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Fisiologia 1

L’omeostasi è la tendenza naturale al raggiungimento di una relativa stabilità, sia delle proprietà chimico-
fisiche interne che comportamentali, che accomuna tutti gli organismi viventi, per i quali tale regime
dinamico deve mantenersi nel tempo, anche al variare delle condizioni dell’ambiente esterno, attraverso
precisi meccanismi autoregolatori. L’omeostasi presuppone quindi un equilibrio dinamico tra l’ambiente
interno e l’ambiente esterno. Il concetto di omeostasi presenta alcune analogie con quello di stato
stazionario e a volte i due termini vengono utilizzati in modo interscambiabile. In realtà, in biologia per
'stato stazionario' (o equilibrio dinamico) s'intende una condizione d'equilibrio determinata da forze che
agiscono in senso contrario, mentre l'omeostasi è lo stato che risulta dall'interazione di una serie, anche
elevatissima, di stati stazionari. L’omeostasi è garantita da una serie di sistemi di controllo. Un sistema è
una struttura reale e circoscritta costituita da elementi uniti da interazioni misurabili. Se un sistema scambia
materia o energia con l'ambiente, si dice che è aperto: tutti i sistemi biologici sono aperti e ciò conferisce
loro la peculiarità di interagire con altri sistemi. Un
sistema aperto e quindi un sistema biologico, è in altre
parole una struttura che possiede un ingresso (input),
uno stato, e un'uscita (output). Un concetto
importante nella teoria dei sistemi è quello di funzione
di trasferimento (od operatore), un'astrazione
esprimibile in termini matematici, che rappresenta
l'insieme dei processi che opera sugli input
trasformandoli in output. Alcune uscite di un dato
sistema, dette variabili controllate, rappresentano un
sottogruppo di tutte le uscite del sistema controllato;
lo stato di questo sistema è sottoposto all'influenza di
due fondamentali categorie di input, i disturbi e le funzioni forzanti. I disturbi o perturbazioni sono tutte le
entrate non controllate; esse producono modificazioni non volute nello stato del sistema e di conseguenza
della variabile controllata. Le funzioni forzanti sono quelle che possono essere manipolate per provocare le
variazioni desiderate. Perché il sistema di controllo operi efficacemente, è necessario che riceva un'altra
categoria d'entrate, derivata da sensori in grado di definire lo stato del sistema sostanzialmente misurando
la variabile controllata. I sensori possono rilevare o le perturbazioni stesse o la variabile controllata, cioè gli
effetti che una perturbazione ha avuto sullo stato del sistema.

Nel primo caso, si parla di “sistema di controllo a feedforward”, nel secondo di “sistema di controllo a
feedback”. Nel caso di un controllo a feedforward la perturbazione viene rilevata dal sensore prima che
induca i suoi effetti sullo stato del sistema. I sistemi a feedforward hanno il grande vantaggio di poter
evitare che la perturbazione eserciti i propri effetti, prevenendo quindi la necessità di interventi correttivi
ne consegue che i sistemi a feedforward richiedono complessi meccanismi predittivi. Nel caso di un sistema
di controllo a feedback, la perturbazione esercita la propria azione sul sistema, modificandone lo stato e
quindi l'uscita, che viene rilevata dal sensore. Il vantaggio che un sistema di controllo a feedback ha rispetto
a uno a feedforward è sostanzialmente legato al fatto che non dipende dall'esistenza di meccanismi
predittivi, bensì è dovuto alla sua semplicità. Per questa ragione, la grande maggioranza dei sistemi di
controllo fisiologici è a feedback.

Feedback positivo e negativo

Nella regolazione a feed-back un sensore rileva il valore attuale della variabile fisiologica, manda il segnale
ad un centro integrativo che compara tale valore con quello di riferimento o set point. La differenza tra i
due parametri determina il segnale errore che è inviato a specifici effettori che agiscono variandone il
valore. Il segnale errore può essere positivo o negativo: è positivo quando la variabile regolata è superiore
al set point e negativo quando è inferiore. Se l'azione del controllore ha segno opposto a quello del segnale
errore, essa viene detta 'negativa'; viceversa, se ha lo stesso segno del segnale errore essa viene definita
'positiva'. Nel feedback positivo il segnale di errore promuove processi volti ad aumentare la differenza tra
la variabile regolata e il set point. In un sistema a feedback positivo l'azione del controllore tende ad
amplificare la differenza e il sistema tende alla crescita o al declino esponenziale, fino all'esplosione o al
blocco. Nel feedback negativo l’azione del controllore ha segno opposto a quello del segnale errore. Un
sistema di controllo a feedback negativo è finalizzato a ridurre la differenza tra il valore della variabile
regolata e il set point; un sistema così organizzato tende dunque a generare equilibrio. Un esempio di
feedback negativo è quello applicato a variazioni della pressione arteriosa. I segnali provenienti dai
barocettori sono trasmessi al bulbo tronco-encefalico, dove tali segnali vengono confrontati al valore di set
point. Un aumento della pressione arteriosa al di sopra del parametro di riferimento genera un segnale di
errore che conduce ad una riduzione dell’attività del sistema simpatico. Ciò determina a sua volta la
dilatazione dei vasi sanguigni. La rete di comunicazione tra i diversi sistemi è mantenuta tale ed efficiente
dalla segnalazione neuronale e da quella ormonale.

Neuroni

Il neurone (o cellula nervosa) è l’unità strutturale e funzionale del tessuto nervoso. In rapporto alla
funzione di tale tessuto nella vita di relazione, i neuroni assumono una morfologia caratteristica e tra di essi
si stabiliscono rapporti, chiamati sinapsi, specializzati a trasmettere gli impulsi da un elemento all’altro del
sistema. A livello della sinapsi non vi è continuità protoplasmatica tra le cellule. Ogni neurone è costituito
da un voluminoso corpo cellulare (o pirenoforo), contenente il nucleo e il citoplasma, e da lunghi
prolungamenti che appartengono a due tipi: i dendriti, che insieme al corpo cellulare ricevono e
trasformano in impulsi nervosi gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno o interno,
l’assone (o cilindrasse o neurite), che in genere conduce gli impulsi distalmente rispetto al corpo cellulare.
Per questo motivo il neurone è polarizzato. Gli assoni sono distinti in assoni mielinici e amielinici a seconda
della presenza di una guaina mielina. La guaina mielinica è costituita dall’avvolgimento concentrico del
plasmalemma di ciascuna cellula di Schwann (nel sistema nervoso periferico) o della cellula di
oligodendroglia (nel sistema nervoso centrale) intorno all’assone di un neurone. La guaina mielinica ha
diverse funzioni:

 Agisce come materiale di isolamento, impedendo la diffusione dell’eccitamento agli assoni


adiacenti.

 Aumenta la velocità di conduzione dell’impulso. Secondo la teoria della conduzione saltatoria, nelle
fibre mielinizzate vi è trasmissione discontinua dell’impulso nervoso da nodo a nodo con
conseguente aumento di velocità in quanto non è necessario che l’impulso scorra lungo tutto
l’assone.

 Regola gli scambi metabolici tra la cellula di Schwann o la cellula di oligodendroglia e l’assone.

La membrana citoplasmatica e i trasporti

La membrana citoplasmatica costituisce un importante interfaccia con l’ambiente esterno regolando gli
scambi di molecole dall’ambiente citoplasmatico all’ambiente extracellulare e viceversa. Il flusso di tali
molecole è consentito da una serie di meccanismi di trasporto distinti in: diffusione semplice, diffusione
facilitata e trasporto attivo.
Nella diffusione semplice le molecole possono diffondere liberamente nel bilayer senza l’ausilio di proteine
di trasporto. La velocità di diffusione dipende dalla natura chimico-fisica delle molecole: composti apolari,
idrofobici e liposolubili diffondono liberamente nel doppio strato fosfolipidico. L’azoto, l’ossigeno e
l’anidride carbonica sono esempi di molecole in grado di diffondere attraverso il bilayer. La permeabilità
alla membrana diminuisce progressivamente al crescere della polarità e delle dimensioni, nonostante
piccole molecole polari possano attraversare la membrana cellulare senza la richiesta di proteine
ausiliatrici. Un esempio è l’acqua, un composto polare, a basso peso molecole in grado di attraversare il
doppio strato lipidico. Nonostante ciò le cellule utilizzano delle specifiche proteine canali, dette
acquaporine, che aumentano la velocità di diffusione e consentono un’entrata maggiore di molecole di
acqua in tempi piuttosto brevi, per soddisfare il fabbisogno della cellula. Altre molecole a peso molecolare
più elevato e di natura idrofilica, come l’urea, richiedono una serie di proteine di membrana che ne
facilitano il trasporto, pertanto si parla di diffusione facilitata. Le proteine di trasporto sono proteine
integrali di membrana selettivamente permeabili ad una singola o a poche classi di composti. Sono infatti
dotati di una sorta di filtro di selettività che interagisce e riconosce in modo altamente specifico il proprio
ligando. Le proteine di trasporto sono dotate inoltre di cancelli che regolano l’apertura e la chiusura di tali
canali. I meccanismi di apertura e di chiusura consentono di regolare la permeabilità dei canali e di
distinguere le proteine di trasporto in diverse classi: i canali voltaggio-dipendenti, i canali ligando-
dipendenti, i canali regolati da stimoli meccanici.

1. I canali voltaggio-dipendenti sono regolati da stimoli elettrici detti sovrasoglia, da variazioni nel
potenziale di membrana e quindi dalla variazione di concentrazione di cationi o anioni
nell’ambiente citosolico ed extracellulare. Ciò è alla base per l’apertura dei canali voltaggio-
dipendenti per il sodio, il potassio e il calcio, coinvolti nella generazione del potenziale d’azione.
2. I canali ligando-dipendenti sono sensibili a molecole chimiche che si legano a specifiche porzioni
extracellulare. Uno dei più importanti esempi di funzionamento di porte a controllo chimico è
l’effetto dell’acetilcolina sul canale omonimo.
3. I canali regolati da stimoli meccanici sono sensibili a stimoli pressori e di stiramento.

La diffusione semplice e la diffusione facilitata sono meccanismi di trasporto che non richiedono l’apporto
di energia e pertanto sfruttano la forza che si genera in presenza di un gradiente chimico, di un gradiente
elettrico o di entrambi. Il gradiente chimico è definito come la differenza di concentrazione tra l’ambiente
extracellulare e l’ambiente intracellulare di un dato composto, mentre il gradiente elettrico descrive una
distribuzione disuguale di cariche positive e negative sui versanti opposti della membrana citoplasmatica.
Un composto carico viaggerà da un ambiente a concentrazione maggiore ad uno a concentrazione minore
spostandosi contemporaneamente verso l’ambiente con composti a carica opposta. Il flusso di ioni genera
una differenza di potenziale elettrico variabile sui versanti opposti della membrana che risulterà costante
soltanto in seguito all’equilibrio elettrochimico, quando il flusso netto di ioni sarà nullo. La differenza di
potenziale all’equilibrio può essere calcolata dall’equazione di Nernst:

RT
EK= ln ¿ ¿
zF
In questa equazione Ek indica il voltaggio esistente all’equilibrio, R la costante dei gas perfetti, T la
temperatura assoluta in K, z la valenza dello ione, F la costante di Faraday, ¿ e ¿ indicano, rispettivamente,
la concentrazione extracellulare e intracellulare dello ione. Un comportamento peculiare riguarda l’acqua
che attraversa la membrana cellulare secondo un meccanismo detto osmotico, in cui l’acqua,
comportandosi come solvente, tende ad equilibrare ed eliminare il gradiente chimico di un soluto, fluendo
da un ambiente a concentrazione minore di soluto ad un ambiente a concentrazione maggiore. Al flusso di
acqua attraverso la membrana cellulare si oppone la pressione osmotica, che viene uguagliata in condizioni
di equilibrio. Il terzo meccanismo di trasporto, il trasporto attivo si differenzia notevolmente dalla
diffusione semplice e dalla diffusione facilitata. Tale meccanismo è applicato per il trasporto contro
gradiente elettrochimico e per la diffusione di molecole polari, idrofiliche, cariche e ad elevato peso
molecolare. Esempi sono il sodio, il potassio, il calcio, il ferro e l’urato. Si tratta di un sistema
endoergoniche che richiede un dispendio energetico e di proteine di trasporto, dette pompe. In base alla
fonte energetica richiesta il trasporto è distinto in primario e secondario.

1. Il trasporto attivo primario ricava energia dall’idrolisi di ATP o di altri composti fosfati contenenti
legami ad alto contenuto energetico, mentre il trasporto attivo secondario sfrutta l’energia
prodotta da un trasporto secondo gradiente elettrochimico. Un esempio di trasporto attivo
primario è la pompa Na+- K+ ATPasi. Essa è responsabile del mantenimento di potenziale a riposo
nelle cellule, determinando una preponderanza di cariche negative nell’ambiente citosolico rispetto
a quella extracellulare. Consente infatti, attraverso l’idrolisi di ATP l’entrata di 2 molecole di
potassio e l’uscita verso l’ambiente extracellulare di 3 molecole di sodio. La pompa Na+- K+ ATPasi è
coinvolta nel mantenimento di un volume costante della cellula. Gli ioni accolti nell’ambiente
citoplasmatico, in assenza della suddetta pompa, richiamerebbero per osmosi l’acqua, che
rigonfierebbe la cellula fino alla lisi.
2. Il trasporto attivo secondario sfrutta l’energia di un secondo trasporto, effettuato secondo
gradiente elettrochimico. Si parla di simporto quando il trasporto di accoppiamento avviene nella
medesima direzione del trasporto attivo, si parla di antiporto nelle condizioni opposte. Un esempio
di co-trasporto o di simporto è la pompa Na+-glucosio. A livello intestinale, la concentrazione di
glucosio è maggiore nell’ambiente citosolico rispetto alla concentrazione luminale, la condizione è
inversa per il sodio. Pertanto un trasporto del glucosio dal lume intestinale all’ambiente citosolico
degli enterociti, richiede un apporto di energia, fornito dal simporto del sodio secondo gradiente di
concentrazione. La pompa Na+-glucosio lega ambedue le molecole a livello luminale, modifica la sua
conformazione per poi rilasciare sia il sodio, sia il glucosio nell’ambiente citosolico.

Canali ionici

La via prevalentemente utilizzata dagli ioni per transitare attraverso la membrana è costituito dai cosiddetti
canali ionici. I canali ionici sono macromolecole di natura glicoproteica costituite da proteine integrali di
membrana. La macromolecola risulta formata da diverse subunità che circoscrivono un poro idrofilo
attraverso il quale transitano gli ioni. È possibile distinguere i canali ionici in due grandi classi: i canali
passivi e quelli ad accesso variabile. I canali passivi sono caratterizzati dal fatto che, ferma restando la loro
selettività per una determinata specie ionica, essi risultano sempre aperti, cioè sempre transitabili dallo
ione in questione. I canali ad accesso variabile, invece, sono provvisti di un meccanismo che ne regola
l’apertura a seguito di stimoli specifici di natura elettrica, chimica o meccanica. I canali passivi sono
coinvolti nella genesi del potenziale di membrana a riposo, mentre i canali ad accesso variabile sono
responsabili, nelle cellule eccitabili, dell’insorgenza dei segnali elettrici. Il canale ionico ad accesso variabile
può trovarsi in tre stati funzionali aperto, chiuso oppure refrattario. L’apertura dei canali ad accesso
variabile è regolata da stimoli di diversa natura, elettrica, chimica o meccanica. Quindi è possibile
distinguere: canali voltaggio-dipendenti, canali regolati da ligandi, canali regolati da stimoli meccanici. I
principali canali ionici dei neuroni sono voltaggio-dipendenti. Questi canali risultano chiusi quando la
membrana è nel suo stato di polarizzazione a riposo o potenziale di membrana e si attivano a seguito di sue
variazioni, in seguito normalmente a depolarizzazione. I canali voltaggio-dipendenti sono responsabili
dell’insorgenza del potenziale d’azione, il segnale elettrico che garantisce la propagazione delle
informazioni lungo le fibre nervose e rende possibile la contrazione delle cellule muscolari. Essi giocano un
ruolo chiave anche nei meccanismi che determinano la liberazione di neurotrasmettitori dalle terminazioni
nervose e di ormoni dalle cellule endocrine. I canali voltaggio-dipendenti sono distinti e classificati in base
alla specie ionica per la quale i canali sono selettivi.

1. Un esempio sono i canali del sodio, specifici per il passaggio di tale ione. Si tratta di canali costituiti
da una subunità α che può essere associata a una o due subunità β. La subunità α è sufficiente a
generare, da sola, un poro funzionale dotato di voltaggio-dipendenza e filtro di selettività, mentre
le subunità β svolgono un ruolo modulatorio della cinetica e della voltaggio-dipendenza del canale.
La catena polipeptidica della subunità α è organizzata in quattro domini omologhi (I-IV), ciascuno
dei quali si compone di sei segmenti (S1-S6), con struttura a α-elica. Il sensore di voltaggio è
rappresentato dal segmento S4 presente in ciascuno dei quattro domini, che contiene a.a. carichi
positivamente (lisina o arginina). L’attivazione del canale durante la depolarizzazione si generebbe
mediante un movimento verso l’esterno dei segmenti S4, che verrebbe trasmesso alle anse poste
tra i segmenti S5 e S6, che costituiscono il filtro di selettività. Un’ansa corta che collega i domini III e

IV è ritenuta, invece, responsabile dell’inattivazione del canale. A seguito di una depolarizzazione


protratta dalla membrana, quest’ansa si piegherebbe e andrebbe a occludere dall’interno il poro
del canale. I canali del sodio manifestano una bassa soglia di attivazione e la loro apertura
determina un intenso flusso di ioni sodio che passa dal versante extracellulare a quello
intracellulare della membrana. Questo flusso entrante di cariche positive è responsabile di una
rapida inversione della polarizzazione della membrana a riposo. Accanto alla soglia di attivazione,
una caratteristica fondamentale dei canali del sodio è rappresentata dalla rapida cinetica di
inattivazione. Perdurando lo stimolo che determina l’apertura del canale, il canale diviene
rapidamente refrattario e quindi il flusso di sodio, attraverso la membrana, si estingue. Questo
evento è di fondamentale importanza nel determinare la breve durata del potenziale d’azione.
L’inattivazione del canale è responsabile del fenomeno noto come refrattarietà assoluta, ovvero
l’incapacità della cellula nervosa, quando è depolarizzata, di generare un nuovo potenziale d’azione
in risposta a stimoli di qualunque intensità.
2. Un altro esempio di canali ionici voltaggio-dipendenti sono i canali del potassio, specifici per il
passaggio del medesimo ione. Durante il potenziale d’azione essi svolgono un ruolo fondamentale
nel fenomeno di ripolarizzazione ovvero nel porre fine alla depolarizzazione e nel riportare il
potenziale della membrana verso i valori di riposo. Un terzo canale ionico voltaggio dipendente è il
canale per il calcio. I diversi tipi di canale sono distinti in due grandi classi in base alla loro soglia di
attivazione: i canali ad alta soglia (HVA) e i canali a bassa soglia. I canali HVA si attivano a seguito di
una marcata depolarizzazione, ovvero quando il potenziale della membrana raggiunge valori pari a
-20 mV. Una sottoclasse dei canali ad alta soglia, i canali L o lenti, ad elevata conduttanza e a lenta
inattivazione, sono responsabili dell’accoppiamento tra depolarizzazione e contrazione nel muscolo
scheletrico e nelle cellule cardiache. A livello cardiaco questi canali sono anche importanti per la
fase di depolarizzazione rapida delle cellule segna passi e per la fase di plateau del potenziale
d’azione delle fibrocellule miocardiche. I canali a bassa soglia si attivano a un valore del potenziale
di membrana compreso tra -65 e -50 mV. A causa della bassa soglia di attivazione, i canali svolgono
una funzione molto importante nella genesi di quelle modificazioni del potenziale di membrana che
sono alla base della scarica ritmica spontanea di taluni neuroni.

Formazione del potenziale a riposo

La membrana che delimita la cellula isolandone il contenuto dall’ambiente esterno risulta, nella maggior
parte dei tipi cellulari, è elettricamente polarizzata. Tale polarizzazione assume un interesse particolare
nelle cellule eccitabili, quali i neuroni e le cellule muscolari, che hanno la capacità di generare segnali
elettrici in risposta a stimoli specifici. Questi segnali consistono in flussi di corrente, ovvero di ioni carichi
positivamente o negativamente che attraversano la membrana e generano rapide modificazioni del suo
stato di polarizzazione a riposo definito potenziale di membrana. L’entità di differenza di potenziale a
cavallo della membrana, nell’ordine di alcune decine di mV, è estremamente variabile nei diversi tipi
cellulari, ma il dato costante è rappresentato dal fatto che, in condizioni di riposo, il versante intracellulare
della membrana risulta essere negativo rispetto al versante extracellulare. Nel caso di un neurone, la
differenza di potenziale a riposo è pari a circa -70 mV. In assenza di stimoli che mutino lo stato elettrico
della membrana, questa differenza di potenziale si mantiene costante nel tempo. Una modificazione del
potenziale di membrana a risposo verso valori più negativi è definita iperpolarizzazione; se il potenziale
della membrana diviene meno negativo si parla di depolarizzazione. L’esistenza di una differenza di
potenziale a cavallo della membrana implica che sui suoi due versanti vi sia una diseguale distribuzione di
cariche elettriche, ovvero di ioni. La differente concentrazione delle diverse specie ioniche suggerisce che la
membrana si comporti come una barriera dotata di una permeabilità selettiva che separa il liquido
extracellulare e il citoplasma. Nel compartimento extracellulare è presente una concentrazione più elevata
di sodio, cloro e calcio, mentre nel compartimento intracellulare si ha una concentrazione maggiore di
potassio e di anioni organici (amminoacidi e proteine). È possibile osservare che la concentrazione dello
ione sodio sul versante extracellulare è circa 10 volte maggiore rispetto a quella presente sul versante
intracellulare, mentre lo ione potassio risulta circa venti-quaranta volte più concentrato all’interno che
all’esterno della membrana. In condizioni di riposo la membrana cellulare è permeabile al solo ione
potassio grazie alla presenza di canali passivi per questo ione. Il potassio, in virtù del suo gradiente di
concentrazione si sposta, quindi dall’interno all’esterno della cellula. Il flusso di cariche positive che
abbandonano l’interno della cellula non si accompagna, però, a un equivalente flusso uscente di cariche
negative data l’impermeabilità della membrana agli anioni proteici. Questo disaccoppiamento tra il flusso di
cationi e quello di anioni determina pertanto una polarizzazione della membrana, il cui versante interno
diviene più negativo di quello esterno. La fuoriuscita di ioni potassio è dettata dal gradiente di
concentrazione e determina una polarizzazione della membrana, generando in tal modo l’insorgenza di una
forza elettrica che si oppone a quella chimica. Il versante interno della membrana, carico negativamente,
esercita infatti una forza di attrazione nei confronti dello ione potassio. Di conseguenza, lo ione potassio
viene a essere sottoposto a due forze che si contrastano e che si eguagliano all’equilibrio elettrochimico,
quando il flusso netto degli ioni potassio è pari a 0. In una cellula eccitabile, quale neurone, pur restando
valido il meccanismo finora descritto esso non appare, da solo sufficiente a spiegare la genesi del potenziale
di membrana. Il valore del potenziale di membrana di un neurone è compreso nella maggior parte dei casi
tra -60 mV e -70 mV. Si discosta, cioè dal potenziale di equilibrio del potassio, risultando lievemente meno
negativo. Questo suggerisce che il potenziale stesso non sia determinato esclusivamente dal potassio e che
in aggiunta sia coinvolta anche la conduttanza di altre specie ioniche. In effetti la membrana della cellula
nervosa presenta canali passivi anche per il sodio e per il cloro. La concentrazione del sodio all’esterno della
membrana è superiore di circa 10 volte alla sua concentrazione intracellulare. Di conseguenza, esso tende a
entrare all’interno della cellula sia in virtù della forza chimica sia in virtù della forza elettrica. L’interno della
membrana è infatti carico negativamente ed esercita, quindi, una forza di attrazione sullo ione sodio. Nel
caso del sodio, le due forze, chimica ed elettrica, risultano pertanto alleate e non già contrapposte, come
accade invece per il potassio. A fronte di questa forte spinta ad attraversare la membrana dall’esterno
verso l’interno, il flusso entrante di sodio risulta, comunque assai modesto a causa della scarsa permeabilità
della membrana a questo ione (esiguo numero di canali passivi presenti sulla membrana). Per quanto la
permeabilità al sodio sia scarsa, questo ione, seppure in misura ridotta, entra nella cellula rendendo il
versante interno della membrana meno negativo di quanto esso sarebbe in relazione al solo flusso di
potassio. La minor negatività della membrana causata dall’ingresso del catione sodio, rende meno intensa
forza elettrica che si oppone all’uscita di potassio. Di conseguenza, la forza chimica spinge il potassio ad
abbandonare l’interno della cellula. In altre parole, il modesto, ma progressivo ingresso degli ioni sodio
all’interno della cellula produce come conseguenza una fuoriuscita di potassio. Il perdurare nel tempo di
tale fenomeno tenderebbe a estinguere le differenze di concentrazioni ioniche di sodio e potassio tra il
versante interno e quello esterno della membrana, alterando di conseguenza il fattore determinante della
polarizzazione della membrana a riposo. Tale situazione non si verifica grazie all’intervento della pompa
sodio-potassio ATP dipendente. La pompa sodio-potassio-ATPasi è una pompa di tipo P ubiquitaria che
garantisce il mantenimento dei gradienti di sodio (Na+) e potassio (K+) attraverso la membrana in tutte le
cellule, sia eccitabili, sia non eccitabili, estrudendo il sodio dalla cellula e scambiandolo con il potassio, con
un rapporto di 3:2. Questi flussi ineguali di Na+ e K+ fanno sì che la pompa dia origine ad una corrente ionica
uscente netta; per tale ragione la pompa sodio-potassio-ATPasi è definita una pompa elettrogenica. Tale
antiporto è possibile grazie all’idrolisi di ATP, pertanto, come tutte le pompe, rappresenta un trasporto di
tipo attivo. Per effetto di tale pompa si stabiliscono forti gradienti elettrochimici nelle fibre nervose a
riposo. In particolare, grazie all’energia fornita dall’idrolisi di una molecola di ATP, la pompa estrude dalla
cellula 3 ioni sodio scambiandoli con 2 ioni potassio che passano dal versante esterno a quello interno della
membrana. Mediante questo dispositivo, le cariche positive che passano all’esterno della membrana sono
superiori a quelle che passano all’interno e pertanto, il funzionamento della pompa determina
un’iperpolarizzazione della membrana, la rende cioè più negativa di quanto essa non sarebbe sulla base dei
soli flussi ionici attraverso i canali passivi. Il valore di potenziale elettrico al quale corrisponde l’equilibrio tra
gradiente di concentrazione e forza elettrica è dato dall’equazione di Nernst:

RT
EK= ln ¿ ¿
zF
In questa equazione Ek indica il potenziale di equazione del potassio, R la costante dei gas perfetti, T la
temperatura assoluta, z la valenza dello ione, F la costante di Faraday, ¿ e ¿ indicano, rispettivamente, la
concentrazione extracellulare e intracellulare dello ione. Alla temperatura ambiente di 25°C il rapporto
RT/F è uguale a 25 mV, la valenza, per esempio del potassio vale +1, perciò note le concentrazioni
extracellulari e intracellulari dello ione potassio, si ottiene un valore di -75mV, che corrisponde al
potenziale di membrana a riposo, nella condizione in cui la membrana sia permeabile al solo ione potassio.
Il valore ottenuto indica ulteriormente come il sodio partecipi alla formazione di un potenziale di riposo. In
una cellula eccitabile, quale il neurone, il solo potassio non appare sufficiente a spiegare la genesi del
potenziale di membrana. Se si calcola il potenziale di equilibrio del sodio utilizzando le concentrazioni di
questo ione all’interno e all’esterno, si otterrà un valore pari a circa +55 mV. Da questo valore risulta
evidente che il potenziale a riposo è dato dalla combinazione dei flussi si sodio e potassio. La relazione che
descrive in maniera appropriata il contributo relativo di diverse specie ioniche alla definizione del
potenziale della membrana è rappresentata dall’equazione di Goldman. Questa equazione mette in
evidenza come il contributo di ciascuno ione alla genesi del potenziale della membrana dipenda sia dal
gradiente di concentrazione a cavallo della membrana sia dalla permeabilità che la membrana ha per quella
determinata specie ionica. In sintesi il potenziale di membrana a riposo è determinato da:

1. Elevata permeabilità della membrana al potassio, grazie alla presenza di canali passivi per questo
ione, che consente l’efflusso di potassio sotto la spinta di un forte gradiente di concentrazione
contrastato dal gradiente elettrico
2. Impermeabilità della membrana agli anioni proteici che restando intrappolati all’interno della
cellula, determinano la polarizzazione negativa del versante interno della membrana
3. Scarsa permeabilità della membrana al sodio che consente un modesto ingresso di questo ione
nonostante la forte spinta congiunta del gradiente elettrico e del gradiente di concentrazione
4. Azione della pompa sodio- potassio che contrastando il modesto flusso entrante di sodio e la
conseguente fuoriuscita di potassio, mantiene inalterati i rapporti di concentrazione di queste due
specie ioniche a cavallo della membrana.

Potenziale d’azione

Nelle cellule eccitabili uno stimolo adeguato produce una variazione del potenziale di membrana che se
supera un valore critico, innesca la generazione di un potenziale d’azione. In generale, questa proprietà
della cellula eccitabile richiede la presenza di un potenziale a riposo molto negativo e di un’alta densità di
conduttanze voltaggio-dipendenti (canali ionici voltaggio-dipendenti). La conduttanza di un canale esprime
la sua capacità di far passare cariche elettriche, ovvero ioni, in presenza di una forza motrice elettrochimica
che dipende dalla differenza di potenziale elettrico e della differenza di concentrazione dello ione sui due
versanti della membrana. I potenziali d’azione rappresentano una modifica della conduttanza di membrana,
in pratica un fenomeno che determina l’apertura voltaggio e tempo-dipendente di canali ionici selettivi per
gli ioni sodio e per gli ioni potassio. Stimolando una cellula eccitabile con stimoli di corrente di intensità
crescente, per basse intensità di stimolazione non si osserva la generazione di un potenziale d’azione, ma
solo le tipiche risposte elettrotoniche della membrana, mentre a un certo punto, per piccolissimi incrementi
di intensità di stimolo si assiste alla produzione di un impulso che si ripete inalterato nel tempo e nello
spazio, mantenendo la stessa ampiezza e forma dei potenziali d’azione. In queste condizioni viene superato
un livello critico di potenziale o valore soglia. Tale comportamento dell’impulso nervoso prende il nome di
legge del “tutto o nulla”. A seguito di un potenziale d’azione, la membrana diventa meno eccitabile e non è
più in grado di generare altri potenziali d’azione. Questo periodo di minore responsività è denominato
periodo refrattario. La probabilità che si generi un secondo potenziale d’azione in coda a un altro dipende
dal tempo intercorso tra i due nel periodo refrattario. Quest’ultimo è distinto in periodo refrattario
assoluto e periodo refrattario relativo. Nel periodo refrattario assoluto i canali del sodio voltaggio-
dipendenti sono aperti o inattivati. Fino a quando essi non avranno recuperato a pieno la propria
funzionalità, indipendentemente dall’intensità dello stimolo applicato, nessun potenziale d’azione potrà
essere generato. Nel periodo refrattario relativo i canali del potassio voltaggio-dipendenti si sono aperti e la
membrana è iperpolarizzata, in genere con un valore di potenziale più negativo del potenziale di riposo. Per
questa ragione i potenziali d’azioni saranno più difficilmente inducibili. Una delle funzioni del periodo
refrattario è quella di impedire il riverbero dei segnali nella rete nervosa assonale, impulsi che devono
invece essere propagati in un'unica direzione. Altra funzione è quella di limitare, mantenendole costanti, la
forma d'onda e la temporizzazione dei potenziali d'azione, regolarizzandone la loro generazione. Il
potenziale d'azione stesso può essere suddiviso in tre fasi: fase ascendente o di depolarizzazione, fase
discendente o di ripolarizzazione e fase di iperpolarizzazione postuma. Nella fase di depolarizzazione o
ascendente uno stimolo depolarizzante che raggiunge il valore soglia, aumenta la permeabilità della
membrana al sodio, innescando l’apertura dei canali ionici del sodio voltaggio-dipendenti. Il sodio perciò
fluisce all’interno della cellula secondo gradiente di concentrazione e attratta dalla carica negativa del
versante citosolico della membrana. In questa fase avviene un’inversione del potenziale che dal valore di -
70 mV della membrana a riposo, raggiunge un picco di +30 mV. In simultanea, la depolarizzazione di
membrana innesca l’apertura dei canali del potassio voltaggio-dipendente. Tuttavia, i cancelli di apertura
dei canali per il potassio sono molto più lenti, e il picco della permeabilità al potassio giunge più tardi di
quello della permeabilità al sodio. Quando i canali per il potassio si aprono, il potenziale di membrana della
cellula ha già raggiunto +30 mV a causa dell'afflusso di sodio attraverso i più rapidi canali per il sodio.
Quando il potenziale di membrana è positivo, sia il gradiente elettrico sia il gradiente di concentrazione
favoriscono la fuoriuscita di potassio dalla cellula. Mentre il K+ esce dalla cellula, il potenziale di membrana
diventa rapidamente più negativo, creando la fase discendente del potenziale d'azione e portando la cellula
al suo potenziale di riposo. Quando il potenziale di membrana discendente raggiunge -70 mV, i canali per il
potassio voltaggio-dipendenti non si sono ancora chiusi. Il potassio continua a fuoriuscire dalla cellula sia
attraverso i canali voltaggio-dipendenti sia attraverso i canali non regolati, e la membrana si iperpolarizza.
Infine, si chiudono i canali lenti voltaggio-dipendenti per il potassio e una parte della fuoriuscita di potassio
cessa. In alcuni casi la membrana, a seguito a depolarizzazione non si ripolarizza immediatamente, ma il
potenziale permane per la durata anche di molti millisecondi a un valore vicino al picco del potenziale
d’azione, determinando la cosiddetta fase di plateau. Questo evento è caratteristico del tessuto miocardico
e determinato dall’equilibrio elettrochimico tra il calcio e il potassio. Il calcio infatti attraversa i canali ad
alta soglia di tipo L (lenti) raggiungendo l’ambiente intracellulare in concomitanza alla fuoriuscita degli ioni
potassio.

Il potenziale d’azione generato in una regione delle fibre nervosa si distribuisce nelle regioni adiacenti,

determinando la propagazione dell’impulso nervoso, a patto che raggiunga un valore soglia, stabilito dalla
legge tutto o niente. Alcune cellule eccitabili, come i cardiomiociti specifici, sono in grado di generare
autonomamente un impulso nervoso ritmico, alla base della peristalsi e della contrazione cardiaca. Ciò è
dovuto ad un potenziale a riposo non abbastanza negativo da mantenere i canali voltaggio-dipendenti per il
Na+ completamente chiusi.
Parametri che modificano la velocità di propagazione dell’impulso

La velocità di propagazione dell’impulso è in rapporto al diametro della fibra nervosa e della guaina
mielinica. L’aumento del diametro porta al crollo della resistenza assiale ma ad un aumento della capacità
complessiva dell’assone. Più è grande la capacità, più cariche verranno intrappolate dalla membrana ad un
particolare voltaggio e questo furto di cariche rallenterà l’andamento delle risposte. Una soluzione al
problema della capacità è stata trovata nella mielina. Nei vertebrati, la mielina è prodotta dalle cellule di
Schwann o dagli oligodendrociti. L’arrotolamento della mielina intorno agli assoni velocizza il processo di
propagazione dei segnali elettrici riducendo la capacità dell’assone e aumentando almeno in parte la
resistenza alla fuga di cariche. In questo modo si possono veicolare le correnti depolarizzanti che fluiscono
all’interno di un nodo di Ranvier a quello successivo, generando quella che viene definita come conduzione
saltatoria dei potenziali d’azione. Il potenziale d’azione infatti si propaga da nodo a nodo aumentando di 5-
50 volte la velocità di trasmissione.

Sinapsi

La sinapsi è la zona di contatto tra due neuroni attraverso la quale un impulso nervoso è trasmesso da un
neurone all’altro. Esistono due tipi di comunicazione intercellulare: una elettrica e una chimica. Nelle
sinapsi elettriche vi è continuità citoplasmatica tra un neurone presinaptico e un neurone postsinaptico
grazie alla formazione di regioni di adesione, dette giunzioni comunicanti. Si stabilisce pertanto un sincizio
funzionale a livello del quale si ha la propagazione dell’eccitamento elettrico tra una cellula e l’altra. Nelle
sinapsi chimiche non vi è alcuna interazione diretta, al contrario l’assolemma del cilindrasse del neurone
presinaptico e la membrana citoplasmatica del neurone postsinaptico è interrotta da un sottile interstizio,
detto fessura intersinaptica. Pertanto nelle sinapsi chimiche l’interazione e in particolar modo la
propagazione dell’impulso elettrico è favorito dal rilascio nella fessura intersinaptica, dal neurone
presinaptico, di un mediatore chimico, detto neurotrasmettitore. I neurotrasmettitori sono messaggeri
chimici prodotti dal neurone presinaptico e distinti sostanzialmente per la funzione biologia e per le
caratteristiche chimico-fisiche. I neurotrasmettitori non peptidici vengono sintetizzati principalmente nella
regione delle terminazioni assoniche e accumulati all’interno delle vescicole sinaptiche, vescicole a
membrana unitaria. I neurotrasmettitori peptidici si trovano in grandi vescicole dense che vengono
trasportate lungo l’assone dal loro luogo di sintesi nel corpo cellulare. Il processo di rilascio ha come tappa
iniziale la propagazione di uno stimolo nervoso o neuromotorio lungo il cilindrasse. A livello delle
terminazioni nervose lo stimolo elettrico determina l’apertura di canali del Ca2+ voltaggio dipendenti,
generando pertanto un flusso secondo gradiente elettrochimico di cationi diretti verso l’assoplasma. Il
calcio determina a sua volta la fosforilazione delle sinapsine che mantengono le vescicole sinaptiche ancora
al citoscheletro dell’assone. Le vescicole dissociate dal citoscheletro vengono indirizzate da una famiglia di
proteine G verso le zone attive dei terminali assonici. Il contatto con il plasmalemma determina il rilascio,
per esocitosi del neurotrasmettitore delle vescicole sinaptiche, nell’interstizio intersinaptico. I trasmettitori
diffondono attraverso lo spazio intersinaptico e interagiscono con recettori specializzati sulla membrana
postsinaptica, innescando una serie di eventi a cascata che inducono come tappa iniziale degli aumenti
nella conduttanza di membrana per la genesi di un potenziale d’azione.

Muscolo scheletrico

Il muscolo scheletrico è composto da un insieme di cellule multinucleate allungate, le fibre muscolari,


formate dalla fusione di cellule mononucleate chiamate mioblasti. Le fibre muscolari scheletriche di
mammifero hanno una struttura grossolanamente cilindrica con un diametro compreso tra 10 e 100
micrometri. Le fibre muscolari sono delimitate dalla membrana cellulare, il sarcolemma e sono di solito
rivestite da uno strato sottile di collagene chiamato endomisio. Gruppi di fibre sono raccolti in fascicoli
circondati da un ulteriore strato di tessuto connettivo, il perimisio e infine il muscolo intero è circondato da
una membrana connettivale robusta, l’epimisio. Le fibre muscolari terminano alle estremità con una
porzione di tessuto connettivo elastico che costituisce la componente tendinea della fibra. L’insieme delle
terminazioni tendinee di tutte le fibre va a formare il tendine. All’interno delle fibre muscolari si possono
distinguere le miofibrille, strutture grossolanamente cilindriche con diametro intorno a 1 micrometro che si
estendono per l’intera lunghezza della fibra e che contengono gli elementi contrattili responsabili della

contrazione. Le miofibrille sono disposte in parallelo fra loro e mostrano la caratteristica striatura. Lo spazio
compreso tra le miofibrille è occupato dal reticolo sarcoplasmatico per il deposito di calcio, da glicogeno e
da numerosi mitocondri. Le miofibrille sono formate da un insieme di sarcomeri disposti in serie tra loro.

Il sarcomero costituisce l’unità anatomico-funzionale del muscolo, cioè la più piccola struttura muscolare in
grado di sviluppare forza e di accorciarsi. Il muscolo striato deve il suo nome alle caratteristiche striature
trasversali dovute all’alternarsi di bande chiare e scure lungo la fibra. Le bande chiare o bande I (isotrope)
sono divise a metà dalle linee o dischi Z che delimitano il sarcomero; le bande scure o bande A
(anisotrope), che si trovano al centro del sarcomero, sono divise a metà da una zona più chiara chiamata
zona H, talvolta la banda H ha una linea scura al centro, la linea M. L’analisi della struttura muscolare
effettuata con il microscopio elettronico ha mostrato che il sarcomero ha una struttura molto ordinata e
regolare costituita fondamentalmente da due gruppi di filamenti contrattili, i filamenti spessi o filamenti di
miosina e i filamenti sottili o filamenti di actina. I filamenti sottili di actina sono connessi alle linee Z e si
estendono da questo fino all’interno delle bande A, dove si sovrappongono con i filamenti spessi di miosina
che si trovano al centro del sarcomero. Il confronto con la microscopia ottica mostra che le bande scure
corrispondono alla zona dove sono presenti i filamenti spessi, da soli o sovrapposti ai filamenti sottili,
mentre le bande chiare corrispondono alle zone in cui sono presenti solamente i filamenti di actina.
I filamenti sottili sono costituiti principalmente da F-actina, una proteina filamentosa derivata dalla
polimerizzazione della G-actina in presenza di ATP. Il filamento di actina contiene anche altre proteine che
non contribuiscono direttamente alla generazione di forza, ma che hanno un ruolo fondamentale
nell’attivazione della contrazione. La tropomiosina è una proteina filamentosa formata da due α eliche che
si avvolgono a dare una struttura super avvolta disposta nel solco formato dalle due eliche di actina. La
troponina è formata da tre componenti chiamati troponina C, troponina T e troponina I. La troponina C ha
quattro siti di legame per il calcio ed è legata saldamente alla troponina I; questa ha un effetto inibitorio
sull’ATPasi actomiosinica che aumenta in presenza di tropomiosina. L’inibizione dell’ATPasi viene rimosso
dal legame della troponina C con il calcio. La troponina T è una molecola allungata che unisce il complesso
delle troponine con la tropomiosina. La miosina del muscolo scheletrico, la miosina II appartiene a una
superfamiglia di molecole motrici che convertono l’energia derivata dall’idrolisi di ATP in lavoro meccanico
esercitando una forza contro i filamenti di actina. Essa è costituita da due dimeri, ciascuno dei quali è
formato da una catena di meromiosina pesante (HMM) e da una di meromiosina leggera (LMM). La
meromiosina pesante ha una testa globulare e una coda costituita da una lunga α elica. Le code delle due
catene pesanti si uniscono a formare un’elica superavvolta. Ad ogni catena pesante sono associate due
catene leggere chiamate catena regolatrice (RLC) e catena essenziale (ELC). L’insieme della catena pesante
e delle due catene leggere con una porzione della coda determinano la porzione S1. La porzione globulare
costituisce il dominio del motore ed è quella che interagisce sia con l’actina sia con l’ATP. Le molecole di
miosina si uniscono per la porzione LMM a formare il corpo del filamento spesso, dal quale emergono a
intervalli regolari le porzioni S1 che costituiscono i cosiddetti crossbridge o ponti trasversali. Le molecole di
miosina hanno polarità opposta nei due emisarcomeri. Questa disposizione è fondamentale perché è
necessario che la forza sviluppata nei due emisarcomeri sia diretta in senso opposto, provocando
l’accorciamento del sarcomero. Una caratteristica di specializzazione delle fibre muscolari striate è il
reticolo sarcoplasmatico, organulo di deposito degli ioni calcio. Esso è formato da due componenti
separate: il reticolo longitudinale che corre parallelamente alle miofibrille avvolgendole e il reticolo
trasversale o sistema dei tubuli T. Il reticolo longitudinale forma un sistema chiuso di tubuli anastomizzati
tra loro, che assumono un aspetto fenestrato a livello della zona H (cisterna fenestrata centrale) e termina
nelle regioni di confine tra la banda A e la banda I formando espansioni chiamate cisterne terminali. Le
cisterne terminali adiacenti sono separate tra loro dal tubulo T, formando le cosiddette triadi. Le cisterne
trasversali essendo formati da invaginazioni della membrana cellulare, costituiscono una via di conduzione
privilegiata attraverso la quale il potenziale d’azione di superficie può essere condotto in profondità fino
alle triadi, dove il tubulo terminale per i recettori rianodinici determina il rilascio di calcio.

Contrazione muscolare
La contrazione avviene per scorrimento dei miofilamenti. Quando il sarcomero si contrae, i filamenti sottili
delle semi-bande I del sarcomero scorrono lungo i filamenti spessi verso il centro della banda A, facendo
così diminuire l’ampiezza delle due semi-bande I e della banda H senza modificare quella della banda A;
come conseguenza il sarcomero si riduce di lunghezza e le due linee Z si avvicinano tra loro. A livello
molecolare la contrazione muscolare si sviluppa in seguito a crescenti concentrazioni di calcio. Nel
sarcomero a riposo, con bassa concentrazione di calcio nel sarcoplasma, la troponina I maschera il sito
attivo dell’actina e i miofilamenti spessi e sottili non interagiscono. Mentre in seguito ad un impulso
neuromotorio, percepito dai recettori rianodinici o della diidropiridina tubuli terminali, si ha l’apertura dei
canali del calcio dei tubuli longitudinali. Il gradiente di concentrazione tra il lume del REL e il sarcoplasma
determina un flusso di ioni calcio diretto verso il citoplasma della fibra muscolare. Il calcio liberato può
legarsi alla troponina C, che inibisce l’attività della troponina I e induce lo scorrimento della tropomiosina,
mascherando i siti attivi dell’actina. In concomitanza una molecola di ATP si lega alla testa della miosina,
terminando la formazione dei crossbridge tra la porzione S1 della miosina e i siti attivi dell’actina. In questa
fase la testa della miosina idrolizza l’ATP in ADP e Pi, mantenendo legati i prodotti della reazione e si associa
saldamente all’actina formando un legame perfettamente perpendicolare alle miofibrille. Nella fase
successiva l’energia immagazzinata dell’idrolisi di ATP in ADP permette alla miosina di spostare il filamento
di actina verso la linea M del sarcomero e formando un legame con il filamento sottile di tipo flesso,
inclinato. L’idrolisi di ATP determina inoltre il powerstroke o colpo di frusta, in cui la porzione S1 della
miosina ripristina la sua posizione iniziale. Se la stimolazione nervosa persiste, il sarcomero può compiere
altri cicli di contrazione. Al contrario, in assenza di ulteriore stimolazione la concentrazione di calcio libero
diminuisce rapidamente per azione della pompa del Ca2+ ATP-dipendente che ripristina i depositi di questo
ione nelle cisterne terminali e determina il rilasciamento del muscolo. Questo accumulo è favorito dalla
calsequestrina, che lega 40 ioni di calcio per molecola.

Condizione isotonica e isometrica

La contrazione muscolare permette di generare tensione, termine usato in fisiologia come sinonimo di
forza. Le prestazioni del muscolo, cioè lo sviluppo di forza, l’accorciamento e la produzione di lavoro
meccanico, dipendono dalle condizioni nelle quali il muscolo opera. Sperimentalmente, si possono
distinguere due condizioni principali: la condizione isometrica e la condizione isotonica. In condizioni
isometriche il muscolo attivato sviluppa forza a lunghezza costante, senza accorciarsi. Le condizioni
isometriche di contrazione sono quelle che si verificano nella vita di tutti i giorni, per esempio quando si
cerca di sollevare un oggetto senza riuscirci. È chiaro quindi che nelle contrazioni isometriche il muscolo
non sviluppa alcun lavoro, in quanto l’oggetto non viene spostato e in quanto il lavoro dipende sia dalla
forza che dallo spostamento. La condizione isotonica si realizza quando un muscolo si accorcia generando
una forza costante. Un esempio tipico è quello di un muscolo che solleva un carico. Al contrario della
contrazione isometrica, nella contrazione isotonica il muscolo sviluppa lavoro.

Fibre lente e veloci

I muscoli scheletrici sono formati da fibre muscolari di diverso tipo aventi proprietà differenti. La
differenziazione riguarda sia la struttura sia la biochimica ed è una forma di specializzazione che rende le
varie fibre adatte ai compiti specifici a cui esse sono dedicate. In generale le fibre muscolari possono essere
suddivise in fibre bianche e fibre rosse. La differenza di colore che esiste tra le due tipologie è dovuta alla
loro struttura e soprattutto al diverso contenuto di mioglobina. Le fibre rosse si possono suddividere
ulteriormente in fibre rosse lente e fibre rosse rapide. Le fibre rosse lente sono molto resistenti alla fatica.
Tuttavia le fibre rosse in genere determinano delle contrazioni più lente e in tempi più dilatati rispetto alle
fibre bianche, pertanto hanno un sistema vascolare più esteso che assicurano un abbondante apporto di
ossigeno, un maggior numero di mitocondri per il metabolismo ossidativo ed un elevato contenuto di
mioglobina. Le fibre bianche sono specializzate per contrazioni veloci e potenti, ma non sono molto
resistenti alla fatica. Queste fibre non sono molto vascolarizzate, poiché la loro attività fondamentalmente
non dipende dall’apporto di ossigeno. Il loro metabolismo è infatti, essenzialmente anaerobico.

Fattori che influenzano la forza muscolare

La tensione sviluppata da una fibra muscolare durante una contrazione dipende dalla lunghezza di
partenza dei sarcomeri all'inizio della contrazione. La teoria dello scorrimento dei filamenti predice che la
tensione generata da una fibra muscolare è direttamente proporzionale al numero dei legami che si
formano tra i filamenti spessi e i filamenti sottili. Perciò la contrazione di sarcomeri ad elevata lunghezza
genera poca forza, in quanto i filamenti spessi e sottili sono sovrapposti soltanto in piccola parte e
interagiscono soltanto in misura minima. Analogamente sarcomeri troppo corti, presentano microfibrille
eccessivamente sovrapposte e i filamenti spessi possono far scorrere i filamenti sottili solo per un breve
tratto. Normalmente la lunghezza ottimale del sarcomero corrisponde a quella della fibra a riposo. La
tensione generata da una scossa semplice dipende dalla lunghezza del sarcomero, ma non rappresenta la
massima tensione che una fibra può generare. La forza generata da una singola fibra può essere aumentata
incrementando la frequenza dei potenziali d'azione che la stimolano. Se i potenziali d'azione ripetuti sono
separati da intervalli di tempo lunghi, la fibra muscolare ha il tempo di rilasciarsi completamente tra uno
stimolo e l'altro. Se gli stimoli sono ravvicinati, la fibra muscolare non si rilascia del tutto e sviluppa una
tensione maggiore. Questo processo si chiama sommazione. Per sommazione si intende l’addizione delle
singole scosse che permette di ottenere una forza di contrazione globalmente più grande. Se i potenziali
d'azione che stimolano la fibra muscolare sono molto ravvicinati tra loro, alta frequenza di stimolazione,
l'entità del rilasciamento tra le contrazioni si riduce fino a scomparire e la fibra muscolare arriva a uno stato
di contrazione chiamato tetano. I tipi di tetano sono due: incompleto o non fuso, in cui la frequenza di
stimolazione non è massimale e la fibra si rilascia leggermente tra uno stimolo e l'altro e completo o fuso in
cui la frequenza è sufficientemente alta da non dare tempo alla fibra di rilasciarsi: in questa condizione si
sviluppa la massima tensione possibile per quella fibra. A questa frequenza, la forza di contrazione
raggiunge il suo massimo e pertanto un ulteriore aumento della frequenza non è più in grado di aumentare
la forza di contrazione. La tetanizzazione avviene perché la concentrazione degli ioni calcio nel sarcoplasma
rimane sufficientemente elevata, anche negli intervalli tra i potenziali d’azione, da mantenere lo stato di
completa contrazione senza consentire il rilasciamento tra un potenziale d’azione e l’altro. La sommazione
può avvenire anche aumentando il numero delle unità motorie che si contraggono simultaneamente, per
cui si parla di sommazione di più fibre.

Fonti energetiche

Il muscolo a riposo ha un consumo energetico relativamente basso che è legato al mantenimento


dell’attività cellulare di base. Durante l’attività, il consumo di ATP aumenta notevolmente a causa
soprattutto dell’energia richiesta per la contrazione. L’ATP è l’unica sorgente di energia che può essere
utilizzata nel ciclo dei crossbridge con produzione di forza e accorciamento del muscolo. La quantità di ATP
che si trova nel citoplasma muscolare alla concentrazione di 3-5 mM è molto piccola e sostiene una
contrazione muscolare di 2s. Una contrazione prolungata oltre questo limite di tempo dovrebbe quindi
condurre il muscolo nello stato di rigor. Questo però non succede: anche nel lavoro più intenso il muscolo
può contrarsi per tempi molto più lunghi. Ciò indica che esistono altri meccanismi in grado di produrre l’ATP
via via che questo viene idrolizzato. Tali meccanismi sono basati sulla fosfocreatina, sulla glicolisi e sulla
fosforilazione ossidativa. Il meccanismo più immediato per la produzione di ATP è quello basato sulla
fosfocreatina, un composto ad alto contenuto energetico. La fosfocreatina è in grado di rifosforilare
rapidamente l’ADP in ATP riducendosi ad ADP e creatina. Mentre attraverso la glicolisi si ha la disponibilità
di due moli di ATP per ogni mole di glucosio. Dunque, si può considerare la glicolisi una via relativamente
inefficiente per quanto riguarda la quantità di ATP prodotta, tuttavia essa ha il pregio di fornire l’ATP molto
rapidamente e quindi di poter soddisfare anche le richieste energetiche di fibre muscolari molto veloci. In
presenza di ossigeno, il prodotto finale della glicolisi, il piruvato e i prodotti del metabolismo degli acidi
grassi entrano nella via ossidativa aerobica. La fosforilazione ossidativa produce una notevole quantità di
ATP: 36 moli per ogni mole di glucosio metabolizzata, soddisfando di gran lunga il fabbisogno energetico
delle fibre muscolari.

Giunzione neuromuscolare

L’impulso nervo di un motoneurone si dirige verso l’organo bersaglio, attraverso interamente l’assone e i
terminali nervosi, giungendo in corrispondenza di strutture sinaptiche, dette giunzioni neuromuscolari o
placche motrici. La terminazione assonica si ramifica a ridosso di una zona circoscritta della fibra muscolare
formando un’arborizzazione terminale. Le ramificazioni dell’assone sono accolte in piccole invaginazioni
della fibra muscolare denominate docce (o fessure) sinaptiche primarie. Nelle docce sinaptiche il plasma
lemma che avvolge l’assone ed il sarcolemma della fibra muscolare sono tra loro separati da un fine
interstizio di 20-50 nm, la fessura intersinaptica e non vi è quindi continuità citoplasmatica tra i due
elementi cellulari. La porzione di sarcolemma che riveste la doccia sinaptica forma ripiegature multiple
dette fessure sinaptiche secondarie che aumentano considerevolmente la superficie del sarcolemma.
Queste ripiegature del sarcolemma sono denominate globalmente apparato sottoneurale. L’assoplasma
delle terminazioni nervose presenta una struttura diversa da quella della restante parte dell’assone; il
fenomeno più singolare è l’assenza di neuro filamenti e di microtubuli che caratterizzano la parte più
prossimale dell’assone. Sono invece presenti numerosi mitocondri ed un grandissimo numero di piccole
vescicole, le vescicole sinaptiche, del diametro di 40-60 nm, rivestite di una membrana unitaria. Queste
vescicole contengono il neurotrasmettitore acetilcolina che è il mediatore chimico della trasmissione
dell’eccitamento nelle sinapsi neuromuscolari. Sulle due membrane delle sinapsi, assolemma e
sarcolemma, è presente l’enzima acetilcolinesterasi che idrolizza l’acetilcolina interrompendo la
trasmissione dell’impulso. Giunto al terminale, il potenziale d’azione depolarizza la membrana assonica,
determinando l'apertura di canali del Ca2+ calmodulina-dipendente, cosicché gli ioni Ca2+ diffondono dal
liquido extracellulare nel terminale assonica. L’aumento della concentrazione di ioni Ca 2+ nel terminale
determina la fosforilazione delle sinapsine, che ancorano le vescicole terminali al citoscheletro. Le vescicole
dissociate dal citoscheletro vengono indirizzate da una famiglia di proteine G verso le zone attive dei
terminali assonici. Il contatto con il plasmalemma determina il rilascio, per esocitosi dell’acetilcolina delle
vescicole sinaptiche, nell’interstizio intersinaptico. L’ACh si lega a recettori ionotropi nicotinici della
membrana della fibra muscolare, determinando l’apertura di canali per Na+ e K+, attraverso i quali prevale
l'ingresso di Na+, che determina la depolarizzazione della fibra. Si genera in tal modo un segnale elettrico, il
potenziale di placca. Una volta liberata nello spazio sinaptico, l’acetilcolina continua ad attivare i recettori
finché permane in questo spazio. Tuttavia, è velocemente rimossa in due modi: la maggior parte viene
distrutta dall’acetilcolinesterasi; e una piccola parte diffonde fuori dallo spazio sinaptico e pertanto non può
più agire sulla membrana della fibra muscolare.

Unità motoria

L’unità motoria è l’insieme delle fibre muscolari, innervate dal medesimo motoneurone. La quantità di fibre
muscolari innervate da un motoneurone è maggiore se il compito per cui sono preposte riguarda un lavoro
muscolarmente pesante; è minore se esse esercitano una esecuzione motoria fine e precisa. Quando il
sistema nervoso centrale invia un segnale debole per far contrarre un muscolo, vengono stimolate
preferenzialmente le unità motorie più piccole rispetto alle unità motorie più grosse. All’aumentare
dell’intensità del segnale, un numero via via maggiore di unità motorie è attivato, fino all’eccitamento
delle unità più grandi che sono in grado produrre una forza contrattile 50 volte più elevata di quella
prodotta dalle unità motorie piccole. Il reclutamento progressivo delle unità motorie si realizza in base al
principio della dimensione. È un principio importante perché consente di graduare la forza del muscolo in
modo che si sviluppi per piccoli incrementi durante una debole contrazione e con incrementi sempre più
grandi quando è necessario un maggiore sviluppo di forza.
Tono muscolare

È uno stato di lieve e persistente contrazione dei muscoli scheletrici, mantenuto costante da impulsi nervosi
a bassa intensità provenienti dal midollo spinale.

Muscolatura liscia

Il tessuto muscolare liscio è costituito da piccoli elementi mononucleati privi di striatura trasversale; è
innervato dal sistema nervoso autonomo, quindi la sua contrazione non dipende dalla volontà. Le fibre
muscolari lisce sono elementi lunghi e fusiformi con la parte centrale, contenente un nucleo allungato, più
spessa e le estremità assottigliate. La loro lunghezza varia da 5 µm, nella parete dei piccoli vasi sanguigni, a
500 µm e oltre nell’utero in gravidanza. Le fibrocellule lisce si dispongono in fascio in maniera sfasata di
modo che la regione di mezzo, più spessa, di ciascuna di esse si giustappone alle estremità assottigliate di
quelle adiacenti. Sono tra loro separate da un interstizio di 60-90 nm che è occupato dalle lamine basali
delle cellule adiacenti. La membrana plasmatica delle fibre muscolari lisce presenta un notevole numero di
invaginazioni di micropinocitosi denominata caveole (o vescicole a superficie liscia) che sono l’equivalente
dei tubuli del sistema T della muscolatura striata; esse hanno il ruolo di aumentare la superficie cellulare
durante la distensione e di immagazzinare ioni calcio. Lo spazio intercellulare è attraversato in più punti da
sottili propaggini cellulari mediante le quali cellule adiacenti entrano in connessione tra loro. Queste aree di
contatto di membrana sono spesso differenziate in strutture di adesione del tipo delle giunzioni
comunicanti; si ritiene che queste strutture permettano il libero passaggio di ioni tra cellule contigue
consentendo la diffusione dell’eccitamento da un elemento all’altro. Sulla superficie interna del
sarcolemma sono presenti le placche dense, delle zone elettron dense contenenti alfa-actinina e talina.
Formazioni analoghe alle placche sono i corpi densi, con la differenza che questi ultimi si trovano
disseminate nel sarcoplasma. Placche e corpi densi svolgono una funzione simile a quella delle linee Z del
muscolo striato, oltre ad essere punto di attacco per i miofilamenti, infatti, prendono contatto anche con i
filamenti intermedi di desmina, attraverso i quali viene mediata la trasmissione della forza contrattile e la
deformazione del sarcolemma. Il citoplasma (o sarcoplasma) delle cellule muscolari lisce contiene un
piccolo apparato di Golgi, una coppia di centrioli, scarsi elementi di reticolo endoplasmatico granulare,
ribosomi liberi e mitocondri. La matrice citoplasmatica accoglie i miofilamenti sottili, costituiti da actina,
tropomiosina e caldesmone o calmodulina e i miofilamenti spessi, costituiti da miosina II. La calmodulina è
una proteina analoga alla troponina, in quanto lega il calcio e inibisce l’attività della tropomiosina. Le
molecole di miosina nel filamento spesso sono disposte secondo un arrangiamento latero-polare, con le
teste orientate in direzione opposta sui due lati. Nel muscolo liscio, la testa della miosina in condizioni di
riposo non è fosforilata. Ciò determina l’incapacità della testa di legarsi all’actina, ed induce inoltre un
particolare ripiegamento delle molecole di miosina, che ne impedisce l’aggregazione e quindi la formazione
di filamenti.
Contrazione muscolare

Le fibrocellule lisce rispondono a stimoli di natura diversa: elettrica, chimica e meccanica. Nel muscolo
liscio non si trovano giunzioni neuromuscolari organizzate, come nel muscolo scheletrico. Infatti, le fibre del
sistema nervoso autonomo, che innervano il muscolo liscio, in genere si ramificano diffusamente sulla
superficie di uno strato di fibre muscolari. Gli assoni che innervano la fibra muscolare liscia non hanno le
caratteristiche ramificazioni con bottone terminale presenti nella placca motrice del muscolo scheletrico.
Infatti, nella maggior parte delle sottili terminazioni dell’assone sono presenti molte varicosità, distribuite
lungo il loro asse. Nelle varicosità si osservano vescicole contenenti il neurotrasmettitore, simili a quelle che
si trovano a livello della giunzione neuromuscolare scheletrica. Diversamente da queste, che contengono
solo acetilcolina, le vescicole delle varicosità delle terminazioni nervose autonome contengono in alcuni
casi acetilcolina, in altri casi noradrenalina e talvolta altre sostanze. L’attivazione della contrazione
muscolare ha luogo quindi in seguito ad uno stimolo specifico che giunge a livello delle caveole del
sarcolemma. Si tratta di cavità, analoghe al sistema dei tubuli trasversi, sebbene più rudimentali. Le caveole
inducono il rilascio di ioni Ca2+ dai reticoli sarcoplasmatici. Tuttavia, essendo poco sviluppati nel muscolo
liscio, l’apporto di ioni Ca2+ necessari per la contrazione muscolare giungono dall’ambiente extracellulare
attraverso numerose vie: apertura di canali L del Ca2+, in seguito a depolarizzazione della membrana,
apertura di canali ligando-dipendenti, per azione di mediatori chimici, apertura di canali meccano-
sensibili, attivati dallo stiramento. Concentrazioni crescenti di calcio promuovono la formazione di
complessi calcio-calmodulina che attivano la proteina chinasi per le catene leggere della miosina o MLCK.
Quest’ultima è responsabile della fosforilazione della serina delle catene leggere della miosina con utilizzo
di ATP. Questa fosforilazione è essenziale per lo sviluppo della contrazione, infatti permette alla miosina di
legarsi al sito di legame dell’actina e di promuovere i processi di scorrimento analoghi a quelli della
muscolatura scheletrica. Una fosfatasi, detta MLC, ha una funzione inversa a quella della chinasi, rimuove
infatti il fosfato dalla miosina, inibendo la contrazione.

Apparato circolatorio

L’apparato circolatorio è costituito da un insieme di condotti variamente ramificati, vasi, che si


distribuiscono a tutto l’organismo e nei quali scorrono gli umori circolanti cioè il sangue e la linfa. Si
distinguono pertanto un apparato circolatorio sanguigno, che contiene il sangue e un apparato circolatorio
linfatico, deputato al trasporto della linfa. Nell’apparato circolatorio sanguigno è inserito un organo motore
che svolge la funzione di pompa e assicura la circolazione del sangue nei vasi, il cuore. Nell’ambito
dell’organismo l’apparato cardiocircolatorio sanguigno svolge numerose funzioni: trasporta sostanza
nutritizie e ossigeno a tutte le parti dell’organismo, allontana i prodotti del catabolismo cellulare, in
particolare anidride carbonica, dalla loro sede di produzione; contribuisce al mantenimento di una
temperatura corporea costante; regola l’omeostasi dei fluidi corporei; si impegna nei processi immunitari
mediante il trasporto di cellule dotate di attività fagocitaria, di cellule immunocompetenti e di anticorpi. Il
cuore è un organo muscolare, di forma a cono appiattito in senso antero-posteriore, accolto nel
mediastino. Il cuore è formato da quattro cavità: due atri (destro e sinistro), posti superiormente e due
ventricoli (destro e sinistro), posti inferiormente. Ciascun atrio comunica con il ventricolo sottostante. La
porzione di destra è detta comunemente cuore destro e pompa sangue deossigenato, mentre le due cavità
di sinistra formano il cosiddetto cuore sinistro che pompa sangue ossigenato. Esistono due valvole
atrio-ventricolari, che permettono il passaggio del sangue dagli atri ai ventricoli, e due valvole semilunari,
che permettono il passaggio dai ventricoli alle arterie corrispondenti. La valvola atrio-ventricolare di sinistra
è detta mitrale o bicuspide, mentre la valvola atrio-ventricolare destra è detta tricuspide. Nell'uomo, come
pure nei vertebrati superiori, esiste una circolazione doppia e completa: si distinguono, infatti, una
circolazione generale destinata all'irrorazione di tutti i segmenti corporei (circolo nutritizio) e una
circolazione polmonare il cui compito è quello di ristabilire nel sangue un adeguato contenuto in ossigeno e
anidride carbonica (circolo funzionale). Il grande e il piccolo circolo iniziano e terminano a livello del cuore
nella cui particolare conformazione trovano la loro base organizzativa. Il grande circolo origina dal
ventricolo sinistro mediante un unico tronco arterioso, aorta, che ramificandosi progressivamente si
distribuisce a tutto l'organismo fino a costituire in ogni sede reti di capillari. A livello di quest’ultimi il sangue
cede ossigeno e sostanze nutritizie ai tessuti circostanti e si carica di anidride carbonica e cataboliti, cioè da
sangue arterioso, di colorito rosso scarlatto, diviene venoso, di colore bluastro. Dalle reti capillari tramite il
sistema venoso il sangue ritorna al cuore e, più precisa mente, all'atrio destro ove sboccano la vena cava
superiore, la vena cava inferiore e il seno coronario; dall'atrio destro il sangue passa quindi nel sottostante
ventricolo. Il piccolo circolo inizia dal ventricolo destro con il tronco polmonare che, biforcandosi nelle due
arterie polmonari, trasporta il sangue venoso ai polmoni. Le ultime diramazioni delle arterie polmonari si
risolvono in una rete di capillari addossata alla parete degli alveoli polmonari. Il sangue venoso,
attraversando questa rete, cede all'aria contenuta negli alveoli anidride carbonica e assume ossigeno;
divenuto così arterioso, il sangue ritorna al cuore attraverso le quattro vene polmonari che sboccano
nell'atrio sinistro. Da qui esso passa nel ventricolo sinistro dal quale inizia il grande circolo mediante l'aorta.

Sangue

Il sangue è un tessuto connettivo specializzato costituito da una soluzione acquosa il plasma (55%) nella
quale sono contenuti gas, elettroliti, metaboliti, cataboliti, vitamine, proteine e diverse popolazioni cellulari
che formano la componente corpuscolata del sangue (46%). Il plasma è costituito per il 90% da acqua, dal
7-8% di proteine (58% di albumina, 38% di globulina, 4% di fibrinogeno) e all’1-2% di altri soluti, come
ormoni, vitamine, elettroliti e sostanze azotate. La porzione corpuscolata è costituita per il 99% da eritrociti
detti anche globuli rossi o emazie e per l'1% da leucociti o globuli bianchi e trombociti o piastrine. Gli
eritrociti sono cellule prive di nucleo e altri elementi citoplasmatici con una caratteristica struttura a lente
biconcava. Nella donna sono circa 4.800.000/mm3, nell'uomo 5.500.000/ mm3 e misurano 7 micrometri di
diametro, dimensione analoga a quella dei più piccoli capillari del microcircolo, nel passare attraverso i
quali gli eritrociti si impilano e si deformano. Il 90% del peso secco di ogni globulo rosso è rappresentato da
una molecola chiamata emoglobina, che media il trasporto dei gasi respiratori nel sangue. Si definisce
ematocrito il volume percentuale della porzione corpuscolata del sangue rispetto al volume totale; nelle
donne questo valore si attesta intorno al 42% (37-47%), negli uomini intorno al 45% (42-52%). Per siero
s'intende invece il liquido che residua dopo la coagulazione. Il siero si può grossolanamente definire come
plasma privo dei fattori della coagulazione. Il plasma è la porzione liquida del sangue. Si ottiene dopo aver
aggiunto un anticoagulante alla provetta contenente il sangue e averlo fatto sedimentare o
centrifugare. Esso è composto da acqua (circa il 92%), proteine (6-8%), elettroliti (0,8%), lipidi (0,6%), glicidi
(0,1%), azoto non proteico, vitamine, aminoacidi eccetera (0,1%). Nel plasma si trovano circa 6-8 g di
proteine per decilitro. Queste sono rappresentate principalmente dall'albumina, dalle globuline e dal
fibrinogeno. Le funzioni delle proteine nel plasma si possono classificare in aspecifiche e specifiche. Le
funzioni aspecifiche consistono in:

 mantenimento della pressione colloidosmotica. Non potendo attraversare la membrana dei


capillari, hanno un effetto osmotico che tende a richiamare acqua dall'interstizio;

 azione tampone nella regolazione del pH;

 contributo alla viscosità del sangue: le proteine fanno parte, quindi, del sistema resistenze
periferiche della pressione arteriosa;

 funzione di substrato metabolico: le proteine circolanti fanno parte del pool di aminoacidi utili alla
sintesi proteica e alla produzione d'energia.

Le funzioni specifiche sono:

 ruolo fondamentale nella coagulazione;

 trasporto di ossigeno, CO2, lipidi, metalli e farmaci;

 partecipazione ai meccanismi di difesa;

 funzione ormonale

Le proteine circolanti hanno un carattere anfotero, assumendo carattere di acidi in ambiente basico e di
basi in ambiente acido. Il punto isoelettrico di tutte le proteine del plasma è compreso tra 4 e 6. Pertanto, al
pH fisiologico (7,35-7,4) funzionano da acidi deboli assumendo proprietà elettriche di anioni.
L'elettroforesi, che è un metodo per separare le proteine plasmatiche, sfrutta proprio questa qualità
elettrica. In effetti, l'elettroforesi proteica si basa sul principio che le proteine in ambiente alcalino sono
cariche negativamente e, se immesse in un campo elettrico, tendono a migrare verso il polo positivo
(anodo).

Istologia muscolo striato cardiaco

Il muscolo cardiaco è formato da fibre muscolari striate cardiache, elementi cellulari distinti, con un nucleo
rotondeggiante ed eccentrico. Le fibre muscolari cardiache hanno l’aspetto di corti cilindri che si biforcano
alle estremità e si connettono fra loro formando una rete tridimensionale. Le estremità contigue sono
connesse per mezzo di particolari dispositivi di connessione detti dischi intercalari che al microscopio
appaiono come strie trasversali fortemente rinfrangenti e intensamente colorabili. A livello di ciascun disco
intercalare, le membrane cellulari si fondono tra loro a formare delle giunzioni comunicanti (gap junction)
che hanno la caratteristica di essere permeabili e di consentire una diffusione rapida degli ioni. Tali
giunzioni mettono in connessione cellule adiacenti, trasmettendo l’impulso elettrico da una cellula all’altra.
In conclusione, il muscolo cardiaco è un sincizio formato da numerose cellule cardiache in cui le singole
cellule sono così interconnesse che, quando una viene eccitata, il potenziale d’azione si diffonde
rapidamente alle altre. Nelle fibre muscolari cardiache il sarcoplasma (o citoplasma) è più abbondante ed i
mitocondri sono molto più numerosi che nelle fibre scheletriche. I voluminosi mitocondri si allineano per
formare file longitudinali che interrompono la continuità dei filamenti. Il sarcoplasma è particolarmente
ricco di glicogeno, gocce lipidiche e accumuli di lipofuscina. I miofilamenti delle fibre miocardiche sono
uguali a quelli delle fibre muscolari scheletriche; non sono però organizzati in miofibrille distinte, ma
formano aggregati più o meno estesi che sono delimitati da tubuli del reticolo sarcoplasmatico, o da zone di
sarcoplasma, o da file di mitocondri. È da rilevare che i miofilamenti sottili e quelli spessi hanno una
disposizione spaziale uguale a quella che assumono i miofilamenti delle fibre muscolari scheletriche; sono
organizzati, infatti, in segmenti che risultano in fase e perciò la fibra muscolare miocardica presenta una
regolare successione di sarcomeri. Il reticolo sarcoplasmatico differisce per alcuni particolari ultrastrutturali
da quello delle fibre muscolari scheletriche; i suoi tubuli, infatti, sono meno sviluppati e hanno disposizione
plessiforme; mancano tubuli a decorso trasversale del tipo delle cisterne terminali. Alla estremità di ogni
sarcomero il reticolo sarcoplasmatico presenta espansioni terminali che aderiscono ai tubuli T i quali sono
formati da un’invaginazione del plasmalemma e hanno un calibro maggiore di quelli delle fibre muscolari
scheletriche.

Sistema di conduzione del cuore

Le pareti del cuore sono per la maggior parte formate da un particolare tessuto muscolare striato
denominato miocardio comune. Nella compagine del miocardio comune si trovano formazioni muscolari
specializzate, costituite da miocardio specifico, che si organizzano nel sistema di conduzione del cuore.
Il sistema di conduzione del cuore è una formazione specializzata accolta nella compagine delle pareti
cardiache ed è la sede dove insorgono gli stimoli che determinano la contrazione del cuore ed è inoltre una
via preferenziale di conduzione degli stimoli stessi; stabilisce in tal modo una connessione tra la
muscolatura degli atri e quella dei ventricoli. Il sistema di conduzione del cuore è formato dal sistema
senoatriale e dal sistema atrioventricolare:

1. Il sistema senoatriale è costituito dal nodo senoatriale (o nodo del seno o nodo di Keith-Flack) che
è una piccola formazione di fibre miocardiche specifiche intrecciate, del diametro di circa 10 mm,
situata al limite tra lo sbocco della vena cava superiore e l’inizio della cresta terminale. Occupa
l’intero spessore della parete, dall’epicardio fino all’endocardio. Le fibre che costituiscono il nodo
del seno hanno la capacità di contrarsi automaticamente in modo ritmico, con una frequenza più
elevata di ogni altra fibra muscolare del cuore. Il nodo, indicato come il pacemaker (o generatore
del ritmo) del cuore, all’inizio di ogni ciclo cardiaco dà origine all’impulso che determina la
contrazione degli atrii e dei ventricoli alla frequenza che esso impone. Le fibre del nodo senoatriale
sono in contatto con quelle miocardiche atriali circostanti; si ritiene quindi che gli impulsi per la
contrazione cardiaca che originano nel nodo siano trasmessi ai due atrii attraverso le fibre
miocardiche atriali.

2. Il sistema atrioventricolare comprende alcune parti fra loro in continuazione e cioè il nodo
atrioventricolare, il tronco comune del fascio atrioventricolare e le sue branche, destra e sinistra,
che continuano in un dispositivo terminale a rete.

 Il nodo atrioventricolare (o nodo di Tawara-Aschoff) è un rigonfiamento ovoidale di


colorito giallognolo, situato sul lato destro del setto interatriale, in una zona compresa
fra l’inserzione della cuspide settale della valvola tricuspide e lo sbocco del seno
coronario.

 Il tronco comune del fascio atrioventricolare (o fascio di His) ha una lunghezza di circa
1 cm e una larghezza di un paio di millimetri. Si stacca dal nodo atrioventricolare e
decorre in avanti; attraversa quindi il trigono fibroso destro per raggiungere il margine
posteriore della porzione membranosa del setto interventricolare; percorre questo
margine sempre mantenendosi sul lato destro e raggiunge il margine superiore della
porzione muscolare del setto, dove si divide nelle due branche, destra e sinistra.

 La branca destra, più sottile di quella sinistra, decorre lungo la parete settale del
ventricolo destro. In prossimità dell’apice del ventricolo entra nella trabecola setto-
marginale (o fascio moderatore) e raggiunge la base del muscolo papillare anteriore.
Qui si risolve in un plesso di fibre sotto-endocardiache che raggiungono le diverse parti
del ventricolo e terminano in rapporto con le fibre miocardiche ventricolari.

 La branca sinistra discende per un breve tratto sotto l’endocardio della faccia sinistra
del setto interventricolare e subito si divide in due o più diramazioni che si dirigono
rispettivamente verso i muscoli papillari anteriore e posteriore. I rami mantengono la
propria individualità finché decorrono nella parete settale, poi si risolvono in un certo
numero di filamenti anastomizzati tra loro che, percorrendo le trabecole carnee,
raggiungono i muscoli papillari dove continuano in un plesso terminale che si
distribuisce, sotto l’endocardio, alle diverse parti del ventricolo, ponendosi in rapporto
con le fibre miocardiche ventricolari.

Potenziale d’azione

La generazione dell’impulso elettrico da parte dei cardiomiociti specifici avviene in modo autonomo e
ritmico. Il comportamento unico e singolare dei cardiomiociti specifici è dovuto ad un potenziale a riposo
che si aggira attorno a -55 mV che aumenta la permeabilità di membrana al sodio. Questo aumento è
dovuto all’apertura dei canali del sodio voltaggio-dipendenti che permettono allo ione di fluire attraverso il
bilayer e di dare luogo ad un potenziale d’azione. Quest’ultimo per la contrazione dei cardiomiociti da
lavoro, determina il rilascio di Ca2+ attraverso eventi analoghi a quelli per la contrazione della muscolatura
scheletrica, nonostante vi siano le dovute eccezioni. L’impulso nervoso si propaga nel reticolo
sarcoplasmatico dai tubuli a T ai tubuli longitudinali, portando all’apertura dei canali del calcio. Il gradiente
di concentrazione tra il lume del REL e il sarcoplasma determina un flusso di ioni calcio diretto verso il
citoplasma della fibra muscolare. Il calcio rilasciato non è sufficiente per la contrazione, pertanto si ha
l’apertura dei canali del calcio di tipo L dei tubuli terminali, in cui lo ione percorre le invaginazioni dei tubuli
a T, portandosi dal liquido extracellulare, con cui il reticolo sarcoplasmatico è a diretto contatto,
all’ambiente citoplasmatico. Questo evento, unico per il tessuto cardiaco, è dovuto al minor sviluppo del
reticolo sarcoplasmatico. Il processo di contrazione muscolare ripercorre le medesime fasi della contrazione
muscolare scheletrica, con l’aggiunta di una fase caratteristica:

1. Fase di depolarizzazione o fase 0: la prima fase contempla l’apertura dei canali voltaggio-
dipendenti per il Na2+. Tale catione attraversa il canale secondo gradiente elettrochimico. In questa
fase avviene un’inversione del potenziale che dal valore di riposo, raggiunge un picco di +30 mV. Il
periodo in cui la cellula è positiva al suo interno è detto overshoot. In simultanea, la
depolarizzazione di membrana innesca l’apertura dei canali del potassio voltaggio-dipendente.
Tuttavia, i cancelli di apertura dei canali per il potassio sono molto più lenti, e il picco della
permeabilità al potassio giunge più tardi di quello della permeabilità al sodio.

2. Fase 1 o di ripolarizzazione parziale precoce: il potenziale di membrana comincia a riportarsi verso


i valori di riposo a causa della chiusura dei canali del Na+ e per il flusso di ioni K+ secondo gradiente
elettrico, dall’ambiente citosolico a quello extracellulare.

3. Fase di plateau o fase 2: la fase I si arresta e si giunge ad una fase in cui il potenziale elettrico si
mantiene costante a valori poco superiori dallo 0. Questo evento è caratteristico del tessuto
miocardico e determinato dall’equilibrio elettrochimico tra il calcio e il potassio. Il calcio infatti
attraversa i canali ad alta soglia di tipo L (lenti) raggiungendo l’ambiente intracellulare in
concomitanza alla fuoriuscita degli ioni K+. Un ulteriore fattore che contribuisce al prolungamento
della fase di plateau è la diminuita permeabilità di membrana al potassio, evento che non si
sviluppa nelle fibre muscolari striate.

4. Fase di ripolarizzazione o fase 3: quando il potenziale di membrana è positivo, sia il gradiente


elettrico sia il gradiente di concentrazione favoriscono la fuoriuscita di potassio dalla cellula.
Mentre il K+ esce dalla cellula, il potenziale di membrana diventa rapidamente più negativo,
creando la fase discendente del potenziale d'azione e portando la cellula al suo potenziale di riposo.
In concomitanza vi è la chiusura dei canali del Ca2+.

5. Fase di iperpolarizzazione o fase 4: Quando il potenziale di membrana discendente raggiunge -70


mV, i canali per il potassio voltaggio-dipendenti non si sono ancora chiusi. Il potassio continua a
fuoriuscire dalla cellula sia attraverso i canali voltaggio-dipendenti sia attraverso i canali non
regolati, e la membrana si iperpolarizza, ovvero assume un valore ancora più negativo del
corrispondente potenziale a riposo.

6. Fase di riposo: in questa fase il potenziale di riposo è ripristinato dalla pompa Na+/K+ ATP
dipendente, la quale, attraverso l’idrolisi di ATP espelle 3 Na+ in cambio di 2 K+, della Ca2+-
ATPasi, che espelle ioni calcio, e dello scambiatore sodio/calcio che espelle un Ca 2+ in cambio di 3
Na+.

Regolazione estrinseca del cuore

Il sistema di conduzione del cuore determina la contrazione ritmica della muscolatura o battiti cardiaci. Il
numero di battiti al minuto, rappresenta la frequenza cardiaca, che assume un valore di 70 battiti al
minuto nell’uomo adulto, in uno stato di riposo e in condizioni fisiologiche e psichiche ottimali. Benché la
frequenza sia generata autonomamente dalle cellule autoritmiche nel nodo SA, essa è modulata da segnali
nervosi e ormonali. Le branche ortosimpatica e parasimpatica del sistema nervoso autonomo influenzano la
frequenza cardiaca attraverso un controllo antagonista. Il neurotrasmettitore parasimpatico acetilcolina
(ACh) rallenta la frequenza cardiaca. L'acetilcolina attiva i recettori colinergici che influenzano i canali di K + e
Ca2+ nella cellula pacemaker. La permeabilità al K+ aumenta, iperpolarizzando la cellula in modo che il
potenziale pacemaker inizi a un valore più negativo. Nello stesso tempo, la permeabilità al Ca2+ della cellula
pacemaker diminuisce. La riduzione della permeabilità agli ioni Ca2+ diminuisce la velocità di
depolarizzazione del potenziale pacemaker. La combinazione dei due effetti fa sì che Ia cellula impieghi più
tempo a raggiungere la soglia, ritardando l'inizio del potenziale d'azione nella cellula pacemaker e
rallentando la frequenza cardiaca. La stimolazione a opera del simpatico delle cellule pacemaker accelera la
frequenza cardiaca. Le catecolamine noradrenalina e adrenalina aumentano il flusso ionico attraverso i
canali del Ca2+. L'ingresso più rapido di cationi accelera la frequenza di depolarizzazione delle cellule
pacemaker, facendo sì che la cellula raggiunga la soglia più velocemente e aumentando la frequenza di
innesco del potenziale d'azione.

Ciclo cardiaco (aspetto meccanico)

Il ciclo cardiaco è definito come una serie di eventi di rilasciamento, detti diastole e di contrazione, dette
sistole. La frequenza media di contrazione di un individuo sano a riposo e non allenato equivale a circa 70
battiti/min e diminuisce progressivamente con l’età; a questa frequenza la sistola dura circa 270 ms e la
diastole 530 ms. L’insieme di sistole e diastole costituisce il ciclo cardiaco, la cui durata, nell’uomo a riposo,
è di circa 0,8-0,9s. Il ciclo cardiaco viene suddiviso in diverse fasi che sono strettamente correlate con la
propagazione del segnale eccitatorio. La sequenza degli eventi meccanici è identica sia per il cuore destro e
sia per il cuore sinistro, cambia solo il livello delle pressioni che si sviluppano nella sistole del ventricolo
destro (25-30 mmHg) rispetto alla sistole del ventricolo di sinistra (120 mmHg), pertanto si considera una
delle due porzioni del cuore nella descrizione meccanica del ciclo cardiaco. Il ciclo cardiaco è costituito dai
seguenti eventi:

1. Diastole ventricolare: La diastole ventricolare inizia con la chiusura della valvola semilunare aortica
(ventricolo sinistro-aorta), quando la pressione intraortica supera la pressione intraventricolare. Il
ventricolo sinistro, infatti, si è svuotato nell'aorta e la pressione ventricolare si è ridotta. Alla
chiusura della valvola semilunare fa seguito il rilasciamento isovolumetrico del ventricolo. Infatti,
le fibre miocardiche si rilasciano senza allungarsi, mentre la cavità ventricolare non cambia di
volume. In tal modo, la tensione di parete si riduce e diminuisce la pressione intraventricolare. La
caduta della pressione è rapida, di modo che quella intraventricolare diventa più bassa della
pressione interatriale. A questo punto, per il gradiente pressorio (differenza di pressione tra atrio e
ventricolo) si apre la valvola atrioventricolare o mitrale e il sangue passa dall’atrio al ventricolo
(riempimento rapido iniziale). La cavità ventricolare si amplia, dal momento che le fibre si
distendono: è questa la diastole isotonica, che facilita il passaggio di sangue dall'atrio al ventricolo.
La prima fase del riempimento ventricolare è rapida in rapporto al gradiente pressorio tra atrio e
ventricolo. Circa l'80% del sangue passa durante questa fase della diastole. A mano a mano che il
ventricolo si riempie, si riduce il passaggio di sangue perché si abbassa il gradiente pressorio tra
atrio e ventricolo. Circa il 5% del sangue passa nel ventricolo in questa fase della diastole, che
viene, pertanto, definita diastasi.

2. Presistole o sistole atriale: Quando il ventricolo si è riempito per circa l'85%, interviene la sistole
atriale o presistole, che completa il riempimento ventricolare. Infatti, l'aumento della pressione
intratriale assicura il passaggio dell'ultima parte di sangue verso il ventricolo.

3. Sistole ventricolare: I lembi della valvola mitrale (atrio sinistro-ventricolo sinistro) sono spinti l'uno
verso l'altro dal sangue che riempie il ventricolo e sono accollati tra loro, quando interviene la
sistole ventricolare. La prima parte viene definita sistole isovolumetrica, perché le fibre sviluppano
tensione senza accorciamento. Dal punto di vista pressorio, la tensione di parete determina una
rapida salita della pressione intraventricolare, che determina la chiusura serrata della valvola
mitrale. L'incremento di pressione intraventricolare fa sporgere dentro l'atrio la valvola mitrale,
che viene tenuta saldamente dalle corde tendinee, le quali ne impediscono il prolasso dentro
l'atrio. Aumenta, però, la pressione intratriale, per effetto della sporgenza della valvola mitrale
nell'atrio. Quando la pressione intraventricolare del sangue supera quella intraortica, si apre la
valvola semilunare, favorendo il passaggio del sangue dal ventricolo nell'aorta. All'apertura della
valvola semilunare segue la sistole isotonica. Nel cuore di un uomo adulto in buona salute la
pressione sale fino a raggiungere valori di 120 mmHg: si ha una rapida fuoriuscita del sangue, che
viene immesso nell'aorta, la cosiddetta eiezione massima o rapida, favorita anche dalla riduzione
del volume ventricolare, in quanto le fibre miocardiche si accorciano e determinano
l'avvicinamento della base del cuore, dove s'inseriscono le valvole atrioventricolari, all'apice. In tal
modo, diminuisce il volume ventricolare, mentre le pareti atriali vengono distese, favorendo il
ritorno venoso nell'atrio. Alla fuoriuscita del sangue dal ventricolo si accompagna la riduzione della
pressione intraventricolare ma continua l'eiezione ventricolare, detta eiezione ridotta, fin quando si
esaurisce la prevalenza dell'energia totale del sangue proveniente dal ventricolo. Allora, con la
pressione aortica superiore a quella intraventricolare, il sangue dall'aorta tende a refluire verso il
ventricolo, ma scorrendo lungo la parete arteriosa riempie e distende i lembi valvolari, facendoli
richiudere. A questo punto, inizia la diastole ventricolare. Sia la valvola semilunare sia quella
atrioventricolare sono chiuse, mentre inizia a cadere la tensione di parete e il ciclo cardiaco
ricomincia.

In condizioni fisiologiche il volume di sangue immesso in circolo dal ventricolo sinistro in un uomo adulto è
di circa 70 ml: questo volume di sangue viene definito gittata sistolica. Alla fine della sistole ventricolare
residua nel ventricolo un volume di circa 50-60 ml, che viene definito volume telesistolico o di fine sistole.
Pertanto, alla fine della sistole il cuore non si svuota del tutto ma contiene ancora sangue. Alla fine del
riempimento ventricolare durante la diastole ventricolare, il volume all'interno del ventricolo è pari a 120-
130 ml e viene definito volume telediastolico o di fine diastole. Il rapporto tra la gittata sistolica e il volume
telediastolico viene definito frazione di eiezione. In un soggetto adulto in condizioni fisiologiche la frazione
di eiezione è di 0,55-0,65. La gittata cardiaca GC rappresenta il volume di sangue che il ventricolo destro o
quello sinistro immettono in circolo nell’unità di tempo. In condizioni fisiologiche, a riposo, la gittata del
ventricolo sinistro è pari a circa 5 l; essa dipende dalla gittata sistolica GS e dalla frequenza cardiaca FC.

GC =GS× FC
Infatti, il volume immesso in circolo a ogni pulsazione è pari a 70 ml, mentre la frequenza è variabile. Se si
considera una frequenza di 70 battiti al minuto, il prodotto tra gittata sistolica e frequenza cardiaca è pari a
4.900 ml. Pertanto il volume eiettato dal ventricolo sinistro è di circa 4,9 l/min. La gittata cardiaca è
influenzata da due parametri: la frequenza cardiaca e la gittata sistolica. La frequenza cardiaca può essere
modulata dal sistema nervoso autonomo, determinando un numero maggiore di scariche elettriche o
dilatando l’intervallo di tempo che intercorre tra una scarica e l’altra. La gittata sistolica, che dipende dalle
caratteristiche proprie del miocardio ventricolare, può aumentare in rapporto all’incremento del ritorno
venoso o della resistenza periferica. Aumentando il ritorno venoso aumenta la pressione di riempimento
atriale e quindi la quantità di sangue che riempie l'atrio. Il gradiente pressorio tra atrio e ventricolo destro
aumenta di conseguenza. Questo determina l'incremento del volume di sangue che passa dall'atrio al
ventricolo: pertanto, il ventricolo destro si riempie di più e presenta un volume telediastolico maggiore.
All'aumento del volume diastolico corrisponde un allungamento delle fibrocellule cardiache e un
incremento della forza di contrazione.

Forza di contrazione

Le fibre muscolari cardiache non sono vincolate dalle inserzioni ossee come i muscoli scheletrici e sono
dunque libere di accorciarsi agendo sulle altre fibre e sulla rete connettivale che le circonda. Esse sono
riunite in fasci intrecciati a formare le pareti del cuore e sono disposte in modo che il loro accorciamento
tenda a produrre una riduzione del volume della cavità cardiache, esercitando così una pressione sul
sangue in esse contenuto. Tale comportamento influenza notevolmente la forza di contrazione dei
cardiomiociti di lavoro, determinando di conseguenza un afflusso maggiore o minore a seconda dei bisogni
fisiologici dell’organismo. La forza di contrazione dipende dal rapporto lunghezza-tensione, distinto in
passivo e attivo. Il rapporto lunghezza-tensione passivo non è altro che lo stato tonico o di tensione del
muscolo cardiaco prima della contrazione, mentre il rapporto lunghezza-tensione attivo è la quantità di
forza generata dal grado di sovrapposizione dei filamenti contrattili. Nel muscolo cardiaco la forza di
contrazione non dipende solo dalla sovrapposizione dei filamenti contrattili, massima alla lunghezza
ottimale, ma dalla concentrazione crescente di ioni Ca2+, finemente modulata dal sistema autonomo
parasimpatica e ortosimpatico. Le catecolammine promuovono l'immagazzinamento del
Ca2+ tramite una proteina regolatrice detta fosfolombano. La fosforilazione del fosfolombano aumenta
l'attività della Ca2+-ATPasi nel reticolo sarcoplasmatico. L'ATPasi concentra il Ca2+ nel reticolo
sarcoplasmatico, aumentandone la quantità disponibile per il rilascio di calcio Ca2+-indotto. Poiché più Ca2+
citosolico comporta la formazione di un maggior numero di ponti trasversali attivi, e poiché la forza di
contrazione è proporzionale al numero di ponti trasversali attivi, il risultato della stimolazione operata
dalle catecolamine è una contrazione più intensa.

Elettrocardiogramma ECG

Il cuore costituisce una voluminosa massa di tessuto che ritmicamente viene invasa da una massiccia onda
di variazione di potenziale. Nel miocardio vi sono ampie regioni di tessuto nel quale le cellule sono in parte
polarizzate e in parte no, per cui si generano correnti intracellulari ed extracellulari. Le correnti
extracellulari fluiscono in tutti gli spazi extracellulari, dato che si tratta di liquidi che possono condurre
l’elettricità. Pertanto, è possibile registrare correnti, per quanto attenuate, tra i due elettrodi di un
misuratore posto a qualunque distanza dal punto nelle quale le correnti avvengono, purché in contatto
elettrico con i liquidi corporei. Tale passaggio di corrente viene avvertito dal misuratore come una caduta di
tensione tra due elettrodi. In particolare si registrano correnti positive quando l’onda di depolarizzazione si
propaga nella direzione che va dal polo negativo a quello positivo e potenziali negativi quando il senso di
propagazione dell’onda è inverso. Si consideri come esempio una fibra muscolare cardiaca e un voltometro
dotato di due elettrodi, posizionati all’estremità della fibra muscolare. La depolarizzazione di membrana
genera un’inversione del potenziale a riposo, in cui le cariche negative si concentrazione nell’ambiente
extracellulare e non più in quello citoplasmatico. Le cariche negative si propagano dal polo negativo al polo
positivo, generando una corrente positiva, che in grafico di registrazione corrisponde ad una deflessione
positiva, l’evento complementare di ripolarizzazione determina invece una corrente negativa, indicata nel
grafico come una deflessione negativa. L’elettrocardiogramma (ECG) è la registrazione dell’attività elettrica
cardiaca. L’ECG si ottiene utilizzando un elettrocardiografo, costituito da diversi elettrodi capaci di rilevare i
potenziali elettrici del cuore in vari punti della superficie corporea e collegati a un sistema di registrazione.
Quest’ultimo riporta i dati su un foglio di carta millimetrata con quadratini di lato 1 mm che, scorrendo a
una velocità stabilita di 25mm al secondo, permette di calcolare la durata (tempo) e l’ampiezza o voltaggio
di ogni onda. Il tracciato dell’elettrocardiogramma ha un asse orizzontale corrispondente al tempo, in cui 5
quadratini di 1 mm corrispondono ad 1 s, pertanto un quadratino corrisponde a 0,04 s. L’asse verticale
rappresenta l’ampiezza o il voltaggio, in cui 10 mm o 10 quadratini descrivono un voltaggio di 1 mV. Gli
elettrodi non vengono posizionati casualmente ma in punti prestabiliti, al fine di conseguire una
standardizzazione che consente di ottenere elettrocardiogrammi identici in tutte le loro parti e dati tra loro
confrontabili. Posizionando gli elettrodi, è possibile ottenere 12 derivazioni che registrano
simultaneamente l’attività elettrica del cuore. In altre parole, si osserva il medesimo fenomeno da 12
posizioni differenti. In parole più semplici una derivazione non è altro che la disposizione di due elettrodi in
una specifica area corporea. Le 12 derivazioni possono essere bipolari, se il loro potenziale viene
confrontato a quello di un’altra derivazione, o monopolari, quando il loro potenziale viene confrontato a
quello di un punto considerato a potenziale 0. Per eseguire la registrazione, si posizionano 4 cavi, a livello
delle estremità del paziente per le derivazioni degli arti unipolari e bipolari e 6 sulla superficie anteriore
del toraco, per le derivazioni unipolari precordiali. Esistono 6 derivazioni degli arti o del piano frontale: 3
derivazioni degli arti (I, II e III) e 3 derivazioni degli arti aumentate (aVR, aVF e aVL). Nelle derivazioni
bipolari degli arti si utilizzano le derivazioni I, II e III. Ciascuna derivazione è descritta da un vettore, l’asse
della derivazione, dotato di un modulo, di un verso, di una direzione e di una particolare inclinazione
rispetto ad un asse di riferimento. La derivazione I registra il potenziale tra l'elettrodo del braccio sinistro,
considerato arbitrariamente polo positivo e il braccio destro, considerato arbitrariamente polo negativo. Il
verso dell’asse di derivazione I è diretto dal braccio dx con l’elettrodo negativo al braccio sx con l’elettrodo
positivo, con un’inclinazione di 0°. La derivazione II registra il potenziale tra la gamba sinistra considerato
arbitrariamente polo positivo e il braccio destro considerato arbitrariamente polo negativo. L’asse di
derivazione è diretto dal braccio dx alla gamba sx, con un’inclinazione di +60°. La derivazione III registra il
potenziale tra la gamba sinistra considerato arbitrariamente polo positivo e il braccio sinistro considerato
arbitrariamente polo negativo. L’asse di derivazione è diretta dal braccio sx alla gamba sx, con
un’inclinazione di 120°. Tutti gli elettrocardiografi sono inoltre dotati di un elettrodo per la gamba destra,
che funge da messa a terra e non produce alcun tracciato elettrocardiografico. Le derivazioni bipolari degli
arti sono quelle che scelse originariamente Einthoven nel 1901 per registrare i potenziali elettrici nel piano
frontale. Secondo la concezione di Einthoven, il corpo umano è costituito da un conduttore di grande
volume al cui centro è presente una sorgente di attività elettrica, rappresentata dal cuore. Sebbene questa
idea non sia completamente esatta, essa aiuta a comprendere come l’attività elettrica del cuore origini in
un punto, il teorico “centro elettrico cardiaco”. In base a questa concezione, posizionando gli elettrodi su
braccio destro, braccio sinistro e gamba sinistra o, secondo Einthoven, anche su spalla destra, spalla sinistra
e pube e congiungendo gli assi delle derivazioni bipolari, si ottengono i tre lati di un triangolo equilatero, al
cui centro è situato il cuore. Nell’ipotesi di Einthoven, il potenziale registrato nella derivazione II è uguale
alla somma dei potenziali registrati nella derivazione I e III. Questa relazione si basa sulla legge delle
tensioni di Kirchhoff, secondo la quale la somma totale delle forze di tensione agenti tra i diversi punti di un
circuito è uguale a zero. Queste derivazioni registrano solo differenze di potenziale elettrico, ma non il
potenziale assoluto presente in un punto determinato della superficie corporea. A tal fine, basandosi
sull’idea di Einthoven secondo la quale il cuore si trova al centro di un triangolo equilatero, Wilson ideò
delle nuove derivazioni degli arti in grado di registrare i potenziali assoluti: le derivazioni unipolari degli
arti o aumentate di Goldberger. Per ottenere queste derivazioni, è necessario disporre di un punto a
potenziale 0 con il quale confrontare i voltaggi ottenuti. Questo punto a potenziale 0 chiamato terminale
centrale si ottiene unendo i 3 elettrodi situati alle estremità dei tre arti, braccio sinistro, braccio destro e
gamba sinistra, utilizzati per le derivazioni D1, D2 e D3, mediante resistenze di 5000 W. L’asse delle
derivazioni si ottiene unendo ciascun elettrodo positivo disposto alle estremità degli arti al punto a
potenziale 0 detto terminale centrale che funge da elettrodo indifferente; in questo modo, l’appaiamento
dell’elettrodo indifferente a un elettrodo positivo consente di considerare la relativa derivazione come
bipolare. Le derivazioni degli arti (aVR, aVF e aVL), attraverso una tecnica incorporata
nell’elettrocardiografo da Goldberger, presentano un’ampiezza di voltaggio aumentata del 50% circa. Le
derivazioni sono chiamate: aVR, aVL e aVF, dove R indica il polso destro (right), L il polso sinistro (left) e F il
piede sinistro (foot), mentre V indica il fatto che Ia registrazione è di tipo unipolare e la lettera “a” si
riferisce al fatto che, per motivi puramente tecnici, l'ampiezza delle onde risulta aumentata. L’elettrodo
indifferente è posizionato al centro del triangolo, pertanto gli assi di derivazione unipolare agli arti formano
le bisettrici del triangolo di Einthoven. Le derivazioni precordiali invece sono 6 derivazioni sul piano
frontale. Queste derivazioni servono per esplorare con una maggior definizione l’attività elettrica dei
ventricoli. Si tratta di derivazioni unipolari, chiamate da V1 a V6, che la registrazione sei elettrodi posti sul
torace in punti ben precisi. V1 è posto nel 4° spazio intercostale sulla linea parasternale destra, V2 nel 4°
spazio intercostale sulla linea parasternale sinistra, V3 tra V2 e V4, V4 nel 5° spazio intercostale sulla linea
emiclaveare sinistra, V5 nel 5° spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore sinistra e V6 nel 5° spazio
intercostale sulla linea ascellare media sinistra.
Il tracciato elettrocardiografico si compone di una serie di onde in successione, ripetute per ogni ciclo
cardiaco, che Einthoven chiamò onde P, Q, R, S e T:

1) Onda P: è una deflessione positiva, generata dalla depolarizzazione degli atri. Quest’onda ha
un’ampiezza ridotta in quanto la massa muscolare atriale è relativamente piccola. La sua durata varia
tra i 60 e i 120 ms, sulla carta millimetrata da 1,5 a 3 mm, l'ampiezza è uguale o inferiore ai 0,25 mV o
2,5 mm sul tracciato ECG.

2) Complesso QRS o complesso ventricolare: queste tre onde che si presentano in rapida successione
vengono generalmente considerate come un unico complesso perché tutte e tre sono generate dalla
depolarizzazione dei ventricoli. L’onda Q, dovuta alla depolarizzazione del setto, è negativa e di piccole
dimensioni e può anche mancare; l’onda R è un picco molto alto positivo che esprime la discesa della
depolarizzazione lungo le pareti dei ventricoli fino ai loro apici; l’onda S è un’onda negativa anch’essa di
piccole dimensioni, dovuta alla depolarizzazione delle zone più alte e più esterne dei ventricoli. Si
ritengono nella norma le misure dell'intervallo se la durata dell'intero complesso è compresa tra 60 ms
e 100 ms, quindi da 1,5 a 2,5 mm sulla carta millimetrata.

3) Onda T: è una deflessione positiva, di ampiezza inferiore all’onda R, generata dalla ripolarizzazione dei
ventricoli.

4) Onda U: questa piccola onda positiva, scoperta successivamente alle onde descritte in precedenza, è
generata dalla ripolarizzazione dei muscoli papillari. A causa della sua ridotta ampiezza, è raramente
identificabile in un comune tracciato ECG.

Inoltre, nel tracciato ECG è possibile osservare dei tratti o segmenti in cui la traccia si mantiene sulla linea di
base; tale linea è definita isoelettrica:

1) Intervallo isoelettrico P-Q, che va dalla fine dell’onda P all'inizio del complesso QRS, indica il tempo di
conduzione atrio-ventricolare e, di norma, non supera i 200 ms o 5 mm sul tracciato l’ECG. Indica il
periodo in cui l’onda elettrica di depolarizzazione si trova all'interno del nodo atrio-ventricolare e lo sta
attraversando lentamente. Si tratta di un elemento molto importante dell'ECG, perché un suo
allungamento indica un'alterazione della trasmissione dell'eccitamento dagli atri ai ventricoli.
2) Segmento isoelettrico ST: rappresenta il periodo in cui le cellule ventricolari sono tutte depolarizzate e
la maggioranza si trova nella fase di plateau, pertanto non sono rilevabili movimenti elettrici.

Oltre alle onde e ai tratti isoelettrici, nel tracciato ECG è possibile identificare due intervalli che possono
fornire importanti informazioni sulla funzionalità cardiaca

1) Intervallo Q-T, dall'inizio del complesso QRS alla fine dell’onda T, fornisce una stima del tempo di
contrazione e rilasciamento ventricolare. La sua durata varia al variare della frequenza cardiaca,
generalmente si mantiene tra 350 ms e 440 ms e quindi da 8,75 a 11 mm sul reperto.

2) Intervallo P-Q che va dall’inizio dell’onda P all'inizio del complesso QRS, indica il tempo di conduzione
atrio-ventricolare e, di norma, non supera i 200 ms o 5 mm della carta su cui viene tracciato
l’ECG.

Interpretazione ECG

Durante l’eccitamento del miocardio, l’onda di attivazione si propaga variando in ogni istante la propria
direzione. Si utilizzano convenzionalmente una serie di vettori, il cui modulo designa il valore numerico del
potenziale, la direzione e il verso forniscono informazioni circa la direzione di propagazione del potenziale
stesso. Si definisce pertanto asse elettrico cardiaco medio la risultante di tutti gli assi o vettori elettrici
cardiaci istantanei che si riferiscono ad un dato evento cardiaco. L’orientamento dell’asse elettrico cardiaco
medio si valuta costruendo il vettore risultante su un sistema di coordinate polari ottenute partendo
dall’inclinazione degli assi di derivazione agli arti. Gli assi di derivazione vengono traslati e posizionati nel
centro del sistema di riferimento, mantenendo immutata la loro inclinazione e angolazione. L’asse di
derivazione I, essendo i due elettrodi disposti su un piano orizzontale ha un’angolazione di 0°, l’asse di
derivazione II forma un angolo di circa +60°, l’asse di derivazione III forma un angolo di 120°. Essendo
l’elettrodo indifferente immaginabile come posto al centro del triangolo di Einthoven, la derivazione aVR si
colloca a –150°, la derivazione aVF a +90° e la derivazione aVL a –30°. Si costruisce quindi un sistema di
riferimento esassiale sul piano frontale, i cui assi hanno una polarità determinata dagli assi di derivazione.
L’asse elettrico cardiaco medio in un dato istante è calcolato attraverso l’analisi vettoriale dei vettori delle
derivazioni sul piano frontale. Nel sistema esassiale si posizionano i vettori lungo gli assi di derivazione,
specificando il verso e il modulo. La direzione coincide con l’asse di derivazione di riferimento, il verso è
diretto dal polo negativo al polo positivo se nel referto si osserva una deflessione positiva, il verso è diretto
dal polo positivo al polo negativo, se nel referto vi è una deflessione negativa, mentre il modulo
rappresenta l’ampiezza o il valore del potenziale. Si procede con il calcolo tracciando, a partire dalla punta
dei vettori, delle rette perpendicolari ai singoli assi di derivazione, fino ad intersecarle in un punto. Il vettore
che congiunge il centro del sistema di riferimento al punto di intersezione delle rette, costituisce l’asse
elettrico istantaneo, calcolato in uno specifico evento del ciclo cardiaco. L’operazione è normalmente
eseguita attraverso le derivazioni bipolari degli arti, anche se l’aggiunta delle derivazioni unipolari degli arti,
fornirebbe un risultato ancora più preciso. L’asse elettrico medio del cuore è dato dalla sommatoria degli
assi elettrici istantanei, calcolati in ogni istante del ciclo cardiaco. Per semplicità si considera l’asse elettrico
medio del cuore il vettore medio QRS, calcolato durante il complesso QRS, in quanto la depolarizzazione dei
ventricoli costituirebbe l’evento preponderante della conduzione cardiaca. Il vettore medio QRS assume un
valore di circa +59°, nonostante negli standard fisiologici possa aggirarsi tra +20° e +100°. Un certo numero
di condizioni anomale del cuore può causare, tuttavia, una deviazione dell’asse anche al di là dei limiti
normali. In condizioni di ipertrofia del ventricolo destro, l’asse del cuore devia verso destra, analogamente
in condizioni di ipertrofia sinistra, l’asse elettrico del cuore, volge verso sinistra. In caso di ipertrofia del
ventricolo sinistro, l’asse del cuore tende a formare un’angolazione di -15° con una deflessione negativa
anomala nel referto della terza derivazione. In caso di ipertrofia del ventricolo destro, l’asse del cuore
forma un angolo di +170°, con deflessioni negative per le derivazioni I e II.

Vasi sanguigni

La circolazione sistematica, così come quella polmonare, si compone di un sistema di tubi che permettono il
rapido trasferimento alle cellule di ossigeno e principi nutritivi. Tramite il sistema arterioso il sangue viene
distribuito agli organi e ai tessuti, il sistema venoso trasporta il sangue refluo dai tessuti e consente
l’eliminazione dei cataboliti attraverso la circolazione polmonare o attraverso gli organi emuntori. Il sistema
arterioso si compone di condotti variamente ramificate, il cui diametro si riduce progressivamente,
accompagnato da una diminuzione pressoria. Al sistema arterioso appartengono le arterie, le arteriole e i
capillari. Sul piano organizzativo, la parete delle arterie è costituita da tre tonache concentriche
denominate, dall’interno all’esterno, intima, media e avventizia. La tonaca intima si compone di un
rivestimento epiteliale, l’endotelio. L’endotelio forma il rivestimento interno, a scarso attrito, delle arterie
e continua, senza soluzione, in tutti gli altri organi cavitari dell’apparato vascolare sanguifero. È composto
solitamente di cellule appiattite, disposte in unico strato, di forma poligonale o allungate secondo l’asse del
vaso, unite tra loro da giunzioni occludenti. La tonaca media, formata da tessuto connettivo e da fibre
muscolari lisce, caratterizza in base alla sua costituzione il tipo strutturale e condiziona il comportamento
funzionale delle arterie. Nella tonaca media delle arterie di grosso calibro (diametro da 3 cm a 7 mm)
prevale il tessuto elastico; in quelle di medio e piccolo calibro (diametro da 7 mm a 0,2 mm) prevale il
tessuto muscolare. Si distinguono pertanto arterie di tipo elastico e arterie di tipo muscolare: le prime
hanno una parete elastica e intervengono passivamente nella circolazione del sangue: esse si dilatano
durante la sistole ventricolare e, nella fase diastolica del ciclo cardiaco, tornano, per l’energia elastica
accumulata, alle dimensioni originarie favorendo così la progressione del sangue; le seconde hanno parete
contrattile e sono quindi in grado di variare attivamente il loro lume, regolando così la quantità di sangue
che affluisce agli organi e ai tessuti; ciò consente un’irrorazione degli organi variabile in relazione al loro
livello di attività funzionale. Proseguendo nelle arteriole e nei capillari la struttura vasale si modifica,
scompare la componente muscolare e i vasi risultano costituiti da un sottile endotelio e da una membrana
basale sottostante. Alcune arteriole si suddividono in vasi noti come metarteriole. La parete delle arteriole
vere e proprie presenta uno strato continuo di muscolatura liscia, mentre quella delle metarteriole è solo
parzialmente circondata da muscolo liscio. Il sangue che fluisce attraverso le metarteriole può prendere
due diversi percorsi. Se gli anelli muscolari detti sfinteri precapillari sono rilasciati, il sangue che fluisce in
una metarteriola viene diretto verso i letti capillari adiacenti. Se invece gli sfinteri precapillari sono contratti,
il sangue proveniente dalle metarteriole evita i capillari e passa direttamente alla circolazione venosa. Nei
capillari sono presenti delle cellule specializzate dette periciti, ad attività contrattile. I capillari comunicano
ampiamente fra loro formando reti che presentano diversa morfologia e densità nei vari tessuti, in rapporto
con l’entità degli scambi metabolici che vi hanno luogo. In alcuni organi, quali il midollo osseo, la milza, il
fegato, molte ghiandole endocrine, non si trovano comuni capillari, ma vasi ampi, di calibro non uniforme e
a pareti molto sottili ai quali è stato dato il nome di sinusoidi. I capillari sono distinti in continui, fenestrati e
sinusoidi. I capillari continui si trovano nei polmoni, nell’encefalo, nella cute, nei muscoli striati e in altri
organi e tessuti. Presentano un endotelio continuo ed una membrana basale sottostante. I capillari
fenestrati sono dotati di fenestrature nell’endotelio e si ritrovano nella mucosa gastrica e intestinale, nei
glomeruli e nei tubuli renali. I capillari sinusoidi o di tipo discontinuo sono formati da cellule endoteliali
distanziate, in cui è mancante la membrana basale. Sono presenti nel fegato, nella milza e nel midollo
osseo. Il sistema venoso si compone di vasi a diametro crescente, le venule e le vene. Come nelle arterie,
nella parete delle vene si distinguono tre strati, o tonache: una tonaca intima, una tonaca media e una
tonaca avventizia. Tuttavia nelle vene tale schematizzazione strutturale non è costantemente applicabile
poiché, accanto a vene che mostrano una parete di notevole complessità, esistono altre vene che
presentano un’estrema semplicità costitutiva e inoltre perché sovente la delimitazione tra le singole
tonache non è così evidente come nelle arterie. Esistono inoltre, fra vene diverse, notevoli differenze di
struttura che sono principalmente in rapporto con le particolari condizioni secondo le quali si effettua il
circolo venoso refluo, nei diversi distretti. Esistono vene, come quelle della testa e del collo, nelle quali i
valori pressori sono estremamente bassi e il sangue scende verso il cuore favorito dalla forza di gravità, e
altre vene, come quelle dei territori sottodiaframmatici del tronco e dell’arto inferiore in particolare, nelle
quali la circolazione avviene invece in direzione contraria alla forza di gravità. Le prime, anche se di grosso
calibro, hanno parete sottile a struttura fibrosa, e sono dette vene di tipo recettivo. Le seconde hanno
parete spessa, fornita di un ricco corredo muscolare e sono dette vene di tipo propulsivo. Vi sono tra questi
due tipi estremi numerosi aspetti strutturali di transizione. Le arteriole, insieme ai capillari e ai piccoli vasi
post capillari detti venule, costituiscono la microcircolazione.

Emodinamica

Per analogia con la teoria dei circuiti, lo scorrimento del sangue a livello del circolo ematico può essere
descritto applicando la legge di Ohm. Nella teoria dei circuiti elettrici si definisce il flusso di corrente in
rapporto alla differenza di potenziale ai capi del circuito e alla resistenza offerta al passaggio di corrente.
Nel circuito cardiovascolare, il flusso ematico o portata (Q), omologabile al flusso di corrente è quindi in
rapporto alla differenza di pressione (P) ai due estremi del condotto e alla resistenza (R) offerta dai vasi al
∆P
passaggio del sangue, secondo il rapporto espresso dalla legge di Ohm:Q=
R
Per flusso in emodinamica si intende la portata, ovvero il volume di sangue che passa per un dato punto del
sistema nell'unità di tempo. Nella circolazione, il flusso viene espresso in litri al minuto (L/min) o millilitri al
minuto (ml/min). Mentre per pressione si intende una grandezza scalare, il cui modulo è espresso dal
rapporto tra la forza esercitata che agisce perpendicolarmente su una superficie.

1) Quindi la forza propulsoria che regola il circolo sanguigno non è altro che un gradiente pressorio o
dislivello pressorio o differenza di pressione che si stabilisce nel sistema circolatorio stesso. Maggiore
è il gradiente pressorio, maggiore sarà il flusso ematico all’interno di un vaso. Applicando le nozioni di
fisica all’ambito ematico si definisce pressione sanguigna o pressione arteriosa la forza che il sangue
esercita sulle pareti dei vasi arteriosi. La pressione arteriosa che si registra durante la fase sistolica del
ciclo cardiaco viene definita pressione sistolica e corrisponde al valore massimo di 120 mmHg che la
pressione è in grado di raggiungere nella sistole del ventricolo sx, mentre la pressione che si osserva
nella fase di diastole del ventricolo sx è detta pressione diastolica o pressione minima e si aggira
attorno al valore di 80 mmHg. Nella circolazione sistematica la pressione arteriosa a seguito della sistole
ventricolare, decresce ad un valore di 35 mmHg nel terminale delle arteriole, fino al valore di 10-17
mmHg nel letto vascolare. A livello della circolazione polmonare la pressione sistolica in seguito alla
sistole del ventricolo dx è di 25-30 mmHg, la pressione diastolica è di 8 mmHg e decresce nei capillari
polmonari fino al valore di 7 mmHg. La pressione differenziale è la differenza tra pressione sistolica e
pressione diastolica. La pressione arteriosa media rappresenta la media integrale degli infiniti valori
che la pressione arteriosa assume tra il valore massimo e quello minimo. Essa può essere calcolata
secondo la formula empirica:

P s−Pd
P AM =Pd +
3
Dove PAM è la pressione arteriosa media, Pd la pressione diastolica e Ps la pressione sistolica. La pressione
polmonare media è di 15 mmHg. Per il sistema venoso si fa riferimento alla pressione venosa centrale
(PVC) rilevata nel tratto terminale della vena cava superiore e corrispondente alla pressione vigente
nell’atrio destro. La pressione normale dell’atrio destro è di circa 0 mmHg ed è uguale alla pressione
atmosferica che si registra attorno al corpo. Ciò garantisce un accurato ritorno venoso, valori al di sopra dei
0 mmHg determinerebbero un ristagno del sangue nei grossi vasi.

2) La resistenza nell’equazione di Ohm, corrisponde alla forza che si oppone al flusso: è per definizione il
reciproco del flusso ematico o portata ed è determinata dalle caratteristiche intrinseche dei vasi e del
sangue. Poiché il sistema circolatorio è formato da vasi in serie, il cui diametro si riduce a mano a mano
che si dividono, la resistenza complessiva del sistema è data dalla somma delle resistenze dei differenti
segmenti:

Rtot =R 1+ R 2 +¿ … Rn ¿

La resistenza di vasi posti in serie risulta maggiore di quella di vasi posti in parallelo. Nel caso, di vasi posti in
parallelo viene sommata la conduttanza, il reciproco della resistenza, analogamente a quanto accade per le
resistenze disposte in parallelo:

1 1 1
C= + +¿ … ¿
R 1 R2 Rn

Nella circolazione sistematica la resistenza totale è definita resistenza vasale periferica ed assume un
valore di 100 mmHg/100 ml o 1 URP. Nella circolazione polmonare la resistenza totale è detta resistenza
polmonare ed assume un valore di 14 mmHg/ 100 ml o 0,14 URP. In entrambi casi il valore può variare in
condizioni di vasodilatazione e vasocostrizione. La resistenza in emodinamica può essere espressa
attraverso la legge di Poiseuille, in cui la portata è direttamente proporzionale al gradiente di pressione e al
quadrato della superficie, e inversamente proporzionale alla lunghezza del condotto e alla viscosità del
fluido.

8 Lƞ
R= 4
πr
Dove r è il raggio del vaso, L la lunghezza e ƞ la viscosità del sangue. La viscosità è un indice della resistenza
al flusso di un fluido: maggiore è la viscosità, maggiore è la resistenza di scorrimento del fluido. Si tratta
pertanto di una resistenza interna del fluido considerato, che nel caso del sangue, dipende dalla
componente corpuscolata e dalle proteine plasmatiche.

3) La portata Q o volume di flusso espressa in cm3/s, dipende dalle dimensioni del condotto, dalla
differenza di pressione ai suoi estremi e dalla viscosità del fluido. È importante notare che il flusso varia
in rapporto diretto alla quarta potenza del raggio del condotto: pertanto a piccole variazioni del raggio
dei vasi corrispondono variazioni molto marcate del flusso. Questo indica che un piccolo incremento del
diametro fa aumentare di molto il flusso ematico, così come una sua riduzione, anche piccola,
determina una notevole riduzione del flusso. Infatti, se si dimezza il raggio di un'arteria, il flusso
ematico corrispondente si riduce a un sedicesimo. Si comprende, allora, come piccole variazioni del
diametro delle arteriole muscolari possano indurre notevoli variazioni della resistenza periferica e del
flusso ematico a livello microvascolare. Il sangue ricevendo la forza propulsiva dal gradiente pressorio,
percorre una serie di condotti variamente ramificati generando un flusso detto laminare. In
fluidodinamica si parla di flusso laminare o di regime laminare quando il moto del fluido avviene con
scorrimento di strati infinitesimi gli uni sugli altri senza alcun tipo di rimescolamento di fluido, neanche
su scala microscopica. Infatti il sangue si muove formando lamine coassiali, dotate di differenti velocità,
quelle in vicinanza della parete vascolare si muovono con velocità molto ridotta rispetto a quelle
centrali; pertanto si determina un caratteristico profilo della velocità con andamento parabolico. La
velocità di ogni filetto varia al variare del diametro del condotto, ma si mantiene costante invece il
flusso sanguigno, come espresso dall’equazione di continuità dei fluidi o legge di Leonardo.
L’equazione stabilisce che la portata attraverso un tubo di sezione variabile resta costante, cosicché al
diminuire della sezione aumenta la velocità del fluido, e viceversa all'aumentare della sezione
diminuisce la velocità.

Q1=v 1 S1 Q2=v 2 S2 Q1=Q2

In caso di diramazioni, disposte in parallelo, per il calcolo della sezione trasversa si considera la somma
delle sezioni dei singoli segmenti. Tale comportamento è facilmente applicabile per l’apparato
cardiocircolatorio: il raggio dell’aorta è circa 1,2 cm e il sangue che vi scorre attraverso ha una velocità di
circa 40 cm/sec. Un capillare tipico ha un raggio di circa 4∙10-2 cm e il sangue vi scorre attraverso ad una
velocità di circa 5∙10-4 m/s.

Parametri che influenzano la pressione arteriosa e venosa

La pressione arteriosa è regolata dalla viscosità del sangue, dalla forza di contrazione, dalla volemia, dalla
vasodilatazione e vasocostrizione, da condizioni fisiopatologiche dei vasi, come la compliance o
capacitanza vasale e aterosclerosi e dalla gittata cardiaca.

1. La gittata cardiaca è influenzata da due parametri: la frequenza cardiaca e la gittata sistolica. La


frequenza cardiaca può essere modulata dal sistema nervoso autonomo, determinando un numero
maggiore di scariche elettriche o dilatando l’intervallo di tempo che intercorre tra una scarica e
l’altra. La gittata sistolica è considerato il volume di sangue immesso in circolo a seguito della
sistole ventricolare e in un uomo adulto, in stato di riposo, è pari al valore di 70 ml. La gittata
sistolica, che dipende dalle caratteristiche proprie del miocardio ventricolare, può aumentare in
rapporto all’incremento del ritorno venoso o della resistenza periferica. La distribuzione relativa
del sangue fra i compartimenti arterioso e venoso della circolazione può costituire un fattore
importante nel mantenimento della pressione arteriosa. Le arterie sono vasi a basso volume che in
genere contengono solo l'11% del volume totale di sangue. Le vene sono invece vasi ad alto volume
che contengono a riposo circa il 60% del volume di sangue in circolo. Le vene agiscono come riserva
di volume del sistema circolatorio, contenendo il sangue che può essere ridistribuito alle arterie
quando se ne verifichi la necessità. Quando la pressione arteriosa scende, l'aumento dell'attività
simpatica costringe le vene, diminuendo la loro capacità di riserva, ciò determina un aumento del
ritorno venoso. Aumentando il ritorno venoso aumenta la pressione di riempimento atriale e
quindi la quantità di sangue che riempie l'atrio. Il gradiente pressorio tra atrio e ventricolo destro
aumenta di conseguenza. Questo determina l'incremento del volume di sangue che passa dall'atrio
al ventricolo: pertanto, il ventricolo destro si riempie di più e presenta un volume telediastolico
maggiore. All'aumento del volume diastolico corrisponde un allungamento delle fibrocellule
cardiache e un incremento della forza di contrazione. In questo modo, il ventricolo è capace di
aumentare il volume di sangue eiettato e quindi la gittata sistolica.

2. La forza di contrazione è influenzata dal grado di sovrapposizione tra i miofilamenti, dalla


lunghezza ottimale delle fibre e dalla frequenza cardiaca. La tensione sviluppata da una fibra
muscolare durante una contrazione dipende dalla lunghezza di partenza dei sarcomeri all'inizio
della contrazione. La teoria dello scorrimento dei filamenti predice che la tensione generata da una
fibra muscolare è direttamente proporzionale al numero dei legami che si formano tra i filamenti
spessi e i filamenti sottili. Perciò la contrazione di sarcomeri ad elevata lunghezza genera poca
forza, in quanto i filamenti spessi e sottili sono sovrapposti soltanto in piccola parte e interagiscono
soltanto in misura minima. Analogamente sarcomeri troppo corti, presentano microfibrille
eccessivamente sovrapposte e i filamenti spessi possono far scorrere i filamenti sottili solo per un
breve tratto. Normalmente la lunghezza ottimale del sarcomero corrisponde a quella della fibra a
riposo. La tensione muscolare è aumentata attraverso un meccanismo definito sommazione,
fenomeno in cui si applicano stimoli elettrici in rapida successione. Tale processo, dati gli intervalli
di tempo piuttosto brevi che intercorrono tra uno stimolo e l’altro, non consentono un
rilasciamento completo, ma determinano un accumulo di tensione che raggiunge la contrazione
muscolare massima, detta contrazione tetanica.

3. La viscosità è un indice della resistenza al flusso di un fluido: maggiore è la viscosità, maggiore è la


resistenza di scorrimento del fluido. Si tratta pertanto di una resistenza interna del fluido
considerato, che nel caso del sangue, dipende dalla componente corpuscolata e dalle proteine
plasmatiche. Un incremento di tali parametri determina effetti ipertensivi, una diminuzione
significativa determina ipotensione. Un indice della viscosità del sangue è l’ematocrito, la
percentuale del volume sanguigno occupata dagli eritrociti. Il valore di ematocrito di un uomo
adulto sano si aggira attorno al 42%, mentre quello di una donna adulta è del 38%. La relazione che
intercorre tra la viscosità e il flusso sanguigno, è espresso dalla legge di Poiseuille:
4
πr
F=
8 Lƞ
Dove r è il raggio del vaso, L la lunghezza e ƞ la viscosità del sangue. Questa espressione afferma che il
flusso sanguigno aumenta all’aumentare del raggio del vaso, ma decresce con l’aumento della lunghezza
del vaso e della viscosità del sangue.

4. La volemia è il volume ematico espresso in litri e assume il valore fisiologico di 4,7-5 l. Variazioni
nella volemia modulano la pressione arteriosa. In caso di ipervolemia, si assiste ad un aumento
pressorio, in caso di ipovolemia, si assiste ad un calo della pressione sanguigna.
5. La caratteristica delle arterie di maggior calibro è la grande elasticità, una proprietà determinata
dalle caratteristiche strutturali della tonaca media, che presenta una preponderanza della
componente elastica rispetto a quella muscolare. Le proprietà elastiche delle arterie sono state
studiate valutando il rapporto tra volumi di liquido applicati ad arterie e pressioni registrabili. In
questo modo di sono ottenute delle curve, la cui pendenza esprime la cosiddetta compliance.
In fisiologia la compliance o capacitanza, è la grandezza che esprime la capacità che hanno i vasi
sanguigni di dilatarsi elasticamente sotto l’effetto di una pressione sanguigna crescente, per poi
restringersi restituendo il volume di sangue accumulato sotto l’effetto di una pressione sanguigna
decrescente. Con l’invecchiamento si ha una riduzione della compliance, dovuta all’ispessimento
della parete aortica. Questo comporta una minor distensibilità delle arterie e un aumento della
resistenza periferica.

6. La pressione arteriosa è modulata dallo stato di contrazione e di rilassamento dei vasi arteriosi,
attraverso meccanismi finemente regolati di vasodilatazione e vasocostrizione, che contribuiscono
all’aumento o alla diminuzione della resistenza periferica. L’attività del controllo nervoso è
coordinata e integrata dai centri bulbo-pontini, centri vegetativi vasomotori. Il tronco encefalico
cede una serie fibre ortosimpatiche e parasimpatiche che innervano la tonaca media dei vasi dotati
di muscolatura liscia: arteriole e vene muscolari. Ciò avviene attraverso il rilascio di noradrenalina,
adrenalina e acetilcolina. Nei capillari, sprovvisti di una tonaca muscolare, lo stato delle pareti è
strettamente dipendente dagli sfinteri precapillarici, anelli di muscolatura liscia, modulabili
anch’essi da stimoli nervosi. La noradrenalina stimola l’attivazione della chinasi delle catene
leggere della miosina (MLCK) favorendo l’attività di idrolisi dell’ATP. La stimolazione adrenergica
facilita la fosforilazione del caldesmone, l’analogo della troponina. La stimolazione adrenergica
determina pertanto la contrazione vasale o vasocostrizione che ha come effetti conseguenti una
diminuzione del lume vasale ed un aumento pressorio. Le fibre simpatiche colinergiche hanno
un’azione antagonista, che promuove la dilatazione vasale, in seguito al rilascio di acetilcolina.
Molti ormoni circolanti possono avere un notevole effetto sulla vasodilatazione e sulla
vasocostrizione. Vanno ricordati le catecolammine, il sistema renina-angiotensina, vasopressina e
il peptide natriuretico atriale. Il sistema renina-angiotensina-aldosterone gioca un ruolo
importante nella modulazione del tono vascolare, in quanto l’angiotensina II è un potente
vasocostrittore. Le cellule endoteliali hanno la capacità di sintetizzare l’enzima di conversione
dell’angiotensina I in II. La vasopressina partecipa alla regolazione generale della resistenza
periferica, in quanto ha la caratteristica di determinare vasocostrizione nel muscolo liscio vascolare.
I peptidi natriuretici atriali determinano invece vasodilatazione. Le arteriole possono rispondere
agli stimoli metabolici che si generano nei tessuti. Man mano che aumenta il metabolismo tissutale,
si accumulano prodotti catabolici, che possono dare vasodilatazione. Le cellule hanno bisogno di O 2
e producono cataboliti vasoattivi. La riduzione della pressione dell’O2 produce vasodilatazione nella
maggioranza dei di stretti vascolari; fa eccezione il circolo polmonare dove la riduzione della
pressione di 02 si accompagna a vasocostrizione. L'aumento della pressione di O2, d'altra parte,
comporta vasocostrizione. In questo meccanismo svolge un ruolo importante la riduzione della
sintesi da parte dell'endotelio della prostaciclina (PGI2), che determina vasodilatazione. Nelle
condizioni di ridotto apporto di O2 rispetto alle richieste funzionali dei tessuti, si producono molte
sostanze che sono vasoattive: gli ioni idrogeno, potassio e fosfato, la CO2, i nucleotidi adenosina-
trifosfato (ATP) e adenosina-monofosfato (AMP), il lattato. L'aumento della pressione parziale di
CO2 causa vasodilatazione in molti tessuti, così come l'aumento degli ioni idrogeno insieme al
lattato.

La pressione venosa centrale e quindi il ritorno venoso influenzato da tre fattori: la contrazione
o compressione delle vene che riportano il sangue al cuore attraverso la pompa muscolare, le variazioni di
pressione nell'addome e nel torace durante la respirazione attraverso la pompa respiratoria e
l’innervazione simpatica delle vene.

1) Nel corso dell’inspirazione la pressione addominale aumenta, comprimendo i vasi intraddominali


che ricevono sangue refluo dagli arti inferiori; inoltre, la pressione intratoracica si riduce facilitando
la dilatazione dei vasi intratoracici e il ritorno del sangue dai vasi addominali nella vena cava
inferiore, dai vasi del collo e della testa nella vena cava superiore.

2) Analogamente la contrazione muscolare, specialmente degli arti inferiori nella stazione eretta o
durante la deambulazione, determina una costrizione del lume vasale, che sospinge il sangue verso
l’atrio destro, favorendo il ritorno venoso. Il reflusso che si genererebbe in seguito al rilasciamento
della pompa respiratoria o muscolare è impedito dalle valvole venose, che favoriscono al contrario
un temporaneo ristagno di sangue.

3) La costrizione delle vene a opera dell'attività simpatica è il terzo fattore che influenza il ritorno
venoso. Quando le vene si contraggono, il loro volume diminuisce, facendo sì che una maggior
quantità di sangue ritorni verso il cuore.

Riflesso barocettivo

Il riflesso barocettivo riveste un ruolo chiave nella regolazione e nel mantenimento della pressione arteriosa
media in risposta a rapide perturbazioni costituendone, quindi, il meccanismo di controllo a breve termine.
Più propriamente, il riflesso barocettivo è rappresentato come un sistema dinamico di controllo a feed-back
negativo. La variabile controllata è monitorata per mezzo di recettori posizionati in posti chiave ad alta
pressione del circuito idraulico vascolare. I barocettori sono localizzati a livello del seno carotideo e
dell’arco aortico. I barocettori trasmettono il valore della pressione registrata ai centri vasomotori e
cardioinibitori localizzati nel bulbo, i quali paragonano il valore registrato ad un parametro di set point. Se il
valore letto si discosta da quello di riferimento, il sistema di controllo genera un output di intensità
proporzionale alla differenza misurata, in modo tale da eliminare il margine di errore. In caso di un
aumento della pressione si diminuisce l’attività ortosimpatica, favorendo l’attività della contro parte
parasimpatica. Ciò determina una diminuzione nella frequenza cardiaca che promuove l’abbassamento
della pressione arteriosa. Analogamente una diminuzione della pressione induce l’aumento dell’attività
ortosimpatica ed una riduzione della contro parte parasimpatica.

Metodi di misurazione

La pressione arteriosa può essere misurata con metodi diretti, inserendo in un’arteria un catetere connesso
a un manometro, o con metodi indiretti che richiedono specifici apparecchi, come lo sfigmomanometro. Lo
strumento è dotato di un manicotto contenente una camera d’aria, connessa a un manometro a mercurio o
a molla. Insufflando aria nel manicotto, si determina una pressione di occlusione, che, superando la
pressione arteriosa presente nel vaso in esame, lo chiude. Con un fonendoscopio, applicato sotto al
manicotto sull'arteria omerale, si possono ascoltare i rumori di Korotkoff, che si determinano quando la
pressione nell'arteria eguaglia la pressione nel manicotto. In tal caso sono udibili toni schioccanti sincroni
con il battito cardiaco Se la pressione nel manicotto viene abbassata ulteriormente, i toni di Korotkoff
cambiano di qualità e diventano meno schioccanti, più ritmici e più aspri. Infine, quando la pressione nel
manicotto si avvicina alla pressione diastolica, i toni di colpo divengono improvvisamente ovattati. Sono
stati ipotizzati vari meccanismi per spiegare i rumori arteriosi: sembra molto probabile che essi siano
determinati dal passaggio del sangue in un vaso stenosato, passaggio che genera turbolenze responsabili
dei rumori. Un metodo indiretto di misurazione è la valutazione del polso arterioso, ovvero della
misurazione ritmica dell’urto dell’onda sistolica nelle arterie. Quando il ventricolo sinistro si svuota
nell’aorta, si ha una distensione della parete arteriosa, che ritorna su sé stessa nella fase di diastole. Si
determina allora, un’onda di dilatazione e di costrizione, che viaggia lungo tutte le arterie fino ai capillari,
per poi proseguire nelle vene. Quest’onda di pressione viene anche definita onda sfigmica, generando un
andamento pulsatile del flusso ematico. L’onda raggiunge valori massimi e minimi, la cui ampiezza è
variabile a seconda del vaso interessato. Nell’aorta e nelle arterie elastiche, il flusso è pulsatile e le onde
sono caratterizzate da una notevole ampiezza, il cui caratteristico andamento si riduce dai capillari alle
venule post-capillari. Il flusso da pulsatile diventa costante e continuo.

Microcircolo

Il microcircolo è formato dalle arteriole terminali, dai capillari e dalle venule che drenano il sangue
capillare. Le reti microvascolari variano da organo ad organo, ma presentano caratteristiche comuni. Gli
scambi di liquidi e soluti che avvengono a livello microvascolare interessano principalmente i capillari e le
venule post-capillari e collettrici e sono mediati da meccanismi differenti. I meccanismi fondamentali che
assicurano il passaggio delle varie sostanze tra sangue e interstizio sono rappresentati dalla diffusione e
dalla filtrazione. La diffusione di piccoli ioni e molecole non dipende dalla pressione microvascolare, ma dal
loro gradiente di concentrazione, dalla loro permeabilità. Molecole liposolubili diffondono liberamente,
attraversando gli interstizi della membrana plasmatica, mentre molecole idrosolubili, polari necessitano di
proteine di trasporto che possono operare secondo gradiente di concentrazione o fungere da pompe nel
trasporto attivo. Nella filtrazione gli scambi capillari sono regolati dalla legge di Starling:

Jv
=L p [ ( P c −Pi )−σ ( π c −π i ) ]
S
Jv
dove è il volume di liquido per unità di superficie che si forma in ogni punto del microcircolo, L p è la
S
conduttività idraulica della parete microvascolare, σ il coefficiente di riflessione delle proteine plasmatiche,
Pc è la pressione idrostatica capillare e Pi la pressione idrostatica interstiziale, π c π i rappresentano le
pressioni colloidosmotiche o oncotiche nel plasma e nell'interstizio. Il coefficiente di riflessione è un indice
della permeabilità vasale alle proteine plasmatiche, il cui valore numerico varia da 0 a 1. La pressione
idrostatica capillare, che rappresenta la forza che il sangue esercita sulla parete vasale, facilita il passaggio
di liquido negli spazi interstiziali. Ha un valore di 35 mmHg nei terminali arteriolari e un valore di circa 17
mmHg nelle venule. Invece la pressione colloidosmotica od oncotica capillare è determinata dalle
molecole proteiche contenute nei vasi, tende a richiamare il liquido all'interno dei capillari. La pressione
oncotica ha lo stesso significato della forza osmotica che determina la diffusione dell’acqua attraverso una
membrana semipermeabile da una regione a concentrazione minore di soluto, ad una regione a
concentrazione maggiore. La normale pressione colloido-osmotica del capillare umano si aggira
mediamente attorno ai 28 mmHg; di questi, 19 mmHg sono dovuti agli effetti molecolari delle proteine
disciolte e 9 mmHg sono imputabili all’effetto Donnan, ovvero all’eccesso di pressione osmotica causata dal
sodio, dal potassio e dagli altri cationi trattenuti nel plasma dalle proteine. La pressione idrostatica
interstiziale varia da organo a organo e sembra avere un valore di –2 mmHg nel tessuto sottocutaneo, ma
può assumere valori positivi nei letti capillarici degli organi dotati di capsula, come nel caso dei reni con un
valore medio di circa 6 mmHg. La pressione colloidosmotica od oncotica interstiziale è data dalla
concentrazione delle proteine nel liquido interstiziale. Quantitativamente, la pressione colloido-osmotica
media corrispondente a questa concentrazione proteica nei liquidi interstiziali è di circa 8 mmHg. Le
pressioni interstiziali idrostatica ed oncotica possono considerarsi ininfluenti. Mentre le pressioni
capillariche idrostatica ed oncotica, determinano una forza filtrante che direzione il plasma sanguigno dal
letto vascolare verso i tessuti. La forza filtrante avrà un valore pari alla differenza tra le due forze in gioco.
Sul versante venoso del capillare, la pressione idrostatica capillare si riduce ad un valore di 8-10 mmHg,
mentre la pressione oncotica si mantiene inalterata. Pertanto la pressione oncotica prevale su quella
idrostatica e si ha assorbimento del liquido interstiziale nel lume capillare. La pressione idrostatica capillare,
che è determinante per la formazione del liquido interstiziale e per la perfusione tissutale, è regolata dalle
arteriole terminali, che possono aumentare o ridurre il proprio diametro, determinando in tal modo il tono
vascolare. Le arteriole terminali regolano il proprio diametro in maniera continua, in quanto si contraggono
e si rilasciano ritmicamente. L'attività dei vasi terminali determina variazioni ritmiche della pressione
capillare, che raggiunge il proprio massimo quando le arteriole si dilatano, mentre diminuisce quando le
arteriole si contraggono. In molti tessuti è stato osservato che i vasi arteriosi possono contrarsi al punto di
obliterare il proprio lume. In queste condizioni, la pressione capillare raggiunge valori molto bassi fino a
eguagliare la pressione delle venule. La diffusione di 02 e di CO2 si determina in accordo con le differenti
pressioni. La pressione di 02 è di circa 90 mmHg nelle arteriole e di 40 mmHg nell'interstizio. Una parte di 02,
che viene ceduta dal sangue arterioso per differenza pressoria, viene captata dalle vene che corrono
parallele alle arteriole terminali. A livello capillare la pressione di 02 è inferiore rispetto a quella arteriolare,
ma superiore a quella interstiziale, facilitando così l'ulteriore cessione di 0 2 dal sangue all'interstizio. La CO2,
prodotta dal metabolismo cellulare, ha una pressione di 46 mmHg nell'interstizio, in condizioni di riposo, e
di 40 mmHg nel capillare. Pertanto, la CO2 passa dall'interstizio nel capillare, per essere trasportata al
polmone.

Circoli speciali

Il sangue espulso dal ventricolo sinistro viene distribuito ai diversi organi per mezzo di rami dell'aorta che
danno origine a specifici circoli distrettuali posti tra loro in parallelo. A parità di pressione di perfusione, il
controllo del flusso ematico in questi distretti circolatori e, quindi, in ultima analisi, il controllo della
distribuzione periferica della gittata cardiaca dipendono essenzialmente dalla regolazione delle resistenze
arteriolari locali. Ai circoli distrettuali appartengono la circolazione coronarica, la circolazione muscolare, la
circolazione cutanea, la circolazione splancnica e quella cerebrale. La circolazione coronaria irrora il
miocardio attraverso le ramificazioni delle arterie coronarie destra e sinistra. A riposo il flusso ematico è
mediamente di 60-80 ml/min/100 g di tessuto circa il 5% della gittata cardiaca, il valore aumenta
notevolmente durante l’attività fisica, raggiungendo i 200-300 ml/min/ 100 g di tessuto. Il tessuto
miocardico rappresenta in condizioni di riposo la componente a maggior consumo d’ossigeno, esso infatti
preleva dal circolo il 70% dell’ossigeno totale. La circolazione muscolare irrora i muscoli scheletrici
attraverso un gran numero di arterie. I muscoli fasici che rappresentano il 75% della massa muscolare, a
riposo hanno un flusso ematico di 2-3 ml/min/100 g di tessuto, durante l’attività fisica può aumentare fino
a 60-70 ml/min/100 g. I muscoli tonici che rappresentano il 25% della massa muscolare, a riposo ricevono
un flusso ematico di circa 15 ml/min/ 100 g di tessuto, durante l’attività fisica 150 ml/min/100 g di tessuto.
In condizioni di riposo la muscolatura riceve il 20% della gittata cardiaca, durante l’attività fisica raggiunge
anche l’80%. La circolazione cutanea assicura l’irrorazione della cute, attraverso una serie di arterie
disposte tra il derma e il tessuto sottocutaneo. Poiché il trasferimento del calore dall’interno dell’organismo
alla cute viene assicurato dalla circolazione, il flusso ematico cutaneo può presentare variazioni notevoli in
rapporto alle necessità di termo-dispersione. Da un valore di circa 10-20 ml/min/100 g di tessuto, il flusso
può ridursi a un valore minimo di 1 ml/min/100 g di tessuto o aumentare fino a valori massimi di 150-200
ml/min/100 g di tessuto. Il controllo del flusso ematico cutaneo in rapporto alle esigenze di
termoregolazione è effettuato essenzialmente da centri localizzati nell'ipotalamo anteriore e posteriore.
Variazioni anche modeste della temperatura del sangue rilevate da termocettori centrali rappresentano lo
stimolo adeguato in grado di attivare le risposte termo-regolative necessarie. In ambiente caldo si ha
vasodilatazione cutanea, con conseguente aumento della dispersione di calore, mentre in ambiente freddo
si ha vasocostrizione e, quindi, riduzione della dispersione di calore. La circolazione splancnica è costituita
dall'insieme dei vasi che irrorano lo stomaco, l'intestino, la milza, il pancreas e il fegato ed è alimentata da
tre arterie principali che originano dalla porzione addominale dell'aorta: l’arteria celiaca, l'arteria
mesenterica superiore e l'arteria mesenterica inferiore. Dall'arteria celiaca dipartono l'arteria gastrica
sinistra, diretta allo stomaco, l'arteria lienale, che irrora la milza, e l'arteria epatica, che irrora il
fegato. L'arteria mesenterica superiore fornisce sangue allo stomaco, attraverso l'arteria gastrica destra, al
pancreas, attraverso l'arteria pancreatica, all'intestino tenue, attraverso le arterie ileali, e al crasso a monte
della flessura colica di destra, attraverso l'arteria ileocolica e l'arteria colica destra. Infine, l'arteria
mesenterica inferiore irrora la porzione restante dell'intestino crasso. Oltre che dall'arteria epatica, posta in
parallelo con gli altri vasi arteriosi, il fegato è irrorato anche dalla vena porta, che drena il sangue venoso
refluo dal tratto gastrointestinale e che quindi è disposta in serie rispetto al circolo gastrointestinale. Il
sangue venoso della vena porta, che rappresenta circa il 70% del sangue che giunge al fegato, si mescola
con quello arterioso dell'arteria epatica a livello dei sinusoidi epatici. Da questi origina la vena epatica che
confluisce nella vena cava inferiore. Il circolo splancnico presenta a riposo un flusso ematico di 1.500-1.800
ml/min circa il 30% della gittata cardiaca, di cui 1/3 è data dalla circolazione intestinale. Gran parte
dell’irrorazione intestinale è assicurata dall’arteria mesenterica superiore. Esso dà origine a vasi arteriolari
che costituiscono una rete nella sottomucosa intestinale. Dai vasi arteriolari dipartono vasi che penetrano
nello strato muscolo e nello strato muscolare longitudinale, formando arteriole di terzo e quarto grado.
L’irrorazione del villo intestinale è assicurata da un’arteriola di terzo ordine, che sale verso l’apice del villo
dove si sfiocca in una rete di capillari fenestrati. La circolazione cerebrale assicura l’irrorazione
dell’encefalo, al quale giunge un flusso ematico di 750-1000 ml/min, il 15% della gittata cardiaca.

Emostasi

L'emostasi consiste in una serie di reazioni biochimiche e cellulari, sequenziali e sinergiche, finalizzate a
impedire la perdita di sangue dai vasi. Si tratta di un meccanismo di difesa, che si autoregola, deputato al
mantenimento dell'integrità dei vasi sanguigni e della fluidità del sangue. I sistemi che partecipano al
processo emostatico sono quattro: i vasi e i costituenti della parete vascolare, le piastrine, la cascata
enzimatica della coagulazione e il sistema fibrinolitico. Le piastrine (o trombociti) sono piccoli elementi
corpuscolati, privi di sostanza nucleare e quindi non da considerare elementi cellulari in senso classico. Le
piastrine sono prodotte nel midollo osseo da grandi elementi cellulari detti megacariociti (50-100 µm di
diametro) a nucleo denso e poliploide. Le piastrine contengono i granuli α, δ e λ. I granuli α contengono il
fibrinogeno, il fattore von Willebrand, il fattore V, la fibronectina, il fattore quarto piastrinico, la
trombospondina e i fattori di crescita. I granuli δ contengono istamina, serotonina, Ca 2+, ADP e ATP. I granuli
λ contengono idrolasi lisosomiali e perossisomi. Pertanto il processo emostatico può essere suddiviso in
quattro fasi: vascolare, piastrinica, coagulativa e fibrinolitica, tenendo presente che i vari sistemi coinvolti
si influenzano vicendevolmente, agiscono in parallelo e sono intimamente interconnessi.

Fase vascolare

Il primo evento che si verifica nell'emostasi è una costrizione vascolare a livello della zona lesa. I
meccanismi di vasocostrizione sono più efficienti nei vasi dotati di una spessa tunica vascolare con
presenza di cellule muscolari lisce, ma avvengono anche a livello dei capillari a opera di proteine
contrattili presenti nel le cellule endoteliali. La vasocostrizione è dovuta a vari fattori:

1. risposta diretta delle fibrocellule muscolari allo stiramento provocato dal trauma;

2. riflesso neurovegetativo vasomotore da parte dei nerva vasorum;

3. liberazione locale di sostanze vasocostrittrici a opera prima delle cellule endoteliali come
l’endotelina, la cui secrezione è inibita dal flusso turbolento del sangue in condizioni fisiologiche e,
in fase più tardiva, dalle piastrine con la liberazione di serotonina.

Questo processo sarebbe di scarsa utilità se non intervenissero le piastrine con i processi di adesione,
aggregazione e liberazione di vari fattori dai propri granuli e, in caso di lesioni estese, il sistema della
coagulazione. La fase vascolare è comunque estremamente importante perché permette di ridurre il
deflusso di sangue attraverso il vaso danneggiato, riducendo l'entità dell'emorragia e facilita i fenomeni di
marginazione delle piastrine, con conseguente loro attivazione.

Fase piastrinica

In seguito al danno vascolare, le piastrine sono esposte al sottoendotelio, cioè collagene, proteoglicani,
fibronectina e altre glicoproteine, e ciò ne determina l'attivazione. La risposta piastrinica comporta
mutamenti di ordine biochimico, strutturale e morfologico delle piastrine stesse. Essa è dovuta
all'intervento coordinato della membrana, dei granuli e del citoscheletro e può essere suddivisa in varie
fasi: adesione, cambiamento di forma, secrezione dei granuli e aggregazione.

1. Per adesione s'intende la capacità delle piastrine di legarsi al sottoendotelio esposto in seguito al
danno endoteliale, essenzialmente al collagene. Ciò determina l’attivazione piastrinica con innesco
delle vie di trasduzione del segnale. Il processo di adesione, come pure l'aggregazione piastrinica,
dipende dalla presenza di molecole di adesione presenti sulla superficie delle piastrine, che per la
maggior parte, appartengono alla superfamiglia delle integrine. L’integrina GPla può stabilire
direttamente dei legami con il collagene, promuovendo l’aderenza delle piastrine al sottoendotelio.
Questo iniziale processo di adesione non è però sufficiente a impedire la rimozione delle piastrine
adese da parte della corrente sanguigna. Perché si abbia un'adesione più stabile, è necessario
l'intervento di un'altra molecola di adesione, che non è un'integrina, ma una glicoproteina ricca di
leucina, denominata GPlb. Questa ha la capacità di legare un fattore solubile chiamato, dal nome
del suo scopritore, fattore di von Willebrand, prodotto dalle cellule endoteliali stesse. Esso
costituisce, interagendo con il collagene esposto, un ponte fra la molecola GPlb delle piastrine e il
sottoendotelio.

2. Con l'adesione delle piastrine al sottoendotelio, nel punto di lesione viene generata una cascata di
segnali che porta al cambiamento di forma delle piastrine stesse e alla reazione di liberazione del
contenuto dei granuli piastrinici. Il cambiamento di forma consiste in una veloce trasformazione
dalla classica forma discoidale della piastrina circolante a riposo a una forma irregolarmente sferica,
con pseudopodi, fino a rendere possibile il contatto tra piastrine vicine.

3. Il legame con il collagene attiva le piastrine che rilasciano il contenuto dei loro granuli
citoplasmatici, tra cui un ruolo chiave è giocato dalla serotonina (5-idrossitriptamina), I'ADP e dal
fattore attivante le piastrine (PAF). Il PAF avvia un ciclo a retroazione positiva che porta
all'ulteriore attivazione di piastrine. Il PAF innesca in modo autocrino una via di segnalazione che
converte i fosfolipidi della membrana piastrinica in trombossano A. La serotonina e il trombossano
A, sono dei vasocostrittori. Essi promuovono anche l'aggregazione piastrinica insieme all'ADP e al
PAF.

4. La fase successiva comporta l’aggregazione. Con questo termine si indica l’adesione fra piastrine
attivate e segue immediatamente l’adesione e la secrezione. È necessario sottolineare la differenza
con l'agglutinazione piastrinica, in cui le piastrine aderiscono l’una all’altra non in seguito ad
attivazione, ma per intervento di agenti che talvolta le fanno agglomerare passivamente, quali
anticorpi e virus. Le piastrine attivate possono legarsi fra loro grazie alla esposizione dei recettori
del fibrinogeno. Il fibrinogeno si lega ai recettori di piastrine adiacenti formando dei veri e propri
“ponti” tra piastrina e piastrina e porta quindi alla formazione di aggregati piastrinici.

Fase di coagulazione

Il sistema della coagulazione è il terzo componente del processo emostatico e porta alla formazione del
coagulo insolubile di fibrina, derivante dalla trasformazione del precursore plasmatico solubile
fibrinogeno. Il processo della coagulazione è inteso come un semplice “meccanismo a cascata enzimatica”
che interessa, in modo ordinato e sequenziale, l’attivazione dei vari fattori della coagulazione da una
forma inattiva a una forma enzimaticamente attiva. Secondo questa teoria, esistono due vie, intrinseca ed
estrinseca che convergono in una via comune quando viene attivato il fattore X.

1. Via intrinseca: La via intrinseca della coagulazione inizia quando il sangue viene a contatto con
superfici cariche negativamente, come in seguito a danno delle cellule endoteliali con conseguente
esposizione delle molecole trombogeniche con cariche negative del sottoendotelio. Le cariche
negative convertono il fattore XII nella forma attiva XIIa. Il fattore XII attivato agisce
enzimaticamente e attiva il fattore XI. Il fattore XI attivato agisce successivamente con meccanismo
enzimatico sul fattore IX, che viene così attivato. Questa reazione richiede ioni calcio. Sempre in
presenza di ioni calcio, il fattore IX attivato, agendo di concerto con il fattore VIII, con i fosfolipidi
piastrinici e con il fattore III liberato dalle piastrine traumatizzate, attiva il fattore X.

2. Via estrinseca: Nella via estrinseca il tessuto traumatizzato libera un complesso di vari fattori
detti tromboplastina tessutale (o fattore III). Il complesso lipoproteico del fattore tessutale si
unisce a costituire un nuovo complesso con il fattore VII della coagulazione, e in presenza di ioni
calcio (fattore IV) agisce enzimaticamente sul fattore X formando il fattore X attivo.

3. Via comune: la via comune porta alla formazione di trombina, l'enzima che converte il fibrinogeno
in un polimero di fibrina insolubile. Le fibre di fibrina s'intrecciano con il tappo piastrinico e
intrappolano i globuli rossi all'interno della loro rete. Il fattore X attivo si unisce immediatamente
coi fosfolipidi disponibili che fanno parte della tromboplastina tessutale o che vengono liberati dalle
piastrine, nonché con la proaccelerina (o fattore V), formando il complesso designato
come attivatore della protrombina. Questo, nel giro di pochi secondi scinde la protrombina
liberando trombina.

Fase fibrinolitica
Il coagulo è solo una soluzione temporanea. Mentre la parete del vaso danneggiato si autoripara
lentamente, il coagulo si disgrega. Ciò avviene attraverso la conversione del plasminogeno, proenzima
plasmatico inattivo, in plasmina, enzima proteolitico attivo. La plasmina così prodotta demolisce la fibrina,
dando origine a prodotti di degradazione solubili e quindi alla lisi del coagulo di fibrina.

Fattori della coagulazione K-dipendenti

La sintesi dei fattori della coagulazione avviene nel fegato, mentre le cellule endoteliali sintetizzano il vWF.
La vitamina K è essenziale non tanto per la sintesi epatica di alcuni fattori della coagulazione (FII, FVII, FIX e
FX) e di due glicoproteine, le proteine C e S con attività anticoagulante, quanto per completare la loro
struttura mediante l'aggiunta di un carbossile, dopo che la sintesi epatica della proteina è già stata
completata. In assenza di questa vitamina i fattori continuano a essere sintetizzati e conservano le proprietà
immunologiche, ma sono biologicamente inattivi.

Test diagnostici

Gli esami della coagulazione servono a valutare se il processo di formazione del coagulo è idoneo
all’arresto di eventuali sanguinamenti o se è eccedente e rischia di formare trombi ed emboli. I principali
esami di laboratorio per lo studio dell’attività di coagulazione del sangue sono: il tempo di protrombina
(PT), il tempo di tromboplastina parziale e attivato (PTT e aPTT) e il tempo trombina. Il tempo di
protrombina è un'analisi di laboratorio, che quantifica il tempo necessario alla formazione di un coagulo
nella via estrinseca. A tale scopo, vengono addizionate specifiche sostanze al campione, come citrato, calcio
e tromboplastina tissutale. In condizioni normali, il tempo di protrombina varia indicativamente dagli 11 ai
13 secondi, in relazione alle metodiche analitiche adottate. Il più delle volte, comunque, il tempo di
protrombina viene espresso mediante un indice detto INR (International Normalized Ratio), che tiene conto
della sensibilità del reagente tromboplastinico utilizzato. In questo modo, il medico può valutare i risultati
in modo accurato, anche quando provengono da laboratori che sfruttano differenti metodiche di
determinazione. In condizioni normali, il valore ottimale di INR è compreso tra 0,9 e 1,3. Tuttavia, in base
alle caratteristiche del paziente e alle necessità terapeutiche, il medico può stabilire valori ottimali di INR
superiori; per esempio, in caso di fibrillazione atriale o nella prevenzione della trombosi venosa, l'INR ideale
è compreso tra 2 e 3, mentre nei pazienti portatori di protesi valvolare meccanica l'INR adeguato è un po'
più alto, tra 2,5 e 3,5. Valori superiori sono indice di carenza dei fattori VII, X, V, II e fibrinogeno. L’esame è
fondamentale per valutare la sintesi epatica dei fattori della coagulazione ed i deficit di vitamina K. Il tempo
di trombina (TT) valuta la parte del processo emostatico nella quale il fibrinogeno viene convertito in
frammenti di fibrina. Esso misura il tempo necessario alla formazione del coagulo di fibrina in seguito
all’aggiunta al plasma in esame di quantità note di trombina.

Generalità apparato respiratorio

L'insieme dei processi che determina lo scambio di gas tra l'aria atmosferica e l'ambiente alveolare e tra
questo e il sangue viene indicato come respirazione esterna o ventilazione polmonare. Questa è distinta
dalla respirazione tissutale e dalla respirazione cellulare vera e propria, corrispondenti all'insieme dei
processi mediante i quali i tessuti rimuovono e consumano l'ossigeno reso disponibile dal trasporto ematico
e delle reazioni che consentono alla cellula di utilizzare l'ossigeno per la produzione metabolica di acqua, di
anidride carbonica e di energia sotto forma di ATP. L’apparato respiratorio è costituito dalle vie aree e dai
polmoni.

 Le vie aeree sono rappresentate dalle strutture anatomiche che consentono all’aria esterna di
essere ritmicamente immessa o espulsa. Le vie respiratorie si distinguono in superiori e inferiori.
Fanno parte delle prime il naso esterno, le cavità nasali, i seni paranasali e la parte nasale della
faringe. Le vie aeree inferiori sono costituite dal condotto laringotracheale e dalla porzione
intrapolmonare dell’albero bronchiale. Lo scheletro osseo o cartilagineo che si trova nella parete
delle vie aerifere superiori e inferiori fa sì che esse rimangano costantemente pervie, facilitando il
passaggio dell’aria. La mucosa che ne tappezza le pareti, oltre alla funzione di rivestimento, ha
anche quella di riscaldare, data la sua ricca vascolarizzazione, di umidificare, per mezzo della
secrezione delle sue ghiandole e di filtrare, per mezzo del muco che arresta il pulviscolo
atmosferico e del movimento delle ciglia che lo convoglia verso l’esterno, l’aria inspirata prima che
raggiunga l’area respiratoria.
 I polmoni invece sono organi parenchimatosi, accolti nella cavità toracica a livello delle logge
polmonari, lateralmente al mediastino, in cui avvengono gli scambi gassosi fra aria e sangue. La
gabbia toracica è formata da un complesso osteo-atro-muscolare che si presenta come
un’impalcatura ossea provvista di un’apertura superiore e di una inferiore e che delimita un’ampia
cavità viscerale nella quale trovano posto le logge pleuropolmonari lateralmente e il mediastino al
centro, separate inferiormente dall’addome mediante il diaframma. Lo scheletro della gabbia
toracica è formato dorsalmente dal segmento toracico della colonna vertebrale, con il quale si
articolano 12 paia di coste che per la maggior parte sono completate in avanti dalle cartilagini
costali; la gabbia è chiusa anteriormente da un osso impari e mediano, lo sterno. I muscoli del
torace si distinguono in muscoli intrinseci e muscoli estrinseci a seconda della sede in cui sono
situati i loro punti di origine e di inserzione. I muscoli intrinseci sono: i muscoli elevatori delle coste,
i muscoli intercostali, i muscoli sottocostali e il muscolo trasverso del torace. I muscoli elevatori
delle coste con la loro azione elevano le coste e sono pertanto muscoli inspiratori. I muscoli
intercostali contraendosi, elevano ed abbassano le coste; sono, pertanto, muscoli inspiratori ed
espiratori. I muscoli sottocostali agiscono abbassando le coste; sono, quindi, muscoli espiratori. Il
muscolo trasverso del torace contraendosi, abbassa le cartilagini costali; pertanto, è un muscolo
espiratorio. I polmoni sono avvolti dalle pleure, membrane sierose, distinte in un foglietto viscerale,
che riveste la superficie dell’organo e un foglietto parietale, che è disteso sulle pareti delle logge
pleuropolmonari. Tra i due foglietti è presente un sottile velo liquido, il liquido pleurico, che risulta
fondamentale nel meccanismo di espansione del polmone. I polmoni dell’adulto, in stato di media
distensione, hanno un diametro verticale massimo di 25-26 cm, un diametro sagittale alla base di
16 cm, un diametro trasverso alla base di 10-11 cm a destra, di 7-8 cm a sinistra. Nella femmina
questi valori risultano lievemente inferiori rispetto al maschio. Il volume, nel cadavere dopo
l’apertura del torace, è di 1600 cm3 circa nel maschio, di 1300 cm3 circa nella femmina. Il polmone
destro è più voluminoso del sinistro, con un rapporto di 11:10. La quantità d’aria che può essere
contenuta nei polmoni viene espressa come capacità polmonare. Nel vivente la capacità è diversa
secondo la fase della respirazione. In una inspirazione ordinaria i polmoni possono contenere 3400-
3700 cm3 di aria, mentre in una inspirazione forzata la capacità polmonare può raggiungere i 5000-
6000 cm3. L’aria respiratoria, cioè la quantità di aria che viene inalata ed emessa con una
inspirazione ed espirazione normale, è di circa 500 cm3. L’unità anatomo-funzionale del polmone è
l’alveolo. L’alveolo polmonare ha la parete costituita da un epitelio di rivestimento (epitelio
alveolare) e da un sottostante strato connettivale ricco in capillari. L’epitelio alveolare è semplice e
nell’insieme appiattito. Vi si distinguono due tipi di cellule, pneumociti di I tipo e pneumociti di II
tipo. Oltre alle cellule epiteliali possono inoltre trovarsi, nella parete dell’alveolo o nella cavità,
macrofagi che provengono dai setti inter-alveolari. Gli pneumociti di tipo I sono cellule lamellari,
molto estese che ricoprono circa il 90% della superficie alveolare. Gli pneumociti di tipo II sono
cellule rotondeggianti contenenti inclusioni citoplasmatiche dette corpi multilamellari. Tali
formazioni contengono lipoproteine ad azione surfactante; questi materiali, secreti dagli
pneumociti, si stratificano sulla superficie interna dell’alveolo e mantengono dilatati gli alveoli,
permettendo l’utilizzazione massima della superficie respiratoria alveolare ai fini degli scambi
gassosi tra aria e sangue.

Suddivisione funzionale apparato respiratorio

È possibile distinguere nell’apparato respiratorio una zona di conduzione ove non avvengono veri e propri
scambi respiratori, rappresentata dalle cavità nasali, dalla faringe, dalla laringe, dalla trachea e dai grossi
bronchi e una zona respiratoria propriamente detta, a livello degli alveoli polmonari, dove avviene lo
scambio dei gas respiratori.

 La zona di conduzione, oltre alla pura funzione di condotto per il movimento dell'aria, svolge altri
compiti essenziali: riscaldamento e umidificazione dell'aria inspirata, grazie al contatto dell'aria in
movimento con la mucosa fortemente vascolarizzata delle vie aeree superiori e all'evaporazione del
velo liquido continuamente prodotto assieme al muco e che ricopre tutto l'epitelio delle vie aeree;
ripartizione omogenea del flusso d'aria alle zone più profonde del polmone, grazie alla regolazione
del calibro delle vie aeree mediante meccanismi che agiscono sulla muscolatura liscia presente
nelle pareti; difesa da agenti esterni come polveri, batteri, gas tossici o irritanti. La funzione di
difesa è collegata, nelle vie aeree della zona di conduzione, alla presenza di epitelio ciliato, alla cui
superficie sboccano i dotti di ghiandole mucose. Lo strato di muco viscoso che così si forma ingloba
le particelle estranee e viene spinto dal battito delle ciglia verso la cavità orale, dove è espulso
mediante colpi di tosse o deglutito. I segmenti più distali della zona di conduzione esercitano,
inoltre, una specifica funzione di difesa contro le infezioni grazie alla presenza di linfociti e
plasmacellule. L’area pertanto attraversa le cavità nasali, giunge alla rinofaringe mediante le coane,
procede verso il basso in direzione dell’adito laringeo, percorrendo un tragitto comune al bolo
alimentare. Raggiunto il lume laringeo, discende nella trachea e si divide nei bronchi principali, i
quali a loro volta costituiscono una tipica arborizzazione nel parenchima polmonare del proprio
lato.
 Le ultime sette generazioni di ramificazioni dell'albero bronchiale, che costituiscono la zona
respiratoria, sono composte quasi esclusivamente da dotti alveolari e da alveoli. Gli alveoli non
sono forniti di muco ed epitelio ciliato, che comporterebbero un aumento dello spessore della
barriera che i gas devono attraversare, per cui la funzione di difesa dal deposito di particelle
estranee è esercitata dai macrofagi alveolari.

Funzione apparato respiratorio

Tra le funzioni non respiratorie dell’apparato respiratorio vanno considerate le funzioni di difesa, una serie
di funzioni chimico-metaboliche orientate soprattutto alla captazione e trasformazione di sostanze
presenti nel torrente ematico, funzioni emodinamiche della circolazione polmonare, integrate con le
esigenze della circolazione sistemica, funzioni di filtro del sangue refluo dalle vene cave e la fonazione.

 Funzioni chimico-metaboliche: oltre a svolgere compiti essenziali per la respirazione, il parenchima


polmonare capta e converte sostanze vasoattive presenti nel sangue venoso misto proveniente dal
cuore destro e produce, immagazzina e rilascia sostanze utilizzate localmente o in altri distretti
corporei. Per quanto riguarda le sostanze vasoattive si ritiene che l'inattivazione, la trasformazione
e l'eventuale rimozione dal sangue di molte di esse siano operate dall'endotelio dei vasi della
circolazione polmonare, che costituisce un'enorme superficie di contatto con il sangue venoso
misto affluente al polmone. L’endotelio dei vasi consente una filtrazione selettiva dal lume vasale al
lume alveolare, pertanto è possibile rimuovere completamente dal sangue alcune sostanze, come
le prostaglandine E1, E2, mentre rimangono inalterate le concentrazioni delle prostaglandine A 1, A2 e
I2. Allo stesso modo viene rimosso dai polmoni circa il 30% della noradrenalina presente nel sangue
venoso misto, mentre non sono modificate le quantità di adrenalina presenti in circolo.
 Funzioni emodinamiche: essendo la circolazione polmonare strategicamente situata tra vene e
arterie, tutto il sangue proveniente dal ventricolo destro si distribuisce sulla vastissima superficie
del letto capillare polmonare, consentendo ai polmoni di agire non solo come sede di
metabolizzazione di costituenti ematici vasoattivi, ma anche come serbatoio e filtro della massa
ematica circolante. La funzione di serbatoio si esercita sui circa 300 ml di sangue per metro
quadrato di superficie corporea, accolti in ogni istante nel letto vascolare polmonare grazie alla sua
elevata complianza. Nella circolazione polmonare dell'adulto sono quindi presenti circa 500 ml di
sangue. Di conseguenza, all'insorgenza di situazioni che richiedano un aumento rapido della gittata
del ventricolo sinistro, questa può, per alcuni battiti, assumere valori superiori a quelli del ritorno
venoso sistemico utilizzando il serbatoio “di riserva” costituito dal volume ematico contenuto nella
circolazione polmonare.
 Funzione filtrante: il circolo polmonare agisce inoltre come un filtro, proteggendo la circolazione
sistemica dalle sostanze che si riversano nel sangue venoso in seguito non solo a processi fisiologici,
ma anche a traumi o altre patologie. Poiché il numero dei capillari polmonari è normalmente
maggiore del numero di capillari reclutati e attivi ai fini degli scambi gassosi, la momentanea
occlusione di alcuni di essi da parte di elementi provenienti dal circolo venoso non produce danni
apprezzabili alla funzione respiratoria. Gli elementi estranei intrappolati nei capillari polmonari
sono in genere rimossi in pochi giorni mediante sia digestione enzimatica sia ingestione da parte
dei macrofagi e attraverso l'azione del sistema linfatico.

Atti respiratori

La ventilazione polmonare avviene attraverso gli atti respiratori di inspirazione ed espirazione. Perché l'aria
si muova verso l'interno dei polmoni è necessario che la pressione all'interno di questi diventi inferiore a
quella atmosferica. Questo risultato è ottenuto mediante l'attività dei muscoli inspiratori che determina un
aumento del volume del torace con conseguente riduzione della pressione interna. Nell'inspirazione
tranquilla un tale incremento di volume è dovuto principalmente alla contrazione del muscolo diaframma.
Durante l'inspirazione la contrazione del diaframma fa sì che esso si appiattisca e spinga verso il basso i
visceri addominali, allontanandosi dalla superficie interna della parte bassa della parete toracica.
Nell'inspirazione tranquilla il diaframma si abbassa di 1-2 cm, ma questo valore può superare i 10 cm
nell'inspirazione forzata, con corrispondenti aumenti del volume della cavità toracica da 200-400 ml
nell'inspirazione tranquilla fino a 2.000 4.000 ml nell'inspirazione forzata. Questo dipende dalla contrazione
dei muscoli intercostali esterni e scaleni, la quale produce una rotazione delle coste verso l'alto e l'esterno,
con aumento dei diametri sia antero-posteriore sia trasversale del torace. Nell’inspirazione forzata il ruolo
di questi muscoli è coadiuvato dal muscolo sternocleidomastoideo. Al termine dell'inspirazione, il
diaframma si rilascia, assume la propria posizione di riposo e in ciò è favorito dalla spinta verso l'alto dei
visceri addominali, le coste si abbassano, tutti i diametri del torace si riducono e l'aria esce dal polmone.
Nel respiro tranquillo ciò è dovuto a un puro ritorno elastico delle strutture anatomiche verso l'assetto
precedente all'inspirazione, con incremento di pressione dell'aria all'interno del polmone rispetto alla
pressione atmosferica e sua conseguente fuoriuscita. Nell'espirazione forzata entrano in attività i muscoli
espiratori, rappresentati dai muscoli della parete addominale e intercostali interni.

Parametri

Il volume d'aria che entra ed esce dai polmoni in un singolo respiro non forzato è chiamato volume
corrente (VC): è circa 500 ml in condizioni di riposo e può notevolmente aumentare in rapporto al livello di
attività fisica e “psichica”. Il volume d'aria ulteriore che può entrare nei polmoni in un'inspirazione forzata,
dopo un’inspirazione tranquilla è chiamato volume di riserva inspiratoria (VRI) e ammonta a 2.500-3.000
ml. Il volume ulteriore che può essere espirato in un'espirazione forzata, al termine di un’espirazione
tranquilla prende il nome di volume di riserva espiratoria (VRE) e ammonta a 1.100-1.300 ml. Al termine di
un'espirazione massimale, nei polmoni permane un volume residuo (VR) d'aria, di circa 1.100-1.500 ml,
dovuto alla rigidità delle pareti toraciche, che fa sì che il volume della cavità toracica non possa ridursi oltre
un certo limite. La capacità inspiratoria è il volume di aria massimo inspirabile a partire dalla fine di una
normale espirazione. È data dalla somma tra il volume corrente e il volume di riserva inspiratoria, per un
valore di circa 3500 ml (CI= VC+VRI). La capacità vitale forzata (CVF) corrisponde alla massima quantità di
aria mobilizzata in un atto respiratorio massimale ed è data dalla somma del volume di riserva inspiratoria,
del volume di riserva espiratoria e del volume corrente (CV: VC+VRI+VRE). La capacità polmonare totale
(CPT) corrisponde al volume totale d’aria contenuto nei polmoni al termine di un’inspirazione massimale ed
è dato dalla somma tra il volume corrente e la capacità vitale (CPT= VC+CV). La capacità funzionale residua
(CFR) corrisponde al volume d’aria che è presente nei polmoni al termine dell’espirazione, in un soggetto
che respira tranquillamente e corrisponde alla somma tra volume residuo e volume di riserva espiratoria
(CFR= VR+VRE). La frequenza respiratoria corrisponde al numero di atti respiratori al minuto. A riposo sono
10-18/min. La durata del singolo ciclo respiratorio è di 4s. Lo spazio morto anatomico rappresenta il
volume costituito da cavità nasali, bocca, laringe, faringe e vie aree di conduzione. Ammonta a circa 150 ml.
Tuttavia in condizioni prevalentemente patologiche a causa o di una mancata funzionalità degli alveoli o di
una perfusione sanguigna inappropriata, si parla anche di spazio morto fisiologico e corrisponde alla
quantità di aria non coinvolta negli scambi e accolta negli alveoli polmonari. Lo spazio morto totale
pertanto è dato dalla somma dello spazio morto anatomico e dello spazio morto fisiologico, in condizioni
patologiche, in condizioni fisiologiche, lo spazio morto fisiologico si aggira attorno al valore di 0, pertanto lo
spazio morto anatomico coinciderebbe con lo spazio morto totale. La ventilazione polmonare (VP) è la
quantità d’aria che viene inspirata ed espirata ogni minuto. Ammonta a 6-9 l/min ed è data dal prodotto tra
la frequenza respiratoria e il volume corrente (VP= FR∙VC). La ventilazione dello spazio morto (VSM) è la
quantità d’aria, pari a 5250 ml che entra ed esce nello spazio morto al minuto. La ventilazione alveolare
corrisponde alla quantità di aria che entra ed esce ogni minuto dallo spazio alveolare e assume un valore di
4,2 l/min. La ventilazione alveolare può essere espressa dalla seguente formula: V A =f (V c −V D ), dove V c
rappresenta il volume corrente, V D lo spazio morto anatomico. In meccanica respiratoria, oltre ai valori
rappresenta ti dalle pressioni all'interno di una data struttura, assume enorme importanza la pressione
transmurale, o pressione a cavallo di una determinata struttura. Le pressioni transmurali più usate sono la
pressione transpolmonare e transtoracica. La pressione transpolmonare (Pp) mantiene disteso l'alveolo
polmonare. Pp è convenzionalmente data dalla differenza tra la pressione endoalveolare e quella
endotoracica. Quando le vie aeree sono aperte e il flusso d'aria è zero, la pressione alveolare è nulla, quindi
la pressione transpolmonare eguaglia il valore assoluto della pressione endopleurica. L'alveolo polmonare e
le piccole vie aeree sono mantenuti distesi da una pressione transpolmonare positiva di +5 cmH 20. Pp, a un
dato volume polmonare, esprime la forza di retrazione elastica del polmone. La pressione transtoracica (PT)
mantiene espansa la gabbia toracica. Essa è convenzionalmente data dalla differenza tra la pressione
endopleurica e la pressione atmosferica.

Resistenze

Per mobilizzare aria dal sistema respiratorio, l’attività dei muscoli respiratori deve vincere le resistenze al
moto dipendenti dal polmone stesso e da tutte le strutture che compongono la parete toracica. A riposo,
con un volume corrente di 500 ml, l'energia spesa dai muscoli respiratori è dovuta sostanzialmente a
vincere la resistenza elastica offerta dal sistema toraco-polmonare all'espansione. L'energia è necessaria a
espandere le strutture elastiche del polmone e gli alveoli polmonari per garantire l'ingresso dell'aria.
Durante l'espirazione, l'energia immagazzinata nella precedente fase inspiratoria è restituita, grazie al
ritorno delle strutture elastiche, alla condizione di equilibrio. In tal modo, l'inspirazione risulta essere un
meccanismo attivo, con dispendio energetico, mentre l'espirazione è del tutto passiva. Con l'aumentare
della ventilazione polmonare, sostenuta da incrementi del volume corrente e della frequenza respiratoria,
la spesa energetica aumenta, in quanto l'entità della deformazione che il sistema toraco-polmonare subisce
è maggiore e, oltre a vincere la resistenza elastica, i muscoli respiratori devono vincere anche le resistenze
che l'aria incontra nel passare attraverso le vie aeree, le resistenze viscose. A queste vanno aggiunte le
resistenze inerziali, dovute all’accelerazione che subisce il tessuto stesso. La resistenza elastica in fisiologia
respiratoria è descritta dalla compliance o distensibilità, che misura la facilità con cui un corpo elastico può
essere stirato. La compliance (C) è data da:

∆V
C=
∆P
Dove ∆ V è la differenza di volume e ∆ P la differenza di pressione. Alla compliance si oppone l’attività del
surfattante. La molecola di surfattante possiede due estremità, una idrofobica e una idrofila, che si
dispongono alla superficie del velo liquido in modo tale da respingersi, annullando o riducendo il normale
effetto di attrazione delle molecole superficiali di un liquido, attrazione che rappresenta proprio la tensione
superficiale. La tensione superficiale è una forza che si origina in corrispondenza della zona di confine fra
gas e liquido e che è direzionata verso l’interno. Gli effetti del surfattante sull'alveolo polmonare sono
molteplici. Innanzitutto, esso previene il collasso degli alveoli più piccoli in quelli più grandi come dovrebbe
verificarsi in base alla legge di Laplace. In effetti, l'alveolo è una struttura paragonabile a una bolla di
sapone, circondata da tessuto elastico e collagene. Le proprietà della bolla di sapone sono enunciate dalla
legge di Laplace per la sfera che, nella forma più semplice e intuitiva, mette in relazione la pressione della
bolla e il suo raggio di curvatura attraverso un fattore T, che rappresenta la tensione della parete:

2T
P=
r
La bolla tende a contrarsi il più possibile, formando una sfera e generando una pressione al proprio interno
che è inversamente proporzionale al raggio: quanto minore è il raggio, tanto maggiore è la pressione. Se
una bolla piccola e una grande hanno un punto di contatto, la piccola tenderà per la legge di Laplace a
sgonfiarsi nella grande. Nel polmone gli alveoli anche contigui non hanno la stessa dimensione e, pertanto, i
più piccoli tenderebbero a collassare e quelli di maggiori dimensioni a e spandersi ulteriormente. Questo
pericolo è scongiurato dal fatto che la tensione superficiale non è uguale in tutti gli alveoli, grazie alla
diversa concentrazione del surfattante. Infatti, riducendosi il raggio e quindi il volume dell'alveolo, la
concentrazione del surfattante aumenta ed esplica una più intensa attività nel ridurre la tensione
superficiale. Quando l'aria entra in un alveolo e inizia l'espansione, si verifica una rarefazione delle
molecole di surfattante e un conseguente aumento della tensione superficiale, per cui l'alveolo offre una
maggiore resistenza alla propria ulteriore espansione. Si tratta di una sorta di meccanismo a feedback
negativo che tende a stabilizzare gli alveoli piccoli e grandi tra loro comunicanti, rendendo più omogeneo il
sistema. Un altro ruolo fondamentale del surfattante è quello di ridurre la compliance di tutto il polmone,
riducendo quindi la forza richiesta ai muscoli respiratori per creare la pressione endoalveolare necessaria
per l'inspirazione.

Pressioni

L’ingresso e l’uscita dell’aria dal polmone avvengono sulla base di cicliche variazioni di pressioni, generate
dai muscoli respiratori che devono vincere le resistenze elastiche delle diverse componenti toraco-
polmonari, le resistenze viscose, dovute al flusso d’aria nelle vie aeree e le resistenze inerziali, dovute al
passaggio dallo stato di quiete a quello di moto dei vari tessuti che compongono l’apparato respiratorio. Le
pressioni in gioco sono la pressione endopleurica, la pressione atmosferica e la pressione endoalveolare.
 La pressione endopleurica è la pressione calcolata nello spazio pleurico, regione virtuale,
funzionalmente comunicante con gli spazi interstiziali viscerale e parietale attraverso i foglietti
mesoteliali viscerali e parietali che rivestono, rispettivamente, polmone e superficie interna della
parete toracica. Nello spazio pleurico è contenuto liquido pleurico. Il liquido si forma per filtrazione
dai capillari sotto-pleurici, in maggior misura a livello dei capillari che vascolarizzano la pleura
parietale. Gran parte del liquido è riassorbito dall'aspirazione attiva che si verifica a livello di
appositi stomi linfatici della pleura parietale che, attraverso valvole unidirezionali, convogliano il
liquido in un plesso sotto-mesoteliale di lacune linfatiche e, di qui, a canalicoli e dotti collettori fino
ai linfonodi. Grazie al grande numero di stomi linfatici presenti sulla pleura parietale, l'attività di
aspirazione del liquido da parte del sistema linfatico è molto intensa e può produrre pressioni
nettamente subatmosferiche che hanno un ruolo importante nel mantenere in stato di adesione i
due foglietti pleurici e nel consentire in tal modo il movimento solidale del polmone e della parete
della gabbia toracica. Nello spazio pleurico la pressione è negativa e assume in condizioni di riposo
un valore di -5 cmH2O. Ad opporsi alla pressione endopleurica vi sono l’estensibilità del polmone e
l’attività dei muscoli inspiratori. La componente elastica del parenchima polmonare tenderebbe a
diminuire il proprio volume, conservando un volume residuo d’aria di circa 300 ml. Questo significa
che, quando il polmone è alloggiato nella cavità toracica, su esso agiscono forze che lo mantengono
a un volume superiore al volume corrispondente al puro equilibrio tra le forze elastiche del
parenchima e il contenuto d’aria. In antitesi l’azione dei muscoli inspiratori tenderebbe ad
aumentare il volume della cavità toracica. Si avrebbe, dall’azione combinata di entrambi i fattori lo
scollamento dei foglietti pleurici parietale e viscerale. Queste forze tendenti a dilatare lo spazio
pleurico sono comunque inferiori alle forze di aspirazione del liquido pleurico, che producono
l’adesione a ventosa del polmone alla parete della cavità toracica, per cui, non potendosi avere il
distacco dei due foglietti, tra essi si instaura una pressione negativa rispetto a quella atmosferica.
 La pressione atmosferica è considerata, in modo arbitrario pari a 0
 La pressione endoalveolare o intrapolmonare è la pressione esercitata dall’aria sulla parete degli
alveoli.
Ciclo respiratorio

L’immissione e l’espulsione di aria sono eventi determinati da variazioni di pressione e di volume, esplicate
matematicamente dalla legge di Boyle per i gas perfetti. In termodinamica la legge di Boyle afferma che in
condizioni di temperatura costante la pressione di un gas perfetto è inversamente proporzionale al suo
volume, ovvero che il prodotto della pressione del gas per il volume da esso occupato è costante. Pertanto
aumenti della pressione determinano una riduzione proporzionale del volume, è valido il contrario. Prima
che inizi l'inspirazione i muscoli respiratori sono completamente rilasciati e pertanto il volume del sistema
toraco-polmonare si trova nella sua posizione d'equilibrio a capacità funzionale residua. La pressione
endopleurica è -5 cmH2O, il flusso d'aria è necessariamente zero e quindi le resistenze sono nulle. La
pressione endoalveolare è uguale a quella atmosferica e pertanto pari a 0. Con l'inspirazione, la contrazione
dei muscoli provoca un abbassamento del diaframma e un aumento dei diametri anteroposteriori,
laterolaterali e verticali della parete toracica. L'espansione della parete toracica trascina con sé il polmone e
ciò causa una maggiore negativizzazione della pressione endopleurica ed endoalveolare. All’aumento di
negatività endopleurica concorrono due fattori: il primo dovuto alla maggiore distensione del polmone con
conseguente incremento della sua forza di retrazione elastica; il secondo è dovuto alla resistenza offerta
dalle vie aeree al flusso d'aria e si accompagna a una diminuzione della pressione all'interno degli alveoli
stessi. La diminuzione della pressione endoalveolare sotto quella atmosferica ad un valore di -1 cmH 2O
costituisce il gradiente pressorio che promuove il flusso d'aria diretto verso l'interno e il conseguente
incremento di 500 ml del volume d'aria nel polmone. Il termine dell'inspirazione è rappresentato dalla
cessazione della contrazione dei muscoli inspiratori, che rimangono per un istante contratti prima di inizia
re il rilasciamento. Non essendoci ulteriore distensione dell'alveolo ed essendo l'aria già entrata nell'alveolo
stesso, il gradiente pressorio ambiente-alveolo si annulla, la pressione alveolare ritorna uguale a quella
ambiente e il flusso d'aria si annulla. L'espirazione non è altro che la restituzione dell'energia
immagazzinata nell'inspirazione. Infatti la tendenza al collasso del polmone dovuta alle sue componenti
elastiche è sufficiente a ridurre il volume dell'alveolo creando in esso una pressione positiva, di valore +1
cmH2O che genera il gradiente pressorio alveolo-ambiente con conseguente fuoriuscita d'aria. La pressione
endopleurica invece ritorna a valori pressori meno negativi.

Circolo polmonare

Il polmone è provvisto di due circolazioni: una circolazione ad alta pressione e a flusso ridotto e una
circolazione a bassa pressione e a flusso elevato. La circolazione sistemica ad alta pressione e a flusso
ridotto irrora con sangue arterioso la trachea, l’albero bronchiale, compresi i bronchioli terminali, i tessuti
polmonari e la tonaca avventizia delle arterie e vene polmonari. Le arterie bronchiali, diramazioni
dell’aorta toracica, forniscono la maggior parte di questo apporto ematico arterioso con una pressione
appena inferiore alla pressione aortica. La circolazione polmonare a bassa pressione e a flusso elevato
trasporta il sangue venoso proveniente dai tessuti ai capillari alveolari per il ricambio dei gas respiratori. Il
piccolo circolo inizia dal ventricolo destro con il tronco polmonare che, biforcandosi nelle due arterie
polmonari, trasporta il sangue venoso ai polmoni. Le ultime diramazioni delle arterie polmonari si risolvono
in una rete di capillari addossata alla parete degli alveoli polmonari. Il sangue venoso, attraversando questa
rete, cede all’aria degli alveoli anidride carbonica e assume ossigeno; divenuto così arterioso, il sangue
ritorna al cuore attraverso le quattro vene polmonari che sboccano nell’atrio sinistro. La fase iniziale della
circolazione polmonare a bassa pressione, avviene con la sistole del ventricolo destro a pressione sistolica
di 25 mmHg. Dopo la chiusura della valvola polmonare, la pressione arteriosa diminuisce attraversando
dapprima il tronco polmonare, poi le arterie polmonare fino ai gomitoli di capillari che circondano
l’apparato alveolare. Nel soggetto normale la pressione dell’arteria polmonare coincide pressocché alla
pressione sistolica del ventricolo dx, la pressione diastolica è circa 8 mmHg, mentre la pressione media si
aggira attorno ai 15 mmHg. Il volume di sangue destinato al circolo polmonare a bassa pressione è di circa
450 ml, ovvero il 9% del volume totale di sangue dell’intero sistema circolatorio. Di questo volume, una
percentuale corrispondente a 70 ml è contenuta nei capillari polmonari, mentre il volume restante è
pressoché equamente suddiviso tra arterie e vene. A causa della pressione idrostatica, definita come la
forza esercitata da un fluido in quiete sull'unità di superficie, in posizione eretta, si osservano delle lievi
variazioni della pressione arteriosa polmonare, che risulta maggiore nella base polmonare, minore nel suo
apice. Ciò è spiegato dall’azione della forza di gravità sul peso delle colonne di sangue contenute nei vasi,
che si oppone alla pressione arteriosa, diretta con verso opposto. Pertanto ad altezze variabili nel polmone,
si distinguono delle regioni, dette zone, in cui la perfusione del sangue del circolo a bassa pressione ha
comportamenti unici. Nel complesso si individuano 3 zone:

 Zona 1: in cui si ha un’assenza totale di flusso sanguigno in tutte le fasi del ciclo cardiaco in quanto
la pressione alveolare risulta sempre maggiore della pressione a livello dei capillari polmonari.
Pertanto l’espansione degli alveoli comprime le pareti dei capillari e annulla quasi totalmente il
flusso sanguigno.
 Zona 2: in cui il flusso sanguigno è intermittente e si verifica soltanto quando la pressione
nell’arteria polmonare è vicina al valore sistolico, perché solo in questa fase del ciclo cardiaco la
pressione del sangue supera la pressione alveolare, mentre durante la diastole è più bassa.
 Zona 3: in cui il flusso sanguigno è continuo, perché la pressione capillare è maggiore di quella
alveolare durante tutto il ciclo cardiaco ed è in accordo con il regime di Poiseuille.
Nel polmone normale, generalmente, sono presenti solo regioni che hanno il comportamento delle zone 2
e 3. Nel soggetto in posizione eretta infatti si osserva una pressione arteriosa polmonare all’apice del
polmone di 10 mmHg, il cui valore è calcolato sottraendo alla pressione sistolica del ventricolo dx di 25
mmHg, la pressione idrostatica di 15 mmHg. Questi 10 mmHg di pressione sanguigna a livello apicale sono
più alti della pressione alveolare, così durante la sistole il sangue fluisce attraverso i vasi delle regioni apicali
del polmone. Al contrario, durante la diastole la pressione arteriosa polmonare, di 8 mmHg a livello del
cuore, non è sufficiente a far superare al sangue il gradiente pressorio idrostatico di 15 mmHg e perciò il
sangue non riesce a fluire nei capillari delle porzioni apicali del polmone.

Gas respiratori e leggi fisiche

I gas respiratori, composti da ossigeno, anidride carbonica e azoto, seguono l'equazione di stato dei gas,
che è espressa dalla formula:

PV=nRT

dove P rappresenta la pressione, V il volume, n il numero delle molecole del gas, R la costante dei gas e T la
temperatura assoluta. Questa formula risulta dalla combinazione delle leggi di Boyle, di Charles e di Gay-
Lussac, che, in effetti, sono casi particolari della stessa legge quando una o più delle variabili considerate
sono costanti.

La legge di Boyle esprime un rapporto di proporzionalità inversa tra volume e pressione assoluta di un gas
perfetto a temperatura costante.

PV=k

Per la legge di Charles, a pressione costante il volume di un gas è proporzionale alla temperatura assoluta.

V
=k
T
Per la legge di Gay-Lussac, a volume s e numero di molecole costanti, la pressione esercitata da un gas varia
proporzionalmente alla temperatura assoluta.

P
=k
T
I gas respiratori sono in accordo con la legge di Dalton che afferma che quando due o più gas vengono
mescolati in un recipiente, senza che tra essi avvenga alcuna reazione chimica, la pressione totale esercitata
dalla miscela gassosa è uguale alla somma delle pressioni parziali esercitate dai singoli componenti.

La CO2 e l'O2 hanno un'elevata solubilità nei liquidi. In accordo con la legge di Henry, la quantità di gas
disciolta in un liquido è proporzionale alla pressione parziale del gas in equilibrio con la fase liquida. La CO 2
è più solubile dell’O2, ragion per cui a parità di pressione parziale la quantità di CO2 disciolta sarà maggiore.

Pressioni parziali dei gas

L'aria atmosferica è costituita da 02 per il 20,95%, N2 per il 79,01% e CO2 per lo 0,04%. La pressione totale
esercitata da questa miscela di gas è detta pressione atmosferica o barometrica e, a livello del mare, è di
760 mmHg, se la temperatura è di 0°C e non è presente umidità. Si dice allora che l'aria si trova in
condizione di temperatura e pressione standard e di secchezza (standard temperature and pressure, dry,
STPD), dove la temperatura e la pressione standard corrispondono appunto rispettivamente a 0 °C e a 760
mmHg. Risulta evidente che ciascun gas contribuisce a determinare la pressione totale della miscela in
modo direttamente proporzionale alla propria percentuale nella miscela stessa. Le pressioni parziali
saranno date da quelle percentuali riferite a 760 mmHg. Pertanto, la pressione parziale di 0 2 sarà pari a
20,95% di 760 mmHg, cioè 159 mmHg; la pressione parziale di N2 a 79,01% di 760 mmHg, cioè 596 mmHg;
la pressione parziale di CO2 a 0,04% di 760 mmHg, cioè 0,3 mmHg, un valore decisamente trascurabile.
L'aria che viene respirata, tuttavia, ha in genere una temperatura diversa da 0 °C e contiene una certa
quantità di vapore acqueo. Anche la pressione dell'aria atmosferica secca può essere diversa da 760 mmHg
per esempio in montagna o al mare durante giornate di bassa pressione. Diventa allora necessario
considerare anche l'aria a temperatura ambiente e a pressione satura con vapore acqueo (ambient
temperature and pressure saturated, ATPS). Rimanendo invariate le concentrazioni dei vari gas rispetto
all'aria secca, è chiaro che per ogni valore di ATPS, si avranno valori diversi delle pressioni parziali.

Negli alveoli la temperatura è di 37 °C, la pressione totale della miscela di gas, in condizione di riposo
respiratorio (flusso uguale a zero), è identica a quella atmosferica e l'aria è satura di vapore acqueo (body
temperature and pressure saturated with water vapor, BTPS). Il vapore acqueo alla temperatura di 37 °C ha
una pressione di 47 mmHg qualunque sia la pressione totale della miscela a cui è aggiunto e qualunque sia,
quindi, la pressione barometrica. Pertanto, se la pressione totale di 02, N2 e CO2 e vapore acqueo negli
alveoli è di 760 mmHg, 02, N2 e CO2 eserciteranno una pressione totale di 760 – 47, cioè 713 mmHg. A
questo valore dovrà essere riferita la loro concentrazione per il calcolo delle pressioni parziali. Le
percentuali di 02, N2 e CO2 nell'aria alveolare so no diverse rispetto a quelle dell'aria atmosferica. Infatti il
sangue che attraversa i capillari polmonari assume continuamente 02, diminuendone la concentrazione
negli alveoli, e cede CO2, aumentandone la concentra zione negli alveoli. A causa di questi scambi negli
alveoli, O2 ha una concentrazione di circa il 15%; N2 di circa l'80% e la CO2 di circa il 5%, con ampie variazioni
individuali.

La concentrazione e la pressione parziale dei gas nell’aria espirata sono diverse da quelle riscontrate sia
nell’aria inspirata sia nell’aria alveolare. Infatti, poiché dei 500 ml d’aria espirata, 350 ml provengono dagli
alveoli e 150 dallo spazio morto, l’aria espirata ha rispetto all’aria alveolare una concentrazione più elevata
in O2 e più bassa in CO2.

Scambi gassosi

Gli scambi gassosi di CO2 e 02 avvengono a livello delle unità funzionali del polmone, gli alveoli, in numero di
300-400 milioni in un uomo adulto, in stretta connessione con una serie di ramificazioni terminali
dell’arteria polmonare e della vena polmonare. La barriera di scambio ha uno spessore di circa 0,5
micrometri ed è costituita da una serie di strati che dal lume alveolare al lume vasale sono:

1. uno strato liquido che riveste l'alveolo, in cui è presente il fattore surfattante;
2. l'epitelio alveolare, costituito da un sottile strato di cellule piatte. Nell'epitelio alveolare si
distinguono pneumociti di I e II tipo;
3. la membrana basale dell'epitelio;
4. uno spazio interstiziale, molto ridotto, tra parete del capillare ed epitelio alveolare;
5. la membrana basale del capillare, la quale in varie zone si fonde con la membrana basale
dell'epitelio;
6. l'endotelio capillare.
Il movimento dei gas attraverso la membrana alveolo-capillare dipende dal gradiente di pressione dei gas,
dalla solubilità dei gas nei liquidi, dal peso molecolare del gas e dalle proprietà della membrana ed è
regolato dalla legge di Fick sulla diffusione, espressa dalla formula seguente:

SA
V gas=D gas (P1−P2)
d
dove Vgas è il volume di gas che diffonde nell'unità di tempo; Dgas, il coefficiente di diffusione del gas; d, la
distanza da percorrere, cioè lo spessore medio della membrana; SA, l'area della superficie di scambio; P 1 -
P2, la pressione parziale dei gas ai due lati della membrana. Secondo la legge di Fick le quantità di 02 e CO2
trasferite nell'unità di tempo rispettivamente dall'alveolo al sangue e dal sangue all'alveolo,
rispettivamente l’O2 consumato e la CO2 prodotta, sono influenzate da:

1. gradiente delle pressioni parziali dei gas negli alveoli e nel sangue capillare;
2. spessore della membrana alveolo-capillare;
3. area della superficie di scambio;
4. coefficiente di diffusione dei gas.
Altri fattori che non appaiono nell'equazione, pur essendo molto importanti, sono:

1. tempo di contatto o permanenza del sangue sulla superficie di scambio;


2. volume di sangue esposto sulla superficie di scambio.
Il gradiente pressorio espresso dalla legge di Fick è dato dalla differenza tra PO2 e PCO2 nell'area alveolare e
nel sangue venoso dei capillari polmonari. La PO2, nell'area alveolare media (a riposo a livello del mare) è di
100 mmHg, mentre quella del sangue venoso misto contenuto nei capillari polmonari è di circa 40 mmHg.
Poiché gli scambi gassosi avvengono secondo gradienti di pressione, l'O2 passa dagli alveoli al sangue. Al
contrario, la CO2 passa dal sangue venoso, dove ha una pressione di 46 mmHg, all'area alveolare, dove la
PCO2 è di 40 mmHg. Mentre per l’O2 gli scambi sono legati a un gradiente pressorio di 60 mmHg, per la CO2
essi avvengono per un gradiente di soli 6 mmHg, a causa della maggiore diffusibilità della CO2.

Trasporto dei gas nel sangue

Nel sangue O2 e CO2 possono essere trasportate in soluzione fisica, legate a molecole trasportatrici o in
forma combinata. Tuttavia la quantità di O2 trasportato legata all’emoglobina è preponderante rispetto alla
quota fisicamente disciolta. Al contrario la CO2 è trasportata in gran parte sotto forma di ione bicarbonato
(HCO3-).

Trasporto ossigeno

L’O2 che nei polmoni passa dall'aria alveolare al sangue viene trasportato in due differenti forme:
combinato all'Hb presente nei globuli rossi o fisicamente disciolto nel sangue (plasma ed eritrociti). A causa
della sua bassa solubilità, solo il 2% dellO2 viene trasportato in forma di soluzione fisica; il restante 98% è
trasportato come 02 legato a Hb.

Emoglobina

L’emoglobina è una proteina tetramerica di 64000 Da, costituita da 4 subunità, due subunità α e due
subunità β, ciascuna contenente il gruppo prostetico eme. L’eme è formato da una struttura organica ad
anello, la protoporfirina, che a sua volta è costituita da 4 anelli pirrolici uniti da ponti metinici. Al centro
della protoporfirina vi è un atomo di ferro allo stato ferroso (Fe2+). L’atomo di ferro forma 6 legami di
coordinazione, 4 dei quali sono impegnati con gli atomi di azoto dell’anello porfirinico, 1 legame di
coordinazione, perpendicolare al piano dell’anello, con un residuo di istidina in posizione 93, denominata
His prossimale o His F8 (quinta posizione di coordinazione) e 1 legame di coordinazione con l’ossigeno
(sesta posizione di coordinazione). I legami di coordinazione con l’azoto impediscono la conversione del
ferro dell’eme nello stato ferrico (Fe3+). Alla struttura tetrapirrolica si aggiungono gruppi metilici (-CH3),
gruppi vinilici (-CH=CH2) e due gruppi propionici (-CH2-CH2-COOH). La reversibilità del legame tra il ferro del
gruppo eme e l’ossigeno è garantita dall’istidina distale 64 o His E7, presente sullo stesso lato dell’eme a cui
si lega l’ossigeno. L’istidina distale è troppo lontana per generare un legame di coordinazione con il ferro
ma può interagire con il ligando legato all’eme. Determina infatti la formazione di un angolo di legame tra
l’ossigeno e il ferro che ne riduce l’affinità e ne garantisce la reversibilità. La struttura quaternaria
dell'emoglobina è caratterizzata da interazioni molto forti tra le quattro subunità. L’interfaccia α 1β1 (come la
sua controparte α2β2) comprende circa 30 residui ed è sufficientemente forte da resistere a blandi
trattamenti denaturanti. Le interfacce α1β2 e α2β1 comprendono 19 residui e l’interazione quindi è
notevolmente più debole. Nello stato di deossiemoglobina lo ione ferroso si trova circa 0,4 Å all’esterno del
piano porfirinico, in quanto quest’ultimo assume una forma a cupola e pertanto induce il ferro a protrudere
dal piano dal lato dell’istidina prossimale. Il legame della molecola di ossigeno al sesto sito di coordinazione
dello ione ferroso provoca un notevole riordinamento della struttura. Il gruppo eme assume una
conformazione più planare, data anche dalla rientranza dello ione ferroso. La struttura quaternaria della
forma deossigenata dell’emoglobina viene spesso denominata stato T (T sta per tense, «teso») perché le
quattro subunità vengono tenute saldamente unite l’una all’altra da interazioni non covalenti. La struttura
quaternaria dell’emoglobina totalmente ossigenata viene invece denominata stato R (R sta per relaxed,
«rilassato»). Il passaggio dallo stato T allo stato R è determinato dall’interazione dell’ossigeno con lo ione
ferroso. Il legame dell’ossigeno fa sì che ciascun atomo di ferro dell’emoglobina si sposti dall’esterno del
piano nel piano della porfirina. Quando l’atomo di ferro si muove, insieme a esso si muove anche il residuo
di istidina legato alla quinta valenza di coordinazione. Questo residuo di istidina fa parte di un’α-elica, l’elica
F, che quindi si muoverà a sua volta. L’estremità carbossi-terminale dell’elica F è coinvolta nella formazione
di importanti interazioni nelle interfacce dei dimeri αβ e perciò determina delle modifiche nella
conformazione complessiva della molecola.

Curva di saturazione emoglobina

Le cinetiche di ossigenazione della mioglobina e dell’emoglobina sono differenti, data la notevole differenza
strutturale di entrambe le molecole. Le caratteristiche di legame dell’ossigeno vengono descritte dalla
curva di legame dell’ossigeno (detta anche curva di saturazione dell’ossigeno), un grafico in cui la
saturazione frazionale viene riportata in funzione della concentrazione dell’ossigeno. La saturazione
frazionale, l’ordinata del grafico o frazione dei siti di legame occupati dal ligando, ϑ, è definita come la
percentuale dei siti di legame occupati dall’ossigeno rispetto al totale dei siti di legame. Il valore di Y varia
da 0 (tutti i siti sono vuoti) a 1 (tutti i siti sono occupati). La concentrazione dell’ossigeno viene
convenientemente riportata sotto forma di pressione parziale dell’ossigeno, pO2. Nel caso della mioglobina
la curva di saturazione è di tipo iperbolica. Si noti che il valore della saturazione frazionale della mioglobina
aumenta rapidamente all’aumentare della pO2, fino a mantenersi costante ed arrivare asintoticamente a
saturazione quando la concentrazione parziale dell’ossigeno continua ad aumentare. Il valore della
pressione parziale di ossigeno al quale corrispondono metà dei siti di legami occupati dall’ossigeno, P 50 è di
2 Torr (mm Hg). Quindi, per logica, più è alto il valore di P50, più l’affinità per l’ossigeno è ridotta. La
pressione parziale dell’ossigeno nei polmoni è 100 Torr. Man mano che si va negli altri tessuti, essa
diminuisce. In un tessuto a riposo, la P50 è circa 40 Torr, mentre quando il tessuto è in azione, la P50 si riduce
a 20 Torr. In un muscolo a riposo dove la P50 è 40 Torr, la mioglobina lega l’ossigeno e lo tiene legato.
Quando l’attività del muscolo riprende, l’affinità della mioglobina per l’ossigeno si riduce, quindi l’ossigeno
che era legato, viene rilasciato. Perché la mioglobina rilasci la metà dell’ossigeno attaccato, la P 50 deve
scendere a 2 Torr. La P50 ha valore 2 Torr solo in caso di estrema difficoltà. Questo meccanismo è dovuto
alla sua alta affinità per l’ossigeno. Per questa ragione la mioglobina è un’eccellente riserva di ossigeno per
il muscolo, ma sarebbe un pessimo trasportatore di ossigeno per l’organismo, dato che non lo rilascia a
meno che la P50 non abbia il valore di 2 Torr. Nell’emoglobina cambia la cinetica di legame dell’ossigeno. La
curva di saturazione è differente ed ha un andamento sigmoidale. In particolare la sigmoidicità della curva
di ossigenazione dell’emoglobina suggerisce che, una volta che l’ossigeno si lega a uno dei quattro possibili
siti di legame, aumenta la probabilità che esso si leghi a uno degli altri tre siti. Analogamente, il distacco
dell’ossigeno da uno dei gruppi eme facilita il distacco dell’ossigeno dagli altri tre. Questo meccanismo di
legame viene detto cooperativo. Il significato fisiologico del legame cooperativo sta nel fatto che
l’emoglobina ha la necessità di formare legami con l’ossigeno di tipo reversibile e poco stabile. A pressioni
parziali dell’ossigeno molto basse, l’emoglobina non lega l’ossigeno, avendo un’affinità più bassa della
mioglobina ed un P50 più elevato del valore di 26 Torr, aumentando gradualmente la concentrazione di
ossigeno gassoso, si ha un ripido e drastico aumento della saturazione dell’emoglobina. Aumenti ulteriori
della pressione parziale dell’ossigeno non determinano dei sensibili incrementi della saturazione della
proteina, perciò la curva sigmoidale si avvicina asintoticamente alla completa saturazione.

Fattori che modificano l’affinità

Un cambiamento dell’affinità di Hb per O2 provoca uno spostamento della curva di saturazione. Uno
spostamento a destra indica una diminuzione dell’affinità, uno spostamento a sinistra un aumento
dell’affinità. Spostamenti a sinistra sono determinati da un aumento del pH, da una diminuzione della PCO 2,
della temperatura e della concentrazione dell’acido 2,3 difosfoglicerico (2,3 DFG). Spostamenti a destra
sono determinati da una diminuzione del pH, e da aumenti della PCO2, della temperatura e della
concentrazione del 2,3 DFG. Spostamenti a sinistra o a destra della curva di saturazione provocano
variazioni della pressione di semi saturazione (P50), cioè del valore di PO2, al quale ciascuna molecola di Hb
presenta una saturazione del 50%. La P50, che normalmente si ha a valori di PO2 di circa 27 mmHg, è una
misura molto attendibile dell'entità dello spostamento a sinistra o a destra della curva. In caso di
spostamento a destra, infatti, essa aumenta in seguito alla diminuzione dell'affinità di Hb per O 2; in caso di
spostamento a sinistra, essa diminuisce per la ragione opposta. La dipendenza della curva di dissociazione
dell’Hb dal pH e dalla PCO2, prende il nome di effetto Bohr. Uno spostamento della curva a destra si verifica
nei tessuti, dove, soprattutto in seguito alla diminuzione del pH e all'aumento della PCO2, grandi quantità di
O2 possono essere liberate da Hb anche in assenza di notevoli variazioni della PO2. Nel polmone, dove il pH
aumenta e la PCO2, diminuisce, l'affinità dell’Hb per l’O2 aumenta nuovamente, consentendo il
“caricamento” della molecola. L’età è una variabile importante che influisce sulla percentuale di
saturazione dell’Hb, in età anziana si assiste infatti ad una diminuzione nella saturazione, contrapposta alla
saturazione elevata durante l’età giovanile.

Pulsossimetria
La pulsossimetria è una particolare metodica, indiretta e non invasiva, che consente di misurare la
saturazione di ossigeno nel sangue del paziente; più nel dettaglio, questo esame consente di determinare la
saturazione in ossigeno dell'emoglobina presente nel sangue arterioso. Oltre ai dati relativi alla saturazione
di ossigeno nel sangue, la pulsossimetria è in grado di fornire indicazioni circa altri parametri vitali del
paziente, quali la frequenza cardiaca, la curva pletismografica e l'indice di perfusione. La pulsossimetria
viene praticata attraverso l'impiego di un apposito strumento chiamato "pulsossimetro". In genere è
formato da una sonda a forma di pinza, disposta su un dito che effettua la misurazione e da un'unità che
calcola e visualizza il risultato della misurazione. Il principio di funzionamento su cui si basa il saturimetro è
quello della spettrofotometria. La sonda, infatti presenta due diodi foto emittenti su un braccio della pinza
ed un rilevatore sul braccio opposto. I due diodi emettono fasci di luce a precise lunghezze d'onda che
ricadono nell'intervallo della luce rossa e infrarossa (rispettivamente, 660 nm e 940 nm). Supponendo che
la sonda del saturimetro venga posizionata sul dito del paziente, i fasci luminosi emessi dalle due sorgenti
attraverseranno tutti i tessuti dello stesso, fino a giungere al rilevatore posizionato sull'altro braccio della
stessa sonda, all'estremità opposta del dito. Durante il tragitto effettuato dalle radiazioni luminose, queste
vengono assorbite dall'emoglobina: l'emoglobina legata all'ossigeno assorbe soprattutto la luce infrarossa,
la deossiemoglobina, invece, assorbe soprattutto la luce rossa. Sfruttando questa differenza di
assorbimento fra ossiemoglobina e deossiemoglobina, misurando e analizzando la differenza fra la quantità
di radiazione luminosa emessa dai diodi e quella finale rilevata dal rilevatore, l'unità di calcolo è in grado di
elaborare e infine fornire il valore di saturazione di ossigeno che verrà visualizzato sul monitor.

Trasporto anidride carbonica

La CO2 prodotta dal metabolismo cellulare giunge ai polmoni veicolata dal sangue e, attraverso i polmoni,
viene eliminata nell'ambiente. Nel sangue, la CO2 viene trasportata in tre forme principali:

1. disciolta in soluzione fisica: la quantità di CO2 fisicamente disciolta nel plasma e nei globuli rossi
segue la legge di Henry e costituisce il 5% circa della CO2 presente nel sangue arterioso.
2. sotto forma di ione bicarbonato: lo ione bicarbonato nel sangue si forma soprattutto attraverso
due vie, via di dissociazione dell'acido carbonico e dell’idratazione della CO2. Come ione
bicarbonato viene trasportato il 90% della CO2 del sangue arterioso.
3. come composti carbaminici, formati per interazione della CO2 con i gruppi aminici dell'emoglobina
o delle proteine plasmatiche.
Prese nel loro insieme, queste tre forme di trasporto costituiscono la CO2 totale del sangue. La CO2 che
diffonde dai tessuti al sangue arterioso durante il suo passaggio attraverso i capillari sistemici si distribuisce
differentemente fra plasma e globuli rossi: un decimo viene trasportato dal plasma, nove decimi dagli
eritrociti. Il 10% della CO2 trasportata dal plasma rimane in soluzione fisica, mentre il 70% e il 20% si
trasformano rispettivamente in ione bicarbonato e in composti carbaminici. L'anidride carbonica che
diffonde nel globulo rosso viene trasformata per il 60-65% in ione bicarbonato e per 20% circa in composti
carbaminici; la restante CO2 viaggia in soluzione fisica.

Trasporto in soluzione fisica

L'elevata PCO2, dei tessuti determina la diffusione del gas verso il sangue arterioso che così si trasforma in
sangue venoso misto. In quest'ultimo, solo una piccola parte dei gas (~1%) rimane nel plasma allo stato di
soluzione fisica: la maggior parte del la CO2 diffonde nei globuli rossi e forma acido carbonico (H2CO3) o
carbaminoemoglobina.

Trasporto come ione bicarbonato

La CO2, molecola molto liposolubile, non ha difficoltà, una volta entrata nel sangue, ad attraversare la
membrana plasmatica dell'eritrocito. Più del 60% del la CO2 che diffonde all'interno del globulo rosso si
trasforma in acido carbonico. La reazione è catalizzata dall'anidrasi carbonica. La CA è un enzima presente,
oltre che nel globulo rosso, nelle cellule epiteliali del tubulo renale, nel tratto gastroenterico, nel muscolo e
nel sistema nervoso centrale e catalizza, nelle due direzioni, l'idratazione della CO 2:

CO2 + H2O = H2CO3

L'acido carbonico che si forma nell'eritrocito si dissocia rapidamente in H+ e HCO3-. L'aumento della
concentrazione degli ioni bicarbonato all'interno del globulo rosso determina la loro diffusione nel plasma.
Allo scopo di mantenere il gradiente elettrochimico ai due lati della membrana (che sarebbe disturbato
dalla perdita da parte del globulo rosso di ioni negativi e non può essere compensato da una
contemporanea fuoriuscita di cationi per l'impermeabilità della membrana a questi ultimi), l'HCO 3- che
diffonde dall'eritrocito verso il plasma viene scambiato con Cl-. L'idrogenione formato dalla dissociazione
dell'acido carbonico attraversa con estrema difficoltà la membrana del globulo rosso e viene tamponato
dall'emoglobina all'interno della cellula. L'emoglobina è molto con centrata all'interno del globulo rosso e,
quale molecola anfotera, possiede un elevato potere tampone; inoltre, la cessione dell'ossigeno ai tessuti
da parte dell'emoglobina rende l’Hb meno acida, facilitando il legame degli ioni idrogeno alla molecola. Il
legame degli idrogenioni all’Hb è alla base dell'effetto Bohr, che consiste in uno spostamento a destra della
curva di saturazione dell'Hb, in una diminuzione dell'affinità dell’Hb per l'ossigeno e nella cessione ai tessuti
da parte dell'emoglobina di una maggiore quantità di ossigeno a parità di PO2.

Trasporto come composto carbaminico

All'interno del globulo rosso la CO2, oltre a essere idratata ad acido carbonico, può interagire con l'Hb e,
attraverso una reazione che interessa i gruppi aminici (NH2) liberi dell'emoglobina, formare
carbaminoemoglobina:

CO2 + HbNH2 = Hb(NHCOOH)

Curva di saturazione emoglobina

Per l'anidride carbonica trasportata nel sangue è possibile costruire, così come viene fatto per l'ossigeno,
una curva di saturazione, in cui la concentrazione del gas viene messa in rapporto con la sua pressione
parziale. L’affinità del sangue venoso per l’anidride carbonica risiede nella minor acidità del sangue dovuta
alla minor saturazione di emoglobina. Tanto più l’Hb è satura di ossigeno e pertanto acida, minor sarà
l’affinità di quest’ultima per l’anidride carbonica, minor sarà la quantità di bicarbonato prodotto. Al
contrario meno l’Hb è satura di ossigeno, maggiore sarà la possibilità di legare idrogenioni, prodotti dalla
dissociazione dell’acido carbonico, maggiore sarà la quantità di anidride carbonica trasportata. Tale
comportamento è spiegato dall’effetto di Haldane secondo cui la maggior acidità dell’emoglobina legata
all’ossigeno agevola la fase di eliminazione dell’anidride carbonica attraverso due meccanismi: l’emoglobina
più acida ha meno tendenza a legarsi all’anidride carbonica, di conseguenza viene liberata un’alta
percentuale di anidride carbonica; inoltre il pH più acido dell’emoglobina rilascia un maggior numero di ioni
H+ che combinandosi con ioni bicarbonato formano dapprima acido carbonico e successivamente H2O e
CO2, favorendone così il rilascio a livello alveolare.

Rapporto ventilazione-perfusione

La massima efficienza degli scambi gassosi tra aria alveolare e gas ematici si verifica quando ventilazione e
flusso sanguigno si distribuiscono uniformemente in tutte le regioni del polmone. In una condizione ideale ,
l'inspirazione farebbe giungere un volume d'aria uguale e della stessa composizione in ciascuno dei milioni
di alveoli in esso contenuti, in modo che le pressioni parziali alveolari di ossigeno e anidride carbonica
fossero uguali in tutto il polmone. In queste condizioni ideali, il ventricolo destro distribuirebbe flussi uguali
di sangue venoso misto e della stessa composizione ai capillari circondanti ciascun alveolo. Tali condizioni
determinerebbero un’efficienza massima nel ricambio dei gas respiratori, tuttavia, nella realtà ciò non
avviene. Nel polmone reale la ventilazione alveolare e il flusso sanguigno capillare alveolare non sono
distribuiti in modo perfettamente uniforme. Infatti, in una certa misura in condizioni normali, ma
soprattutto in molte malattie polmonari, alcune aree del polmone sono ben ventilate, ma non
adeguatamente perfuse, mentre altre sono perfettamente irrorate, ma poco o per nulla ventilate. L'indice
che tiene conto della ventilazione alveolare e dell'irrorazione polmonare è detto rapporto
ventilazione/perfusione. Con termini matematici, il rapporto ventilazione-perfusione è dato:

V
V = ventilazione, Q = portata sanguigna
Q
La ventilazione è la quantità d'aria che raggiunge gli alveoli in un minuto, mentre la perfusione polmonare è
il flusso ematico al minuto attraverso il circolo polmonare e corrisponde alla gittata cardiaca.
Nell’espressione matematica si fa riferimento alla ventilazione alveolare corrispondente alla quantità di aria
che entra ed esce ogni minuto dallo spazio alveolare. In condizioni di riposo la ventilazione alveolare si
considera pari a 4 l d'aria al minuto, mentre la perfusione corrisponde a 5 l di sangue al minuto; pertanto il
rapporto ventilazione/perfusione è 4/5, cioè 0,8.

Rapporto V/Q nullo

Quando il rapporto V/Q è uguale a zero, cioè in assenza di ventilazione a causa di un'ostruzione delle vie
aeree, l'aria alveolare, non più rinnovata, si equilibra con il sangue venoso misto che scorre nei capillari
alveolari, con il risultato che PO2, e PCO2, saranno rispettivamente di 40 e 46 mmHg e il sangue nei capillari
terminali avrà lo stesso valore di PO2, e PCO2, del sangue venoso misto.

Rapporto V/Q infinito

Il rapporto V/Q in un'unità polmonare può essere aumentato dalla costrizione, dall’ostruzione o
dall'obliterazione dei vasi sanguigni polmonari e quindi la per fusione è ridotta. Pertanto i gas alveolari sono
in equilibrio con l'aria inspirata. L'aria alveolare presente in un'unità polmonare scarsamente perfusa ha
una PO2, relativamente alta e una PCO2, bassa, raggiungono rispettivamente una pressione di 158 mmHg e
0 mmHg, analoga a quella dell’aria inspirata.

Rapporto V/Q normale

Nei soggetti normali in posizione eretta vi sono differenze regionali sia di ventilazione sia di perfusione. La
ventilazione, per motivi dipendenti dalla diversa distensibilità degli alveoli, è maggiore alla base che non
all'apice dei polmoni. L’aria inspirata dal soggetto seduto o in piedi si distribuisce maggiormente per unità
di volume nel parenchima polmonare alla base piuttosto che all’apice del polmone. Questa disomogenea
distribuzione della ventilazione alveolare è dovuta alle caratteristiche anatomiche e funzionali del polmone.
L’alveolo polmonare non possiede una propria impalcatura di sostegno e il suo volume dipende dalla
distensione del polmone. La pressione di -5cmH2O che mantiene il polmone espanso, rappresenta il valore
medio della pressione endopleurica e non un valore assoluto in ogni regione del parenchima polmonare
considerato. Il polmone infatti, essendo privo di una propria impalcatura di sostegno tende ad adagiarsi,
con la base, nella cavità pleurica e contro la cupola frenica. Il suo peso fa sì che la pressione endopleurica,
misurata sperimentalmente alla base della cavità pleurica, risulti inferiore di 2 cmH 2O rispetto al valore
medio. Al contrario, l’apice polmonare è per così dire “appeso” alla volta della cavità pleurica. La pressione
endopleurica apicale è sempre ben più negativa del valore medio, essendo -9 cmH 2O. sulla base del
presupposto che le proprietà elastiche del polmone in toto siano identiche in ogni sua parte, ne discende
che l’alveolo dell’apice polmonare risulta più espanso dell’alveolo alla base, che sopporta il peso della
massa polmonare soprastante. Durante l’inspirazione, una uguale variazione di pressione intrapolmonare
provoca un maggiore incremento di volume ove l’alveolo è meno espanso, quindi alla base piuttosto che
all’apice. Al contrario al termine di un’espirazione, il volume residuo permane negli alveoli apicali ancora
bene distesi, mentre gli alveoli alle basi sono di volume assai ridotto. Il flusso ematico, per motivi
gravitazionali diminuisce procedendo dalla base all’apice.

Parametri che influenzano il rapporto V/Q

I parametri che influenzano il rapporto V/Q sono fattori fisiologici e patologici che decrementano
l’efficienza della ventilazione polmonare e del flusso sanguigno dei capillari polmonari. Con l’età si ha una
degenerazione del parenchima polmonare e in particolar modo della componente elastica che regola la
compliance polmonare. Una riduzione della distensibilità polmonare determina una riduzione nella
capienza ed una minor variazione di volume durante gli atti respiratori, pertanto si assiste ad una riduzione
nella ventilazione polmonare. La ventilazione polmonare è ridotta da aumenti dello spazio morto totale,
che possono derivare a loro volta da un aumento dello spazio morto fisiologico in seguito a ostruzioni
alveolari. La postura invece influisce sostanzialmente nella perfusione. In una postura eretta, la pressione
idrostatica o gravitazionale si oppone alla pressione arteriosa polmonare, pertanto il flusso ematico si
distribuisce maggiormente alla base del polmone, piuttosto che nel suo apice, ad un’altezza maggiore. La
perfusione polmonare è regolata inoltre da comunicazioni fra arterie e vene che si realizzano a livello
precapillare, le anastomosi arterovenose. Il ruolo funzionale delle anastomosi arterovenose è quello di
avviare al territorio capillare situato a valle una maggiore o minore quantità di sangue secondo le necessità
funzionali dei singoli organi e tessuti. In condizioni di riposo funzionale l’apertura delle anastomosi
arterovenose consente il passaggio diretto del sangue dal letto arterioso in quello venoso attuandosi così
un circolo derivativo che salta il distretto capillare. In tal modo si realizza un risparmio circolatorio che
riguarda, di volta in volta, i territori a basso regime funzionale.

Spirometria

La spirometria è il test di funzionalità polmonare più comunemente utilizzato ed è considerato come


componente essenziale nella valutazione medica di pazienti con sintomi e segni respiratori. Permette di
rilevare e quantificare anomalie nella funzione dei polmoni in maniera non invasiva. La spirometria misura
la quantità di aria che viene inalata e la velocità alla quale viene espulsa attraverso una particolare
apparecchiatura chiamata spirometro. Esso consiste in un cilindro rovesciato, detto campana, parzialmente
immerso in una camera riempita di acqua e controbilanciato, all’altra estremità, da un contrappeso. La
campana contiene un gas respiratorio, in genere aria oppure ossigeno; un tubo connette il boccaglio alla
camera piena di gas delimitata dalla campana. Quando un soggetto, attraverso il boccaglio, prima inspira il
gas contenuto nella camera e poi espira dentro di essa, fa muovere verticalmente la campana, prima verso
il basso e poi verso l’alto, imprimendo movimenti reciproci a una penna, collegata al contrappeso, che
scrive su un foglio di carta posto su un rullo rotante, consentendo la registrazione dei movimenti respiratori
in forma di spirogramma. Il paziente è collegato allo spirometro mediante un boccaglio monouso. Il
boccaglio deve aderire completamente alle labbra e si deve utilizzare lo stringinaso per evitare la
respirazione nasale. Si chiede al paziente di respirare a volume corrente (VC) per 2-3 atti respiratori
completi poi di eseguire un’inspirazione massimale fino al volume di riserva inspiratoria (VRI) seguita da
un’espirazione veloce e massimale prolungata fino al raggiungimento del volume di riserva espiratoria
(VRE). I parametri generalmente rilevati nel corso di un esame spirometrico sono:

1. La capacità vitale forzata (FVC): è il massimo volume di aria espirato a partire da un’inspirazione
massimale fino al livello del volume residuo (VR).

2. Il volume espiratorio forzato in 1 secondo (FEV1): è il volume di aria espirato nel primo secondo di
un’espirazione forzata. È il principale indice del grado di ostruzione bronchiale.

3. L’indice di Tiffenau (FEV1/FVC x 100): è il rapporto tra il FEV1 e la FVC.

I parametri ottenuti variano in funzione della postura assunta dal paziente e dell’età.
Regolazione respirazione

La regolazione della respirazione consente di mantenere pressoché costanti la pressione parziale


dell'ossigeno e dell'anidride carbonica del sangue arterioso nonostante la notevole variabilità delle richieste
metaboliche dell'organismo. I meccanismi di controllo della ventilazione devono essere in grado di eseguire
due compiti. Innanzitutto, essi devono fornire lo schema motorio responsabile del ritmo automatico che
porta all'ordinata contrazione dei differenti muscoli respiratori. In secondo luogo, devono rispondere alle
richieste metaboliche, al variare di condizioni meccaniche, per esempio, a cambiamenti della postura, e
all'esigenza di comportamenti non ventilatori, quali fonazione, deglutizione eccetera. Il respiro è prodotto
dalla scarica ritmica dei motoneuroni che innervano una serie di muscoli respiratori. Questa è a propria
volta determinata da impulsi nervosi che ritmicamente provengono da centri sovraspinali che possono
essere regolati da variazioni della PO2, e della PCO2, e dalla concentrazione idrogenionica nel sangue
arterioso.

I muscoli respiratori sono innervati da motoneuroni, i cui pirenofori sono situati a livello dei neuromeri
cervicali C4-C8 e dei neuromeri toracici T1-T7 del midollo spinale. A loro volta i motoneuroni sono in rapporto
sinaptico con fibre provenienti dal midollo allungato e dal ponte; in queste regioni, infatti, sono presenti
neuroni con attività inspiratoria ed espiratoria, reciprocamente connessi dal punto di vista funzionale, che
formano nel loro insieme il centro respiratorio (CR), o centro generatore del ritmo respiratorio. Questi
gruppi di neuroni, caratterizzati da inibizione reciproca e da attività alterna, danno origine al susseguirsi di
atti inspiratori ed espiratori. Il centro respiratorio è suddiviso in due formazioni neuronali principali:

1. Il gruppo respiratorio dorsale, localizzato nella porzione dorsale del bulbo e responsabile,
prevalentemente, dell’inspirazione. Il gruppo respiratorio dorsale svolge il ruolo più importante nel
controllo della respirazione e si estende per quasi tutta la lunghezza del bulbo. La maggior parte dei
neuroni che ne fanno parte è localizzata nel nucleo del tratto solitario (NTS), sebbene altri neuroni
che hanno un ruolo importante nel controllo della respirazione si trovino distribuiti nell’adiacente
formazione reticolare bulbare. Il NTS costituisce la stazione di arrivo delle fibre sensoriali viscerali
provenienti dal ganglio nodoso del nervo vago, dal ganglio petroso del nervo glosso-faringeo, dal
ganglio genicolato del nervo faciale e trasmette al centro respiratorio segnali captati da
chemiocettori periferici, da barocettori e da altri tipi di recettori distribuiti nel sistema respiratorio.
I segnali nervosi che vengono trasmessi ai muscoli inspiratori, soprattutto al diaframma, non sono
scariche istantanee di potenziali d’azione, ma una serie di impulsi a frequenza crescente che
terminano bruscamente dopo circa 2 s, corrispondenti all'inspirazione, successivamente restano
silenti per circa 3 s, durante i quali il ritorno elastico del polmone e del torace determina
l'espirazione. Pertanto, l’attività inspiratoria è un segnale a rampa. Il vantaggio ovvio consiste nel
fatto che essa provoca un incremento graduale e costante del volume polmonare durante
l’inspirazione anziché inspirazioni spasmodiche.
2. Il gruppo respiratorio ventrale, localizzato nella porzione ventro-laterale del bulbo e responsabile,
in prevalenza, dell’espirazione. Il gruppo respiratorio ventrale è localizzato nel bulbo,
bilateralmente, anteriormente e lateralmente al gruppo respiratorio dorsale. I suoi neuroni più
rostrali fanno parte del nucleo ambiguo e quelli più caudali sono contenuti nel nucleo
retroambiguo. I neuroni del gruppo respiratorio ventrale rimangono quasi totalmente inattivi
durante la normale respirazione tranquilla. Quindi, la respirazione normale è dovuta all’attivazione
selettiva e ripetitiva di neuroni del gruppo respiratorio dorsale, i cui segnali attivano, durante
l’inspirazione, soprattutto il diaframma, mentre l’espirazione avviene passivamente per il ritorno
elastico del polmone e della parete toracica. Quando invece il comando erogato aumenta, allo
scopo di intensificare la ventilazione, i segnali respiratori provenienti dal circuito oscillante del
gruppo respiratorio dorsale si propagano ai neuroni respiratori ventrali: allora, anche il gruppo
respiratorio ventrale contribuisce ad aumentare lo stimolo respiratorio.
I centri ritmogenici del bulbo sono in grado di generare un ritmo respiratorio a riposo indipendentemente
da stimoli esterni. Essi tuttavia risentono di un controllo da parte di regioni più rostrali del sistema nervoso
centrale. Il ponte, per esempio, contiene due centri, l'apneustico e lo pneumotassico, che influenzano
l'informazione in uscita dal centro bulbare della ritmicità.

1. Il centro apneustico è costituito da un gruppo di cellule situato caudalmente alle strie acustiche
nella regione inferiore del ponte. Se stimolato, esso determina un tono inspiratorio sostenuto nel
tempo e intervallato da brevi espirazioni, che viene definito apneusi. La funzione dinamica di
questo centro nel ciclo respiratorio è quella di fornire la massima profondità e durata
dell'inspirazione, mentre la frequenza dei cicli respiratori e la profondità dell'espirazione sono
regolate dal centro pneumotassico.
2. Il centro pneumotassico è situato nella regione rostrale del ponte, molto probabilmente nel nucleo
parabrachiale. La sua stimolazione inibisce l'apneusi, ma la sua integrità non è necessaria per un
respiro eupnoico. È generalmente accettato che il centro pneumotassico abbia un ruolo di primo
piano nel regolare la ventilazione in una serie di funzioni vegetative e si ritiene che le cellule che lo
compongono controllino soprattutto la profondità del respiro sulla base delle variazioni della PCO2.
Riflesso di Hering-Breuer

Oltre ai meccanismi di controllo respiratorio operanti interamente nel tronco dell’encefalo, al controllo
della respirazione contribuiscono anche segnali sensoriali provenienti dal polmone, mediante il cosiddetto
riflesso di Hering-Breuer. Il riflesso di Hering-Breuer è alla base del fenomeno per il quale, in seguito a una
distensione del parenchima polmonare, si verifica un atto espiratorio e, viceversa, una desufflazione
polmonare induce un atto inspiratorio. La risposta espiratoria che si ha in seguito a distensione dei polmoni
dipende dalla stimolazione di recettori da stiramento che inibiscono i neuroni inspiratori tronco-encefalici,
mediante il riflesso inibitorio di Hering-Breuer; una distensione massimale attiverebbe, inoltre, anche
nocicettori. Durante una desufflazione del polmone i recettori da stiramento non sono stimolati; viene
quindi a mancare il loro effetto inibitorio sul centro inspiratorio tronco-encefalico e si verifica
un'espirazione mediante un riflesso eccitatorio di Hering-Breuer.

Chemiocettori centrali e periferici

L’azione dei neuroni dei centri respiratori viene regolata a sua volta dalla pressione alveolare di O 2, dalla
pressione alveolare di CO2, nonché dal pH del sangue e del liquor cefalorachidiano (LCR), attraverso una
serie di chemiocettori centrali e periferici che ne captano eventuali variazioni. Tutti questi valori sono
influenzati dalla ventilazione e dagli scambi gassosi a livello polmonare e tissutale e regolano, a propria
volta, le funzioni respiratoria e circolatoria. In tal modo si stabilisce un circuito chiuso a feedback negativo,
in cui gli eventi di regolazione, tra loro concatenati, mantengono dei parametri fisiologici entro un certo
range di valori.

1. I chemiocettori centrali rispondono principalmente all’ipercapnia, che si presenta, in genere, sotto


la forma di acidosi respiratoria. Il 60% dell’anidride carbonica prodotta dal metabolismo ossidativo
tissutale è trasportata dagli eritrociti, sotto forma di acido carbonico. L'acido carbonico che si forma
nell'eritrocito si dissocia rapidamente in H+ e HCO3-. L'aumento della concentrazione degli ioni
bicarbonato all'interno del globulo rosso determina la loro diffusione nel plasma. Allo scopo di
mantenere il gradiente elettrochimico ai due lati della membrana, l'HCO3- che diffonde
dall'eritrocito verso il plasma viene scambiato con Cl-. L'idrogenione formato dalla dissociazione
dell'acido carbonico attraversa con estrema difficoltà la membrana del globulo rosso e viene
tamponato dall'emoglobina all'interno della cellula. In caso di aumenti nella concentrazione di
anidride carbonica, l’attività di tampone dell’emoglobina viene meno, pertanto si assiste ad una
diminuzione del pH prima intracellulare, successivamente a livello plasmatico, che sfocia
generalmente l’acidosi respiratoria. La ventilazione è estremamente sensibile a piccole variazioni
della pressione alveolare di CO2 che con una ventilazione polmonare di circa 5l/min, è pari
approssimativamente a 40 mmHg. Un aumento della pressione alveolare di CO2 di 1 mmHg, cioè di
2,5%, determina un incremento della ventilazione di 2l/min, cioè di circa il 40%. La sede principale
dell’altissima sensibilità alla PCO2 è stata identificata in raggruppamenti di neuroni situati
bilateralmente sulla superficie ventro-laterale del bulbo in posizione immediatamente caudale
rispetto alla giunzione bulbo-pontina e a livello delle barriere emato-encefaliche ed emato-liquorali.
2. I chemiocettori periferici rispondono principalmente a ipossiemia e sono localizzati nei glomi
aortici e carotidei. I glomi aortici e carotidei ricevono sangue dalle prime collaterali dell'arteria
occipitale, da collaterali dell'aorta, a sinistra, e dell'arteria succlavia di destra. I chemiocettori
presenti nei glomi vengono stimolati da una diminuzione della PO2, da un aumento della PCO2, e da
una diminuzione del pH arterioso. Le cellule chemio sensibili sono organizzate in ammassi connesse
fra loro attraverso giunzioni serrate. Dal punto di vista embriologico, esse sono di derivazione
neuroectodermica e presentano varie caratteristiche in comune con i neuroni del sistema nervoso
periferico: sono innervate da neuroni pregangliari del simpatico, sono ricche in canali ionici
voltaggio-dipendenti, in seguito a depolarizzazione, presentano potenziali d'azione; posseggono al
loro interno numerose vescicole intracellulari contenenti neurotrasmettitori come dopamina,
acetilcolina e noradrenalina che controllano la frequenza di scarica lungo le fibre afferenti.
L’innervazione sensitiva dei chemiocettori carotidei è fornita da fibre del nervo glossofaringeo,
quella dei chemiocettori aortici da fibre vagali. Ambedue questi tipi di fibre contraggono sinapsi nel
bulbo con neuroni del nucleo del tratto solitario.

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