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BIOCHIMICA

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BIOCHIMICA
INDICE

1. RIPASSI................................................................................................ 4

2. L’ACQUA..............................................................................................5

1. 2.1.  INTERAZIONI DEBOLI NEI SISTEMI ACQUOSI ....................................................5


2. 2.2.  IONIZZAZIONE DELL’ACQUA, DEGLI ACIDI DEBOLI E DELLE BASI DEBOLI.................7

3. AMMINOACIDI, PEPTIDI E PROTEINE...................................................11

1. 3.1.  GLI AMMINOACIDI .................................................................................... 17


2. 3.2.  UNO SGUARDO ALLA STRUTTURA DELLE PROTEINE ..........................................20
3. 3.3.  LA STRUTTURA PRIMARIA ......................................................................... 22
4. 3.4.  LA STRUTTURA SECONDARIA ..................................................................... 25
5. 3.5.  LA STRUTTURA TERZIARIA ......................................................................... 27
6. 3.6.  MOTIVI E DOMINI...................................................................................27
7. 3.7.  RIPIEGAMENTO E DENATURAZIONE DELLE PROTEINE ..................................... 31
8. 3.8.  LA STRUTTURA QUATERNARIA ................................................................... 32
9. 3.9.  ESEMPIO DI LEGAME REVERSIBILE DI UNA PROTEINA CON UN LIGANDO :

LA MIOGLOBINA .....................................................................................

10. 3.10.  ESEMPIO DI LEGAME REVERSIBILE DI UNA PROTEINA CON UN LIGANDO:

L’EMOGLOBINA ......................................................................................

4. GLI ENZIMI.........................................................................................47

1. 4.1.  CATALISI ENZIMATICA .............................................................................. 48


2. 4.2.  CINETICA ENZIMATICA ............................................................................. 51
3. 4.3.  INIBIZIONE ENZIMATICA ........................................................................... 57
4. 4.4.  ENZIMI REGOLATORI................................................................................ 60

5. LIPIDI E MEMBRANA BIOLOGICHE.....................................................66

1. 5.1.  LIPIDI DI RISERVA .................................................................................... 66


2. 5.2.  LIPIDI STRUTTURALI ................................................................................. 67
3. 5.3.  MEMBRANE BIOLOGICHE ......................................................................... 69
4. 5.4.  PROTEINE DI MEMBRANA ......................................................................... 70
5. 5.5.  TRASPORTO DI MEMBRANA ...................................................................... 71

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6. METABOLISMO.................................................................................. 72

1. 6.1.  ATP, ADP, AMP E ADENOSINA ................................................................ 74


2. 6.2.  I TIOESTERI ............................................................................................ 77
3. 6.3.  LE REAZIONI BIOLOGICHE DI OSSIDORIDUZIONE ............................................ 78
4. 6.4.  COENZIMI PIRIDINICI E FLAVINICI ............................................................... 80
5. 6.5.  FUNZIONI METABOLICHE DEGLI ORGANELLI EUCARIOTICI ................................ 83

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1. RIPASSI

Tutte le reazioni che comportano un flusso di elettroni sono reazioni di ossidoriduzione: un agente si ossida
(perde elettroni), mentre un altro si riduce (acquista elettroni).

Un processo tende ad avvenire spontaneamente solo se il 𝛥𝐺 è negativo (cioè se viene rilasciata energia
libera durante il processo). Eppure la funzione delle cellule dipende in larga misura da molecole, come le
proteine e gli acidi nucleici, per le quali l’energia libera di formazione è positiva: le molecole sintetizzate
sono meno stabili e più ordinate dell’insieme delle loro unità costitutive. Per favorire lo svolgimento delle
reazioni di sintesi termo- dinamicamente sfavorite delle proteine e degli acidi nucleici, che cioè richiedono
energia (reazioni endoergoniche), la cellula deve accoppiarle ad altre reazioni che liberano energia (reazioni
esoergoniche), in modo che l’intero processo sia esoergonico, cioè la somma delle variazioni di energia
libera deve essere negativa.

La sorgente di energia libera prevalentemente utilizzata dalla cellula nelle reazioni accoppiate è l’energia
rilasciata dalla rottura del legame fosfoanidrico dell’adenosina trifosfato (ATP) e della guanosina trifosfato
(GTP). Nelle reazioni accoppiate mostrate sotto, ogni (𝑃) rappresenta un gruppo fosforilico:

𝐴𝑚𝑚𝑖𝑛𝑜𝑎𝑐𝑖𝑑𝑖 → 𝑝𝑟𝑜𝑡𝑒𝑖𝑛𝑎 𝛥𝐺5 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑒𝑛𝑑𝑜𝑒𝑟𝑔𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎

sistema passa dallo stato iniziale a quello di equilibrio, in condizioni di pressione e temperatura costanti, è
data dalla variazione di energia libera, 𝛥𝐺. Il valore di 𝛥𝐺 dipende dalla natura della reazione chimica e da
quanto il sistema allo stato iniziale si trova lontano dalla condizione di equilibrio. Ogni composto coinvolto
in una reazione chimica contiene una certa quantità di energia potenziale, dovuta al numero e al tipo di
legami chimici presenti. Nelle reazioni che avvengono spontaneamente, i prodotti possiedono meno
energia libera rispetto ai reagenti e quindi la reazione rilascia energia libera, che diventa disponibile e utile
per produrre un lavoro. Le reazioni di questo tipo sono dette esoergoniche; la diminuzione di energia libera
che si verifica quando i reagenti sono convertiti in prodotti viene espressa con valori negativi. Le reazioni
endoergoniche richiedono un apporto di energia e i loro va- lori di 𝛥𝐺 sono positivi. Solo una parte
dell’energia rilasciata da un sistema esoergonico può essere impiegata per produrre un lavoro. Una parte
dell’energia viene dissipata sotto forma di calore oppure perduta, con conseguente aumento dell’entropia.

Una reazione esoergonica può essere accoppiata ad una reazione endoergonica, in modo da portare avanti
reazioni altrimenti sfavorite.

𝐴𝑇𝑃→𝐴𝑀𝑃+ 𝑃 +(𝑃) 𝐴𝑇𝑃 → 𝐴𝐷𝑃 + (𝑃)

𝛥𝐺= 𝑛𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 (𝑒𝑠𝑜𝑒𝑟𝑔𝑒𝑛𝑖𝑐𝑎)

Quando queste due reazioni sono accoppiate, la somma di 𝛥𝐺5 e 𝛥𝐺= è negativa, e l’intero processo è
esoergonico. Grazie a questa strategia di accoppiamento, le cellule possono sintetizzare e mantenere stabili
i composti ricchi di informazioni, indispensabili per la vita.

Le reazioni chimiche nei sistemi chiusi procedono spontaneamente fino a che non raggiungono l’equilibrio.
Quando un sistema è all’equilibrio, la velocità di formazione dei prodotti diventa uguale a quella con cui i
prodotti stessi si riconvertono nei reagenti. Non vi è quindi una variazione netta nella concentrazione di
reagenti e prodotti. La variazione di energia che si ha quando il sistema passa dallo stato iniziale a quello di
equilibrio, in condizioni di pressione e temperatura costanti, è data dalla variazione di energia libera, 𝛥𝐺. Il
valore di 𝛥𝐺 dipende dalla natura della reazione chimica e da quanto il sistema allo stato iniziale si trova
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lontano dalla condizione di equilibrio. Ogni composto coinvolto in una reazione chimica contiene una certa
quantità di energia potenziale, dovuta al numero e al tipo di legami chimici presenti. Nelle reazioni che
avvengono spontaneamente, i prodotti possiedono meno energia libera rispetto ai reagenti e quindi la
reazione rilascia energia libera, che diventa disponibile e utile per produrre un lavoro. Le reazioni di questo
tipo sono dette esoergoniche; la diminuzione di energia libera che si verifica quando i reagenti sono
convertiti in prodotti viene espressa con valori negativi. Le reazioni endoergoniche richiedono un apporto di
energia e i loro va- lori di 𝛥𝐺 sono positivi. Solo una parte dell’energia rilasciata da un sistema esoergonico
può essere impiegata per produrre un lavoro. Una parte dell’energia viene dissipata sotto forma di calore
oppure perduta, con conseguente aumento dell’entropia.

Una reazione esoergonica può essere accoppiata ad una reazione endoergonica, in modo da portare avanti
reazioni altrimenti sfavorite.

2. L’ACQUA
2.1. Interazioni deboli nei sistemi acquosi

Ogni atomo di idrogeno di una molecola di acqua condivide una coppia di elettroni con l’atomo di ossigeno.
La geometria della molecola di acqua è de- terminata dalla disposizione dei due orbitali elettronici esterni
dell’ossigeno, simile a quella degli orbitali 𝑠𝑝> di legame del carbonio. Questi orbitali de- scrivono grosso
modo un tetraedro, con un atomo di idrogeno a due degli angoli e gli elettroni non condivisi agli altri due.

L’ossigeno è più elettronegativo: gli elettroni si vengono a trovare molto più spesso nelle vicinanze
dell’atomo di ossigeno che di quello dell’idrogeno. Il risultato di questa distribuzione ineguale degli
elettroni è la formazione di due dipoli elettrici nella molecola dell’acqua, uno lungo ciascuno dei legami H–
O; ogni atomo di idrogeno

porta una parziale carica positiva


(𝛿@) e l’atomo di ossigeno ha
quindi una parziale caria nega-
tiva uguale alla somma di due ca-
riche parziali positive (2𝛿 B ). Si
viene così a generare un’attra-
zione elettrostatica tra l’atomo
di ossigeno di una molecola d’ac-
qua e l’atomo di idrogeno di
un’altra detta legame idrogeno.
I legami idrogeno sono relativamente deboli e nell’acqua allo stato liquido hanno un’energia di
dissociazione (l’energia necessaria per rompere un le- game) di circa 23 kJ/mole, rispetto ai 470 kJ/mole del
legame covalente H–O dell’acqua oppure ai 348 kJ/mole del legame covalente C–C.

I legami idrogeno non sono una prerogativa dell’acqua. Essi si formano facilmente tra un atomo
elettronegativo (accettore di idrogeno, di solito ossi- geno o azoto, con una coppia di elettroni non
condivisi) e un atomo di idro- geno legato covalentemente ad un altro atomo elettronegativo (donatore di
idrogeno) nella stessa o in un’altra molecola.

I legami idrogeno sono più forti quando


le molecole legate sono orientate in
modo da rendere massima l’interazione
elettrostatica, cosa che avviene quando
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l’atomo di idrogeno e gli altri due atomi
partecipano al legame sono su una linea
retta, cioè quando l’atomo accettore è in linea con il legame covalente tra l’atomo donatore e l’H, in modo
tale che la parziale carica positiva dello ione idrogeno è posta tra le due cariche parzialmente negative. La
direzionalità del legame H ha conseguenze importanti nel determinare la struttura e la funzione di una
macromolecola impartendo una disposizione geometrica specifica ai gruppi che lo formano (v. proteine,
DNA).

L’acqua è un solvente polare. Essa dissolve facilmente la maggior parte delle biomolecole, che sono in
genere composti carichi o polari; i composti che si sciolgono facilmente in acqua sono idrofilici. Al contrario,
i solventi non polari solubilizzano solo in parte le biomolecole polari, mentre sono particolar- mente idonei
per quelle idrofobiche, cioè molecole non polari (v. lipidi, cere). In acqua i soluti apolari si aggregano,
perché non sono in grado di stabilire interazioni energeticamente favorevoli con le molecole di acqua.

Il sistema tende a raggiungere maggiore stabilità minimizzando la diminuizione di entropia dovuta alla
disposizione ordinata delle molecole di acqua intorno alle porzioni idrofobiche (aggregazione).

I composti anfipatici contengono nella loro molecola regioni polari (o cari- che) e regioni non polari.
Quando un composto anfipatico viene mescolato all’acqua, la regione polare idrofilica interagisce
favorevolmente con l’acqua e tende a dissolversi, mentre la regione non polare, idrofobica, evita il con-
tatto con l’acqua. Le regioni non polari della molecola si raggruppano in modo da presentare al solvente
acquoso la minore area superficiale possibile e le regioni polari si dispongono in modo da rendere ottimali
le loro intera- zioni con l’acqua. Le strutture stabili che assumono i composti anfipatici in acqua, chiamate
micelle, possono contenere centinaia o migliaia di molecole. I legami che tengono unite le regioni non
polari delle molecole vengono detti interazioni idrofobiche. La forza di queste interazioni idrofobiche non
di- pende dalle singole attrazioni fra le molecole non polari, ma è il risultato del raggiungimento da parte
del sistema di una maggiore stabilità termodinamica che rende minimo il numero di molecole di acqua
disposte in modo ordinato, necessarie a circondare la porzione idrofobica delle molecole di so- luto.

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di queste corrisponde alla zona relativamente piatta della curva, che si estende per
circa 1 unità di pH da ambedue i lati del primo 𝑝𝐾` di 2,34, indi- cando che la glicina
è un buon tampone intorno a questo pH. L’altra zona con potere tamponante è
centrata intorno a pH 9,60.

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Un’altra importante informazione che è possibile derivare dalla curva di titolazione
di un amminoacido è la relazione tra la sua carica netta e il pH della soluzione. A pH
5,97, il punto di flesso tra i due stadi della curva di titola- zione, la glicina è presente
prevalentemente come forma dipolare, ionizzata, ma con carica netta pari a zero. Il
caratteristico pH al quale la carica netta è zero si chiama punto isoelettrico, o pH
isoelettrico, indicato con pI.

La glicina ha una carica netta negativa a valori di pH superiori a quello del suo pI, e
quindi migrerà verso il polo positivo (l’anodo), se posta in un campo elettrico. A pH
inferiori al valore di pI, la glicina ha una carica netta positiva, e migrerà verso il polo
negativo (il catodo). Più il pH di una soluzione di glicina è lontano dal suo punto
isoelettrico, maggiore sarà la carica netta della popolazione delle molecole di glicina.

3.2. Uno sguardo alla struttura delle proteine


La disposizione spaziale degli atomi di una proteina è detta conformazione. Le
conformazioni possibili di una proteina corrispondono a tutte le strutture che la
proteina può assumere che si possono ottenere senza rottura di legami covalenti. La
necessità dell’esistenza di forme multiple stabili deriva dalle va- riazioni che devono
aver luogo, quando le proteine legano altre molecole o catalizzano una reazione. Le
conformazioni che la proteina assume in condizioni diverse sono in genere quelle
termodinamicamente più stabili, cioè quelle che possiedono il più basso valore di
energia libera di Gibbs (𝐺). Quando si trovano in uno dei loro stati conformazionali
funzionali le proteine sono dette native.
Nel contesto della struttura delle proteine, la stabilità può essere definita come la
tendenza a mantenere una conformazione nativa. Le proteine native sono però solo
relativamente stabili. La differenza tra i valori di 𝛥𝐺 dello stato avvolto e dello stato
non avvolto in una tipica proteina in condizioni fisiologiche varia tra 20 e 65
kJ/mole. Una data catena polipeptidica può in teoria assumere innumerevoli
conformazioni, e quindi lo stato non avvolto

di una proteina è caratterizzato da un elevato grado di entropia conformazionale.


Questa entropia e le interazioni dei numerosi gruppi delle catene polipeptidiche con
il solvente (l’acqua) tendono a mantenere le proteine nel loro stato non avvolto. Le
interazioni chimiche che si oppongono a questi effetti, e stabilizzano la
conformazione nativa includono i ponti disolfuro (legami covalenti) e le interazioni
deboli non covalenti: i legami idrogeno e le interazioni idrofobiche e ioniche (non
covalenti).

Molte proteine non hanno ponti disolfuro. L’ambiente all’interno della maggioranza
delle cellule è altamente riducente, quindi impedisce la formazione dei legami –S–
S–. Negli eucarioti, i ponti disolfuro si trovano principalmente nelle proteine secrete
nell’ambiente extracellulare.
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Per le proteine intracellulari di molti organismi, le interazioni deboli hanno una
rilevanza particolare nell’avvolgimento delle loro catene polipeptidiche in strutture
secondarie e terziarie. Anche l’associazione di più catene poli- peptidiche che genera
strutture quaternarie dipende dalle interazioni deboli. Per rompere un legame
covalente occorrono da 200 a 400 kJ/mole, mentre la rottura delle interazioni
deboli richiede appena 4- 30 kJ/mole. I singoli legami covalenti, per esempio i ponti
disolfuro che legano tra loro porzioni lontane di una singola catena polipeptidica,
sono molto più forti delle singole interazioni deboli. Alla temperatura fisiologica, le
interazioni deboli sono transitorie e si formano molto rapidamente, ma pur essendo
deboli, tali interazioni impartiscono elevata stabilità alla molecola, in quanto sono
molto numerose, ed è praticamente impossibile che si rompano tutte
contemporaneamente. In genere, la conformazione proteica con la più bassa
energia libera (cioè la conformazione più stabile) è quella con il maggior numero di
interazioni deboli. La flessibilità strutturale è indispensabile per la funzione.
Esaminando più da vicino il contributo delle interazioni deboli alla stabilità delle
proteine, si può osservare che in genere sono le interazioni idrofobiche quelle
predominanti. Le molecole di acqua pura sono unite tra loro da una rete di legami
idrogeno e nessun’altra molecola ha la stessa capacità di formare legami. La
presenza di qualunque altra molecola nell’acqua rompe i legami idrogeno quando
l’acqua circonda una molecola idrofobica, si forma un guscio ordinato di molecole di
ossigeno unite da legami idrogeno, che prende il nome di strato di solvatazione,
attorno al core idrofobico. L’aumento dell’ordine nelle molecole d’acqua nello strato
di solvatazione crea una diminuzione sfavorevole dell’entropia, ma quando più
gruppi non polari si riuniscono, la dimensione dello strato di solvatazione si riduce in
quanto ciascun gruppo non presenta più l’intera superficie rivolta verso l’acqua. Il
risultato è un aumento favorevole dell’entropia. Come si è detto, questo aumento di
entropia costituisce la forza termodinamica principale che consente l’associazione di
gruppi idrofobici nell’acqua. Allo stesso modo, le catene laterali idrofobiche degli
amminoacidi tendono a raggrupparsi all’interno delle proteine, lontano dall’acqua.

In condizioni fisiologiche, lo stesso effetto entropico guida la formazione dei legami


idrogeno di una proteina. I gruppi polari possono formare legami idro- geno con
l’acqua e per questo sono idrosolubili. Però il numero di legami idrogeno per unità di
massa è generalmente più elevato nell’acqua pura, rispetto a qualsiasi altro liquido o
soluzione; quindi vi sono limiti alla solubilità anche delle molecole più polari, perché
la loro presenza diminuisce il numero dei legami idrogeno per unità di massa, cioè la
disponibilità di molecole di solvente. Quindi, anche intorno alle molecole polari si
forma una sorta di strato di solvatazione. Anche se l’energia di formazione di un
legame idro- geno intramolecolare tra due gruppi polari in una macromolecola viene
in gran parte annullata, in quanto contemporaneamente si rompono le intera- zioni
tra gli stessi gruppi polari e l’acqua, il rilascio di molecole d’acqua libere determinato
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dalle interazioni intramolecolari rappresenta la forza entropica trainante per
l’avvolgimento della macromolecola. La maggior parte della variazione di energia
libera che si verifica quando in una proteina si formano interazioni deboli deriva
quindi dall’aumento dell’entropia della soluzione acquosa circostante, per effetto
dell’ammassamento delle superfici idrofobi- che. In questo modo viene più che
controbilanciata la perdita di entropia conformazionale che si ha quando un
polipeptide assume la sua conforma- zione ripiegata.

È anche importante che tutti i gruppi polari o carichi all’interno delle proteine
trovino le giuste controparti per la formazione di legami idrogeno e di interazioni
ioniche. Tali interazioni formano coppie ioniche o legami salini che possono avere
sia effetto stabilizzante che destabilizzante sulla struttura delle proteine. Le
interazioni ioniche – tra cariche opposte di catene laterali

di amminoacidi carichi – limitano anche la flessibilità delle proteine e conferiscono


alla struttura una forma caratteristiche che le interazioni idrofobiche non possono
conferire.
Le interazioni di Van der Waals sono attrazioni deboli tra dipoli transitori in- torni ai
nuclei di atomi posti in stretta vicinanza. Poiché il core di una proteina è densamente
impaccato, possono instaurarsi numerose interazioni di que- sto tipo tra gli atomi di
catene laterali vicine.

In genere vengono riconosciuti quattro livelli di struttura delle proteine. La


definizione di tutti i legami covalenti (principalmente i legami peptidici e i legami
disolfuro) che legano tra loro i vari amminoacidi in una catena poli- peptidica
costituisce la struttura primaria. L’elemento principale della struttura primaria di
una proteina è la sequenza degli amminoacidi che la compongono. La struttura
secondaria si riferisce a particolari organizzazioni di brevi sequenze amminoacidiche,
che danno origine ad aspetti strutturali per tratti della molecola che si ripetono. La
struttura terziaria descrive tutti gli aspetti tridimensionali di un polipeptide. Se la
proteina è costituita da due o più subunità polipeptidiche, la sua struttura è definita
quaternaria.

Quando il numero degli amminoacidi è relativamente piccolo la struttura viene detta


oligopeptide; se gli amminoacidi sono invece tanti, il prodotto viene chiamato
polipeptide. Anche se i termini “proteina” e “polipeptide” sono spesso considerati
sinonimi, le molecole chiamate polipeptidi hanno in genere masse molecolari
inferiori a 10000, mentre quelle con pesi molecolari più alti si chiamano proteine.

Alcune proteine sono costituite da una singola catena polipeptidica, mentre altre,
chiamate proteine multisubunità, hanno due o più polipeptidi associati non

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covalentemente. Se almeno due sono identiche, la proteina viene detta oligomerica
e le unità identiche sono chiamate protomeri.

3.3. La struttura primaria

La struttura primaria definisce la sequenza degli amminoacidi e la posizione dei ponti


disolfuro, cioè tutti i legami covalenti. La sequenza di una proteina è geneticamente
determinata e ogni tipo di proteina ha una sua caratteristica composizione
amminoacidica e una sequenza definita, cosicché dalla sequenza amminoacidica
dipende la struttura tridimensionale della proteina

e, quindi, la sua funzione. Infatti, proteina con funzioni diverse hanno sequenze
diverse, mentre proteine omologhe hanno sequenze simili e svolgono la stessa
funzione in specie diverse. Modificazioni (mutazioni) nella struttura primaria
determinano alterazioni (o anche perdita) della funzione biologica (v. malattie
genetiche).

Quali informazioni possiamo ricavare dalla struttura primaria? Innanzitutto, le


omologie strutturali: ricercando somiglianze con sequenze note si possono ricavare
alcune informazioni utili sulla struttura tridimensionale e la funzione di una proteina
ignota. In secondo luogo, le sequenze consenso: servono come segnali di
localizzazione intracellulare o di secrezione, come segnali di siti di modificazioni
chimiche (es. siti di attacco per gruppi prostetici, fosfori- lazione e idrossilazione di
amminoacidi, ecc.), per sequenze segnale per recettori e/o ligandi, per le relazioni
evoluzionistiche.

L’enorme varietà potenziale è limitata nelle cellule anche dall’efficienza della sintesi
proteica e dalla capacità del polipeptide di ripiegarsi per dare origine a una struttura
funzionante. Le catene polipeptidiche sono sintetizzate sui ribosomi attraverso un
processo nel quale l’assemblaggio degli amminoacidi in sequenze precise è dettato
dall’RNA messaggero. La catena polipeptidica
nascente subisce ripiegamenti e, spesso,
modificazioni chimiche che completano la
formazione della struttura definitiva della proteina.

Due molecole di amminoacidi possono unirsi


covalentemente mediante un legame ammidico,
chiamato legame peptidico, formando un
dipeptide. Questo tipo di legame si genera per eliminazione di una molecola di
acqua (deidratazione) dal gruppo α-carbossilico di un amminoacido e dal gruppo α-
amminico dell’altro. La formazione del legame peptidico è un esempio di una
reazione di condensazione. A pH fisiologico
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la reazione avviene molto lentamente; la formazione biologica del legame peptidico
è mediata da enzimi e richiede la forma- zione di un intermedio attivato. L’idrolisi
del legame peptidico è una reazione esoergonica, ma avviene molto lentamente per
l’elevata energia di attivazione.

I legami peptidici
delle proteine sono
abbastanza stabili –
la vita media (t5 =)
è di circa 7 anni – nella maggior parte delle condizioni intracellulari.
I legami covalenti hanno un ruolo principale nel determinare la conforma- zione di
un polipeptide. Gli atomi di carbonio α di residui amminoacidici adiacenti sono
separati da tre legami covalenti che si susseguono in questo modo Cα–C–N–Cα. Il
legame peptidico C–N è un po’ più corto del legame C–N delle ammine primarie e gli
atomi che fanno parte del legame peptidico sono complanari. Queste osservazioni
indicano l’esistenza di una risonanza o di una parziale condivisione di due coppie di
elettroni tra l’ossigeno carbonilico e l’azoto ammidico. L’ossigeno ha una sua carica
parziale negativa e l’azoto una carica parziale positiva, generando così un piccolo
dipolo elettrico. I sei atomi del gruppo peptidico giacciono sullo stesso piano e
l’atomo di ossigeno del gruppo carbonilico è in posizione trans rispetto all’atomo di
idrogeno legato all’azoto ammidico. I legami C–N, a causa del loro parziale carattere
di doppio legame, non possono ruotare liberamente. È invece permessa la rotazione
tra i legami N–Cα e Cα–C. Lo scheletro della catena polipeptidica può quindi essere
considerato come una serie di piani rigidi in cui i piani consecutivi hanno in comune
un punto di rotazione, corrispondente al Cα. La rigidità del legame peptidico limita
considerevolmente il numero delle conformazioni che la catena polipeptidica può
assumere. La conformazione del peptide è definita da tre angoli diedri (chiamati
anche angoli di torsione) chiamati φ, ψ e ω che riflettono la rotazione intorno a
ciascuno dei tre legami che si ripe- tono nello scheletro del peptide. L’angolo φ
coinvolge i legami C–N–Cα–C (con la rotazione che avviene intorno al legame N–Cα),
e l’angolo ψ coinvolge i legami N–Cα –C–N (con la rotazione che avviene intorno al
legame Cα–C).

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In linea di principio, φ e ψ possono avere qualunque valore, compreso tra −180° e
+180°, ma molti valori non sono permessi a causa degli impedimenti sterici tra gli
atomi dello scheletro carbonioso e le catene laterali degli amminoacidi. Per questo
motivo la conformazione in cui gli angoli φ e ψ hanno valore = 0° non è permessa;
essa deve essere considerata semplice- mente come punto di riferimento per la
descrizione degli angoli. I valori per- messi di φ e ψ sono riportati nel grafico di
Ramachandran, in cui gli angoli ψ vengono riportati in funzione di φ.

In un polipeptide, il residuo amminoacidico con cui termina la catena poli- peptidica,


il residuo amminoterminale (N-terminale), ha il gruppo α-amminico libero; il residuo
all’altra estremità ha un gruppo α-carbossilico
libero: è il residuo carbossiterminale (C-
terminale). Quando viene mostrata la
sequenza di un peptide, di un polipeptide o di
una proteina, l’estremità amminoterminale
viene posta a

sinistra e quella carbossilica a destra. La


sequenza amminoacidica si legge da sinistra a destra, cominciando dall’estremità
con il gruppo α-amminico libero.

3.4. La struttura secondaria

Il termine struttura secondaria si riferisce alla struttura di un segmento della catena


peptidica caratterizzato da una organizzazione spaziale regola e ricorrente, struttura
stabilizzata dalla formazione di legami idrogeno tra gli atomi che formano il legame
peptidico. Le strutture secondarie più ricorrenti in natura sono l’𝛼 elica e la struttura
𝛽 o a foglietto ripiegato: in queste strutture si ha la minima repulsione sterica e il
massimo numero possibile di legami H.

La più semplice organizzazione regolare che una catena polipeptidica può assumere,
tenendo conto della planarità dei legami carbamidici (ma anche della possibile
rotazione degli altri legami singoli), è una struttura elicoidale,

che Pauling e Corey chiamarono 𝛂 elica. In questa struttura lo scheletro carbonioso


polipeptidico si avvolge stretta-
mente intorno ad un asse immaginario
che attraversa longitudinalmente la

parte centrale della spirale, mentre i


gruppi R dei residui amminoacidici sporgono al di
fuori dello scheletro elicoidale. L’unità che si ripete è
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un singolo
giro dell’elica, che si estende per circa
5,4Å lungo l’asse maggiore. I residui
amminoacidici in un prototipo di α elica
hanno una conformazione corrispondente a un angolo φ = −57° e ψ = −47°. Ogni
giro dell’elica contiene 3,6 residui. I segmenti di α elica nelle proteine spesso
deviano leggermente da questi valori e possono variare anche all’interno di un
singolo segmento. Si formano così lievi torsioni o ripiega- menti rispetto all’asse
dell’elica. In linea di principio, gli L-amminoacidi che si trovano in natura possono
formare eliche destrorse e sinistrorse, ma le eli- che sinistrorse sono in teoria meno
stabili, e non sono state osservate nelle proteine; per cui in tutte le proteine
l’avvolgimento dell’α elica è destrorso. L’α elica è la struttura che si forma più
facilmente perché nell’α elica la disposizione dei legami idrogeno è la migliore
possibile. La struttura è stabilizzata dai legami idrogeno che si formano tra l’atomo
di idrogeno legato all’azoto elettronegativo di un legame peptidico e l’atomo di
ossigeno carbolico del quarto amminoacido successivo nella direzione dell’estremità
amminica. Nell’α elica ciascun legame peptidico (eccetto quelli vicini alle estremità
dell’elica) partecipa alla formazione di legami idrogeno. Ciascun giro dell’α elica è
collegato ai giri adiacenti da tre o quattro legami idrogeno, che con- feriscono una
buona stabilità alla struttura. La direzionalità del legame idro- geno determina le
caratteristiche strutturali dell’α elica: gli atomi coinvolti nel legame idrogeno sono
su una linea retta.

Ciascun residuo amminoacidico in un polipeptide ha una intrinseca tendenza a


formare un’α elica, che dipende dalle proprietà del residuo R e del modo in cui
influenzano la capacità degli atomi dello scheletro peptidico di formare i
caratteristici angoli φ e ψ. L’Ala è l’amminoacido che tende più degli altri a formare
alpha eliche e gli amminoacidi più abbondanti nelle α eliche sono Arg, Glu, Cys, Leu,
Thr, Asp e Val.
I principali fattori destabilizzanti della struttura ad a elica sono:

 Repulsione elettrostatica tra residui amminoacidici con gruppi R carichi dello


stesso segno posti vicini lungo la sequenza della catena. I gruppi carbossilici
carichi negativamente di residui di glutammato adiacenti si re- spingono l’un
l’altro, impedendo così la formazione dell’α elica. Per lo stesso motivo, se vi
sono molti residui di Lys o Arg adiacenti, che possiedono gruppi R carichi
positivamente a pH 7, si respingono l’un l’altro e prevengono la formazione
dell’α elica.
 Vicinanza di gruppi R voluminosi. I residui di Asn, Ser, Thr e Cys possono
destabilizzare l’α elica, se si trovano vicini in una catena polipeptidica.
 Ingombro sterico o repulsione tra catene laterali. L’avvolgimento dell’α
22
elica può generare anche interazioni tra una catena laterale amminoacidica e
un’altra distante tre (talvolta quattro) residui. Spesso gli amminoacidi carichi
positivamente si trovano distanziati di tre residui da quelli ca- richi
negativamente, in modo che possa formarsi un’interazione ionica. Due residui
aromatici si trovano anch’essi distanziati di tre residui, per formare interazioni
idrofobiche.

 Nella prolina, l’atomo di azoto fa parte di un anello rigido e non è possibile


alcuna rotazione intorno al legame N–Cα. Quindi, ogni resi-
duo di Pro introduce un ripiegamento destabilizzante in una
struttura a α elica.
 Interazioni tra il dipolo elettrico dell’elica e gli amminoacidi posti
all’estremità. Un altro fattore importante che può modificare la
stabilità di un’α elica è dato dalla natura dell’amminoacido
localizzato all’estremità del segmento di un polipeptide con
struttura ad α elica. In ogni legame peptidico esiste un piccolo
dipolo elettrico. Questi dipoli si sommano attraverso i legami
idrogeno presenti nell’elica e quindi il dipolo netto aumenta con
la lunghezza dell’elica. I quattro amminoacidi delle due estremità
di un’elica non parteci- pano completamente alla formazione dei
legami idrogeno. Le cariche parziali negative e positive del dipolo
dell’elica risiedono in realtà sui gruppi N–H e C=O dei legami
peptidici

alle estremità carbossi- e amminoterminali dell’elica. Per questo motivo gli


amminoacidi carichi negativamente sono spesso presenti vicino all’estremità
amminoterminale del segmento elicoidale, dove possono generare interazioni
stabilizzanti con la carica positiva del dipolo dell’elica. Un residuo carico
positivamente all’estremità amminoterminale è destabilizzante. All’estremità
carbossiterminale del segmento elicoidale accade esattamente il contrario.

Nella conformazione β lo scheletro della catena polipeptidica si estende in una


conformazione a zig-zag, invece che in una conformazione a spirale. Le catene
polipeptidiche a zig-zag possono essere disposte l’una accanto all’al- tra, formando
una struttura che nel suo insieme presenta una serie di pieghettature. In questa
disposizione delle catene polipeptidiche, detta foglietto 𝛃, i legami idrogeno si
formano tra regioni adiacenti delle catene
polipeptidiche. I gruppi R di amminoacidi
adiacenti sporgono dalla struttura a zig-zag in
direzioni opposte,

23
creando un’alternanza “sopra- sotto”.
Le catene polipeptidiche adiacenti di un foglietto β
possono essere o parallele, o antiparallele (possono
cioè avere lo stesso orientamento o un
orientamento opposto del le- game carbamidico
NH–CO). Le due strutture sono abbastanza simili,
anche se il periodo che si ripete è più corto per la
conformazione parallela (6,5 Å contro 7 Å per
l’antiparallela), e la disposizione dei legami idrogeno è diversa. Nelle strutture β tipi-
che l’angolo φ = −199°, ψ = +113° (parallela) e φ = −139°, ψ = +135°
(antiparallela).

Non tutti gli amminoacidi possono far parte di un foglietto β. Quando due o più
foglietti β si trovano sovrapposti l’uno sull’altro in una proteina, i gruppi R dei residui
amminoacidici delle superfici di contatto devono essere relati- vamente piccoli.

La conformazione β è più stabile quando i singoli segmenti che la compongono sono


leggermente piegati in senso destrorso. Ciò influenza sia la disposizione relativa dei
foglietti β, sia le connessioni tra i foglietti stessi e il poli- peptide. Le connessioni
destrorse sono normalmente più corte delle sinistrorse e tendono a ripiegarsi,
formando angoli minori; quindi si formano più facilmente.

Molto comuni sono i ripiegamenti 𝛃, che collegano le estremità di due segmenti


adiacenti di un foglietto β antiparallelo. La struttura consiste di un ripiegamento di
180° (cambio di direzione) di una sequenza di quattro
residui, dove il gruppo carbonilico del primo residuo
forma un legame idrogeno con l’idrogeno legato
all’azoto del quarto. I legami

peptidici dei due residui centrali non parteci- pano alla


formazione di legami idrogeno. Residui di glicina e di
prolina spesso si trovano nei ripiegamenti β; i primi in
quanto hanno una struttura piccola e flessibile; i legami
peptidici che coinvolgono l’azoto imminico della prolina
assumono facilmente la configura- zione cis, particolarmente adatta ai ripiega- menti
β e, nella fattispecie, ad un cambio di direzione.

3.5. La struttura terziaria

24
La disposizione nello spazio di tutti gli atomi di una proteina viene definita come
struttura terziaria. Mentre l’espressione “struttura secondaria” si riferisce alla
disposizione spaziale di residui amminoacidici adiacenti in un segmento di un
polipeptide, la struttura terziaria tiene conto delle relazioni a lungo raggio nella
sequenza amminoacidica. Gli amminoacidi che si trovano lontani in una sequenza
polipeptidica e quindi fanno parte di tipi differenti di

strutture secondarie possono interagire fra loro nella forma completamente avvolta
della proteina. Segmenti della catena polipeptidica vengono mantenuti nelle loro
caratteristiche posizioni tipiche della struttura terziaria tra- mite diversi tipi di
interazioni deboli e talora anche tramite legami covalenti, come ponti disolfuro che
si instaurano tra segmenti diversi di una proteina. Alcune proteine contengono due
o più catene polipeptidiche distinte, o subunità, che possono essere identiche o
diverse. La disposizione di queste subunità in complessi tridimensionali prende il
nome di struttura quaternaria. Considerando questi livelli strutturali, diventa utile
classificare le proteine in due gruppi principali: le proteine fibrose, che hanno
catene polipeptidiche disposte in lunghi fasci o in foglietti, e le proteine globulari,
che hanno invece catene polipeptidiche ripiegate e assumono forma globulari o
sferiche. I due gruppi sono strutturalmente distinti: le proteine fibrose sono
costituite in gran parte da un unico tipo di struttura secondaria e la struttura
terziaria è relativamente semplice, mentre le proteine globulari contengono più tipi
di struttura secondaria. I due gruppi differiscono anche funzionalmente per il fatto
che

 le proteine che determinano la resistenza, la forma e la protezione esterna


delle cellule dei vertebrati sono fibrose,
 mentre gli enzimi e le proteine regolatrici sono per la maggior parte globulari.
Nelle proteine globulari diversi segmenti della catena polipeptidica (o catene
polipeptidiche multiple) si avvolgono gli uni sugli altri, generando una
struttura più compatta di quella delle proteine fibrose. L’avvolgimento delle
proteine è anche responsabile delle molteplicità strutturali, che permettono
una gamma di funzioni così vasta. Le proteine globulari includono gli enzimi, le
proteine di trasporto, le proteine regolatrici, le immunoglobuline, e tante
altre proteine con le più svariate funzioni.

Tutte le proteine fibrose sono insolubili in acqua, una caratteristica che di-
pende dalla presenza di elevate concentrazioni di amminoacidi idrofobici sia
all’interno sia sulla superficie della proteina. Le superfici idrofobiche sono ben
nascoste al solvente mediante l’associazione con catene polipeptidiche simili
in elaborati complessi sopramolecolari.

25
3.6. Motivi e Domini

Un motivo, detto anche struttura supersecondaria (o ripiegamento) è costituito da


un avvolgimento polipeptidico caratteristico, perciò ben riconoscibile, formato da
due o più elementi di struttura secondaria e dagli elementi di connessione. Un
motivo può essere costituito semplicemente attraverso combinazioni diverse di due
o più elementi di struttura secondaria, collegati da regioni loop, presenti
alla superficie, che consentono un cambiamento di direzione della
catena e quindi un suo ripiegamento, che rappresenta solo
una piccola parte di una proteina. Un esempio è l’ansa 𝛽-𝛼-
𝛽. Ma il motivo può anche essere una struttura elaborata,
che comporta diversi segmenti uniti insieme a formare una
struttura caratteristica, come barile 𝛽. In qualche caso, la
proteina può essere costituita da un singolo motivo. Nelle
regioni loop sono principalmente presenti amminoacidi polari o dotati di
carica elettrica e i gruppi peptidici formano
legami idrogeno con le molecole di acqua, ragion per cui il
motivo può non essere stabile se isolato dal contesto della
che il motivo non è un elemento strutturale gerarchico, da porre tra la
struttura secondaria e la terziaria, ma è un caratteristico tipo di
avvolgimento che descrive parte del peptide, o l’intero peptide.

Un dominio è una parte di una catena polipeptidica di per sé stabile, che potrebbe
comportarsi come se fosse un’entità indipendente rispetto al resto della proteina.
Polipeptidi costituiti da qualche centinaio di residui amminoacidici spesso si
avvolgono nello spazio formando due o più domini, che talvolta svolgono funzioni
diverse, e domini strutturali e funzionali diversi di una stessa proteina corrispondono
spesso a esoni distinti nel gene che codifica per quella proteina. Proteine diverse con
funzioni e sequenza amminoacidica differenti possono avere domini con struttura
terziaria simile. In molti casi, un dominio di una proteina di grandi dimensioni
mantiene la sua struttura tridimensionale anche se viene separato dal resto della
catena polipeptidica. In una proteina con molti domini, ciascuno di questi può
apparire come un lobo globulare distinto, ma se i domini interagiscono tra loro
tramite ampie superfici di contatto, diventa difficile distinguerli. Generalmente le
proteine di piccole dimensioni hanno un solo dominio (cioè il dominio è la stessa
proteina).

26
3.7. Ripiegamento e Denaturazione delle proteine
La forza principale che guida il ripiegamento di una proteina è l’impacchettamento
delle catene laterali idrofobiche all’interno della molecola: forma- zione di un core
idrofobico e una superficie esterna idrofilica (struttura più stabile perché
termodinamicamente favorita). La formazione del core idro- fobico comporta il
ripiegamento verso l’interno anche dello scheletro peptidico altamente polare: la
formazione di strutture secondarie regolari stabilizzate da legami idrogeno risolve
elegantemente il problema.
Le proprietà dell’acqua sono molto importanti per il ripiegamento delle proteine.
Quando l’acqua circonda un composto idrofobico, la disposizione ottimale dei
legami idrogeno porta alla formazione di uno strato ben organizzato intorno al
composto, che determina una diminuzione non favorevole di entropia dell’acqua. Di
conseguenza, le catene laterali degli amminoacidi idro- fobici tendono a
raggrupparsi all’interno delle proteine, diminuendo la superficie esposta al solvente.
Quando l’acqua forma legami idrogeno o interagisce con ioni, si formano strati di
molecole di acqua ordinate che scompaiono quando si formano legami idrogeno o
ionici tra i gruppi polari della catena peptidica. Il contributo entropico del solvente è
trainante anche per la formazione di questi legami. I gruppi polari o carichi possono
trovarsi an- che all’interno delle proteine, ma devono avere una controparte con cui
for- mare legami idrogeno (strutture secondarie) o interazioni ioniche.

Il ripiegamento di una catena polipeptidica molto lunga è senz’altro un processo


complicato e i principi su cui si basa non sono stati chiariti. Esistono però alcuni
modelli plausibili.
In uno di essi il processo di ripiegamento ha carattere gerarchico. Prima si formano
strutture secondarie. Alcune sequenze amminoacidiche si ripiegano
spontaneamente in α eliche o foglietti β. Le interazioni ioniche che interessano
gruppi carichi spesso vicini nella sequenza lineare della catena polipeptidica possono
svolgere un ruolo importante nel determinare questi primi ripiegamenti.
L’organizzazione di strutture locali è seguita da interazioni ad ampio raggio, per
esempio tra due α eliche che vengono ad avvicinarsi per formare strutture
supersecondarie stabili. Questo processo continua fino a che non si formano domini
completi e l’intero peptide assume la sua forma nativa. Le proteine in cui avvengono
interazioni a corto raggio (tra residui abbastanza vicini nella sequenza polipeptidica)
tendono a ripiegarsi più velocemente delle proteine in cui molte interazioni a lungo
raggio tra parti di- verse del polipeptide impongono vie di ripiegamento più
complesse. Secondo un modello alternativo, inizialmente il ripiegamento è favorito
dalla formazione di uno stato compatto mediata da interazioni idrofobiche tra re-
sidui non polari. La conformazione che risulta da questa specie di “collasso
idrofobico” può avere un elevato contenuto di struttura secondaria, ma molte

27
catene laterali amminoacidiche non hanno ancora assunto una con- formazione
fissa. Lo stato collassato spesso viene indicato come globulo fuso (melten globule).

La maggior parte delle proteine probabilmente si ripiega attraverso un pro- cesso


che segue ambedue i modelli. Una popolazione di molecole peptidiche può seguire
vie di ripiegamento diverse, che comunque conducono allo stesso punto di arrivo.

Dal punto di vista termodinamico il processo di ripiegamento può essere descritto


come un processo in cui l’energia libera ha un
andamento ad imbuto. Gli stati non ripiegati sono
caratterizzati da un elevato grado di entropia
conformazionale e da una energia relativamente alta.
Man mano che il processo di ripiega- mento procede, il
restringimento dell’imbuto rappresenta una
diminuzione del numero delle specie a diversa
conforma- zione. Piccole depressioni lungo le parti
esterne dell’imbuto di energia libera rap- presentano
intermedi semistabili che possono rallentare il
processo di ripiega- mento. Nel punto più basso
dell’imbuto

l’insieme degli intermedi ripiegati si riduce ad una


singola conformazione nativa (o a una di un piccolo gruppo di conformazioni native).
La stabilità termodinamica non è distribuita uniformemente su tutta la struttura
della proteina; la molecola possiede regioni a bassa e alta stabilità. Per esempio, una
proteina può avere due domini stabili uniti da un segmento a più bassa stabilità
strutturale, o la piccola parte di un dominio può avere una più bassa stabilità
rispetto al resto. Le regioni a bassa stabilità permettono alle proteine di variare la
loro conformazione fra due o più stati. Le variazioni di stabilità di reazioni all’interno
di una proteina sono spesso essenziali per la sua funzione (v. emoglobina).

Non tutte le proteine si avvolgono spontaneamente dopo la loro sintesi nella cellula.
L’avvolgimento di molte proteine richiede la presenza di chaperoni molecolari,
proteine che interagiscono con polipeptidi ripiegati parzialmente o ripiegati in modo
improprio, facilitando il compito del processo o fornendo un microambiente in cui
l’avvolgimento avviene correttamente. Sono state individuate due classi di
chaperoni molecolari.

La prima classe è costituita da una famiglia di proteine chiamate Hsp70, che


generalmente hanno un peso molecolare di circa 70000. Le proteine Hsp70 si
legano a regioni dei polipeptidi non ripiegate e ricche di residui idrofobici,
impedendo così aggregazioni improprie. Questi chaperoni molecolari “pro- teggono”
28
sia le proteine soggette a denaturazione da trattamento termico sia le nuove
molecole polipeptidiche non ancora ripiegate. Le proteine Hsp70 impediscono
anche il ripiegamento di certe proteine che devono rimanere non ripiegate fino a
che non sono state trasferite attraverso la membrana. Alcuni chaperoni molecolari
facilitano anche l’organizzazione in strutture quaternarie delle proteine
oligomeriche. Le proteine Hsp70 si legano e si staccano dal polipeptide attraverso un
ciclo che utilizza l’energia derivata dall’idrolisi dell’ATP e che coinvolge l’intervento
di altre proteine.

La seconda classe è quella delle chaperonine, complessi proteici sofisticati necessari


per il ripiegamento di alcune proteine cellulari che non si organiz- zano
spontaneamente.
Infine, il percorso di alcune proteine richiede la presenza di due enzimi che
catalizzazione reazioni di isomerizzazione. La proteina disolfuro isomerasi (PDI) è un
enzima ampiamente distribuito, che catalizza l’interscambio, o ri- mescolamento,
dei ponti disolfuro, fino a che non si formano i ponti della conformazione nativa. Tra
le sue funzioni, la PDI catalizza l’eliminazione di intermedi ripiegati in cui sono
presenti ponti disolfuro sbagliati. La propil ci- trans isomerasi (PPI) catalizza
l’interconversione cis-trans dei legami peptidici contenenti residui di prolina.

Gli avvolgimenti sbagliati costituiscono uno dei problemi principali di tutti i tipi di
cellule. Un quarto o forse più di tutti i polipeptidi sintetizzati viene di- strutto, perché
essi sono avvolti in maniera non corretta. In altri casi gli avvolgimenti sbagliati
possono causare o contribuire allo sviluppo di gravi malattie.

La perdita della struttura tridimensionale è detta denaturazione. La denaturazione


non implica necessariamente il completo srotolamento della struttura proteica e
l’acquisizione di una struttura casuale.
La maggior parte delle proteine si denatura al calore, che produce effetti complessi
sulle interazioni deboli (principalmente sui legami idrogeno). Se la temperatura
aumenta lentamente, in genere la conformazione di una proteina rimane intatta,
fino anche la sua struttura (e quindi la sua funzione) non cambia bruscamente, entro
un ristretto ambito di temperatura. La rapidità del cambiamento di struttura induce
a pensare che la perdita della struttura nativa sia un processo cooperativo: la perdita
della struttura in una regione della proteina favorisce la destabilizzazione di altre
regioni.

Le proteine si denaturano anche a


pH estremi o in solventi organici
miscibili con l’acqua, come l’alcol e
l’acetone, o in soluti come urea,
cloruro di guani- dina, e detergenti.
29
Ciascuno di questi agenti denaturanti di per sé rappresenta un trattamento
relativamente blando, perché lascia intatti i legami co- valenti delle catene
polipeptidiche. I solventi organici, i detergenti e l’urea agiscono soprattutto
rompendo le intera- zioni idrofobiche che stabilizzano il nucleo centrale delle
proteine globulari; i pH estremi

alterano la carica netta delle proteine, causando repulsioni elettrostatiche e la


rottura dei legami idrogeno. Le strutture che si ottengono denaturando una proteina
con questi trattamenti diversi non sono necessariamente le stesse.

La denaturazione di alcune proteine è reversibile. Certe proteine globulari


denaturale al calore, a pH estremo, o con un trattamento con altri agenti
denaturanti, riacquistano la loro struttura nativa e la loro attività biologica, se
vengono riportate nelle condizioni in cui la loro conformazione nativa è stabile
(condizioni fisiologiche di temperatura e solvente). Questo processo è chiamato
rinaturazione.

3.8. La struttura quaternaria

La struttura quaternaria descrive il modo in cui le catene peptidiche, che as-sumono


indipendentemente la propria struttura tridimensionale, si asso- ciano a formane
una proteina oligomerica.
Le subunità che formano un oligomero possono essere sia diverse che uguali. Le
interazioni tra le subunità sono costituite da interazioni deboli tra superfici
complanari. La stabilità del complesso può essere aumentata dalla forma- zione di
ponti disolfuro intercatena.

Le funzioni principali delle proteine possono essere riassunte in: Impartire proprietà
regolatrici(enzimiallosterici), Coniugare funzioni diverse e correlate (catalisi e
regolazione), Svolgere funzioni strutturali (es. formazione di fibre), Catalizzare
reazioni complesse (es. piruvico deidrogenasi). I vantaggi della struttura quaternaria
sono:

 Stabilità: riduzione favorevole del rapporto superficie/volume. L’associa-


zione è energicamente favorita perché fa aumentare il grado di disordine
delle molecole di acqua;
 Economia genetica ed efficienza: occorre meno DNA per codificare un
monomero che si associa rispetto ad una unica catena della stessa massa
molecolare (v. virus). Inoltre, si riduce il rischio di errore;
 Introduzione di siti di legame per molecole effettrici;
 Assemblaggio di siti catalitici: la formazione di oligomeri in alcuni casi è
necessaria per costituire un sito attivo completo;
30
 Effetto cooperativo: i punti di contatto tra le subunità forniscono una
modalità di comunicazione tra le subunità stesse.

Riassumiamo adesso quanto detto finora e anticipiamo concetto che sa- ranno
espressi più largamente nelle pagine successive.
Una molecola unita reversibilmente a una proteina viene detta ligando. Un ligando
può essere qualsiasi tipo di molecola, anche una proteina. La natura transitoria delle
interazioni proteina-ligando è essenziale per la vita, perché consente all’organismo
di rispondere rapidamente e reversibilmente a varia- zioni ambientali e metaboliche.

Un ligando si lega ad un sito sulla proteina detto sito di legame, complementare al


ligando stesso per dimensione, forma, carica e carattere idrofobico o idrofilico.
L’interazione è specifica: la proteina può discriminare tra migliaia di molecole
diverse presenti intorno a sé e legarne solo una o poche. Le interazioni molecolari
specifiche sono cruciali per il mantenimento di un elevato grado di ordine all’interno
dei sistemi viventi.

Le proteine sono flessibili. Le modificazioni conformazionali possono essere


impercettibili e sono un riflesso delle vibrazioni molecolari e dei piccoli movimenti
dei residui amminoacidici nella proteina. Per questo motivo si dice che una proteina
“respira”. Le modificazioni conformazionali sono molto spesso essenziali per la
funzione della proteina.

Il legame tra una proteina e un ligando è spesso accompagnato a una modificazione


conformazionale della proteina che rende il sito di legame più complementare al
ligando, in modo da trattenerlo più saldamente. L’adatta- mento strutturale ce si ha
tra una proteina e il suo ligando è chiamato adattamento indotto.

In un sistema multisubunità, una modificazione conformazionale che avviene in una


subunità può influenzare la conformazione delle altre subunità.
Le interazioni tra proteine e ligandi possono essere regolate, di solito mediante il
legame di uno o più ligandi specifici che possono causare nella proteina alterazioni
strutturali capaci di modificare il legame del primo ligando. Gli enzimi rappresentano
un caso speciale di funzione proteica. Essi legano e trasformano chimicamente altre
molecole, cioè catalizzano una reazione. Le molecole su cui agiscono gli enzimi sono
dette substrati e il sito che lega il ligando viene detto in questo caso sito catalitico o
sito attivo.

3.9. Esempio di legame reversibile di una proteina con un ligando: la mioglobina

L’ossigeno è poco solubile in acqua e non può essere trasportato ai tessuti in


quantità sufficiente se è semplicemente disciolto nel plasma sanguigno. La
31
diffusione dell’ossigeno attraverso i tessuti diventa inefficiente se le distanze
superano i pochi millimetri. Nessuna delle catene laterali degli amminoacidi risulta
idonea a legare reversibilmente a molecola di ossigeno. Questo ruolo viene svolto
da certi metalli di transizione, tra cui il ferro e il rame, che hanno una forte tendenza
a legare l’ossigeno. Il ferro allo stato libero provoca la formazione di specie
dell’ossigeno altamente reattive come i radicali ossidrilici, che possono danneggiare
il DNA e altre macromolecole. Il ferro usato nelle cellule è invece sequestrato in
forme che lo rendono meno reattivo, incorporato nel gruppo prostetico legato ad
una proteina chiamo eme. (Ricordiamo che un gruppo prostetico è un composto che
resta permanente- mente legato ad una proteina e che partecipa alla sua funzione).

L’eme è costituito da una struttura organica complessa ad anello, la proto- porfirina


IX, a cui è legato un singolo atomo di ferro nello stato di ossidazione ferroso (Fe 2+).
La protoporfirina è costituita da quattro aneli pirrolici uniti da ponti metilenici che
formano un anello tetrapirrolico planare; all’anello tetrapirrolico sono legati quattro
gruppi metilici, due vinilici e due propionici. L’atomo di ferro ha sei legami di
coordinazione, quattro dei quali sono impegnati con i quattro atomi di azoto che
fanno parte dell’anello porfirinico; gli altri due sono invece perpendicolari al piano
della porfirina. Gli atomi di azoto coordinato (che hanno la caratteristica di donatori
di elettroni) impediscono la conversione del ferro dell’eme nello stato ferrico (Fe 3+).
Il ferro nello stato Fe2+ lega reversibilmente l’ossigeno;

nello stato ossidato Fe3+ non è invece in grado legare l’ossigeno. L’eme presente in
alcune proteine che trasportano ossigeno e anche nei citocromi che partecipano a
reazioni di ossidoriduzione (trasferimento di elettroni).

Quando l’eme non è legato a proteine e quindi è libero in


soluzione, la reazione di uno dei due siti di coordinazione del
ferro (perpendicolari al piano dell’anello porfirinico) con
l’ossigeno genera l’ossidazione irreversibile del Fe2+ a Fe3+.
Quando l’eme è inserito in una proteina questa reazione non
avviene, in quanto il gruppo eme è immerso in profondità
nella struttura proteica e l’accessibilità ai siti di coordinazione
è limitata. Uno dei due legami di coordinazione è impegnato
con un atomo di azoto di una catena laterale di un residuo di His, mentre l’altro
legame è il sito a cui si lega la molecola di ossigeno (O2). Quando si lega l’ossigeno,
le proprietà elettroniche del ferro si modificano; ciò spiega il diverso colore che ha il
sangue venoso povero di ossigeno (rosso scuro) rispetto al sangue arterioso ricco di
ossigeno (rosso brillante). Alcune molecole di piccole dimensioni, come il monossido

32
di carbonio (CO) e l’ossido di azoto (NO), si possono coordinare al ferro dell’eme con
un’affinità anche superiore a quella dell’ossigeno. Quando una molecola di CO si
lega al gruppo eme, non si può più legare ossigeno (ecco perché il CO è molto
tossico per gli organismi aerobi). Sequestrando nel loro interno il gruppo eme, le
proteine che legano l’ossigeno regolano l’accesso al ferro dell’eme, le proteine che
legano l’ossigeno regolano l’accesso al ferro dell’eme del CO e di altre piccole
molecole.

La mioglobina (Mb) è una proteina relativamente semplice e piccola (Mr 16 700 che
lega l’ossigeno, presente nel tessuto muscolare di quasi tutti i mammiferi. Come
proteina di trasporto, la sua funzione è quella di immagazzinare l’ossigeno e di
facilitarne la diffusione nei muscoli in rapida contrazione.

La mioglobina è un singolo polipeptide costituito da 153 amminoacidi, di cui è nota


la sequenza, e da una singola
protoporfirina, o gruppo eme. Appartiene alla famiglia
delle proteine chiamate globine, che hanno struttura
primaria e terziaria simili.
Lo scheletro della molecola della mioglobina è
costituito da otto segmenti relativamente compatti di a
eliche interrotte da ripiegamenti, alcuni dei quali sono
ripiegamenti b. L’a elica più lunga ha 23 residui
amminoacidici e la più corta ne ha soltanto 7; tutte
sono

destrorse. Circa il 78% degli amminoacidi della molecola


della mioglobina è strutturato in a eliche. L’analisi ai raggi X ha rivelato la posizione
precisa di ogni gruppo R, ciascuno dei quali riempie tutto lo spazio esistente
all’interno della catena ripiegata.

La posizione delle catene laterali degli amminoacidi è dovuta a una struttura la cui
stabilità dipende in gran parte da interazioni idrofobiche. Tutti i gruppi R polari sono
localizzati sulla superficie esterna della molecola e tutti sono quindi idratati. La
molecola della mioglobina è così compatta che ne suo in- terno vi è spazio solo per
quattro molecole di acqua. Questo denso nucleo idrofobico è tipico delle proteine
globulari. In questo ambiente così compatto le interazioni deboli diventano più salde
e si rinforzano a vicenda. Tutti i legami peptidici sono nella configurazione planare
trans.

I segmenti ad a elica vengono indicati con le lettere da A ad H. I singoli residui


amminoacidici vengono identificati o dalla loro posizione nella sequenza
amminoacidica, o dalla loro localizzazione in un particolare segmenti ad a elica. I
33
ripiegamenti che uniscono tra loro le a eliche vengono indicati con AB, CD, EF, FG e
così via, cioè con le lettere delle eliche che i ripiegamenti stessi interconnettono.

34
35
per questo composto quando si trova all’interno della mioglobina (e
dell’emoglobina). Questo effetto sul legame del CO è fisiologicamente im- portante
perché, anche se in quantità molto basse, il CO è un sottoprodotto del nostro
metabolismo.

Il legame dell’ossigeno all’eme nella mioglobina dipende anche dai movimenti


molecolari, o “respirazione”, della proteina. La molecola dell’eme è immersa in
profondità nella struttura proteica e l’ossigeno non ha una via diretta per passare
dalla soluzione circostante al sito di legame sull’eme. I movimenti molecolari molto
rapidi delle catene laterali degli amminoacidi producono cavità transitorie nella
struttura della proteina e l’ossigeno sfrutta questi spazi per entrare o uscire dalla
proteina.

Simulazioni al computer indicano che la via principale è generata dalla rota- zione
della catena laterale dell’istidina distale (His64), che avviene ogni nanosecondo (10–
9 s).
Le catene laterali idrofobiche di Val E11 e Phe CD1 poste sul lato dell’eme che lega
l’O2 contribuiscono a mantenere l’eme nella posizione corretta.

3.10. Esempio di legame reversibile di una proteina con un ligando: l’emoglobina

Gli eritrociti normali dell’uomo sono cellule di piccole dimensioni, con un dia- metro
di 6-9 μm, a forma di disco biconcavo, che originano da precursori cellulari staminali
detti emocitoblasti o ematoblasti. Durante il processo di maturazione le cellule
staminali producono molte cellule figlie che formano grandi quantità di emoglobina
e perdono tutti gli organelli citoplasmatici. Gli eritrociti sono quindi vestigia di
cellule, incapaci di replicarsi e destinati a so- pravvivere solo per circa 120 giorni. La
loro funzione principale è quella di trasportare l’emoglobina disciolta nel loro citosol
a una concentrazione molto elevata (circa 24% del loro peso).

Nel sangue arterioso che dai polmoni arriva al cuore attraverso i tessuti periferici,
l’emoglobina è satura per circa il 96% di ossigeno. Nel sangue venoso che ritorna al
cuore e poi ai polmoni l’emoglobina è invece satura dall’ossigeno per circa il 64%.

36
La mioglobina, che ha una curva di legame dell’ossigeno con andamento iperboli, è
relativamente insensibile a piccole variazioni della concentrazione di

ossigeno disciolto e quindi funziona bene come serbatoio di immagazzina- mento di


questo gas. L’emoglobina, con le sue quattro subunità e i suoi gruppi eme, si adatta
meglio alla funzione di trasportatrice di ossigeno.

L’emoglobina (Hb, Mr 54 500) ha una forma quasi sferica, con un diametro di circa
5,5 nm. È una proteina tetramerica contenente quattro gruppi prostetici eme, uno
per ciascuna subunità. L’emoglobina A (emoglobina dell’adulto) contiene due tipi di
globine, e cioè due catene a (141 residui ciascuna) e due catene b (146 residui
ciascuna). La struttura tridimensionale dei due tipi di catene dell’emoglobina è
molto simile. Inoltre, la struttura tridimensionale di queste due subunità è simile
anche a quella della mioglobina. Dal confronto tra le sequenze amminoacidiche
della mioglobina di capodoglio e delle catene a e b dell’emoglobina umana emerge
che solo il 18% dei residui sono identici.

La convenzione per la nomenclatura delle a eliche utilizzata per la mioglobina viene


applicata anche alle subunità dell’emoglobina, con una sola ecce- zione
rappresentata dalla subunità a che manca della corta elica D. Le tasche dell’eme
sono costituite in gran parte dalle eliche E ed F in ciascuna delle subunità.

La struttura quaternaria dell’emoglobina è caratterizzata da interazioni molto forti


tra le quattro subunità. L’interfaccia a1b1 (e la sua controparte a2b2) comprende
circa 30-35 residui ed è sufficientemente forte da resistere a blandi trattamenti
denaturanti; l’esposizione all’urea causa la dissociazione dei tetrameri di
emoglobina nei dimeri ab, che restano intatti. Le interfacce a1b2 e a2b1
comprendono 19 residui. A livello delle interfacce predominano le interazioni
idrofobiche, ma vi sono anche molti legami idrogeno e alcune coppie ioniche
(chiamate anche ponti salini).

37
L’analisi ari raggi X ha messo in evidenza due differenti conformazioni
dell’emoglobina: lo stato R e lo stato T. L’ossigeno si lega ad entrambi gli stati
dell’emoglobina, ma ha un’affinità maggiore per lo stato R. Il legame dell’ossigeno
stabilizza lo stato R. In assenza di ossigeno, una condizione che si può ottenere in
laboratorio, lo stato T è più stabile ed è quindi la conformazione prevalente della
deossiemoglobina. Le lettere T ed R indicano rispettiva- mente lo stato “teso” e
“rilasciato”, in quanto lo stato testo viene stabilizzato da un gran numero di
interazioni ioniche, molte delle quali si verificano all’interfaccia a1b2 e a2b1. Il
legame dell’O2 ad una delle subunità nello stato T dell’emoglobina innesca una
variazione conformazionale, che converte le subunità nello stato R. La transizione
non modifica sostanzialmente le strutture delle singole subunità, ma i due
monomeri ab svicolano l’uno rispetto all’altro e ruotano, restringendo così la tasca
tra le subunità b. Durante questo processo alcuni legami ionici che stabilizzano lo
stato T si spezzano e se ne formano altri.

Max Perutz propose che la transizione T➝R venisse innescata da cambia- menti
della posizione dei residui amminoacidici che circondano l’eme. Nello stato T la
porfirina ha una forma a cupola e pertanto il ferro all’interno dell’eme tende a
protrudere dal lato dell’istidina prossimale (His F8). Il le- game dell’ossigeno
costringe l’eme ad assumere una conformazione più planare, modificando la
posizione dell’His prossimale e dell’elica F ad essa legata. Queste modificazioni
conducono ad un aggiustamento delle coppie ioniche all’interfaccia a1b2.

Attualmente in biochimica si ha una conoscenza abbastanza estesa degli stati T ed R


dell’emoglobina, ma resta ancora molto da approfondire riguardo al modo in cui
avvengono le transizioni T➝R.
Un primo modello è il modello concertato. Le subunità di una proteina che lega i
ligandi in modo cooperativo sono funzionalmente identiche; ciascuna subunità può
esistere in (almeno) due conformazioni; tutte le subunità

vanno incontro simultaneamente ad una transizione da una conformazione all’altra.


Il modello concertato prevede che in una proteina multimerica le subunità non
possano essere presenti in stati conformazioni diversi. Le due conformazioni sono in
equilibrio tra loro. Il ligando può legarsi alle due con- formazioni, ma con diversa
affinità. Il legame delle molecole di ligando alla conformazione a bassa affinità (che è
più stabile in assenza di ligando) rende più probabile la transizione nella
conformazione ad alta affinità.

Un secondo modello è il modello sequenziale, secondo il quale il legame del ligando


induce una variazione conformazionale in una singola subunità adiacente, rendendo

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più probabile il legame di una seconda molecola di ligando. Questo modello prevede
l’esistenza di più stati intermedi rispetto al modello concertato.

I due modelli non si escludono a vicenda. Il modello concertato può essere


considerato come un caso limite (“tutto o niente”) del modello sequenziale.

L’emoglobina deve legare efficientemente l’ossigeno nei polmoni, dove la pO 2 del


gas è di circa 13,3 kPa, e rilasciare l’ossigeno nei tessuti, dove la pO 2 è di circa 4 kPa.
La mioglobina, o qualsiasi proteina che leghi l’ossigeno con un andamento
iperbolico, non sarebbe adatta a questo, perché si saturerebbe facilmente nei
polmoni, ma non libererebbe molto ossigeno nei tes- suti. Se invece la proteina
avesse una bassa affinità per l’ossigeno, potrebbe rilasciarlo nei tessuti, ma non
sarebbe in grado di saturarsi nei polmoni. L’emoglobina risolve questi problemi
mediante la sua transizione da uno stato a bassa affinità (lo stato T) a uno ad alta
affinità (lo stato R) quando lega l’ossigeno. Il risultato di questa transizione è una
curva di legame dell’ossigeno con un andamento sigmoide. Il legame dell’ossigeno
ad una delle subunità dell’emoglobina modifica l’affinità per l’O2 delle subunità
adiacenti. La prima molecola di O2 che interagisce con la deossiemoglobina si lega
de- bolmente, perché si lega ad una subunità nello stato T. Questo legame de-
termina però una modificazione conformazionale che viene comunicata alle
subunità adiacenti, rendendo più facile l’interazione con altre molecole di ossigeno.
Dopo che l’ossigeno si è legato alla prima subunità. La transizione T➝R rende più
facile il legame di una seconda molecola di ossigeno. L’ultima (la quarta) molecola di
ossigeno si lega ad un gruppo eme di una subunità che è ormai nello stato R e quindi
presenta la massima affinità per il suo ligando.
Una proteina allosterica è appunto quella in cui il legame di un ligando a un sito
modifica le proprietà di un altro sito sulla stessa molecola proteica. Le proteine
allosteriche possono avere forme o conformazioni diverse indotte dal legame di
ligandi chiamati anche modulatori. Le modificazioni conformazionali indotte dai
modulatori interconvertono tra loro forme più o meno attive della stessa proteina. I
modulatori di una proteina allosterica possono quindi avere effetti attivatori o
inibitori. Quando il normale ligando di una proteina allosterica è anche un
modulatore, l’interazione viene detta omotropica. Se invece il modulatore è una
molecola diversa dal ligando normale, l’interazione viene detta eterotropica. Alcune
proteine hanno due o più modulatori e possono avere contemporaneamente
interazioni omotropiche ed eterotropiche.

L’ossigeno in questo caso può essere considerato sia un ligando normale, sia un
modulatore omotropico. Vi è un solo sito per l’ossigeno in ogni subunità, e quindi
l’effetto allosterico che dà origine alla cooperatività è dovuto alle modificazioni
conformazionali trasmesse da una subunità a un’altra mediante interazioni
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subunità-subunità. Una curva sigmoide è un indice dell’esistenza di un legame di
tipo cooperativo. Questo fenomeno consente una
risposta molto più sensibile alle variazioni nella
concentrazione del ligando ed è determinante per
la funzione di molte proteine multimeriche.

I siti di legame di una proteina allosterica


normalmente sono costituiti da segmenti stabili in
prossimità di altri relativamente insta- bili, capaci
di andare incontro a frequenti modificazioni della
con- formazione oppure a movimenti
disorganizzati. Il legame di un ligando comporta la
stabilizzazione in una particolare conformazione
delle regioni mobili del sito attivo della proteina, influenzando la conformazione
delle subunità polipeptidiche adiacenti.
Come nel caso della mioglobina, ligandi diversi dall’ossigeno si possono legare
all’emoglobina. Un importante esempio è il monossido di carbonio, che è in grado di

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legarsi all’emoglobina circa 250 volte più saldamente dell’ossigeno.

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lOMoARcPSD|24974521

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4. GLIENZIMI

Gli enzimi sono i catalizzatori delle reazioni biologiche. In ogni cellula avvengono
continuamente migliaia di reazioni chimiche mediate da enzimi, proteina specializzate nel
catalizzare le reazioni metaboliche. I sistemi viventi utilizzano gli enzimi per accelerare e
controllare le reazioni chimiche necessarie per mantenere l’omeostasi cellulare.

Ad eccezione di un piccolo gruppo di molecole di RNA catalitico, tutti gli enzimi sono
proteine. La loro attività catalitica dipende dall’integrità della loro conformazione proteica
nativa. Se un enzima viene denaturato dissociato in subunità, perde la sua attività
catalitica. L’attività viene persa anche se l’enzima viene idrolizzato, per produrre i singoli
amminoacidi costitutivi. Quindi le strutture primaria, secondaria. Terziaria e quaternaria
sono essenziali per l’espressione dell’attività catalitica.

Gli enzimi hanno un peso molecolare che può variare da circa 12 000 a oltre un milione.
Alcuni enzimi hanno bisogno per la loro attività di altri gruppi chimici se non di quelli delle
catene laterali dei loro residui amminoacidici; altri invece hanno bisogno di componenti
chimici addizionali chiamati cofattori. Un cofattore può essere costituito da uno o da più
ioni inorganici, come Fe2+, Mg2+, Mn2+ o Zn2+, oppure da complesse molecole organiche
o metallorganiche chiamate coenzimi. I coenzimi agiscono come trasportatori transitori di
specifici gruppi funzionali. Certi enzimi necessitano per il loro funzionamento sia di un
coenzima sia di ioni metallici. Un coenzima o uno ione metallico legato covalentemente
alla proteina enzimatica viene detto gruppo prostetico. Un enzima cataliticamente attivo
con tutti i suoi coenzimi o ioni metallici è detto oloenzima, mentre la parte proteica di un
enzima viene detta apoenzima o apoproteina. Infine, qualche enzima può essere
modificato covalentemente per fosforilazione, per glicosilazione o mediante altri processi.

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Molte di queste alterazioni della molecola enzimatica sono coinvolte nella regolazione
dell’attività enzimatica.

Molti enzimi hanno nomi che derivano da quello del loro substrato o da una parola o una
frase che descrive la loro attività, a cui è stato aggiunto il suffisso “-asi”. Altri enzimi hanno
il nome assegnato dai loro scopritori in base ad una data funzione, prima che fosse
conosciuta la reazione specifica catalizzata. Inoltre, altri enzimi sono stati denominati in
base alla loro origine. È stato adottato per convenzione internazionale un sistema di
nomenclatura e di classificazione degli enzimi. Questo sistema divide gli enzimi in sei classi
principali, ognuna
suddivisa in sottoclassi in
base al tipo di reazione
chimica catalizzata.

4.1. Catalisi enzimatica

Le reazioni catalizzate dagli enzimi avvengono all’interno dei confini di una tasca enzimatica chiamata sito
attivo. La molecola che si lega al sito attivo e su cui l’enzima agisce è detta substrato. La superficie di un sito
attivo è rivestita da residui amminoacidici i cui gruppi funzionali costituenti legano il sub- strato e
catalizzano la reazione chimica. Spesso il sito attivo ingloba un sub- strato, sequestrandolo completamente
dalla soluzione.

Una semplice reazione enzimatica piò essere scritta:

𝐸 + 𝑆 ⇌ 𝐸𝑆 ⇌ 𝐸𝑃 ⇌ 𝐸 + 𝑃
dove 𝐸, 𝑆, e 𝑃 rappresentano rispettivamente l’enzima, il substrato e il prodotto. 𝐸𝑆 e 𝐸𝑃 sono i complessi
transitori dell’enzima con il substrato e con il prodotto.
La funzione di un catalizzatore è quella di aumentare la velocità di una rea- zione. I catalizzatori non
modificano però gli equilibri delle reazioni. Qualsiasi reazione, come 𝑆 ⇆ 𝑃, può essere descritta dal grafico
della coordinata di reazione, che analizza le variazioni energetiche che avvengono nel corso della reazione.
Nei sistemi biologici l’energia viene espressa nei termini di energia libera, 𝐺. Nel grafico della coordinata,
l’energia libera di un sistema viene analizzata in funzione del procedere della reazione (la coordinata di
reazione). Il punto di partenza per la reazione in un senso o nel senso opposto è definito stato basale e
corrisponde al contributo di energia libera for- nito al sistema da una molecola (𝑆 o 𝑃) in ben definite
condizioni (e quindi il valore medio di energia posseduto da quella popolazione di molecole). L’equilibrio tra
𝑆 e 𝑃 dipende dalla differenza tra livelli di energia libera dei due composti ai loro stati basali. Quando il
𝛥𝐺âw (variazione di energia stan- dard biochimica a pH 7) della reazione è negativo, allora l’equilibrio
favorisce 𝑃. Questo equilibrio non viene modificato da un catalizzatore.

Tra 𝑆 e 𝑃 esiste una barriera energetica che corrisponde all’energia libera necessaria ad allineare i gruppi
reagenti, a formare cariche transitorie insta- bili, a riorganizzare legami e a produrre altre trasformazioni
necessarie alla reazione per procedere in una delle due direzioni. Perché possa avvenire la reazione le
molecole devono superare questa barriera e quindi devono rag- giungere un livello energetico più elevato
di quello basale. Al punto più alto della curva, la molecola ha la stessa probabilità di decadere verso 𝑆 o
verso 𝑃 (entrambe le vie sono in discesa). Questo punto viene chiamato stato di transizione e non

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corrisponde a una specie chimica con una stabilità significative, quindi non è da confondere con un
intermedio della reazione (come 𝐸𝑆 o 𝐸𝑃). È più semplice un momento molecolare transitorio in cui alcuni
eventi come la rottura di un legame, la formazione di un legame o la comparsa di una carica devono
procedere fino a quel punto preciso in cui il composto acquista la probabilità di diventare il prodotto o
ritornare al substrato. La differenza tra i livelli di energia dello stato di base e dello stato di transi- zione è
detta energia di attivazione (𝛥𝐺‡). La velocità di una reazione di- pende da questa energia di attivazione;
un’elevata energia di attivazione corrisponde ad una bassa velocità

della reazione. La velocità delle reazioni può essere


aumentata alzando la temperatura (e/o la pressione),
incrementando quindi il numero di molecole che possono
recuperare una quantità di energia sufficiente a superare la
bar- riera energetica. L’energia di

attivazione può essere abbassata aggiungendo un catalizzatore. Il catalizzatore aumenta la velocità della
reazione abbassando l’energia di attivazione. Gli enzimi non sfuggono alla regola fondamentale dei
catalizzatori, e cioè che essi non alterano gli equilibri delle reazioni a cui partecipano. Le frecce bidirezionali
nella reazione chimica di prima stanno ad indicare che un enzima catalizza la reazione 𝑆 → 𝑃 catalizza anche
la reazione 𝑃 → 𝑆. Il suo ruolo è quello di accelerare l’interconversione tra 𝑆 e 𝑃. L’enzima non viene
consumato durante questo processo e l’equilibrio resta inalterato. La reazione rag- giunge però l’equilibrio
molto più rapidamente quando è presente l’enzima, in quanto la velocità della reazione è molto superiore a
quella normale. Ogni reazione è costituita da diverse tappe, in cui si ha la formazione e la comparsa di
specie chimiche transitorie chiamate intermedi di reazione. Un intermedio di reazione può essere definito
come qualunque specie chimica che si forma lungo il percorso della reazione, che ha un tempo di vita finito.
Quando in una reazione sono presenti più tappe, la velocità complessiva della reazione è determinata dalla
tappa (o dalle tappe) con l’energia di atti- vazione più elevata, che viene detta tappa limitante.

Le energie di attivazione sono sì delle barriere per le reazioni chimiche, ma sono ugualmente importanti per
la vita. La velocità con cui una molecola va incontro ad una particolare reazione diminuisce all’aumentare
dell’energia di attivazione. Se non esistesse questa barriera energetica, le macromolecole complesse
potrebbero convertirsi spontaneamente in forme molecolari più semplici. Inoltre, le strutture ordinate e
complesse e i processi metabolici di ogni cellula non potrebbero esistere. Nel corso dell’evoluzione gli
enzimi hanno sviluppato la capacità di abbassare le energie di attivazione in modo selettivo soltanto per le
reazioni necessarie per la sopravvivenza della cellula.

Riassumendo, gli equilibri delle reazioni sono strettamente correlati alla variazione di energia libera
standard della reazione stessa, 𝛥𝐺’0; se

 𝛥𝐺’0 < 0 ⇒ 𝑃,
 𝛥𝐺’0 > 0 ⇒ 𝑆.

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La velocità di una reazione è invece correlata all’energia di attivazione, 𝛥𝐺‡. Gli enzimi catalizzano reazioni
esoergoniche e abbassano l’energia di attiva- zione inserendo stati di transizione a energia più bassa.

Gli studi condotti da Fischer


nel 1984 sulla specificità enzimatica gli consentirono
di ipotizzare che gli enzimi fossero strutturalmente
complementari al loro substrato e
che quindi i due elementi si
adattassero l’uno all’altro
esattamente come una
“chiave” alla sua “serratura”.
Tuttavia l’ipotesi “chiave-serratura” può essere non
corretta quando si applica alla catalisi enzimatica. Un
enzima assolutamente complementare al suo
substrato potrebbe essere un “cattivo” enzima. Un enzima di questo genere impedisce che avvenga la rea-
zione, in quanto si ha una stabilizzazione del substrato.

Modello chiave serratura


La moderna teoria sulla catalisi enzimatica fu proposta da Pauling nel 1946:
per poter catalizzare una reazione, un enzima deve essere complementare
allo stato di transizione della reazione. Ciò significa che le interazioni
diventano ottimali solo quando il substrato raggiunge lo stato di transizione.
Nel complesso 𝐸𝑆 si formano alcune interazioni deboli, ma tutte le possibili
intera- zioni si generano soltanto quando il substrato raggiunge lo stato di
transizione. L’energia libera (energia di legame) rilasciata durante la
formazione di queste interazioni controbilancia almeno in parte l’energia Modello adattamento indotto
necessaria per arrivare in cima alla curva energetica. La somma
dell’energia di attivazione 𝛥𝐺‡ positiva, e quindi sfavorevole, e dell’energia
di legame (𝛥𝐺ã), negativa e favorevole, porta ad un abbassamento
dell’energia di attivazione netta. Il principio importante che possiamo
ricavare è: le interazioni deboli di legame tra l’enzima e il substrato
rappresentano la principale forza trainante della catalisi. I gruppi del
substrato coinvolti in queste interazioni deboli devono essere a una certa
distanza dai legami che si devono rompere o modificare. Le interazioni deboli che si formano soltanto nello
stato di transizione sono quelle che contribuiscono maggiormente alla catalisi.

La necessità di avere numerose interazioni deboli per guidare la catalisi è una delle ragioni per cui gli enzimi
(e alcuni coenzimi) sono così grandi. L’enzima deve fornire i gruppi funzionali per le interazioni ioniche, le
interazioni idro- fobiche e i legami idrogeno, e inoltre deve stabilire la loro giusta posizione in modo che
l’energia di legame diventi ottimale durante lo stato di transizione. L’inserimento corretto viene raggiunto
grazie al posizionamento del sub- strato in una cavità (sito attivo) dove è di fatto allontanato dall’acqua. Le
dimensioni delle proteine riflettono la necessità di creare superstrutture idonee a consentire ai gruppi
interagenti il corretto posizionamento e di impedire alla cavità di collassare.

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Infine, la specificità verso il substrato dipende anche dalla disposizione spaziale degli atomi che lo
costituiscono (complementarietà geometrica) e dalla distribuzione dei gruppi funzionali (complementarietà
elettronica).

I fattori fisici e termodinamici di una reazione che contribuiscono a determinare il 𝛥𝐺‡B, la barriera che
rallenta la reazione, comprendono:

 la riduzione dell’entropia, sotto forma di una diminuita libertà di movimenti delle due molecole in
soluzione, che si ha con la formazione del complesso 𝐸𝑆; è compensata dalla stabilizzazione dello
stato di transi- zione e dall’aumento di entropia del solvente. Una riduzione pronunciata dei moti
relativi dei due substrati che devono reagire tra loro, detta riduzione entropica, è uno degli aspetti
vantaggiosi che si hanno dal legame dei substrati con l’enzima. L’energia di legame mantiene i
substrati nella posizione e nell’orientamento corretti per la reazione; questo è uno dei contributi
maggiori alla catalisi, in quanto le collisioni produttive tra due molecole in soluzione possono essere
molto rare. I substrati si trovano nel giusto allineamento con l’enzima grazia a una moltitudine di
interazioni deboli tra il substrato e gruppi dell’enzima disposti strategicamente sulla sua molecola,
che servono a tenere nella corretta posizione le molecole dei substrati.

 le molecole di acqua di solvatazione legate con legami idrogeno che circondano e stabilizzano le
biomolecole in soluzioni acquose. La formazione di legami deboli tra l’enzima e il substrato porta
anche ad una desolvatazione del substrato. Le interazioni enzima-substrato sostituiscono la
maggior parte dei legami idrogeno che esistevano tra la molecola del sub- strato e l’acqua.
 La distorsione del substrato, che può avvenire in molte reazioni. L’energia di legame che coinvolge
le interazioni deboli che si formano soltanto con lo stato di transizione aiuta a compensare
termodinamicamente qualsiasi stiramento o distorsione, soprattutto la redistribuzione degli
elettroni, cui può andare incontro il substrato durante la reazione.
 La necessità di raggiungere un corretto allineamento tra i gruppi funzionali catalitici dell’enzima. Un
enzima quando lega il substrato può andare incontro ad una modificazione conformazionale,
indotta dalle molteplici interazioni deboli che si generano tra proteina e ligando. Questo
meccanismo chiamato adattamento indotto, può interessare una piccola parte dell’enzima in
prossimità del sito attivo, o anche un intero dominio. Di solito all’interno dell’enzima si determina
una serie di piccoli adattamenti, che portano il sito attivo nella corretta struttura. L’adattamento
indotto ha lo scopo di posizionare i gruppi funzionali dell’enzima nell’orienta- mento corretto
perché possa avvenire il processo catalitico. Questa varia- zione conformazionale del sito attivo
permette anche la formazione di interazioni deboli aggiuntive con lo stato di transizione. La nuova
conformazione che l’enzima viene così ad acquisire possiede una maggiore capacità catalitica.
L’energia di legame può essere utilizzata per superare tutte queste barriere.

Una volta che il substrato si è legato, un enzima può utilizzare diversi tipi di catalisi per facilitare la
rottura o la formazione di un legame, sfruttando i suoi gruppi funzionali catalitici opportunamente
disposti.

 Catalisi acido-base generale. Gli intermedi carichi possono essere stabilizzati mediante il
trasferimento di un protone al o dal substrato o da un intermedio per formare specie chimiche che
si convertono nei prodotti molto più facilmente dei reagenti. Nelle reazioni non enzimatiche, il
trasferimento di un protone coinvolge quindi i costituenti di una molecola di acqua o altri accettori
o donatori deboli di protoni. La catalisi a cui partecipano ioni 𝐻@ (𝐻>𝑂@) oppure 𝑂𝐻B presenti
nell’acqua viene chiamata catalisi acido-base specifica. Il termine generale si riferisce ad un
trasferimento di protoni mediato da altre classi di molecole. Numerosi acidi or- ganici deboli
possono comportarsi da donatori di protoni al posto dell’ac- qua, oppure le basi organiche deboli
possono servire da accettori di pro- toni. Nel sito attivo di un enzima vi possono essere catene

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laterali di am- minoacidi (His, Asp, Glu, Arg, Lys, Ser) capaci di svolgere la funzione di accettori o
donatori di protoni. Questi gruppi possono far parte di un sito attivo e provvedere al trasferimento
di protoni; questo processo deter- mina un aumento della velocità della reazione di un fattore
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variabile tra 10 e 10 volte. Il trasferimento di protoni è molto comune nelle reazioni biochimiche.
 Catalisi covalente. Nella catalisi covalente si forma un legame covalente transitorio tra l’enzima e il
substrato. Un certo numero di catene laterali amminoacidiche e i gruppi funzionali di alcuni
cofattori enzimatici pos- sono fungere da nucleofili nella formazione di legami covalenti con i sub-
strati. Questi complessi covalenti vanno sempre incontro a ulteriori tra- sformazioni, che
rigenerano l’enzima libero.
 Catalisidaionimetallici.Leinterazioniionichetraunmetallo–cheagisce da elettrofilo – legato all’enzima
e il substrato possono contribuire ad orientare correttamente il substrato e favorire la reazione
aumentando l’energia di legame o stabilizzare uno stato di transizione, anche scher- mando le
cariche di segno opposto. I metalli possono anche mediare rea- zioni di ossidoriduzione tramite
variazioni reversibili del loro stato di ossi- dazione

La maggior parte degli enzimi combina diverse strategie catalitiche, in modo da aumentare la velocità delle
reazioni.

4.2. Cinetica enzimatica

Lo studio della cinetica enzimatica ha lo scopo di definire le caratteristiche di efficienza catalitica, di definire
la specificità nei confronti del substrato e della reazione, di definire il meccanismo di azione dell’enzima, di
valutare la stabilità dell’enzima in condizioni diverse (pH, temperatura, forza ionica), di analizzare le
molecole in grado di alterare la capacità catalitica dell’enzima.

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5. LIPIDI E MEMBRANE BIOLOGICHE

I lipidi biologici costituiscono un gruppo di composti diversi, che hanno in comune la caratteristica di essere
insolubili in acqua. Le funzioni biologiche dei lipidi sono molto diverse. I grassi e gli oli sono le principali
forme di riserva di energia in molti organismi. I fosfolipidi e gli steroli sono gli elementi strutturali principali
delle membrane biologiche. Altri lipidi, anche se presenti in quantità relativamente piccole, svolgono ruoli
cruciali come cofattori enzimatici, trasportatori di elettroni, pigmenti che assorbono la luce, ancore idro-
fobiche per le proteine, “chaperoni” per favorire l’avvolgimento delle proteine, agenti emulsificanti del
tratto intestinale, ormoni, e messaggeri intracellulari.

5.1. Lipidi di riserva

I grassi e gli oli, utilizzati quasi universalmente come forme di riserva energetica dagli organismi viventi,
sono composti dei derivati degli acidi grassi. A loro volta gli acidi grassi sono derivati degli idrocarburi e
hanno praticamente lo stesso basso stato di ossidazione (cioè quasi completamente allo stato ridotto) degli
idrocarburi presenti nei combustibili fossili. L’ossidazione completa degli acidi grassi nella cellula (a 𝐶𝑂= e
𝐻=𝑂) è un processo altamente esoergonico.

Gli acidi grassi sono acidi carbossilici con una catena idrocarburica contenente da 4 a 36 atomi di carbonio
(da 𝐶X a 𝐶>•). In alcuni acidi grassi la catena è completamente satura (non contiene doppi legami) e non è
ramificata; in altri son presenti uno o più doppi legami. Solo alcuni acidi grassi contengono anelli formati da
tre atomi di carbonio, gruppi ossidrilici, o gruppi metilici. Gli acidi grassi più comuni sono quelli a catena non
ramificata con numero di atomi di carbonio pari, da 12 a 24.

I doppi legami di quasi tutti gli acidi grassi presenti in natura sono nella con- figurazione cis.

Le proprietà fisiche degli acidi grassi e dei composti che li contengono sono molto influenzate dalla
lunghezza della catena idrocarburica e dal numero di doppi legami presenti nella molecola. Le catene
idrocarburiche non polari sono responsabili della scarsa solubilità degli acidi grassi in acqua. Quanto più
lunga è la catena acilica e quanto più è limitato il numero dei doppi legami, tanto più bassa è la solubilità in
acqua. Il gruppo carbossilico acido è polare (e ionizzato a pH neutro) e da questa proprietà dipende la
modesta solubilità in acqua degli acidi grassi a catena corta.

A temperatura ambiente (25°C), gli acidi grassi saturi da 12 a 24 hanno una consistenza cerosa, mentre gli
acidi grassi insaturi con la stessa lunghezza sono liquidi oleosi. Nei composti completamente saturi, la
rotazione libera intorno a ogni legame carbonio-carbonio conferisce alla catena idrocarburica una grande
flessibilità; la conformazione più stabile è quella completamente estesa, in cui vengono ridotte le
interferenze steriche tra atomi vicini e si stabiliscono legami di van der Waals con quelli delle catene vicine.
Negli acidi grassi insaturi il doppio legame cis produce un ripiegamento nella catena idrocarburica. Gli acidi
grassi con uno o più ripiegamenti non possono impacchettarsi così saldamente, come accade agli acidi
grassi saturi, per cui le loro interazioni con le altre molecole sono più deboli. Poiché è necessaria una
quantità inferiore di energia termica per disorganizzare una disposizione così poco ordinata di acidi grassi
insaturi, essi hanno punti di fusione più bassi di quelli degli acidi grassi saturi con una catena di lunghezza
analoga.

I lipidi più semplici costruiti a partire dagli acidi grassi sono i triacilgliceroli, chiamati anche trigliceridi,
grassi o grassi neutri. I triacilgliceroli sono composti da tre acidi grassi, legati con legami estere ai gruppi
ossidrilici di una molecola di glicerolo.

57
Poiché i gruppi ossidrilici polari del glicerolo e i gruppi carbossilici polari degli
acidi grassi sono uniti con legame estere, i triacilgliceroli sono molecole non
polari, idrofobiche ed essenzialmente insolubili in acqua. I lipidi hanno una
densità specifica minore di quella dell’acqua.

Nella maggior parte delle cellule eucariotiche i triacilgliceroli costituiscono una


fase separata sotto forma di microscopiche
gocce oleose, presenti nel citosol acquoso, che
servono da depositi di sostanze energetiche. Nei

vertebrati alcune cellule specializzate, chiamate adipociti o cellule grasse, conservano grandi quantità di
triacilgliceroli sotto forma di gocce di grasso che riempiono quasi completamente la

cellula. Gli adipociti contengono lipasi, enzimi che catalizzano l’idrolisi dei triacilgliceroli conservati,
rilasciando acidi grassi che sono poi esportati ai siti dove vi è bisogno di energia.

Le cere biologiche sono esteri di acidi grassi saturi e insaturi a catena lunga (da 𝐶5X a 𝐶>•) con alcoli a
catena lunga (da 𝐶5• a 𝐶>w). I loro punti di fusione (tra 60 e 100°C) sono in genere più elevati di quelli dei
triacilgliceroli. Nel plancton le cere sono la forma principale di conservazione dell’energia metabolica.

Le cere svolgono in natura anche diverse altre funzioni, correlate alle loro proprietà idrorepellenti e alla
loro consistenza. Certe ghiandole della pelle dei vertebrati secernono cere per proteggere i peli e la pelle e
mantenerli flessibili, lubrificati e impermeabili all’acqua.

5.2. Lipidi strutturali

Le strutture portanti delle membrane biologiche sono costituite da un dop- pio strato lipidico che agisce
come una barriera al passaggio di molecole polari e ioni. I lipidi di membrana sono anfipatici: un’estremità
della molecola è idrofobica e l’altra è idrofilica. Le interazioni idrofobiche tra molecola lipidica e molecola
lipidica e quelle idrofiliche tra molecole lipidiche e l’acqua determinano la disposizione di queste strutture
in foglietti, detti doppi strati di membrana.

Le parti idrofiliche in questi composti anfipatici possono essere costituite da un unico gruppo –𝑂𝐻 posto ad
un’estremità del sistema ad anelli degli ste- roli, o da gruppi chimici molto più complessi. In generale:

 Fosfolipidi: nei glicerofosfolipidi e in alcuni sfingolipidi la testa polare è unita alla parte idrofobica
della molecola da un legame (ponte) fosfodiestere;
 Glicolipidi: Altri sfingolipidi non hanno gruppi fosforici, ma la loro testa polare contiene zuccheri
semplici o complessi

All’interno di questi gruppi di lipidi di membrana esiste una enorme eterogeneità molecola,
risultato delle diverse combinazioni possibili fra le “code” de- gli acidi grassi e le “teste” polari.
lOMoARcPSD|24974521

I glicerofosfolipidi, chiamati anche fosfoglice-


ridi, sono lipidi di membrana, in cui due acidi
grassi sono legati con legame estere al primo
e al secondo atomo di carbonio del glicerolo,
mentre un gruppo di molto polare, o carico, è
legato tramite un legame fosfodiestere al
terzo atomo di carbonio. In generale, i glicero-

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fosfolipidi contengono un acido grasso saturo saturo a 16 o 18 atomi di Carbonio
in posizione C-1 e un acido grasso insaturo da 18 a 20 atomi di carbonio in posizione C-2.

Anche gli sfingolipidi


hanno una testa polare
e due code non polari,
ma, a differenza dei gli-
cerofosfolipidi, non contengono glicerolo. Gli
sfingolipidi sono composti da una molecola di sfingosina, un amminoalcol a catena
lunga o da un suo derivato, da una molecola di acido grasso a catena lunga e da
una testa polare alcolica unita in alcuni casi da un legame glicosidico, in altri da un
ponte fosfodiestere.
Gli atomi di carbonio C-1, C-2 e C-3 della sfingosina sono
strutturalmente analoghi ai tre atomi di carbonio del gli-
cerolo nei glicerofosfolipidi. Quando una molecola di
acido grasso si lega mediante un legame ammidico al
gruppo –𝑁𝐻= sull’atomo C-2 della sfingosina, si forma un
ceramide. Il ceramide è l’unità fondamentale comune a
tutti gli sfingolipidi.
Vi sono tre sottoclassi di sfingolipidi, tutte derivate dal ceramide, ma diverse per le loro teste polari:

 Le sfingomieline contengono fosfocolina o


fosfoetanolammina come testa polare, per cui possono essere
classificate come fosfolipidi; non hanno una carica netta nella
loro te- sta polare. Sono abbondanti nella mielina, una guaina
membranosa che circonda e isola gli assoni di alcuni neuroni,
da cui il nome di “sfingomieline”.

 I glicosfingolipidi, localizzati in grande abbondanza sulla


superficie

esterna delle membrane plasmatiche, hanno una testa polare costituita da uno o più zuccheri legati
direttamente a –𝑂𝐻 del C-1 del ceramide; essi non contengono fosfato.

 cerebrosidi hanno una singola unità saccaridica legata a un ceramide;


quelli con galattosio si trovano nella membrana plasmatica del tessuto
neurale e quelli con glucosio sono nella membrana plasmatica di cellule di
tessuti diversi da quello nervoso.
 I globosidi sono glicosfingolipidi neutri (non dotati di cariche) con due o
più zuccheri.
I cerebrosidi e i globosidi sono qualche volta chiamati glicolipidi neutri in
quanto non possiedono cariche a pH 7.
 I gangliosidi, gli sfingolipidi più complessi, hanno teste polari formate da oligosaccaridi complessi.

Gli steroli sono lipidi strutturali presenti nella membrana di molte cellule eucariotiche. La caratteristica
strutturale di questo gruppo di lipidi di membrana è il nucleo steroideo costituito da quattro anelli fusi,
tre a sei atomi di carbonio e uno a cinque atomi. Il nucleo steroideo è quasi planare e relativa- mente
rigido; gli anelli fusi non consentono nessuna rotazione
intorno ai le- gami C–C. Il colesterolo, il principale sterolo dei
tessuti animali, è anfipatico, con una testa polare (il gruppo
59
ossidrilico sull’atomo C-3) e un corpo idrocarburico non polare (il nucleo steroideo e la catena laterale
sull’atomo C-17). Oltre ad essere costituenti delle membrane, gli steroli servono anche come precursori
di diversi prodotti conspecifiche attività biologiche. Gli ormoni steroidei, per esempio sono potenti
segnali biologici che regolano l’espressione genica, o precursori degli acidi biliari.

5.3. Membrane biologiche

Le membrane definiscono i confini esterni delle cellule e regolano il traffico di molecole attraverso questi
confini; nelle cellule eucariotiche esse dividono lo spazio interno in compartimenti discreti, segregando al
loro interno specifici componenti e processi. Le membrane organizzano complesse sequenze di reazioni e
hanno una funzione determinante sia nella conservazione dell’energia biologica, sia nella comunicazione
tra cellule. Le attività biologi- che delle membrane dipendono dalle loro notevoli proprietà fisiche. Le
membrane sono resistenti ma flessibili, autosigillanti e selettivamente permeabili a soluti polari. La loro
flessibilità consente modificazioni nella forma della cellula che hanno luogo durante la crescita e il
movimento (come nei movimenti ameboidi). La loro capacità di rompersi e di autosigillarsi per- mette a due
membrane di fondersi, come avviene nell’esocitosi o quando un compatimento circondato da una
membrana va incontro a fissione, generando due compartimenti chiusi, come nell’endocitosi e nella
divisione cellu- lare, senza perdite di materiale verso l’esterno. Poiché le membrane sono selettivamente
permeabili, esse consentono di mantenere alcuni composti o ioni all’interno della cellula o all’interno di
specifici compartimenti e di escluderne altri.

Le membrane non sono soltanto barriere passive. Sulla superficie delle cel- lule i trasportatori spostano
molecole organiche specifiche e ioni inorganici attraverso la membrana; i recettori sulla membrana
plasmatica captano segnali extracellulari e li convertono in modificazioni metaboliche all’interno della
cellula; le molecole di adesione tengono unite cellule vicine.

Le proteine e i lipidi polari rappresentano la quasi totalità della massa delle membrane biologiche, e i
carboidrati sono presenti quali componenti delle glicoproteine e dei glicolipidi.
Le quantità relative di lipidi e proteine variano a seconda del tipo di membrana e riflettono le differenze
nelle loro funzioni biologiche.

Le membrane hanno uno spessore che varia da 5 a 8 nm. Sulla base di prove sperimentali ottenute al
microscopio elettronico, di studi sulla composizione chimica e di studi fisici sulla permeabilità e sugli
spostamenti di singole molecole proteiche o lipidiche all’interno della membrana, si
è arrivati alla formulazione del modello a mosaico fluido per la struttura delle membrane biologiche. In
generale, il modello a mosaico fluido descrive le interazioni e i riarrangiamenti dinamici tra i lipidi e le
proteine di membrana. I fosfolipidi formano un doppio strato in cui le regioni non polari dei lipidi sono
disposte all’interno della struttura e le teste polari guardano invece verso l’esterno interagendo con la fase
acquosa su entrambi i lati. Le proteine sono immerse in questo foglietto lipidico a doppio strato a intervalli
irregolari e sono man- tenute nella posizione corretta da interazioni idrofobiche tra i lipidi di membrana e i
domini idrofobici delle proteine. Alcune proteine sporgono solo da un lato o dall’altro della membrana;
altre hanno domini esposti su entrambi i lati del foglietto lipidico. L’orientamento delle proteine nel doppio
strato è asimmetrico, rendendo la membrana altrettanto asimmetrica; i domini di una proteina esposti su
un lato della membrana sono diversi da quelli esposti sull’altro lato, generando così un’asimmetria anche
funzionale. In genere, i carboidrati legati a lipidi e proteine sono sempre esposti sul lato extracellulare. Le
subunità proteiche e lipidiche presenti in una membrana formano un mosaico fluido che è libero di
modificarsi continuamente. La fluidità del mosaico di membrana è data dal fatto che le interazioni tra i suoi
componenti sono non covalenti, lasciando libera ogni singola molecola lipidica e proteica di spostarsi
lateralmente nel piano della membrana. Il grado di fluidità dipende dalla lunghezza e dal grado di
saturazione delle catene idrocarburiche, dalla temperatura e dal contenuto in steroli. Il colesterolo porta ad
60
una diminuzione della fluidità delle membrane, poiché la sua struttura rigida interferisce con i movimenti
delle code degli acidi grassi.

5.4. Proteine di membrana

Le proteine di membrana promuovono o catalizzano molti processi molecolari:

 i trasportatori spostano molecole organiche specifiche e ioni inorganici attraverso la membrana,


 irecettoriricevonosegnaliextracellularielitrasmettonoall’internodella cellula,
 le molecole di adesione tengono unite cellule vicine,
 gli enzimi catalizzano reazioni complesse.
Ricordiamo che l’orientamento delle proteine nel doppio strato è asimmetrico portando ad una
asimmetria anche funzionale.
Le proteine integrali di membrana sono strettamente associate al doppio strato lipidico tramite
interazioni idrofobiche tra le catene degli acidi grassi dei lipidi di membrana e i domini idrofobici
delle proteine, dovute agli amminoacidi non polari. In alcune proteine vi è una sola sequenza
idrofobica nel centro della proteina, oppure nella regione amminoterminale o carbossiterminale;
altre proteine di membrana hanno diverse sequenze idrofobiche, ognuna sufficientemente lunga
(circa 20 amminoacidi) da attraversare il dop- pio strato lipidico quando è nella conformazione ad α
elica (transmembrana). Possono essere rimosse solo per trattamento con agenti che interferiscono
con le interazioni idrofobiche, come detergenti, solventi organici o composti denaturanti.
Le proteine periferiche di membrana si associano alla membrana tramite interazioni
elettrostatiche e legami idrogeno con i domini idrofilici delle pro- teine integrali e con le teste polari
dei lipidi di membrana. Esse possono es- sere rilasciate per trattamenti blandi che interferiscono
con le interazioni elettrostatiche e rompono i legami idrogeno; un agente di uso comune è una
soluzione di carbonato a pH elevato.
Le proteine anfitropiche si trovano sia nel citosol che in associazione con le membrane. In alcuni
casi la loro affinità per le membrane è dovuta all’interazione non covalente con una proteina o un
lipide di membrana, mentre in altri casi è dovuta alla presenza di una o più molecole di lipidi legati
alla proteina anfitropica. In generale l’associazione reversibile della proteina anfitropica con la
membrana è regolata; per esempio, la fosforilazione o il legame di un ligando può indurre un
cambia- mento conformazionale della proteina, esponendo un sito di legame per la membrana
prima inaccessibile.

Le proteine e i lipidi sono liberi di spostarsi lateralmente, ma i movimenti da


una faccia all’altra sono impossibili per le proteine e poco frequenti per i
lipidi. I lipidi di membrana hanno tre tipi di movimenti:

 i moti termici delle catene idrofobiche all’interno del doppio strato,


 la diffusione laterale nel piano del doppio strato,
 la diffusione trasversale attraverso il doppio strato o diffusione a
flip-flop. Questo movimento avviene molto lentamente, a meno che
non sia catalizzato da specifiche proteine (flippasi, floppasi,
scramblasi).
61
5.5. Trasporto di membrana

Le membrane sono barriere straordinarie che limitano il passaggio di composti ionici e polari. La
variazione di energia libera per consentire il movimento di una sostanza attraverso una membrana
dipende dalle concentra- zioni presenti su ogni lato della membrana e, per gli ioni, dal potenziale di
membrana. Per una sostanza che non può diffondere direttamente attraverso una membrana, il
trasporto può essere mediato da una proteina (carrier) e potrebbe richiedere apporto di energia.

Distinguiamo principalmente:

 Trasporto passivo o Diffusione semplice. Quando due compartimenti acquosi contenenti


concentrazioni diverse di un composto solubile o di uno ione sono separati da un divisorio
permeabile (membrana), il soluto si muove per diffusione
semplice dalla regione ad alta concentrazione verso quella
a bassa concentrazione, fino a che i due compartimenti
non rag- giungono una concentrazione di soluto uguale
 Trasporto attivo o Diffusione facilitata. Le proteine
trasportatrici di membrana abbassano l’energia di
attivazione necessaria per il trasporto di composti polari e
ioni, generando una via alternativa di attraversa- mento di
membrana per uno specifico soluto.
 Carrier. Legano i loro substrati con alta stereospecificità,
catalizzano il trasporto a quantità ben al di sotto di limiti
della diffusione libera e sono saturabili alla stessa maniera
degli enzimi: al di sopra di una certa concentrazione di
substrato, ulteriori aumenti non producono più un
aumento della velocità di trasporto. La maggior parte dei
carrier sono proteine monomeriche.
 Canali. Generalmente permettono il movimento
transmembrana a velocità di molti ordini di grandezza più elevate di quelle tipiche dei trasportatori
e si avvicinano al limite della libera diffusione. I canali normalmente mostrano minor
stereospecificità rispetto ai carrier e sono normalmente non saturabili. La maggior parte dei canali
sono complessi oligomerici con molte subunità, spesso identiche.

6. METABOLISMO

Il metabolismo è l’insieme di tutte le reazioni chimiche con cui gli organismi viventi ricavano energia libera
per svolgere le loro numerose funzioni.
Una via metabolica è una serie di reazione catalizzate da enzimi spesso loca- lizzata in uno specifico
compartimento della cellula, per adempiere quattro funzioni principali:

 ottenere energia chimica dall’ambiente catturando luce solare o degradando sostanze nutrienti
ricche di energia,

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 convertire le molecole delle sostanze nutrienti nelle molecole caratteristiche della cellula stessa,
 polimerizzare precursori monomerici in macromolecole formando proteine, acidi nucleici e
polisaccaridi,
 sintetizzareedegradarelebiomolecolenecessarieperlefunzionispecia- lizzate della cellula, come ad
esempio lipidi di membrana, messaggeri intracellulari e pigmenti.

Il flusso del materiale attraverso una via metabolica varia in funzione delle attività degli enzimi che
catalizzano le reazioni irreversibili. Gli enzimi che controllano il flusso delle vie metaboliche sono regolati
con meccanismi di tipo allosterico, modificazioni covalenti, cicli del substrato e variazioni dell’espressione
genica. Organismi diversi utilizzano strategie differenti per catturare l’energia libera dell’ambiente che li
circonda e possono essere classificati a seconda della loro richiesta di ossigeno. La nutrizione dei mammiferi
comprende l’assunzione di macronutrienti (proteine, carboidrati e lipidi) e di micronutrienti (vitamine e
minerali). È possibile dividere gli organismi viventi in due grandi gruppi in base alla forma chimica da cui
ricavano atomi di carbonio dall’ambiente.

 Gli autotrofi (come i batteri fotosintetici, le alghe verdi e le piante vascolari) possono usare
l’anidride carbonica dell’atmosfera come unica fonte di atomi di carbonio, con cui poi costruiscono
tutte le loro biomolecole organiche. Alcuni organismi autotrofi, come i cianobatteri, possono usare
anche l’azoto atmosferico per produrre i composti azotati di cui hanno bisogno.

 Gli eterotrofi non possono utilizzare l’anidride carbonica e devono otte- nere gli atomi di carbonio
dall’ambiente sotto forma di molecole organi- che relativamente complesse, come il glucosio.

Gli organismi autotrofi sono relativamente autosufficienti, mentre quelli eterotrofi, data la loro
necessità di ottenere carbonio in forme complesse, di- pendono dai prodotti di altri organismi.
Molti organismi autotrofi sono fotosintetici e ricavano l’energia di cui hanno bisogno dalla luce solare,
mentre le cellule eterotrofe ricavano l’energia dalla degradazione delle molecole organiche prodotte
dagli autotrofi. Nella nostra biosfera gli organismi autotrofi ed eterotrofi convivono insieme in un
grande ciclo interdipendente, in cui gli autotrofi utilizzano la 𝐶𝑂= dell’atmosfera per costruire le loro
molecole organiche; in questo processo generano ossigeno dall’acqua. Gli eterotrofi a loro volta usano
come nutrienti i prodotti organici degli autotrofi e rimandano 𝐶𝑂= nell’atmosfera. Alcune delle reazioni
di ossidazione che producono 𝐶𝑂= consumano anche l’ossigeno, convertendolo in acqua. Quindi il
carbonio, l’ossigeno e l’acqua sono riciclati costantemente tra i mondi autotrofi ed eterotrofi.

Le cellule sono sistemi altamente ordinati che necessitano di svariate forma di energia per la loro
conservazione e riproduzione e per contrastare la tendenza della natura a decadere a astati energetici più
bassi.
Le cellule sono sistemi isotermici: non possono utilizzare il flusso di calore come fonte di energia. L’energia
utilizzabile dalle cellule è l’energia libera, cioè la quantità di energia disponibile per produrre lavoro a
pressione e temperatura costanti. Le cellule acquistano energia libera sotto forma di energia chimica
immagazzinata nelle molecole che costituiscono le sostanze nutrienti. Il sole è la fonte primaria di energia
per la maggior parte delle cellule.

Il metabolismo, la somma di tutte le trasformazioni chimiche che avvengono in una cellula o in un


organismo, avviene attraverso una serie di reazioni catalizzate da enzimi che costituiscono le vie
metaboliche. Ognuna delle tappe di una di queste vie produce una piccola ma specifica modificazione
chimica, di solito la rimozione, il trasferimento o l’aggiunta di uno specifico atomo o di un gruppo
funzionale. In queste successioni di tappe, le vie metaboliche, le molecole di precursore vengono convertite
in prodotti attraverso una serie di intermedi metabolici chiamati metaboliti. Il termine metabolismo
intermedio viene spesso usato per indicare tutte le attività di quelle vie metaboliche che interconvertono
precursori, metaboliti e prodotti con una massa molecolare relativamente bassa (generalmente con 𝑀ß <

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1000). Il catabolismo è la fase degradativa del metabolismo, in cui le molecole organiche dei nutrienti
(carboidrati, grassi e proteine) vengono convertite in prodotti finali più semplici (per esempio acido lattico,
𝐶𝑂=, 𝑁𝐻>). Le vie cataboliche rila- sciano energia, parte della quale viene conservata mediante la
produzione di 𝐴𝑇𝑃 e di trasportatori di elettroni in forma ridotta (𝑁𝐴𝐷𝐻, 𝑁𝐴𝐷𝑃𝐻 e 𝐹𝐴𝐷𝐻=); la parte
rimanente viene rilasciata sotto forma di calore. Nell’anabolismo, chiamato anche biosintesi, i precursori
semplici vengono uniti tra loro per costruire molecole complesse più grandi come i lipidi, i polisaccaridi, le
proteine e gli acidi nucleici. Le reazioni anaboliche hanno bisogno di un rifornimento di energia, in genere
sotto forma del potenziale di trasferimento del gruppo fosforico dell’𝐴𝑇𝑃 e del potere riducente di 𝑁𝐴𝐷𝐻,
𝑁𝐴𝐷𝑃𝐻 e 𝐹𝐴𝐷𝐻2.

Le vie metaboliche possono essere lineari o ramificate, generando prodotti finali diversi a partire da un
unico precursore, oppure convertendo diversi materiali di partenza in un singolo prodotto finale. In genere,
le vie cataboliche sono convergenti, mentre le vie anaboliche sono divergenti. Alcune vie sono cicliche: una
delle molecole di partenza della via viene rigenerata in una serie di reazioni che convertono un’altra
molecola di partenza in un prodotto finale.

Le vie anaboliche e cataboliche che hanno in comune gli stessi composti di partenza o gli stessi prodotti
finali, possono avere molti enzimi in comune, ma almeno una delle tappe deve essere catalizzata nella
direzione anabolica e nella direzione catabolica da enzimi diversi; questi enzimi sono sottoposti ad una
regolazione separata. Inoltre, per rendere irreversibili le vie anaboliche e cataboliche è necessario che in
ogni direzione esista almeno una rea- zione termodinamicamente favorita in un senso e quindi sfavorita nel
senso opposto. Un ulteriore contributo alla separazione delle vie anaboliche da quelle cataboliche è dato
dalla segregazione in compartimenti intracellulari diversi.

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65
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Si è tentati di dire che una reazione 𝐴𝑇𝑃-dipendente è
“guidata o favorita dall’idrolisi dell’𝐴𝑇𝑃”. In effetti non è così.
L’idrolisi di 𝐴𝑇𝑃 di per sé libera solo calore, che non può es-
sere utilizzato in un sistema isotermico per guidare un
processo chimico. La freccia di reazione singola rappresenta
quasi sempre un processo a due tappe, in cui una parte della
molecola dell’𝐴𝑇𝑃, il gruppo fosforico o l’adenilato, viene
prima trasferita ad una molecola di sub- strato o a un residuo
amminoacidico
di un enzima. Il trasferimento di questi gruppi tramite la
formazione di un legame covalente porta anche all’aumento
del contenuto in energia libera del substrato o dell’enzima.
Nella seconda fase, l’unità contenente il gruppo fosforico,
trasferita nella prima fase, viene rilasciata generando 𝑃i , 𝑃𝑃i
o 𝐴𝑀𝑃. Quindi l’𝐴𝑇𝑃 partecipa covalentemente alla reazione
catalizzata enzimatica- mente a cui deve fornire energia libera.

I composti fosforilati presenti negli organismi viventi possono


essere suddivisi convenzionalmente in due gruppi, basandosi
sulle loro energie libere standard di idrolisi. I composti “ad alta
energia” hanno un 𝛥𝐺’0 di idrolisi negativo, con un valore più
negativo di −25 kJ/mole, i composti “a bassa energia” hanno un 𝛥𝐺’0 negativo, ma con un
valore meno negativo di −25 kJ/mole. Quindi, l’𝐴𝑇𝑃, che ha un 𝛥𝐺’0di idrolisi pari a −30
kJ/mole, è un composto ad alta energia; il glucosio 6-fosfato, che ha un 𝛥𝐺’0di idrolisi di
13,8 kJ/mole, è un composto a bassa energia.

Il termine “legame fosforico ad alta energia”, anche se usato correntemente dai biochimici
per indicare il legame 𝑃–𝑂 che si spezza nella reazione di idro- lisi, non è appropriato e può
creare confusione in quanto tende a suggerire che sia il legame stesso a contenente
energia. In realtà, la rottura di un le- game chimico necessita di un apporto di energia.
L’energia rilasciata dall’idrolisi di un composto fosforilato non dipende quindi dallo
specifico le- game che viene rotto, ma dal fatto che i prodotti della reazione hanno un
contenuto energetico minore di quello dei reagenti. Per semplicità, anche in questo testo
useremo qualche volta il temine “composto fosforilato ad alta energia” riferendoci all’𝐴𝑇𝑃
o ad altri composti fosforilati con un’energia libera standard di idrolisi molto negativa.

La maggior parte del catabolismo è indirizzata verso la sintesi di composti fosforilati ad alta
energia, ma la loro formazione non è fine a se stessa; in effetti il trasferimento di gruppi
fosforici è un sistema di attivazione di una grande varietà di composti che in seguito
possono subire altre trasforma- zioni. Il trasferimento di un gruppo fosforico ad un
composto incrementa la sua energia libera, per cui alla fine il composto fosforilato
possiede una quantità di energia libera maggiore, da liberare durante le trasformazioni
metaboliche successive.
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Grazie alla sua posizione intermedia nella scala dei potenziali di trasferimento dei gruppi,
l’𝐴𝑇𝑃 può trasferire energia da composti fosforilati ad alta energia prodotti dal
catabolismo a composti come il glucosio, convertendoli in specie più reattive. L’𝐴𝑇𝑃 ha
dunque la funzione di valuta energetica uni- versale in tutte le cellule.

6.2. I tioesteri

Anche i tioesteri, composti nei quali l’atomo di ossigeno del


legame estere è sostituito da un atomo di zolfo, possiedono
un’energia libera di idrolisi negativa ed elevata.
L’acetil-coenzima A o acetil-CoA è un tioestere che
incontreremo spesso nei capitoli seguenti. In questi composti il
gruppo acilico viene attivato per es- sere utilizzato in reazioni
di transacilazione, condensazione e ossidoriduzione. I
tioesteri vanno incontro ad una minore stabilizzazione per
risonanza degli esteri normali, contenenti ossigeno al posto
dello zolfo. Di conseguenza, la differenza di energia libera tra il
reagente e i suoi prodotti di reazione, che sono stabilizzati per
risonanza, è maggiore per i tioesteri che per gli esteri
contenenti ossi- geno. In ambedue i casi, l’idrolisi dell’estere
genera un acido carbossilico, che si ionizza, assumendo
diverse forme di risonanza. L’insieme di questi fattori produce
un 𝛥𝐺’0 di idrolisi fortemente negativo per l’idrolisi
dell’acetil-CoA (−31,4 kJ/mole). Riassumendo, i composti con
un’energia libera di idrolisi molto negativa generano prodotti più stabili dei reagenti per
uno o più dei seguenti motivi:

 La tensione di legame nei reagenti, dovuta a repulsione elettrostatica, di- minuisce a


seguito della separazione delle cari- che, come nel caso dell’𝐴𝑇𝑃;
 I prodotti sono stabilizzati mediante ionizzazione, come nel caso dell’𝐴𝑇𝑃, degli
acidi fosforici e dei tioesteri;
 I prodotti sono stabilizzati per risonanza, come il fosfato inorganico (𝑃Æ) che si
forma dalla rottura di legami estere ed anidrinici.

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