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BIOCHIMICA
INDICE
1. RIPASSI................................................................................................ 4
2. L’ACQUA..............................................................................................5
LA MIOGLOBINA .....................................................................................
L’EMOGLOBINA ......................................................................................
4. GLI ENZIMI.........................................................................................47
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6. METABOLISMO.................................................................................. 72
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1. RIPASSI
Tutte le reazioni che comportano un flusso di elettroni sono reazioni di ossidoriduzione: un agente si ossida
(perde elettroni), mentre un altro si riduce (acquista elettroni).
Un processo tende ad avvenire spontaneamente solo se il 𝛥𝐺 è negativo (cioè se viene rilasciata energia
libera durante il processo). Eppure la funzione delle cellule dipende in larga misura da molecole, come le
proteine e gli acidi nucleici, per le quali l’energia libera di formazione è positiva: le molecole sintetizzate
sono meno stabili e più ordinate dell’insieme delle loro unità costitutive. Per favorire lo svolgimento delle
reazioni di sintesi termo- dinamicamente sfavorite delle proteine e degli acidi nucleici, che cioè richiedono
energia (reazioni endoergoniche), la cellula deve accoppiarle ad altre reazioni che liberano energia (reazioni
esoergoniche), in modo che l’intero processo sia esoergonico, cioè la somma delle variazioni di energia
libera deve essere negativa.
La sorgente di energia libera prevalentemente utilizzata dalla cellula nelle reazioni accoppiate è l’energia
rilasciata dalla rottura del legame fosfoanidrico dell’adenosina trifosfato (ATP) e della guanosina trifosfato
(GTP). Nelle reazioni accoppiate mostrate sotto, ogni (𝑃) rappresenta un gruppo fosforilico:
sistema passa dallo stato iniziale a quello di equilibrio, in condizioni di pressione e temperatura costanti, è
data dalla variazione di energia libera, 𝛥𝐺. Il valore di 𝛥𝐺 dipende dalla natura della reazione chimica e da
quanto il sistema allo stato iniziale si trova lontano dalla condizione di equilibrio. Ogni composto coinvolto
in una reazione chimica contiene una certa quantità di energia potenziale, dovuta al numero e al tipo di
legami chimici presenti. Nelle reazioni che avvengono spontaneamente, i prodotti possiedono meno
energia libera rispetto ai reagenti e quindi la reazione rilascia energia libera, che diventa disponibile e utile
per produrre un lavoro. Le reazioni di questo tipo sono dette esoergoniche; la diminuzione di energia libera
che si verifica quando i reagenti sono convertiti in prodotti viene espressa con valori negativi. Le reazioni
endoergoniche richiedono un apporto di energia e i loro va- lori di 𝛥𝐺 sono positivi. Solo una parte
dell’energia rilasciata da un sistema esoergonico può essere impiegata per produrre un lavoro. Una parte
dell’energia viene dissipata sotto forma di calore oppure perduta, con conseguente aumento dell’entropia.
Una reazione esoergonica può essere accoppiata ad una reazione endoergonica, in modo da portare avanti
reazioni altrimenti sfavorite.
Quando queste due reazioni sono accoppiate, la somma di 𝛥𝐺5 e 𝛥𝐺= è negativa, e l’intero processo è
esoergonico. Grazie a questa strategia di accoppiamento, le cellule possono sintetizzare e mantenere stabili
i composti ricchi di informazioni, indispensabili per la vita.
Le reazioni chimiche nei sistemi chiusi procedono spontaneamente fino a che non raggiungono l’equilibrio.
Quando un sistema è all’equilibrio, la velocità di formazione dei prodotti diventa uguale a quella con cui i
prodotti stessi si riconvertono nei reagenti. Non vi è quindi una variazione netta nella concentrazione di
reagenti e prodotti. La variazione di energia che si ha quando il sistema passa dallo stato iniziale a quello di
equilibrio, in condizioni di pressione e temperatura costanti, è data dalla variazione di energia libera, 𝛥𝐺. Il
valore di 𝛥𝐺 dipende dalla natura della reazione chimica e da quanto il sistema allo stato iniziale si trova
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lontano dalla condizione di equilibrio. Ogni composto coinvolto in una reazione chimica contiene una certa
quantità di energia potenziale, dovuta al numero e al tipo di legami chimici presenti. Nelle reazioni che
avvengono spontaneamente, i prodotti possiedono meno energia libera rispetto ai reagenti e quindi la
reazione rilascia energia libera, che diventa disponibile e utile per produrre un lavoro. Le reazioni di questo
tipo sono dette esoergoniche; la diminuzione di energia libera che si verifica quando i reagenti sono
convertiti in prodotti viene espressa con valori negativi. Le reazioni endoergoniche richiedono un apporto di
energia e i loro va- lori di 𝛥𝐺 sono positivi. Solo una parte dell’energia rilasciata da un sistema esoergonico
può essere impiegata per produrre un lavoro. Una parte dell’energia viene dissipata sotto forma di calore
oppure perduta, con conseguente aumento dell’entropia.
Una reazione esoergonica può essere accoppiata ad una reazione endoergonica, in modo da portare avanti
reazioni altrimenti sfavorite.
2. L’ACQUA
2.1. Interazioni deboli nei sistemi acquosi
Ogni atomo di idrogeno di una molecola di acqua condivide una coppia di elettroni con l’atomo di ossigeno.
La geometria della molecola di acqua è de- terminata dalla disposizione dei due orbitali elettronici esterni
dell’ossigeno, simile a quella degli orbitali 𝑠𝑝> di legame del carbonio. Questi orbitali de- scrivono grosso
modo un tetraedro, con un atomo di idrogeno a due degli angoli e gli elettroni non condivisi agli altri due.
L’ossigeno è più elettronegativo: gli elettroni si vengono a trovare molto più spesso nelle vicinanze
dell’atomo di ossigeno che di quello dell’idrogeno. Il risultato di questa distribuzione ineguale degli
elettroni è la formazione di due dipoli elettrici nella molecola dell’acqua, uno lungo ciascuno dei legami H–
O; ogni atomo di idrogeno
I legami idrogeno non sono una prerogativa dell’acqua. Essi si formano facilmente tra un atomo
elettronegativo (accettore di idrogeno, di solito ossi- geno o azoto, con una coppia di elettroni non
condivisi) e un atomo di idro- geno legato covalentemente ad un altro atomo elettronegativo (donatore di
idrogeno) nella stessa o in un’altra molecola.
L’acqua è un solvente polare. Essa dissolve facilmente la maggior parte delle biomolecole, che sono in
genere composti carichi o polari; i composti che si sciolgono facilmente in acqua sono idrofilici. Al contrario,
i solventi non polari solubilizzano solo in parte le biomolecole polari, mentre sono particolar- mente idonei
per quelle idrofobiche, cioè molecole non polari (v. lipidi, cere). In acqua i soluti apolari si aggregano,
perché non sono in grado di stabilire interazioni energeticamente favorevoli con le molecole di acqua.
Il sistema tende a raggiungere maggiore stabilità minimizzando la diminuizione di entropia dovuta alla
disposizione ordinata delle molecole di acqua intorno alle porzioni idrofobiche (aggregazione).
I composti anfipatici contengono nella loro molecola regioni polari (o cari- che) e regioni non polari.
Quando un composto anfipatico viene mescolato all’acqua, la regione polare idrofilica interagisce
favorevolmente con l’acqua e tende a dissolversi, mentre la regione non polare, idrofobica, evita il con-
tatto con l’acqua. Le regioni non polari della molecola si raggruppano in modo da presentare al solvente
acquoso la minore area superficiale possibile e le regioni polari si dispongono in modo da rendere ottimali
le loro intera- zioni con l’acqua. Le strutture stabili che assumono i composti anfipatici in acqua, chiamate
micelle, possono contenere centinaia o migliaia di molecole. I legami che tengono unite le regioni non
polari delle molecole vengono detti interazioni idrofobiche. La forza di queste interazioni idrofobiche non
di- pende dalle singole attrazioni fra le molecole non polari, ma è il risultato del raggiungimento da parte
del sistema di una maggiore stabilità termodinamica che rende minimo il numero di molecole di acqua
disposte in modo ordinato, necessarie a circondare la porzione idrofobica delle molecole di so- luto.
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di queste corrisponde alla zona relativamente piatta della curva, che si estende per
circa 1 unità di pH da ambedue i lati del primo 𝑝𝐾` di 2,34, indi- cando che la glicina
è un buon tampone intorno a questo pH. L’altra zona con potere tamponante è
centrata intorno a pH 9,60.
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Un’altra importante informazione che è possibile derivare dalla curva di titolazione
di un amminoacido è la relazione tra la sua carica netta e il pH della soluzione. A pH
5,97, il punto di flesso tra i due stadi della curva di titola- zione, la glicina è presente
prevalentemente come forma dipolare, ionizzata, ma con carica netta pari a zero. Il
caratteristico pH al quale la carica netta è zero si chiama punto isoelettrico, o pH
isoelettrico, indicato con pI.
La glicina ha una carica netta negativa a valori di pH superiori a quello del suo pI, e
quindi migrerà verso il polo positivo (l’anodo), se posta in un campo elettrico. A pH
inferiori al valore di pI, la glicina ha una carica netta positiva, e migrerà verso il polo
negativo (il catodo). Più il pH di una soluzione di glicina è lontano dal suo punto
isoelettrico, maggiore sarà la carica netta della popolazione delle molecole di glicina.
Molte proteine non hanno ponti disolfuro. L’ambiente all’interno della maggioranza
delle cellule è altamente riducente, quindi impedisce la formazione dei legami –S–
S–. Negli eucarioti, i ponti disolfuro si trovano principalmente nelle proteine secrete
nell’ambiente extracellulare.
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Per le proteine intracellulari di molti organismi, le interazioni deboli hanno una
rilevanza particolare nell’avvolgimento delle loro catene polipeptidiche in strutture
secondarie e terziarie. Anche l’associazione di più catene poli- peptidiche che genera
strutture quaternarie dipende dalle interazioni deboli. Per rompere un legame
covalente occorrono da 200 a 400 kJ/mole, mentre la rottura delle interazioni
deboli richiede appena 4- 30 kJ/mole. I singoli legami covalenti, per esempio i ponti
disolfuro che legano tra loro porzioni lontane di una singola catena polipeptidica,
sono molto più forti delle singole interazioni deboli. Alla temperatura fisiologica, le
interazioni deboli sono transitorie e si formano molto rapidamente, ma pur essendo
deboli, tali interazioni impartiscono elevata stabilità alla molecola, in quanto sono
molto numerose, ed è praticamente impossibile che si rompano tutte
contemporaneamente. In genere, la conformazione proteica con la più bassa
energia libera (cioè la conformazione più stabile) è quella con il maggior numero di
interazioni deboli. La flessibilità strutturale è indispensabile per la funzione.
Esaminando più da vicino il contributo delle interazioni deboli alla stabilità delle
proteine, si può osservare che in genere sono le interazioni idrofobiche quelle
predominanti. Le molecole di acqua pura sono unite tra loro da una rete di legami
idrogeno e nessun’altra molecola ha la stessa capacità di formare legami. La
presenza di qualunque altra molecola nell’acqua rompe i legami idrogeno quando
l’acqua circonda una molecola idrofobica, si forma un guscio ordinato di molecole di
ossigeno unite da legami idrogeno, che prende il nome di strato di solvatazione,
attorno al core idrofobico. L’aumento dell’ordine nelle molecole d’acqua nello strato
di solvatazione crea una diminuzione sfavorevole dell’entropia, ma quando più
gruppi non polari si riuniscono, la dimensione dello strato di solvatazione si riduce in
quanto ciascun gruppo non presenta più l’intera superficie rivolta verso l’acqua. Il
risultato è un aumento favorevole dell’entropia. Come si è detto, questo aumento di
entropia costituisce la forza termodinamica principale che consente l’associazione di
gruppi idrofobici nell’acqua. Allo stesso modo, le catene laterali idrofobiche degli
amminoacidi tendono a raggrupparsi all’interno delle proteine, lontano dall’acqua.
È anche importante che tutti i gruppi polari o carichi all’interno delle proteine
trovino le giuste controparti per la formazione di legami idrogeno e di interazioni
ioniche. Tali interazioni formano coppie ioniche o legami salini che possono avere
sia effetto stabilizzante che destabilizzante sulla struttura delle proteine. Le
interazioni ioniche – tra cariche opposte di catene laterali
Alcune proteine sono costituite da una singola catena polipeptidica, mentre altre,
chiamate proteine multisubunità, hanno due o più polipeptidi associati non
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covalentemente. Se almeno due sono identiche, la proteina viene detta oligomerica
e le unità identiche sono chiamate protomeri.
e, quindi, la sua funzione. Infatti, proteina con funzioni diverse hanno sequenze
diverse, mentre proteine omologhe hanno sequenze simili e svolgono la stessa
funzione in specie diverse. Modificazioni (mutazioni) nella struttura primaria
determinano alterazioni (o anche perdita) della funzione biologica (v. malattie
genetiche).
L’enorme varietà potenziale è limitata nelle cellule anche dall’efficienza della sintesi
proteica e dalla capacità del polipeptide di ripiegarsi per dare origine a una struttura
funzionante. Le catene polipeptidiche sono sintetizzate sui ribosomi attraverso un
processo nel quale l’assemblaggio degli amminoacidi in sequenze precise è dettato
dall’RNA messaggero. La catena polipeptidica
nascente subisce ripiegamenti e, spesso,
modificazioni chimiche che completano la
formazione della struttura definitiva della proteina.
I legami peptidici
delle proteine sono
abbastanza stabili –
la vita media (t5 =)
è di circa 7 anni – nella maggior parte delle condizioni intracellulari.
I legami covalenti hanno un ruolo principale nel determinare la conforma- zione di
un polipeptide. Gli atomi di carbonio α di residui amminoacidici adiacenti sono
separati da tre legami covalenti che si susseguono in questo modo Cα–C–N–Cα. Il
legame peptidico C–N è un po’ più corto del legame C–N delle ammine primarie e gli
atomi che fanno parte del legame peptidico sono complanari. Queste osservazioni
indicano l’esistenza di una risonanza o di una parziale condivisione di due coppie di
elettroni tra l’ossigeno carbonilico e l’azoto ammidico. L’ossigeno ha una sua carica
parziale negativa e l’azoto una carica parziale positiva, generando così un piccolo
dipolo elettrico. I sei atomi del gruppo peptidico giacciono sullo stesso piano e
l’atomo di ossigeno del gruppo carbonilico è in posizione trans rispetto all’atomo di
idrogeno legato all’azoto ammidico. I legami C–N, a causa del loro parziale carattere
di doppio legame, non possono ruotare liberamente. È invece permessa la rotazione
tra i legami N–Cα e Cα–C. Lo scheletro della catena polipeptidica può quindi essere
considerato come una serie di piani rigidi in cui i piani consecutivi hanno in comune
un punto di rotazione, corrispondente al Cα. La rigidità del legame peptidico limita
considerevolmente il numero delle conformazioni che la catena polipeptidica può
assumere. La conformazione del peptide è definita da tre angoli diedri (chiamati
anche angoli di torsione) chiamati φ, ψ e ω che riflettono la rotazione intorno a
ciascuno dei tre legami che si ripe- tono nello scheletro del peptide. L’angolo φ
coinvolge i legami C–N–Cα–C (con la rotazione che avviene intorno al legame N–Cα),
e l’angolo ψ coinvolge i legami N–Cα –C–N (con la rotazione che avviene intorno al
legame Cα–C).
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In linea di principio, φ e ψ possono avere qualunque valore, compreso tra −180° e
+180°, ma molti valori non sono permessi a causa degli impedimenti sterici tra gli
atomi dello scheletro carbonioso e le catene laterali degli amminoacidi. Per questo
motivo la conformazione in cui gli angoli φ e ψ hanno valore = 0° non è permessa;
essa deve essere considerata semplice- mente come punto di riferimento per la
descrizione degli angoli. I valori per- messi di φ e ψ sono riportati nel grafico di
Ramachandran, in cui gli angoli ψ vengono riportati in funzione di φ.
La più semplice organizzazione regolare che una catena polipeptidica può assumere,
tenendo conto della planarità dei legami carbamidici (ma anche della possibile
rotazione degli altri legami singoli), è una struttura elicoidale,
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creando un’alternanza “sopra- sotto”.
Le catene polipeptidiche adiacenti di un foglietto β
possono essere o parallele, o antiparallele (possono
cioè avere lo stesso orientamento o un
orientamento opposto del le- game carbamidico
NH–CO). Le due strutture sono abbastanza simili,
anche se il periodo che si ripete è più corto per la
conformazione parallela (6,5 Å contro 7 Å per
l’antiparallela), e la disposizione dei legami idrogeno è diversa. Nelle strutture β tipi-
che l’angolo φ = −199°, ψ = +113° (parallela) e φ = −139°, ψ = +135°
(antiparallela).
Non tutti gli amminoacidi possono far parte di un foglietto β. Quando due o più
foglietti β si trovano sovrapposti l’uno sull’altro in una proteina, i gruppi R dei residui
amminoacidici delle superfici di contatto devono essere relati- vamente piccoli.
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La disposizione nello spazio di tutti gli atomi di una proteina viene definita come
struttura terziaria. Mentre l’espressione “struttura secondaria” si riferisce alla
disposizione spaziale di residui amminoacidici adiacenti in un segmento di un
polipeptide, la struttura terziaria tiene conto delle relazioni a lungo raggio nella
sequenza amminoacidica. Gli amminoacidi che si trovano lontani in una sequenza
polipeptidica e quindi fanno parte di tipi differenti di
strutture secondarie possono interagire fra loro nella forma completamente avvolta
della proteina. Segmenti della catena polipeptidica vengono mantenuti nelle loro
caratteristiche posizioni tipiche della struttura terziaria tra- mite diversi tipi di
interazioni deboli e talora anche tramite legami covalenti, come ponti disolfuro che
si instaurano tra segmenti diversi di una proteina. Alcune proteine contengono due
o più catene polipeptidiche distinte, o subunità, che possono essere identiche o
diverse. La disposizione di queste subunità in complessi tridimensionali prende il
nome di struttura quaternaria. Considerando questi livelli strutturali, diventa utile
classificare le proteine in due gruppi principali: le proteine fibrose, che hanno
catene polipeptidiche disposte in lunghi fasci o in foglietti, e le proteine globulari,
che hanno invece catene polipeptidiche ripiegate e assumono forma globulari o
sferiche. I due gruppi sono strutturalmente distinti: le proteine fibrose sono
costituite in gran parte da un unico tipo di struttura secondaria e la struttura
terziaria è relativamente semplice, mentre le proteine globulari contengono più tipi
di struttura secondaria. I due gruppi differiscono anche funzionalmente per il fatto
che
Tutte le proteine fibrose sono insolubili in acqua, una caratteristica che di-
pende dalla presenza di elevate concentrazioni di amminoacidi idrofobici sia
all’interno sia sulla superficie della proteina. Le superfici idrofobiche sono ben
nascoste al solvente mediante l’associazione con catene polipeptidiche simili
in elaborati complessi sopramolecolari.
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3.6. Motivi e Domini
Un dominio è una parte di una catena polipeptidica di per sé stabile, che potrebbe
comportarsi come se fosse un’entità indipendente rispetto al resto della proteina.
Polipeptidi costituiti da qualche centinaio di residui amminoacidici spesso si
avvolgono nello spazio formando due o più domini, che talvolta svolgono funzioni
diverse, e domini strutturali e funzionali diversi di una stessa proteina corrispondono
spesso a esoni distinti nel gene che codifica per quella proteina. Proteine diverse con
funzioni e sequenza amminoacidica differenti possono avere domini con struttura
terziaria simile. In molti casi, un dominio di una proteina di grandi dimensioni
mantiene la sua struttura tridimensionale anche se viene separato dal resto della
catena polipeptidica. In una proteina con molti domini, ciascuno di questi può
apparire come un lobo globulare distinto, ma se i domini interagiscono tra loro
tramite ampie superfici di contatto, diventa difficile distinguerli. Generalmente le
proteine di piccole dimensioni hanno un solo dominio (cioè il dominio è la stessa
proteina).
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3.7. Ripiegamento e Denaturazione delle proteine
La forza principale che guida il ripiegamento di una proteina è l’impacchettamento
delle catene laterali idrofobiche all’interno della molecola: forma- zione di un core
idrofobico e una superficie esterna idrofilica (struttura più stabile perché
termodinamicamente favorita). La formazione del core idro- fobico comporta il
ripiegamento verso l’interno anche dello scheletro peptidico altamente polare: la
formazione di strutture secondarie regolari stabilizzate da legami idrogeno risolve
elegantemente il problema.
Le proprietà dell’acqua sono molto importanti per il ripiegamento delle proteine.
Quando l’acqua circonda un composto idrofobico, la disposizione ottimale dei
legami idrogeno porta alla formazione di uno strato ben organizzato intorno al
composto, che determina una diminuzione non favorevole di entropia dell’acqua. Di
conseguenza, le catene laterali degli amminoacidi idro- fobici tendono a
raggrupparsi all’interno delle proteine, diminuendo la superficie esposta al solvente.
Quando l’acqua forma legami idrogeno o interagisce con ioni, si formano strati di
molecole di acqua ordinate che scompaiono quando si formano legami idrogeno o
ionici tra i gruppi polari della catena peptidica. Il contributo entropico del solvente è
trainante anche per la formazione di questi legami. I gruppi polari o carichi possono
trovarsi an- che all’interno delle proteine, ma devono avere una controparte con cui
for- mare legami idrogeno (strutture secondarie) o interazioni ioniche.
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catene laterali amminoacidiche non hanno ancora assunto una con- formazione
fissa. Lo stato collassato spesso viene indicato come globulo fuso (melten globule).
Non tutte le proteine si avvolgono spontaneamente dopo la loro sintesi nella cellula.
L’avvolgimento di molte proteine richiede la presenza di chaperoni molecolari,
proteine che interagiscono con polipeptidi ripiegati parzialmente o ripiegati in modo
improprio, facilitando il compito del processo o fornendo un microambiente in cui
l’avvolgimento avviene correttamente. Sono state individuate due classi di
chaperoni molecolari.
Gli avvolgimenti sbagliati costituiscono uno dei problemi principali di tutti i tipi di
cellule. Un quarto o forse più di tutti i polipeptidi sintetizzati viene di- strutto, perché
essi sono avvolti in maniera non corretta. In altri casi gli avvolgimenti sbagliati
possono causare o contribuire allo sviluppo di gravi malattie.
Le funzioni principali delle proteine possono essere riassunte in: Impartire proprietà
regolatrici(enzimiallosterici), Coniugare funzioni diverse e correlate (catalisi e
regolazione), Svolgere funzioni strutturali (es. formazione di fibre), Catalizzare
reazioni complesse (es. piruvico deidrogenasi). I vantaggi della struttura quaternaria
sono:
Riassumiamo adesso quanto detto finora e anticipiamo concetto che sa- ranno
espressi più largamente nelle pagine successive.
Una molecola unita reversibilmente a una proteina viene detta ligando. Un ligando
può essere qualsiasi tipo di molecola, anche una proteina. La natura transitoria delle
interazioni proteina-ligando è essenziale per la vita, perché consente all’organismo
di rispondere rapidamente e reversibilmente a varia- zioni ambientali e metaboliche.
nello stato ossidato Fe3+ non è invece in grado legare l’ossigeno. L’eme presente in
alcune proteine che trasportano ossigeno e anche nei citocromi che partecipano a
reazioni di ossidoriduzione (trasferimento di elettroni).
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di carbonio (CO) e l’ossido di azoto (NO), si possono coordinare al ferro dell’eme con
un’affinità anche superiore a quella dell’ossigeno. Quando una molecola di CO si
lega al gruppo eme, non si può più legare ossigeno (ecco perché il CO è molto
tossico per gli organismi aerobi). Sequestrando nel loro interno il gruppo eme, le
proteine che legano l’ossigeno regolano l’accesso al ferro dell’eme, le proteine che
legano l’ossigeno regolano l’accesso al ferro dell’eme del CO e di altre piccole
molecole.
La mioglobina (Mb) è una proteina relativamente semplice e piccola (Mr 16 700 che
lega l’ossigeno, presente nel tessuto muscolare di quasi tutti i mammiferi. Come
proteina di trasporto, la sua funzione è quella di immagazzinare l’ossigeno e di
facilitarne la diffusione nei muscoli in rapida contrazione.
La posizione delle catene laterali degli amminoacidi è dovuta a una struttura la cui
stabilità dipende in gran parte da interazioni idrofobiche. Tutti i gruppi R polari sono
localizzati sulla superficie esterna della molecola e tutti sono quindi idratati. La
molecola della mioglobina è così compatta che ne suo in- terno vi è spazio solo per
quattro molecole di acqua. Questo denso nucleo idrofobico è tipico delle proteine
globulari. In questo ambiente così compatto le interazioni deboli diventano più salde
e si rinforzano a vicenda. Tutti i legami peptidici sono nella configurazione planare
trans.
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per questo composto quando si trova all’interno della mioglobina (e
dell’emoglobina). Questo effetto sul legame del CO è fisiologicamente im- portante
perché, anche se in quantità molto basse, il CO è un sottoprodotto del nostro
metabolismo.
Simulazioni al computer indicano che la via principale è generata dalla rota- zione
della catena laterale dell’istidina distale (His64), che avviene ogni nanosecondo (10–
9 s).
Le catene laterali idrofobiche di Val E11 e Phe CD1 poste sul lato dell’eme che lega
l’O2 contribuiscono a mantenere l’eme nella posizione corretta.
Gli eritrociti normali dell’uomo sono cellule di piccole dimensioni, con un dia- metro
di 6-9 μm, a forma di disco biconcavo, che originano da precursori cellulari staminali
detti emocitoblasti o ematoblasti. Durante il processo di maturazione le cellule
staminali producono molte cellule figlie che formano grandi quantità di emoglobina
e perdono tutti gli organelli citoplasmatici. Gli eritrociti sono quindi vestigia di
cellule, incapaci di replicarsi e destinati a so- pravvivere solo per circa 120 giorni. La
loro funzione principale è quella di trasportare l’emoglobina disciolta nel loro citosol
a una concentrazione molto elevata (circa 24% del loro peso).
Nel sangue arterioso che dai polmoni arriva al cuore attraverso i tessuti periferici,
l’emoglobina è satura per circa il 96% di ossigeno. Nel sangue venoso che ritorna al
cuore e poi ai polmoni l’emoglobina è invece satura dall’ossigeno per circa il 64%.
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La mioglobina, che ha una curva di legame dell’ossigeno con andamento iperboli, è
relativamente insensibile a piccole variazioni della concentrazione di
L’emoglobina (Hb, Mr 54 500) ha una forma quasi sferica, con un diametro di circa
5,5 nm. È una proteina tetramerica contenente quattro gruppi prostetici eme, uno
per ciascuna subunità. L’emoglobina A (emoglobina dell’adulto) contiene due tipi di
globine, e cioè due catene a (141 residui ciascuna) e due catene b (146 residui
ciascuna). La struttura tridimensionale dei due tipi di catene dell’emoglobina è
molto simile. Inoltre, la struttura tridimensionale di queste due subunità è simile
anche a quella della mioglobina. Dal confronto tra le sequenze amminoacidiche
della mioglobina di capodoglio e delle catene a e b dell’emoglobina umana emerge
che solo il 18% dei residui sono identici.
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L’analisi ari raggi X ha messo in evidenza due differenti conformazioni
dell’emoglobina: lo stato R e lo stato T. L’ossigeno si lega ad entrambi gli stati
dell’emoglobina, ma ha un’affinità maggiore per lo stato R. Il legame dell’ossigeno
stabilizza lo stato R. In assenza di ossigeno, una condizione che si può ottenere in
laboratorio, lo stato T è più stabile ed è quindi la conformazione prevalente della
deossiemoglobina. Le lettere T ed R indicano rispettiva- mente lo stato “teso” e
“rilasciato”, in quanto lo stato testo viene stabilizzato da un gran numero di
interazioni ioniche, molte delle quali si verificano all’interfaccia a1b2 e a2b1. Il
legame dell’O2 ad una delle subunità nello stato T dell’emoglobina innesca una
variazione conformazionale, che converte le subunità nello stato R. La transizione
non modifica sostanzialmente le strutture delle singole subunità, ma i due
monomeri ab svicolano l’uno rispetto all’altro e ruotano, restringendo così la tasca
tra le subunità b. Durante questo processo alcuni legami ionici che stabilizzano lo
stato T si spezzano e se ne formano altri.
Max Perutz propose che la transizione T➝R venisse innescata da cambia- menti
della posizione dei residui amminoacidici che circondano l’eme. Nello stato T la
porfirina ha una forma a cupola e pertanto il ferro all’interno dell’eme tende a
protrudere dal lato dell’istidina prossimale (His F8). Il le- game dell’ossigeno
costringe l’eme ad assumere una conformazione più planare, modificando la
posizione dell’His prossimale e dell’elica F ad essa legata. Queste modificazioni
conducono ad un aggiustamento delle coppie ioniche all’interfaccia a1b2.
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più probabile il legame di una seconda molecola di ligando. Questo modello prevede
l’esistenza di più stati intermedi rispetto al modello concertato.
L’ossigeno in questo caso può essere considerato sia un ligando normale, sia un
modulatore omotropico. Vi è un solo sito per l’ossigeno in ogni subunità, e quindi
l’effetto allosterico che dà origine alla cooperatività è dovuto alle modificazioni
conformazionali trasmesse da una subunità a un’altra mediante interazioni
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subunità-subunità. Una curva sigmoide è un indice dell’esistenza di un legame di
tipo cooperativo. Questo fenomeno consente una
risposta molto più sensibile alle variazioni nella
concentrazione del ligando ed è determinante per
la funzione di molte proteine multimeriche.
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legarsi all’emoglobina circa 250 volte più saldamente dell’ossigeno.
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4. GLIENZIMI
Gli enzimi sono i catalizzatori delle reazioni biologiche. In ogni cellula avvengono
continuamente migliaia di reazioni chimiche mediate da enzimi, proteina specializzate nel
catalizzare le reazioni metaboliche. I sistemi viventi utilizzano gli enzimi per accelerare e
controllare le reazioni chimiche necessarie per mantenere l’omeostasi cellulare.
Ad eccezione di un piccolo gruppo di molecole di RNA catalitico, tutti gli enzimi sono
proteine. La loro attività catalitica dipende dall’integrità della loro conformazione proteica
nativa. Se un enzima viene denaturato dissociato in subunità, perde la sua attività
catalitica. L’attività viene persa anche se l’enzima viene idrolizzato, per produrre i singoli
amminoacidi costitutivi. Quindi le strutture primaria, secondaria. Terziaria e quaternaria
sono essenziali per l’espressione dell’attività catalitica.
Gli enzimi hanno un peso molecolare che può variare da circa 12 000 a oltre un milione.
Alcuni enzimi hanno bisogno per la loro attività di altri gruppi chimici se non di quelli delle
catene laterali dei loro residui amminoacidici; altri invece hanno bisogno di componenti
chimici addizionali chiamati cofattori. Un cofattore può essere costituito da uno o da più
ioni inorganici, come Fe2+, Mg2+, Mn2+ o Zn2+, oppure da complesse molecole organiche
o metallorganiche chiamate coenzimi. I coenzimi agiscono come trasportatori transitori di
specifici gruppi funzionali. Certi enzimi necessitano per il loro funzionamento sia di un
coenzima sia di ioni metallici. Un coenzima o uno ione metallico legato covalentemente
alla proteina enzimatica viene detto gruppo prostetico. Un enzima cataliticamente attivo
con tutti i suoi coenzimi o ioni metallici è detto oloenzima, mentre la parte proteica di un
enzima viene detta apoenzima o apoproteina. Infine, qualche enzima può essere
modificato covalentemente per fosforilazione, per glicosilazione o mediante altri processi.
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Molte di queste alterazioni della molecola enzimatica sono coinvolte nella regolazione
dell’attività enzimatica.
Molti enzimi hanno nomi che derivano da quello del loro substrato o da una parola o una
frase che descrive la loro attività, a cui è stato aggiunto il suffisso “-asi”. Altri enzimi hanno
il nome assegnato dai loro scopritori in base ad una data funzione, prima che fosse
conosciuta la reazione specifica catalizzata. Inoltre, altri enzimi sono stati denominati in
base alla loro origine. È stato adottato per convenzione internazionale un sistema di
nomenclatura e di classificazione degli enzimi. Questo sistema divide gli enzimi in sei classi
principali, ognuna
suddivisa in sottoclassi in
base al tipo di reazione
chimica catalizzata.
Le reazioni catalizzate dagli enzimi avvengono all’interno dei confini di una tasca enzimatica chiamata sito
attivo. La molecola che si lega al sito attivo e su cui l’enzima agisce è detta substrato. La superficie di un sito
attivo è rivestita da residui amminoacidici i cui gruppi funzionali costituenti legano il sub- strato e
catalizzano la reazione chimica. Spesso il sito attivo ingloba un sub- strato, sequestrandolo completamente
dalla soluzione.
𝐸 + 𝑆 ⇌ 𝐸𝑆 ⇌ 𝐸𝑃 ⇌ 𝐸 + 𝑃
dove 𝐸, 𝑆, e 𝑃 rappresentano rispettivamente l’enzima, il substrato e il prodotto. 𝐸𝑆 e 𝐸𝑃 sono i complessi
transitori dell’enzima con il substrato e con il prodotto.
La funzione di un catalizzatore è quella di aumentare la velocità di una rea- zione. I catalizzatori non
modificano però gli equilibri delle reazioni. Qualsiasi reazione, come 𝑆 ⇆ 𝑃, può essere descritta dal grafico
della coordinata di reazione, che analizza le variazioni energetiche che avvengono nel corso della reazione.
Nei sistemi biologici l’energia viene espressa nei termini di energia libera, 𝐺. Nel grafico della coordinata,
l’energia libera di un sistema viene analizzata in funzione del procedere della reazione (la coordinata di
reazione). Il punto di partenza per la reazione in un senso o nel senso opposto è definito stato basale e
corrisponde al contributo di energia libera for- nito al sistema da una molecola (𝑆 o 𝑃) in ben definite
condizioni (e quindi il valore medio di energia posseduto da quella popolazione di molecole). L’equilibrio tra
𝑆 e 𝑃 dipende dalla differenza tra livelli di energia libera dei due composti ai loro stati basali. Quando il
𝛥𝐺âw (variazione di energia stan- dard biochimica a pH 7) della reazione è negativo, allora l’equilibrio
favorisce 𝑃. Questo equilibrio non viene modificato da un catalizzatore.
Tra 𝑆 e 𝑃 esiste una barriera energetica che corrisponde all’energia libera necessaria ad allineare i gruppi
reagenti, a formare cariche transitorie insta- bili, a riorganizzare legami e a produrre altre trasformazioni
necessarie alla reazione per procedere in una delle due direzioni. Perché possa avvenire la reazione le
molecole devono superare questa barriera e quindi devono rag- giungere un livello energetico più elevato
di quello basale. Al punto più alto della curva, la molecola ha la stessa probabilità di decadere verso 𝑆 o
verso 𝑃 (entrambe le vie sono in discesa). Questo punto viene chiamato stato di transizione e non
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corrisponde a una specie chimica con una stabilità significative, quindi non è da confondere con un
intermedio della reazione (come 𝐸𝑆 o 𝐸𝑃). È più semplice un momento molecolare transitorio in cui alcuni
eventi come la rottura di un legame, la formazione di un legame o la comparsa di una carica devono
procedere fino a quel punto preciso in cui il composto acquista la probabilità di diventare il prodotto o
ritornare al substrato. La differenza tra i livelli di energia dello stato di base e dello stato di transi- zione è
detta energia di attivazione (𝛥𝐺‡). La velocità di una reazione di- pende da questa energia di attivazione;
un’elevata energia di attivazione corrisponde ad una bassa velocità
attivazione può essere abbassata aggiungendo un catalizzatore. Il catalizzatore aumenta la velocità della
reazione abbassando l’energia di attivazione. Gli enzimi non sfuggono alla regola fondamentale dei
catalizzatori, e cioè che essi non alterano gli equilibri delle reazioni a cui partecipano. Le frecce bidirezionali
nella reazione chimica di prima stanno ad indicare che un enzima catalizza la reazione 𝑆 → 𝑃 catalizza anche
la reazione 𝑃 → 𝑆. Il suo ruolo è quello di accelerare l’interconversione tra 𝑆 e 𝑃. L’enzima non viene
consumato durante questo processo e l’equilibrio resta inalterato. La reazione rag- giunge però l’equilibrio
molto più rapidamente quando è presente l’enzima, in quanto la velocità della reazione è molto superiore a
quella normale. Ogni reazione è costituita da diverse tappe, in cui si ha la formazione e la comparsa di
specie chimiche transitorie chiamate intermedi di reazione. Un intermedio di reazione può essere definito
come qualunque specie chimica che si forma lungo il percorso della reazione, che ha un tempo di vita finito.
Quando in una reazione sono presenti più tappe, la velocità complessiva della reazione è determinata dalla
tappa (o dalle tappe) con l’energia di atti- vazione più elevata, che viene detta tappa limitante.
Le energie di attivazione sono sì delle barriere per le reazioni chimiche, ma sono ugualmente importanti per
la vita. La velocità con cui una molecola va incontro ad una particolare reazione diminuisce all’aumentare
dell’energia di attivazione. Se non esistesse questa barriera energetica, le macromolecole complesse
potrebbero convertirsi spontaneamente in forme molecolari più semplici. Inoltre, le strutture ordinate e
complesse e i processi metabolici di ogni cellula non potrebbero esistere. Nel corso dell’evoluzione gli
enzimi hanno sviluppato la capacità di abbassare le energie di attivazione in modo selettivo soltanto per le
reazioni necessarie per la sopravvivenza della cellula.
Riassumendo, gli equilibri delle reazioni sono strettamente correlati alla variazione di energia libera
standard della reazione stessa, 𝛥𝐺’0; se
𝛥𝐺’0 < 0 ⇒ 𝑃,
𝛥𝐺’0 > 0 ⇒ 𝑆.
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La velocità di una reazione è invece correlata all’energia di attivazione, 𝛥𝐺‡. Gli enzimi catalizzano reazioni
esoergoniche e abbassano l’energia di attiva- zione inserendo stati di transizione a energia più bassa.
La necessità di avere numerose interazioni deboli per guidare la catalisi è una delle ragioni per cui gli enzimi
(e alcuni coenzimi) sono così grandi. L’enzima deve fornire i gruppi funzionali per le interazioni ioniche, le
interazioni idro- fobiche e i legami idrogeno, e inoltre deve stabilire la loro giusta posizione in modo che
l’energia di legame diventi ottimale durante lo stato di transizione. L’inserimento corretto viene raggiunto
grazie al posizionamento del sub- strato in una cavità (sito attivo) dove è di fatto allontanato dall’acqua. Le
dimensioni delle proteine riflettono la necessità di creare superstrutture idonee a consentire ai gruppi
interagenti il corretto posizionamento e di impedire alla cavità di collassare.
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Infine, la specificità verso il substrato dipende anche dalla disposizione spaziale degli atomi che lo
costituiscono (complementarietà geometrica) e dalla distribuzione dei gruppi funzionali (complementarietà
elettronica).
I fattori fisici e termodinamici di una reazione che contribuiscono a determinare il 𝛥𝐺‡B, la barriera che
rallenta la reazione, comprendono:
la riduzione dell’entropia, sotto forma di una diminuita libertà di movimenti delle due molecole in
soluzione, che si ha con la formazione del complesso 𝐸𝑆; è compensata dalla stabilizzazione dello
stato di transi- zione e dall’aumento di entropia del solvente. Una riduzione pronunciata dei moti
relativi dei due substrati che devono reagire tra loro, detta riduzione entropica, è uno degli aspetti
vantaggiosi che si hanno dal legame dei substrati con l’enzima. L’energia di legame mantiene i
substrati nella posizione e nell’orientamento corretti per la reazione; questo è uno dei contributi
maggiori alla catalisi, in quanto le collisioni produttive tra due molecole in soluzione possono essere
molto rare. I substrati si trovano nel giusto allineamento con l’enzima grazia a una moltitudine di
interazioni deboli tra il substrato e gruppi dell’enzima disposti strategicamente sulla sua molecola,
che servono a tenere nella corretta posizione le molecole dei substrati.
le molecole di acqua di solvatazione legate con legami idrogeno che circondano e stabilizzano le
biomolecole in soluzioni acquose. La formazione di legami deboli tra l’enzima e il substrato porta
anche ad una desolvatazione del substrato. Le interazioni enzima-substrato sostituiscono la
maggior parte dei legami idrogeno che esistevano tra la molecola del sub- strato e l’acqua.
La distorsione del substrato, che può avvenire in molte reazioni. L’energia di legame che coinvolge
le interazioni deboli che si formano soltanto con lo stato di transizione aiuta a compensare
termodinamicamente qualsiasi stiramento o distorsione, soprattutto la redistribuzione degli
elettroni, cui può andare incontro il substrato durante la reazione.
La necessità di raggiungere un corretto allineamento tra i gruppi funzionali catalitici dell’enzima. Un
enzima quando lega il substrato può andare incontro ad una modificazione conformazionale,
indotta dalle molteplici interazioni deboli che si generano tra proteina e ligando. Questo
meccanismo chiamato adattamento indotto, può interessare una piccola parte dell’enzima in
prossimità del sito attivo, o anche un intero dominio. Di solito all’interno dell’enzima si determina
una serie di piccoli adattamenti, che portano il sito attivo nella corretta struttura. L’adattamento
indotto ha lo scopo di posizionare i gruppi funzionali dell’enzima nell’orienta- mento corretto
perché possa avvenire il processo catalitico. Questa varia- zione conformazionale del sito attivo
permette anche la formazione di interazioni deboli aggiuntive con lo stato di transizione. La nuova
conformazione che l’enzima viene così ad acquisire possiede una maggiore capacità catalitica.
L’energia di legame può essere utilizzata per superare tutte queste barriere.
Una volta che il substrato si è legato, un enzima può utilizzare diversi tipi di catalisi per facilitare la
rottura o la formazione di un legame, sfruttando i suoi gruppi funzionali catalitici opportunamente
disposti.
Catalisi acido-base generale. Gli intermedi carichi possono essere stabilizzati mediante il
trasferimento di un protone al o dal substrato o da un intermedio per formare specie chimiche che
si convertono nei prodotti molto più facilmente dei reagenti. Nelle reazioni non enzimatiche, il
trasferimento di un protone coinvolge quindi i costituenti di una molecola di acqua o altri accettori
o donatori deboli di protoni. La catalisi a cui partecipano ioni 𝐻@ (𝐻>𝑂@) oppure 𝑂𝐻B presenti
nell’acqua viene chiamata catalisi acido-base specifica. Il termine generale si riferisce ad un
trasferimento di protoni mediato da altre classi di molecole. Numerosi acidi or- ganici deboli
possono comportarsi da donatori di protoni al posto dell’ac- qua, oppure le basi organiche deboli
possono servire da accettori di pro- toni. Nel sito attivo di un enzima vi possono essere catene
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laterali di am- minoacidi (His, Asp, Glu, Arg, Lys, Ser) capaci di svolgere la funzione di accettori o
donatori di protoni. Questi gruppi possono far parte di un sito attivo e provvedere al trasferimento
di protoni; questo processo deter- mina un aumento della velocità della reazione di un fattore
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variabile tra 10 e 10 volte. Il trasferimento di protoni è molto comune nelle reazioni biochimiche.
Catalisi covalente. Nella catalisi covalente si forma un legame covalente transitorio tra l’enzima e il
substrato. Un certo numero di catene laterali amminoacidiche e i gruppi funzionali di alcuni
cofattori enzimatici pos- sono fungere da nucleofili nella formazione di legami covalenti con i sub-
strati. Questi complessi covalenti vanno sempre incontro a ulteriori tra- sformazioni, che
rigenerano l’enzima libero.
Catalisidaionimetallici.Leinterazioniionichetraunmetallo–cheagisce da elettrofilo – legato all’enzima
e il substrato possono contribuire ad orientare correttamente il substrato e favorire la reazione
aumentando l’energia di legame o stabilizzare uno stato di transizione, anche scher- mando le
cariche di segno opposto. I metalli possono anche mediare rea- zioni di ossidoriduzione tramite
variazioni reversibili del loro stato di ossi- dazione
La maggior parte degli enzimi combina diverse strategie catalitiche, in modo da aumentare la velocità delle
reazioni.
Lo studio della cinetica enzimatica ha lo scopo di definire le caratteristiche di efficienza catalitica, di definire
la specificità nei confronti del substrato e della reazione, di definire il meccanismo di azione dell’enzima, di
valutare la stabilità dell’enzima in condizioni diverse (pH, temperatura, forza ionica), di analizzare le
molecole in grado di alterare la capacità catalitica dell’enzima.
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5. LIPIDI E MEMBRANE BIOLOGICHE
I lipidi biologici costituiscono un gruppo di composti diversi, che hanno in comune la caratteristica di essere
insolubili in acqua. Le funzioni biologiche dei lipidi sono molto diverse. I grassi e gli oli sono le principali
forme di riserva di energia in molti organismi. I fosfolipidi e gli steroli sono gli elementi strutturali principali
delle membrane biologiche. Altri lipidi, anche se presenti in quantità relativamente piccole, svolgono ruoli
cruciali come cofattori enzimatici, trasportatori di elettroni, pigmenti che assorbono la luce, ancore idro-
fobiche per le proteine, “chaperoni” per favorire l’avvolgimento delle proteine, agenti emulsificanti del
tratto intestinale, ormoni, e messaggeri intracellulari.
I grassi e gli oli, utilizzati quasi universalmente come forme di riserva energetica dagli organismi viventi,
sono composti dei derivati degli acidi grassi. A loro volta gli acidi grassi sono derivati degli idrocarburi e
hanno praticamente lo stesso basso stato di ossidazione (cioè quasi completamente allo stato ridotto) degli
idrocarburi presenti nei combustibili fossili. L’ossidazione completa degli acidi grassi nella cellula (a 𝐶𝑂= e
𝐻=𝑂) è un processo altamente esoergonico.
Gli acidi grassi sono acidi carbossilici con una catena idrocarburica contenente da 4 a 36 atomi di carbonio
(da 𝐶X a 𝐶>•). In alcuni acidi grassi la catena è completamente satura (non contiene doppi legami) e non è
ramificata; in altri son presenti uno o più doppi legami. Solo alcuni acidi grassi contengono anelli formati da
tre atomi di carbonio, gruppi ossidrilici, o gruppi metilici. Gli acidi grassi più comuni sono quelli a catena non
ramificata con numero di atomi di carbonio pari, da 12 a 24.
I doppi legami di quasi tutti gli acidi grassi presenti in natura sono nella con- figurazione cis.
Le proprietà fisiche degli acidi grassi e dei composti che li contengono sono molto influenzate dalla
lunghezza della catena idrocarburica e dal numero di doppi legami presenti nella molecola. Le catene
idrocarburiche non polari sono responsabili della scarsa solubilità degli acidi grassi in acqua. Quanto più
lunga è la catena acilica e quanto più è limitato il numero dei doppi legami, tanto più bassa è la solubilità in
acqua. Il gruppo carbossilico acido è polare (e ionizzato a pH neutro) e da questa proprietà dipende la
modesta solubilità in acqua degli acidi grassi a catena corta.
A temperatura ambiente (25°C), gli acidi grassi saturi da 12 a 24 hanno una consistenza cerosa, mentre gli
acidi grassi insaturi con la stessa lunghezza sono liquidi oleosi. Nei composti completamente saturi, la
rotazione libera intorno a ogni legame carbonio-carbonio conferisce alla catena idrocarburica una grande
flessibilità; la conformazione più stabile è quella completamente estesa, in cui vengono ridotte le
interferenze steriche tra atomi vicini e si stabiliscono legami di van der Waals con quelli delle catene vicine.
Negli acidi grassi insaturi il doppio legame cis produce un ripiegamento nella catena idrocarburica. Gli acidi
grassi con uno o più ripiegamenti non possono impacchettarsi così saldamente, come accade agli acidi
grassi saturi, per cui le loro interazioni con le altre molecole sono più deboli. Poiché è necessaria una
quantità inferiore di energia termica per disorganizzare una disposizione così poco ordinata di acidi grassi
insaturi, essi hanno punti di fusione più bassi di quelli degli acidi grassi saturi con una catena di lunghezza
analoga.
I lipidi più semplici costruiti a partire dagli acidi grassi sono i triacilgliceroli, chiamati anche trigliceridi,
grassi o grassi neutri. I triacilgliceroli sono composti da tre acidi grassi, legati con legami estere ai gruppi
ossidrilici di una molecola di glicerolo.
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Poiché i gruppi ossidrilici polari del glicerolo e i gruppi carbossilici polari degli
acidi grassi sono uniti con legame estere, i triacilgliceroli sono molecole non
polari, idrofobiche ed essenzialmente insolubili in acqua. I lipidi hanno una
densità specifica minore di quella dell’acqua.
vertebrati alcune cellule specializzate, chiamate adipociti o cellule grasse, conservano grandi quantità di
triacilgliceroli sotto forma di gocce di grasso che riempiono quasi completamente la
cellula. Gli adipociti contengono lipasi, enzimi che catalizzano l’idrolisi dei triacilgliceroli conservati,
rilasciando acidi grassi che sono poi esportati ai siti dove vi è bisogno di energia.
Le cere biologiche sono esteri di acidi grassi saturi e insaturi a catena lunga (da 𝐶5X a 𝐶>•) con alcoli a
catena lunga (da 𝐶5• a 𝐶>w). I loro punti di fusione (tra 60 e 100°C) sono in genere più elevati di quelli dei
triacilgliceroli. Nel plancton le cere sono la forma principale di conservazione dell’energia metabolica.
Le cere svolgono in natura anche diverse altre funzioni, correlate alle loro proprietà idrorepellenti e alla
loro consistenza. Certe ghiandole della pelle dei vertebrati secernono cere per proteggere i peli e la pelle e
mantenerli flessibili, lubrificati e impermeabili all’acqua.
Le strutture portanti delle membrane biologiche sono costituite da un dop- pio strato lipidico che agisce
come una barriera al passaggio di molecole polari e ioni. I lipidi di membrana sono anfipatici: un’estremità
della molecola è idrofobica e l’altra è idrofilica. Le interazioni idrofobiche tra molecola lipidica e molecola
lipidica e quelle idrofiliche tra molecole lipidiche e l’acqua determinano la disposizione di queste strutture
in foglietti, detti doppi strati di membrana.
Le parti idrofiliche in questi composti anfipatici possono essere costituite da un unico gruppo –𝑂𝐻 posto ad
un’estremità del sistema ad anelli degli ste- roli, o da gruppi chimici molto più complessi. In generale:
Fosfolipidi: nei glicerofosfolipidi e in alcuni sfingolipidi la testa polare è unita alla parte idrofobica
della molecola da un legame (ponte) fosfodiestere;
Glicolipidi: Altri sfingolipidi non hanno gruppi fosforici, ma la loro testa polare contiene zuccheri
semplici o complessi
All’interno di questi gruppi di lipidi di membrana esiste una enorme eterogeneità molecola,
risultato delle diverse combinazioni possibili fra le “code” de- gli acidi grassi e le “teste” polari.
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fosfolipidi contengono un acido grasso saturo saturo a 16 o 18 atomi di Carbonio
in posizione C-1 e un acido grasso insaturo da 18 a 20 atomi di carbonio in posizione C-2.
esterna delle membrane plasmatiche, hanno una testa polare costituita da uno o più zuccheri legati
direttamente a –𝑂𝐻 del C-1 del ceramide; essi non contengono fosfato.
Gli steroli sono lipidi strutturali presenti nella membrana di molte cellule eucariotiche. La caratteristica
strutturale di questo gruppo di lipidi di membrana è il nucleo steroideo costituito da quattro anelli fusi,
tre a sei atomi di carbonio e uno a cinque atomi. Il nucleo steroideo è quasi planare e relativa- mente
rigido; gli anelli fusi non consentono nessuna rotazione
intorno ai le- gami C–C. Il colesterolo, il principale sterolo dei
tessuti animali, è anfipatico, con una testa polare (il gruppo
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ossidrilico sull’atomo C-3) e un corpo idrocarburico non polare (il nucleo steroideo e la catena laterale
sull’atomo C-17). Oltre ad essere costituenti delle membrane, gli steroli servono anche come precursori
di diversi prodotti conspecifiche attività biologiche. Gli ormoni steroidei, per esempio sono potenti
segnali biologici che regolano l’espressione genica, o precursori degli acidi biliari.
Le membrane definiscono i confini esterni delle cellule e regolano il traffico di molecole attraverso questi
confini; nelle cellule eucariotiche esse dividono lo spazio interno in compartimenti discreti, segregando al
loro interno specifici componenti e processi. Le membrane organizzano complesse sequenze di reazioni e
hanno una funzione determinante sia nella conservazione dell’energia biologica, sia nella comunicazione
tra cellule. Le attività biologi- che delle membrane dipendono dalle loro notevoli proprietà fisiche. Le
membrane sono resistenti ma flessibili, autosigillanti e selettivamente permeabili a soluti polari. La loro
flessibilità consente modificazioni nella forma della cellula che hanno luogo durante la crescita e il
movimento (come nei movimenti ameboidi). La loro capacità di rompersi e di autosigillarsi per- mette a due
membrane di fondersi, come avviene nell’esocitosi o quando un compatimento circondato da una
membrana va incontro a fissione, generando due compartimenti chiusi, come nell’endocitosi e nella
divisione cellu- lare, senza perdite di materiale verso l’esterno. Poiché le membrane sono selettivamente
permeabili, esse consentono di mantenere alcuni composti o ioni all’interno della cellula o all’interno di
specifici compartimenti e di escluderne altri.
Le membrane non sono soltanto barriere passive. Sulla superficie delle cel- lule i trasportatori spostano
molecole organiche specifiche e ioni inorganici attraverso la membrana; i recettori sulla membrana
plasmatica captano segnali extracellulari e li convertono in modificazioni metaboliche all’interno della
cellula; le molecole di adesione tengono unite cellule vicine.
Le proteine e i lipidi polari rappresentano la quasi totalità della massa delle membrane biologiche, e i
carboidrati sono presenti quali componenti delle glicoproteine e dei glicolipidi.
Le quantità relative di lipidi e proteine variano a seconda del tipo di membrana e riflettono le differenze
nelle loro funzioni biologiche.
Le membrane hanno uno spessore che varia da 5 a 8 nm. Sulla base di prove sperimentali ottenute al
microscopio elettronico, di studi sulla composizione chimica e di studi fisici sulla permeabilità e sugli
spostamenti di singole molecole proteiche o lipidiche all’interno della membrana, si
è arrivati alla formulazione del modello a mosaico fluido per la struttura delle membrane biologiche. In
generale, il modello a mosaico fluido descrive le interazioni e i riarrangiamenti dinamici tra i lipidi e le
proteine di membrana. I fosfolipidi formano un doppio strato in cui le regioni non polari dei lipidi sono
disposte all’interno della struttura e le teste polari guardano invece verso l’esterno interagendo con la fase
acquosa su entrambi i lati. Le proteine sono immerse in questo foglietto lipidico a doppio strato a intervalli
irregolari e sono man- tenute nella posizione corretta da interazioni idrofobiche tra i lipidi di membrana e i
domini idrofobici delle proteine. Alcune proteine sporgono solo da un lato o dall’altro della membrana;
altre hanno domini esposti su entrambi i lati del foglietto lipidico. L’orientamento delle proteine nel doppio
strato è asimmetrico, rendendo la membrana altrettanto asimmetrica; i domini di una proteina esposti su
un lato della membrana sono diversi da quelli esposti sull’altro lato, generando così un’asimmetria anche
funzionale. In genere, i carboidrati legati a lipidi e proteine sono sempre esposti sul lato extracellulare. Le
subunità proteiche e lipidiche presenti in una membrana formano un mosaico fluido che è libero di
modificarsi continuamente. La fluidità del mosaico di membrana è data dal fatto che le interazioni tra i suoi
componenti sono non covalenti, lasciando libera ogni singola molecola lipidica e proteica di spostarsi
lateralmente nel piano della membrana. Il grado di fluidità dipende dalla lunghezza e dal grado di
saturazione delle catene idrocarburiche, dalla temperatura e dal contenuto in steroli. Il colesterolo porta ad
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una diminuzione della fluidità delle membrane, poiché la sua struttura rigida interferisce con i movimenti
delle code degli acidi grassi.
Le membrane sono barriere straordinarie che limitano il passaggio di composti ionici e polari. La
variazione di energia libera per consentire il movimento di una sostanza attraverso una membrana
dipende dalle concentra- zioni presenti su ogni lato della membrana e, per gli ioni, dal potenziale di
membrana. Per una sostanza che non può diffondere direttamente attraverso una membrana, il
trasporto può essere mediato da una proteina (carrier) e potrebbe richiedere apporto di energia.
Distinguiamo principalmente:
6. METABOLISMO
Il metabolismo è l’insieme di tutte le reazioni chimiche con cui gli organismi viventi ricavano energia libera
per svolgere le loro numerose funzioni.
Una via metabolica è una serie di reazione catalizzate da enzimi spesso loca- lizzata in uno specifico
compartimento della cellula, per adempiere quattro funzioni principali:
ottenere energia chimica dall’ambiente catturando luce solare o degradando sostanze nutrienti
ricche di energia,
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convertire le molecole delle sostanze nutrienti nelle molecole caratteristiche della cellula stessa,
polimerizzare precursori monomerici in macromolecole formando proteine, acidi nucleici e
polisaccaridi,
sintetizzareedegradarelebiomolecolenecessarieperlefunzionispecia- lizzate della cellula, come ad
esempio lipidi di membrana, messaggeri intracellulari e pigmenti.
Il flusso del materiale attraverso una via metabolica varia in funzione delle attività degli enzimi che
catalizzano le reazioni irreversibili. Gli enzimi che controllano il flusso delle vie metaboliche sono regolati
con meccanismi di tipo allosterico, modificazioni covalenti, cicli del substrato e variazioni dell’espressione
genica. Organismi diversi utilizzano strategie differenti per catturare l’energia libera dell’ambiente che li
circonda e possono essere classificati a seconda della loro richiesta di ossigeno. La nutrizione dei mammiferi
comprende l’assunzione di macronutrienti (proteine, carboidrati e lipidi) e di micronutrienti (vitamine e
minerali). È possibile dividere gli organismi viventi in due grandi gruppi in base alla forma chimica da cui
ricavano atomi di carbonio dall’ambiente.
Gli autotrofi (come i batteri fotosintetici, le alghe verdi e le piante vascolari) possono usare
l’anidride carbonica dell’atmosfera come unica fonte di atomi di carbonio, con cui poi costruiscono
tutte le loro biomolecole organiche. Alcuni organismi autotrofi, come i cianobatteri, possono usare
anche l’azoto atmosferico per produrre i composti azotati di cui hanno bisogno.
Gli eterotrofi non possono utilizzare l’anidride carbonica e devono otte- nere gli atomi di carbonio
dall’ambiente sotto forma di molecole organi- che relativamente complesse, come il glucosio.
Gli organismi autotrofi sono relativamente autosufficienti, mentre quelli eterotrofi, data la loro
necessità di ottenere carbonio in forme complesse, di- pendono dai prodotti di altri organismi.
Molti organismi autotrofi sono fotosintetici e ricavano l’energia di cui hanno bisogno dalla luce solare,
mentre le cellule eterotrofe ricavano l’energia dalla degradazione delle molecole organiche prodotte
dagli autotrofi. Nella nostra biosfera gli organismi autotrofi ed eterotrofi convivono insieme in un
grande ciclo interdipendente, in cui gli autotrofi utilizzano la 𝐶𝑂= dell’atmosfera per costruire le loro
molecole organiche; in questo processo generano ossigeno dall’acqua. Gli eterotrofi a loro volta usano
come nutrienti i prodotti organici degli autotrofi e rimandano 𝐶𝑂= nell’atmosfera. Alcune delle reazioni
di ossidazione che producono 𝐶𝑂= consumano anche l’ossigeno, convertendolo in acqua. Quindi il
carbonio, l’ossigeno e l’acqua sono riciclati costantemente tra i mondi autotrofi ed eterotrofi.
Le cellule sono sistemi altamente ordinati che necessitano di svariate forma di energia per la loro
conservazione e riproduzione e per contrastare la tendenza della natura a decadere a astati energetici più
bassi.
Le cellule sono sistemi isotermici: non possono utilizzare il flusso di calore come fonte di energia. L’energia
utilizzabile dalle cellule è l’energia libera, cioè la quantità di energia disponibile per produrre lavoro a
pressione e temperatura costanti. Le cellule acquistano energia libera sotto forma di energia chimica
immagazzinata nelle molecole che costituiscono le sostanze nutrienti. Il sole è la fonte primaria di energia
per la maggior parte delle cellule.
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1000). Il catabolismo è la fase degradativa del metabolismo, in cui le molecole organiche dei nutrienti
(carboidrati, grassi e proteine) vengono convertite in prodotti finali più semplici (per esempio acido lattico,
𝐶𝑂=, 𝑁𝐻>). Le vie cataboliche rila- sciano energia, parte della quale viene conservata mediante la
produzione di 𝐴𝑇𝑃 e di trasportatori di elettroni in forma ridotta (𝑁𝐴𝐷𝐻, 𝑁𝐴𝐷𝑃𝐻 e 𝐹𝐴𝐷𝐻=); la parte
rimanente viene rilasciata sotto forma di calore. Nell’anabolismo, chiamato anche biosintesi, i precursori
semplici vengono uniti tra loro per costruire molecole complesse più grandi come i lipidi, i polisaccaridi, le
proteine e gli acidi nucleici. Le reazioni anaboliche hanno bisogno di un rifornimento di energia, in genere
sotto forma del potenziale di trasferimento del gruppo fosforico dell’𝐴𝑇𝑃 e del potere riducente di 𝑁𝐴𝐷𝐻,
𝑁𝐴𝐷𝑃𝐻 e 𝐹𝐴𝐷𝐻2.
Le vie metaboliche possono essere lineari o ramificate, generando prodotti finali diversi a partire da un
unico precursore, oppure convertendo diversi materiali di partenza in un singolo prodotto finale. In genere,
le vie cataboliche sono convergenti, mentre le vie anaboliche sono divergenti. Alcune vie sono cicliche: una
delle molecole di partenza della via viene rigenerata in una serie di reazioni che convertono un’altra
molecola di partenza in un prodotto finale.
Le vie anaboliche e cataboliche che hanno in comune gli stessi composti di partenza o gli stessi prodotti
finali, possono avere molti enzimi in comune, ma almeno una delle tappe deve essere catalizzata nella
direzione anabolica e nella direzione catabolica da enzimi diversi; questi enzimi sono sottoposti ad una
regolazione separata. Inoltre, per rendere irreversibili le vie anaboliche e cataboliche è necessario che in
ogni direzione esista almeno una rea- zione termodinamicamente favorita in un senso e quindi sfavorita nel
senso opposto. Un ulteriore contributo alla separazione delle vie anaboliche da quelle cataboliche è dato
dalla segregazione in compartimenti intracellulari diversi.
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Si è tentati di dire che una reazione 𝐴𝑇𝑃-dipendente è
“guidata o favorita dall’idrolisi dell’𝐴𝑇𝑃”. In effetti non è così.
L’idrolisi di 𝐴𝑇𝑃 di per sé libera solo calore, che non può es-
sere utilizzato in un sistema isotermico per guidare un
processo chimico. La freccia di reazione singola rappresenta
quasi sempre un processo a due tappe, in cui una parte della
molecola dell’𝐴𝑇𝑃, il gruppo fosforico o l’adenilato, viene
prima trasferita ad una molecola di sub- strato o a un residuo
amminoacidico
di un enzima. Il trasferimento di questi gruppi tramite la
formazione di un legame covalente porta anche all’aumento
del contenuto in energia libera del substrato o dell’enzima.
Nella seconda fase, l’unità contenente il gruppo fosforico,
trasferita nella prima fase, viene rilasciata generando 𝑃i , 𝑃𝑃i
o 𝐴𝑀𝑃. Quindi l’𝐴𝑇𝑃 partecipa covalentemente alla reazione
catalizzata enzimatica- mente a cui deve fornire energia libera.
Il termine “legame fosforico ad alta energia”, anche se usato correntemente dai biochimici
per indicare il legame 𝑃–𝑂 che si spezza nella reazione di idro- lisi, non è appropriato e può
creare confusione in quanto tende a suggerire che sia il legame stesso a contenente
energia. In realtà, la rottura di un le- game chimico necessita di un apporto di energia.
L’energia rilasciata dall’idrolisi di un composto fosforilato non dipende quindi dallo
specifico le- game che viene rotto, ma dal fatto che i prodotti della reazione hanno un
contenuto energetico minore di quello dei reagenti. Per semplicità, anche in questo testo
useremo qualche volta il temine “composto fosforilato ad alta energia” riferendoci all’𝐴𝑇𝑃
o ad altri composti fosforilati con un’energia libera standard di idrolisi molto negativa.
La maggior parte del catabolismo è indirizzata verso la sintesi di composti fosforilati ad alta
energia, ma la loro formazione non è fine a se stessa; in effetti il trasferimento di gruppi
fosforici è un sistema di attivazione di una grande varietà di composti che in seguito
possono subire altre trasforma- zioni. Il trasferimento di un gruppo fosforico ad un
composto incrementa la sua energia libera, per cui alla fine il composto fosforilato
possiede una quantità di energia libera maggiore, da liberare durante le trasformazioni
metaboliche successive.
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Grazie alla sua posizione intermedia nella scala dei potenziali di trasferimento dei gruppi,
l’𝐴𝑇𝑃 può trasferire energia da composti fosforilati ad alta energia prodotti dal
catabolismo a composti come il glucosio, convertendoli in specie più reattive. L’𝐴𝑇𝑃 ha
dunque la funzione di valuta energetica uni- versale in tutte le cellule.
6.2. I tioesteri
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