completamento. Si attivano le ultime regioni poste comunque alla base del cuore, verso sinistra.
L’attivazione del cuore si completa, tutte le cellule ventricolari sono in fase di plateau e tutti i voltaggi
vanno a zero in tutte le derivazioni, perche nel frattempo l’atrio si è depolarizzato (cellule in fase di
riposo), tutto il ventricolo è depolarizzato, ma le cellule di transizione tra atrio e ventricolo sono poche
e non generano un campo sufficiente.
Il tempo medio in cui tutto il ventricolo è depolarizzato e i voltaggi vanno a zero è 60ms. Nelle
derivazioni precordiali i voltaggi sono prevalentemente:
- negativi in V1- V2 (alla base del cuore);
- positivi in V4- V6 (all’apice del cuore).
Ciò è dovuto al fatto che la parte destra e centrale del torace stanno di fronte alla parete del ventricolo
destro, che si è già tutta depolarizzata, mentre la regione sinistra del torace è davanti alla parete del
ventricolo sinistro, ancora in parte a riposo.
⦁Onda T
A questo punto, a 150 ms dalla fine della depolarizzazione, comincia la ripolarizzazione.
L’onda T ha la stessa polarità dell’onda R, ovvero il dipolo, durante la depolarizzazione, è orientato
nello stesso modo in cui è orientato durante la ripolarizzazione del ventricolo. Ci si aspetterebbe che la
regione (endocardio, non epicardio) depolarizzata per prima sia la prima a ripolarizzarsi, per cui si
potrebbe prevedere un dipolo inverso. Invece, la regione epicardica si ripolarizza per prima, per cui il
dipolo è nuovamente orientato verso sinistra e verso il basso. Innanzitutto, questa inversione del
cammino del fenomeno elettrico indica che il potenziale d’azione nelle cellule endocardiche dura di più
rispetto a quelle epicardiche. La spiegazione è che l’endocardio è interno al cuore rispetto alla parete
del ventricolo e agli strati muscolari che generano tensione, quindi la pressione è maggiore rispetto a
quella dell’epicardio, in quanto gli strati muscolari del cuore generano molta più pressione intra-
tissutale: i vasi vengono schiacciati, il sangue non passa, il tessuto diventa ischemico (ischemia
fisiologica) e l’ischemia ritarda il processo di ripolarizzazione.
Se si crea ischemia non fisiologica, ma patologica (da ridotto apporto di sangue al ventricolo) per cui si
annulla questa differenza creando sofferenza sia a livello dell’epicardio che dell’endocardio, questo
fenomeno non si verifica più e l’endocardio si ripolarizza per primo: l’onda P si rovescia in tutte le
derivazioni (una P rovesciata in una derivazione può capitare anche in situazioni fisiologiche).
L’onda P è vicina alla perpendicolarità rispetto all’asse della terza derivazione per cui è possibile che si
verifichi una P negativa. Generalmente, le P sono sempre positive. Con l’onda P si completa il
fenomeno elettrico e le cellule tornano tutte al loro potenziale di riposo.
L’onda T ha voltaggio più basso dell’onda R in quando il gradiente spaziale di potenziale di membrana
è piccolo. In ripolarizzazione, le cellule hanno differenza minore del potenziale di membrana. Se si
considerano cellule a riposo, esisteranno cellule in stadio intermedio e cellule in fase di plateau, senza
brusche differenze.
Una misura ancillare alla derivazione elettrocardiografica è l’asse elettrico medio, che indica la
direzione prevalente del dipolo cardiaco durante il complesso QRS. Con i valori di due derivazioni
elettrocardiografiche nello stesso istante si costruisce un dipolo istantaneo.
Si può calcolare, invece, il dipolo cardiaco medio durante il complesso QRS facendo la media dei valori
durante il QRS. Si calcola l’area compresa sotto i “triangolini” ottenuti dall’EKG e dividerla per la durata
dell’onda. Se le onde sono negative, le aree
corrispondenti vanno sottratte.
Si ottiene una componente media lungo un certo
intervallo di tempo (durata del complesso QRS). In
condizioni normali, è compreso tra -20 e 100°.
Il segmento orizzontale è zero (vettore orizzontale che
punta verso sinistra), -20° è un vettore che punta
verso sinistra orientato verso l’alto inclinato di 20°
rispetto al piano orizzontale, 90° punta verso il basso
e 100° verso destra.
Il cuore, infatti, può trovarsi in diverse posizioni nel
torace e i suoi movimenti possono modificare le
proiezioni del dipolo sul piano frontale. L’asse
elettrico medio del cuore cambia durante la
respirazione: in un respiro profondo, il diaframma si
abbassa, la punta del cuore che poggia su di esso tende
a ruotare insieme al muscolo, spostandosi verso il
basso. L’asse medio del cuore si sposta quindi verso
destra. Questo tipo di variazione si verifica anche sei
soggetti longilinei e in posizione eretta.
Durante l’espirazione, la punta del cuore si sposta
verso sinistra, cosi come in posizione sdraiata e nei
soggetti tarchiati e obesi.
In condizioni che alterano la depolarizzazione ventricolare destra o sinistra, come blocco di branca o
ipertrofia cardiaca, serve più tempo per completare l’attivazione del miocardio (in quanto il cuore o ha
aumentato le dimensioni o ha perso punti di conduzione veloci).
Si hanno caratteristiche variazioni del dipolo medio cardiaco durante il QRS:
- si sposta verso destra quando il ventricolo destro aumenta di dimensioni o si ha blocco di
branca destra;
- si sposta verso sinistra quando questi fenomeni avvengono a sinistra.
Nel blocco di branca sinistra, il ventricolo destro è attivato molto rapidamente in maniera normale ma
la propagazione verso sinistra è lentissima: per un tempo molto prolungato, il vettore cardiaco
istantaneo è orientato verso sinistra, dove si trova il tessuto a riposo. In questo caso, aumenta la
durata dell’onda R. Di conseguenza, il vettore cardiaco medio è tutto spostato verso sinistra. In quinta e
sesta derivazione si verifica una inversione dell’onda P dovuta al rovesciamento del normale andamento
del processo di depolarizzazione-ripolarizzazione: non è più vero che depolarizzazione e
ripolarizzazione percorrano cammini opposti, come succede normalmente, quando la
depolarizzazione comincia nell’endocardio mentre la ripolarizzazione a livello dell’epicardio. A
sinistra, il PDA sale senza una differenza precisa tra endocardio ed epicardio, per cui si perde la
normale situazione di uguale polarità tra onda P ed R.
Nel blocco di branca destra, l’attivazione del ventricolo sinistro avviene più velocemente, mentre il
ventricolo destro, che normalmente si attiva subito e prima del sinistro, è ancora da attivare. I dipoli
istantanei sono orientati verso destra e l’asse medio del cuore si sposta anch’esso verso destra. Il
complesso QRS è allungato, anche se meno rispetto al blocco di branca sinistra.
In caso di ipertrofia ventricolare sinistra, l’attivazione del ventricolo sinistro è ritardata, serve più
tempo per completare l’invasione e si generano dipoli istantanei orientati verso sinistra, spostando
verso sinistra anche il dipolo medio.
Nell’ipertrofia ventricolare destra succede l’opposto, in quanto il ventricolo destro è l’ultimo a
completare l’attivazione, generando dipoli istantanei orientati verso destra, di conseguenza anche il
dipolo medio si sposta verso destra.
Aritmie
Le aritmie sono gli studi del ritmo. Sono dovute a:
- modificazioni del pacemaker primario: cambiamenti di frequenza del cuore generati da
meccanismi che colpiscono l’avviatore principale;
- fibrillazione: il diffondersi lungo il cuore di un’eccitazione anomala che non è più efficiente;
- blocco di conduzione: difetto della conduzione dall’atrio al ventricolo;
- extrasistoli;
- tachicardia parossistica: aumento della frequenza cardiaca che nasce da focus ectopici che
diventano eccitabili e partono ad alta frequenza imponendo il loro ritmo sul cuore.
Nella tachicardia sinusale (cioè originante dal nodo del seno), il battito a riposo è al di sopra di
100/minuto e il tracciato EKG è normale.
In caso di bradicardia, ci si trova al di sotto di 60 battiti al minuto. Il vago, quindi il parasimpatico, ha
effetto bradicardico, al contrario del simpatico, che ha effetto tachicardico (porta la frequenza cardiaca
fino a 180/minuto).
Frequenze basse non sono necessariamente patologiche, ad esempio nei soggetti allenati il tono vagale
sul cuore viene aumentato.
Le aritmie sinusali sono variazioni di circa il 5% nella frequenza istantanea del cuore (piccole
variazioni) dovute a riflessi circolatori o a influenze nervose. Possono essere legate, ad esempio, al
centro respiratorio, in quanto i centri del respiro sono associati ai centri cardiovascolari, che quindi
possono essere influenzati da essi. Durante l’ispirazione la frequenza cardiaca tende ad aumentare,
durante l’espirazione tende a diminuire. Altre modulazioni legate al respiro possono originare da
recettori attivati durante il respiro (recettori vagali da stiramento) o da recettori localizzati nel circolo
attivati in maniera ritmica.
Tra le aritmie, si inseriscono i difetti di conduzione atrio-ventricolare. Il difetto maggiore è il blocco
totale, ovvero quando la conduzione atrio-ventricolare viene bloccata. Se il nodo del seno continua a
funzionare, si osserverà un elettrocardiogramma formato solo da onde P che non sono seguite dal
complesso QRS (arresto della conduzione atrio-ventricolare). Casi meno drammatici prevedono un
rallentamento della conduzione (blocco di primo grado).
Il blocco dell’attività nel nodo seno-atriale (SA) può essere prodotto dall’attivazione vagale. Il tratto PQ
è estremamente lungo e in alcuni casi aumenta progressivamente finche non si perde un battito.
Il blocco di secondo grado è un blocco intermittente, in cui il complesso QRS è assente.
Un’altra condizione che si può verificare è il cambio di ritmo tra atrio e ventricolo, che iniziano ad
avere ritmo indipendente (completa separazione tra atrio e ventricolo). Il ritmo del ventricolo può
essere generato sia da un pacemaker localizzato a livello delle fibre del Purkinje sia dal nodo atrio-
ventricolare. Si registra quindi a-sincronia tra onda P e complessi QRS (onda P si sovrappone all’onda
R o all’onda T).
Se il ritmo viene dettato dal nodo atrio-ventricolare, quando P compare regolarmente, manca il
complesso QRS successivo. quando si registra il complesso QRS allora non è preceduto dall’onda P.
Se invece il ventricolo riparte ad opera di un pacemaker non localizzato a livello del nodo atrio-
ventricolare si registra una variazione nel complesso QRS, dove variano durata, ampiezza e forma.
Quindi, quando atrio e ventricolo battono a ritmi diversi, si osservano onde P a-sincrone e svincolate
dal complesso QRS.
Se si ha forte attivazione vagale che blocca il nodo seno atriale, il nodo del seno può comunque
ripartire (sfugge al vago).
Se c’è stato un evento ischemico, il nodo del seno potrebbe non ripartire e potrebbero attivarsi altri
pacemaker, come quello atrio-ventricolare: in questo caso, manca l’onda P. Quindi, quando il
potenziale d’azione nasce nel nodo atrio-ventricolare, l’onda P è assente in quanto il nodo atrio-
ventricolare permette la conduzione in avanti ma si oppone a quella inversa (verso l’atrio). In alcuni
casi, la conduzione retrograda può succedere e in questo caso l’EKG si presenta con un’onda P negativa
perche l’atrio si depolarizza a partire dalla regione del nodo atrio-ventricolare, quindi dal basso verso
l’alto e da sinistra verso destra, per cui l’elettrodo positivo in prima derivazione vede la parte negativa
del dipolo. Quindi P assente o P rovesciata dimostrano che il PDA è partito dal nodo atrio-ventricolare.
La partenza di un pacemaker ventricolare, invece, è evidente in quanto assolutamente anomala.
Quando parte il nodo atrio-ventricolare si ha comunque l’invasione del sistema di conduzione, ma se si
attiva un pacemaker ventricolare la forma del QRS è anomala: ha ampiezza considerevole, lunga
durata e forma irregolare,
dovuta al fatto che
l’attivazione del ventricolo ha
un decorso più tortuoso.
Il blocco atrio-ventricolare
(dovuto a processi patologici
o alla stimolazione vagale)
può essere:
- incompleto di 1° grado:
quando il tratto P-Q è
compreso fra 0.20 e 0.25
secondi;
- incompleto di 2° grado: il
tratto PQ è compreso fra 0.25
e 0.45 sec e alcuni PDA non
passano, dando origine a onde
P non seguite dal QRS;
- completo di 3° grado: in
questo caso l’onda P e il
complesso QRS sono
indipendenti.
In questo caso il ventricolo può essere guidato dal nodo AV oppure da un pacemaker ventricolare.
Le extrasistoli sono battiti ectopici che producono pause compensatorie. Possono essere prodotte da
foci ectopici (punti del cuore che normalmente non generano il battito ma vengono attivati da eventi
occasionali o
patologici) o segnali
rientrati per anomalie
di conduzione. Se
l’onda P è rovesciata (o
assente) e QRS è
normale, si può
affermare che il battito è partito dal nodo atrio-ventricolare.
Le extra-sistoli
ventricolari sono più facili
da riconoscere per la
forma anomala del
complesso QRS: la
conduzione del potenziale
d’azione non segue la via
ad alta velocità di
conduzione. Infatti, le
extrasistoli ventricolari
sono spesso generate da
segnali rientranti da zone
ischemiche a bassa
velocità di conduzione e hanno le seguenti caratteristiche:
- non viene seguito il sistema di conduzione;
- QRS allungato;
- non si annullano i dipoli normalmente generati da ventricolo destro e sinistro;
- ampiezza elevata del QRS;
- onda T di polarità opposta al QRS.
Se sono frequenti c'è possibilità di fibrillazione.
L’EKG permette di individuare anche da che parte del cuore è nata l’extrasistole. Il battito può nascere
o nel ventricolo destro o in quello sinistro. Se nasce a destra, il ventricolo destro è attivato mentre
quello sinistro non lo è ancora, quindi a livello della prima derivazione (differenza tra polso sinistro e
polso destro) la parte negativa del dipolo sta verso destra e quella positiva verso sinistra. La differenza
di potenziale è quindi positiva. Se nasce a sinistra, invece, la situazione è inversa: il ventricolo sinistro
forma la parte negativa del dipolo e la differenza di potenziale è negativa.
Con gli stessi criteri si può identificare facilmente la localizzazione di focolai di tachicardia
parossistica (scariche
cardiache ad alta frequenza
prodotte dall’attivazione di un
punto preciso del cuore). Ad
esempio, la tachicardia atriale
è indicata dalla presenza
dell’onda P. Nell’inizio di una
tachicardia a livello del nodo
atrio-ventricolare, prima del
complesso QRS l’onda P è
negativa. La P evolve
direttamente nella T.
La tachicardia ventricolare
mostra un complesso QRS
completamente anomalo e
assenza di onda P.
Nel caso di un battito cardiaco
che nasce nell’atrio (P
normale) può accadere che
l’onda T appaia come addossata ad un’onda P che però non parte (attivazione atriale precoce, non
viene prodotta), quindi segue un blocco e una nuova onda P.
Attraverso la teoria del dipolo, si può capire anche come mai l’infarto cronico lascia come segno
un’onda negativa ampia in alcune derivazioni.
Si osservano onde negative sulle derivazioni che passano per la
parte lesa del cuore. Nel caso dell’immagine, in V5, V4 e V3, per
esempio, si trovano onde negative durante l’attivazione ventricolare
(non fisiologiche, dovrebbero essere positive). Quando le cellule
cardiache muoiono, non si rigenerano nemmeno con fattori trofici o
cellule staminali, al massimo diminuiscono le cellule che muoiono in
seguito alla lesione (non vanno più incontro ad apoptosi), la quale
normalmente induce l’apoptosi nelle cellule circostanti. Infatti,
cellule staminali impiantate nel miocardio non generano muscolo,
ma rispondono alla pressione esercitata dalle cellule in contrazione
trasformandosi in osso.
Le derivazioni in cui l’elettrodo positivo fronteggia la zona di
tessuto cicatriziale risentono del dipolo generato dalla parte
opposta del cuore, che orienta la sua porzione negativa
(endocardica) verso l’elettrodo positivo. Infatti, il tessuto
cicatriziale non presenta eventi elettrici, per cui l'elettrodo misura l'attività della parte opposta del
cuore, l'endocardio. Pertanto, in queste derivazioni si registrano ampie onde negative (l'endocardio è
la porzione negativa del dipolo).
Anomalie dell’onda T
L’anomalia dell’onda T (ripolarizzazione) consiste nel rovesciamento dell’onda, che generalmente ha la
stessa polarità del complesso di attivazione ventricolare. A causa dell’ipertrofia o del blocco di branca,
si rovescia questa relazione di polarità. Un’altra
condizione in cui si osserva il rovesciamento è
l’extrasistole ventricolare, in cui l’onda di
ripolarizzazione è opposta in segno all’onda di
depolarizzazione.
Il rovesciamento si ritrova in tutte le derivazioni in
caso di cuore ischemico: l’ischemia patologica
cancella gli effetti dell’ischemia fisiologica che fa
ripartire l’epicardio invece che l’endocardio (in
questo caso, l’endocardio si depolarizza e si ripolarizza per primo e le onde T saranno di polarità
opposta, quindi negative, rispetto alle onde R).
Azioni dell’acetilcolina
L’acetilcolina regola la conduttanza della membrana al potassio. Per registrare le correnti di potassio
da una singola cellula occorre eliminare le altre correnti. Il potassio entra nella cellula (corrente
negativa) quando il potenziale di membrana è inferiore al potenziale di equilibrio del potassio. Al
contrario, esce dalla cellula
(corrente positiva) quando il
potenziale di membrana è
maggiore di quello di equilibrio
del potassio. La corrente positiva
però è debole per via della
rettificazione interna dei canali al
potassio. Con somministrazione di
acetilcolina, si apre una corrente di
potassio: il recettore
metabotropico M2 agisce su una
proteina G che apre il canale.
L’aumento della conduttanza al
potassio:
- diminuisce l’eccitabilità cellulare (effetto batmotropo negativo);
- nel nodo atrio-ventricolare, la salita del potenziale d’azione diventa meno ripida perche il
calcio entra ma il potassio esce: rallenta la velocità di conduzione (effetto dromotropo negativo).
L'effetto è evidente a livello del nodo AV, ma si verifica in tutto il tessuto;
- può rallentare la depolarizzazione diastolica a livello del nodo seno-atriale (effetto
cronotropo negativo).
L’aumento della conduttanza al potassio non sarebbe di per se sufficiente per rallentare la velocità di
salita delle cellule del nodo del seno.
Inoltre, l’acetilcolina diminuisce la corrente di calcio voltaggio dipendente riducendo i livelli di cAMP
tramite una proteina G(I) che inibisce l’adenilato ciclasi. Quindi, diminuisce la quantità di calcio che
fuoriesce dal reticolo endoplasmatico. Quando il canale per il calcio è defosforilato, si apre a frequenza
inferiore (diminuisce la sua probabilità di apertura), per cui a livelli di AMP ciclico inferiori diminuisce
la possibilità di fosforilazione del canale, che avviene da parte della PKA (dipendente dal cAMP).
La riduzione della corrente di calcio:
- determina una sistole meno rigorosa (diminuisce la forza di contrazione del cuore) per via del
minor rilascio di calcio da parte del reticolo sarcoplasmatico delle cellule del miocardio aspecifico
(effetto inotropo negativo);
- diminuisce la corrente pacemaker nelle cellule del nodo senoatriale, riducendo la pendenza del
prepotenziale diastolico (effetto cronotropo negativo), quindi la membrana impiega maggior
tempo per arrivare a soglia e si aumenta l'intervallo tra un
battito e il successivo. L’iperpolarizzazione della membrana,
indotta dall’aumento della conduttanza per il K+ da sola non
sarebbe sufficiente a ridurre la pendenza del prepotenziale
diastolico: l’iperpolarizzazione, infatti, attiverebbe la
corrente If annullando gli effetti della fuoriuscita di K+. La
riduzione di If generata direttamente dall’ACH, è quindi
indispensabile per lo sviluppo dell’effetto cronotropo negativo;
- può diminuire l’accoppiamento elettronico tra le cellule miocardiche, diminuendo la velocità di
conduzione del PDA (effetto dromotropo negativo);
- nel nodo atrio-ventricolare viene rallentata la velocità di salita del PDA, che è una risposta
lenta, calcio-dipendente (anche in questo caso,
effetto dromotropo negativo).
A basse dosi (10ng, per esempio), le catecolamine producono un allungamento del plateau del PDA e
un incremento della tensione sviluppata durante la sistole.
Questi effetti sono dovuti al fatto che la noradrenalina aumenta la corrente di Ca ++ voltaggio
dipendente (il plateau del potenziale d'azione dipende dal flusso di calcio e, inoltre, il maggior rilascio
di calcio da parte del RE aumenta la forza di contrazione).
L'azione della noradrenalina è mediata da due meccanismi, ma
dipende principalmente dall’incremento nei livelli di cAMP prodotti
dal recettore β1 noradrenergico. Il recettore attiva la proteina GS, la
quale, attraverso l’attivazione dell’adenilato ciclasi, attiva una
chinasi cAMP dipendente (fosfochinasi A) e porta alla fosforilazione
del canale per il Ca++, con conseguente aumento della corrente di
calcio quando il canale è aperto dalla depolarizzazione. I canali
modulati dalla noradrenalina sono di tipo L e dati più recenti
indicano un controllo anche sulla corrente dei canali T. Il secondo
meccanismo con cui la
noradrenalina aumenta la
corrente di calcio è legata all'azione “diretta” (mediata da
una proteina G) che il recettore β1 ha sul canale per il calcio.
Un’ altra azione attraverso la quale le catecolamine potrebbero aumentare la velocità di conduzione è
aumentando l’accoppiamento elettronico fra le
cellule miocardiche. Infatti, l’attivazione del
recettore β1 noradrenergico aumenta
l’accoppiamento elettrico fra i miocardiociti
aumentando i livelli di cAMP (apre i connessoni,
effetto dromotropo positivo).
Legge di Starling
La legge di Starling postula che, entro limiti fisiologici, il cuore pompa tutto il sangue che giunge ad
esso, evitandone il ristagno nelle vene, grazie allo stiramento del miocardio (che aumenta la tensione
sviluppata). La gittata sistolica è il sangue eiettato (in sistole) e
dipende dalla forza con cui il cuore si contrae, mentre il volume
telediastolico è il volume di sangue che si trova nel cuore a fine
diastole. Il volume telesistolico, invece, è quello che si ritrova a
fine sistole, inferiore a quello telediastolico (in quanto un certo
volume è stato eiettato nelle arterie). La capacità del cuore di
pompare tutto il sangue che riceve è fondamentale, in quanto un
accumulo di sangue nei capillari del circolo polmonare, ad
esempio, determinerebbe “annegamento”: l'aumentata
pressione aumenterebbe il passaggio di liquido dal capillare
all'interstizio, riempiendo gli alveoli e bloccando la diffusione
dell'ossigeno verso il sangue.
Inoltre, a causa della legge di Starling, il cuore è in grado di
mantenere la gittata sistolica costante quando varia il post-carico, termine che definisce la pressione
arteriosa.
Il cuore eietta la sua gittata sistolica, si riempie
nuovamente e, se la pressione arteriosa aumenta da 80
a 100 mmHg, la forza di contrazione non è sufficiente per
eiettare la normale gittata sistolica, il volume eiettato
diminuisce e il volume del cuore alla file della sistole
(telesistolico) è maggiore rispetto alla condizione di
controllo. Quindi, alla fine del riempimento diastolico, il
cuore si contrae con forza maggiore per pompare lo
stesso volume.
Alla base della legge di Starling risiede il fatto che il
sarcomero è normalmente corto nel cuore, ovvero la
maggior parte dei ponti trasversi non si formano. Se si allunga il sarcomero, aumenta la formazione dei
ponti trasversi e lo stiramento aumenta l'affinità della troponina per il calcio. Inoltre, si suppone che
esistano canali per il calcio che si aprono allo stiramento della cellula. Quando si raggiunge la
lunghezza ottimale, vuol dire che il cuore non è più in grado di generare un aumento del riempimento
ventricolare (pre-carico) ne di incrementare la forza di contrazione.
Il ciclo di lavoro di una striscetta di miocardio comincia con la distensione prodotta dal volume di
sangue che riempie il ventricolo a fine diastole (pre-carico, quello che determina il grado di
stiramento della fibra) e mette in tensione le cellule pacemaker. Il cuore deve contrarsi attivamente,
lavora contro la pressione arteriosa che è di circa 80mmHg (post-carico), la quale non agisce
direttamente sul miocardio in quanto, all’inizio del ciclo di attività del cuore, le valvole semilunari sono
chiuse e il carico contro cui il cuore deve fare lavoro (post-carico, pressione arteriosa) è sorretto.
Quando il cuore inizia a contrarsi, sviluppa tensione e riesce a fare lavoro solo quando la tensione
sviluppata è in grado di sollevare il peso. La prima fase di contrazione è una fase isometrica, in cui il
miocardio deve raggiungere un livello di tensione corrispondente al post-carico.
A questo punto, si solleva il peso in una fase isotonica (le valvole si aprono, il sangue viene eiettato).
Inizia il rilasciamento isometrico quando la forza non è sufficiente a continuare l’eiezione del sangue:
si chiudono le valvole e il muscolo viene fissato ad una lunghezza costante (il sangue non defluisce
perche il muscolo è corto e non riesce a produrre forza sufficiente per continuare l'eiezione). In
pratica, il muscolo si accorcia finche la lunghezza raggiunta non permette uno sviluppo di tensione
superiore al carico (pressione arteriosa). Il flusso retrogrado del sangue è impedito dalla chiusura
delle valvole (è proprio quest chiusura che fissa il muscolo a lunghezza costante).
Quando la pressione del ventricolo cala al di sotto di quella atriale per il
rilassamento del muscolo, di nuovo la striscia di miocardio può essere
messa in tensione dal sangue che riempie il ventricolo. Quindi, il pre-
carico è la distensione iniziale dovuta al volume di sangue che riempie
il ventricolo mentre il post-carico è la pressione arteriosa che deve
essere vinta per eiettare il sangue nelle arterie.
Ciclo cardiaco
Il ciclo cardiaco, il periodo intercorrente tra l’inizio di una contrazione
regolare (non extrasistole) e la successiva, viene diviso in due parti,
sistole e diastole (in riferimento al ventricolo). La sistole è la
contrazione del ventricolo, la diastole è il rilassamento. Il volume di
sangue che passa al minuto attraverso il cuore sinistro è uguale a quello
che passa attraverso il cuore destro.
La vera pompa del cuore è il ventricolo, che porta il sangue a una
pressione maggiore di quelle delle arterie. L’atrio si contrae prima del
ventricolo (0.13 sec prima) per permettere il riempimento del
ventricolo stesso, funzionando da pompa di innesco. Grazie a questo
ritardo, il ventricolo non inizia a contrarsi prima di aver raggiunto un
normale riempimento.
Il ciclo cardiaco può essere descritto attraverso il diagramma di Wiggers
(che tiene conto di parametri importanti come la pressione arteriosa, quella ventricolare e quella
atriale), l'elettrocardiogramma e il fonocardiogramma (registra i rumori prodotti dal cuore durante il
ciclo di attività ).
Gli eventi elettrici
(EKG) precedono
quelli meccanici
(pressione, Pr): se si
considera l’onda P,
essa comincia molto
prima dell’inizio
dell’aumento della
pressione dell’atrio.
Quando cominciano
gli sviluppi di
tensione dell’atrio,
l’onda P è quasi
terminata. La
pressione
ventricolare
aumenta all'apice
del complesso QRS,
mentre l'onda T
inizia poco prima
del picco della
pressione aortica
(precede il rilasciamento del ventricolo, che inizia al picco dell'onda T).
- Presistole
La presistole corrisponde alla contrazione dell’atrio (le
valvole atrio-ventricolari sono già aperte da un po’, non
si aprono all’inizio della contrazione dell’atrio), che
aumenta la pressione atriale (onda A) e ventricolare (in
quanto l’atrio spinge il sangue nel ventricolo,
incrementando il suo volume del 15% e portandolo al
volume telediastolico).
L’onda A dell’atrio è dell’ordine dei 5mmHg, poco di più a
sinistra (7-8 mmHg). Alla fine della presistole, i lembi
delle valvole atrio-ventricolari cominciano a portarsi a
contatto (non sono ancora chiuse). Normalmente, la
contrazione atriale non è fondamentale per il
funzionamento del cuore a riposo, ma lo diventa in caso
di attività fisica. Il motivo è che l’attività fisica aumenta la
frequenza cardiaca, il ciclo cardiaco dura meno e si
riduce molto di più la durata della diastole rispetto a
quella della sistole. La riduzione della diastole ha
conseguenze drammatiche in quanto il cuore non riesce a
completare il suo riempimento (non arriva all’85%) e
quindi l’atrio è importante per completare il riempimento ventricolare. La percentuale di riempimento
dovuta alla contrazione atriale è maggiore durante l’attività fisica: la contrattilità dell'atrio, in attività
fisica, è stimolata dal simpatico.
- Sistole isovolumetrica
La contrazione del ventricolo (sistole ventricolare), che determina aumento della pressione
ventricolare al di sopra di quella atriale, chiude le valvole atrio-ventricolari e la loro chiusura genera il
primo tono cardiaco (i lembi delle valvole si erano già avvicinati per via delle turbolenze della fase
finale della presistole). La sistole avviene in condizioni isovolumetriche (le valvole semilunari sono
chiuse perche la pressione aortica è maggiore di quella ventricolare e le valvole atrio-ventricolari sono
anch’esse chiuse), in quanto i ventricoli sono camere chiuse. Per via della contrazione del ventricolo,
viene aumentata leggermente la pressione atriale (onda C) a causa della spinta sulle valvole atrio-
ventricolari.
La sistole isovolumetrica dura 20-30ms, il cuore si accorcia
in senso punta-base e aumenta la sua circonferenza.
Quando la pressione ventricolare supera quella aortica, si
aprono le valvole semilunari (80 mmHg, la pressione
minima, quella diastolica, e non la massima) e comincia la
fase di eiezione rapida.
• Eiezione rapida
Quando la valvola funziona bene, le pressioni sono molto
simili (si crea un gradiente pressorio anche con una
differenza di 1-2mmHg), mentre se la valvola non funziona
bene (se è stenotica, ad esempio) occorre una maggior
differenza di pressione tra ventricolo e aorta per eiettare il
sangue nell’arteria (può salire addirittura a 200 mmHg per
creare una pressione aortica di 80-120mmHg).
La fase di eiezione rapida, quindi, inizia quando la
pressione ventricolare supera quella aortica e termina
all'apice della pressione ventricolare, quando in aorta si è
raggiunta la pressione massima (sistolica, 120-130mmHg).
Il sangue esce sotto la spinta di questo piccolo gradiente
pressorio tra ventricolo e aorta. Il ventricolo si accorcia in
senso longitudinale (punta-base) e si abbassa il piano
valvolare, si dilatano le camere atriali (onda X,
diminuzione della pressione atriale) e viene favorito
l’ingresso di sangue nell’atrio proveniente dalle vene cave e
dalle vene polmonari (tensione della parete dell’atrio che
aumenta, cosi come la pressione atriale, onda V in salita
progressiva che continua anche durante l’eiezione lenta).
La pressione in aorta aumenta in quanto il sangue pompato in aorta ha volume maggiore di quello che
esce (e arriva ai tessuti) nella stessa unità di tempo (l'aorta si dilata, la parete viene messa in tensione
ed esercita maggiore pressione sul sangue). La pressione raggiunge il suo picco e comincia a calare
(quando il sangue che va ai tessuti è maggiore rispetto a quello che dal cuore passa nell’aorta) e inizia
la fase di eiezione lenta.
• Eiezione lenta
Durante la fase di eiezione lenta, la pressione ventricolare diminuisce perche le cellule cominciano a
rilasciarsi (diminuisce il volume dell'aorta e, con esso, la pressione esercitata sul sangue). Il sangue
continua a uscire pure essendo contro gradiente pressorio (la pressione aortica supera quella
ventricolare) perche ha accumulato energia cinetica. L'accumulo di sangue negli atri produce un
progressivo aumento di pressione (onda V), che continua per tutta la fase di eiezione lenta.
Questa fase cessa quando l’energia cinetica non è più sufficiente a spingere il sangue fuori verso
l’aorta, per cui inizia un reflusso che chiude le valvole semilunari. Qui si avverte il secondo tono
cardiaco.
• Diastole
La diastole comincia alla chiusura delle valvole semilunari. La spinta del sangue si è esaurita, non
riesce più a fare lavoro contro la pressione dell’aorta e il flusso di sangue si inverte per qualche
secondo. La caduta della pressione ventricolare produce la chiusura delle semilunari (110 mmHg) e il
secondo tono cardiaco. La pressione del ventricolo è molto maggiore di quella atriale. A questo evento
fa seguito un rilasciamento isovolumetrico (30-60 ms), ovvero il ventricolo si rilascia senza modificare
il suo volume, in cui sia le valvole semilunari che le atrio-ventricolari sono chiuse.
Quando la pressione ventricolare (che diminuisce per via del rilassamento ventricolare) cade al di
sotto di quella atriale (che aumenta per il sangue in arrivo dalle vene cave), le valvole atrio-
ventricolari si aprono e comincia la fase di riempimento veloce del ventricolo (80% del riempimento
finale). Nella prima fase della diastole, quindi, il ventricolo non si riempie perche tutte le valvole sono
chiuse: la prima fase di riempimento è proprio quella di riempimento veloce.
La pressione atriale diminuisce per l’uscita del sangue dall’atrio al ventricolo (onda Y).
Successivamente, la velocità di riempimento ventricolare diminuisce: questa seconda fase è detta
diastasi ed è responsabile del 5% del riempimento ventricolare finale (dura di più della fase di
riempimento veloce, ma il volume di sangue che entra nel ventricolo è ridotto).
L’ultimo evento della diastole è la contrazione atriale (presistole), che pompa il restante 15% di
sangue. A questo punto, inizia un altro ciclo cardiaco.
In conclusione, la diastole consta di tre diverse fasi:
– fase isovolumetrica;
– fase di riempimento veloce;
– diastasi.
Le valvole semilunari sono aperte quando la pressione a monte supera quella a valle, sono chiuse
quando la pressione a valle supera quella a monte, impedendo il flusso retrogrado.
Il volume del ventricolo alla fine della diastole, alla fine del riempimento (volume telediastolico)
corrisponde a 110-120 ml in un soggetto
maschio in condizioni normali e può arrivare
fino a 180 ml in un atleta adeguatamente
allenato (aumento del 50%).
Il volume alla fine della sistole, ovvero quello
che rimane nel cuore dopo la spremitura dei
ventricoli (volume telesistolico) è di 40-50
ml, ma può diminuire fino a 10-20 ml sotto
stimolazione simpatica (il cuore
rimpicciolisce le sue dimensioni in quanto
l’attivazione del simpatico determina una forza di contrazione maggiore, le fibre raggiungono una
lunghezza minore).
La differenza fra i due volumi è la gittata sistolica (ciò che il cuore eietta in una singola sistole), che
corrisponde a 70 ml, ma può giungere fino a 160 ml negli atleti in condizioni di attivazione simpatica.
La percentuale di sangue eiettata rispetto al volume telediastolico (frazione di eiezione, rapporto tra
gittata sistolica e volume telediastolico) è del 60% in condizioni normali, ma può arrivare fino all’89%
(sempre sotto stimolazione simpatica).
Valvole cardiache
Le valvole del cuore servono per assicurare che il movimento del sangue avvenga dall’atrio al
ventricolo e dal ventricolo alle arterie. Chiudendosi, esse impediscono i flussi retrogradi (rendono il
flusso uni-direzionale) e generano i due principali toni cardiaci. Le valvole semilunari, che si chiudono
durante la diastole, impediscono il reflusso di sangue dall’aorta al ventricolo durante la diastole, quelle
atrio-ventricolari impediscono il riflusso dal ventricolo all’atrio durante la sistole.
La struttura delle valvole cardiache riflette i regimi pressori che devono sopportare quando, aperte,
permettono il passaggio del sangue.
Le valvole atrio-ventricolari (AV) hanno struttura sottile e flessibile, orifizio ampio e il flusso di sangue
attraverso di esse è lento. Hanno un orifizio di dimensioni maggiori rispetto a quelle semilunari: le
dimensioni dell’orifizio determinano la velocità del flusso (l'area di apertura è inversamente
proporzionale alla velocità del flusso in cm/s). Per questa ragione, sono sottoposte ad una usura minore
rispetto alle valvole semilunari. La loro chiusura è smorzata e avviene dopo un flusso retrogrado
trascurabile (appena si verifica la prima oscillazione retrograda del flusso).
Le valvole semilunari sono più spesse, l’orifizio è ridotto, il flusso attraverso esse è rapido e l’usura
maggiore (motivo per cui la loro struttura è più spessa e robusta). La loro chiusura avviene dopo un
reflusso potente, della durata di qualche ms, in quanto la loro costante elastica maggiore determina lo
sviluppo di una forza di ritorno in risposta ad una deformazione (si chiudono più difficilmente).
La chiusura delle valvole atrio-ventricolari determina il primo tono cardiaco, quella delle valvole
semilunari determina il secondo tono.
La struttura sottile delle valvole atrio-ventricolari le esporrebbe ad un ribaltamento verso l’atrio
durante la sistole, quando il ventricolo sviluppa pressioni elevate, per cui è necessario un meccanismo
volto a garantire una chiusura efficiente. Il ribaltamento è impedito dai muscoli papillari (spuntano
dall’endocardio, fanno parte da quella regione del cuore che sviluppa immediatamente la sistole,
quindi si contraggono immediatamente e conferiscono alla valvola la resistenza necessaria a impedire
il ribaltamento), che, tramite le corde tendinee, sono connessi alle valvole e si contraggono durante la
sistole. In questo modo, le valvole atrio-ventricolari vengono mantenute in posizione di chiusura dalla
tensione delle corde tendinee e non si ribaltano. La paralisi dei muscoli papillari e la lesione delle
corde tendine (o infarti) compromettono questo meccanismo: i lembi valvolari vengono spinti verso
l’atrio e la chiusura della valvola risulta compromessa. Questa condizione può dar luogo ad una
insufficienza cardiaca.
Toni cardiaci
I toni cardiaci sono causati dalla chiusura delle
valvole: inversioni di flusso che producono tale
chiusura generano oscillazioni delle valvole e del
sangue contenuto nel cuore e nei vasi, che si
comunicano alle pareti cardiache e arteriose e ai
tessuti circostanti. Inoltre, le variazioni di flusso
generano turbolenze del sangue che producono
rumore.
I rumori cardiaci possono essere indicatori utili per la diagnosi in quanto sono alterati in maniera
caratteristica in determinate condizioni patologiche. Le malattie valvolari possono produrre deficit
della chiusura (insufficienza) o dell’apertura (stenosi) delle valvole, che sono associati a rumori
abnormi (soffi).
Per quanto riguarda le valvole semilunari:
– nella stenosi aortica (la valvola aortica è stenotica, si apre male), ad esempio, si ha eiezione
attraverso una valvola aortica ristretta. La pressione ventricolare è elevata, aumenta la velocità
del flusso per via del passaggio dall'orifizio ristretto, il sangue in uscita genera turbolenze (per
l'equilibrio di Reynolds), vibrazioni e, di conseguenza, rumori: si verifica, pertanto, un soffio
sistolico (durante il passaggio del
sangue tramite l’orifizio ristretto, la
sistole);
– nell’insufficienza aortica (valvole
semilunare insufficienti, non si
chiudono bene), invece, si verifica un
riflusso di sangue nel ventricolo
durante la diastole. Anche in questo
caso, si verificano vibrazioni e
turbolenze (il passaggio avviene
tramite un orifizio ristretto che
impone maggiore velocità al flusso)
che producono un soffio diastolico.
Per quanto riguarda, invece, le valvole atrio-
ventricolari:
– nella stenosi della valvola mitralica
si sviluppano rumori limitati
all’ultimo terzo della diastole. Il ventricolo deve essere messo in tensione prima di poter
vibrare, per cui solo a partire dall'ultimo terzo della diastole il ventricolo è abbastanza pieno di
sangue per poter vibrare a seguito dello sviluppo di turbolenze. Si genera, quindi, un soffio
diastolico;
– nell’insufficienza mitralica si verifica un reflusso di sangue dal ventricolo all’atrio durante la
sistole. Anche in questo caso si verificano turbolenze, vibrazioni, e si sviluppa un soffio
sistolico (come durante la stenosi aortica).
L’ampiezza dei soffi (generati durante il passaggio di sangue attraverso orifizi ristretti) è diversa.
Lavoro cardiaco
Il cuore deve mettere il sangue sotto pressione: il sangue del ventricolo deve avere una pressione
sufficiente da aprire le valvole semilunari, quindi deve essere portato da una pressione di pochi mmHg
(quella diastolica) a pressioni elevate (80mmHg nel ventricolo sinistro, 8mmHg in quello destro).
La seconda attività del cuore è quella di spostare il sangue, quindi dotarlo di energia cinetica.
Il lavoro cardiaco al minuto è uguale al lavoro di gittata (L) per la frequenza cardiaca (f)
Lavoro cardiaco = L x f
Il lavoro cardiaco di gittata (definito per ogni sistole) è il lavoro che viene compiuto durante
l'eiezione di 70ml di sangue e può essere considerato come la somma di due componenti, il lavoro di
pressione-volume (LP) e il lavoro di accelerazione (LA).
L = LP +LA
Il lavoro di pressione-volume (LP) è quello necessario per portare il sangue alle
alte pressioni dell’arteria, mentre il lavoro di accelerazione (LA) è quello che
imprime velocità al sangue e corrisponde all’energia cinetica
trasferita al sangue eiettato dal ventricolo.
LA = (mv2)/2
Normalmente LA è una quota piccola del lavoro totale (1%),
per cui le due quote sono squilibrate, ma arriva fino al 50%
del totale nei casi di stenosi aortica (aumenta il lavoro che
impartisce energia cinetica). L'orifizio ristretto determina una velocità di eiezione
elevata, la quale implica un necessario aumento del lavoro che serve per impartire
al sangue energia cinetica (il lavoro di pressione-volume è uguale a quello di
accelerazione: per mettere il sangue sotto pressione occorre lo stesso lavoro che serve per far
muovere il sangue).
Quindi, la quota maggiore (99%) è quella del volume-pressione e per far muovere il sangue in
condizioni normali basta poco.
Se si considera il ciclo di lavoro di una fibra muscolare cardiaca, visualizzabile in un diagramma
tensione-lunghezza, si osserva che deve compiere un lavoro contro un post-carico (la pressione
arteriosa), su cui
non ha azione
diretta in un
primo momento
perche le valvole
sono chiuse (il
post-carico è
sorretto). La
contrazione della
fibra è isometrica
fino al momento
in cui la tensione
supera il post-
carico: a questo
punto, la fibra
inizia ad
accorciarsi. Nel cuore in toto si aprono le valvole semilunari e le fibre cominciano ad accorciarsi con
velocità costante, inversamente proporzionale al post-carico superato.
Una fibra isolata, che parte da una certa lunghezza, viene allungata (il carico che ne determina
l'allungamento è il sangue che entra nel ventricolo, aumentano le dimensioni del ventricolo) e deve
contrarsi (contrazione isometrica, a lunghezza costante) finche non riesce a sostenere il post-carico.
Quando la tensione supera il post-carico la fibra inizia ad accorciarsi.
Durante la fase di accorciamento, la tensione rimane costante (contrazione isotonica), appena superiore
al post-carico. Il muscolo si accorcia e la diminuzione di lunghezza si associa con una riduzione della
massima tensione sviluppabile dal muscolo che, per la legge di Starling, dipende dalla lunghezza delle
fibre. Si arriva quindi a una lunghezza per la quale la tensione sviluppata dal miocardio è inferiore al
post-carico (la curva blu mostra la massima contrazione isometrica della cellula, che dipende dalla
lunghezza).
L’accorciamento cessa quando la tensione sviluppata cala al di sotto del post-carico (quando la massima
tensione sviluppabile corrisponde al pre-carico). Il rilassamento avviene come se il post-carico fosse
sorretto, la valvola si chiude e la pressione aortica non può riempire il ventricolo. Nonostante il
rilasciamento muscolare, questo fenomeno avviene solo quando la lunghezza del muscolo raggiunge
un valore tale per cui la massima tensione sviluppabile cala al di sotto del post-carico. Il rilasciamento
è isovolumetrico (il ventricolo rimane chiuso) e termina quando si permette al pre-carico di agire
nuovamente sulla fibra (le valvole atrio-ventricolari si aprono, il sangue entra nel ventricolo.
Nel cuore intero, la contrazione non è isotonica, non avviene a tensione costante. La tensione non
rimane costante perche il pre-carico non è costante a causa della variazione della pressione aortica.
Infatti, quando viene eiettato il sangue, la pressione aortica aumenta come conseguenza dell'aumento
di volume di sangue (nella prima fase dell'eiezione il sangue in entrata in aorta è maggiore di quello
che viene distribuito ai tessuti). Per questo motivo, la contrazione è auxo-tonica. Quando la tensione
sviluppata dal muscolo diventa inferiore del post-carico, la contrazione termina.
Nel momento in cui il muscolo non sviluppa abbastanza tensione e il post-carico non può essere retto,
si chiudono le valvole semilunari e il muscolo continua a rilassarsi isometricamente.
Il lavoro cardiaco (ventricolare) è visualizzabile su un piano pressione- volume, come una porzione
dell’area compresa fra le due curve che esprimono la relazione corrispondente che esiste nel cuore
rilasciato e in quello contratto (isometricamente). Quando il cuore è rilasciato, la pressione (diastolica)
si mantiene bassa fino a volumi di circa 150 ml. Successivamente, essa sale rapidamente per le
proprietà delle fibre muscolari e del pericardio.
La tensione attiva sviluppata dal cuore aumenta
all’aumentare del volume fino a 150-170 ml e poi
diminuisce per annullarsi al volume di 250 ml:
per valori superiori, la tensione totale del cuore
corrisponde a quella passiva.
Nel cuore, la contrazione non è isotonica: la fibra
si accorcia, ma la tensione cambia (auxo-tonica).
Il ciclo cardiaco si compone di quattro fasi:
- riempimento (distensione passiva);
- contrazione iso-volumetrica;
- contrazione auxo-tonica;
- rilassamento isovolumetrico.
Mentre la massima pressione isometrica
(tensione sistolica) del ventricolo sinistro supera i
250 mmHg (270mmHg), quella del ventricolo
destro è 80 mmHg.
Durante il ciclo cardiaco, il ventricolo si riempie
in diastole, aumentando il volume con scarso
incremento pressorio (al di sotto di 150 ml):
ovvero il rendimento passivo (la pressione che si esercita sul ventricolo quando esso viene dilatato)
non determina un aumento notevole di pressione fino a 150ml.
Superati i 150ml, comincia la fase di contrazione isovolumetrica, in cui la pressione sale verticalmente,
senza che vi siano variazioni di volume. Raggiunto il valore della pressione aortica, si aprono le valvole
semilunari e inizia l’eiezione, durante la quale il volume diminuisce, mentre la pressione ventricolare
aumenta per poi calare nuovamente.
Inizialmente la pressione intra-ventricolare è al disotto della massima pressione isometrica
corrispondente al volume assunto dal ventricolo. Questo significa che, se la pressione aortica fosse più
elevata, il ventricolo potrebbe ancora compiere un lavoro di eiezione. Quando, diminuendo il volume, la
pressione diventa uguale al valore della massima pressione isometrica, cessa la capacità di eiettare il
sangue: infatti, se il volume diminuisce ulteriormente la pressione necessaria non può più essere
generata dal cuore. A questo punto si chiudono le valvole semilunari e la pressione ventricolare
diminuisce bruscamente, senza variazioni di volume.
Quando la pressione ventricolare scende al disotto di quella atriale, si aprono le valvole atrio-
ventricolari ed inizia il riempimento.
Questa serie di eventi delimita un’area chiusa (EW) nel piano pressione-volume detta area del ciclo
cardiaco, che corrisponde all'area del lavoro volume-pressione, quindi al lavoro di gittata (L), che si
espande verso destra e verso l’alto quando L aumenta.
L’area (PE) compresa fra EW, la curva pressione-volume attiva, e quella di riempimento passivo,
rappresenta il lavoro interno che il cuore deve compiere per mantenere la normale pressione atriale di
riempimento, ovvero il lavoro necessario per il riempimento iniziale di base (per garantire le
condizioni di partenza del cuore).
Il consumo di ossigeno del cuore non è proporzionale all'area del ciclo cardiaco EW, ma aumenta
proporzionalmente alla somma delle due aree (PE + EW).
Il consumo di O2 dipende dal lavoro cardiaco e aumenta all’aumentare della pressione arteriosa, che
determina il lavoro di gittata, nonche della frequenza (ovvero aumenta se aumentano i parametri che
fanno aumentare il lavoro cardiaco). Per questo, un soggetto iperteso (la pressione arteriosa è
maggiore, il lavoro cardiaco è maggiore) compie un lavoro cardiaco maggiore rispetto ad un soggetto
normoteso.
Se la pressione arteriosa aumenta (mentre la gittata cardiaca rimane costante), il consumo di ossigeno
aumenta perche occorre eiettare lo stesso volume di sangue contro una pressione arteriosa maggiore:
la gittata sistolica richiede lavoro maggiore (il cuore consuma più ossigeno).
Se la frequenza aumenta del doppio, ma il lavoro cardiaco totale rimane costante (per far si che il
lavoro cardiaco rimanga costante in seguito al raddoppiamento della frequenza, si dimezzare la gittata
sistolica, in quanto se si dimezza la gittata sistolica, si dimezza anche il lavoro associato alla sistole), il
consumo di ossigeno aumenta: anche a parità di gittata cardiaca (gittata cardiaca = gittata sistolica x
frequenza cardiaca ), il consumo di O2 è più alto quando la frequenza cardiaca è maggiore.
Per questo è fondamentale che la frequenza cardiaca di un cardiopatico (che ha problemi di
circolazione) rimanga bassa, in quanto l'aumento di frequenza, oltre ad aumentare il lavoro cardiaco,
rende il cuore meno efficiente (consuma di più per compiere lo stesso lavoro, il bilancio tra spesa
energetica e lavoro compiuto è svantaggioso).
Quindi, la combinazione di una gittata sistolica elevata e di una bassa frequenza cardiaca è una
combinazione vantaggiosa per il cuore. Questo è esattamente quello che si verifica negli atleti allenati a
sport di resistenza (cuore più
efficiente: compie lo stesso
lavoro consumando meno
ossigeno).
Un brusco aumento di frequenza,
causato ad esempio da
un’emozione, produce invece un
aumento improvviso della
richiesta di O2 del cuore che può
causare seri danni ai soggetti in
cui il flusso coronarico non può
aumentare proporzionalmente
all’esigenza del tessuto, a causa
di una parziale ostruzione
coronarica.
Il rendimento massimo del cuore, cioè il rapporto fra il lavoro effettuato dal cuore e l ’energia
liberata dall’ossidazione dei nutrienti (stimata in base al consumo di O2), è del 20-25%.
Un altro fattore che può influenzare la contrattilità è la frequenza della contrazione cardiaca. Nelle
cellule miocardiche isolate, che si contraggono in seguito a stimolazione elettrica diretta, si può
osservare il cosiddetto fenomeno della scala
(“treppe”). Questo fenomeno consiste nel fatto che
all’aumento della frequenza di stimolazione,
aumenta anche la tensione sviluppata durante la
sistole. Ogni stimolo determina una contrazione,
per cui quando la frequenza dello stimolo aumenta,
l'intensità della contrazione aumenta
progressivamente, mentre quando la frequenza di
stimolazione torna normale, si torna lentamente ai
livelli di partenza.
Questo non è dovuto ad una sommazione delle
scosse, fenomeno che nel cuore non si verifica, ma
al fatto che, a causa della più elevata frequenza del
potenziali di azione, si ha un aumento della
quantità di calcio che entra nella cellula (i livelli di
calcio durante la sistole sono più elevati in
stimolazioni ad alta frequenza).
Verosimilmente, questo produce una maggior
saturazione dei siti a-specifici cui lo ione può
legarsi nel citoplasma: di conseguenza, quando si
aprono le cisterne del reticolo sarcoplasmatico,
durante la sistole, si raggiungono concentrazioni
citoplasmatiche di calcio libero maggiori della
norma.
Anche se questo fenomeno esiste nel cuore in toto, non si vede: se si stimola elettricamente il cuore
senza aumentare la contrattilità, diminuendo la frequenza della contrazione cardiaca il cuore non ha
tempo per riempirsi.
Gittata cardiaca
La gittata cardiaca è il volume di sangue che viene eiettato al minuto (gittata cardiaca, Q), e
corrisponde a 4/6 litri di sangue a riposo (aumenta da 4 a 7 volte nell’esercizio fisico).
La gittata è uguale al prodotto della gittata sistolica (GS,
volume eiettato durante la sistole) per la frequenza cardiaca
(f).
Q = GS x f
La gittata cardiaca si può misurare direttamente nell’animale
da esperimento (molto invasiva), attraverso la cannulazione
diretta dell’arteria polmonare, dell’aorta o delle grandi vene e
la misurazione diretta con un flussimetro.
Nell’aorta, questa metodica diretta mette in evidenza l’inversione del flusso associata alla chiusura
valvolare.
La gittata cardiaca aumenta in funzione della frequenza cardiaca, ma l’aumento non è perfettamente
lineare. L'aumento è maggiore di quanto ci si aspetterebbe moltiplicando la gittata sistolica a riposo
per l'aumentata frequenza: a causa
dell'incremento di contrattilità del
miocardio (dovuto all'azione del
simpatico), aumenta anche la gittata
sistolica.
Per analizzare l’aumento della
gittata, si utilizza come riferimento
la retta che risulterebbe se ci fosse
questa proporzionalità tra aumento
di frequenza e aumento di gittata.
La compliance ritardata è un fenomeno e non un parametro fisico (importante proprietà dei vasi),
che consiste in variazioni a medio termine (minuti o ore) della compliance in risposta a variazioni del
volume del sangue (per le caratteristiche intrinseche del muscolo liscio). Ad esempio, se si aumenta il
volume di un compartimento vasale, si aumenta la pressione di un valore che dipende dalla
compliance del compartimento. Se la compliance è elevata, la pressione aumenta di poco; se è bassa, la
pressione aumenta molto in quanto la resistenza che viene opposta è maggiore.
Un tessuto messo in tensione dall’aumento di
volume (ad esempio dopo una trasfusione)
aumenta la sua compliance (diventa più
distensibile) e sviluppa meno pressione
(proprietà soprattutto del muscolo).
Se il volume si riduce, la pressione si abbassa per
poi tornare a salire dopo un certo tempo: la
compliance del tessuto, una volta che il volume
diminuisce, si riduce ed è più difficile mettere in
tensione il tessuto. Queste modificazioni sono
importanti: durante un’emorragia ci si potrebbe
aspettare una riduzione della pressione di
riempimento dei vasi, ma, nel tempo, il valore
torna verso i livelli di controllo perche il circolo
reagisce diminuendo la sua compliance (il tessuto
diventa più resistente allo stiramento).
Le curve pressorie indicano le pressioni dei compartimenti venoso e arterioso in funzione del sangue
in essi contenuto. Affinche il cuore possa generare, a livello delle arterie, una pressione in grado di far
circolare il sangue, è necessario che il volume di sangue sia sufficiente a mettere in tensione la parete del
vaso. Se ciò non avviene, l’azione di pompa del cuore finisce per dilatare il diametro dei vasi invece di
spingere il sangue in avanti.
Nel compartimento arterioso (pressione
media di 100mmHg), infatti, bastano meno di
100ml di perdita di sangue per arrivare a
pressione zero: il cuore batte, ma il suo
battito è assolutamente inutile per far fluire il
sangue (il battito del cuore non fa salire la
pressione). La parete del vaso quindi deve
essere tesa affinche il cuore possa esercitare
la sua funzione di pompa. La perdita specifica
di sangue dal compartimento arterioso è
estremamente pericolosa.
A livello venoso (pressione media di
7mmHg), invece, possono essere persi fino a
300ml di sangue prima di arrivare a
pressione zero.
Le curve sinistra e destra indicano le variazioni dovute al simpatico, il quale determina le condizioni di
tensione della parete vasale:
– attivazione simpatica (sinistra): la compliance è ridotta e lo stesso volume di sangue genera
pressione maggiore (dopo aver perso 100ml di sangue non si arriva a pressione zero, ma a una
pressione poco inferiore della norma);
– diminuzione dell’attività simpatica (curva a destra): serve un volume maggiore per mantenere
la pressione media (compliance aumentata).
Durante un’emorragia, la pressione cala: è tanto più grave quanto è bassa la compliance (che è elevata
nelle vene). L’attivazione simpatica determina contrazione della muscolatura liscia vasale, viene
ridotto il volume di sangue contenuto nei vasi e la capacità del sistema (volume di sangue contenuto a
pressione zero) diminuisce. Quindi, il simpatico riduce la compliance e quindi la capacità delle vene,
che sono importanti serbatoi di sangue. Il sangue viene quindi spostato dal compartimento venoso agli
atri: si riesce a sopportare una perdita di sangue circolante anche del 25%. Quindi, il simpatico
controlla la capacità e la compliance.
La caduta pressoria dovuta alla diminuzione del volume di sangue contenuto in un dipartimento è
inversamente proporzionale alla compliance:
C = ΔV/ΔP
ΔP = ΔV/C
Normalmente, il volume di sangue dell’organismo è maggiore della
capacità (si ha pressione di riempimento) e la parete vasale è tesa:
quando il sangue viene eiettato, la parete si distende ed è in grado di
generare una pressione che spinge il sangue in avanti.
Se la capacità è molto maggiore del volume di sangue, il sangue
verrebbe fatto fluire di
meno.
In un circuito idraulico, due vasi in serie sono vasi in cui il sangue scorre prima nell'uno e poi nell'altro.
Le resistenze in serie si sommano: la resistenza totale di vasi messi in serie è maggiore della resistenza
del singolo vaso, in quanto:
R tot = R1 + R2 + R3
Due vasi messi in parallelo sono vasi in cui il sangue, attraversando il circuito, scorre nell'uno o
nell'altro. Le singole resistenze in parallelo, invece, sono maggiori della resistenza totale in quanto:
1/R tot = 1/R1 + 1/R2 + 1/R3
L’analisi delle variazioni pressione fa capire il livello di resistenza relativo nei diversi distretti (per la
relazione tra flusso, pressione e resistenza).
Q = ΔP/R
ΔP = Q x R
R = ΔP/Q
Essendo Q costante, dove si
ha cauta di pressione
maggiore, la resistenza è
maggiore.
Un primo crollo di pressione
avviene tra grandi arterie e
piccole arterie. A livello
delle arteriole sistemiche,
dove la resistenza è
massima, avviene la caduta
di pressione vera e propria:
la differenza di pressione tra
inizio di capillari e inizio delle arteriole è molto elevata (la caduta di pressione più grossa, da 80 arriva
a 35mmHg). Le arteriole quindi sono i vasi che offrono maggior resistenza al circolo. La differenza di
pressione è invece trascurabile nelle vene.
La pressione in aorta oscilla fra 80 e 120 mmHg e cade progressivamente fino a 0, valore che viene
raggiunto a livello dell’atrio destro. La maggior caduta di pressione (50 mmHg) si può osservare a
livello delle arteriole muscolari, che sono quindi l’elemento del circuito vascolare caratterizzato dalla
maggior resistenza. Nei capillari sistemici la pressione varia fra 35 mmHg e 10 mmHg (valore medio
17). La pressione nell’arteria polmonare oscilla fra 8 e 25 mmHg: essa diminuisce progressivamente,
attraverso i vasi della piccola circolazione, fino ad arrivare a 4 mmHg nell’atrio sinistro. Nei capillari
polmonari il valore medio è 7 mmHg.
A livello delle arterie polmonari, le resistenze sono tutte più basse (in generale a livello del piccolo
circolo) e la caduta di pressione è minore rispetto a quella osservabile nel grande circolo.
Elementi di reologia
La viscosità, parametro che misura l'attrito interno di un
fluido, è definita (in un liquido omogeneo come l'acqua
che si muove di moto laminare in un condotto aperto)
come il rapporto tra shear stress (τ) e shear rate (γ)
η = τ/γ
Lo shear rate è il gradiente di velocità, mentre lo shear
stress corrisponde allo sforzo di taglio (rapporto tra la
forza di taglio che agisce sulla lamina superficiale in
movimento e la superficie della lamina). La lamina
superficiale è quella che si muove più velocemente, quella
sul fondo è ferma.
Si deve immaginare il moto del liquido come laminare: la lamina prossima alla parete del vaso ha
velocità zero, quella al centro del vaso ha velocità massima. Il
gradiente di velocità che si crea tra le lamine corrisponde allo
shear rate.
Maggiore è la viscosità, maggiore è l'attrito, maggiore è la forza
che occorre per muovere la massa del fluido.
Il profilo della velocità all’interno del vaso è un paraboide (tipo
di flusso che si verifica in tutti i vasi, tranne che in aorta durante
alcune fasi del ciclo cardiaco).
In aorta, durante alcuni momenti della fase di eiezione rapida,
possono esserci regimi transitoriamente turbolenti, in cui si
formano dei vortici: la velocità ha sia elementi trasversali
(perpendicolari alla parete del vaso) che longitudinali. La
resistenza è maggiore in questo caso e il flusso è minore (a parità
di gradiente pressorio).
La tendenza alla turbolenza è definita dal numero di Reinolds,
Re (se maggiore di 200 ci può essere turbolenza, se è maggiore
di 2’000, si ha turbolenza generalizzata):
Re = D ρ V/η
Dove D è il diametro, ρ è la densità e η la viscosità.
Il passaggio tra i due regimi si verifica anche se la parete vasale è
irregolare e dove ci sono brusche variazioni di forma (placche
sclerotiche che diminuiscono il diametro vasale).
Pressione
Il cuore è la pompa del sistema circolatorio, che spinge il sangue nel compartimento arterioso (arterie
elastiche). A questo livello, la componente elastica determina l'effetto Windkessel, fenomeno
fisiologico che permette, a livello delle grosse arterie elastiche, di modificare il flusso discontinuo della
gittata cardiaca in un flusso continuo (effetto matrice).
Durante la sistole, la parete dell'arteria si dilata e la pressione aumenta (il cuore pompa sangue ai
tessuti). Durante la
diastole, il cuore si
rilascia e il ritorno
elastico della parete
arteriosa (l'arteria ha
immagazzinato
energia potenziale
elastica) determina
una “spinta” sul
sangue, che in questo
modo può fluire
anche in diastole. Se
quest'effetto non avvenisse (se le arterie elastiche fossero rigide, come tubi di vetro), il flusso sarebbe
pulsatorio (dispendioso, a parità di portata, il lavoro che il cuore deve compiere è maggiore) e il
sangue non fluirebbe in diastole.
Alle arterie elastiche fanno seguito le arterie muscolari, le quali subiscono due controlli:
– auto-regolazione tissutale: il tessuto regola la sua perfusione in funzione delle sue necessità;
– controllo centrale: il SNC (tramite l'azione del simpatico) regola il flusso in funzione delle
necessità dell'organismo. Il simpatico effettua un controllo vasocostrittore, mentre il
parasimpatico, che non ha azione generalizzata (la sua azione è limitata ad alcuni distretti, in
altri è assente), è vasodilatatore e aumenta il flusso di sangue agli organi. Il parasimpatico, per
la sua azione non generalizzata, non è un elemento di regolazione considerevole per il circolo.
Dal distretto arterioso si passai ai, vasi deputati allo scambio. Per questo motivo, possiedono una
parete molto sottile (per facilitare il movimento di gas, nutrienti e metaboliti).
Essendo la sezione totale dei capillari molto grande, il flusso è lento (per facilitare gli scambi).
Il distretto venoso, grazie alla capacità variabile, permette di subire una trasfusione o un'emorragia
minimizzando le variazioni di pressione che questi eventi comportano. Infatti, sebbene la contrazione
della muscolatura liscia a livello venoso non determini variazioni di resistenza notevoli, ha un ruolo
sulla capacità (le vene ospitano il 60% del volume di sangue). Una piccola costrizione determina lo
svuotamento del distretto venoso (aumenta il ritorno venoso al cuore).
Se il cuore si riempie di più, per la legge di Starling pompa con più forza. Di conseguenza, eietta un
volume di sangue maggiore e la pressione in aorta sale. Questo è il motivo per cui il ritorno venoso
aumenta la pressione arteriosa.
Occorre distinguere la pressione in:
– pressione sistolica (massima): 120/125 mmHg;
– pressione diastolica (minima): 80 mmHg;
– pressione media: 100mmHg.
La pressione (tutti e tre i
valori) tende ad aumentare
con l'età per via di
modificazioni delle arterie
(processi di
arteriosclerosi) e per il
deterioramento della
funzionalità renale (il rene
influisce sulla regolazione
della pressione a lungo
termine), che rendono
meno distensibile la parete
di questi vasi.
Le arterie, con l'età,
diventano meno
distensibili (aumenta la
costante elastica), di
conseguenza, il
mantenimento dello stesso
volume di eiezione richiede
un aumento della pressione arteriosa generata dal cuore (anche la pressione aumenta con l'età).
Quindi, il cuore pompa di più ma deve fare uno sforzo maggiore (con l'età è problematico per via della
peggior perfusione del circolo coronarico).
La differenza fra
pressione sistolica e
diastolica (40mmHg)
prende il nome di
pressione pulsatoria.
Durante la fase di
eiezione, la gittata sistolica distende la parete aortica, che
accumula energia potenziale elastica. La pressione
raggiunge il valore massimo di 120 mmHg.
Durante la diastole, quando l’eiezione è terminata e le
valvole semilunari sono chiuse, il ritorno elastico della
parete vasale continua a spingere il sangue verso i tessuti,
mentre la pressione scende al suo valore minimo di 80
mmHg.
La pressione pulsatoria:
– aumenta con l’aumento della gittata sistolica: se il
volume eiettato aumenta, la parete dell'aorta si
distende maggiormente ed esercita un ritorno
elastico maggiore;
– aumenta con la riduzione della distensibilità delle
arterie: se le arterie sono molto distensibili, il
sangue le dilata e non viene prodotto un notevole
aumento di pressione. Quando diventano meno
distensibili, lo stesso volume determina un ritorno elastico maggiore, quindi una pressione
pulsatoria maggiore (nell'arteria si deve realizzare una pressione maggiore per dilatare la
parete);
– aumenta anche in caso di aumento dell’efflusso diastolico, cioè la fuoriuscita del sangue
dall’aorta verso i tessuti durante la diastole.
Nella stenosi della valvola aortica grave, la pressione pulsatoria diminuisce a causa della diminuzione
del volume di sangue eiettato in aorta (il cuore fatica a produrre un normale volume sistolico): ciò è
dovuto alla resistenza che l’apertura delle valvole semilunari offre al suo passaggio.
Nella pervietà del dotto arterioso, la pressione pulsatoria aumenta, in quanto, in diastole, il sangue non
fluisce solo verso i tessuti, ma anche nell’arteria polmonare (a causa del dotto che la unisce all’aorta):
ciò porta ad un maggior diminuzione del volume dell’aorta e quindi della pressione minima (maggiore
è la diminuzione del volume, minore è la pressione: più l'aorta si svuota, più diminuisce il ritorno
elastico, quindi la pressione).
Un fenomeno analogo si verifica nell’insufficienza della valvola aortica: il sangue in diastole rifluisce
nel ventricolo e la pressione diastolica può arrivare a valori molto bassi.
La pressione pulsatoria aumenta anche in caso di vasodilatazione: l'aorta si svuota maggiormente, per
cui diminuisce la pressione minima.
Per via della pressione pulsatoria, la distensione della parete vasale genera un’onda di pressione che si
propaga nel liquido e sulla parete del vaso e viaggia più velocemente del flusso di sangue. Per questo
motivo, nelle arterie periferiche la pressione aumenta molto prima che vi giunga il sangue eiettato. Il
polso arterioso è l'espansione ritmica delle arterie prodotta dalle variazioni di pressione al loro
interno che viene trasmesso come un'onda sfigmica lungo la parete dei vasi (che si propaga
attraverso il sangue grazie all'interazione tra le molecole).
Quando si palpa il polso arterioso, si rileva la presenza dell'onda sfigmica.
Nell’onda sfigmica, la fase di ascesa della pressione (inizio dell'incremento sistolico) viene indicata
come fase anacrotica (ritardata in quanto l'onda di
pressione non si propaga immediatamente lungo la parete
dell'aorta), quella di discesa (fase diastolica) come fase
catacrotica.
La curva A indica l'andamento dell'onda sfigmica in aorta,
la curva B mostra l'andamento in un'arteria periferica.
L'incisura aortica, visibile sul grafico, è un'irregolarità
della fase catacrotica dovuta alle oscillazioni conseguenti
alla chiusura delle valvole semilunari. In arterie
periferiche, queste oscillazioni sono assenti, ma la fase
catacrotica ha andamento bifasico e l'incisura dovuta alla
chiusura delle valvole semilunari si approfondisce, dà
origine ad un'onda secondaria: l'onda dicrota.
La velocità di propagazione dell’onda sfigmica è molto più
elevata di quella del sangue.
La velocità di propagazione dell’onda sfigmica varia tra
l'aorta e gli altri vasi.
Infatti, la velocità è di 3-5 m/sec in aorta , passa a 7-10
m/sec nelle grandi arterie fino a 15-35 m/sec nelle piccole
arterie (quella del sangue in aorta è di soli 20- 33 cm/sec).
La velocità di propagazione dell’onda sfigmica è
inversamente proporzionale alla distensibilità della parete
vasale (cioè al rapporto fra l’incremento percentuale di
volume e la variazione di pressione trans-murale
responsabile dell’aumento), quindi direttamente
proporzionale alla costante elastica: maggiore è la
costante elastica, più veloce è l'onda.
Per questo, la velocità aumenta con l’età (vasi meno
distensibili) e con la pressione arteriosa media: più la
parete vasale è tesa, minore è la sua distensibilità.
Passando dal clino- all'ortostatismo, alla pressione generata dalla pompa cardiaca si aggiunge in ogni
punto del sistema vascolare la pressione dovuta al peso della colonna sovrastante (pressione
idrostatica).
La pressione a livello del cuore resa constante per via del fatto che ogni aumento della pressione a
questo livello aumenta il riempimento del cuore, che aumenta di conseguenza la sua forza di
contrazione e mantiene a zero la pressione dell'atrio destro. Si definisce un piano di indifferenza
ortostatica, passante per il cuore, a livello del quale la pressione non varia passando dal clinostatismo
all'ortostatismo.
Le pressioni dei vasi al di sopra del piano diminuiscono, mentre quelle al di sotto aumentano rispetto
al clinostatismo. Nei piedi, la pressione venosa sale di 90mmHg; le vene del collo sono schiacciate dalla
pressione atmosferica, collassano e la loro pressione va a zero; mentre le vene del cranio, in particolare i
seni venosi, (dato che sono contenuti in una camera rigida, hanno lume fisso) non possono collassare e
mostrano una pressione negativa (-10mmHg) (per questo c'è possibilità di embolia dopo apertura del
seno sagittale).
Questo fenomeno (piano di indifferenza ortostatica passante per il cuore) non è passivo per il fatto che
la pressione atriale resta zero grazie alla legge di Starling (come già detto, la pressione resta costante
per il fatto che aumenta il riempimento del cuore, aumenta di conseguenza la forza di contrazione e
l'atrio si svuota) e le pressioni a livello del resto del circolo si adeguano.
Quando la pressione delle vene della parte inferiore del corpo aumenta, vengono dilatate e aumentano
di volume (questo avviene meno nelle arterie per via della minor compliance). Quindi, il volume di
sangue nei vasi della parte superiore del corpo diminuisce. È, quindi, la distensibilità dei vasi a
determinare la maggior capacità (e pressione) a livello delle vene dei piedi. Questa ridistribuzione
porta a una riduzione del ritorno venoso, quindi della gittata cardiaca e della pressione arteriosa
(anche in questo caso per la legge di Starling). Se le pareti dei vasi fossero rigide e non elastiche, il
flusso sarebbe costante indipendentemente dall'orientamento in un campo gravitazionale
(dipenderebbe soltanto dal gradiente creato dalla pompa cardiaca): il passaggio all'ortostatismo non
implicherebbe variazioni della pressione arteriosa perche non verrebbero modificati i gradienti
pressori generati dal cuore tra arterie elastiche e camere atriali.
Ad esempio, a livello dei piedi la pressione di arterie e vene aumenta dello stesso valore (90mmHg),
quindi la differenza tra i due distretti rimane costante.
Il ritorno venoso al cuore, che potrebbe risultare difficoltoso, viene promosso dalla contrazione
muscolare, la quale spreme le vene: le valvole unidirezionali impediscono il movimento retrogrado del
sangue, per cui l'azione muscolare determina una spinta del sangue per il cuore. Quest'azione
mantiene la pressione venosa nei piedi a 25mmHg (scenda da 90 a 25mmHg).
Anche i movimenti respiratori possono avere azione analoga. Durante l'inspirazione, la diminuzione
della pressione intra-toracica dilata atrio e vene cave, facilitando il ritorno del sangue alla parte destra
del cuore. Inoltre, l'abbassamento del diaframma aumenta la pressione intra-addominale (il contenuto
delle vene addominali viene spremuto verso il torace). Durante l'espirazione, in cui la pressione intra-
addominale diminuisce, il sangue si sposta dalle vene degli arti nelle vene addominali.
L'ortostatismo prolungato, soprattutto a temperature elevate, produce un aumento della pressione
capillare degli arti inferiori che può superare anche di 90mmHg i valori normali. Questo induce un
aumento di filtrazione con conseguente accumulo di liquido nell'interstizio e perdita di volume
ematico (fino al 15% in 15 minuti, soprattutto se occorre mantenere un abbondante circolo cutaneo in
risposta all'elevata temperatura ambientale). La diminuzione di pressione che ne consegue può
portare a svenimento soprattutto in soggetti predisposti o con problemi valvolari.
Il mantenimento dell'ortostatismo per lunghi periodi, quindi determina la distensione permanente
delle vene (per via della pressione cui sono sottoposte), con incapacità delle valvole di impedire il
flusso verso i piedi. L'azione della pompa muscolare viene vanificata e si accumula sangue nelle vene:
le vene diventano varicose e si sviluppa deficit nutrizionale con edema tissutale.
La valutazione della pressione atriale, che corrisponde alla pressione venosa centrale, può essere
effettuata cateterizzando l'atrio destro. Grossolanamente, si può effettuare una stima ispezionando le
vene del collo: quando le vene nella parte inferiore del collo sono distese, la pressione atriale è circa
10mmHg, se sono distese anche nella parte superiore, la pressione atriale è di 15mmHg.
Le vene contengono il 60% del sangue circolante, per cui sono una riserva in caso di emorragia (in cui
la loro capacità viene diminuita dal simpatico, con conseguente aumento della pressione di
riempimento del sistema circolatorio). Quindi, le vene possono funzionare come serbatoi di sangue che
viene passato agli altri distretti in caso di necessità. Contribuiscono a questo scopo per diverse
centinaia di ml: vene epatiche, grosse vene addominali, plesso venoso sottocutaneo. Inoltre, il
simpatico con il suo effetto inotropo positivo sul cuore determina la diminuzione del volume
telesistolico: il cuore immette più sangue in circolo.
Inoltre, la milza produce la spremitura dei globuli rossi della rete trabecolare della polpa rossa,
aumentando il valore ematocrito dell'1-2%.
• Iperemia attiva
Si definisce iperemia attiva l’incremento del flusso
sanguigno innescato da un aumento del metabolismo
cellulare. L'incremento dell'attività tissutale può aumentare il
flusso anche di 8 volte rispetto ai valori di riposo. La
relazione tra metabolismo e flusso ematico è quasi
esponenziale: la pendenza della relazione aumenta
all'aumentare dell'attività
metabolica, come mostra il
grafico.
Un primo fattore responsabile
dell'iperemia attiva è la caduta locale della concentrazione di ossigeno: se
si perfonde un tessuto con sangue a ridotto contenuto di O 2 si osserva un
aumento del flusso rispetto ai valori basali (grafico della saturazione di
ossigeno del sangue arterioso %).
L'iperemia attiva è sostenuta da due fenomeni che si sviluppano in
parallelo quando aumenta l'attività dei tessuti:
– teoria della richiesta di nutrienti: l'attività fa calare la
concentrazione di diverse sostanze nutrienti metabolicamente attive, la più importante delle
quali (oltre ad acidi grassi e zuccheri) è l'ossigeno. La mancanza di ossigeno può impedire alle
cellule muscolari lisce vasali di mantenere il tono di base, con conseguente vasodilatazione e
aumento del flusso. Normalmente, la saturazione di ossigeno è del 75% nella maggior parte dei
tessuti. Il circolo polmonare fa eccezione in quanto all'ipossia risponde con una
vasocostrizione;
– teoria dei vasodilatatori: il metabolismo aumenta i livelli locali di sostanze vasodilatatrici
(CO2, H+, potassio), le quali determinano aumento di flusso per vasodilatazione della
muscolatura liscia vasale. Altre sostanze coinvolte sono l'acido lattico, il NO di origine
endoteliale, i fosfati, l'istamina rilasciata dai mastociti e l'adenosina formata per idrolisi
dell'ATP.
Il controllo locale agisce soprattutto a livello degli sfinteri pre-capillari (molto sensibili ai fattori
locali), localizzati nei punti in cui i capillari originano dal canale vasale preferenziale che collega
l’arteriola alla venula. A riposo, la maggior parte degli sfinteri è contratta e la rete capillare è ipo-
perfusa. In attività, l’apertura degli sfinteri porta ad un aumento del numero di capillari reclutati.
• Iperemia reattiva
L'iperemia reattiva è l'incremento di flusso ematico in
risposta ad un evento ischemico proporzionale alla sua
durata. Se un tessuto viene sottoposto ad ischemia, il flusso
può aumentare fino a cinque volte. Questo aumento è
dovuto all’accumulo di metaboliti vasodilatatori e al calo
della concentrazione di nutrienti che si verifica nel tessuto
durante l’ischemia. L’iperemia reattiva che si verifica
durante la diastole permette di rifornire di sangue il cuore
dopo che il flusso coronarico al ventricolo sinistro era stato
bloccato dalla contrazione del cuore durante parte della
sistole. Un altro esempio di iperemia reattiva è il rossore
delle mani dopo esposizione a basse temperature.
• Autoregolazione
Il fenomeno di autoregolazione consiste nel fatto che un
tessuto il cui livello di attività metabolica rimane costante
tende a mantenere costante il flusso, reagendo alle variazioni
della perfusione tissutale. Per pressioni comprese tra 60 e 150
mmHg, il tessuto mantiene costante il flusso (e non la
pressione). In pratica, il tessuto mette in atto meccanismi che
mantengano una perfusione sufficiente se essa viene a
mancare e si oppone ad una eventuale perfusione eccessiva.
Questo fenomeno, particolarmente efficiente in situazioni
croniche (in cui le variazioni pressorie si instaurano in un
lungo periodo o comunque il tessuto può rispondere ad esse in
un tempo lungo), è dovuto a meccanismi di natura miogena e
metabolica:
– teoria miogena:
L'aumento della pressione stira la parete delle arteriole e, in
risposta, le cellule muscolari lisce si contraggono
(vasocostrizione) e
aumentano la resistenza
vasale. È probabile che
esistano canali stretch-
dipendenti, i quali, in risposta
al flusso aumentato e al
conseguente incremento
pressorio, si aprirebbero e
permetterebbero l'ingresso
di calcio. Alla vasocostrizione,
quindi, contribuisce la
muscolatura vasale (con
meccanismi intrinseci) e non
l'endotelio o un riflesso
nervoso. Questa modifica
porta alla norma il flusso aumentato in seguito
all'incremento pressorio e la pressione capillare rimane
costante. Un suo aumento dovuto alla distensione passiva
per l'alta pressione arteriosa, infatti, potrebbe portare a
gravi conseguenze.
Se la pressione cala, le cellule muscolari perdono tono, la
resistenza vascolare diminuisce e il flusso incrementa,
compensando gli effetti del calo di pressione.
L'autoregolazione non stabilizza la pressione di perfusione
del circuito vascolare, le cui variazioni sono esaltate dalle
modificazioni di resistenza associate proprio
all'autoregolazione (mentre mantiene costante la pressione dei capillari);
– teoria metabolica:
Modificazioni nelle concentrazioni locali di prodotti del metabolismo e nutrienti, che si verificano in
seguito ad aumenti di pressione non associati a modificazioni dell'attività metabolica, possono
determinare autoregolazione.
Un aumento della pressione produce aumento della perfusione, quindi la concentrazione di anidride
carbonica e di altri prodotti del metabolismo cala. La pCO 2 tende asintoticamente a 40mmHg (valore
che normalmente si ritrova nel sangue arterioso, quindi è come se il tessuto immettesse nel sangue
refluo una quota di CO2 irrilevante) e viene ridotta la risposta vasodilatatrice: la resistenza dei vasi
aumenta e il flusso diminuisce. La vasocostrizione viene favorita anche da un aumento della
concentrazione locale di ossigeno e nutrienti.
In condizioni normali, la pCO2 è 46 mmHg. Se la pressione
diminuisce, si riduce la perfusione, nel tessuto questo
valore aumenta, allora si manifestano effetti
vasodilatatori, mentre si riduce la concentrazione di
ossigeno e altri nutrienti.
Per quanto riguarda l'ossigeno, invece, la pO2 è
normalmente circa 40mmHg, mentre all'aumentare del
flusso tende asintoticamente a 100mmHg (limite massimo
con flusso ematico infinito, come se all'aumentare del
flusso la quota di ossigeno prelevata dal tessuto fosse
irrilevante). L'aumento della disponibilità di ossigeno
determina un aumento del tono muscolare con
conseguente vasocostrizione.
In condizioni di bassa perfusione, invece, i vasi si dilatano
per sia per la teoria dei nutrienti che per quella dei
vasodilatatori.
L'origine di questo fenomeno è il fatto che il tessuto in crescita o il tessuto metabolicamente attivo ad
alto livello per lunghi periodi o il tessuto cronicamente ipossico, produce fattori angiogenetici, come il
fattore di crescita endoteliale, l'angiogenina e il fattore di crescita dei fibroblasti.
Questi ultimi determinano la gemmazione di nuovi vasi da piccole vene o capillari (diventano capillari
o arteriole in relazione alla velocità del flusso di sangue che scorre in esse). Come nel sangue
coesistono fattori della coagulazioni e fattori anticoagulanti, all'interno di un tessuto coabitano fattori
angiogenetici e anti-angiogenetici (angiostatina, derivato del plasminogeno ed endostatina, derivata
del collagene). Normalmente, si equilibrano tra di loro, ma l'equilibrio può spostarsi in una direzione o
nell'altra.
Le sostante anti-angiogenetiche possono avere azione antitumorale, bloccandone le vascolarizzazione.
Le sostanze angiogenetiche, invece, potrebbero essere utilizzate per vascolarizzare un cuore
infartuato: l'applicazione locale di FGF-1 sul cuore di pazienti ischemici migliora la perfusione del
miocardio. Nel circolo coronarico, i fattori angiogenetici sono chiamati spesso in gioco. A livello delle
arterie coronarie, si formano precocemente placche arteriosclerotiche che possono ostruire i vasi
coronarici. La risposta immediata è la creazione di anse vascolari che oltrepassano il blocco e nelle ore
successive si verifica dilatazione. In seguito, il processo angiogenetico ha il compito di creare nuovi
capillari e arteriole per ripristinare il circolo ed evitare il punto di restrizione (processo che continua
per mesi). Se il blocco vasale è lento, il nuovo circolo si sviluppa parallelamente all'ipossia e non si
manifestano sintomi di ischemia. In alcuni casi il meccanismo di ostruzione prosegue finche il
meccanismo di angiogenesi non esaurisce le sue capacità: improvvisamente, la richiesta del cuore
supera l'apporto di sangue e si creano le condizioni per un'ischemia acuta e un infarto (nonostante
abitudini sane).
In caso di malfunzione renale, la perdita di funzionalità deve ridursi di 1/3 per determinare i primi
sintomi. Nel morbo di Parkinson fino al 70% dei neuroni perde la sua funzionalità.
Il massimo dell'adattamento che il nostro organismo è in grado di sviluppare in risposta a processi
patologici è quello che avviene in caso di idrocefalo: nonostante la perdita di connessioni, non si
verifica perdita di coscienza. Una lesione lenta dà all'organismo la capacità di adattarsi e limitare i
danni rispetto ad una lesione improvvisa.
Controllo nervoso
Il controllo nervoso del circolo viene effettuato dal sistema nervoso autonomo, sulla base delle
necessità generali dell’organismo. Mentre il simpatico svolge un’azione generalizzata, il parasimpatico
agisce in modo importante solo su alcuni distretti circolatori.
Le catecolamine sono rilasciate dalle terminazioni simpatiche (rilasciano esclusivamente
noradrenalina) e dalla midollare del surrene (soprattutto adrenalina, ma anche una notevole quantità
di noradrenalina, che giungono a tutti i tessuti attraverso il torrente circolatorio).
Gli effetti dipendono dal recettore con cui interagiscono. A livello post-sinaptico esistono recettori di
tipo α e β, soprattutto α1 e β2.
Producono effetti vasocostrittori legandosi a recettori α1 (e forse anche α2), presenti sulla
muscolatura liscia vasale. Rimuovendo il simpatico, infatti, si verifica vasodilatazione. L'adrenalina,
che ha scarsa affinità per i recettori α, produce vasodilatazione quando si lega ai recettori β2 presenti
sulla muscolatura liscia vasale (non è l'effetto dominante del simpatico). La noradrenalina, molto
affine per il recettore α1, è poco affine al recettore β2.
I recettori α2 sono presenti soprattutto sulle
terminazioni simpatiche (pre-sinaptici, sono
autocettori) e la loro attivazione (per la presenza
di noradrenalina nel vallo sinaptico) diminuisce il
rilascio del neurotrasmettitore (meccanismo di
controllo del rilascio del neurotrasmettitore). Se i
recettori α2 sono post-sinaptici, hanno lo stesso
effetto degli α1 e producono vasocostrizione.
I recettori β2 sono abbondanti in fegato, muscolo
scheletrico e miocardio.
L'adrenalina produce effetti in base alla concentrazione: a basse dosi predomina la vasodilatazione, a
dosi elevate predomina l'effetto vasocostrittorio. Gli effetti dilatatori si manifestano solo dove sono
presenti recettori β2 a sufficienza (se questi ultimi vengono
bloccati, si ha vasocostrizione). Quindi, l'adrenalina lavora su
entrambi i recettori in base alla sua concentrazione.
Se si inietta una bassa dose di adrenalina in circolo (10 µm al
minuto, una concentrazione tanto bassa da non attivare i
recettori α1), si verifica aumento della frequenza cardiaca
(attiva i recettori β1 del cuore, effetto cronotropo positivo) e
della forza di contrazione del cuore, ma anche
vasodilatazione. La pressione sistolica aumenta in quanto
l'adrenalina aumenta la forza di contrazione del cuore. La
pressione diastolica, invece, diminuisce in quanto aumenta
l'efflusso diastolico (l'aorta si svuota di più) poiche
diminuisce la tensione periferica dell'aorta.
L'iniezione di noradrenalina, invece, produce un aumento
della pressione diastolica e di quella sistolica (in parte per
l'aumento della forza di contrazione del cuore, in parte per
l'aumento della pressione diastolica dovuta all'aumento
delle resistenze periferiche). Aumenta fortemente anche la
pressione media. La contrattilità cardiaca aumenta, ma la frequenza, dopo un iniziale aumento,
diminuisce: non si tratta di un'azione difasica della noradrenalina, che ha solo effetto cronotropo
positivo, cioè aumenta la frequenza cardiaca, in realtà la diminuzione è dovuta ad un'azione riflessa
innescata dall'aumento di pressione.
Il rilasciamento del muscolo liscio prodotto dall’attivazione dei recettori noradrenergici β2 è
attribuibile all’aumentata attivazione della pompa che sequestra il calcio nel reticolo sarcoplasmatico,
per via della fosforilazione (a livello del fosfolambano) da parte della PKA, attivata a sua volta
dall’incremento dei livelli di cAMP intracellulare.
Il parasimpatico, a differenza del simpatico, non ha azione generalizzata sul circolo. Mentre il
simpatico è in grado di aumentare la pressione se sale di attività e diminuirla se si abbatte di attività, il
parasimpatico non è in grado, almeno per quanto riguarda gli effetti sul circolo, di svolgere un'azione
cosi diffusa e importante. Il parasimpatico può aumentare la pressione agendo a livello cardiaco.
Sia i neuroni post-gangliari del parasimpatico (che innervano i corpi cavernosi del pene, le arterie piali
del cervello e i vasi coronarici) che quelli appartenenti ad una particolare sezione del simpatico
possono rilasciare acetilcolina in prossimità delle cellule della parete arteriolare.
Questo neurotrasmettitore agisce inducendo una vasodilatazione che non sembra però legata ad
un’azione sulla muscolatura liscia arteriolare, l'azione sembra dipendere invece dall’induzione del
rilascio, da parte dell’endotelio vascolare, di ossido di azoto (NO). Questo gas diffonde rapidamente
inducendo il rilassamento muscolare. L’azione del parasimpatico sulla muscolatura vasale non è
generalizzata, ma ristretta al tessuto erettile (corpi cavernosi del pene, clitoride della donna), dove è
responsabile del meccanismo dell’erezione, alle arteriole piali del cervello e ai vasi coronarici.
La sottosezione del simpatico colinergica è quella che si ritrova nell'innervazione della cute e del muscolo
scheletrico: a livello cutaneo, controlla le ghiandole sudoripare, a livello del muscolo controlla la
muscolatura liscia del vaso. L'attivazione è dovuta a particolari stati emotivi, come paura o ira, oppure
situazioni pericolose del tipo “combatti o fuggi”.
L'azione del parasimpatico viene prodotta prima dell'esercizio fisico per garantire un aumento di
sangue al muscolo prima di quando fosse necessario. In seguito, si è scoperto che l'aumento del flusso
di sangue non riguarda la rete capillare, ma dei canali preferenziali di connessione tra arteria e vena
(la rete capillare è bypassata). Tali effetti potrebbero evitare eccessivi incrementi di pressione legati
alle emozioni. Inoltre, l’azione sui canali preferenziali (diminuzione della resistenza lungo di essi)
potrebbe creare condizioni ottimali per una rapida perfusione tissutale, non appena l’incremento
dell’attività metabolica fa rilasciare gli sfinteri pre-capillari.
Controllo umorale
Il controllo del microcircolo è collegato al controllo della pressione: la vasocostrizione aumenta la
pressione, la vasodilatazione la diminuisce. Inoltre, il controllo della pressione si inserisce nell'ambito
del controllo idro-salino dell'organismo, attuato da una serie di processi fisiologici.
Il primo meccanismo da considerare è quello che riguarda il sistema renina-angiotensina-
aldosterone, che viene attivato quando la pressione diminuisce, dovuto all'azione diretta della
pressione arteriosa sulle cellule dell'arteriola afferente ed efferente (del glomerulo renale). Quando la
pressione diminuisce, le cellule delle due arteriole secernono la renina, che trasforma
l'angiotensinogeno (prodotto dal fegato) in angiotensina I, che viene trasformato dall'enzima
convertente (ACE), espresso soprattutto a livello polmonare, in angiotensina II. Inibendo l'enzima ACE,
viene controllata l'ipertensione: si diminuisce la produzione di angiotensina II.
L'angiotensina II è l'agente vasocostrittore più potente al momento conosciuto (basta 1mg per
aumentare di 50mmHg la pressione arteriosa). Inoltre, ha azioni che agiscono sulla corticale del
surrene, inducendo la produzione di aldosterone. Quest'ultimo, incrementa il riassorbimento di sodio
a livello renale, in modo da espandere il volume del sangue (in quanto il riassorbimento di sodio
determina riassorbimento di acqua). L'angiotensina II ha un'azione integrata per l'accumulo di acqua
all'interno dell'organismo in quanto agisce a livello cerebrale stimolando la secrezione di ormone
antidiuretico ADH (della neuroipofisi), che determina maggior trattenimento di acqua a livello renale
(che deve avvenire in quanto viene riassorbito anche sodio). Se non avvenisse il riassorbimento di
sodio, i liquidi dell'organismo verrebbero diluiti dal riassorbimento di acqua, provocando shock
osmotico.
Il secondo modo mediante il quale l'angiotensina II promuove l'accumulo di acqua riguarda l'azione
sull'ipotalamo che, in comunicazione col sistema limbico, stimola la sete.
Il peptide atriale natriuretico è prodotto dal cuore e viene rilasciato in caso di eccessiva distensione
della parete atriale, cioè quando il volume di sangue è elevato. La dilatazione atriale, da un lato porta
alla secrezione dell'ormone, d'altra parte (tramite recettori da distensione della parete dell'atrio)
agisce a livello ipotalamico riducendo la produzione di ormone ADH.
Occorre considerare anche meccanismi che si attivano durante l'infiammazione e che contribuiscono a
regolazioni fisiologiche.
Le chinine (piccoli peptidi) si formano dalle α2-globuline per azione di enzimi.
La Callicreina, attivata da modificazioni chimico-fisiche del sangue e dall’attività dei tessuti (ad
esempio dalla ghiandola salivare attiva) libera callidina (lisin-bradichinina) dalle α2-globuline. La
callidina è convertita a bradichinina (vasodilatatrice) da enzimi tissutali.
Un microgrammo di bradichinina in arteria aumenta di 6 volte il flusso ematico. L’iniezione
sottocutanea produce edema (la sostanza aumenta la permeabilità vascolare). Ha azione
nell’infiammazione e nel controllo fisiologico del flusso ematico alle ghiandole salivari (agisce a livello
degli sfinteri pre-capillari e garantisce maggior flusso alla ghiandola in attività), a quelle
gastrointestinali e alla cute. Viene inattivata dalla carbossipeptidasi e dall’enzima convertitore
dell’angiotensina (ACE).
Anche l'istamina, prodotta da mastociti e granulociti basofili in condizioni di danno tissutale (o
reazioni allergiche), partecipa al controllo del circolo. Ad esempio, l'attivazione vagale determina un
rilascio dei granuli contenenti istamina. Questa sostanza aumenta la secrezione di acido cloridrico da
parte delle cellule ossintiche, è alla base dello shock anafilattico e induce vasodilatazione. Durante le
reazioni allergiche, invece, determina vasodilatazione e aumenta la produzione di muco a livello dei
bronchioli.
Per quanto riguarda la serotonina, l’azione fisiologica sul circolo non è chiara. Essa è prodotta dalle
piastrine e dalle cellule enterocromaffini e può esercitare effetti di segno opposto. In genere viene
rilasciata in caso di danno vascolare (durante la riparazione tissutale prevale la vasocostrizione).
Agendo direttamente sulla muscolatura liscia essa induce vasocostrizione, mentre, stimolando il
rilascio di autacoidi a livello endoteliale genera vasodilatazione.
Bisogna considerare anche l'attività di cellule spontaneamente attive, che determinano un tono basale
della muscolatura liscia dovuta a fattori intrinseci delle cellule (attività elettrica spontanea o
mantenimento di una certa concentrazione di calcio).
Da considerare è anche la temperatura, che lavora soprattutto nella parte terminale delle arteriole e a
livello degli sfinteri pre-capillari, cosi come gli altri fattori locali.
I fattori nervosi agiscono a livello delle arteriole, mentre gli ormoni circolanti agiscono su entrambi i
livelli indifferentemente.
La muscolatura liscia vasale risente anche delle concentrazioni ioniche del plasma.
L’aumento della concentrazione di calcio produce vasocostrizione, per un’azione diretta sul muscolo
liscio (è l'unico ione il cui aumento determina vasocostrizione). L’aumento della concentrazione di
potassio e magnesio produce invece vasodilatazione, sempre attraverso un’azione diretta sul muscolo
liscio.
Una vasodilatazione è generata anche dall’aumento della concentrazione di citrato e acetato (importanti
intermedi del ciclo di Krebs e dell'ossidazione degli acidi grassi, rispettivamente).
L’acidosi produce vasodilatazione (a causa della produzione di lattato nel muscolo e per la perdita di
potassio verso l'esterno, eventi che hanno luogo durante l'iperemia attiva), l’alcalosi vasocostrizione.
L’effetto dell’alcalosi si rovescia quando l’aumento di pH è assai elevato.
Infine, l’aumento della concentrazione di Na + produce vasodilatazione: quest'effetto sembra però
dovuto al contemporaneo aumento della osmolarità del plasma (aumento dell'osmolarità produce
vasodilatazione in quanto diminuisce il volume cellulare).
Circolo capillare
A livello capillare hanno luogo gli scambi tra sangue e tessuti.
Dopo 6-8 ramificazioni, le arterie diventano arteriole (diametro
inferiore a 20µm).
Dopo altre 2-5 ramificazioni, si passa alle arteriole terminali (da
cui hanno origine i capillari), che possono avere diametro di 5-9µm.
Le arteriole controllano l'afflusso del sangue ai capillare in base a
influssi nervosi.
In alcuni tessuti (soprattutto a livello dei mesenteri), l'arteriola
perde la guaina muscolare e si trasforma in meta-arteriola (canale
di flusso direttamente collegato a una venula, detto canale
preferenziale), da cui hanno origine gli sfinteri pre-capillari, quindi i capillari veri e propri. Non esiste
soltanto questo tipo di disposizione.
Una rete capillare presenta spesso anastomosi artero-venose, che normalmente sono chiuse dalla
contrazione della muscolatura liscia legata ad un elevato tono simpatico. Non è del tutto chiaro il ruolo
e la regolazione di queste anastomosi. Se vengono aperte, si produce un incremento di flusso (che
percorre una via a bassa resistenza), che però non si traduce in una maggiore vascolarizzazione del
tessuto, perche la rete capillare diventa poco perfusa: la maggior parte del sangue passa direttamente
dall'arteria alla vena. Le anastomosi non vanno confuse con i canali preferenziali che collegano le
arteriole alle vene.
I capillari sono formati da un unico strato di cellule per conferire uno spessore inferiore ai 0.5µm,
distanza di diffusione ottimale per garantire gli scambi. Il numero di capillari messi in parallelo è
enorme e raggiunge una superficie totale di 500-700m2. La distanza massima tra una cellula e il
capillare è 30µm.
La dinamica della rete capillare è intermittente a causa
della vasomozione. La vasomozione è la ciclicità
dell'apertura degli sfinteri precapillari, che quindi non si
aprono o chiudono in maniera graduale, ma sono cercini
ad attività contrattile periodica. In questo modo, il flusso
attraverso la rete capillare conosce momenti di stasi
alternati a momenti di rapido passaggio del sangue. I
fenomeni di chiusura ed apertura hanno una certa
frequenza temporale: il capillare viene bloccato al flusso
circa 6 volte al minuto e l'apertura viene garantita per 7-8
secondi.
Si può ricostruire la funzione originale sommando un
numero elevato di registrazioni e costruire una curva
sinusoide. La componente dominante è quella che registra
6 cicli al minuto.
La durata dell'apertura degli sfinteri aumenta al diminuire
della pO2 e viene modulata da fattori locali. Se si blocca la
sintesi di ossido di azoto, infatti, la chiusa dei capillare
aumenta e l'attività dominante si sposta da 6 a 9.
Tipologie di capillari
Dal punto di vista anatomo-funzionale, si distinguono:
- capillari continui: possono essere totalmente impermeabili alle sostanze idrosolubili
(capillari cerebrali, barriera emato-encefalica) o permeabili (muscolo). La permeabilità alle
proteina è ovunque piuttosto basta, per cui esse restano essenzialmente all'interno del
capillare. La lamina basale è ben sviluppata e le cellule endoteliali sono collegate da giunzioni
serrate, da cui dipende la permeabilità;
- capillari fenestrati: lamina basale sviluppata e continua. Le fenestrature garantiscono
abbondante passaggio di acqua ma non rendono il capillare permeabile a grosse molecole di
natura proteica, che rimangono poco capaci di attraversare il capillare. L'elemento limitante, in
questo caso, non è la giunzione tra le cellule endoteliale, ma la lamina basale, che funge da
filtro. Esempi sono il rene e le ghiandole esocrine;
- capillari discontinui: la membrana basale è discontinua e attraverso le giunzioni tra cellule
endoteliali possono passare tutte le molecole presenti nel sangue. Si tratta della situazione di
fegato (passaggio delle proteine), milza e del midollo osseo.
Alla base degli scambi tra tessuto e sangue c'è il meccanismo della diffusione: i nutrienti passano dal
capillare al tessuto, cosi come i metaboliti passano dalla cellula al sangue secondo gradiente di
concentrazione.
La legge di Fick postula che la quantità di sostanza che si sposta nel tempo (J) è proporzionale all'area
di superficie di scambio (A), al gradiente di concentrazione e inversamente proporzionale allo
spessore della membrana endoteliale (X), ovvero la distanza da percorrere.
D è la costante di diffusione o coefficiente di permeabilità, che dipende dalla natura del mezzo in cui
avviene la diffusione (acqua) e soprattutto dalla natura della molecola che diffonde.
J = -DA ΔC/ΔX
La diffusione può essere influenzata da qualunque fattore influenzi la distanza da percorrere, la
differenza di concentrazione e la superficie di scambio.
Ad esempio, la distanza da percorrere nel capillare a livello polmonare è data dallo spessore
dell'endotelio capillare e della parete dell'alveolo, quindi l'accumulo di sostanze tra i due diminuisce
gli scambi.
Le sostanze liposolubili attraversano tutta la membrana, quelle idrosolubili e l'acqua, anche se
possiedono meccanismi di trasporto, passano attraverso le giunzioni tra le cellule (trasporto
paracellulare). Le sostanze idrosolubili possono anche usufruire di meccanismi di trasporto
transcellulari, che utilizzano molecole trasportatrici. Nei capillari cerebrali questa è l’unica via di
accesso delle sostanze idrosolubili al cervello.
I pori tra le cellule endoteliali sono tali da permettere al massimo il passaggio di poche proteine a
basso peso molecolare, infatti i diametri sono di 6-7nm (superiore a quello dell'albumina, inferiore a
quello delle proteine ad alto peso molecolare). Le proteine di grosso peso molecolare, in quantità
ridotte, passano attraverso i meccanismi di micropinocitosi, che addirittura possono formare canali
vescicolari. Le fibre presenti nei pori rendono bassa la permeabilità all'albumina, che quindi tende a
restare nel capillare.
Struttura dell'interstizio
L'interstizio tra una cellula e l'altra non è liquido, ma gelatinoso. L'elemento dominante è l'acqua, che
non è libera, ma inserita in un gel in cui idrata filamenti di proteoglicani, formati da uno scheletro
proteico e GAG (glicosamminoglicani). L'acqua libera non coordinata alle molecole di proteoglicani
corrisponde a circa l'1% dell'acqua interstiziale, che aumenta in caso di edema. Il fatto che l’acqua sia
intrappolata nel gel è molto importante, perche, se fosse mobile, la gravità ne favorirebbe l’accumulo
nella parte inferiore del corpo.
L'interstizio è formato da una matrice solida, composta da fibre collagene e filamenti di proteoglicani
(composti per il 98% da glicosaminoglicani e per il 2% da proteine).
Si ritrovano quattro tipi di glicosaminoglicani: l’acido ialuronico, il condroitinsolfato
(dermatansolfato), l’eparansolfato e il cheratansolfato. Gli aggregati proteoglicanici sono composti da
un filamento centrale di acido ialuronico, cui sono uniti, in maniera non covalente, grazie alla
mediazione di proteine di collegamento, catene laterali proteoglicaniche, formate da un filamento
proteico centrale da cui si dipartono i residui di glicosaminoglicani.
Gli scambi avvengono anche con i vasi linfatici, che drenano l'interstizio (circa 2ml al minuto) per
riportare poi il ricavato all'interno del circolo venoso. I linfatici impediscono eventuali accumuli di
acqua.
Lo scambio di sostanze tra capillari e tessuti dipende dai gradienti di concentrazione e una quota dello
spostamento dei soluti è dovuto a un meccanismo di trascinamento (solvent drag): il movimento di
acqua tra capillare e interstizio trascina una quota di soluti disciolti in essa (quota inferiore rispetto a
quella che si sposta per diffusione).
Il movimento di acqua tra capillare e interstizio è generato dalle pressioni di Starling. In particolare, le
forze di Starling e le loro azioni sono:
– la pressione idrostatica del capillare (Pc) spinge il liquido nell'interstizio;
– la pressione del liquido interstiziale (Pi) del liquido interstiziale ha la funzione opposta e
spinge l'acqua dall'interstizio al capillare.
Il primo movimento è la filtrazione dal capillare all'interstizio,
il secondo è il riassorbimento.
La pressione colloido-osmotica, ovvero la quota di pressione
osmotica dovuta alle proteine, ha un ruolo importante. La
pressione osmotica, di per se, non genera movimento in
quanto i due liquidi sono iso-osmotici. Invece, la
concentrazione di proteine nel plasma è maggiore di quella
dell'interstizio: la presenza di proteine del plasma assorbe
acqua dall'interstizio (riassorbimento).
– La pressione colloido-osmotica dell'interstizio (πi) determina filtrazione;
– la pressione colloido-osmotica del capillare (πc) favorisce il riassorbimento.
La pressione colloido-osmotica può essere considerata costante lungo il capillare (poiche le sue
variazioni sono opposte tra la prima e la seconda parte del capillare, il suo valore medio non cambia).
Inoltre, si possono considerare costanti anche la pressione colloido-osmotica del liquido interstiziale e
la pressione idrostatica dell'interstizio.
L'unica pressione che cambia è la pressione del capillare:
inizialmente, a livello arteriolare è a 30-40 mmHg, nell'estremo
venoso è di circa 10-15 mmHg.
Nella porzione arteriolare, quindi, predomina la filtrazione, mentre
nel ramo venoso predomina il riassorbimento di liquido
dall'interstizio al capillare.
La pressione del liquido interstiziale è negativa, ovvero inferiore a quella atmosferica. Non è stato
possibile identificare un valore standard, l'unico riferimento comune nei diversi esperimenti è che i
valori sono negativi, compresi tra -1 e -6mmHg.
Una metodologia per misurarla è l'incannulazione diretta del tessuto mediante capsula forata
impiantata. Al centro della capsula forata si forma una cavità piena di liquido in equilibrio con
l'interstizio, in cui proliferano le cellule. Misurando la pressione a livello della capsula, si otterrà un
valore negativo.
Questo vale per tutti gli organi tranne quelli situati in involucri rigidi (come cervello, nella scatola
cranica, e il rene, nella capsula fibrosa). Infatti, le cavità rigide determinano pressioni: in questi organi,
le pressioni sono positive, ma minori rispetto alla pressione esercitata dall'involucro.
La pressione del liquido cerebrospinale, ad esempio, è di 10mmHg (indice della pressione esercitata
dalla dura madre), quella esercitata dalla capsulare renale è 13 mmHg: le pressioni degli interstizi
però sono rispettivamente 4-6 e 6 mmHg.
Nell'interstizio, quindi, c'è una pressione inferiore a quella che l'ambiente genera sul tessuto (regola
generale). Considerando le cavità piene di liquido in equilibrio con l'interstizio (spazio sinoviale
articolare, epidurale, pleurico), la pressione è inferiore a quella atmosferica (rispettivamente -4/-6
mmHg nello spazio
sinoviale, cosi come nello
spazio epidurale e -8 in
quello intra-pleurico).
All'origine della pressione
negativa interstiziale vi è il
drenaggio linfatico: la
pressione diventa inferiore a
quella atmosferica grazie
alla suzione (drenaggio).
La pompa linfatica drena
continuamente il liquido
dall'interstizio, abbassa la
pressione e compatta il
tessuto, conferendo una
pressione inferiore a quella
che agisce dall'esterno. La pressione negativa porta alla coesione dei tessuti corporei.
La pressione oncotica del plasma è dovuta alle proteine plasmatiche e ai cationi trattenuti da esse
(effetto Donnan). La pressione oncotica totale del plasma è di circa 28 mmHg, determinata da una
concentrazione di proteine di 7.3g/100ml. Si stima che le proteine contribuiscano a generare 19mmHg
di pressione, mentre i restanti 9mmHg sarebbero dovuti all'effetto Donnan. Della quota dovuta alle
proteine, un ruolo fondamentale è giocato dalle albumine.
La pressione oncotica dell'interstizio dipende dalla concentrazione delle proteine a questo livello.
Se la permeabilità del vaso è elevata (come nel capillare epatico) alle proteine, allora la concentrazione
nel tessuto delle proteine sarà uguale a quella del plasma, per cui la pressione oncotica sarà uguale in
entrambi i compartimenti. In zone in cui la permeabilità è bassa (come nel cervello), la concentrazione
di proteine nell'interstizio sarà bassissima (quindi anche la pressione oncotica).
In generale, la membrana capillare è poco permeabile alle proteine, per cui la pressione oncotica
dell'interstizio è minore di quella capillare.
Le forze di Starling sono quelle che generano la filtrazione o il riassorbimento (determinano la
pressione netta di filtrazione).
Le forze dominanti che producono filtrazione sono, a livello del polo arterioso, la pressione
idrostatica del capillare e la pressione oncotica del liquido interstiziale. Per convenzione, queste forze
sono indicate con il segno positivo.
Calcolando la pressione netta di filtrazione ΔP, si osserva che la pressione idrostatica capillare è di
circa 30 mmHg (positiva, produce filtrazione), la pressione oncotica dell'interstizio è un valore medio
calcolato da Guyton sulla base della quantità di proteine contenute nell'interstizio e il volume
dell'interstizio (3g/dL), pari a circa 8 mmHg.
Le forze che generano riassorbimento sono la pressione idrostatica dell'interstizio, circa -3mmHg
(valore medio tra -1 e -6mmHg) e la pressione colloido-osmotica del capillare, che è -28 mmHg:
ΔP = Pc + πi - Pi -πc = 30 + 8 - (-3) - 28 = 13 mmHg
La pressione nell'interstizio non è negativa in realtà, è solo inferiore a quella a quella atmosferica
(presa come riferimento, valore 0, che è 760 mmHg), in quanto vale 757 mmHg.
Aumentando la pressione del liquido interstiziale, si produce riassorbimento.
La pressione netta di filtrazione a livello arteriolare è 13mmHg che produce un flusso di 16 ml/min in
tutto il corpo di liquido che si sposta dal sangue all'interstizio (circa lo 0.5% del plasma).
Verso l'estremo venoso, prevalgono le forze che producono il riassorbimento, indicate con il segno
negativo (pressione oncotica del capillare e pressione idrostatica del liquido interstiziale).
ΔP = Pc + πi - Pi -πc = 10 + 8 - (-3) – 28 = -7mmHg
La pressione netta di riassorbimento è 7 mmHg, e il riassorbimento totale è di circa 14 ml/min, quasi
la stessa quantità prodotta dalla più alta pressione di filtrazione: questo vuol dire che l'estremo venoso
è più permeabile (un gradiente di pressione più basso, ovvero 7mmHg rispetto ai 13mmHg a livello del
polo arterioso, riesce a generare un flusso quasi pari a quello che si produce con la filtrazione).
La quota non riassorbita corrisponde quindi a 2 ml/min in tutto il corpo, che non possono rimanere
nell'interstizio (si gonfierebbe, riducendo il volume del sangue) per cui vengono continuamente
drenati nei vasi linfatici che li pompano nel circolo venoso. Se il drenaggio viene meno, l'equilibrio
viene sconvolto (2ml al minuto implica un accumulo di 12 ml in un'ora, 1.2L in dieci ore).
Si può definire un coefficiente di filtrazione CF, indicato come il rapporto tra filtrazione netta
(ml/min) e pressione di filtrazione media (mmHg). La pressione di filtrazione media si ottiene
ponendo nell'equazione il valore 17.3 mmHg (pressione media) al posto del valore Pc
ΔP medio = Pc media + πi - Pi - πc = 17.3 + 8 - (- 3) – 28 = 0.3 mmHg
Visto che la filtrazione netta è pari a 2ml/min:
CF = 2ml/0.3mmHg = 6.67 ml/min/mmHg
Edema
Quando l'equilibrio viene alterato, si accumula liquido nell'interstizio, determinando edema
interstiziale. Se l'acqua si accumula nella cellula, si verifica edema cellulare.
L'edema cellulare avviene, ad esempio, quando il tessuto non è abbastanza irrorato dal sangue, la
pompa sodio/potassio funziona meno. In ogni caso, il blocco del metabolismo determina che il sodio di
accumuli nella cellula e si crei squilibrio osmotico, per cui la cellula si gonfia.
L'edema cellulare può essere dovuto anche all'infiammazione, la quale aumenta la permeabilità delle
membrane cellulari, aumentando i flussi ionici in ingresso che tendono ad aumentare l'osmolarità
della cellula e a richiamare acqua dall'interstizio. Quando l'acqua si accumula nelle cellule (anche per
l'aumento di permeabilità nella membrana), il tessuto è compatto e resistente alla pressione.
L'edema interstiziale si sviluppa in seguito a blocco del sistema linfatico o per variazioni nelle forze
di Starling, ad esempio per aumento di filtrazione:
Volume filtrato = Kt (Pc - Pi - πc + πi)
Dove Kt è il coefficiente di permeabilità idraulica del capillare.
Quindi, il volume di acqua che viene filtrato nell’interstizio (V) dipende dalla pressione capillare (Pc),
dalla pressione interstiziale ( Pii), dalla pressione oncotica capillare (Πc), da quella interstiziale ( Πi),
nonche dalla permeabilità idraulica del capillare.
L'aumento della pressione capillare aumenta la filtrazione, cosi come l'aumento del coefficiente di
permeabilità. Per questo l'edema si può formare se aumentano la pressione capillare, il Kt o la
pressione oncotica dell'interstizio oppure se diminuiscono la pressione interstiziale o la pressione
oncotica del capillare.
Uno scarso apporto di proteine dovuto a malnutrizione determina edema con accumulo di liquido
intraperitoneale: se non ci sono proteine, la concentrazione di proteine plasmatiche diminuisce.
Inoltre, il sistema linfatico può essere distrutto da alcuni parassiti con conseguente ingrossamento
degli arti interessati dalla patologia (elefantiasi).
In un soggetto a riposo, si può osservare un flusso a riposo nei diversi tessuti. Durante l'attività fisica, il
muscolo scheletrico necessita di un maggior
apporto di sangue (da 1.18 L a 22.5 L), il
cervello e la cute hanno ancora bisogno di un
flusso di sangue adeguato, cosi come il cuore.
Nel rene, nell'apparato intestinale e in altri
tessuti vengono tagliate le risorse: ricevono
meno sangue.
Quando invece la pressione diminuisce (ad
esempio per una perdita di sangue), si verifica una sofferenza generalizzata di tutti i tessuti. Il
meccanismo di compensazione ha il compito di ripristinare il flusso nei tessuti importanti e, solo se le
risorse lo consentono, vengono accontentati tutti i tessuti.
Le condizioni del sistema circolatorio vengono controllate dal simpatico (cuore e vasi) e dal
parasimpatico (controlla solo alcuni distretti vasali, e il cuore). Il simpatico controlla arterie e vene.
Il controllo del sistema simpatico parte dal centro vasomotore.
Il centro vasomotore è composto da una regione rostrale, l'area vasocostrittrice C1, che proietta al
midollo spinale ed eccita i neuroni pre gangliari del simpatico (situati nella colonna intermedio-
laterale del midollo), determinando vasocostrizione.
Quest'area viene inibita dall'area vasodilatatrice A1 (regione caudale del centro vasomotore), che
inibisce C1 e riduce il tono eccitatorio sul simpatico.
A causa di proprietà pacemaker, l'attività dell'area C1 è tonica e continua. Quindi, il simpatico ha
azione tonica vasocostrittrice (mediante recettori α1).
L’ attività tonica del centro vasomotore è in parte dovuta ad un’attività pacemaker dei suoi neuroni e
sostiene il tono vasocostrittore simpatico (o tono vasomotore). Infatti, i neuroni del centro vasomotore
eccitano i neuroni preganglionari del sistema simpatico, contribuendo notevolmente alla loro scarica
tonica e, di conseguenza, a quella dei neuroni postganglionari, che mostrano una frequenza di 0.5-2 Hz.
Nel nucleo motore dorsale del vago e nel nucleo ambiguo (area cardio-inibitrice) si trovano i neuroni
pregangliari del parasimpatico.
Il nucleo del tratto solitario, area A2, riceve afferenze periferiche ed esercita un controllo sulle altre
aree, per regolare la pressione.
Se si interrompe la connessione tra l'area C1 e i neuroni del simpatico (come in anestesia spinale
totale), crolla la pressione arteriosa da 100 a 50mmHg (i vasi si dilatano).
Bloccando il segnale dal bulbo, i motoneuroni del diaframma smettono di scaricare e si verifica paralisi
respiratoria.
I recettori che arrivano fino al nucleo del tratto solitario sono i barocettori arteriosi. Essi informano
sulla pressione arteriosa in quanto sono sensibili alla distensione della parete vasale.
Questi recettori sono il seno carotideo e il seno aortico, che hanno una scarica tonica inviata al
cervello rispettivamente dal nervo glossofaringeo (tramite il nervo di Hering) e il vago (nervo di
Cyon).
Quando la pressione diminuisce, la scarica dei barocettori diminuisce e a livello centrale viene
modificata l'attività autonomica: si aumenta l'attività del simpatico e si diminuisce quella del
parasimpatico, in modo da aumentare la pressione.
Quando la pressione aumenta, la scarica barocettiva aumenta e a livello centrale si determina un
aumento dell'attività del parasimpatico, e una diminuzione di quella del simpatico.
Si costituisce un sistema a feedback negativo per la
regolazione della pressione arteriosa.
Barocettori
All'aumento della pressione arteriosa, si registra aumento della scarica barocettiva (i barocettori sono
recettori da stiramento, risentono dello stiramento della parete vasale). Alla pressione di 40 mmHg il
recettore non scarica, a pressioni superiori la scarica aumenta progressivamente.
In realtà, però, la pressione è pulsatoria durante il ciclo cardiaco e il barocettore ha notevole
sensibilità dinamica, cioè è sensibile alla velocità con cui la pressione varia.
Durante il ciclo cardiaco, mostrano un picco di scarica durante la sistole e una pausa durante la
diastole (o la sua ultima parte). All'aumentare della pressione media, il periodo di silenzio si riduce
fino a scomparire del tutto. Alla pressione di 180 mmHg la scarica è costante (non è sensibili a ulteriori
stiramenti).
Se si considera la media della frequenza di scarica durante un ciclo cardiaco con una pressione media
di 100mmHg ma con profilo pressorio normale, si osserva che questa risposta di scarica è maggiore a
quella che si otterrebbe in risposta a una pressione costante. Questo avviene perche il barocettore ha
sensibilità dinamica: non è sensibile solo alla distensione (di quanti micron si allarga l'arteria), ma
anche alla velocità di allargamento (micron al secondo), per cui la scarica barocettiva durante il ciclo
cardiaco è più alta di quella che ci sarebbe se avessero solo sensibilità statica.
Considerando una fibra del seno carotideo che scarica durante i normali cicli cardiaci, se si smorza la
pressione pulsatoria mantenendo la pressione costante nel nodo del seno, la scarica barocettiva
diminuisce.
A livello normale di pressione, i recettori scaricano di più durante la sistole e la scarica diminuisce
durante la diastole. L'attività parasimpatica aumenta all'aumentare della pressione e diminuisce al
diminuire della pressione. Il simpatico, in maniera opposta, aumenta la frequenza di scarica alla
diminuzione della pressione e diminuisce all'aumento della pressione.
I barocettori sono il sistema più popolare nel controllo della pressione e verosimilmente anche nel
controllo immediato della pressione, ma non sono l'unico sistema.
Chemiocettori
I chemiocettori si ritrovano nei glomi aortici e carotidei. Questi recettori sono tra i tessuti che
consumano 2.4L di sangue per mg di tessuto (per cui sono tessuti molto piccoli, il nostro organismo
non si può permettere di averne molti). Sono localizzati al di fuori del vaso, nel tessuto intorno al vaso.
I chemocettori sono collegati a fibre la cui scarica aumenta quando:
- diminuisce la pressione parziale dell'ossigeno nel sangue;
- aumenta la pressione parziale dell'anidride carbonica;
- diminuisce il pH.
Queste fibre risentono anche del calo della pressione. Normalmente, quando vengono stimolate dal
calo pressorio, è necessario che la pressione scenda al di sotto di 80 mmHg affinche la scarica dei
recettori si modifichi. Queste fibre sono prevalentemente rivolte al controllo del respiro, ma agiscono
anche sul sistema circolatorio.
La loro stimolazione tende ad aumentare la pressione contribuendo all'aumento di pressione cui si va
incontro quando si sale di quota. L'aumento della pressione è dovuto soprattutto a vasocostrizione
(che risparmia i tessuti importanti, cervello e cuore). Mentre nel riflesso barocettivo la vasocostrizione
si accompagna ad aumento di frequenza cardiaca, questo riflesso provoca bradicardia. Allo stesso
modo, durante l'immersione (la pressione parziale dell'ossigeno cala), si verifica il riflesso da
immersione (vasocostrizione generalizzata e bradicardia). Il riflesso da immersione non è dovuto
solo ai chemiocettori, ma parte da una stimolazione tattile e termica (l'acqua fredda sul viso basta a
determinare vasocostrizione e bradicardia).
I chemiocettori aumentano la ventilazione (non in immersione, ovviamente) in condizioni normali,
provocando iperpnea. In questo modo, si attivano altri recettori che agiscono anche sulla frequenza
cardiaca, producendo tachicardia. Molto spesso, quindi, l'effetto bradicardizzante di questi barocettori
è nascosto dagli effetti tachicardici dovuti all'aumento di ventilazione. Lo stimolo chemiocettivo
produce un aumento dell'intervallo R-R (tra onda R e successiva, periodo tra un battito e l'altro)
transitorio (l'iperventilazione attiva altri recettori che sopprimono e rovesciano la bradicardia).
Recettori cardiopolmonari
I recettori cardiopolmonari sono una classe di barocettori eterogena. All'interno di questa classe, si
conoscono bene sono due tipi di recettori,
quelli localizzati negli atri.
Questi recettori sono localizzati anche
nell'endocardio ventricolare e in arterie e
vene polmonari. I due tipi di recettori
degli atri sono:
- recettori di tipo A: mentre nel
classico barocettore aortico la
scarica si riduce in diastole e
aumenta in sistole, i recettori di
tipo A scaricano durante l'onda A
(contrazione dell'atrio);
- recettori di tipo B: scaricano
durante l'onda Y, che corrisponde
al riempimento diastolico del
ventricolo.
La scarica di questi recettori dipende dal
grado di riempimento della parete atriale.
Il loro ruolo è importante nella
regolazione della pressione soprattutto
quando sono implicate variazioni del
volume (come in trasfusioni, che
aumentano il ritorno venoso, l'attività del
cuore e quindi la pressione). Più
correttamente, infatti, possono essere
definiti volumo-cettori (risentono della
massa circolante).
Questi recettori producono azioni che si
oppongono all'aumento di pressione.
Dopo infusione di 300 ml di sangue in
animale da esperimento, la pressione
aumenta di 15 mmHg. Denervando i
barocettori arteriosi, dopo infusione di sangue la variazione di pressione è raddoppiata (50 mmHg).
Denervando i recettori atriali di tipo B, l'incremento di pressione è enorme (120 mmHg). Questo
effetto sembra dipendere principalmente dai recettori di tipo B.
Quando il circolo va incontro a grosse variazioni di volume di sangue, questi recettori modificano la
loro scarica e impediscono variazioni pressorie consistenti.
⦁ La scarica aumenta quando l'atrio si dilata, diminuisce quando si riduce di volume. Infatti, i recettori
di tipo B riducono la pressione quando sono stimolati e la aumentano quando la loro scarica
diminuisce.
Rispetto ai barocettori, come è evidente dal grafico, sono sensibili a minime variazioni del volume
ematico, mentre i barocettori arteriosi rispondono solo a variazioni maggiori del volume ematico.
Questo indica che la maggior parte della compensazione alla variazione di volume viene effettuata in
anticipo, prima che la variazione di volume influenzi la pressione.
L'azione di questi barocettori è integrata ed è coinvolta nel controllo dell'equilibrio idrosalino.
La loro azione vasodilatante è importante a livello renale, in cui viene aumentata la filtrazione, quindi
aumenta l'escrezione urinaria. Il volume del sangue aumentato viene scaricato a livello renale.
Attivando i recettori atriali, oltre a
vasodilatazione dovuta a riduzione della
scarica simpatica, si verifica un altro effetto
sul rene: il simpatico, sul rene, non
controlla solo la muscolatura vasale, ma
anche la produzione di renina (sistema
renina-angiotensina-aldosterone).
Diminuisce, quindi, rilascio di renina (la
scarica simpatica stimola il rilascio di
renina) e diminuisce il riassorbimento di
sodio a livello renale (perche c'è meno
angiotensina I, meno angiotensina II e
meno stimolazione sull'aldosterone).
Essendoci meno angiotensina II, viene
stimolato meno l'ipotalamo e diminuisce la
produzione di ormone antidiuretico. Oltre a
questo, la scarica barocettiva atriale agisce
direttamente sull'ipotalamo riducendo il rilascio di ormone antidiuretico.
Si tratta quindi di un'azione generalizzata integrata con focalizzazione sul rene.
Gli effettori del riflesso barocettivo sono tre, ma in realtà il riflesso barocettivo agisce anche sulla
muscolatura addominale, coinvolta nel controllo della pressione.
La spremitura delle vene degli arti inferiore facilita il ritorno venoso al cuore aumentando la
pressione. La spremitura delle vene addominali alla contrazione dei muscoli addominali (che
aumentano la pressione addominale) permette il passaggio di sangue nella vena cava inferiore,
contribuendo a mantenere alta la tensione. Infatti, in caso di paralisi muscolare si va incontro a
ipotensione.
Nel riflesso barocettivo, oltre all'attivazione del simpatico, (anche quando vengono attivati i
chemocettori) aumenta la contrazione della muscolatura addominale, contribuendo ad aumentare la
pressione. Questa attivazione avviene quando la pressione diminuisce per stimolazione dei barocettori
o per stimolazione dei chemocettori.
Variazioni periodiche dei tracciati pressori
La variazione periodica della pressione è quella del ciclo sisto-diastolico (periodicità di 70 cicli al
minuto).
Si possono trovare variazioni dovute alla periodicità del respiro
(12 cicli al minuto), dette onde respiratorie. Queste onde
possono avere ampiezza anche di 5-20 mmHg. Questi eventi
sono stati registrati già agli inizi del 1900 da uno strumento
detto chimografo.
Il picco pressorio si verifica durante la prima fase
dell'espirazione. Può esserci un accoppiamento del centro
respiratorio (che genera l'attivazione periodica della
muscolatura respiratoria) con il centro vasomotore, per cui le
azioni del centro respiratorio possono farsi risentire sul centro
vasomotore. I recettori dell'atrio destro risentono della
distensione della parete atriale, che si distende durante
l'ispirazione. Altri recettori sono sensibili alle variazioni di volume polmonare, influenzando il centro
vasomotore.
Un altro elemento importante sono le variazioni del volume di sangue all'interno dei polmoni. Durante
l'inspirazione, il volume di sangue a livello polmonare aumenta (aumenta la capacità delle vene) e può
ridurre l'uscita a livello dell'atrio sinistro. Durante l'espirazione, il volume di sangue nel polmone si
riduce e viene spremuto maggiormente nell'atrio sinistro. Una qualunque variazione del genere può
generare conseguenze a livello del centro vasomotore.
Altre onde sono quelle vasomotorie o di Meyer, non sempre visibili, con ampiezza di 10-40mmHg.
Queste onde hanno periodicità più bassa di quella del respiro (periodo di 7-10 secondi), quindi non
sono dovute all'attività respiratoria, ma sono attribuibili a una variazione del circuito di controllo della
pressione arteriosa.
Il circuito più importante è quello barocettivo, ma in generare questi circuiti di controllo producono
variazioni di pressione di segno opposto a quelle che hanno attivato il sistema: feedback negativo,
risposta che annulla ciò che ha generato il segnale.
Questi circuiti, sono caratterizzati da attività tonica continua e da ritardi di conduzione. Messi insieme
l'attività tonica, il ritardo di conduzione e il meccanismo a feedback si realizza un circuito che presenta
una potenziale instabilità. Quando il guadagno (rapporto tra risposta e segnale che l'ha generato) è
molto elevato, il circuito comincia a oscillare, e determina tremore della pressione, oscillazione
pressoria (proprio come si verifica tremore se viene interessato il circuito motorio).
Ricordare che il mantenimento della pressione costate serve a mantenere costante la perfusione degli
organi vitali (non di tutti gli organi).
PRESSIONE
Gli effetti dell'infusione di sangue (dopo blocco dei riflessi barocettivi) provocano aumento della
pressione arteriosa, che si estingue in poco tempo per aumento del flusso urinario (che fa scendere la
gittata cardiaca ai livelli di controllo). Questo dimostra che la regolazione a livello renale a lungo
termine è fondamentale ed efficiente.
I problemi insorgono al momento dell'alterazione della funzionalità renale.
Se la capacità escretoria diminuisce, ad
esempio, per eliminare la normale quantità di
acqua e sale occorrono 150 mmHg e la
pressione si sposta, può essere alterata da
alterazioni della funzionalità renale. Il
meccanismo di regolazione fa in modo che le
malattie renali alterino la pressione arteriosa.
Un cambiamento della dieta (assunzione
eccessiva di acqua e sale) può aumentare
l'escrezione di acqua e sali, e la pressione da
mantenere sarebbe 160mmHg. Deve esistere
quindi un meccanismo che impedisca che la
pressione di modifichi in seguito a variazioni
della dieta: si tratta di un meccanismo che
permette di modificare la curva
dell'escrezione renale in relazione al cambio di
dieta.
Un aumento di pressione viene tamponato dalle
modificazioni renali di acqua e sali. La pressione può essere
alterata da due fattori:
– diminuzione o aumento della capacità escretoria
renale: la curva che lega la pressione arteriosa e
l'escrezione si sposta verso destra o verso sinistra.
Per eliminare la stessa quantità di acqua e sali che il
rene eliminava normalmente, è necessaria una
pressione arteriosa maggiore (il grafico A mostra il
caso dello spostamento a destra della curva di
eliminazione renale su un livello di pressione più
elevato);
– aumento dell'assunzione di acqua e sali:
normalmente, modificazioni della dieta con
aumento di apporto di acqua e sali non determinano
conseguenze notevoli (grafico B).
Se l'assunzione idrosalina aumenta in un soggetto normale, invece, l’aumento della pressione dovuta
ad un’espansione del volume del LEC (causato dall'aumento dell’assunzione idro-salina) comporta
l’insorgenza di un meccanismo regolatorio che aumenta l’escrezione di acqua e sali, spostando verso
sinistra la curva escrezione/pressione.
In caso di cambiamento della dieta, quindi, la curva della diuresi pressoria, a rene funzionante, si
sposta perche il rene diventa molto più capace di eliminare acqua e sali a pressioni normali: fino a una
quantità di acqua e sali 4 volte superiore a quella normale ad una pressione di 100mmHg. Questo
avviene grazie a un controllo di natura nervosa e umorale.
Un carico idrosalino (dieta salata per una settimana) in soggetti
resistenti e non resistenti ai sali tutti normo-tesi provoca un
evidente aumento di peso per accumulo di liquidi e sale
(cambiamento del 3%). L'aumento dell'escrezione si sviluppa
con una certa lentezza.
– Peso corporeo, grafico E: l'accumulo di liquidi
immediato e decisivo (aumento di peso) dimostra che
ancora non si è aumentata l'escrezione. Si espande il
volume del liquido extracellulare e il volume del sangue,
ma il meccanismo che sposta la curva della funzione
renale non è immediato;
– Accumulo di sodio, grafico D: accumulando 600mmol
di sodio, visto che la concentrazione di sodio nel liquido
extracellulare è di 140mmol/L, si accumulano 4 L di
liquido (questa relazione permette di valutare
l'incremento del peso corporeo in funzione del sodio
accumulato);
– Gittata cardiaca, grafico C: la gittata cardiaca
incrementa, raggiunge un picco e poi inizia a declinare;
– Pressione arteriosa media, grafico A:
paradossalmente, in alcuni soggetti, la pressione non
aumenta, anzi diminuisce, mentre in altri la pressione
aumenta. I soggetti che non diventano ipertesi (la
pressione non aumenta) sono soggetti resistenti ai sali
(SR), quelli sensibili ai sali (SS) diventano leggermente
ipertesi, la pressione aumenta del 10% (10-15 mmHg).
– Resistenza vascolare sistemica, grafico B: il
meccanismo di difesa contro l'aumento pressorio che
seguirebbe all'aumento di volume, quindi, è più efficace
in alcuni soggetti. La differenza è la capacità dei soggetti
resistenti ai sali di generare un calo della resistenza
periferica: all'aumento del volume, i soggetti resistenti
fanno calare la resistenza periferica. I soggetti sensibili ai
sali non attuano questo meccanismo e la pressione sale.
Un abbassamento della pressione arteriosa stimola la produzione della renina che agisce
sull'angiotensinogeno (per 30-60 minuti) per produrre angiotensina I. Quest'ultima, soprattutto a
livello polmonare, viene trasformata in angiotensina II (emivita di pochi minuti, viene
immediatamente inattivata), che induce il rilascio di ADH a livello ipotalamico e agisce direttamente
sull'assorbimento renale di acqua e soluti (aumentandolo) e direttamente sull'arteriole
(vasocostrizione, aumenta la pressione).
Al contrario, un aumento della pressione arteriosa inibisce il
rilascio di renina.
Almeno in una popolazione dei soggetti (SS), la pressione non
cambia: il livello della pressione arteriosa non giustifica i
cambiamenti nella produzione di renina.
Quindi, il segnale che porta alla diminuzione della produzione di
renina (per aumentare l'escrezione renale bisogna inibire il
sistema renina-angiotensina-aldosterone) non può essere
l'aumento di pressione, in quanto nei soggetti sensibili la
pressione aumenta (solo in essi si potrebbe giustificare
l'inibizione del rilascio di renina), ma nei soggetti resistenti
addirittura la pressione diminuisce, il che indurrebbe il rilascio
di renina. Le variazioni di pressione vengono percepite
dall'endotelio dell'arteriola afferente.
Nella produzione di renina, inoltre, interviene il controllo
nervoso: l'aumento della scarica simpatica induce aumento nella
produzione di renina.
In questa condizione, il volume del sangue aumenta, incrementa
la scarica dei recettori atriali di tipo B e viene prodotto un calo
del tono simpatico sul rene (attraverso i recettori β il simpatico
controlla la produzione di renina). Questo potrebbe essere
un meccanismo che spiega la diminuita produzione di
renina (sebbene non sia stato verificato nell'esperimento
preso ad esempio).
Ipertensione di Goldblatt
Se il rene non funziona bene, la sua capacità di controllo del volume del LEC diminuisce. Oltre a un
malfunzionamento, esistono altre condizioni che possono
alterare i meccanismi renali e quindi la loro regolazione
della pressione arteriosa. Se il rene soffre di ischemia si
mettono in modo meccanismi che tendono ad aumentare la
pressione arteriosa e il volume del sangue.
Ad esempio, costringendo le arterie renali si determina
l'ipertensione di Goldblatt: la pressione arteriosa
sistemica aumenta immediatamente per la produzione di
renina (e la conseguente vasocostrizione) dovuta alla caduta
di pressione dell'arteria renale. L'aumento di pressione
rialza la pressione nell'arteria renale e la produzione di
renina diminuisce. La pressione continua a salire per
l'accumulo di acqua e sale ed espande il volume del sangue.
L’aumento della pressione arteriosa dopo la costrizione
renale ha un andamento temporale bifasico: l’aumento
tardivo è dovuto all’espansione del volume plasmatico.
Nonostante la produzione di renina sia poco più elevata dei
livelli normali, la pressione è comunque elevata. Se la
costrizione dell'arteria viene rimossa, la pressione
diminuisce gradualmente e torna ai livelli normali. I
meccanismi del rene scattano in relazione alla sua
irrorazione, per cui può essere "ingannato".
In caso di scompenso cardiaco, il cuore non riesce a
sostenere la normale circolazione (non riesce a pompare la
normale gittata) e il rene viene perfuso di meno. Per questo motivo, vengono innescati, anche in
questo caso, meccanismi sodio-ritentivi che aggravano la condizione.
Allo stesso modo, un tumore secernente che infonde continuamente angiotensina o aldosterone
può avere le stesse conseguenze (ipertensione per accumulo di acqua e sali). In questo caso la
pressione ritorna ai livelli di controllo per l'intervento di altri meccanismi. Uno di essi può essere il
peptide atriale natriuretico (prodotto per la dilatazione atriale).
CIRCOLI LOCALI
Circolazione coronarica
Il flusso relativo nelle due arterie coronarie presenta, nell’uomo, una notevole eterogeneità.
Il flusso attraverso la coronaria di sinistra e quella di destra in molti è uguale (30%), o si può verificare
un maggior flusso a destra (50%) o a sinistra (20%).
I due circoli sono anastomizzati a livello arterioso (non artero-venoso, altrimenti il cuore andrebbe
incontro ad infarti perche i capillari sarebbero bypassati) all'apice del cuore.
La capillarizzazione è di 1 capillare per fibra: lo stesso rapporto del muscolo scheletrico, con la
differenza che la fibra del muscolo scheletrico è di dimensione molto maggiore quindi la densità
capillare del cuore è più elevata (3000-4000 capillari per mm 2 contro i 300-400 del muscolo
scheletrico).
A riposo, la portata è 60-80ml/min per 100 grammi di tessuto (circa 225 ml/min, 5% della gittata),
durante l'attività fisica aumenta di 4/5 volte (200-330ml/min/100g).
Il ritorno venoso, per la maggior parte, viene dal seno venoso coronarico che si svuota nell'atrio
destro (90%). Un 10% viene dalle vene cardiache accessorie che si svuotano nell'atrio destro e dalle
vene di Tebesio, che si svuotano bilateralmente. Le vene di Tebesio, per il fatto che si gettano nell'atrio
sinistro, portano a un mescolamento del sangue arterioso proveniente dai capillari polmonari con
quello venoso refluo dai tessuti cardiaci. Questa situazione è definita shunt anatomico: cortocircuito
tra sangue arterioso e sangue venoso che determina un leggero calo della pO 2 (pressione parziale di
ossigeno), per cui la pO2 del sangue arterioso è inferiore di
quella del capillare alveolare.
La dinamica del ventricolo sinistro è diversa nella regione epicardica da quella endocardica. L'ischemia
della parte epicardica del ventricolo sinistro è inferiore a quella endocardica, in quanto la pressione
interstiziale, durante la sistole, è molto più elevata nell'endocardio che nell'epicardio.
In un esperimento, si inseriscono due micro-cannucce cave nell'endocardio che lasciano passare
liquido. Le due cannucce sono congiunte da un tratto collassato (che viene compresso dalla pressione
del tessuto) e perfuse da un liquido la cui pressione è mantenuta costante da un manometro. Si può
misurare la pressione che si ottiene a livello dell'endocardio osservando il livello di pressione del
recipiente per il quale il flusso diventa da continuo a gocciolante a causa della pressione tissutale che
schiaccia in tratto collassabile (durante la sistole). Si dimostra che la pressione, a livello endocardico, è
maggiore di quella a livello epicardico (dove la pressione non supera mai il valore della pressione
sistolica aortica): durante la sistole l'epicardio riceve più sangue e il flusso a questo livello non diventa
mai nullo. L'endocardio, che è più ischemizzato, va incontro a maggior iperemia reattiva, per cui il
flusso coronarico medio è uguale nelle due regioni del cuore (per la maggior iperemia reattiva
diminuiscono le resistenze).
Le differenze che ci sono in sistole vengono annullate da quelle che ci sono in diastole per cui entrambi
ricevono la stessa quantità di sangue. L'endocardio ha anche densità maggiore di capillari, facilitando
l'afflusso di sangue (altro elemento che "pareggia i conti") e, inoltre, ha livelli di mioglobina maggiori
rispetto all'epicardio.
L'aumento della frequenza cardiaca, inoltre, produce aumento del flusso coronarico e anche a parità di
lavoro del cuore l'aumento di frequenza ha sempre l'effetto di aumentare il consumo di ossigeno.
Se la frequenza cardiaca aumenta da 113 a 136 battiti al
minuto (cuore pilotato, il battito è regolato dallo
sperimentatore con un pacemaker e vengono bloccati
simpatico e parasimpatico), il consumo di ossigeno aumenta
indipendentemente da possibili rifletti simpatici e
parasimpatici. Il grafico mostra l'effetto sul flusso coronarico di
un aumento della frequenza.
– Il flusso coronarico fasico, illustrato dal grafico in
basso, mostra un rovesciamento del flusso durante la
sistole e valori molto bassi durante la prima fase di
eiezione;
– il grafico del flusso coronarico medio (una media
valutata in un certo intervallo) mostra in maniera più
evidente che, nel momento in cui la frequenza viene
portata a 136-137 battiti al minuto (indicato dalla
freccia), il flusso aumenta.
Le coronarie sono influenzate da diversi recettori, che si ritrovano nella parete degli organi interni:
- recettori atriali;
- recettori gastrointestinali;
- recettori vescicali;
- recettori della cistifellea.
La stimolazione di questi recettori per dilatazione della parete dell'organo determina costrizione
coronarica.
Gli esperimenti sono fatti a cuore pilotato e blocco dell'innervazione (si deve evitare che la frequenza e
l'inotropismo siano alterati dalla stimolazione simpatica). Questo avviene stimolando elettricamente
l’atrio destro ad una frequenza superiore a quella ottenibile con l’attivazione simpatica o bloccando i
recettori β1 per la noradrenalina, responsabili delle azioni sui miocardiociti, con un antagonista
specifico. I recettori β espressi sulla muscolatura liscia vasale sono di tipo 2 e non sono bloccati dagli
antagonisti specifici β1.
Si osserva una costrizione coronarica dalla stimolazione di questi recettori, ma il significato fisiologico
è ignoto.
Infatti, si ha alta incidenza di ischemia coronarica al mattino, a vescica tesa (i recettori vescicali
effettuano la loro azione vasocostrittoria); quelli gastrointestinali possono essere associati agli eventi
di ischemia coronarica post-pradiale; c'è inoltre correlazione tra patologie della cistifellea e ischemia
coronarica.
I vasi coronarici vengono costretti dall'insulina e dall'ormone somatotropo (utilizzato come forma di
doping per aumentare la massa corporea).
Hanno azione dilatante gli ormoni sessuali come 17β-estradiolo, testosterone e progesterone. Il
deidroepiandrosterone, precursore degli ormoni sessuali, ha azione vasocostrittoria.
L'insulina (cosi come l'ormone somatotropo, utilizzato nel doping) produce contrazione delle
coronarie, ma può agire in modo diverso:
- attiva il SNC centrale, quindi il simpatico e produce vasocostrizione (azione prevalente);
- agisce sull'endotelio e sul rilascio di ossido di azoto, quindi dilatazione.
Circolo muscolare
Il muscolo scheletrico riceve, a riposo, il 20% della gittata cardiaca. In attività fisica, la percentuale di
consumo della gittata cardiaca si rovescia e l'80% del sangue va ai muscoli di attività.
L'irrorazione muscolare dipende dal tipo di muscolo, quindi dal tipo di fibra muscolare.
Le unità motorie (motoneurone e fibre da esso innervate) in grado di sviluppare poca tensione sono
composte da fibre muscolari che hanno capacità di resistere alla fatica in quanto hanno un buon
metabolismo aerobico (muscoli tonici). Queste fibre sono ben irrorate (15ml/min per 100g di tessuto
a riposo), per cui i muscoli sono rossi, e si contraggono lentamente. In attività fisica, l'irrorazione
arriva a 150ml/min/100g
Le fibre rapide, invece, sviluppano tanta tensione (organizzate in unità motorie molto più grandi) e si
affaticano subito (muscoli fasici), in quanto non hanno un buon metabolismo aerobico. La scarsa
irrorazione rende il muscolo pallido, bianco. Il livello di irrorazione è 3ml/min per 100g di tessuto. In
attività fisica la vascolarizzazione può raggiungere i
60ml/min/100g.
La contrazione muscolare può essere continua, tonica,
oppure ritmica. Il tipo di contrazione prodotto influenza
notevolmente il flusso innanzitutto dal punto di vista
meccanico. I muscoli contratti, che sviluppano alti livelli
di tensione per tempi lunghi, hanno flusso scarso (la
contrazione schiaccia i vasi). Se il muscolo si contrae e si
rilascia ritmicamente, il flusso aumenta anche se le
contrazioni ritmiche producono un aspetto pulsatile del
flusso (la perfusione continua anche se il muscolo si
contrae in quanto la contrazione non è tale da chiudere il
vaso).
L'autoregolazione che caratterizza questo distretto
permette di mantenere il flusso ematico costante tra i 60 e
i 180mmHg. Un importante contributo è dato dalla risposta miogena delle arteriole. Il tono miogeno,
generato da proprietà intrinseche delle cellule muscolari lisce, è necessario a mantenere il livello di
contrazione basale dei vasi.
A riposo, il tessuto muscolare è sotto un tono simpatico vasocostrittore mediato dai recettori α1.
Privando il muscolo di queste fibre nervose, il flusso aumenta fino al 200-300%. Un incremento di
livello di attività del simpatico può diminuire il flusso fino a 1/4 del livello di partenza. Nonostante
l'azione simpatica dominante, l'endotelio vasale del tessuto muscolare è sensibile alla noradrenalina e
all'adrenalina (recettori β), che contribuiscono all'iperemia attiva.
Il muscolo è innervato anche da fibre simpatiche colinergiche, cui precedentemente veniva attribuita
un'azione vasodilatatoria in grado di garantire maggior
apporto sanguigno al muscolo nel momento
precedente all'attività fisica. Sebbene sia vero che
queste fibre si attivano prima dell'esercizio fisico e
aumentano il flusso al muscolo, tale incremento non
riguarda la rete capillare, ma i canali preferenziali che
collegano arteriole e vene. In base a
quest'osservazione, si deduce che l'innervazione
colinergica sia volta piuttosto ad evitare eccessivi
aumenti della pressione.
La muscolatura liscia dei vasi del muscolo scheletrico è
sotto il controllo dei barocettori: la loro attivazione
produce una caduta della resistenza vascolare del
muscolo. Si verifica il classico riflesso carotideo, dopo
occlusione delle carotidi: l'occlusione della carotide
provoca caduta di pressione nel seno carotideo, crollo
della stimolazione dei barocettori, aumento dell'attività
simpatica e quindi aumento della pressione. Quando
l'occlusione viene rimossa, l'incremento di pressione
nel seno carotideo determina in via riflessa una riduzione della scarica simpatica, quindi un aumento
del flusso ematico muscolare. Il grafico mostra le variazioni della pressione arteriosa media e del
flusso muscolare medio determinate dall'occlusione temporanea della carotide (le frecce indicano
inizio e fine dell'occlusione). Durante il periodo di aumento della pressione arteriosa, il flusso a livello
muscolare diminuisce per vasocostrizione dovuta al riflesso barocettivo.
Anche i vasi della circolazione muscolare risentono dei recettori (meccanocettori) presenti a livello di
colecisti, stomaco, vescica e utero, la cui distensione attiva il simpatico e produce vasocostrizione nel
muscolo.
La circolazione muscolare risente anche di influenze umorali. In particolare, i vasi muscolari sono
dilatati dall'insulina e dall'adrenalina (sui recettori β, fondamentale durante l'attività fisica). Lo stesso
effetto hanno altri ormoni attivi anche a riposo, come progesterone, 17β-estradiolo e testosterone, il
cui significato funzionale non è chiaro.
A riposo, domina l'attività nervosa, che tiene sotto controllo il flusso muscolare. Appena comincia
l'attività e si accumulano i metaboliti, la regolazione locale prende il sopravvento grazie ai fattori
plastici che sono aumento dei livello di potassio. In aggiunta, si verifica un aumento dell'osmolarità
dell'interstizio legata ai metaboliti, aumento del fosfato, dell'adenosina, della pCO 2, di acido lattico e
prostaglandine. Tutte queste sostanze inibiscono il rilascio di noradrenalina. Quindi, il tono simpatico
viene meno grazie all'azione periferica di queste sostanze, aumentando il peso delle catecolamine
circolanti.
Circolo cerebrale
A livello cerebrale, il flusso è di 750-900 ml/min, circa il 15% della gittata cardiaca, ovvero 50-60
ml/min per 100g di tessuto. Per i vasi extra-parenchimali esiste una innervazione autonomica, ma il
simpatico e il parasimpatico non entrano a innervare i vasi del parenchima. A livello intra-
parenchimale si verifica una innervazione intrinseca attuata da nuclei di neuroni. Innanzitutto, il
nucleo parabrachiale e il nucleo basale di Meynert sono nuclei colinergici che innervano regioni
estesissime della corteccia e dell'encefalo in generale. L'acetilcolina genera attività neuro-modulatoria
influenzando diversi distretti. Ruoli simili sono svolti dal sistema noradrenergico del locus coeruleus e
dalla serotonina del nucleo dorsale del rafe.
Questi sistemi che controllano in maniera diffusa l'attività cerebrale sono anche implicati nel controllo
regionale della circolazione.
Quando una regione del cervello aumenta la sua attività, si verifica un incremento localizzato del flusso
(localizzato nel senso di limitato all'area in cui si è verificato l'incremento) attribuibile a diversi fattori:
– innanzitutto l'aumento è dovuto al classico meccanismo di iperemia attiva, attribuibile al
potassio, agli idrogenioni (soprattutto derivati dall'anidride carbonica che aumenta in caso di
metabolismo attivo), all'adenosina e al lattato;
– la stessa rete neuronale che viene attivata (spesso composta da neuroni eccitatori
glutammatergici) libera glutammato, che agisce sugli astrociti aumentando la concentrazione
intracellulare del calcio. Il calcio determina aumento del rilascio di sostanze vasodilatatrici,
aumentando l'iperemia attiva;
– l'innervazione intrinseca (da parte dei nuclei cerebrali)
a sua volta agisce sugli astrociti e determina rilascio di
sostanze vasodilatatrici;
– inoltre, i neuroni nitrinergici attivi nella rete portano ad
aumento del flusso per l'azione vasodilatante immediata
del NO;
– i neuroni nitrinergici, anche non specifici per la
funzione vasale (che potrebbe essere una funzione
accessoria), e neuroni che producono prostaglandine ad
azione vasodilatatrice, vengono attivati da glutammato
per stimolazione dei recettori NMDA (sensibili sia al
ligando che alla depolarizzazione, si attivano solo quando la membrana cellulare è
depolarizzata: se il ligando interagisce col recettore
quando la membrana non è depolarizzata, non
funzionano);
– l'elemento locale più importante è la pCO2, per effetto
soprattutto degli idrogenioni che fanno rilasciare
direttamente il muscolo liscio e inducono il rilascio locale
di NO e prostaglandine.
La risposta all'ipossia (vasodilatazione) ha una curva meno ripida
di quella dovuta alla pCO2. Quando la pO2 scende a circa 60mmHg, la curva si impenna (a quella
pressione il carico di ossigeno sull'emoglobina è pari all'89% del valore normale), cioè l'aumento del
flusso cerebrale è particolarmente marcato.
Il flusso ematico cerebrale è mantenuto costante per pressioni tra i 70 e i 120mmHg e in questa
regolazione il meccanismo miogeno è particolarmente importante. L'autoregolazione è dovuta al fatto
che lo stiramento della parete modifica le proprietà dei filamenti di actina e miosina (o forse
all'apertura di canali per il calcio voltaggio dipendenti).
I vasi si costringono quando la pressione aumenta e si rilasciano quando diminuisce in modo da
mantenere costante il flusso. Se la pressione del
circolo è elevata, il tessuto andrebbe incontro ad
edema per cui i vasi si costringono per limitare il
flusso. In caso di ipertensione ad alti livelli
permanente progressiva, il vaso si arrende, la
compliance vasale aumenta, si ha vasodilatazione
con aumento di flusso e aumento di pressione a
livello tissutale.
La curva auto-regolatoria è modulata dall'attività
del simpatico e viene ad essere spostata verso
destra quando il tono simpatico aumenta, verso
sinistra quando diminuisce. Nei casi in cui la
pressione è cronicamente elevata, la curva si
sposta verso destra, in modo da permettere di
mantenere il flusso costante anche a pressioni più elevate rispetto a quelle di un soggetto normale.
Siccome la pressione può variare verso il basso anche in un soggetto iperteso, lo spostamento della
curva a destra rende il cervello meno protetto al rischio dell'ipoperfusione (che è più facilmente
raggiungibile da un soggetto iperteso rispetto a uno normale).
L'ambiente cellulare cerebrale non può essere esposto all'ambiente circolatorio in maniera
discriminata, in quanto molte sue componenti potrebbero inferire con l'attività neuronale. Per questo
motivo, i capillari cerebrali sono molto poco permeabili e non lasciano passare le sostanze polari. Se si
iniettano coloranti polari nel liquor o nel sangue, è visibile che rimangono confinati al compartimento
in cui sono stati iniettati. L'endotelio capillare e la lamina basale formano la barriera emato-
encefalica che impedisce la diffusione delle sostanze idrosolubili attraverso gli spazi intracellulari.
Alla lamina basale aderiscono i pedicelli degli astrociti e i periciti, che probabilmente contribuiscono
alla differenziazione delle giunzioni serrate fra le cellule endoteliali, o di altre caratteristiche legate
all’impermeabilità della barriera.
La mancanza di permeabilità degli spazi tra le cellule alle sostanze polari non impedisce il movimento
delle medesime. Non è più possibile il trasporto
diffusionale paracellulare, ma solo transcellulare, attivo o
passivo. Il controllo del passaggio delle sostanze polari è
maggiore, legato all'esistenza di carrier specifici. Viene
permessa quindi una sensibilità di controllo molto
maggiore sia per l'eliminazione dei prodotti del
metabolismo sia per l'ingresso a livello cerebrale.
A differenza delle sostanze polari, quelle non polari
passano facilmente (ossigeno, anidride carbonica,
anestetici, alcol).
Il coefficiente di distribuzione olio-acqua è il rapporto
tra la concentrazione che ha la sostanza tra una fase
lipidica e una acquosa poste a contatto tra loro (se è
basso allora la sostanza è più concentrata nell'acqua, se è
alto nei lipidi). Il passaggio di sostanze a livello
cerebrale dipende da questo rapporto. Tre sostanze (L-
DOPA, fenilalanina e D-glucosio) hanno capacità di
passaggio notevole pur essendo polari per la presenza
di trasportatori specifici. Un altro meccanismo
attraverso cui grosse molecole polari come proteine possono attraversare la barriera sono i processi di
pinocitosi, in generale endocitosi, soprattutto quelli mediati da recettori.
Il cervello è chiuso in un compartimento rigido, per cui ogni aumento della pressione nell'interstizio e
nel liquor ha la conseguenza di bloccare il flusso del sangue perche il vaso viene compresso
dall'aumento di pressione e si verifica ischemia.
Anche in caso di trauma si verifica un aumento della filtrazione a livello capillare (i traumi aumentano
la permeabilità capillare, cosi come l'aumento di pressione capillare), aumentando la pressione
interstiziale con conseguente blocco del flusso ematico.
Per ripristinare il circolo, è necessario decomprimere il liquor e somministrare soluzioni ipertoniche
che drenano l'interstizio cerebrale.
Per questo motivo, l'ipertensione deve essere associata ad un aumento della scarica simpatica per
difendere il cervello. Prima dell'aumento della scarica simpatica, un altro elemento di difesa è
l'autoregolazione della muscolatura vasale.
Circolazione cutanea
La circolazione cutanea è strettamente
legata alla cessione di calore
all'ambiente: la circolazione aumenta
quando bisogna cedere calore
all'ambiente, diminuisce in caso
contrario. Quando occorre cedere calore
all'ambiente, la circolazione passa da
1mL/min per 100g di tessuto a
150mL/min/100g di tessuto.
Il flusso aumenta in caso di temperature
ambientale elevate in quanto, oltre a
raffreddare il sangue che raggiunge la
superficie del corpo, il circolo sanguigno
sostiene la sudorazione. Facendo evaporare il sudore, il sangue si raffredda: il calore del sangue serve
a far evaporare il sudore anche se l'ambiente è a una temperatura superiore del sangue.
Il circolo cutaneo è formato da due componenti:
- plesso profondo: arterie e vene collegate da anastomosi artero-venose normalmente chiuse
da tono simpatico elevato;
- plesso superficiale: sviluppo del circolo solo a livello di capillari che si approfondano nel
derma.
Quando aumenta il flusso alla cute, si aprono gli shunt artero-venosi (per caduta del tono simpatico) e
il circolo superficiale ne soffre. Se questo sistema non è ben calibrato, per quanto sia funzionale alla
termoregolazione, si possono avere problemi al circolo superficiale e indurre difficoltà nella nutrizione
della cute. I meccanismi vasodilatatori non sono solo profondi, ma anche superficiali.
A livello profondo di alcuni tessuti, le anastomosi si aprono all'aumento del flusso di sangue
(polpastrelli, cute delle orecchie, pianta del piede, naso, labbra).
Le ghiandole sudoripare sono innervate da neuroni post-gangliari colinergici, che inducono la
sudorazione e si affiancano al ruolo svolto dal controllo simpatico. Le ghiandole sudoripare, una volta
attivare, producono callicreina e attivano sostanze come la bradichinina, che ha azione vasodilatante.
Si può parlare di una vera e propria iperemia attiva che incrementa il circolo nella regione più
superficiale.
In seguito a denervazione simpatica si assiste a vasodilatazione cutanea, che però diminuisce nel
tempo a causa di un’aumento della sensibilità arteriolare alle catecolamine circolanti.
Circolo splancnico
Diversi organi dell'apparato gastrointestinale sono vascolarizzati separatamente da rami che si
staccano dall'aorta, mentre il sangue venoso entra nel sistema della vena porta. Il sangue portale
costituisce il 70% del sangue che giunge al fegato ed è drenato dalle arterie epatiche.
A riposo, il circolo splancnico riceve il 30% della gittata
cardiaca, cioè 1500-1800 ml/min.
I vasi arteriosi che irrorano l’intestino penetrano nella
sottomucosa e danno origine a vasi di secondo ordine e
terzo ordine (ramificazioni progressive). Da questi ultimi
si staccano vasi che si portano nei villi intestinali e altri
che terminano negli strati di
muscolatura circolare e longitudinale.
Il sangue contenuto nelle arteriole del
villo defluisce dalla base all'apice,
mentre il sangue delle venule fluisce
dall'apice alla base del villo.
Arteriola e vena sono in stretto
contatto tra loro e in questo modo le
sostanze riassorbite passano in parte
nell’arteriola, impedendo variazioni elevate dell’osmolarità del sangue portale.
L'arteriola, infatti, non è ricca di nutrienti, in quanto è avvenuto già un certo
assorbimento da parte dell'epitelio intestinale, per cui le sostanze passano dalla
venula all'arteriola e si riportano verso l'apice del villo. Di conseguenza, la
concentrazione di nutrienti nell'interstizio aumenta e questo rende più difficoltoso
l'assorbimento delle sostanze che si ritrovano nel lume.
D’altra parte, però, parte dell’ossigeno passa dall’arteriola alla venula prima di
essere trasportato fino all’epitelio, che, per questa ragione è molto sensibile
all’anossia.
In pratica, avvengono scambi controcorrente, cortocircuiti che determinano scambi di sostanze tra i
due vasi per gradiente di concentrazione.
L'interstizio del villo tende a mantenere una concentrazione di nutrienti bassa per permettere il
riassorbimento di sostanze dal lume. In caso la concentrazione di sostanze aumenti all'apice del villo,
si rallenta la velocità di assorbimento intestinale: è uno dei meccanismi sfruttati per regolare la
velocità dell'assorbimento di nutrienti.
Durante l’attività, il flusso totale (che a riposo è di 15-25 nel colon, nel tenue 30-40mL/min/100g di
tessuto) sale fino a 45-70mL/min/100g.
L'aumento del flusso è più marcato di quanto sembri in quanto si deve considerare che l'attività non
varia simultaneamente lungo tutto il tubo digerente, ma è limitata a una regione mentre le altre sono a
riposo e non necessitano di un aumento del flusso.
Inoltre, la mucosa riceve 4-5 volte più sangue della muscolatura e passa da 50-60 a 300-400
mL/min/100g di tessuto.
Il flusso di sangue all'intestino diminuisce durante la contrazione muscolare, in cui aumenta il ritorno
venoso. A questo livello, l'attività più rappresentata è quella di riassorbimento (non tanto l'attività
contrattile dunque), la quale riassorbe circa 8.5L al giorno (grazie soprattutto all'intensa attività della
pompa sodio-potassio).
Rispetto al colon, la perfusione dell'intestino è maggiore.
La regolazione della circolazione splancnica spetta a meccanismi locali (iperemia attiva) e al SNA.
Il parasimpatico, ad esempio, agisce sia sulle cellule enterocromaffini (serotonina e istamina) che sulla
secrezione ghiandolare (callicreina) generando un'azione vasodilatante indiretta.
Il simpatico, tramite i recettori α, induce vasocostrizione (sono presenti anche recettori β).
Il flusso intestinale presenta autoregolazione solo a livello del tenue. Il fenomeno è dovuto a
meccanismi metabolici, rappresentati da variazioni nella concentrazione di K +, adenosina e
dell’osmolarità del tessuto.
La vasodilatazione del circolo intestinale è prodotta dal rilascio degli ormoni nel corso dell’attività
digestiva (secretina, gastrina, colecistochinina) da cellule dello stomaco e dell’intestino, oltre che da
fattori umorali locali, alcuni dei quali rilasciati da cellule nervose dei plessi.
Fra i fattori locali i più importanti sono la bradichinina, il NO, le prostaglandine, i peptidi VIP (peptide
intestinale vasoattivo) e la sostanza P.
Inoltre, le cellule enterocromaffini rilasciano istamina e serotonina a seguito di stimoli meccanici,
dell’attivazione del vago e dell’influenza degli ormoni gastrointestinali (secretina, gastrina e
colecistochinina). Gli stimoli meccanici sono recepiti da meccanocettori situati nella mucosa che
reagiscono alla distensione della parete.
Infine anche l’insulina, ormone secreto dal pancreas durante l’attività digestiva esercita un azione
vasodilatatoria, dovuta alla produzione di NO.
Circolo epatico
Le venule portali terminali danno origine ai capillari
sinusoidi, che confluiscono nelle venule epatiche
terminali. Ai sinusoidi si uniscono i capillari che hanno
origine dalle arteriole terminali epatiche.
A livello dell’arteria epatica, la pressione è di 90 mmHg,
mentre è di 10 mmHg a livello portale e di 2.5 mmHg nei
sinusoidi. Le variazioni di pressione della vena epatica si
trasferiscono direttamente ai sinusoidi, in quanto la
resistenza a monte di questi è abbastanza elevata.
Il sangue portale è piuttosto ricco di ossigeno
(18ml/100ml di sangue), in quanto il consumo
intestinale di ossigeno è basso.
Il flusso ematico epatico corrisponde a 100-130
ml/min/100gr, di cui 30-40 provenienti dall’arteria epatica e 70-90 dalla vena porta. Ogni aumento del
flusso di sangue in uno dei due distretti è compensato da una riduzione nell’altro, in modo da
mantenere la perfusione quasi costante. I meccanismi di questo effetto non sono noti.
Mentre il flusso nell’arteria epatica è autoregolato, quello portale non lo è. Il flusso aumenta durante la
fase digestiva come semplice conseguenza dell’aumento del flusso intestinale.
I vasi arteriosi e le venule pre-sinusoidali ricevono una innervazione simpatica.
L’effetto sul circolo portale è vasocostrittorio, dovuto ai recettori α, mentre quello sulle arteriole
potrebbe essere vasodilatatorio, mediato da recettori β.
Il fegato contiene il 15% del sangue circolante e metà di questo volume può essere messo in circolo a
seguito di un’emorragia, grazie alla stimolazione del simpatico (serbatoio di riserva).
Circolo polmonare
Essendo la circolazione polmonare e quella sistemica disposte in serie, la gittata del ventricolo destro e
sinistro devono essere uguali. Qualunque differenza permanente di gittata porterebbe ad un
progressivo aumento del volume di sangue in uno dei due distretti del circolo (sistemico o polmonare)
e ad un depauperamento dell’altro distretto.
Bisogna tener conto del fatto che il circolo polmonare riceve anche l’1% della gittata del ventricolo
sinistro attraverso le arterie bronchiali che irrorano il connettivo, i setti e i bronchi (grandi e piccoli). Il
sangue refluo dalla circolazione bronchiale torna all’atrio sinistro (piccola circolazione) e non a quello
destro, contribuendo ad abbassare la pressione di ossigeno del sangue arterioso.
Questa differenza è comunque tralasciabile, per cui si assume che le uscite dei due ventricoli siano
uguali.
Il circolo polmonare è un circolo a bassa resistenza: le arterie polmonari hanno lunghezza ridotta, con
ramificazioni corte. Le loro pareti sono sottili e di spessore ridotto (un terzo dello spessore dell’aorta).
A causa di tale sottigliezza, la compliance dell’albero arterioso polmonare è 7 mL/mmHg, pari a quella
dell’albero sistemico. Questo vuol dire che una variazione di pressione tran-smurale di 1 mmHg
produce una variazione volumetrica di 7mL sia nelle arterie sistemiche, il cui volume è di circa 600 mL,
che in quelle polmonari, il cui volume si aggira probabilmente attorno ai 200 mL. Pertanto la
compliance specifica (distensibilità) delle arterie polmonari è circa 3 volte maggiore rispetto a quelle
sistemiche (in cui è 1.12%, contro il 3.5% delle arterie polmonari).
Le vene polmonari sono invece simili a quelle sistemiche.
Il volume di sangue contenuto nel circolo polmonare è di circa 450 mL (9% del volume di sangue
totale): 70 ml sono contenuti nei capillari, il resto è diviso in parti più o meno uguali fra arterie e vene.
Il volume di sangue contenuto nel circolo polmonare
diminuisce nell’emorragia, in quanto, grazie all’attivazione
simpatica, viene spostato negli altri distretti circolatori.
Diminuisce anche nell’espirazione forzata, in cui i capillari
sono obliterati dalla pressione alveolare positiva.
Il volume aumenta invece in condizioni patologiche:
nell’insufficienza ventricolare sinistra e nelle malattie della
valvola mitralica il volume può aumentare anche del doppio.
Sia nella stenosi che nell’insufficienza della mitralica, infatti, il
sangue si accumula nell’atrio sinistro ostacolando il ritorno
dai capillari polmonari.
A causa della conformazione dei vasi, il circolo polmonare è
un circolo a bassa resistenza. La differenza di resistenza fa si
che la pressione nell'arteria polmonare sia minore di quella
aortica.
Di conseguenza, per sospingervi lo stesso volume di sangue al
minuto che passa nella grande circolazione è sufficiente un
gradiente pressorio assai minore. I valori pressori arteriosi
del circolo polmonare sono inferiori a quelli del circolo
sistemico: la pressione sistolica corrisponde a 25 mmHg,
quella diastolica a 8 mmHg, quella media a 15 mmHg.
La pressione a livello dei capillari, dove le oscillazioni sisto-
diastoliche non sono più presenti, corrisponde a 7 mmHg (più
bassa rispetto ai capillari sistemici), mentre quella dell’atrio a
circa 1-2 mmHg (può variare da 1 a 5 mmHg).
In relazione alla percentuale di ciclo cardiaco in cui la pressione di perfusione è inferiore a quella
atmosferica (ovvero in base alle condizioni del capillare), si
distinguono tre zone:
– Zona 1, apice del polmone: la pressione capillare è inferiore
a quella alveolare e l'alveolo non è perfuso ne in sistole ne in
diastole. Questa condizione si verifica solo in condizioni
patologiche;
– zona 2 o di West: la pressione capillare è maggiore di quella
alveolare solo in sistole, per cui l'alveolo è perfuso solo
durante questa fase. In altre parole, all'apice del polmone, la
pressione arteriosa cala al di sotto della pressione alveolare
durante la diastole (la pressione capillare da 8mmHg passa a
-7mmHg) e il capillare viene schiacciato dalla pressione
atmosferica dell'alveolo. Durante la sistole, la pressione
capillare sale a 10mmHg e genera un flusso intermittente
(generato in sistole, bloccato in diastole);
– zona 3, base del
polmone: la
pressione capillare è
sempre maggiore di quella alveolare (sia in sistole che
in diastole), per cui il flusso è continuo e maggiore
rispetto a quello della zona 2.
Il valore cosi negativo della pressione interstiziale, associato all'alta pressione oncotica (richiamano
liquido dal capillare all'interstizio), permette di mantenere l’alveolo asciutto e ne protegge l’integrità:
se la pressione interstiziale aumenta al di sopra di 0 mmHg, il fragile epitelio alveolare si rompe e
l’acqua dell’interstizio invade l’alveolo.
Nell’insufficienza del ventricolo sinistro e nelle malattie della valvola mitrale, l’aumento della
pressione atriale può portare ad aumento della pressione capillare polmonare, della filtrazione e della
pressione interstiziale (che diventa positiva), generando edema polmonare.
L’edema polmonare può essere generato anche da una
polmonite (che compromette anche la pompa linfatica) o da
gas irritanti come il cloro e l’anidride solforosa: sia
l’infiammazione associata alla malattia polmonare che gli
agenti irritanti aumentano la permeabilità dei capillari
polmonari, producendo fuoriuscita di acqua e proteine.
La pressione capillare può aumentare fino a un valore
corrispondente alla pressione oncotica del capillare senza
che vi sia edema grazie all’incremento del drenaggio
linfatico.
Poiche la pressione oncotica è 28 mmHg e quella capillare è
7 mmHg, il margine di sicurezza è di 21 mmHg.
Quest'ultimo sale a 30- 35 mmHg in condizioni croniche per
l’aumento, anche di 10 volte, dell’azione drenante dei vasi
linfatici.
In questi pazienti la pressione capillare può salire quindi a
40- 45 mmHg senza formazione di edema. Ma se questo
limite è superato anche di poco si muore nel giro di qualche
ora.
FISIOLOGIA DELL'APPARATO
RESPIRATORIO
SISTEMA RESPIRATORIO: GENERALITÀ
La respirazione, dal punto di vista fisiologico, è il processo attraverso cui si verifica lo scambio di
sostanze tra i tessuti e l'ambiente esterno.
La prima tappa di questo processo è la ventilazione, il
rinnovo continuo dell'area alveolare. Il sangue assume
ossigeno e cede anidride carbonica prodotta dall'organismo,
costituendo il mezzo che permette gli scambi.
Durante la ventilazione, si determina il passaggio all'interno
del sangue di un volume di ossigeno di 250mL al minuto.
Questa quota di ossigeno è uguale a quella che, nello stesso
tempo, consumano i tessuti. Nel sangue che arriva al cuore
(atrio di sinistra) ci sono 750ml di ossigeno, che diventano
1L sommando i 250ml prelevati dall'ambiente esterno: la
gittata cardiaca porta ai tessuti 1L di ossigeno al minuto, di
cui i tessuti consumano 250ml.
La concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso è
200ml/L di sangue, 20ml per 100ml di sangue
(considerando che la gittata cardiaca è 5L). La
concentrazione scende a 150ml per litro di sangue dopo il consumo a livello dei tessuti.
Se si consumano 250ml di ossigeno, la produzione di CO 2 è variabile tra il 100% e il 70% del consumo
di ossigeno. Assumendo che il consumo di ossigeno sia 200ml, la produzione di CO2 varia da 200ml a
140ml. Quando si consumano carboidrati, il rapporto è di 1:1, quando si consumano acidi grassi il
rapporto è di 1:0.7, se si consumano proteine allora il rapporto è di 1:0.8.
Il sistema respiratorio è distinto in una zona di conduzione e una di scambio, dove avviene lo scambio
di gas tra sangue e aria alveolare.
Il sistema di conduzione, composto da trachea, bronchi e bronchioli, umidifica e riscalda l'aria.
L'umidificazione avviene già a livello della mucosa nasale (superficie 160cm 2 creata dai turbinati),
molto vascolarizzata: l'aria passa da 20-24°C a 31°C e si satura di vapore. La temperatura raggiunge i
33° al di sotto della glottide e aumenta fino a 35°C all'inizio della trachea.
Il sistema di conduzione, inoltre, filtra l'aria attraverso il sistema muco-ciliare. L'epitelio ciliato è
coperto da uno strato di muco viscoso prodotto dalle cellule mucose. Al di sotto del muco si trova il
liquido periciliare. Le ciglia battono in modo da spostare il muco come un "nastro trasportatore" verso
la faringe, dove viene ingoiato e le polveri eliminate. Il liquido periciliare si forma grazie a canali ionici
che accumulano cloruro grazie a un trasporto attivo secondario mediato dal sodio (secrezione di cloro,
riassorbimento di sodio). Si crea un gradiente di concentrazione di cloruro che può uscire grazie al
canale associato alla fibrosi cistica. Il canale è tenuto aperto dall'AMP ciclico, in modo da poter avere un
normale ricambio del liquido periciliare. Il flusso di cloro richiama acqua per osmosi.
In caso di fibrosi cistica, i liquidi prodotti sono estremamente densi e privi di liquido e tendono a
tappare le vie aeree.
Le cellule a calice, produttrici del muco (dette anche CSS, cellule secretorie di superficie o globet
cells), sono presenti fino alla 12° generazione di bronchi (12esima ramificazione, ma possono andare
oltre nei fumatori), mentre le ghiandole sottomucose (anch'esse produttrici di muco), anch'esse
importanti nella produzione di muco, si trovano solo nelle grandi vie di conduzione.
Le cellule Clara contribuiscono alla secrezione (non producono muco) in quanto secernono una
componente del surfattante, un liquido che serve a modificare le proprietà meccaniche del polmone, e
fattori detossificanti, come citocromo P450, che idrossila (aggiunge gruppi ossidrilici) sostanze lipofile
in modo da segregarle in compartimenti specifici e limitare la loro permanenza nell'organismo.
Il muco prodotto dalle cellule contiene innanzitutto glicoproteine, che rendono l'insieme vischioso, e
molecole proteiche importanti, come la lattoferrina (antivirale, antibatterico e antifungino), lisozima e
antileucoproteasi (sostanze che bloccano gli enzimi con cui i leucociti si fanno strada nel tessuto,
quindi controllano la reazione immunitaria). Alcune malattie polmonari, come l'enfisema (rottura
degli alveoli), potrebbero essere causate più che a un effetto traumatico a un disequilibrio del sistema
immunitario, quindi un'eccessiva perdita di freno che porta a una reazione dannosa per il tessuto.
Il sistema muco-ciliare è composto da secrezione mucosa e movimento delle ciglia, coordinati dal
sistema parasimpatico, che li promuove entrambi. Il simpatico esercita un'azione meno importante,
sebbene sembri che la stimolazione noradrenergica mediata da recettori sia α che β induca la
produzione di muco.
Durante l'infiammazione, la secrezione mucosa viene stimolata, ma si ha inibizione del trasporto
muco-ciliare: le sostanze che si accumulano a livello tissutale. Non ha lo stesso effetto l'istamina, in
quanto essa incrementa la secrezione di muco ma anche il movimento ciliare, quindi non tappa le vie
aeree.
La deposizione di particelle inizia a livello nasale (dove si depositano particelle di dimensioni maggiori
di 6µm) e continua nelle vie aree con particelle di dimensioni via via inferiori. La precipitazione di
particelle da 6 fino a 1 μm avviene nei bronchi e nei bronchioli (può generare le malattie dei bronchioli
terminali nei minatori).
Le polveri inferiori al micron arrivano all'interno degli alveoli. A questo punto, possono essere
eliminate dall'espirazione oppure aderire all'alveolo ed essere fagocitate dai macrofagi. Possono
insorgere malattie d'accumulo.
I macrofagi sono tra gli elementi fondamentali di difesa delle vie aeree, così come gli anticorpi prodotti
dalle plasmacellule sottostanti all'epitelio che passano nelle cellule secernenti.
Bronchi
Tra trachea e zona di scambio ci sono 20-25 generazioni di condotti bronchiali. La sezione totale
aumenta dalla trachea ai sacchi alveolari. Prima degli alveoli, la sezione trasversa totale arriva a 1m 2
(10'000cm2).
I bronchioli sono sottoposti alle stesse variazioni volumetriche del polmone se non hanno impalcatura
cartilaginea: si dilatano in ispirazione, si restringono nell'espirazione.
Il sistema nervoso controlla i bronchi. Nel circolo, il simpatico costringe e il parasimpatico dilata. Qui
l'effetto è opposto: il simpatico dilata in quanto dominano i recettori β (i bronchi sono soprattutto
sensibili all'ormone circolante adrenalina, l'innervazione simpatica è meno rappresentata) e il
parasimpatico costringe in quanto non determina rilascio di NO.
Quando le vie aeree sono intasate da patologie respiratorie che irritano la muscolatura o provocano
accumulo di sostanze ostruenti, la costrizione dovuta al parasimpatico dà problemi (il parasimpatico
può essere attivato per via riflessa da parte di agenti irritanti), per cui vengono utilizzati farmaci che
ne bloccano l'effetto.
L'istamina produce aumento del tono bronchiale e bronco-costrizione che può rendere il respiro
affannoso durante una reazione allergica.
Le pressioni parziali di ossigeno e anidride carbonica agiscono anche sulla muscolatura liscia dei
bronchioli e non solo su quella dei vasi: i bronchioli si dilatano quando c'è tanta anidride carbonica e
poco ossigeno, in modo da ripristinare la ventilazione.
Il diametro delle vie aeree è controllato anche nella parte superiore. La prima regione controllata è la
narice: la resistenza delle narici varia in maniera periodica e le variazioni nella radice destra e in
quella sinistra sono fuori fase di 180°, per cui la resistenza totale al flusso di aria è costante.
Quando la pressione capillare aumenta, la mucosa nasale (tessuto erettile) si inturgidisce, aumenta di
volume e tappa le vie aeree, se la pressione capillare diminuisce le vie aeree si aprono. La pressione
capillare è controllata dal simpatico e dal parasimpatico (il parasimpatico dilata i vasi, il simpatico li
costringe).
Per questo, il naso si tappa quando si è sdraiati: la pressione al di sopra del cuore aumenta e aumenta
il turgore della mucosa. In condizioni di busto eretto, il naso si stappa.
Il calibro della parte superiore delle vie aeree è controllato da diverse azioni muscolari.
I dilatatori delle vie aree si attivano ciclicamente durante il respiro, così come i muscoli che inducono
le variazioni volumetriche del torace, in modo da diminuire la resistenza delle vie aeree durante
l’inspirazione. Durante l’espirazione, i dilatatori si rilasciano, mentre si attivano i tireoaritenoidei,
costrittori della glottide. L’applicazione di pressioni negative al
cavo nasofaringeo durante il respiro potenzia l’attivazione di
alcuni muscoli dilatatori, come l’ala del naso e il genioglosso.
L’aumento di attività dei muscoli dilatatori delle vie aeree
(genioglosso e cricoaritenoideo posteriore) osservato quando si
respira contro una pressione negativa è almeno in parte
attribuibile ad un riflesso nervoso, attivato dalla deformazione
meccanica indotta a livello delle vie aeree dalla diminuzione della
pressione al loro interno. In questo modo viene evitato il collasso
delle vie aeree che potrebbe essere indotto dall’eccessivo calo di
pressione al loro interno.
Una pressione di -25 cmH2O generata artificialmente (molto
inferiore rispetto alle pressioni del respiro a riposo) determina
contrazione del muscolo genioglosso con una latenza di circa 20-30
ms.
I meccanocettori, molto sensibili alla deformazione meccanica
introdotta dalla variazione pressoria, si determinano il riflesso.
Superficie di scambio
Il sistema di scambio è deputato all'ossigenazione del sangue e all’eliminazione di anidride carbonica.
La superficie totale è elevatissima (data dalla superficie
degli alveoli), paragonabile alla metà di quella di un campo
da tennis (60-100m2).
Gli scambi gassosi avvengono attraverso la parete alveolo-
capillare, formata dall'epitelio alveolare, dall'endotelio
capillare e dalle due lamine basali. Lo spessore scende al di
sotto di 0.5µm nei punti in cui sono assenti i nuclei delle
cellule: in questo modo viene facilitata enormemente la
diffusione.
Nel momento in cui l'interstizio aumenta le sue dimensioni
(edema polmonare, polmonite), aumenta il tempo
necessario alla diffusione. In questo modo, il sangue non ha
il tempo necessario per porsi in equilibrio con l'aria
alveolare (in termini di pO2 e pCO2), per cui è impoverito di ossigeno e ricco di anidride carbonica.
Il volume di sangue interessato allo scambio è 60-140 ml. I capillari sono fittamente anastomizzati in
modo che la superficie alveolare sia sfruttata al massimo per lo scambio (si forma una sorta di lamina
di sangue a circondare l'alveolo). Il diametro del capillare è 5 μm, sufficiente al passaggio dei globuli
rossi in singola fila: ne consegue un contatto globulo rosso-endotelio che aumenta la rapidità della
diffusione.
La parete alveolare è bagnata da un film liquido, che può essere prodotto:
– dal plasma per filtrazione all'estremo arterioso del capillare, dove la pressione idrostatica è
maggiore (arterie bronchiali);
– dagli pneumatici: per secrezione
attiva di sali dalla cellula
all’alveolo, con richiamo osmotico
di liquido.
Parallelamente, il drenaggio del liquido
alveolare avviene a causa:
– delle forze di Starling
(riassorbimento dal circolo
bronchiale);
– di un riassorbimento attivo di sali
dallo pneumocita all’interstizio, che
richiama acqua per osmosi.
Il volume del film deve rimanere costante,
in quanto un suo aumento renderebbe difficoltosi gli scambi diffusionali e una sua diminuzione
L'umidità che ne consegue genera una tensione superficiale all’interfaccia con l’aria contenuta
nell’alveolo che tende a farlo collassare. Questa pressione deve essere vinta per permettere
l'inspirazione: il surfactante è in grado di abbattere la tensione superficiale dovuta al film liquido e
permettere l'inspirazione.
In sua assenza, l'inspirazione è difficoltosa e si ha dispnea.
VOLUMI E CAPACITÀ POLMONARI
La ventilazione è il processo mediante il quale si immette e si espelle aria a livello del polmone.
La funzione respiratoria può essere misurata determinando i
volumi e le capacità polmonari (combinazioni di volumi
polmonari).
Il volume corrente o tidale è il volume di aria di cui il volume
polmonare aumenta durante una inspirazione tranquilla (per poi
diminuire dello stesso volume in espirazione) e corrisponde a 500
ml (0.5L). In realtà, il volume inspirato non è mai uguale a quello
espirato, perché la quantità di ossigeno consumato non equivale
sempre alla quantità di anidride carbonica prodotta.
Se invece di espirare il volume corrente si decide di proseguire
l’inspirazione, si possono introdurre nel polmone ancora 3000 ml
(3L nell'uomo, 1.9L nella donna) di aria: il volume di riserva
inspiratorio è il volume di aria che si può inspirare dopo
un'inspirazione tranquilla.
Analogamente, se si vuole proseguire l’espirazione una volta
espirato il volume corrente, si può ulteriormente svuotare i
polmoni di 1100-1200 ml: il volume di riserva espiratorio è il
volume di aria che si può espirare dopo un'espirazione a riposo
(0.7L nella donna).
A questo punto, il polmone non si è svuotato completamente: il
volume residuo è il volume d'aria che resta nel polmone anche
dopo aver espirato il volume di riserva espiratorio, e corrisponde
all’incirca a 1100-1200 ml. Il volume residuo non può essere espirato, sia perché i muscoli non
sviluppano forza elastica sufficiente a vincere il ritorno elastico della struttura toraco-polmonare, sia
perché i bronchioli di dimensioni minori
cominciano a collassare e bloccano l'uscita
di aria.
La somma del volume di riserva
inspiratorio, volume di riserva espiratorio
e del volume corrente costituisce la
capacita vitale (CV), il volume massimo di
aria che si può far entrare e uscire dal
polmone con un singolo ciclo respiratorio
(massima profondità di respiro).
Normalmente, viene sfruttata circa la metà
della CV. Non viene utilizzata nella
respirazione spontanea, può essere
utilizzata solo durante una respirazione
volontaria.
Se alla capacità vitale si aggiunge il volume
residuo si ottiene la capacita polmonare
totale (CPT).
Si definisce capacita inspiratoria la somma di riserva inspiratoria e volume tidale.
La somma del volume residuo e del volume di riserva espiratorio forma la capacita funzionale
residua (CFR), cioè il volume che il polmone ha a riposo
(alla fine di una espirazione tranquilla).
VR e CPT si raggiungono quando le forze muscolari non
sono più sufficienti a vincere il ritorno elastico delle
strutture toraco-polmonari e l’espansione del polmone (a
CPT) e la sua compressione (a VR) devono arrestarsi.
I volumi e le capacità polmonari, tranne capacità funzionale residua e volume residuo, si misurano
direttamente con lo
spirometro.
Lo spirometro è
formato da due
cilindri inferiori
concentrici e coassiali,
la cui intercapedine è
piena di acqua. Un
cilindro superiore
capovolto è inserito
nell’intercapedine del
cilindro basale,
all’interno della quale
esso può alzarsi o
abbassarsi. La cavità
interna, essendo
ripiena di acqua e
limitata dai due
cilindri, è isolata rispetto all'esterno.
Il soggetto respira con la bocca (a naso tappato) attraverso un tubo collegato con lo spazio pieno di
aria contenuto all’interno dei due cilindri. Il cilindro superiore è collegato, tramite una carrucola, ad un
pennino che disegna un tracciato (spirometrico) su una carta che scorre a velocità costante.
Il pennino sale quando il cilindro superiore scende (l'aria entra nei polmoni) e viceversa.
Durante il respiro, il tracciato spirometrico si abbassa quando il volume polmonare diminuisce, in
quanto l’aria viene espirata dal polmone all’interno dello spirometro, il cui cilindro superiore si
innalza. Il tracciato si alza quando invece il soggetto inspira, portando l’aria dallo spirometro
all’interno dei suoi polmoni e abbassando il cilindro superiore.
È ovvio che in questo modo non si può misurare il volume residuo, che non fuoriesce mai dal polmone.
Per misurare VR e capacità funzionale residua, si utilizza il metodo della diluizione dell'elio.
Il soggetto respira da uno spirometro contenente una
certa quantità di elio. L’elio si distribuisce fra gli
alveoli e lo spirometro, senza passare nel sangue.
Quando si raggiunge l’equilibrio, la concentrazione
dell’elio è la stessa nello spirometro e nel polmone.
La concentrazione finale dell’elio è inferiore a quella
iniziale nello spirometro, in quanto la stessa quantità
di elio iniziale è distribuita in un volume più grande
(dato dalla somma dello spirometro e del polmone).
La quantità di elio totale, ETOT corrisponde a:
ETOT = V spirometro · [E]iniziale
L'elio non passa nel sangue, per cui all'equilibrio:
ETOT = Elio spirometro + Elio polmone
Elio spirometro = [Elio]finale · V spirometro
Elio polmone = [Elio]finale · V polmone = [Elio]finale · CFR
[Elio]spirometro = [Elio]polmone
V spirometro · [Elio]iniziale = V spirometro [Elio]finale + CFR [Elio]finale
CFR = ([Elio]iniziale/[Elio]finale -1) · V spirometro
Spazio morto
Solo una parte del volume tidale entra nella zona di scambio, in quanto l’aria deve riempire le vie di
conduzione prima di arrivare all'alveolo.
Quindi, una frazione del volume tidale, corrispondente a 350ml, entra nella zona di scambio, mentre i
restanti 150ml riempiono le vie di conduzione (non efficaci per gli scambi), costituendo lo spazio
morto anatomico (volume delle vie di conduzione, occupato da una frazione del volume tidale).
Anche l’aria che termina negli alveoli non perfusi non partecipa agli scambi (questo volume è
trascurabile in un individuo giovane e sano): aggiungendo il volume degli alveoli non perfusi allo
spazio morto anatomico si ottiene lo spazio morto fisiologico.
In soggetti sani, lo spazio morto fisiologico è uguale a quello anatomico per l'assenza di alveoli non
perfusi, mentre in caso di patologie respiratorie ci possono essere alveoli meno perfusi (nella zona I di
West il polmone non è completamente perfuso in sistole e in diastole).
L’aria del volume tidale riempie lo spazio morto e poi entra negli alveoli, mescolandosi all'aria ivi
presente. Espirando, si emette prima l’aria dello spazio morto, che, a parte la maggior umidità, ha la
stessa composizione di quella atmosferica (priva di CO 2), in seguito esce una miscela di aria dello
spazio morto e alveolare e, infine, l’aria alveolare non contaminata da quella delle vie aeree. L’aria
alveolare contiene CO2 ed è più povera di ossigeno rispetto all'aria dello spazio morto.
Quindi:
D + A = 0.6 (VD + VA)
D + A = 0.6 VD + 0.6 VA
D + 0.6 VA = 0.6 VD + 0.6 VA
D = 0.6 VD
D
VD =
0.6
Quindi anche l'area D può essere utilizzata per calcolare lo spazio morto.
Il calcolo del volume dello spazio morto che viene effettuato segue una procedura diversa:
(1) A = 0.6 VA
(2) D = 0.6 VD
Sommando membro a membro si ottiene:
(3) D + A = 0.6 (VA + VD)
poiché VA + VD è il volume tidale:
D + A = 0.6 VT
Dividendo membro a membro (2) per (3):
D
= VD / VT
D+A
D
VD = ( ) VT
D+ A
Se, nell’esecuzione di questi calcoli, ci si ferma alla concentrazione di anidride carbonica alveolare, la
misura ottenuta corrisponde sostanzialmente allo spazio morto anatomico: in espirazione, tutti gli
alveoli si svuotano (anche quelli non perfusi, che non hanno anidride carbonica), per cui la
concentrazione della CO2 è determinata anche dalla concentrazione che essa raggiunge negli alveoli
non perfusi (quindi la concentrazione ottenuta è più bassa di quella reale, in quanto la CO 2 viene
“diluita” in un volume maggiore).
Per conoscere la concentrazione (media) di CO 2 degli alveoli perfusi è sufficiente conoscere quella del
sangue refluo dai capillari polmonari, che ha raggiunto esattamente lo stesso valore.
Dal punto di vista pratico, si determina la pressione parziale di CO 2 del sangue arterioso (non
sostanzialmente diversa da quella del capillare polmonare, pCO 2 A = pCO2 arteriosa) e si sostituisce al
rapporto tra le concentrazioni il rapporto fra le corrispondenti pressioni parziali (pressione parziale e
concentrazione sono proporzionali).
Quindi:
VD = VT (1 – pCO2 E /pCO2 arteriosa)
In modo analogo, a partire dalla ventilazione polmonare totale si possono definire una ventilazione
alveolare e una dello spazio morto:
Vent p = VT · f = 6 - 120 L/min
Vent p = VT · f = (VA + VD) · f = VA f + VD f
Vent p = VentA + VentD
VENTILAZIONE
Le variazioni volumetriche del complesso toraco-polmonare che generano la ventilazione sono
prodotte dai movimenti delle coste e del diaframma.
Il ciclo ventilatorio è formato da una fase inspiratoria e una fase espiratoria (leggermente più lunga
per via del fatto che è un atto passivo) e dura in totale 5 secondi (12 atti respiratori al minuto).
Nel respiro tranquillo, l'inspirazione dura 2 secondi: è un fenomeno
attivo, associato alla contrazione muscolare (l'espirazione è dovuta
al semplice rilasciamento dei muscoli inspiratori).
Il movimento verso il basso del diaframma (1-10cm) aumenta il
diametro longitudinale della gabbia toracica. La contrazione del
diaframma aumenta anche il diametro trasverso della gabbia
toracica.
In gravidanza e in soggetti obesi il movimento del diaframma è
impedito e la respirazione è prevalentemente costale.
Nell'emiparesi diaframmatica, la metà paretica si solleva durante
l'inspirazione per l'aumento della pressione in cavità addominale.
Il movimento verso l'alto delle coste (simile al
movimento di un manico di secchio sul piano frontale e a
manico di pompa sul piano sagittale) incrementa
rispettivamente i diametri trasverso e antero-posteriore
della gabbia toracica.
Il pneumotorace è una condizione in cui l’aria entra nel cavo pleurico a causa di una lesione della
parete diaframmatica o della rottura interna di un alveolo (oppure per una lesione dall'esterno, come
una coltellata). L’ingresso dell’aria, per via della differenza fra la pressione atmosferica e quella intra-
pleurica, fa perdere l’adesione fra il polmone e la gabbia toracica (e il diaframma) dovuta al liquido
pleurico.
Il polmone collassa a un volume di 350ml e la gabbia toracica si espande: questo è dovuto al fatto che
le due strutture, rese indipendenti,
seguono ognuna il proprio ritorno
elastico. In questa condizione, i
movimenti del diaframma e della
gabbia toracica non possono più
modificare il volume polmonare,
perché si è perso il rapporto fra
queste strutture, che ora risultano
separate.
La differenza tra pressione alveolare e pressione pleurica
è la pressione trans-polmonare (PT), la quale aumenta
durante l'inspirazione. In condizioni statiche, misura la
tendenza del polmone a collassare.
Anche se è negativa, la direzione della pressione pleurica (pleura viscerale) è verso l'alveolo.
Nella pleura parietale, la pressione pleurica spinge verso l'esterno.
Quindi, la pressione trans-polmonare esprime la tendenza del polmone a collassare.
Le forze in gioco a livello della pleura parietale, invece, sono innanzitutto la pressione pleurica (minore
di zero), che spinge verso l'esterno, la pressione atmosferica che spinge verso l'interno (uguale a zero),
ma bisogna considerare anche in questo caso il ritorno elastico della gabbia toracica che spinge verso
l'esterno. Quindi, la pressione pleurica più il ritorno elastico che spinge verso l'esterno è uguale alla
pressione atmosferica (che spinge verso l'interno).
Muscoli respiratori
I muscoli inspiratori sono divisi in:
- principali: sempre attivi durante un ciclo respiratorio. I muscoli principali sono i muscoli
intercostali esterni, intercostali para-sternali e il diaframma. I muscoli intercostali esterni e
quelli para-sternali sollevano le coste;
- accessori: si attivano quando lo sforzo respiratorio aumenta. Sono gli scaleni, che sollevano le
prime coste, e lo sternocleidomastoideo, che solleva lo sterno. La loro contrazione avviene in
iperventilazione, iperpnea e quando le vie respiratorie sono ostruite. Inoltre, si contraggono
durante gli sforzi inspiratori che precedono tosse e starnuto.
I muscoli intercostali esterni hanno inserzione sulla costa
superiore più vicina al fulcro (all'articolazione costo-
vertebrale), mentre l'inserzione sulla costa sottostante è
lontana dall'articolazione. La contrazione fa accorciare i
sarcomeri: la costa superiore tende ad essere abbassata,
quella sottostante tende ad essere sollevata. Visto che la
forza sulla costa inferiore si applica più lontano
dall'articolazione, il momento rotatorio è maggiore
rispetto al momento rotatorio che tende ad abbassare
quella superiore. Quindi, il risultato è il sollevamento delle
coste.
L'espirazione è passiva nel respiro tranquillo (rilassamento dei muscoli precedentemente contratti) e
dura di più dell'ispirazione, in quanto è un movimento passivo, dovuto al ritorno elastico del polmone,
perché il polmone ha un ritorno elastico che tende al collasso (mentre la gabbia toracica ha un ritorno
elastico che tende ad espandersi).
I muscoli espiratori si utilizzano solo in caso di aumentato lavoro, ovvero in iperpnea, iperventilazione,
ostruzione delle vie aeree, espirazione forzata, tosse e starnuto. Anche durante la fonazione vengono
attivati i muscoli espiratori. In sostanza, si attivano quando l'espirazione deve portare il volume
polmonare al di sotto della capacità
funzionale residua.
Sono innanzitutto i muscoli
addominali, che contraendosi
aumentano la pressione addominale
e spingono la cupola diaframmatica
verso l'alto, e gli intercostali interni,
che abbassano le coste.
Gli intercostali interni hanno
l'inserzione sulla costa inferiore più
vicino all'articolazione rispetto
all'inserzione sulla costa superiore. Quindi, il
momento rotatorio dominante è quello che
solleva le coste.
Normalmente, la muscolatura espiratoria non
si attiva, ma in caso sia necessaria
un'espirazione forzata, si vede l'alternanza
dell'operato di muscoli intercostali interni ed
esterni.
Durante l'inspirazione, si modifica la pressione alveolare (per la legge di Boyle: PV = k): espandendo il
polmone, la pressione alveolare diminuisce e si genera un flusso d'aria che varia in intensità in
funzione della resistenza delle vie aeree.
– A riposo, la pressione alveolare è uguale a 0.
– Durante l'inspirazione, diminuisce e diventa negativa rispetto a quella atmosferica. In un
respiro tranquillo si crea una depressione di 1 cmH2O. La negatività della pressione alveolare
viene raggiunta nella prima parte della respirazione, per poi aumentare per l'ingresso dell'aria.
– Le variazioni di pressione alveolare fanno entrare e uscire 0.5L di aria nei polmoni.
– La pressione sale fino a tornare nuovamente a livello di quella atmosferica (termine
dell'inspirazione). La fine dell'inspirazione è segnata dal ritorno della pressione alveolare alla
pressione atmosferica.
– Durante l'espirazione, il ritorno elastico del polmone aumenta la pressione alveolare
comprimendo gli alveoli, che diventa maggiore di quella atmosferica di 1cmH 2O e produce un
flusso in uscita.
– La pressione massima, anche qui, viene raggiunta nella prima fase dell'espirazione, poi cala
fino a tornare nuovamente alla pressione atmosferica quando tutta l'aria è stata espulsa.
Il mezzo litro di volume totale si può inspirare velocemente o lentamente: se si inspira velocemente,
bisogna creare un gradiente pressorio per produrre un flusso maggiore (si attivano velocemente i
muscoli, si sollecita fortemente la struttura toraco-polmonare espandendola e si crea un gradiente che
genere un veloce flusso di aria in ingresso), e per l'espirazione diventa necessario attivare la
muscolatura espiratoria.
In caso di inspirazione lenta, si attivano lentamente i muscoli, la gabbia toracica si espande lentamente
e non c'è bisogno di un rilevante gradiente pressorio.
Le variazioni di flusso sono proporzionali a quelle della pressione intra-alveolare, a causa del fatto che
il flusso è uguale al gradiente pressorio (P alv -P atmosferica) diviso per la resistenza delle vie aeree.
Ovvero, la relazione tra pressione alveolare e flusso respiratorio è:
(Patm – Palv) / resistenza = flusso respiratorio
In situazione statica, le forze in gioco sono la pressione pleurica, quella alveolare e quella atmosferica e
i ritorni elastici del polmone (Tin , verso l'interno, tendenza al collasso) e della gabbia toracica (T out ,
tendenza a dilatarsi). Anche se opposti in segno, Tin e Tout hanno lo stesso valore. In condizioni di
riposo, i due ritorni elastici tendono a espandere lo spazio pleurico, rendendo la pressione
intrapleurica inferiore a quella atmosferica e a quella alveolare (che sono uguali tra loro).
Se si attivano i muscoli, si altera l'equilibrio delle forze in gioco: i muscoli inspiratori espandono il
complesso e la pressione all'interno (P pl) cade, diventa ancor più negativa: la pressione alveolare
diventa maggiore della somma della pressione intrapleurica e del ritorno elastico del polmone (T in + Ppl)
e si crea il flusso d'aria. Il volume polmonare di espande (CFR + ΔV) e la pressione alveolare
diminuisce.
Se la contrazione muscolare è veloce e potente, si ha grossa caduta della pressione pleurica, quella
alveolare crolla (perché l'espansione è rapida) e si ha un flusso veloce. Se l'attivazione non è potente, la
caduta di pressione è piccola e il movimento è lento. La velocità del respiro dipende dall’intensità
dell’attivazione muscolare. Se si inspira lentamente, l’aria ha il tempo di entrare mano a mano che il
polmone si espande e la caduta di pressione all’interno degli alveoli e nello spazio pleurico è minore.
Se si respira velocemente, il ritardo nell’ingresso dell’aria produce una caduta molto maggiore della
pressione alveolare e pleurica.
La caduta della pressione intrapleurica è il modo con cui l’azione meccanica del diaframma e della
gabbia toracica fa espandere il polmone esercitandosi in maniera distribuita sulla sua superficie.
La caduta di Palv genera un flusso in ingresso proporzionale alla caduta medesima. L’ingresso dell’aria
aumenta la pressione intra-alveolare riducendo il gradiente pressorio fra alveoli e atmosfera nella
seconda metà dell’inspirazione.
La caduta della pressione pleurica durante la prima parte dell'ispirazione dipende dal volume
polmonare raggiunto, in quanto aumentando il volume polmonare, aumenta il ritorno elastico del
polmone mentre diminuisce il ritorno elastico della gabbia toracica. Quando non c'è movimento di
aria, è solo il volume polmonare (quindi il ritorno elastico, forza statica) che determina il valore della
pressione intrapleurica. Se c'è movimento d'aria, oltre al ritorno elastico del polmone si tiene conto
dell'effetto legato all'ingresso dell'aria. La forza muscolare durante l'inspirazione abbatte ancora di più
la pressione pleurica rispetto all'effetto della semplice espansione di volume.
A bocca aperta (con un volume polmonare costante al di sopra della capacità funzionale residua), la
pressione alveolare è uguale a quella
atmosferica e i muscoli, che sono attivi,
pareggiano la tendenza del sistema
toraco-polmonare al collasso in quanto
dilatano la gabbia toracica (la tendenza
del polmone al collasso supera quella
della gabbia toracica ad espandersi).
Sia la forza muscolare che i ritorni
elastici agiscono sullo spazio pleurico
generando una Ppl tanto più negativa
quanto maggiore è il volume
polmonare.
A livello della pleura viscerale, il
ritorno elastico del polmone è
maggiore (per via del fatto che si è al di
sopra della CFR) e la pressione
intrapleurica è ridotta rispetto alla
capacità funzionale residua, mentre la
pressione atmosferica è bilanciata dal
ritorno elastico (che è aumentato). In
altre parole, la pressione alveolare pareggia la somma di ritorno elastico e pressione intrapleurica.
Per questo motivo, durante l'inspirazione la pressione intrapleurica è più negativa durante il respiro
veloce. Il valore finale della pressione, invece, è sempre lo stesso, a prescindere dalla velocità del
respiro.
Se la diminuzione di pressione alveolare è forte (se la caduta della pressione pleurica è forte), il flusso
di aria in ingresso è elevato (respiro veloce).
Compliance
Le variazioni volumetriche del complesso toraco-
polmonare sono determinate dalle caratteristiche
elastiche di polmone e gabbia toracica.
La compliance è il rapporto tra variazione di volume e
variazione di pressione transmurale che l'ha prodotta:
C = ΔV/Δ Ptm
Si può misurare in un palloncino sia riempiendolo
d'aria, sia creando il vuoto attorno. Se si gonfia il
palloncino, la pressione al suo interno è maggiore di
quella atmosferica. Questa differenza è necessaria per
vincere la tensione elastica del palloncino, che crea una
pressione transmurale (Ptm):
Ptm = P interna – P esterna
A pressione transmurale elevata, per produrre la stessa
variazione di volume occorre una pressione maggiore.
Quindi, la compliance non è costante: man mano che la
struttura viene messa in tensione diventa sempre meno
distendibile (maggiore è il volume, minore è la
compliance). Minore è la compliance, più difficile è
gonfiare il palloncino.
Considerando la compliance del polmone isolato, si osserva che varia continuamente, non è costante,
sebbene si possa definire un valore medio. Può essere studiata valutando la relazione tra volume
polmonare e pressione trans-polmonare.
Se si diminuisce il volume polmonare, si osserva che i valori di
ritorno del sistema non corrispondono ai valori di andata (la
traiettoria della retta è diversa). Questo fenomeno è l'isteresi: per
lo stesso valore di pressione, il volume e quindi la compliance è
maggiore nella desufflazione rispetto all'insufflazione.
Ovvero, -20cmH2O producono una transizione volumetrica in
desufflazione maggiore rispetto a quando la transizione viene
prodotta in insufflazione: il polmone è più distendibile quando si
svuota rispetto a quando si riempie.
Il fattore principale responsabile della produzione dell'isteresi è
l'interfaccia aria-acqua che c'è nel polmone (tensione superficiale generata dal film liquido che bagna
l'alveolo). Se il polmone viene riempito di soluzione salina (come quando si annega), diventa molto più
distendibile e l'isteresi quasi scompare (quello che rimane può essere dovuto a una modifica della
costante elastica).
Il polmone diventa più distendibile anche per via del fatto che il ritorno elastico, dato dalla tensione
superficiale degli alveoli, viene a
mancare nel momento in cui il
polmone viene riempito d'acqua.
Quindi, l'isteresi è dovuta a:
– tensione superficiale generata
negli alveoli tra la pellicola
liquida che bagna gli alveoli e
l'aria;
– modificazioni dell'elasticità
polmonare.
Alle forze elastiche, dà un contributo importante la pressione di collasso generata dalla tensione
superficiale T del film liquido che copre la superficie degli alveoli.
La Pc, che tende a chiudere gli alveoli e a riempirli di acqua, è uguale a 2 volte la tensione superficiale
fratto il raggio:
Pc = 2T/R
Il riempimento del polmone con soluzione fisiologica fa quasi completamente sparire l'isteresi
(elimina le forze di tensione superficiale), sebbene aumenti la compliance (quindi aumenta la
distensibilità).
In qualche modo, la tensione superficiale dipende dalla direzione della variazione di volume, che si
modifica in desufflazione e in insufflazione. L'isteresi è dovuta alla presenza di un tensioattivo
alveolare che, oltre ad abbassare la tensione superficiale, la rende dipendente dall'area della superficie
alveolare (aumenta la tensione all'aumentare dell'area) e dal segno delle sue modificazioni (a parità di
volume, la tensione superficiale è maggiore quando il volume polmonare sta aumentando). A parità di
superficie, la tensione superficiale è minore in desufflazione (quando il volume polmonare
diminuisce).
La tensione superficiale viene misurata su un film liquido posto su una
superficie. La superficie del film viene fatta variare attraverso una
striscia di platino (trasduttore di forza) che viene introdotta sulla
superficie liquida. È presente una barriera spostabile in grado di
rispondere alla tensione esercitata dalle molecole della superficie che
aderiscono al trasduttore (A).
Si nota che la tensione superficiale dell'acqua è assolutamente
indipendente dalla superficie: all'interfaccia aria-acqua, la tensione
superficiale è sempre la stessa, sia che la superficie si stia contraendo
che si stia espandendo. Quindi, l'isteresi non dipende in assoluto dalla
tensione superficiale. Un semplice detergente diminuisce la tensione
superficiale, ma ancora questo parametro non dipende dalla superficie.
Inserendo un estratto di polmone, la misurazione cambia: la tensione
superficiale diminuisce e compare l'isteresi, cioè all'espansione del
volume del film liquido la tensione superficiale è maggiore rispetto a
quando viene contratto. Quindi, la tensione superficiale (interfaccia aria-
liquida), quando nel liquido viene sciolto estratto di polmonare, risente dell'isteresi.
Questo comportamento è dovuto al surfattante, o tensioattivo alveolare, il quale abbatte la tensione
superficiale e, in secondo luogo, la rende dipendente dalla direzione della variazione volumetrica
polmonare, per cui quando il polmone si espande la tensione superficiale è maggiore, quando riduce il
suo volume la tensione superficiale è minore. Si tratta di una sostanza prodotta dagli pneumociti di
tipo 2 e che, a causa della sua interazione con il film liquido, crea la dipendenza della tensione
superficiale dalla variazione di volume. La sua importanza risiede nel fatto che diminuisce
notevolmente il lavoro da compiere in inspirazione per vincere le resistenze elastiche del polmone.
Il surfactante è formato da lipidi (per il 90% fosfolipidi, in particolare fosfatidilcolina, 80% dei
fosfolipidi, presente come dipalmitoil-fosfatidilcolina, elemento tensioattivo), calcio e proteine
(quattro proteine che distribuiscono l'elemento tensioattivo sulla superficie alveolare). Il
fosfatidilglicerolo (10%) è fondamentale per il ruolo del surfactante, in quanto permette la
distribuzione omogenea del complesso molecolare sulla superficie. Una mancanza di fosfatidilglicerolo
produce la sindrome da distress respiratorio del neonato prematuro, che porta a morte per collasso
alveolare.
L'effetto del surfattante è imponente: la pressione di collasso di un alveolo di 100µm diminuisce da 18
a 4 cmH2O. Si accumula nei punti dove il raggio di curvatura è minore.
Inoltre, contribuisce alla stabilizzazione dei piccoli alveoli (potenzialmente instabili), in quanto essi si
svuoterebbero negli alveoli grandi (diminuendo il raggio aumenta la pressione di collasso, Pc = 2T/R).
Se questo avvenisse, diminuirebbe la superficie respiratoria
(enfisema fisiologico, si perderebbero gli alveoli a favore di grandi
cavità). La stabilizzazione del surfactante è legata al fatto che è
maggiormente concentrato negli alveoli di piccole dimensioni.
Gli alveoli piccoli sono stabilizzati anche dalla struttura stessa del
polmone, in quanto gli alveoli hanno segmenti di pareti in comune
(come celle di un alveare), impedendo la riduzione degli spazi.
Esistono corto-circuiti tra alveoli e tra alveoli e bronchioli
(rispettivamente pori di Kohn e canali di Lambert), funzionali per
garantire una ventilazione collaterale, in caso un bronchiolo sia
ostruito.
Se, utilizzando la stessa tecnica, si misura la differenza fra la pressione pleurica e quella atmosferica si
può calcolare la compliance toracica.
Il polmone isolato tende sempre al collasso, la gabbia toracica quasi sempre ad espandersi salvo che
per volumi maggiori del 55-75% della capacità vitale. Quando la pressione pleurica è inferiore a quella
atmosferica, la gabbia toracica tende sempre all'espansione. Oltre il 55%, la pressione transmurale
diventa positiva, per cui la gabbia toracica tende al collasso.
Alla CFR i due ritorni elastici sono in equilibrio, al di sotto prevale quello del torace, al di sopra quello
del polmone. Se il volume è superiore al 55-75% della capacità vitale, ambedue i ritorni elastici
favoriscono la diminuzione del volume toraco-polmonare.
Se si misura, invece, la differenza fra pressione alveolare e pressione intrapleurica, si può valutare la
compliance polmonare. Si preferisce però determinarla in modo differente. Il soggetto mantiene un
certo volume polmonare attivamente a bocca aperta. In questo modo, la pressione all'interno
dell'alveolo è uguale alla pressione atmosferica, 0. Contemporaneamente, si misura l'altro elemento
della pressione trans-polmonare, la pressione intrapleurica. Quindi, si fa la differenza tra pressione
atmosferica e intrapleurica. Il soggetto mantiene un altro volume, si fa un'altra misurazione e così via
(si parte da volumi maggiori e si procede per volumi minori). Si segue sempre la curva di
desufflazione.
La curva di compliance polmonare indica che, fino a volume residuo (livello 0) si ha sempre pressione
transmurale positiva: Il polmone tende sempre al collasso, anche al di sotto della capacità funzionale
residua. Dalla capacità funzionale residua al volume residuo il complesso toraco-polmonare tende ad
espandersi perché la tendenza all'espansione della gabbia toracica vince sulla tendenza al collasso del
polmone (Ptm < 0).
Alla capacità funzionale residua, il ritorno elastico del polmone e quello della gabbia toracica, sono
uguali ma opposti in direzione (Ptm = 0).
Al di sopra della capacità funzionale residua, il ritorno elastico del polmone prende il sopravvento sul
ritorno elastico della gabbia toracica, che diminuisce: la struttura tende a tornare al suo punto di
equilibrio.
Oltre a 55-70% della capacità vitale, punto di equilibrio della gabbia toracica, la gabbia toracica
tende a collassare come il polmone: entrambi tendono a far diminuire il volume polmonare (P tm > 0).
Al di sotto della capacità funzionale residua, il ritorno elastico del polmone diminuisce.
Avvicinandosi al volume residuo, aumenta la forza che tende a diminuire il volume polmonare. Il
sistema ha un punto di equilibrio posto tra capacità vitale e volume residuo, per cui si espande e si
comprime in funzione delle forze in gioco.
Quindi, a partire dalla capacita funzionale residua l'inspirazione deve essere attiva (per vincere la forza
che si oppone all'espansione del polmone), mentre l'espirazione puo essere passiva.
Dal volume residuo alla capacita funzionale residua l'inspirazione puo essere passiva, ma occorre
attivare la muscolatura espiratoria per l'espirazione.
Flusso
Il flusso F respiratorio è determinato dalle variazioni pressorie create dai muscoli respiratori e
dipende dalla resistenza delle vie aeree. Secondo la legge di Poiseuille:
F = ΔP/R
La resistenza (inversamente proporzionale alla quarta potenza del raggio) è massima verso il 4°
ordine di diramazione bronchiale. La resistenza è minima nella parte più distale dell'albero bronchiale
(zona di scambio), in cui l'aumento delle ramificazioni in parallelo aumenta la sezione trasversa totale
e diminuisce la resistenza, rendendo difficili le diagnosi precoci di malattie respiratorie a carico delle
ramificazioni distali. Alla ventesima generazione, la resistenza diminuisce fin quasi a zero. L'aumento
del diametro trasverso fa diminuire progressivamente la velocità dell'aria (cm/s).
Il flusso è considerato in litri al minuto e la relazione che c'è tra flusso e velocità di flusso (in cm/s) è:
F=v A
dove A sta per area trasversa totale. Quindi, la velocità diminuisce all'aumentare dell'area della
sezione (inversa proporzionalità tra le due grandezze).
• Secondo una teoria, i dotti alveolari sono l'ultima regione polmonare interessata dal movimento
dell'aria, dopodiché lo scambio avviene per semplice diffusione gassosa: gli alveoli non modificano il
loro volume durante il respiro (o comunque le variazioni sono piccole).
• Secondo altri, l'aria arriva anche agli alveoli, che si dilatano.
• Una terza ipotesi propone che potrebbe avvenire che gli alveoli, durante il respiro, passino da una
situazione atelettasica ad una situazione di distensione.
Indipendentemente dai fenomeni di dilatazione attiva dovuta ai muscoli dilatatori, la dilatazione dei
bronchi non cartilaginei aumenta durante l'inspirazione, diminuisce durante l'espirazione, ovvero
vanno incontro alle stesse variazioni volumetriche del polmone.
La resistenza dei bronchi non cartilaginei, quindi:
– diminuisce nell'inspirazione: per segnali nervosi riflessi e centrali che dilatano le vie aeree
superiori e per via della diminuzione della Ppl che dilata i bronchioli;
– aumenta in espirazione: per la riduzione di calibro dei bronchioli e per l'attivazione dei
costrittori della glottide.
La conduttanza delle vie aeree aumenta linearmente all'aumentare del volume polmonare (e la
resistenza si abbatte). A questo si aggiunge il controllo nervoso.
Questa è la ragione per cui una persona asmatica può tendere a mantenere un volume polmonare
maggiore rispetto alla capacità funzionale residua, che chiede il mantenimento di un tono dei muscoli
respiratori (che non sarebbe necessario a capacità funzionale residua), in quanto il respiro è più
faticoso per la resistenza al flusso delle vie aeree. In sostanza, l’asmatico può mantenere, a riposo, un
volume polmonare più elevato della capacità funzionale residua, in modo che le vie aeree siano più
pervie.
Mentre il flusso nel sistema circolatorio è turbolento solo in aorta e solo in alcuni momenti del ciclo
cardiaco, nelle vie aeree si passa da un regime di flusso turbolento nelle grandi vie aeree, a un flusso
intermedio nei bronchi di medio calibro fino a un flusso laminare nei bronchioli.
Espirazione forzata
L'espirazione forzata è lo sforzo espiratorio che porta al di
sotto della capacità funzionale specifica.
Il soggetto espira, svuota tutto il polmone, e inspira dal
volume residuo alla capacità vitale.
Il grafico mostra la respirazione forzata: le curve
dell'espirazione sono quelle sopra la linea dello 0, quelle
dell'inspirazione sono in basso.
Gli sforzi respiratori tra espirazione ed inspirazione sono
diversi, così come i flussi.
• Inspirazione
Il flusso aumenta all'aumentare dello sforzo respiratorio, sia
nella prima che nella seconda parte dell'inspirazione. Alla
capacità vitale, il polmone si è riempito completamente.
Infatti, la prima curva indica un flusso inspiratorio di
1L/secondo, mentre l'ultima indica che è stato prodotto un
flusso di 9L/s: lo sforzo inspiratorio che determina l'ultima
curva è maggiore di quello che determina le curve
precedenti.
• Espirazione
Il soggetto espira con uno sforzo più o meno della stessa
intensità e le curve diventano asimmetriche.
Il massimo flusso si sposta verso volumi polmonari sempre
maggiori all'aumentare dello sforzo. Inoltre, la seconda parte
della curva diventa indipendente dallo sforzo (linea retta
determinata dalla curva di sforzo massimale che è una tappa
obbligata per le curve di tutti gli altri sforzi espiratori).
A questo punto, il flusso diventa dipendente dal volume polmonare e indipendente dallo sforzo: alla
riduzione del volume polmonare, il flusso espiratorio si riduce.
Per l'inspirazione non avviene lo stesso: più il soggetto si sforza, maggiore è il flusso che ottiene,
determinando curve diverse sia nella prima che nella seconda parte, che confluiscono solo nel punto
della capacità vitale e nel punto del volume residuo (in cui il flusso è uguale a zero).
Dal punto di vista qualitativo, per espirare e quindi per schiacciare i dotti alveolari si aumenta la
pressione pleurica, che può diventare molto positiva (50 cmH 2O, generati non solo attorno agli alveoli,
ma anche attorno ai bronchioli). La stessa forza che spinge l'aria negli alveoli tende a chiudere i canali
attraverso cui passa l'aria, determinando il fenomeno appena descritto.
Le forze in gioco nello svuotamento del polmone nell'espirazione forzata sono:
- pressione pleurica: comprime gli alveoli e i canali bronchiali (due azioni che si annullano
reciprocamente);
- forza di collasso (di retrazione elastica) del polmone: tende a schiacciare gli alveoli,
determinando la fuoriuscita dell'aria, ma ha effetto opposto sui bronchi (allargandoli). Gli
alveoli aderiscono tutti alla parete esterna del bronco. L'alveolo tende a collassare per la sua
tensione superficiale, per cui attorno al bronco si concentrano forze che tendono a "tirare"
verso l'esterno, dovute agli alveoli. La forza di retrazione elastica del polmone, quindi,
mantiene aperti i bronchi.
La dinamica di instaurazione di diminuzione del flusso viene definita dal punto di ugual pressione,
punto in cui la pressione all'interno del bronco più la forza di retrazione elastica del polmone che lo
mantiene aperto eguagliano la forza della pressione intra-pleurica. In pratica, Ppl diventa positiva e,
oltre a comprimere gli alveoli, svuotandoli, contemporaneamente tende a occludere i bronchi,
impedendo che all'aumentare dello sforzo il flusso aumenti al di sopra di un valore limite, determinato
dal volume polmonare. Questo fenomeno si innesca solo quando si scende al di sotto di determinati
volumi polmonari.
A monte del punto di ugual
pressione, la pressione del
bronco più la forza di
retrazione elastica del
polmone superano la
pressione intra-pleurica,
mentre a valle è la pressione
intrapleurica a essere
maggiore.
Se si aumenta lo sforzo
espiratorio, la resistenza a
valle del punto di ugual
pressione aumenta per l'ulteriore compressione delle vie aeree e il flusso espiratorio rimane costante.
Maggiore è lo sforzo, maggiore è lo spostamento del punto di ugual pressione verso la regione
collassabile, verso gli alveoli.
Man mano che il volume polmonare si
riduce (espirazione), il punto di ugual
pressione si sposta verso gli alveoli
perché si riduce la forza di retrazione
elastica del polmone, che tiene aperti i
bronchioli e dipende dal volume
polmonare. Se il volume polmonare è
basso (in prossimità del volume
residuo), la forza di retrazione è ridotta
e i bronchioli alla base polmonare, dove
la forza di retrazione polmonare è più
bassa, si chiudono.
A un certo volume polmonare, il punto
di ugual pressione è più a valle (perché la forza di retrazione elastica è uguale a 10), ma riducendo il
volume, si riduce la forza di retrazione elastica (a 2 cmH 2O) e il punto di ugual pressione si sposta più a
monte, verso gli alveoli, verso i punti in cui la pressione del bronco è maggiore.
In caso di enfisema, la compliance polmonare è elevata e il ritorno elastico del polmone è scarso: non
ha la capacità di espirare velocemente, ma espira lentamente. Se espira velocemente, il flusso di aria si
riduce immediatamente perché va incontro a costrizione bronchiale (si chiudono i bronchioli molto al
di sopra del volume residuo), dato che la forza di retrazione elastica è insufficiente a mantenere il
bronco aperto.
L'aumento della resistenza delle vie aeree produce maggior caduta di pressione (riducendo il volume
polmonare), quindi il punto di ugual pressione si sposta a monte, verso gli alveoli.
La riduzione del volume polmonare che
si realizza durante l’espirazione
determina una riduzione del volume dei
bronchi e un aumento delle resistenze
delle vie aeree. L'aumento delle
resistenze genera una caduta pressoria
che fa spostare il punto di ugual
pressione a monte. Nell'immagine, si
vede come il punto di ugual pressione,
40cmH2O, si sposta verso l'alveolo
all'aumento della resistenza.
Infatti, quando aumenta la resistenza,
dove prima la pressione era di 50cmH2O, diventa di 40cmH2O, ed è per questo che il punto di ugual
pressione si sposta a monte (la pressione diminuisce a valle della zona interessata dalla diminuzione
del diametro del condotto bronchiale).
Lavoro respiratorio
Il lavoro respiratorio costituisce il 3-5% del consumo basale di energia ed è formato da due
componenti, lavoro elastico e lavoro contro le forze di attrito, necessario per mantenere la velocità
del movimento dell'aria nonostante gli attriti interni.
Il classico esempio è una molla.
Senza attrito, il lavoro che bisogna fare corrisponde all'aria (area a) compresa tra la retta
distanza/forza e l'asse della distanza (forza per spostamento):
L=F·s
⦁ In un respiro tranquillo, si parte dalla CFR e si aumenta la capacità polmonare fino a mezzo litro di
espansione (volume vitale) compiendo un tragitto che corrisponde a una curva sul diagramma (a-b).
La pressione è sempre maggiore a parità di volume tranne nei
punti in cui non c'è flusso (inizio e fine): la pressione
intrapleurica riflesse solo la forza di retrazione elastica del
polmone.
Occorre sommare l'area A (lavoro elastico, dipende solo dal
volume polmonare) e l'area B (lavoro fatto per vincere gli
attriti dell'aria e le resistenze delle vie aeree e creare il flusso
di area). Durante l'inspirazione, in cui la pressione
intrapleurica diminuisce e aumenta il volume, si è compiuto
lavoro attivo (muscoli inspiratori).
⦁ Nell'espirazione, si rilasciano i muscoli ispiratori e il volume
ritorna al punto di partenza secondo una curva che individua
una terza area, area C.
Il lavoro fatto durante l'espirazione rimane sempre l'area
compresa tra la curva volume/pressione e l'asse del volume (L
= A - C). Non si parte da 0, ma da -5, in quanto -5 è il punto di
equilibrio. Sarebbe 0 se si potesse misurare la pressione
alveolare.
A una frequenza di 12 atti respiratori al minuto si respira mezzo litro di aria. Il lavoro elastico mostra
una certa particolare dipendenza dalla frequenza respiratoria.
Se si mantiene costante la ventilazione alveolare facendo variare la frequenza respiratoria in aumento, il
lavoro elastico diminuisce progressivamente (in quanto dipende dall'espansione polmonare e i volumi
tidali diminuiscono durante una respirazione veloce), mentre il lavoro non elastico (contro la resistenza
delle vie aeree) aumenta progressivamente all'aumentare della frequenza respiratoria (più si respira
velocemente, più alte sono le resistenze).
Sommando i due valori, ci si rende conto che la frequenza respiratoria
ottimale per un lavoro respiratorio minimo è piazzabile a un livello che
corrisponde alla nostra normale frequenza respiratoria, la più
conveniente dal punto di vista energetico, che minimizza il lavoro
associato al ciclo respiratorio.
A - A livello della capacità vitale, la pressione sviluppata nelle vie aeree corrisponde esclusivamente
alla pressione esercitata dalle forze elastiche di ritorno. Alla capacità vitale, non si può fare uno sforzo
inspiratorio, mentre uno sforzo espiratorio a glottide chiusa porta il volume polmonare al 75% della
capacità vitale (pressione alveolare di 225mmHg);
B - la pressione sviluppata
dallo sforzo espiratorio si
somma alla pressione
esercitata dalle forze
elastiche di ritorno. Il
volume si riduce quasi
contemporaneamente alla
pressione. Partendo da
volumi sempre più bassi, la
pressione nelle vie aeree si
riduce progressivamente;
Alla CFR, la pressione
generata è puramente attiva
(non c'è più ritorno
elastico);
Anche quando il volume
scende al di sotto della CFR
si può generare forzo
espiratorio (sviluppare pressione isometrica), fino al punto del volume residuo, in cui non si riesce più
a modificare la pressione delle vie aeree;
C - a volume residuo, però, non è possibile uno sforzo espiratorio (la pressione negativa generata dalle
proprietà elastiche del sistema nelle vie aeree non è modificabile), mentre si può inspirare a glottide
chiusa. Uno sforzo inspiratorio in condizioni isometriche produce una variazione di pressione di circa
120 cmH2O (capacità di sforzo inspiratorio è inferiore alla capacità di sforzo espiratorio, che variava la
pressione di 225cmH2O), portando il volume polmonare ad un aumento del 18% della capacità vitale e
la pressione alveolare a -125mmHg.
Aumentando il volume di partenza, la capacità di realizzare pressione negativa nelle vie aeree cala
finché non si torna al massimo volume polmonare (capacità vitale), in cui non è possibile compiere
sforzo inspiratorio.
I limiti della capacità respiratoria sono 225 cmH2O in espirazione (cui si devono togliere 20 cmH2O
dovuti a caratteristiche passive del sistema) e 125 cmH 2O in inspirazione (tenendo conto che il
contributo delle forze elastiche passive è circa 40 cmH 2O).
Diffusione
dei
gas
Il
moto
disordinato
delle
particelle
di
un
gas
genera
un
processo
diffusionale
quando
esiste
un
gradiente
di
concentrazione
(ovvero
quando
la
concentrazione
di
un
gas
non
è
uniforme).
I
gas
tendono
a
diffondere
sia
in
fase
aeriforme
sia
se
sciolti
in
un
liquido
seguendo
il
loro
gradiente
di
concentrazione
(da
dove
sono
più
concentrati
a
dove
lo
sono
meno).
In
questo
caso,
nello
studio
della
diffusione
dei
gas
non
si
usa
la
differenza
di
concentrazione,
ma
la
pressione
che,
sulla
base
dell'equazione
di
gas,
dipende
dalla
concentrazione:
PV
=
nRT
La
legge
di
Boyle,
coinvolta
anche
nella
meccanica
della
respirazione
(durante
l'ispirazione
diminuisce
la
pressione
all'interno
dell'alveolo
perché
il
volume
di
quel
compartimento
aumenta),
afferma
che:
P
x
V
=
costante
T=cost
La
legge
di
Gay-‐Lussac
afferma
che,
all'aumento
della
temperatura,
mantenendo
costante
la
pressione,
aumenta
il
volume.
Infine,
la
legge
di
Dalton
indica
che
la
pressione
esercitata
da
un
gas
è
uguale
alla
pressione
parziale
dei
singoli
gas
che
compongono
la
miscela,
ovvero
la
pressione
che
il
singolo
gas
eserciterebbe
se
occupasse
da
solo
tutto
il
volume.
Ptot
=
PA
+
PB
+
PC
La
pressione
parziale
è
uguale
al
prodotto
della
pressione
totale
del
miscuglio
gassoso
moltiplicato
per
la
concentrazione
del
gas.
La
concentrazione
è
il
rapporto
tra
volume
del
gas
e
volume
totale
della
miscela,
quindi
una
concentrazione
percentuale.
La
nostra
atmosfera,
trascurando
il
contributo
dell'umidità,
è
costituita
per
il
79%
di
azoto
e
21%
di
ossigeno,
quindi:
pN2
=
760mmHg
(pressione
atmosferica)
x
79%
(ovvero
0.79)
=
600
mmHg
pO2
=
760mmHg
x
0.21
=
160mmHg
Quando
l'aeriforme
è
in
fase
liquida,
le
molecole
di
gas
si
sciolgono
nel
liquido
e
creano
una
pressione
parziale,
che
sale
man
mano
che
le
molecola
di
gas
passano
sempre
più
in
soluzione.
Il
processo
diffusionale
ha
fine
quando
la
pressione
esercitata
dal
gas
nella
fase
aeriforme
è
uguale
alla
pressione
esercitata
dal
gas
in
fase
liquida.
Quindi,
le
concentrazioni
possono
essere
diverse
ma
la
pressione
sarà
sempre
uguale.
Il
rapporto
tra
concentrazione
e
pressione
in
un
liquido
è
espresso
dalla
legge
di
Henry:
la
concentrazione
(C)
di
un
gas
in
un
liquido
è
uguale
al
prodotto
della
pressione
del
gas
(P)
per
il
coefficiente
di
solubilità
(S).
C
=
P
x
S
Se
un
gas
è
molto
solubile,
a
parità
di
pressione
avrà
una
concentrazione
maggiore
nel
liquido
rispetto
a
un
gas
con
coefficiente
di
solubilità
inferiore.
Se
si
riscrive
la
legge
di
Henry
mettendo
in
evidenza
la
pressione,
allora:
P
=
C/S
Non
appena
si
scioglie
una
piccola
quantità
di
gas
poco
solubile,
aumenta
subito
la
pressione
parziale
del
gas,
mentre
se
un
gas
è
poco
solubile
aumenta
di
meno.
Maggiore
è
la
solubilità
del
gas,
maggiore
è
il
volume
di
gas
che
entra
in
soluzione
senza
aumentare
la
pressione.
La
solubilità
dei
gas,
esprimendo
pressione
in
atm
e
concentrazioni
in
volumi
%,
è:
-‐
0.024
per
l'ossigeno,
-‐
0.57
per
l'anidride
carbonica
(20
volte
più
solubile
dell'ossigeno),
-‐
0.018
per
il
CO,
-‐
0.012
per
il
N2,
-‐
0.008
per
l'He.
La
legge
che
regola
il
movimento
dei
gas
a
livello
alveolare
è
la
legge
di
Fick,
per
cui
la
velocità
di
diffusione
(unità
di
volume/unità
di
tempo)
è
proporzionale
al
gradiente
di
pressione
a
cavallo
della
membrana
alveolo-‐capillare,
alla
superficie
di
scambio
(A)
e
alla
costante
di
diffusione
(o
coefficiente
di
diffusione,
D).
v
=
(D
A
ΔP)
/
X
Dove
X
è
lo
spessore
della
membrana
alveolo-‐capillare,
A
la
superficie
della
membrana
alveolo-‐
capillare.
Si
tratta
della
stessa
legge
che
descrive
la
diffusione
dei
metaboliti
nel
contesto
degli
scambi
capillare-‐
tessuto.
Il
coefficiente
di
diffusione
è
uguale
al
rapporto
tra
la
solubilità
del
gas
nel
liquido
e
la
radice
quadrata
del
peso
molecolare
(MV).
D
=
S/ 𝑀𝑉
Si
intende
solubilità
nell'acqua
e
non
nei
lipidi
(in
cui
la
solubilità
è
altissima).
Nel
processo
diffusionale,
il
tempo
di
attraversamento
della
membrana
è
trascurabile
rispetto
al
tempo
di
attraversamento
della
fase
acquosa.
Rispetto
all'ossigeno,
la
CO2
ha
capacità
diffusionale
20
volte
superiore
per
la
relativa
differenza
nella
solubilità
nell'acqua.
Infatti
D
per
l'ossigeno
è
1,
per
l'anidride
carbonica
20.3,
per
il
CO
è
0.81
e
per
N2
0.53.
Quindi,
quando
si
osserva
il
gradiente
di
pressione
tra
alveolo
e
capillare,
si
trova
per
l'ossigeno
un
gradiente
di
ben
60mmHg,
mentre
per
la
CO2
solo
6mmHg.
Nonostante
questo,
la
velocità
di
diffusione
dei
due
gas
è
quasi
uguale
per
il
fatto
che
la
solubilità
della
CO2
è
molto
maggiore,
per
cui
basta
un
gradiente
piccolo
per
spingere
grossi
volumi
di
CO2
attraverso
la
membrana
alveolo-‐capillare,
mentre
per
l'ossigeno
occorre
un
gradiente
superiore.
Valori
di
pressione
parziale
dei
gas
respiratori
nelle
vie
aeree
La
pressione
parziale
di
O2
nell'atmosfera
è
160mmHg
contro
i
600mmHg
dell'azoto,
trascurando
l'umidità,
ovvero
la
pressione
parziale
del
vapore
acqueo.
La
pressione
barometrica
è
sempre
la
stessa,
760mmHg,
per
cui
la
presenza
di
vapore
acqueo
determina
una
diminuzione
delle
pressioni
parziali
degli
altri
gas,
li
diluisce,
anche
se
la
concentrazione
relativa
dei
gas
rimane
costante.
Immaginando
di
avere
12mmHg
di
pressione
di
acqua,
l'ossigeno
costituisce
sempre
il
21%
e
l'azoto
il
79%,
occorre
per
togliere
dai
760mmHg
la
quota
che
dipende
dal
vapore
acqueo,
ottenendo
748mmHg,
ascrivibili
sempre
per
il
21%
all'ossigeno
e
il
79%
all'azoto,
per
cui
si
può
ancora
calcolare
la
pressione
parziale
di
ossigeno
e
azoto
dopo
aver
modificato
la
pressione
barometrica
tenendo
conto
dell'umidità:
pN2
=
748mmHg
x
0.79
=
591mmHg
pO2
=
748mmHg
x
0.21
=
157mmHg
Quindi,
le
pressioni
parziali
dipendono
dall'umidità
(o
dalla
CO2
in
situazioni
particolari,
come
esalazione
vulcanica
che
libera
anidride
carbonica).
La
pressione
di
vapore
nel
nostro
organismo
è
di
47mmHg,
che
diluisce
ulteriormente
i
valori
di
pressioni
parziali
di
azoto
e
ossigeno:
pO2
=
(760
-‐
47)
x
0.21
pN2
=
(760
-‐
47)
x
0.79
L'ossigeno
arriva
nelle
vie
aeree
a
una
pressione
parziale
di
150mmHg.
Nell'alveolo,
l'ossigeno
passa
nel
sangue
(viene
consumato)
e
il
sangue
cede
CO2,
modificando
ulteriormente
le
concentrazioni
dei
gas,
le
pressioni
parziali
e
le
frazioni
secche
(concentrazioni
senza
tener
conto
del
vapore
acqueo),
che
nelle
vie
aeree
sono
costanti
(0.21
e
0.79),
ma
non
sono
costanti
nell'alveolo,
perché
l'ossigeno
viene
consumato
e
si
aggiunge
anidride
carbonica.
Si
modificano
quindi
anche
i
valori
percentuali
relativi
di
ossigeno
e
azoto.
L'ossigeno,
in
media,
a
livello
alveolare,
è
sceso
a
100mmHg
(rispetto
a
157mmHg
nelle
vie
aeree
quando
si
ispira),
nell'alveolo
si
è
aggiunta
CO2,
aumentando
la
sua
pressione
parziale
(che
nell'aria
ambiente
è
zero)
a
40mmHg.
Nel
sangue
che
arriva
a
livello
alveolare,
l'ossigeno
ha
pressione
parziale
di
40mmHg
contro
i
46mmHg
della
CO2.
Il
sangue
scorre
nei
capillari
polmonari
e,
alla
fine,
si
ritrovano
nel
sangue
gli
stessi
valori
che
si
ritrovano
nell'alveolo,
per
cui
si
giunge
a
un
equilibrio
in
cui
le
pressioni
parziali
dei
due
gas
sono
uguali
nell'alveolo
e
nel
sangue
se
si
è
in
ambiente
normale,
a
riposo
e
in
condizioni
normali.
Passando
dal
sangue
refluo
del
capillare
alveolare
all'arteria,
si
osserva
che
la
pressione
parziale
di
ossigeno
cala
da
100
a
95mmHg,
mentre
la
pressione
parziale
della
CO2
è
costante
(anche
se
in
realtà
si
modifica,
aumentando
di
pochissimo).
Questo
fenomeno
è
dovuto
agli
shunt
anatomici
e
ad
altri
fattori
da
analizzare.
Il
sangue
refluo
della
circolazione
bronchiale
e
il
sangue
della
circolazione
coronarica
si
mescola
al
sangue
arterioso.
Nel
muscolo
in
esercizio
massimale,
la
pO2
è
10
mmHg
e
la
pCO2
arriva
a
60mmHg.
A
riposo,
il
sangue
refluo
che
confluisce
nelle
vene
cave
produce
una
pO2
di
40mmHg
e
una
pCO2
di
46mmHg.
Nel
sangue
refluo
dei
capillari
alveolari,
la
pressione
parziale
dei
tali
gas,
uguale
a
quella
alveolare,
è
tale
che
la
somma
totale
delle
pressioni
parziali
dà
760mmHg
(pressione
atmosferica),
mentre
a
livello
venoso
cala
a
706mmHg
per
via
della
diversa
solubilità
di
ossigeno
e
CO2
e
per
via
del
fatto
che
la
quantità
di
ossigeno
consumata
è
superiore
alla
CO2
che
prodotta
dai
tessuti.
Normalmente
si
consumano
250ml
di
ossigeno
al
minuto,
ma
si
producono
soltanto
200ml
di
CO2,
inoltre
il
volume
di
ossigeno
che
viene
sottratto
dal
sangue
produce
un
abbattimento
della
pressione
parziale
del
sangue
molto
maggiore
rispetto
a
quello
generato
dall'anidride
carbonica,
perché
l'anidride
carbonica
è
più
solubile
e
la
sua
aggiunta
al
sangue
non
provoca
una
variazione
di
pressione
uguale
a
quella
prodotta
dalla
quantità
di
ossigeno
prelevata.
Di
conseguenza,
nel
sangue
venoso
la
pressione
barometrica
è
un
po'
più
bassa
rispetto
a
quella
atmosferica.
Questo
squilibrio
(differenza
di
pressione
tra
alveolo
e
sangue
venoso)
può
determinare,
quando
i
bronchioli
vengono
chiusi,
fenomeni
di
atelettasia,
perché
l'ossigeno
continua
a
passare
nel
sangue
e,
quando
nell'alveolo
trova
una
pressione
barometrica
inferiore
a
quella
del
sangue,
facilita
la
tendenza
degli
alveoli
ad
andare
incontro
a
collasso,
che
si
può
verificare
all'ostruzione
di
compartimenti
bronchiali.
In
un
singolo
respiro,
si
porta
nei
polmoni
un
volume
tidale
di
mezzo
litro,
di
cui
250ml
finiscono
negli
alveoli,
dove
si
aggiungono
a
un
volume
che
è
superiore
a
2L.
Questo
fa
sì
che
la
concentrazione
di
O2
e
CO2
durante
il
ciclo
respiratorio
non
subisca
variazioni
drammatiche.
Naturalmente,
questo
non
avviene
quando
il
volume
aumenta,
come
durante
l'esercizio
fisico.
A
riposo,
il
rapporto
tra
volume
tidale
e
volume
alveolare
di
base
è
basso
e
fa
sì
che
le
concentrazioni
dei
gas
presenti
nell'alveolo
subiscano
variazioni
modeste.
Allo
stesso
modo,
il
ricambio
ridotto
dell'aria
alveolare
(350ml
per
respiro)
fa
sì
che
occorre
un
tempo
lungo
per
eliminare
un
eventuale
gas
estraneo
inalato
(circa
17
secondi
per
eliminarne
il
50%).
Il
grafico
mostra
le
variazioni
di
pCO2
e
pO2
all'interno
dell'alveolo.
Durante
l'inspirazione,
si
porta
aria
ricca
di
ossigeno
(250ml)
quindi
si
varia
la
concentrazione
di
ossigeno
e
la
sua
pressione
parziale
nell'alveolo.
Allo
stesso
modo,
anche
della
CO2,
perché
l'aria
introdotta
è
priva
di
anidride
carbonica.
Le
fluttuazioni
sono
di
più
o
meno
di
1.5mmHg
(oscillazioni
tra
98
e
101
mmHg
per
l'ossigeno),
per
cui
si
può
considera
costante
la
pO2
durante
il
ciclo
respiratorio.
Se
la
ventilazione
aumenta,
le
fluttuazioni
sono
considerevoli
e
l'approssimazione
non
è
valida.
Fattori
da
cui
dipendono
le
pressioni
parziali
La
pressione
alveolare
di
O2
è
100mmHg
(secondo
alcuni
testi
104mmHg)
e
dipende
da:
-‐ ventilazione
alveolare
(aumenta
all'aumento);
-‐ pO2
nell'atmosfera;
-‐ consumo
di
ossigeno
(aumenta
se
diminuisce
la
velocità
di
assorbimento
di
ossigeno).
E'
possibile
definire
questa
relazione
in
maniera
quantitativa
tenendo
conto
che
il
consumo
tissutale
di
ossigeno
è
uguale
all'ossigeno
che
nell'unità
di
tempo
passa
dall'alveolo
a
sangue.
Indicando
con
VO2
l'ossigeno
consumato,
si
può
affermare
che:
VO2
=
VentA
[O2]insp
-‐
VentA
[O2]A
L'ossigeno
che
passa
nel
sangue
è
uguale
all'ossigeno
che
si
porta
nel
polmone
meno
l'ossigeno
che
viene
esalato,
ovvero
il
prodotto
della
ventilazione
alveolare
per
la
concentrazione
di
ossigeno
inspirato
(ventA
[O2]insp)
meno
la
ventilazione
alveolare
per
la
concentrazione
di
ossigeno
nell'aria
alveolare
(ventA
[O2]A).
La
ventilazione
alveolare
in
ingresso
non
è
uguale
a
quella
in
uscita
perché
normalmente
il
volume
di
CO2
prodotto
non
è
uguale
al
volume
di
ossigeno
che
nello
stesso
tempo
viene
consumato.
VentA
[O2]A
=
VentA
[O2]insp
-‐
VO2
Mettendo
in
evidenza
la
concentrazione
di
ossigeno
alveolare:
[O2]A
=
[O2]insp
-‐
(VO2/VentA)
Per
la
legge
di
Dalton,
la
concentrazione
dell'ossigeno
è
uguale
al
rapporto
della
pressione
parziale
dell'ossigeno
rispetto
a
quella
totale:
[O2]A
=
pO2
alv
/(760
-‐
pH2O)
Questo
parametro
si
definisce
anche
frazione
secca
(perché
la
pressione
totale
è
quella
che
tiene
conto
della
pressione
parziale
del
vapore
acqueo).
Quindi
l'equazione
diventa:
pO2
alv
=
(760
-‐
pH2O)
([O2]insp
-‐
VO2/VentA)
Questa
curva,
all'aumentare
della
ventilazione
alveolare,
tende
a
un
valore
asintotico,
il
quale
è
la
pressione
parziale
di
ossigeno
che
si
ritrova
a
livello
delle
vie
aeree
(150mmHg).
Le
curve
si
riferiscono
a
due
livelli
diversi
nel
consumo
di
ossigeno,
rispettivamente
250ml
e
1L.
Si
considerano
i
valori
delle
curve
quando
la
ventilazione
alveolare
è
tra
4
e
5
L
al
minuto,
valore
normale.
Se
il
consumo
di
ossigeno
è
di
250ml/min,
la
pressione
parziale
di
ossigeno
nell'aria
alveolare
è
100mmHg,
se
il
consumo
di
ossigeno
aumenta
di
4
volte
(1000ml)
la
pressione
cala
a
25mmHg.
All'aumento
del
consumo
di
ossigeno,
i
meccanismi
omeostatici
nel
nostro
organismo
aumentano
la
ventilazione
in
modo
da
poter
mantenere
valori
costanti
di
ossigeno
a
livello
alveolare.
La
pCO2,
invece,
dipende
da:
-‐ ventilazione
alveolare
(aumenta
se
diminuisce
la
ventilazione);
-‐ velocità
di
produzione
della
CO2
(VCO2)
Normalmente,
l'anidride
carbonica
non
è
presente
nell'aria,
tranne
in
condizioni
particolari
in
cui
si
possono
respirare
miscele
di
gas
in
cui
la
pCO2
è
diversa
da
zero.
Se
si
respira
normalmente
in
un
ambiente
privo
di
CO2,
allora
la
velocità
nella
produzione
della
CO2
è
uguale
alla
velocità
con
cui
viene
espulsa
all'esterno.
Quindi:
VCO2
=
ventA
[CO2]A
Il
volume
di
CO2
prodotto
è
uguale
al
prodotto
della
ventilazione
alveolare
per
la
concentrazione
alveolare
di
anidride
carbonica.
[CO2]A
=
VCO2/ventA
Sostituendo
al
termine
[CO2]A
il
valore
dato
dalla
legge
di
Dalton:
[CO2]A
=
pCO2
alv/(760-‐pH2O)
Quindi,
il
prodotto
della
pCO2
per
la
ventilazione
alveolare
è
uguale
ad
un
termine
che
è
costante
se
l'attività
metabolica
del
soggetto
è
costante.
All'aumentare
della
ventilazione
alveolare,
il
valore
della
pCO2
tende
asintoticamente
a
zero,
mentre
quando
la
ventilazione
alveolare
si
azzera,
la
pCO2
tende
all'infinito.
Se
si
dimezza
il
livello
di
ventilazione
senza
modificare
il
metabolismo
(in
intossicazione
da
barbiturico,
per
esempio)
la
produzione
di
CO2
rimane
costante,
ma
diminuisce
la
sua
velocità
di
eliminazione
dall'organismo,
per
cui
si
accumula
nei
tessuti,
nel
sangue
e
nell'alveolo.
L'accumulo
continua
finché
la
concentrazione
di
CO2
nell'alveolo
raggiunge
una
concentrazione
doppia
a
quella
iniziale.
A
questo
punto,
la
ventilazione
dimezzata
elimina
la
stessa
quantità
che
viene
prodotta
dai
tessuti.
La
relazione
fondamentale
è
VCO2
=
ventA
[CO2]A
(produzione
di
anidride
carbonica
uguale
a
ventilazione
alveolare
per
concentrazione
alveolare
di
CO2),
per
cui
se
si
dimezza
la
ventilazione
alveolare,
la
concentrazione
deve
raddoppiare
per
pareggiare
il
prodotto.
Se
raddoppia
la
concentrazione
di
CO2,
vuol
dire
che
è
raddoppiata
anche
la
pCO2
(perché
è
costante
il
prodotto
della
ventilazione
alveolare
per
la
concentrazione
di
CO2
nell'alveolo
ed
è
costante
anche
il
prodotto
tra
ventilazione
alveolare
e
pressione
parziale
di
CO2
dell'alveolo).
Se
si
aumenta
il
metabolismo
di
4
volte,
la
pCO2
salirebbe
da
40mmHg
fino
a
150mmHg.
Questo
non
accade
perché
aumentando
il
metabolismo,
automaticamente
aumenta
la
ventilazione
alveolare
che
si
porta
tra
15
e
20L
al
minuto,
mantenendo
la
pCO2
costante
a
40mmHg.
Il
plateau
alveolare
è
la
concentrazione
dei
gas
nell'alveolo
che
si
può
misurare
alla
fine
dell'espirazione.
Registrando
un
plateau
alveolare
in
un
soggetto
sano,
vuol
dire
che
sta
esalando
aria
dagli
alveoli
e
si
può
misurare
la
concentrazione
dei
gas
in
essa.
Quando
si
inspira,
si
riempie
l'aria
dello
spazio
morto
di
aria
ambiente:
150mmHg
di
ossigeno
e
0
di
anidride
carbonica.
I
primi
valori
che
si
iniziano
a
esalare
sono
150
per
l'ossigeno
e
0
per
la
CO2.
Poi,
comincia
ad
essere
esalata
una
frazione
di
aria
dello
spazio
morto
degli
alveoli
per
cui
la
pO2
diminuisce
fino
ad
arrivare
a
100.
La
CO2
sale
fino
ad
arrivare
a
40mmHg.
Alla
fine
dell'espirazione,
l'aria
dello
spazio
morto
non
è
più
aria
ambiente,
ma
aria
alveolare,
con
le
pressioni
parziali
di
ossigeno
e
anidride
carbonica
a
100
e
a
40.
Quindi,
l'aria
dello
spazio
morto
dipende
dal
momento
del
ciclo
respiratorio
(inspirazione
o
espirazione).
Un
altro
fattore
importante
nel
determinare
i
valori
alveolari,
oltre
a
ventilazione
e
consumo
e
produzione
dei
gas,
è
il
rapporto
tra
ventilazione
(VentA)
e
perfusione
(Q).
In
un
alveolo
molto
ventilato,
entra
molto
ossigeno
nell'unità
di
tempo,
ma
il
valore
di
pO2
che
si
crea
dipende
dall'ossigeno
che
entra
e
da
quello
che
si
porta
nel
sangue.
Se
l'alveolo
è
molto
perfuso,
è
molto
elevata
la
quantità
di
ossigeno
che
si
porta
nel
sangue.
Per
questo,
la
ventilazione
non
può
essere
considerata
da
sola,
ma
deve
essere
considerata
in
rapporto
alla
perfusione.
Se
è
poco
ventilato
ed
è
ancor
meno
perfuso
(l'ossigeno
che
entra
è
maggiore
di
quello
che
si
porta
nel
sangue),
nell'alveolo
resta
abbastanza
ossigeno
da
determinare
una
pressione
parziale
anche
maggiore
della
media
alveolare.
Occorre
prendere
in
esame
i
casi
limite,
ovvero
quello
di
un
rapporto
ventilazione/perfusione
infinito
e
quello
di
un
rapporto
ventilazione/perfusione
uguale
a
zero.
In
caso
di
rapporto
ventilazione/perfusione
infinito,
l'alveolo
è
tanto
ventilato,
ma
pochissimo
perfuso,
quindi
è
come
se
fosse
pieno
di
aria
ambiente
(non
c'è
perdita
verso
il
sangue).
Questo
sarebbe
l'alveolo
ventilato,
ma
non
perfuso.
Avrebbe,
quindi,
una
pCO2
a
zero,
come
quella
atmosferica,
e
pO2
a
150mmHg,
valore
delle
vie
aeree
(che
non
può
mai
essere
superato,
perché
tutti
i
movimenti
sono
diffusionali
quindi
l'aria
ambiente
nell'alveolo
avrà
al
massimo
la
pO2
che
si
trova
nelle
vie
aeree
e
non
quella
che
si
può
misurare
nell'atmosfera,
perché
la
temperatura
corporea
di
37°
determina
una
pressione
di
vapore
acqueo
di
47mmHg).
L'altro
caso
limite
è
quello
di
un
alveolo
non
ventilato,
ma
perfuso:
in
esso
la
pO2
e
la
pCO2
sono
uguali
a
quelle
che
si
trovano
a
livello
del
sangue
capillare
(rapporto
ventilazione/perfusione
uguale
a
zero).
I
valori
del
rapporto
ventilazione/perfusione
sono
disposti
tra
questi
estremi
(casi
limite).
Il
valore
medio
corrisponde
a
un
rapporto
ventilazione/perfusione
uguale
a
1,
normale
(ventilazione
e
gittata
corrispondono
entrambi
a
circa
5
L
al
minuto).
In
ortostatismo,
la
base
è
più
perfusa
e
l'apice
meno
perfuso,
così
come
la
base
è
più
ventilata,
l'apice
meno
ventilato.
La
pendenza
della
relazione
tra
perfusione
e
distanza
dall'apice
è
molto
maggiore
rispetto
alla
pendenza
della
relazione
tra
ventilazione
e
distanza
dall'apice.
Per
questo,
il
rapporto
ventilazione/perfusione
cambia
nel
polmone
in
ortostatismo.
Tra
apici
e
terza
costa
la
ventilazione
è
sempre
maggiore
alla
perfusione,
quindi
il
rapporto:
VentA/Q
>
1
ovvero
domina
la
ventilazione
(valore
massimo
3.3).
Non
si
può
dire
però
che
l'apice
è
meglio
ventilato
e
meno
perfuso,
in
quanto
è
peggio
ventilato
così
come
è
peggio
perfuso.
L'affermazione
corretta
è:
l'apice
è
meglio
ventilato
CHE
perfuso.
Alla
base,
il
rapporto
è:
VentA/Q
<
1
Questo
perché
la
base,
che
è
meglio
ventilata
dell'apice,
presenta
alveoli
con
una
pO2
più
bassa
rispetto
all'apice,
dove
gli
alveoli
sono
peggio
ventilati,
quindi
essere
meglio
ventilati
non
basta
per
avere
una
pO2
più
elevata:
gli
alveoli
alla
base,
infatti,
sono
meglio
perfusi
CHE
ventilati,
quindi
la
ventilazione
non
è
sufficiente
a
mantenere
il
livello
di
pO2.
Quindi,
la
pO2
è
più
bassa
alla
base,
più
alta
all'apice.
L'opposto
avviene
per
la
pCO2,
più
elevata
alla
base,
più
bassa
all'apice.
Facendo
respirare
al
soggetto
aria
che
contiene
Xeno
radioattivo,
si
verifica
questa
situazione
(che
dipende
dalla
gravità,
infatti
scompare
nel
soggetto
sdraiato).
La
base
del
polmone
è
meglio
ventilata
per
via
del
volume
degli
alveoli
alla
base.
Osservando
la
curva
di
compliance,
si
osserva
che
quando
le
dimensioni
sono
ridotte
basta
una
piccola
variazione
di
pressione
per
aumentare
il
volume
(compliance
elevata),
mentre
se
le
dimensioni
sono
maggiori,
variazioni
di
pressione
non
determinano
variazioni
di
volume
(compliance
ridotta):
se
l'alveolo
è
piccolo,
c'è
margine
di
espansione,
se
l'alveolo
è
grande
si
allarga
di
poco.
Gli
alveoli
alla
base
hanno
dimensioni
minori
di
quelli
all'apice
perché
sono
"schiacciati"
dal
peso
della
parte
superiore
del
polmone,
mentre
quelli
all'apice
sono
allargati
dal
peso
della
parte
inferiore
del
polmone,
che
li
stira
verso
il
basso.
Con
una
terminologia
più
raffinata,
il
cavo
pleurico
è
pieno
di
liquido
e
vige
una
pressione
idrostatica:
se
ci
si
trova
in
piedi,
la
pressione
all'apice
(-‐10cmH2O)
è
inferiore
di
quella
alla
base
(-‐3cmH2O),
quindi
la
pressione
transmurale
sarà
ridotta
alla
base
(meno
negativa),
quindi
ridotto
il
volume
(la
pressione
alveolare
è
zero).
Gli
alveoli
alla
base
non
sono
sempre
meglio
ventilati,
in
quanto
se
si
respira
dal
volume
residuo
(e
non
dalla
capacità
funzionale
residua)
questo
non
avviene.
Il
motivo
è
che,
quando
si
inspira
dal
volume
residuo,
dopo
una
espirazione
forzata,
i
bronchioli
basali
sono
collassati,
quindi
la
base
del
polmone
è
meno
ventilata.
E'
possibile
misurare
in
maniera
quantitativa
il
volume
polmonare
per
cui
cominciano
a
chiudersi
gli
alveoli
alla
base
del
polmone.
Si
utilizza
lo
stesso
metodo
che
si
utilizza
per
calcolare
lo
spazio
morto
anatomico.
Il
soggetto
inspira
e
in
seguito
esala
e
a
un
certo
punto
inizia
a
esalare
azoto
a
concentrazione
sempre
crescente
(sta
svuotando
il
compartimento
alveolare).
Quando
si
arriva
alla
fine
dell'espirazione
e
il
volume
è
vicino
al
volume
residuo,
la
curva
della
concentrazione
dell'azoto
comincia
a
impennarsi,
in
quanto
iniziano
a
chiudersi
gli
alveoli
alla
base
del
polmone
(segnata
da
un
aumento
della
concentrazione
di
azoto
nell'aria
esalata).
Questo
avviene
perché
l'apice
del
polmone
è
peggio
ventilato
della
base,
quindi
c'è
meno
ossigeno
puro
(hanno
preso
una
quota
minore
del
respiro
di
O2
e
la
concentrazione
di
azoto
è
maggiore).
In
condizioni
patologiche
il
plateau
alveolare
non
viene
raggiunto
e
il
volume
di
chiusura
non
può
essere
valutato.
Fattori
che
limitano
il
movimento
dei
gas
Il
movimento
di
gas
può
essere
limitato
dalla
diffusione
o
dalla
perfusione:
quando
il
movimento
è
limitato
dalla
diffusione,
se
si
migliora
la
diffusione,
si
migliora
il
passaggio
del
gas
da
alveolo
a
sangue
e
viceversa.
Il
livello
di
diffusione
che
si
verifica
nell'alveolo
non
consente,
in
condizioni
normali,
che
il
sangue
sia
in
equilibrio
con
l'aria
alveolare:
questo
non
avviene
nel
nostro
organismo.
Nel
caso
degli
scambi
che
avvengono
in
un
soggetto
normale
in
buone
condizioni
di
salute,
a
riposo,
il
fattore
limitante
non
è
la
diffusione,
per
cui
deve
essere
la
perfusione
(volume
di
sangue
che
passa
al
minuto
attraverso
il
circolo).
Aumentando
la
perfusione,
si
può
veicolare
un
volume
maggiore
di
ossigeno.
Ogni
volume
di
sangue
che
passa
per
i
capillari
alveolari
raggiunge
la
pressione
parziale
dell'alveolo,
quindi
carica
il
massimo
possibile
di
ossigeno.
Se
la
pressione
parziale
nell'alveolo
e
nel
sangue
alla
fine
sono
uguali,
il
trasporto
è
limitato
dalla
perfusione,
se
sono
diversi
è
limitato
dalla
diffusione.
Nel
nostro
organismo,
il
trasporto
è
limitato
dalla
perfusione.
Potrebbe
essere
limitato
dalla
diffusione
solo
se
esistesse
un
meccanismo
di
trasporto
attivo
del
gas.
Considerando
il
caso
limite
di
trasporto
limitato
dalla
diffusione,
immaginiamo
che
un
gas
sia
presente
nell'alveolo
a
pressione
molto
bassa,
il
quale
si
lega
a
un
traportatore,
come
l'emoglobina,
che
ha
un
livello
di
saturazione
molto
basso
perché
la
pressione
parziale
nell'alveolo
è
tanto
bassa
da
essere
lontana
dai
livelli
di
pressione
parziale
che
sarebbero
necessari
per
raggiungere
la
saturazione
del
trasportatore.
Quando
si
lavora
in
queste
condizioni
(ad
esempio,
il
gas
è
il
monossido
di
carbonio),
il
gas
diffonde
e
immediatamente
si
lega
al
trasportatore,
quindi
la
sua
concentrazione
a
livello
del
plasma
è
praticamente
zero
e
rimane
quasi
a
zero
per
tutta
la
durata
del
capillare
alveolare.
Si
è
lontani
dal
raggiungere
la
massima
possibilità
di
trasporto
del
gas.
Quindi,
la
pressione
parziale
del
CO
nel
sangue
rimane
per
tutta
la
durata
del
percorso
quasi
a
zero
e
rimane
un
gradiente
alveolo
capillare
che
corrisponde
alla
differenza
tra
la
pressione
alveolare
e
quella
del
plasma,
che
è
virtualmente
zero.
Questo
è
il
trasporto
più
limitato
dalla
diffusione
che
si
può
immaginare.
In
caso
di
trasporto
limitato
della
perfusione,
si
considera
il
N2O,
senza
trasportatore.
Le
molecole
di
gas
diffondono
subito
in
soluzione,
alzano
immediatamente
la
pressione
parziale
nel
sangue
che
si
equilibra
rapidamente
alla
pressione
parziale
alveolare.
Per
determinare
il
passaggio
di
altre
molecole
nel
sangue,
occorre
che
il
sangue
scorra.
Il
sangue
si
è
riempito
della
massima
capacità
di
trasporto,
della
quantità
di
gas
che
corrisponde
alla
pressione
parziale
che
si
rileva
nell'alveolo.
Il
movimento
dei
gas
respiratori
nel
polmone
umano
avviene
attraverso
il
meccanismo
di
trasporto
ad
elevata
affinità
per
l'ossigeno
(emoglobina).
La
pressione
parziale
alveolare
non
è
lontana
dalla
massima
saturazione
dell'emoglobina:
il
gas
diffonde
aumentando
progressivamente
la
pressione
parziale
del
sangue
finché
a
circa
1/3
del
tratto
del
capillare
alveolare
non
si
mette
in
equilibrio
con
quella
alveolare.
A
questo
punto,
il
sangue
non
è
in
grado
di
caricarsi
di
altro
ossigeno.
Nei
primi
250ms
(prima
parte
del
tragitto),
si
osserva
la
diffusione
all'opera
che
porta
la
pO2
a
livelli
sempre
maggiori,
finché
non
raggiunge
il
massimo
del
risultato
realizzando
nel
capillare
la
stessa
pO2
dell'alveolo.
Anche
se
inizialmente
la
diffusione
è
il
fattore
limitante
(se
migliorata
si
arriva
più
velocemente
alla
pO2
dell'alveolo),
in
questo
caso
il
trasporto
è
limitato
dalla
perfusione.
Questo
è
il
caso
reale,
il
comportamento
di
anidride
carbonica
e
ossigeno.
Gli
esempi
precedenti
erano
casi
limite:
il
primo
è
il
caso
del
trasporto
limitato
da
diffusione,
in
cui
il
gradiente
alveolo
capillare
permane
perché
il
trasportatore
è
ad
alta
affinità,
ma
lontanissimo
dalla
saturazione.
Nel
secondo
caso
le
molecole
si
disciolgono
nel
sangue,
aumentano
immediatamente
la
pressione
e
il
volume
di
sangue
si
satura.
In
condizioni
patologiche,
all'aumento
della
dimensione
dell'interstizio
(accumulo
di
liquido
dovuto
a
infiammazione),
le
distanze
del
processo
di
diffusione
si
allungano,
per
cui
il
raggiungimento
della
pO2
alveolare
è
tardivo,
non
accade
entro
i
300ms,
ma
verso
i
600ms.
In
questo
caso,
il
gradiente
alveolo-‐capillare
non
si
forma:
il
problema
di
diffusione
ancora
non
manifesta
le
sue
conseguenze.
Se
il
problema
diffusionale
diventa
più
importante,
allora
il
sangue
non
riesce
a
raggiungere
il
valore
di
pO2
che
si
ritrova
nell'alveolo.
La
curva
B
mostra
un
carico
di
ossigeno
normale
(nonostante
il
problema
di
diffusione),
mentre
nella
curva
C
si
forma
un
gradiente
alveolo-‐capillare
(il
sangue
non
preleva
tutto
l'ossigeno
che
è
alla
sua
portata).
Anche
per
la
CO2,
il
trasporto
è
limitato
dalla
perfusione.
Un
soggetto
normale
raggiunge
un
valore
di
pCO2
a
livello
alveolare
identico
a
quella
del
sangue
(40mmHg).
Il
sangue,
in
condizioni
normali,
scarica
tutta
la
CO2
che
è
in
grado
di
scaricare.
Se
la
diffusione
è
impedita
(curva
B),
si
crea
un
gradiente
alveolo-‐capillare.
In
questo
caso,
la
pCO2
nel
sangue
del
capillare
risulta
ancora
maggiore,
alla
fine
del
transito,
a
quella
che
si
trova
nell'alveolo.
Nell'esercizio
fisico,
occorre
aumentare
la
gittata
cardiaca,
che
richiede
la
capacità
di
far
circolare
il
sangue
con
maggiore
velocità,
dovuta
alla
stimolazione
del
simpatico
(forza
e
frequenza
di
contrazione
maggiore).
Questo
vuol
dire
che
il
sangue
attraverserà
in
tempo
minore
i
vari
circuiti
capillari,
e
a
livello
polmonare
il
tempo
può
arrivare
a
250ms
(1/3
di
quello
normale).
Già
300
ms
possono
non
essere
sufficienti
per
il
raggiungimento
della
corretta
pO2
a
livello
capillare.
Quindi,
ci
si
aspetterebbe
che
l'aumento
della
gittata
cardiaca
porti
a
un
aumento
del
gradiente
alveolo-‐capillare,
ma
in
realtà
il
fenomeno
si
verifica
molto
raramente.
Nella
maggior
parte
dei
casi,
in
esercizio
fisico
moderato,
non
si
osserva
gradiente
alveolo-‐capillare
perché
durante
l'esercizio
fisico,
l'aumento
della
gittata
cardiaca
determina
una
distensione
della
rete
capillare,
quindi
un
aumento
della
superficie
di
scambio
tra
aria
e
sangue:
nonostante
il
tempo
ridotto,
si
raggiunge
comunque
l'equilibrio.
La
pressione
parziale
alveolare
di
ossigeno
è
maggiore
di
quella
a
livello
del
sangue
arterioso
perché
esiste
una
commistione
artero-‐venosa
(shunt
anatomico)
per
cui
la
pressione
parziale
dell'ossigeno
si
abbassa.
Quella
della
CO2,
invece,
si
è
alzata
talmente
di
poco
da
essere
trascurabile:
diminuisce
l'ossigeno
ma
la
CO2
non
aumenta
perché
la
differenza
di
pressione
parziale
tra
arteria
e
vena
è
circa
6mmHg
(46
e
40mmHg),
quindi
quando
si
mescola
un
piccolo
volume
di
sangue
venoso
in
un
grande
volume
di
sangue
arterioso
la
salita
non
è
rilevante.
In
un
soggetto
normale,
fino
al
40%
di
consumo
di
ossigeno
(massima
capacità
di
lavoro
aerobico),
la
pressione
parziale
dell'ossigeno
nel
sangue
arterioso
è
normale
(costante),
ma
a
un
certo
punto
la
pO2
nel
sangue
arterioso
crolla
(si
crea
un
gradiente
alveolo-‐capillare),
mentre
allo
stesso
tempo
aumenta
a
livello
dell'alveolo
perché
aumenta
la
ventilazione
(tende
al
suo
limite
asintotico,
anche
quando
arriva
al
massimo
della
ventilazione
è
comunque
lontana
dal
suo
limite
asintotico,
che
è
150).
Questo
soggetto
è
allenato,
potente
dal
punto
di
vista
cardio-‐vascolare.
Il
gradiente
alveolo-‐
capillare,
però,
è
spaventoso,
tanto
da
determinare
ipossia
in
alcuni
tessuti.
Per
questo
motivo,
il
soggetto
non
è
adatto
a
condizioni
di
altitudine,
in
cui
la
pO2
dell'aria
alveolare
è
30-‐35mmHg.
In
queste
condizioni
si
forma
un
gradiente
alveolo-‐
capillare
piuttosto
consistente.
Un
atleta
che
fa
circolare
il
sangue
molto
velocemente
genera
un
gradiente
molto
maggiore.
Quindi,
i
soggetti
potenti
dal
punto
di
vista
cardio-‐vascolare
non
sono
adatti
all'alta
montagna.
La
pO2
del
sangue
arterioso
è
inferiore
a
quella
raggiunta
nei
capillari
alveolari
a
causa
degli
shunt
anatomici
e
fisiologici.
Lo
shunt
anatomico
è
quello
per
cui
il
sangue
della
circolazione
bronchiale,
il
sangue
delle
vene
di
Tebesio
della
circolazione
coronarica
non
passa
attraverso
l'alveolo,
ma
arriva
direttamente
nelle
vene
polmonari.
Lo
shunt
fisiologico
è
quello
prodotto
dagli
alveoli
poco
ventilati.
Normalmente,
tutti
gli
alveoli
sono
ventilati,
ma
nel
polmone
il
rapporto
ventilazione/perfusione
non
è
omogeneo,
per
cui
si
abbassa
la
pressione
parziale
dell'ossigeno
a
livello
arterioso
rispetto
a
quella
che
si
ha
nell'alveolo.
La
variabilità
del
rapporto
ventilazione/perfusione
che
porta
a
un
abbassamento
della
pressione
parziale
di
O2
a
livello
arterioso
indipendentemente
dagli
shunt
anatomici
è
mostrata
dal
modellino:
basta
il
fatto
che
il
rapporto
ventilazione/perfusione
sia
eterogeneo.
Questo
dipende
sostanzialmente
da
un
unico
fenomeno:
la
pendenza
della
relazione
tra
ventilazione
e
distanza
dall'apice
è
inferiore
a
quella
della
relazione
tra
perfusione
e
distanza
dall'apice.
Quando
si
esala,
si
svuotano
i
diversi
compartimenti
alveolari
(apice,
base,
compartimento
intermedio),
l'aria
che
esce
da
questi
compartimenti
si
mescola
e
la
pO2
arriva
a
100mmHg.
In
realtà,
se
si
potesse
misurare
la
pO2
che
ha
origine
dai
tre
compartimenti,
sarebbe:
-‐ apice:
120
mmHg;
-‐ parte
di
mezzo:
102
mmHg;
-‐ base:
93
mmHg;
Quando
questi
tre
volumi
si
mescolano,
danno
102
mmHg.
L'apice
del
modello
contribuisce
al
20%
della
ventilazione,
la
parte
centrale
al
35%
e
quella
basale
al
45%.
I
valori
che
si
ritrovano
negli
alveoli
sono
uguali
a
quelli
del
sangue
capillare
refluo
da
questi
tessuti
(120mmHg,
102mmHg
e
93mmHg
rispettivamente)
e
analogamente,
questi
volumi
si
mescoleranno
tra
di
loro.
Il
mescolamento,
però,
avviene
con
pesi
diversi
perché
la
perfusione
dell'apice
è
solo
il
10%
della
perfusione
totale,
mentre
alla
base
è
al
57%,
quindi
la
quota
a
120
mmHg
sarà
il
10%
e
così
via,
la
quota
a
93mmHg
sarà
il
57%.
Quindi,
questa
media
dà
un
valore
di
pO2
inferiore
alla
media
alveolare.
Non
c'è
bisogno
di
shunt
anatomici
perché
la
pressione
parziale
del
sangue
arterioso
cada
al
di
sotto
della
media
alveolare,
basta
che
il
rapporto
vent/Q
non
sia
costante.
Quindi,
il
sangue
che
arriva
a
bassa
concentrazione
di
ossigeno
è
percentualmente
maggiore
dell'aria
esalata
da
quegli
alveoli.
Capacità
diffusionale
La
capacità
diffusionale
del
polmone
(DL)
è
una
misura
di
come
i
gas
passano
attraverso
la
barriera
alveolo-‐capillare
ed
è
uguale
al
volume
di
gas
che
passa
per
ogni
mmHg
di
gradiente
pressorio
(medio).
Per
l'ossigeno,
il
gradiente
iniziale
è
100mmHg
nell'alveolo
contro
40mmHg
all'inizio
del
capillare
alveolare.
All'aumentare
della
pO2
del
sangue
capillare,
il
gradiente
diminuisce,
quindi
il
gradiente
medio,
10-‐11mmHg,
è
il
gradiente
medio
che
si
per
la
durata
del
capillare.
Si
può
stimare
la
capacità
diffusionale
dell'ossigeno
a
21
ml/min
per
mmHg.
Innanzitutto,
la
capacità
diffusionale
dipende
dalla
superficie
di
scambio
(ridotta
nell'enfisema)
e
aumenta
nell'attività
fisica.
Se
aumenta
lo
spessore
della
membrana
alveolo-‐capillare,
la
capacità
diffusionale
diminuisce
(come
in
caso
di
edema
polmonare)
e
il
movimento
del
gas
diventa
limitato
dalla
diffusione.
In
edema
polmonare
non
trattato
il
gradiente
alveolo-‐capillare
arriva
anche
a
40mmHg,
rendendo
il
sangue
ipossico.
Modificando
la
pO2
a
livello
alveolare,
aumentandola,
si
può
intervenire
e
migliorare
la
situazione:
si
porta
la
pressione
alveolare
a
270mmHg
(ossigenoterapia,
si
incrementa
la
percentuale
di
ossigeno
nell'aria
respirata
dal
soggetto).
Anche
a
questa
pressione,
si
crea
un
gradiente
alveolo-‐capillare
(il
sangue
non
raggiunge
la
pressione
dell'alveolo),
ma
è
tale
per
cui
resta
nel
sangue
refluo
dal
capillare
una
pO2
di
circa
100mmHg.
Nell'esercizio
fisico,
la
capacità
diffusionale
aumenta
di
circa
tre
volte
per
l'apertura
di
nuovi
capillari
e
per
la
dilatazione
dei
capillari
funzionanti.
Questo
vale
non
solo
per
l'ossigeno,
ma
per
tutti
i
gas.
La
capacità
diffusione
della
CO2
è
enorme
rispetto
a
ossigeno
e
CO
per
via
della
sua
maggior
solubilità
nel
sangue.
La
capacità
diffusionale
è
un
parametro
importante
e
la
sua
denotazione
diretta
per
l'ossigeno
è
estremamente
problematica.
DLO2
=
VO2/(pO2
alveolare
-‐
pO2
capillare)media
Nella
formula,
l'unico
valore
difficile
da
calcolare
è
la
pO2
capillare,
gli
altri
valori
sono
a
portata
di
mano:
VO2
=
(volume
O2
inspirato
-‐
volume
O2
espirato)/
Δt
VO2
=
(VT
[O2]insp
-‐
VT
[O2]esp)/
Δt
La
pO2
alveolare
si
calcola
monitorando
della
pO2
nell'aria
in
cui
ci
si
trova.
Quindi,
per
calcolare
la
capacità
diffusionale
dell'ossigeno
si
sfrutta
il
rapporto
tra
la
capacità
diffusionale
dell'ossigeno
e
quella
di
un
altro
gas
(il
rapporto
tra
i
coefficienti
di
diffusione).
La
capacità
diffusionale
dell'ossigeno
è
1.23
volte
la
DL
del
CO,
perché
il
rapporto
tra
i
corrispondenti
coefficienti
di
diffusione
è
1.23.
Conoscendo
la
capacità
diffusionale
del
CO
è
possibile
risalire
a
quella
dell'ossigeno.
Si
può
calcolare
la
DL
del
CO
perché
la
pressione
capillare
del
CO
può
essere
considerata
uguale
a
zero,
quindi
è
sufficiente
conoscere
la
pressione
alveolare
e
la
quantità
di
CO
che
passa
nel
sangue
nell'unità
di
tempo
per
determinare
la
capacità
diffusionale
del
gas
e
risalire
a
quella
dell'ossigeno.
Dove
∆t
è
il
tempo,
Vi
è
il
volume
di
CO
inalato
nel
tempo
e
Ve
quello
esalato.
DLCO
=
VCO/pCO
alveolare=
[(Vi
–
Ve)/∆t]/pCO
alveolare
TRASPORTO DEI GAS NEL SANGUE
L'ossigeno si trova nel sangue fisicamente disciolto o legato all'emoglobina.
Per la legge di Henry, la concentrazione dell'ossigeno è uguale al prodotto della sua pressione parziale
nel sangue moltiplicato per il coefficiente di solubilità.
[O2] = pO2 x S = 0.29 ml/100ml
Il valore che si ottiene (la concentrazione dell'ossigeno disciolto) è 0.29ml/100ml o 2.9ml/L.
Alla pressione parziale del sangue arterioso con la gittata cardiaca l'ossigeno disciolto è 14.5 ml (in 5
l/min). Dal punto di vista energetico, questa quantità è irrisoria, in quanto si consumano 250ml/min di
ossigeno al minuto (a riposo), ma è di fondamentale importanza. Quindi, questa quota da sola non è
abbastanza per soddisfare il fabbisogno dell'organismo a riposo.
L'emoglobina è il trasportatore dell'ossigeno e
al legame con essa le molecole di ossigeno
sono sottratte al circolo, per cui non
contribuiscono a determinare la pressione
parziale dell'ossigeno nel sangue (determinata
solo dalla quota di ossigeno disciolta). Le
molecole legate all'emoglobina lasciano la
pressione dell'O2 invariata. Ai 3ml/L di
ossigeno fisicamente disciolto nel sangue (0.3
per 100 ml) se ne aggiungono 197, portando la
capacità di trasporto totale dell'ossigeno a
200ml/L. La quota di ossigeno legata
all'emoglobina è il 98.5% del totale. Se la
quota di ossigeno disciolto diminuisce,
diminuisce anche quella legata all'emoglobina, perché in base alla legge di Henry diminuisce la
pressione parziale di ossigeno del sangue (fattore che determina la saturazione dell'emoglobina).
La capacità di trasporto dell'ossigeno da parte del sangue dipende dall'emoglobina, ma quanto
ossigeno lega l'emoglobina dipende dalla pO2, la quale a sua volta dipende solo dalla quota disciolta.
Quindi, quest'ultima dal punto di vista energetico non è importante, ma è fondamentale perché
determina la quantità di ossigeno legata all'emoglobina.
La curva della saturazione dell'Hb indica quanta emoglobina è stata legata dall'ossigeno o la
percentuale di ossigeno trasportato su totale massimo. Ci si può riferire anche alla quantità di ossigeno
del sangue, che a parità di concentrazione di Hb, dipende dalla pressione parziale.
Ipossie o anossie
Le anossie (o ipossie, in questo caso sono sinonimi) sono condizioni di ridotta disponibilità di
ossigeno per i tessuti.
L'ipossia ipossica (o anossia anossica) è quella condizione in cui la pO2 nel sangue arterioso è ridotta.
Questo può essere dovuto a:
- diminuzione della ventilazione (intossicazione da
barbiturici): si diminuisce la pressione parziale di
ossigeno a livello alveolare, per cui si diminuisce
immediatamente quella del sangue arterioso;
- polmonite: peggiora la diffusione a livello alveolare
perché l'edema ingrossa gli spazi interstiziali e si
forma un gradiente alveolo-capillare. La pO 2 alveolare
è normale, ma il sangue non si mette in equilibrio con
essa;
- incremento degli shunt anatomici.
In tutte queste condizioni, si riduce la pO2 nel sangue
arterioso.
Il consumo di ossigeno è normale, i tessuti hanno
sempre uguale bisogno ma vengono serviti meno
bene. La concentrazione dell'O2 nel sangue arterioso è
vicina a 20ml/100ml, ma se è diminuita la pO2, la concentrazione di O2 si riduce (concentrazione più
bassa di quella fisiologica). Se il consumo di ossigeno è costante, anche la caduta della concentrazione
di ossigeno è costante (la caduta era di 5ml, da 20 a 15ml), ovvero la differenza artero-venosa è la
stessa. Ora però, non si parte da 20, ma da 18-17-16, andando a finire a 11-12-13ml nel sangue venoso.
La percentuale di saturazione del sangue venoso diminuisce, non è più a 75%, ma più bassa, per cui la
pO2 del sangue venoso diminuisce.
Avvelenamento da CO
In caso di avvelenamento da monossido di carbonio (che può essere assimilato ad un'anossia
anemica), la pO2 nel sangue arterioso (che dipende dalla pressione alveolare, che non cambia perché
dipende dall'ambiente), normalmente, è normale (a meno che l'avvelenamento non sia massiccio). Il
soggetto quindi non iperventila, non è cianotico (perché l'emoglobina legata al CO è ancora rossa),
respira normalmente. In questo caso, l'ipossia è anemica perché è come se il monossido di carbonio
avesse eliminato parte dell'emoglobina, rendendola inagibile per il trasporto. Si tratta di una
situazione pericolosa e difficile da diagnosticare.
Ipossia stagnante
Il consumo di ossigeno è uguale al prodotto del flusso per la differenza artero-venosa. C'è il rischio di
confondersi, in quanto la differenza artero-venosa dell'ossigeno è data in ml/100ml, mentre la gittata è
data in L/min:
250ml/min (consumo di ossigeno) = 5ml/100 ml x 5L/min
Ma 5 x 5 fa 25, non 250, per cui occorre esprimere la differenza artero-venosa nella grandezza
compatibile con la gittata, quindi ml/L: 5ml/100ml diventano 50ml/L.
50ml/L x 5L/min = 250 ml/min
In caso di ischemia (ipossia stagnante), il flusso si riduce, ma se il consumo di ossigeno non si modifica
(rimane costante), la riduzione di flusso è associata a un aumento della differenza artero-venosa: ogni
volume di ossigeno viene “spremuto” maggiormente. Se il flusso si dimezza, la differenza artero-
venosa raddoppia, per cui la concentrazione di ossigeno venosa è più bassa, circa 10ml/100ml (e non
più 15ml/100ml). A concentrazione venosa di ossigeno di 15ml/100ml, la saturazione è del 75% (15
su 20), con una pO2 di 40mmHg. La concentrazione venosa di ossigeno in caso di ipossia stagnante,
10ml/100ml, corrisponde a una saturazione del 50% (10 su 20), quindi una pO 2 di 25mmHg.
Quindi, in caso di ipossia stagnante la
pO2 arteriosa è normale, aumenta la
differenza artero-venosa per via della
riduzione di flusso, si ha diminuzione
della concentrazione venosa,
diminuzione della saturazione venosa
e diminuzione della pO2 nel sangue
venoso.
Anossia isto-tossica
In questo tipo di ipossia, il problema è
il tessuto: non riesce a consumare
ossigeno perché è stato avvelenato. È
l'unica ipossia che presenta una
concentrazione di O2 nel sangue
venoso aumentata, perché è consumato meno dal tessuto. La differenza artero-venosa diminuisce, la
pO2 aumenta in quanto aumenta la concentrazione di O 2 nel sangue venoso e aumenta la percentuale di
saturazione dell'emoglobina.
Una condizione di ipossia si può associare a cianosi, colorito bluastro della cute e dei tessuti. La
cianosi si sviluppa quando l'emoglobina è insatura in circolo in certe quantità. Esiste un criterio
semplice per calcolare velocemente le condizioni che possono generare cianosi e si basa sulla
determinazione dell'insaturazione del sangue, dove per insaturazione del sangue si intende una
misura complementare alla quantità di emoglobina insatura (volume di O2 che manca per completare
il carico). Più emoglobina insatura è presente, più è il volume di ossigeno che manca per saturarla
completamente (100% del carico). L'insaturazione (I) viene determinata nel sangue venoso e in quello
arterioso e si fa la media: quando la media è superiore a 6ml/100ml di sangue, allora insorge il colorito
bluastro.
Imedia = (Ivenosa + Iarteriosa)/2
Nell'ipossia anemica, il soggetto veicola meno sangue ai tessuti (10ml invece che i 20ml del soggetto
normale) l'insaturazione nel sangue arterioso è normale, circa 1ml (perché la pO 2 arteriosa è normale).
Nel sangue venoso la concentrazione scende, come in condizioni normali, di 5ml, quindi passa a
4ml/100ml. Se il massimo carico possibile era 10, vuol dire che l'insaturazione venosa è pari a 6 (stessi
valori del soggetto normale).
Imedia = (1+6)/2 = 3.5ml/100ml anche in questo caso, non è cianotico, ma pallido.
Quindi, per quanto riguarda l'anemico, la quantità di ossigeno che manca per fare il carico non è
maggiore di quella di un soggetto normale.
[Bisogna ricordare che la cianosi è dovuta all'emoglobina insatura, l'anemico ha minori quantità di
emoglobina quindi può trasportare meno ossigeno]
Può diventare cianotico il soggetto con ipossia da stasi, perché la differenza artero-venosa aumenta di
parecchio, quindi l'insaturazione venosa diventa molto elevata.
Imedia = (1+15)/2 = 8 ml/100ml
Trasporto di CO2
Nell'interstizio, la pCO2 è 46mmHg (mentre nel sangue
venoso è 45mmHg secondo il Guyton, secondo altri
testi corrisponde a 46mmHg). Questo valore dipende
dal flusso ematico. Per l'ossigeno, l'aumento di flusso
aumenta la pO2 interstiziale, mentre per la CO2
l'aumento di flusso fa diminuire la pCO2 fino a un
valore asintotico pari alla pCO2 che si ritrova nel
sangue arterioso, il quale si ha semplicemente quando
la perfusione è enorme rispetto a quello che è il
fabbisogno metabolico del tessuto.
Le concentrazioni di CO2 nel sangue sono maggiori di
quelle dell'ossigeno.
Ad esempio, nel sangue arterioso la concentrazione di
CO2 è di 48ml/100ml di sangue, i tessuti in media aggiungono in media altri 4ml/100ml, portando la
concentrazione finale a 52ml/100ml. I 4ml/100ml saranno persi poi nel passaggio successivo nei
polmoni, riportando la concentrazione ai valori arteriosi.
Il valore della differenza artero-venosa è legato al consumo di ossigeno, quindi, fissato il volume di
ossigeno, la produzione di CO2 varia tra il 100% e il 70%: la differenza può variare da 3.5 (quando si
consumano solo i grassi) a 5ml/100ml (quando
si consumano carboidrati).
Il trasporto del bicarbonato, quindi, è cruciale per il movimento della CO 2. Il bicarbonato si forma nel
globulo rosso (sebbene si formi in molti tessuti, questo è l'unico rilevante): a questo livello, l'anidrasi
carbonica trasforma CO2 e acqua in acido carbonico, quindi ione bicarbonato e ioni H +. La reazione è
spostata verso i prodotti perché l'idrogenione viene eliminato (non con un passaggio nel plasma, ma
mediante tamponamento) in quanto si lega all'emoglobina. Quando l'Hb perde l'ossigeno, diventa più
basica, cambia le sue proprietà acido-base e lega gli ioni H +: questo determina lo spostamento della
reazione verso i prodotti.
Lo ione bicarbonato passa in parte nel
sangue mediante una molecola
trasportatrice che sfrutta un gradiente
per portarlo fuori introducendo lo ione
cloruro.
Lo scarico dell'ossigeno da parte
dell'emoglobina rende questa molecola
anche più capace di legare l'anidride
carbonica.
La CO2 non si lega al gruppo eme, ma a livello del gruppo amminico terminale mediante un legame
carbo-ammidico.
Quindi, l'Hb tampona l'idrogenione e lega la CO2:
questo è alla base dell'effetto Haldane,
fenomeno per cui il sangue in cui l'emoglobina è
deossigenata a parità di pCO2 ne trasporta di più.
Nel grafico, la quota di CO2 trasportata viene
mostrata per 3 livelli di saturazione
dell'emoglobina. A 40mmHg di pCO2, nel sangue
arterioso, il trasporto di CO2 corrisponde a circa
48ml/100ml.
Nel sangue venoso si passa a 45mmHg di CO2
(aumenta di poco), che comporterebbe un
piccolo incremento nella concentrazione se la
capacità di trasporto di CO2 del sangue fosse
rimasta la stessa, ma in realtà la capacità di
trasporto è migliorata, per cui la concentrazione di CO2 corrisponde a 54ml/100ml grazie all'effetto
Haldane (conseguenza della deossigenazione dell'emoglobina). La differenza tra le due rette rosse dà
semplicemente quello che sarebbe stato l'incremento della concentrazione di CO 2 dato da
un'emoglobina con la saturazione del sangue arterioso.
Il quoziente respiratorio (QR) è il rapporto tra il volume di CO2 prodotto e il volume di ossigeno
consumato, che dipende dal substrato utilizzato per sostenere l'attività metabolica. In caso di consumo
di glucidi corrisponde a 1, in caso di consumo di grassi corrisponde a 0.7.
QR = VCO2 / VO2
QR grassi = 0.7
QR glucidi = 1.0
QR proteine = 0.8
Si possono distinguere diversi tipi di neuroni respiratori in base al loro tipo di scarica. Innanzitutto si
classificano i neuroni di uscita dal sistema:
– neuroni I-rampa: hanno una caratteristica scarica, ovvero durante l'inspirazione aumentano
progressivamente la loro
frequenza di scarica, che aumenta
fino al suo massimo alla fine
dell'inspirazione, mentre
diminuisce in espirazione. I
neuroni reticolo-spinali che
controllano i motoneuroni
inspiratori hanno questo tipo di
scarica, quindi i neuroni I-rampa
contengono neuroni di uscita dal
sistema, che innervano i muscoli.
La frequenza di scarica dei
neuroni I-rampa, infatti, segue
molto bene l'andamento che si
registra a livello dei nervi che
innervano i muscoli respiratori,
come il nervo frenico. Il segnale
registrato a livello del nervo
frenico aumenta
progressivamente in ampiezza sia
perché viene reclutato un numero
sempre maggiore di motoneuroni,
sia perché i motoneuroni
scaricano a una frequenza sempre
maggiore. L'eccitazione dei
motoneuroni frenici è prodotta dall'aumento di scarica che si registra a livello nei neuroni I-
rampa. L'aumento della frequenza di scarica dei neuroni I-rampa è reso più rapido da ipossia e
ipercapnia. Sono localizzati nel nucleo para-ambiguo e nel nucleo del tratto solitario;
– neuroni E-rampa: sono neuroni che aumentano progressivamente la frequenza di scarica
durante l'espirazione e bruscamente cessa alla fine dell'espirazione. L'E-rampa non parte subito
all'inizio dell'espirazione, ma circa a metà. Si distingue una prima fase E1 dell'espirazione e
una fase E2, in cui comincia l'attività degli E-rampa e l'attività dei motoneuroni espiratori.
Quindi, l'E-rampa è l'elemento di controllo dei motoneuroni espiratori. Quando il respiro
avviene senza attivazione dei muscoli espiratori (quindi motoneuroni espiratori inattivi), i
neuroni E-rampa mantengono la loro attività. In condizioni di respiro tranquillo, la scarica
degli E-rampa non porta a soglia i motoneuroni espiratori, ma ha effetto solo quando aumenta
di frequenza. Possono essere bulbo-spinali e sono localizzati nel nucleo retro-ambiguo.
Gli interneuroni del sistema sono:
– I-tardivi: hanno lo stesso ruolo dei neuroni I-post, ma si attivano per primi (verso la fine
dell'inspirazione). Cessano la loro scarica durante i primissimi istanti dell'espirazione. Si
trovano nel nucleo para-ambiguo e nel nucleo del tratto solitario;
– I-post: si attivano durante la prima parte dell'espirazione, dopo l'inspirazione. Essi bloccano
l'inspirazione, per cui sono detti “interruttore dell'inspirazione”, in quanto (così come gli I-
tardivi) inibiscono i neuroni I-rampa;
– I-precoci: sono neuroni importanti in quanto impediscono all'interneurone interruttore di
partire troppo precocemente. Quindi tengono bloccati gli interneuroni inibitori
dell'inspirazione, una sorta di freno del freno dell'inspirazione. Si trovano nel nucleo para-
ambiguo. La loro scarica inizia durante l'inspirazione e si esaurisce prima che essa cessi;
– Pre-I: si trovano a livello del complesso Pre-Botzinger, potrebbero essere i neuroni
pacemaker e si ritiene che inibiscano gli E-rampa, in quanto si attivano alla fine
dell'espirazione (prima dell'inspirazione).
L’attività ritmica verrebbe generata soprattutto grazie alle connessioni inibitorie reciproche fra
popolazioni di neuroni dotati di particolari proprietà:
– la scarica di questi neuroni deve essere dotata di capacità di adattamento (il neurone smette
di scaricare), che è data soprattutto da conduttanze per il potassio calcio-dipendenti. Il calcio
entra nei neuroni tramite canali voltaggio dipendenti ed apre i canali del potassio per
scatenare iperpolarizzazione;
– conduttanza per il calcio;
– input eccitatorio tonico che può provenire da altre strutture nervose pontine o bulbari o da
afferenze sensoriali;
– un'altra proprietà è il rebound, rimbalzo, ovvero la capacità di emettere scariche di potenziali
d'azione quando il neurone torna al potenziale di riposo dopo una iperpolarizzazione.
Due neuroni A e B che si inibiscono a vicenda possono generare una scarica alternata, se la loro scarica
si adatta. Se uno dei due smette di scaricare (per via dell'adattamento), l'altro prende il sopravvento e
inibisce il primo. Quando questo avviene per A (smette di scaricare), cessano le influenze inibitorie su
B che aumenta la sua attività a causa del “rimbalzo” e inibisce A, abbattendone definitivamente
l'attività. Poi anche B si adatta e cessa di scaricare (si adatta), liberando A dal freno inibitorio e
favorendone il “rimbalzo”.
Il ritmo oscillante è dovuto ai fenomeni di adattamento, rebound e inibizione reciproca.
Le uniche connessioni eccitatorie sono quelle che uniscono i neuroni I-rampa con gli I-tardivi, i quali
spengono gli I-rampa (connessione reciproca di senso opposto), tutte le altre connessioni sono
reciproche di natura inibitoria.
Gli I-rampa sono inibiti prima dagli I-tardivi, poi dai post-I e poi dagli E-rampa.
I post-I inibiscono, oltre agli I-rampa, anche gli E-rampa, per cui nel momento in cui essi smettono di
scaricare si verifica una scarica di rimbalzo degli E-rampa, che continua a inibire gli I-rampa. Questo
genera una scarica alternata. I Pre-I interrompono bruscamente la scarica degli E-rampa.
Di conseguenza vengono disinibiti e iniziano a scaricare i neuroni I-precoci e gli I-rampa. Gli I-precoci
inibiscono i neuroni I-tardivi, Post-I ed E-rampa. Quando la scarica degli I-precoci viene meno, Post-I e
I- tardivi scaricano, inibendo gli I-rampa e producendo la fine dell’inspirazione.
Recettori polmonari
I recettori polmonari sono localizzati:
– muscolatura liscia bronchiale;
– mucosa bronchiale (polimodali);
– nell'interstizio polmonare (juxtacapillari).
Le afferenze vagali bronchiali sono importanti per determinare il volume tidale e la frequenza del
respiro.
Le curve mostrano tre diversi livelli di ventilazione (diverse
frequenze di respiro e diversi volumi tidali) prodotti in
esperimenti in cui vengono fatte respirare miscele di aria
contenenti concentrazioni di anidride carbonica crescenti.
Inspirando la miscela, aumenta la frequenza e l'ampiezza del
respiro. I respiri diventano quindi più veloci e raggiungono
volumi tidali maggiori.
Sezionando il vago, aumenta in tutti e tre i casi l'ampiezza del
respiro (viene eliminato l'interruttore che blocca
l'inspirazione) e i respiri assumono la stessa frequenza.
Questo dimostra che i recettori contribuiscono a determinare
lo spegnimento anticipato: le afferenze vagali eccitano i
neuroni I-tardivi anticipando lo
“spegnimento”dell’inspirazione ad un determinato volume
polmonare.
Nell’uomo questo non avviene fino a circa due volte il volume tidale.
La soglia dell’effetto è innalzata da ipercapnia, ipossia, acidosi (che attivano i chemiocettori) e stimoli
propriocettivi. Questi stimoli aumentano la ventilazione e generano inspirazioni veloci che, grazie
all’azione sull’interruttore, vengono arrestate a volumi polmonari più elevati, ma risultano comunque
di minor durata.
A vaghi tagliati, tutti i movimenti inspiratori veloci e lenti hanno la stessa durata, dettata dal ritmo
intrinseco del circuito.
⦁Recettori juxtacapillari
I recettori juxtacapillari sono fibre di piccolo diametro (gruppo C) , a-mieliniche, che conducono
lentamente. Rispondono a:
– insufflazione (stimolo meccanico);
– bronco-costrizione (stimolo meccanico);
– edema;
– stimoli chimici.
La loro attivazione produce una irritazione locale, dovuta al rilascio di peptidi (tachichinine), che attiva
i recettori polimodali e potrebbe quindi generare tosse.
Nell’uomo, infatti, la tosse può essere generata da aerosol di capsaicina, a dosi in grado di stimolare
queste fibre.
Producono anche bronco-costrizione, costrizione laringea, apnea inspiratoria seguita da respiro veloce
e superficiale, con contrazione tonica dei muscoli inspiratori (per sospendere momentaneamente
l'ingresso di aria contaminata da agenti irritanti).
Recettori muscolari
Lo sviluppo di tensione dei muscoli respiratori è regolato da due tipi di recettori:
– fusi neuromuscolari: a livello dei muscoli. Sono assenti nella parte costale del diaframma,
presenti esclusivamente in quella vertebrale;
– organi tendinei del Golgi: nel tendine, si trovano in tutti i muscoli respiratori.
I fusi neuromuscolari sono formati da fibre muscolari di tipo particolare che ricevono assoni
sensoriali (recettori) in grado di trasmettere le informazioni al SNC. Gli assoni sensoriali possono
essere di due tipi: terminazioni primarie (Ia, diametro maggiore) e secondarie (II). La loro
disposizione in parallelo li rende sensibili allo stiramento.
La particolarità delle fibre muscolari che li compongono sta nel fatto che non si contraggono in toto: i
poli possiedono attività contrattile, la parte centrale (equatore) ha un comportamento passivo ed è la
parte in cui si trovano le afferenze sensoriali.
Si distinguono due tipi di fusi neuromuscolari: a catena e a sacco di nuclei.
I motoneuroni γ (corno anteriore della sostanza grigia del midollo spinale) innervano queste strutture.
Le afferenze fusali, data la disposizione in parallelo dei fusi rispetto alle fibre muscolari, aumentano la
loro scarica allo stiramento passivo del muscolo (quando si contrae l'antagonista, figura A1), mentre la
diminuiscono quando il muscolo si contrae per stimolazione diretta del nervo motore (figura B1).
L'innervazione motoria delle fibre intra-fusali (motoneuroni γ) ha gli stessi effetti dello stiramento,
aumentando la scarica del recettore (i motoneuroni γ fanno contrarre solo le porzioni apicali, stirando
la regione centrale)
I corpi tendinei sono posti in
serie rispetto alle fibre
muscolari e rispondono alla
contrazione muscolare (B2).
Non sono invece attivati dallo
stiramento del muscolo
rilasciato (A2), rispondono
poco. Non hanno controllo
efferente (ovvero non esiste un
analogo dei motoneuroni γ per
questi recettori).
I motoneuroni frenici sono inibiti anche da recettori muscolari ad alta soglia, detti metabocettori,
localizzati nello stesso muscolo che sono sensibili alle variazioni tissutali di pO2, pCO2, concentrazione
di potassio e pH associate all’affaticamento del muscolo. Questi recettori mirano a bloccare l'attività
dei motoneuroni frenici in caso di lavoro eccessivo. Non sono una peculiarità di questo muscolo, in
quanto si ritrovano anche ad altri livelli.
Il riflesso facilitatorio intercostale-frenico è un riflesso eteronimo che permette di attivare i
motoneuroni frenici a seguito della stimolazione dei corpi tendinei dei muscoli intercostali esterni
(muscoli inspiratori). Questo riflesso è importante quando si modifica la postura toraco-
diaframmatica.
Il passaggio alla stazione eretta produce aumento del volume
polmonare con accorciamento passivo del diaframma (per via
del peso dei visceri) e diminuita efficacia della sua contrazione.
Tale diminuzione della prestazione diaframmatica viene
compensata dall’attività riflessa.
Durante lo spostamento della massa viscerale verso il basso, le
costole ruotano nella stessa direzione. Lo stiramento degli
intercostali esterni ne attiva i recettori fusali, producendo la
contrazione degli stessi muscoli che innesca il riflesso
intercostale-frenico.
Inoltre, lo stiramento dei muscoli addominali prodotto dalla
spinta della massa viscerale ne attiva i recettori fusali e fa
contrarre gli stessi muscoli, spostando in alto il diaframma, che
ritrova la sua lunghezza originale.
Recettori gastro-intestinali
Le afferenze gastro-intestinali inibiscono l’attività inspiratoria, riducendo l’attività diaframmatica.
Il diaframma in inspirazione, abbassandosi, comprime i visceri, per cui eventuali condizioni di
sofferenza del tratto gastro-intestinale potrebbero essere aggravate dall'azione meccanica del
diaframma, che per questo viene inibito.
Ad esempio, la stimolazione meccanica della colecisti riduce il movimento diaframmatico. Potrebbe
trattarsi di un riflesso protettivo che evita la pressione eccessiva del diaframma sulla colecisti quando
questa contiene calcoli.
La distensione esofagea che avviene durante la deglutizione fa rilassare la parte vertebrale del
diaframma, che ha azione sfinterica aggiuntiva a quella dello sfintere esofageo inferiore (l'orifizio
esofageo nel diaframma si trova proprio a livello della sua parte vertebrale).
Anche il riflesso del vomito blocca temporaneamente l'attività diaframmatica e il respiro.
Barocettori
Anche i barocettori hanno un ruolo nel controllo riflesso
del respiro e in particolare inibiscono l’attività
inspiratoria.
I tracciati al chimografo risalgono a studi effettuati nei
primi anni del Novecento e mostrano:
– A. L’occlusione della carotide comune (nel periodo
fra le frecce) fa calare la pressione del seno
carotideo, per cui diminuisce la scarica barocettiva
producendo per via riflessa l’aumento della
pressione arteriosa (tracciato in basso) e
dell’ampiezza del respiro (tracciato centrale).
L'aumento di frequenza del respiro è un dato certo,
mentre l'aumento del volume tidale non è stato
confermato;
– B. La denervazione dei barocettori elimina gli
effetti riflessi prodotti sulla pressione arteriosa e
sul respiro dall’occlusione della carotide. La scarica
barocettiva addirittura diminuisce la frequenza
respiratoria.
Modificazioni del respiro associate ad atti volontari o riflessi
Le manovre respiratorie sono inspirazione forzata a glottide chiusa ed espirazione forzata a glottide
chiusa.
Nell'inspirazione forzata a glottide chiusa, si attivano il diaframma e gli intercostali esterni, mentre
le corde vocali chiudono la glottide grazie alla contrazione dei muscoli tireoaritenoidei. L'aria non può
entrare nel polmone, ma il polmone viene sollecitato ad espandersi: questo determina una
diminuzione della pressione intrapleurica e intra-alveolare. La pressione intratoracica diminuisce e
diminuisce anche quella intra-esofagea. Questa manovra respiratoria viene prodotta durante il riflesso
del vomito, in quanto la riduzione della pressione intratoracica (intra-alveolare e intrapleurica) facili il
passaggio del contenuto gastrico nell'esofago.
Chemiocettori
I valori di pCO2, pO2 e pH influenzano la ventilazione: sono rilevati da chemiocettori periferici e
centrali. Lo stimolo di gran lunga più potente nel modificare la ventilazione è l’aumento della pCO 2.
Quest'ultimo può aumentare la ventilazione alveolare fino a 70L/min, mentre gli altri stimoli (calo di
ossigeno, diminuzione del pH) determinano variazioni meno drastiche in condizioni acute. In cronico,
il contributo della pressione parziale di ossigeno sull'influenza della ventilazione alveolare aumenta.
I recettori periferici sono localizzati nei glomi carotidei e aortici, piccole masse di tessuto poste in
prossimità del seno carotideo e dell’arco dell’aorta (fuori dal vaso). Sono composti da:
– cellule glomiche di tipo I: recettori, collegati a fibre afferenti tramite sinapsi;
– cellule di tipo II: cellule di sostegno.
Lo stimolo aumenta il rilascio di neurotrasmettitore da parte delle cellule di tipo I. Le afferenze
chemiocettive giungono, tramite il vago (nervo di Cyon per il glomo aortico) e il glossofaringeo (nervo
di Hering per il glomo carotideo), a neuroni nel nucleo del tratto solitario. Da questo nucleo, gli stimoli
vengono riferiti ai centri respiratori e vasomotori.
Le cellule glomiche sono sensibili al pH (in diminuzione), alla diminuzione della pO2 e all’aumento
della pCO2. Tutti e tre gli stimoli fanno diminuire la permeabilità della membrana al potassio (per
chiusura di canali) con conseguente depolarizzazione: aumenta il rilascio di neurotrasmettitore
(calcio-dipendente).
La chiusura dei canali del potassio da parte del pH avviene in diversi modi, molto probabilmente legati
alla diminuzione del pH intracellulare. La diminuzione dell'ossigeno nel sangue arterioso si fa risentire
a livello della cellula glomica che, essendo molto grande, ha necessità di grandi quantità di ossigeno e
in qualche modo il calo della disponibilità di ossigeno agisce sull'efflusso di ioni potassio. In più, i
canali del potassio vengono mantenuti aperti al legame con l'ossigeno, per cui una diminuzione di pO 2
agirebbe anche direttamente sui canali.
La depolarizzazione apre canali per il calcio voltaggio-dipendenti che inducono il rilascio di
neurotrasmettitore, probabilmente dopamina.
La perfusione dei glomi è elevatissima se rapportata alla massa del tessuto: 1.5-2 litri/min per 100 gr
di tessuto, circa 20 volte più del cervello. I glomi ricevono un volume di ossigeno smisurato rispetto
alla quantità da essi consumata. Ne consegue che la pO 2 nel sangue refluo dai glomi è virtualmente
uguale a quella arteriosa, come se la differenza artero-venosa fosse zero. Questo spiega perché i glomi
non sono stimolati dalla normale estrazione di ossigeno dal sangue (altrimenti starebbero
continuamente stimolati dal calo della pO2 prodotto dal loro stesso metabolismo).
Il flusso di sangue i glomi è controllato dal simpatico, che lo riduce producendo vasocostrizione. È
stato proposto che un’attivazione del controllo simpatico delle arteriole del glomo possa rendere il
recettore più sensibile allo stimolo ipossico: teoricamente, una riduzione del flusso per
vasocostrizione potrebbe far calare la pO 2 nel sangue refluo dal glomo già in condizioni di normale pO2
arteriosa. Un’anossia da stasi, infatti, aumenta l’estrazione di O 2 da un determinato volume di sangue,
quindi induce una differenza artero-venosa
significativa.
Questo potrebbe avvenire a seguito dell’attivazione
delle fibre simpatiche innervanti l’arteriola che
irrora i glomi, portando la pO2 nel sangue refluo dal
glomo a valori inferiori rispetto a quella in ingresso.
La diminuzione di flusso potrebbe comunque
abbassare la pressione parziale di O2 nel sangue refluo
dal glomo in condizioni di ipossia producendo cosi una risposta recettoriale maggiore.
I chemiocettori centrali, situati in prossimità della superficie ventrale del bulbo, sono stimolati dagli
ioni idrogeno liberati a seguito della reazione di idratazione della CO 2.
Risentono pertanto in maniera diretta delle variazioni di pCO2 del sangue: l'anidride carbonica
diffonde attraverso la barriera emato-encefalica.
Il pH ematico, invece, li può influenzare solo indirettamente, in quanto gli ioni H + non attraversano
liberamente la barriera emato-encefalica.
I chemiocettori centrali sono sensibili anche al pH del liquor, a sua volta influenzato dalla pCO2
plasmatica e non dal pH plasmatico.
Di conseguenza, un accumulo di idrogenioni nel plasma può non attivare i chemiocettori centrali:
vengono attivati i chemiocettori periferici, aumenta la ventilazione, quindi si abbassa la pCO 2..
Nel caso in cui la risposta ventilatoria innescata dai chemiocettori periferici non fosse sufficientemente
veloce, la diminuzione di pH farebbe aumentare la pCO 2 con conseguente stimolazione dei
chemiocettori centrali.
La risposta dei chemiocettori centrali subisce un fenomeno di adattamento a causa del trasporto di
ione bicarbonato dal sangue al liquor: lo ione HCO 3- è pompato attivamente nel liquor, che si alcalinizza
lievemente, diminuendo l’impatto che la stimolazione
degli idrogenioni ha sui chemiocettori centrali.
– I chemiocettori periferici (non quelli centrali) sono stimolati dall’ipossia ipossica (dovuta ad
esempio ad intossicazione da barbiturici), associata ad una diminuzione della pressione
parziale dell’O2.
– Nell’ipossia anemica (carenza di emoglobina), la pO2. arteriosa è normale e i glomi non sono
stimolati. Lo stesso fenomeno si verifica nell’avvelenamento da CO (poca emoglobina libera, i
glomi non vengono stimolati).
– Nell’ipossia stagnante, la pO2 arteriosa è normale, ma se la perfusione dei glomi è ridotta, la pO 2
può diminuire all’interno dei glomi, che vengono così stimolati. Quindi la risposta dipende da
dove si verifica l'ischemia: il glomo risponde alla propria ischemia.
– Nell’ipossia isto-tossica, la pO2 arteriosa è normale, ma i glomi possono essere stimolati
dall’agente isto-tossico (se viene avvelenato il glomo, esso si attiva: la situazione è simile
all'ipossia ipossica).
Durante il sonno, all’interno di una generale depressione della
ventilazione (diminuisce sia la frequenza respiratoria che il volume
tidale), risulta anche diminuita la risposta ventilatoria alla stimolazione
chemiocettiva (a parità di aumento della pCO 2, la ventilazione aumenta
di meno rispetto che
nella veglia).
Nel sonno paradosso
si ha atonia
posturale: il
rilasciamento dei
dilatatori delle vie
aeree produce apnea da ostruzione.
L’ipercapnia stimola la ventilazione e aumenta
l’eccitabilità dei motoneuroni inspiratori e di quelli
che dilatano le vie aeree. Inoltre, la depressione che
si crea nelle vie aeree a valle del punto occluso
riesce ad attivare per via riflessa i muscoli dilatatori
delle medesime.
Queste azioni portano alla rimozione
dell’ostruzione.
Nel secondo grafico, le rette colorate mostrate hanno un significato limite (ovvero indicano valori di
differenza tra la frazione inspiratoria ed espiratoria di ossigeno costanti), mentre la retta nera è quella
reale, che si impenna a un certo volume di ossigeno.
Fino a un consumo di ossigeno corrispondente a circa 2 litri e mezzo, la pendenza della retta è
costante, dopodiché si impenna.
Il consumo di ossigeno (VO2) è uguale al prodotto della
ventilazione polmonare (VP) per la concentrazione
dell'ossigeno nell'aria inspirata meno la concentrazione
dell'ossigeno nell'aria espirata:
VO2 = VP x ([O2]insp – [O2]esp)
Da qui, si ottiene che la ventilazione polmonare (in ordinata)
è uguale al consumo di ossigeno (in ascissa) diviso la
differenza tra concentrazione di ossigeno nell'aria inspirata
ed espirata:
VP = VO2 / ([O2]insp – [O2]esp)
Questa relazione è semplificata e non tiene conto che le
ventilazioni in entrata e in uscita non sono uguali (la
differenza è legata al fatto che il consumo di ossigeno,
solitamente, non è uguale alla produzione di CO 2), ma ai fini
della trattazione didattica questa variazione può essere
ignorata.
La pendenza di queste rette è l'inverso della differenza
([O2]insp – [O2]esp).
Se la pendenza aumenta, vuol dire che la differenza diventa più piccola (ovvero diminuisce la
differenza tra le due concentrazioni).
Controllo cardio-vascolare
I centri cardiovascolari bulbari tengono sotto controllo sia il cuore che i vasi. Da un lato ci sono i
neuroni pregangliari del parasimpatico (particolarmente importanti sul cuore) e da un lato c'è il
centro vasomotore, il quale prende contatto con i neuroni pregangliari del simpatico spinale.
Il centro vasomotore ha azione sulla struttura pre-gangliare che innerva i vasi, ma anche sui neuroni
simpatici che innervano il cuore (quindi, sebbene si chiami “vasomotore”, controlla anche il cuore, è un
centro vaso-cuore-motore).
Il centro vasomotore subisce l'influenza da parte di:
– la stazione intermedia della formazione reticolare (per l'attivazione riflessa);
– aree corticali, come l'area motoria (per le modifiche legate alla nostra attività)
– ipotalamo (reazioni comportamentali su base istintiva);
– giro del cingolo, aree orbito-frontali, sistema limbico, che regolano il centro vasomotore sulla
base di emozioni e istinti (ad esempio il battito accelerato quando si ha paura).
L'attività ortosimpatica, in esercizio fisico (o in caso di reazioni d'allarme), determina aumento della
frequenza cardiaca, dando un contributo fondamentale
all'aumento della pressione che consegue all'esercizio fisico. Il
simpatico ha attività tonica, per cui se viene inibito si
diminuisce la frequenza cardiaca e quindi la pressione.
L'incremento di frequenza cardiaca che si ha in un soggetto
sano in esercizio fisico è differente rispetto all'incremento di
frequenza cardiaca in un soggetto trapiantato. Quest'ultimo
non ha innervazione simpatica, ma comunque aumenta la sua
frequenza cardiaca in esercizio fisico. Questo è dovuto
all'attività umorale del surrene, per cui oltre alla stimolazione
simpatica diretta del cuore si ha anche una stimolazione che
proviene dal surrene (adrenalina e noradrenalina). Potrebbero
esserci anche controlli di altra natura da parte del SNC non ancora conosciuti. L'attivazione simpatica
fa aumentare la pressione sistolica in 5-15 secondi, mentre in caso di inibizione del simpatico si può
dimezzare in 10-40 secondi.
L'incremento della gittata cardiaca che si verifica all'aumento del consumo di ossigeno può essere
schematizzato da una retta. Il consumo di ossigeno è uguale al prodotto della gittata cardiaca per la
differenza artero-venosa, per cui la gittata è uguale al consumo di ossigeno diviso la differenza artero-
venosa.
VO2 = Q [A-V]
Q = VO2/[A-V]
La pendenza delle
rette è quindi
l'inverso della
differenza artero-
venosa.
Se si prendono i
punti
caratterizzati da
valori di consumo
di ossigeno più
bassi, si nota che
questi sono
interpolati da rette
che hanno
pendenza
maggiore (ovvero
la differenza
artero-venosa è
più bassa).
Ad esempio, i
primi tre punti visibili sul grafico sono interpolati da una retta che ha differenza artero-venosa di 5
ml/100ml di sangue. Man mano che aumenta, invece, il livello di esercizio fisico, si passa a rette che
sono sempre meno ripide, a pendenze sempre minori: la differenza artero-venosa (che è l'inverso della
pendenza) sta aumentando.
Quindi, l'aumento della gittata cardiaca in corrispondenza dell'aumento del consumo di ossigeno è
tipizzato da un incremento progressivo della differenza artero-venosa, che aumenta all'aumentare del
consumo di ossigeno. Questo deve avvenire perché, se il consumo di ossigeno aumenta di 21 volte, la
gittata cardiaca può aumentare al massimo di 7 volte, per cui per soddisfare il bisogno di ossigeno
dell'organismo, se il consumo aumenta di 21 volte occorre aumentare di 3 volte da differenza artero-
venosa:
VO2 = Q [A-V]
21 = 7 x 3
Il grafico, che esprime la concentrazione e la capacità totale di
trasporto di ossigeno nel sangue arterioso e venoso misto in
funzione dell'intensità di esercizio (espressa come consumo di
ossigeno), mostra l'aumento della differenza artero-venosa in
relazione al volume di ossigeno consumato nell'uomo e nella
donna. La massima capacità di trasporto è indicata dai
quadratini in alto. In entrambi i grafici, è evidente che,
all'aumentare del consumo di ossigeno, aumenta anche la
capacità di trasporto dell'ossigeno da parte del sangue. Perché
aumenti la capacità di trasporto dell'ossigeno nel sangue è
necessario che aumenti la quantità del suo trasportatore,
l'emoglobina: in esercizio fisico, la milza viene spremuta e ri-
immette in circolo globuli rossi (aumento dell'ematocrito).
I grafici mostrano i volumi cardiaci in posizione supina e in piedi (aumentano in entrambi i casi).
In piedi, si arriva
anche a realizzare
un volume
telesistolico
minore (il cuore
si svuota
maggiormente
per produrre una
eiezione
maggiore), cosa
che non è
necessaria in
posizione supina.
In posizione
supina, infatti, i
volumi cardiaci
sono più grandi, in quanto, quando ci si mette in piedi, aumenta il volume delle vene della parte
inferiore del corpo (c'è meno sangue per la parte superiore del corpo, anche se c'è un meccanismo
nervoso che compensa), mentre in posizione supina c'è più sangue nel cuore, il volume della camera
cardiaca è maggiore.
Durante l'esercizio fisico, a quella che è l'azione dei meccanismi locali che si occupano della deviazione
del sangue verso i muscoli, si somma l'attività del simpatico, che riduce il flusso a livello degli organi
non necessari all'esercizio fisico (a livello renale, dell'apparato gastro-intestinale e di altri tessuti).
L'apporto sanguigno a livello cutaneo dipende dalle condizioni ambientali in cui si svolge l'esercizio. In
ambiente caldo, il flusso cutaneo deve aumentare altrimenti si raggiungerebbe una temperatura
troppo elevata (occorre raffreddare il sangue che arriva al cervello). Alcuni animali possiedono
dispositivi vascolari atti a raffreddare il sangue che arriva al cervello: la rete mirabile è una rete
arteriolare che passa attraverso un seno venoso alla base del cervello (che contiene sangue refluo dal
naso). Per questo, gli animali che vivono in ambienti caldi hanno una prestazione molto maggiore
(possono correre di più, produrre calore, perché il sangue che arriva al cervello viene raffreddato in
questo modo).
In un allenamento di tipo isometrico, di forza, si insp