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Fondamenti di Chimica

Prof. Piero Macchi

Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica


Politecnico di Milano, via Mancinelli 7, 20131 Milano
piero.macchi@polimi.it

Anno Accademico 20021/2022

Corso di Laurea primo livello in Ingegneria Meccanica

Testo consigliato:
W. Masterton, C. Hurley. Chimica: Principi e Reazioni. Editore: Piccin Nuova Libraria

Testo consigliato per le esercitazioni:


D'Arrigo, Famulari, Gambarotti, Scotti. Chimica: Esercizi e Casi Pratici. Editore: Edises

Modalità d’esame:
L'insegnamento si svolge nel primo semestre e prevede due prove in itinere (facoltative) della du-
rata di due ore. La prima prova in itinere si tiene a novembre, nel periodo di sospensione della didatti-
ca. Solo chi ha superato la prima prova con votazione sufficiente (> ) può sostenere la seconda pro-
va, che si tiene a conclusione del corso. Entrambe le prove consistono nello svolgimento di dieci tra
esercizi di calcolo e domande aperte. Dopo la seconda prova in itinere, gli studenti potranno chiedere
di sostenere un orale integrativo (opzionale).
Chi non ha sostenuto le prove in itinere, è stato giudicato insufficiente oppure ha rifiutato il voto
proposto, può presentarsi alle successive prove d'esame che si terranno tra gennaio e febbraio (prima
dell'inizio del secondo semestre), a giugno, a luglio, oppure agli inizi di settembre, prima dell'inizio
del nuovo A.A. Queste prevedono uno scritto (della durata di due ore) con dieci tra esercizi e domande
aperte, seguito da un esame orale opzionale.
È obbligatorio iscriversi alle prove, sia in itinere che d'esame.
Lo studente dovrà dimostrare di aver acquisito la capacità di estrarre e sintetizzare le informazioni
rilevanti e di saper comunicare in maniera efficace e con la corretta terminologia.
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Introduzione: a cosa serve la chimica?


La chimica è una scienza naturale1 di origini molto antiche. Tuttavia, prima dell’epoca moderna e della rivoluzio-
ne scientifica Galileiana, la chimica era spesso considerata al pari di magia e astrologia. La parola araba al chimia
(‫ﺍﻟﻜﻴﻤﻴﺎء‬, al-kimiaa) dà origine sia al termine alchimia (che perfettamente identifica il lato esoterico e magico) sia al
termine chimica.
La scienza chimica è oggi molto ampia, sovrapposta sia alla biologia (e.g. biochimica), sia alla fisica (soprattutto
nella scienza dei materiali) sia ad altre scienze (geologia, mineralogia, ecc.). Definire quindi un vero perimetro della
chimica non è possibile; tuttavia, sono identificabili chiaramente gli ambiti centrali di questa scienza, ossia lo studio
della materia al livello microscopico di atomi, molecole e loro aggregati, e a quello macroscopico del comportamento
di sostanze pure o composite, nei vari stati di aggregazione. Il livello “inferiore”, ossia quello degli atomi, oltre ad
avere origini storiche, ha una precisa collocazione “energetica”. Gli atomi, nonostante le supposizioni iniziali, non
sono i costituenti ultimi della materia, essendo loro stessi composti di altre particelle, a loro volta riconducibili a parti-
celle elementari. La moderna Fisica, secondo la Teoria del Modello Standard, identifica in quark e leptoni le particelle
elementari (ve ne sono parecchie di entrambi i tipi). Con quark e leptoni si possono costituire le particelle subatomiche
protoni e neutroni, mentre gli elettroni sono un tipo di leptone e quindi già elementari. Dalle tre particelle sub-
atomiche, si formano gli atomi e da questi le molecole o i solidi estesi e quindi i materiali. Viaggiare nel mondo suba-
tomico significa prevalentemente esplorare il mondo delle alte energie. Troppo alte per un laboratorio chimico. Infatti,
per poter “manipolare” queste particelle sarebbero necessarie energie raggiungibili solamente in grandi acceleratori
(tipo il CERN). Invece, esplorare la combinazione di atomi a formare molecole o solidi estesi, con cui si possono crea-
re le proprietà di un materiale, è realizzabile in laboratori chimici, senza l’uso di altissime energie, ma semplicemente
con l’impiego di energia termica, meccanica o fotonica.
Quindi il livello “microscopico” per un chimico è quello nanometrico (o sub-nanometrico) di atomi e molecole
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( metri). Il livello “macroscopico” invece è molto variabile perché dipende dagli impieghi. Un materiale potrebbe
avere ordine di grandezza dei metri (ad esempio nelle costruzioni e in meccanica) ma anche micrometriche o nanome-
triche (ad esempio nella microelettronica moderna).

Negli ultimi decenni la differenza tra scienza ed ingegneria si è assottigliata, ma continua ad esistere una differen-
za tra la scienza (che investiga i principi fondamentali e produce nuova conoscenza) e l’ingegneria (che mette in atto
quelle conoscenze). L’ingegneria meccanica si occupa di materiali, prevalentemente allo stato solido, in forma di ele-
menti puri (come i metalli), oppure composti di più elementi (ad esempio le leghe metalliche), e le loro interazioni con
altri materiali o sostanze. Per questo motivo, la chimica è essenziale perché consente di spiegare come e perché gli
atomi si aggregano a formare i materiali, come reagiscono in presenza di alcune sostanze e quali sono le energie in
gioco durante questi processi.

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1 Le scienze naturali sono scienze empiriche che richiedono l’osservazione per poter provare o confutare una teoria. Quindi Chimica, Fisica,
Biologia, Astronomia, Geologia e tutte le altre branchie ad esse collegate sono scienze naturali. Matematica e Geometria sono invece scienze
formali, in quanto non hanno bisogno di evidenza sperimentale (il teorema di Pitagora viene dimostrato senza bisogno di alcuna misura,
mentre la legge di gravitazione universale richiede osservazioni per essere comprovata). Altre scienze sono quelle sociali (che studiano le
relazioni umani e sono anch’esse empiriche) e quelle applicate (che di fatto si sovrappongono all’ingegneria).
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Sommario
1  Nozioni introduttive  
1.1  Sostanze e Miscele. Elementi e Composti. Atomi e Molecole.  
1.2  Masse atomiche, masse molecolari, massa molare  
1.3  Isotopi, Isomeri, Polimorfi  
1.4  Metrologia  
1.5  Il Sistema internazionale di unità di misura  
1.6  La misura  
1.7  Proprietà chimiche e proprietà fisiche  

2  Struttura Atomica  
2.1  I costituenti della materia e la meccanica quantistica  
2.2  Configurazione elettronica degli atomi  
2.3  Il sistema periodico degli elementi e le proprietà periodiche  

3  Il Legame Chimico  
3.1  Struttura vs. composizione  
3.2  Il legame chimico  
3.2.1  Interazioni primarie.  
3.2.2  Interazioni secondarie o di van der Waals.  
3.3  Legame chimico e geometria molecolare  
3.4  Legame covalente e strutture di Lewis  
3.5  Orbitali ibridi e teoria del legame di valenza  
3.6  Repulsione dei doppietti elettronici nello strato di valenza (VSEPR)  
3.7  Orbitali molecolari  
3.7.1  Molecola di H  
3.7.2  Molecole biatomiche del secondo periodo  
3.7.3  Molecole con legami π  
3.8  Legame metallico  

4  Forze intermolecolari e stati di aggregazione  


4.1  Forze intermolecolari  
4.1.1  Interazione elettrostatica.  
4.1.2  Polarizzazione  
4.1.3  Forze di London (energia dispersiva)  
4.1.4  Il potenziale di Lennard-Jones  
4.1.5  Il legame ad idrogeno  
4.2  Nucleofili ed elettrofili  
4.3  Stati di aggregazione. Lo Stato solido  
4.4  Il polimorfismo e le transizioni di fase in stato solido  

5  Solidi e diagrammi di stato  


5.1  La cristallografia e i cristalli  
5.1.1  Gli impaccamenti cristallini e i reticoli  
5.1.2  Cristalli singoli e policristalli  
5.2  Solidi amorfi  
5.3  Trasformazioni in solidi amorfi e cristallini  
5.4  Diagrammi di fase (diagrammi di stato)  
5.4.1  Diagrammi di fase ad un componente  
5.4.2  Diagrammi di fase a due componenti  
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6  Lo stato gassoso e lo stato liquido  


6.1  I gas: Generalità e misure  
6.2  La legge dei gas ideali  
6.3  Teoria cinetica dei gas  
6.4  Gas reali  
6.5  Lo stato liquido  
6.6  Transizioni di fase e Diagrammi di fase  

7  Le soluzioni  
7.1  Generalità e misure della concentrazione  
7.1.1  Costante del prodotto di solubilità  
7.1.2  Proprietà colligative delle soluzioni  
7.2  Acidi e basi  
7.2.1  Reazioni acido-base  
7.3  Ossidazioni e riduzioni  
7.3.1  Lo stato di ossidazione  
7.3.2  Le reazioni di ossidoriduzione  

8  Termochimica  
8.1  Generalità e definizioni  
8.1.1  Sistema e ambiente  
8.1.2  Lo stato di un sistema  
8.2  Il calore  
8.3  L’entalpia  
8.4  Prima legge della termodinamica  
8.5  Equilibrio chimico nei gas  

9  Cinetica Chimica  
9.1  La velocità di reazione  
9.2  Energia di attivazione  
9.3  Energia di attivazione  
9.4  Relazione tra costanti cinetiche e costante di equilibrio  

10  Spontaneità di una reazione  


10.1  Processi spontanei e fattore di casualità  
10.2  L’entropia  
10.3  L’entropia dell’universo e energia libera  

11  Elettrochimica  
11.1  Introduzione  
11.2  Celle voltaiche  
11.2.1  Potenziali elettrochimici e costanti di equilibrio  
11.2.2  Altri tipi di cella  
11.3  Cella elettrolitica  
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1 Nozioni introduttive

1.1 Sostanze e Miscele. Elementi e Composti. Atomi e Molecole.


Come anticipato nell’introduzione, la chimica si occupa di studiare il comportamento di atomi, molecole e delle
loro aggregazioni in fasi condensate, che costituiscono la materia. Nel Capitolo , vedremo in maggiore dettaglio la
struttura atomica mentre nel Capitolo vedremo come gli atomi si combinano a formare molecole e nel Capitolo
vedremo come gli atomi o le molecole si aggregano nelle fasi condensate.
In questa introduzione si intende fornire una identificazione preliminare di queste entità.
Nonostante gli atomi non siano particelle elementari (in quanto costituiti da particelle subatomiche quali elettroni,
neutroni e protoni), la materia dal punto di vista chimico viene classificata per la composizione atomica, in quanto la
presenza e i rapporti di quantità tra gli atomi sono un aspetto fondamentale della caratterizzazione delle sostanze.
Le molecole sono degli aggregati di atomi uniti mediante legami covalenti (si veda Capitolo ), che possono avere
una estensione idealmente infinita (come nel caso dei polimeri).
Atomi e molecole sono per definizione elettrostaticamente neutri, tuttavia possono assumere cariche positive e ne-
gative, formando ioni, che possono essere sia mono- che poli-atomici.

La materia può essere classificata in due fondamentali categorie:


sostanze pure: caratterizzate da una composizione fissa e quindi proprietà fisiche ben definite. Ad esempio, l’acqua è
una sostanza pura, come anche l’ossigeno.
miscele di sostanze: costituite da più di una sostanza. Ad esempio, la benzina è una miscela di diverse sostanze.

Le sostanze costituite da un solo tipo di atomo (meglio dire di un solo elemento) sono dette elementari. In natura
esistono solo elementi, mentre in laboratori di alta energia sono stati osservati, a volte per pochi femtosecondi ( -
secondi), anche altri elementi circa. Molti degli elementi naturali sono comunque scarsi in natura, ad esempio sul
nostro pianeta l’azoto rappresenta solo lo . % della materia, mentre ossigeno e silicio rappresentano ca. il %
della materia, poiché essi sono costituenti dei minerali della crosta terrestre e presenti anche negli strati interni della
Terra.
Ogni elemento è associato ad un simbolo (detto simbolo chimico) di una o due lettere. Ad esempio, H identifica
l’idrogeno, O l’ossigeno, C il carbonio, N l’azoto. I nomi provengono dal latino o dal greco per alcuni elementi noti in
antichità, mentre alcuni elementi “moderni” (non naturali) sono stati associati al nome di noti scienziati (Einstenio,
Fermio, Mendelevio, ecc.).
Le sostanze pure costituite da due o più elementi sono dette composti. Nei composti i rapporti tra gli elementi sono
costanti, mentre nelle miscele sono variabili. Ad esempio, nell’acqua (sostanza pura, ma non elementare) ci sono due
atomi di idrogeno e uno di ossigeno in tutte le molecole presenti in una qualsiasi porzione di questa sostanza. In una
miscela di acqua ed etanolo (un composto di C, H e O), i rapporti tra gli elementi variano a seconda di quanta acqua e
quanto etanolo è stato impiegato per formare la miscela.
È importante notare come per rapporto tra elementi abbiamo qui sopra impiegano il rapporto numerico tra atomi
(due di idrogeno per uno di ossigeno). Tuttavia, esistono altri due tipi di rapporti, in massa oppure in volume. Nel
considerare l’acqua, si potrebbe pensare al rapporto in massa tra ossigeno e idrogeno. In questo caso, la situazione si
inverte radicalmente, poiché un atomo ossigeno è molto più pesante di uno di idrogeno. Quindi, mentre il rapporto
numerico di atomi è : , quello in massa è ca. : .

Le miscele, a loro volta, possono essere classificate in


miscele omogenee: caratterizzate da una composizione che non varia nel volume da essa occupato (ossia prese a caso
due porzioni di miscela, la composizione è costante). Queste miscele sono chiamate anche soluzioni. Ad esempio,
la miscela di due liquidi ben mescolati è una miscela omogenea. Lo stesso vale per soluzioni di solidi (soluti) di-
sciolti in un liquido (solvente).
miscele eterogenee: porzioni diverse della miscela hanno composizione diversa. Ad esempio, una roccia ha una com-
posizione variabile a seconda che si consideri la superficie oppure una parte interna. Altro esempio è quello della
miscela tra liquidi non mescolabili, oppure una miscela di un liquido e un solido.
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1.2 Masse atomiche, masse molecolari, massa molare


Come anticipato, una delle modalità per quantificare la sostanza è misurare la sua massa. È anche necessario chia-
rire una sostanziale differenza tra massa e peso. La massa è direttamente collegata alla quantità di materia. Un atomo
di un certo elemento ha una certa massa. Il peso, invece, è la misura della forza che agisce sulla materia (quindi è
variabile in funzione dell’accelerazione gravitazionale, che varia a seconda della collocazione geografica). Tuttavia,
nella maggior parte delle applicazioni chimiche, si pesano quantità di sostanza al fine di stimarne la massa e quindi il
peso di fatto sostituisce la massa, ma è chiaro che se un esperimento si svolgesse sulla Luna, pesare le sostanze da
impiegare non sarebbe sufficiente, senza l’opportuna correzione per la diversa forza di gravità.
Poiché le molecole sono costituite da atomi, esse hanno una massa che corrisponde alla somma delle masse atomi-
che (si noti tuttavia che lo stesso non vale nel caso di un atomo come somma delle particelle subatomiche che lo costi-
tuiscono, come vedremo nel Capitolo ).

Nel paragrafo precedente abbiamo anche parlato delle altre modalità di quantificazione della materia, come il nu-
mero di atomi (o molecole) che costituiscono una certa porzione di materia oppure i loro volumi. Come vedremo me-
glio nel Capitolo , a livello atomico e molecolare il volume ha poca rilevanza, poiché il volume di un atomo varia a
seconda della sua partecipazione o meno in una molecola e quindi, a differenza della massa, non possiamo considerare
l’additività dei volumi atomici. Anche a livello macroscopico, l’additività dei volumi di sostanza impiegata non è
conservata. Al contrario, la numerosità di particelle costituenti è una costante come la massa. Quindi formando una
miscela di sostanze si mantiene il numero (totale) di atomi o molecole. La misura in questione si definisce quantità di
sostanza ed è espressa in moli. Come vedremo nel paragrafo . e . , la definizione di mole è stata recentemente rivi-
sta, insieme a quelle di altre unità di misura fondamentali. Con mole, comunque, si intende identificare un “pacchetto”
di un certo preciso numero di particelle che costituiscono la sostanza. Le particelle possono essere atomi oppure mole-
cole. Il numero fisso è il cosiddetto Numero di Avogadro (NA), 2 6,022 10 , un valore elevato che riflette il fatto
che gli atomi sono molto piccoli (e quindi hanno una massa molto piccola) e che il mondo macroscopico nel quale
operiamo consta di un numero elevato di atomi. Dopo il recente cambiamento di definizione (si veda . ), il numero di
Avogadro è il valore della costante di Avogadro espressa in mol- (inverso di una mole). Una mole è quindi una quanti-
tà di sostanza che contiene NA unità costituenti. Con questa definizione, la mole si è “scollegata” dalla misura della
massa, cui era collegata precedentemente.
Una mole di acqua contiene NA molecole di acqua. Poiché abbiamo visto che una molecola di acqua è costituita da
due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, una mole di acqua contiene NA atomi di idrogeno e NA atomi di ossigeno.

1.3 Isotopi, Isomeri, Polimorfi


Nonostante le costituzioni di atomi, molecole e solidi siano definite dalla precisa combinazione di particelle suba-
tomiche (per gli atomi) o di atomi (per le molecole e i solidi), esistono delle modificazioni che è importante definire.
Ad esempio, pur avendo lo stesso numero di protoni ed elettroni, gli atomi di un certo elemento possono differire per il
numero di neutroni. In questo caso si parla di isotopi di un elemento. La distinzione non implica una grande differenza
delle proprietà chimiche, che dipendono prevalentemente dal numero di elettroni e protoni di un atomo (che rimangono
invariati), tuttavia sono modificate alcune proprietà fisiche, a partire dalla massa atomica appunto per il diverso conte-
nuto di neutroni. Pertanto, si definisce massa atomica di un elemento la media delle masse atomiche dei suoi isotopi,
tenendo conto della relativa abbondanza degli stessi sulla Terra. Per esempio, l’elemento idrogeno (H) è presente con
un certo numero di isotopi: il prozio (il più abbondante, corrispondente a ca. il % di tutto l’idrogeno presente), il
deuterio (ca. %) e il trizio (molto raro), oltre ad altri isotopi di scarsissima stabilità. La differenza consiste nella pre-
senza di , o neutroni nel nucleo di prozio, deuterio o trizio rispettivamente. La massa atomica dell’idrogeno è
dunque molto simile a quella del prozio, ma aumentata per via della presenza in piccola percentuale degli altri due
isotopi di massa doppia e tripla. Quasi tutti gli elementi sono noti con alcuni isotopi (naturali) e molti isotopi (non
naturali).
Come detto le molecole sono costituite da atomi con precisi rapporti numerici, sintetizzati nelle formule brute, che
semplicemente elencano gli elementi con i loro rapporti. Così, H O è la formula dell’acqua. A questa formula corri-
sponde una sola molecola, ma per formule brute con un numero maggiore di atomi corrispondono diverse molecole,

――
2 Amedeo Avogadro ( – ), è stato un chimico italiano.
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che differiscono per la disposizione dei legami tra gli atomi (in pratica differiscono topologicamente). In questo caso si
parla di isomeri costituzionali, ossia molecole con legami non equivalenti che sono riconducibili alla stessa formula
molecolare. Esistono anche altri tipi di isomerie, dette configurazionali, se lo stesso numero di atomi e lo stesso tipo di
legami si distribuiscono in maniera diversa nello spazio.
Infine, esiste un’analoga modificabilità a livello di aggregati di atomi o molecole nei solidi. Esistono solidi con
identica composizione atomica e molecolare, ma diversa distribuzione spaziale delle molecole nel solido. In questo
caso si parla di polimorfi, ossia diverse forme solide di una stessa sostanza. Ad esempio, esistono circa forme diver-
se di ghiaccio (fase solida dell’acqua). In tutti questi solidi, la formula molecolare è H O, e sono costituiti da molecole
di acqua, tuttavia aggregata in modo diverso. Se la sostanza è elementare, le varie modificazioni si chiamano allotropi.
Un esempio è quello del carbonio. Il carbonio elementare esiste nella forma di grafite (un minerale opaco, conduttore
elettrico, friabile), in quella di diamante (un solido trasparente, isolante e durissimo), oppure in quella di cristallo mo-
lecolare (fullerene, una molecola composta da atomi di C, che si aggrega ad altre ad essa identiche per dar vita ad
un solido). La formula chimica dei solidi è semplicemente C, ma i legami tra gli atomi sono molto diversi nelle due
forme estese (grafite e diamante) e ovviamente in quella di solido molecolare. Pertanto, le tre sostanze sono diversis-
sime per struttura e proprietà.

1.4 Metrologia
La metrologia, intesa come scienza moderna che studia i metodi delle misure delle grandezze, ha origine verso la
fine del XVIII secolo, sebbene ovviamente il concetto di misura fosse noto fin dall’antichità. Le prime unità di misura
adottate in modo universale riguardavano la massa e la lunghezza. Come è noto, il metro è stato definito come la qua-
rantamilionesima parte di un meridiano terrestre, mentre il kilogrammo come la massa di un dm di acqua purificata. A
partire dal , si stabilì di impiegare dei campioni di unità di misura, rispettivamente una barra e un blocco in platino
per il metro e il kilogrammo. I campioni servivano come riferimento per calibrare gli strumenti.
Nel corso dell'Ottocento il sistema metrico si diffuse nel mondo, specialmente in Europa e America. Emerse la forte
necessità di armonizzare i campioni usati. Pertanto, nel la Convenzione Internazionale del Metro fondò il Bureau
International des Poids et Mesures (BIPM) e fu istituito inoltre il Comitato Internazionale dei Pesi e delle Misure
(CIPM) e la Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure (CGPM).
La Convenzione Internazionale del Metro adottò ufficialmente il sistema metrico che divenne sistema MKS (dalle
iniziali di metro, kilogrammo e secondo) dopo l’introduzione del secondo come unità di misura del tempo e successi-
vamente MKSA con l’introduzione dell’Ampere come misura della corrente. Infine, nel il sistema MKSA venne
ufficialmente sostituito dal Sistema Internazionale (SI) ancora oggi ufficiale. Tuttavia, alcuni paesi continuano ad
utilizzare unità di misura diverse da quelle del sistema internazionale, con cui sono tuttavia facilmente convertibili.
Nel sistema internazionale si adottano le sette unità definite in Tabella .

Tabella 1.1: Le 7 unità di misura fondamentali del Sistema Internazionale

Grandezza Unità di Misura

Lunghezza Metro (m)


Massa Kilogrammo (Kg)
Tempo Secondo (s)
Intensità di corrente elettrica Ampere (A)
Temperatura Kelvin (K)
Quantità di sostanza Mole (mol)
Intensità di luminosità Candela (cd)

Queste unità si riferivano spesso a proprietà macroscopiche di manufatti o di oggetti naturali (appunto il metro
come una frazione di un meridiano terrestre, il kilogrammo riferito ad un certo volume di acqua, ecc.). In seguito, si
sono preferite delle unità collegate a leggi fisiche oppure a proprietà atomiche della materia, come già suggerito da
James C. Maxwell nel . Max Planck spinse per collegare le unità di misura a costanti fondamentali, quali la velo-
cità della luce nel vuoto c, la costante di gravitazione universale G, la costante di Planck h, la carica elementare e, ecc.
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Questo però introduceva un problema legato alla praticità delle unità di misura, più adatte alle dimensioni atomiche
che a quelle macroscopiche.
Le unità sono comunque in continuo aggiornamento, sia per le misurazioni sempre più precise delle grandezze fisiche
usate come riferimento, sia per le modifiche delle definizioni. In ambito chimico un eccellente esempio è dato dalla
unità di misura della quantità di sostanza, la mole, che recentemente è stata modifica. L’unione internazionale di chi-
mica pura e applicata (IUPAC), nel ha fornito una rivisitazione di questa unità di misura.3 Dal rapporto ufficiale,
si legge che:

The mole, symbol mol, is the SI unit of amount of substance. One mole contains exactly . × elementary entities. This
number is the fixed numerical value of the Avogadro constant, NA, when expressed in mol− , and is called the Avogadro number.

Precedentemente, la mole veniva definita usando una specie atomica, il carbonio, come riferimento:

The mole is the amount of substance of a system which contains as many elementary entities as there are atoms in . kilogram of
carbon ( C); its symbol is “mol”. When the mole is used, the elementary entities must be specified and may be atoms, molecules,
ions, electrons, other particles, or specified groups of such particles

In base alla metrologia, ogni misura presuppone il confronto della grandezza da misurare con un campione, usan-
do uno strumento. Non sempre il campione è fisicamente presente: se lo strumento è calibrato, il confronto con il
campione è stato effettuato una volta e non deve essere ripetuto ogni volta. L’accuratezza della misura dipende da due
fattori principali: la calibrazione dello strumento e la sua stabilità. Se ad esempio usiamo un metro in metallo che si
allunga o accorcia facilmente in funzione della temperatura ambientale, l’accuratezza della misura è compromessa.
Altrettanto, se il metro è stato mal calibrato rispetto al campione ufficiale. In questo secondo caso, le misure saranno
sempre sistematicamente sbagliate in una sola direzione. Per garantire i livelli di accuratezza originari è spesso richie-
sta la ripetizione periodica del processo di calibrazione dello strumento.
La calibrazione deve soddisfare anche il principio di tracciabilità, ossia la catena di campioni che collegano quello
ufficiale con quello impiegato per calibrare lo strumento. Questo presuppone una adeguata documentazione che renda
possibile risalire al campione ufficiale e le caratteristiche tecniche degli strumenti che sono stati impiegati nella catena.
Possiamo dunque riassumere le tre principali attività della metrologia: a) definizione delle unità di misura; b) rea-
lizzazione degli strumenti di misura; c) tracciabilità.
La metrologia è prevalentemente legata alla ricerca scientifica, essendo essa stessa una scienza ed essendo fondamen-
tale per qualunque scienza naturale. Questo significa che gli sviluppi in ambito metrologico possono essere utili in tutti
gli ambiti di progresso scientifico. Inoltre, la metrologia è fondamentale anche nell’ambito delle scienze applicate e
ingegneria. In quest’ottica possiamo identificare le seguenti branche della metrologia:

Metrologia scientifica: come anticipato sopra, si collega alla ricerca scientifica e tecnologica.

Metrologia industriale: si occupa delle misurazioni nei processi produttivi.

Metrologia legale: è connessa agli aspetti di trasparenza e di correttezza nelle transazioni commerciali, dove appunto
la verifica delle effettive quantità è fondamentale.

1.5 Il Sistema internazionale di unità di misura


Le sette unità di misura del SI sono dimensionalmente indipendenti, ossia non è possibile collegare le une alle al-
tre. Invece, unità di misura di altre quantità sono derivate da queste, ossia sono esprimibili con una moltiplicazione
delle unità principali (senza coefficienti moltiplicativi, in modo da formare un sistema coerente). Ad esempio, la velo-
cità si esprime in m/s, l’accelerazione in m/s , ecc. In alcuni casi si definiscono alcune unità di misura speciali per
semplificare la derivazione da quelle fondamentali. Ad esempio, il Newton (N) è l’unità di misura delle forze ed equi-
vale a kg∙m/s (poiché la forza si esprime come 𝐹 𝑚𝑎, dove 𝑚 è la massa e a è l’accelerazione). Analogamente, il

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3 Marquardt, R.; Meija, J.; Mester, Z.; Towns, M.; Weir, R.; Davis, R.; Stohner, J. “Definition of the mole (IUPAC Recommendation
)”, Pure Appl. Chem. 2018, 90, 175-180, https://doi.org/10.1515/pac-2017-0106
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Pascal (Pa) viene usato per la pressione (𝑃 𝐹𝐴 , dove 𝐴 è l’area di una superficie a cui si applica una forza ortogo-
nalmente): Pa Nm kgm s . A sua volta, il Watt (W) è l’unità di potenza: W kgm s .
Vediamo nel dettaglio le unità di misura fondamentali e la loro attuale definizione:

Il metro (m). È l’unità di misura della lunghezza. La prima definizione di metro, come visto in precedenza, faceva
riferimento al diametro terrestre. Nel 1960, una nuova definizione era stata fornita in relazione alla lunghezza
d'onda di una transizione dell'atomo di 86Kr. Nel 1983, tuttavia, la definizione venne ulteriormente adeguata e rife-
rita alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/(299.792.458) secondi. La nuova
definizione suppone che la velocità della luce c sia una grandezza immutabile, costante nel tempo e uniforme nello
spazio. Anche se le costanti universali sono comunque in continuo aggiornamento a causa della maggiore accura-
tezza degli strumenti con cui sono rivelate e della maggiore precisione con cui vengono misurate, la velocità della
luce (definita nella teoria della relatività di Einstein) non dipende dalla frequenza della radiazione. Ne consegue
che la realizzazione del metro così definito sia molto più precisa che in passato, in quanto soggetta a molte meno
variabili.

Il kilogrammo (kg). È l'unità di misura della massa. Adottata nel 1889, la definizione collegata alla massa di un vo-
lume di 1L di acqua a 4 ºC è rimasta sostanzialmente invariata per oltre un secolo, anche se il prototipo campione
degli standard internazionali è un cilindro di platino e iridio. Nel 2018, il Bureau international des poids et mesu-
res ha stabilito che, a partire dal 20 maggio 2019, il chilogrammo venisse definito tramite una proprietà fisica cor-
relata ad una forza di 6,62607015×10–34 J s. Se per la sua misura si utilizza una Bilancia di Watt, è necessario che
quest'ultima sia percorsa da una data quantità di corrente e, utilizzando le definizioni di volt e di ohm, tale misura-
zione è correlata alla costante di Planck h (6,62607015×10–34 J s). Questa proposta è stata preferita ad una legata
alla densità di massa e della composizione isotopica di un singolo cristallo di silicio, metodo che viene impiegato
per determinare un’altra costante, il numero di Avogadro.

Il secondo (s). È l’unità di misura del tempo e corrisponde a 9.192.631.770 periodi di oscillazione della radiazione
corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell'atomo di 133Cs (adottata nel
1967 e poi precisata inserendo la temperatura di 0 K). La precisione ed accuratezza delle misure di tempo è supe-
riore a quella delle altre grandezze.

L'Ampere (A).4 È l’unità di misura della corrente elettrica costante. In precedenza, 1 A era definito come la corrente
mantenuta in due conduttori paralleli di lunghezza infinita, di sezione trascurabile e posti a 1 m di distanza nel
vuoto, che genera una forza di 2×10−7 N. Anche questa definizione era di fatto collegata ad una costante fisica, in
particolare la permeabilità magnetica del vuoto μ0 (= 4π×10−7 Hm-1).5 Nel 2019, la definizione è mutate.
L’Ampere viene definite a partire dalla carica elementare e espresso in Coulomb (1.602 176 634 × 10−19 C). Cou-
lomb, Ampere e secondo sono collegati (1 C = 1A⋅1s).

Il Kelvin (K).6 È l’unità di misura della temperatura. La definizione di Kelvin (K) adottata nel 1954 si riferiva al punto
triplo dell’acqua ed era la frazione di 1/273,16 della temperatura termodinamica del punto triplo dell'acqua. Per
indicare una differenza o un intervallo di temperatura, è consentito anche l'uso del grado Celsius (°C), la cui gran-
dezza è pari a 1 kelvin. Nel 2019, una nuova definizione è stata adottata, riferita alla costante di Boltzmann k (=
1.380649×10−23 J⋅K−1, (J = kg⋅m2⋅s−2). Attualmente k è nota con un'incertezza relativa di 1,8×10−6, attraverso la
misura della costante molare dei gas R e della costante di Avogadro, k=R/NA.

La mole (mol). Come discusso in precedenza, anche la mole (unità di misura della quantità di sostanza) è stata ridefi-
nita e dal 2019 è ufficialmente collegata al numero di Avogadro N, anziché ad una quantità di Carbonio in massa.

La candela (cd). Dopo varie definizioni, nel 1979 la candela (unità di misura della intensità di luminosità) è stata
definita come l'intensità luminosa di una sorgente che emette radiazione monocromatica alla frequenza di 5.4×1014

――
4 Il nome di questa unità di misura deriva dal fisico francese André-Marie Ampère ( –1836).
5 H è l’Henry l’unità di misura dell’induttanza elettrica. Il nome di questa unità deriva da Joseph Henry ( – ), uno scienziato ameri-
cano.
6 Kelvin è dedicato al fisico e ingegnere britannico William Thomson, primo Barone di Kelvin ( – ).
10

Hz (ossia una frequenza corrispondente alla luce visibile di colore verde) e che ha un'intensità radiante in quella
direzione di 1/683 watt per steradiante (sr, unità dell’angolo solido). Nel 2019, la nuova definizione entrata in vi-
gore, si riferisce sempre alla stessa frequenza di emissione, quando corrispondente a 683 lmꞏW–1 (dove lm = lu-
men, l’unità di misura del potere luminoso).

Vediamo quindi che le unità del sistema internazionale si riferiscono a costanti fisiche o grandezze atomiche. Per rias-
sumere:
• Il tempo (t): collegato ad una frequenza di emissione del 133Cs.
• La lunghezza (L): collegata alla velocità della luce nel vuoto,
• Il peso (M): collegato alla costante di Planck,
• L’intensità di corrente (I): collegato alla carica elementare di un elettrone,
• La temperatura (T): collegata alla costante di Boltzmann,
• La quantità di sostanza (n): collegata al numero di Avogadro
• La intensità di luminosità (iv): collegata alla efficienza di una radiazione monocromatica con frequenza di 5.40 ×
1012 Hz

Per una panoramica delle ultime decisioni del Bureau international des poids et mesures (Ufficio internazionali
dei pesi e delle misure, l’organismo internazionale che fissa queste definizioni e gli standard) si può fare riferimento al
seguente documento pubblicato sul sito dell’Ufficio:
https://www.bipm.org/utils/common/pdf/si-brochure/SI-Brochure-9.pdf

1.6 La misura
Secondo il sopra citato Lord Kelvin:

I often say that when you can measure what you are speaking about, and express it in numbers, you know something about it; but when
you cannot measure it, when you cannot express it in numbers, your knowledge is of a meagre and unsatisfactory kind; it may be the
beginning of knowledge, but you have scarcely in your thoughts advanced to the state of Science, whatever the matter may be.7

Questo significa che, se applichiamo il metodo scientifico, la capacità di attribuire un numero ad una certa quantità,
attraverso un processo di misurazione, significa avere ampliato la nostra conoscenza dell’oggetto misurato. La misura
di una proprietà è associata a quattro concetti che ne garantiscono il paragone con altre misure:
la tipologia, che definisce la procedura della misura ed il modo di confronto con altre (ad esempio se si misura l’ordine
di una certa sequenza, oppure se si paragonano due misure in base alla differenza o il rapporto tra di esse).
il valore, ossia il numero associato alla misura.
l’unità di misura, cioè il metro dato al valore,
l’incertezza, ossia una quantificazione dell’errore casuale di una misurazione.

Ad esempio, per la misura della massa di una sostanza, troveremo indicazioni come , ( ) Kg, dove , è il valore
della misurazione, ( ) indica che l’ultima cifra è affetta da un’incertezza di (quindi , Kg in questo caso), Kg è
l’unità di misura. Per quanto riguarda la tipologia, si deve intendere che la misura è stata effettuata, ad esempio, impie-
gando una bilancia, che può essere “tecnica” (o “industriale”, in genere adatta a misurare masse molto elevate, ma con
precisione non migliore di , g), di “precisione” (che misura masse molto inferiori, ma con una precisione di ca. mg)
oppure “analitica” (che misura masse adatte ad analisi chimiche, quindi di al massimo pochi grammi, con precisione
, mg).
Nel riportare una misura e nella derivazione di quantità ad essa collegate è importante prestare attenzione al nume-
ro di cifre significative, ossia il numero di cifre certe di una misurazione includendo anche la prima cifra incerta.
Quindi, se una massa è misurata con un peso di , ( ) Kg, le cifre significative di questa misura sono . Bisogna
però prestare attenzione agli zeri…. Se una misura è , ( ) Kg, le cifre significative sono solo , poiché i primi due
zeri servono solo a identificare l’ordine di grandezza. La stessa misura potrebbe essere espressa in g anziché Kg e
sarebbe quindi ( ) g, dove si vede chiaramente che le cifre significative sono . Se la misura fosse , ( ) Kg, le

――
7 Dal capitolo Electrical Units of Measurement in Popular Lectures , 1, .
11

cifre significative sarebbero sempre poiché l’ultimo (prima cifra incerta) non determina l’ordine di grandezza, ma
fa parte della misura stessa.
Quando si calcolano quantità derivate da due o più misure, ad esempio la densità di massa, ossia la massa per uni-
tà di volume, bisogna esprimere il risultato finale con lo stesso numero di cifre significative della quantità conosciuta
con meno cifre significative. Quindi se la misura per il calcolo della densità è: massa, , Kg; volume, , m , la
densità sarà di , Kg/m .
In questo calcolo abbiamo anche apportato un arrotondamento, ossia abbiamo ridotto un numero razionale poten-
zialmente infinito al numero di cifre significative richiesto, in questo caso solo . L’arrotondamento di esegue ripor-
tando il numero con due cifre significative più vicino a quello esteso. In particolare, , / , fornisce un valore di
, …. Dovendo troncare alla prima decimale, il numero più vicino è , (rispetto a , ). Un’ambiguità potrebbe
verificarsi se la cifra fosse esattamente equidistante rispetto ai due valori limiti, ad esempio , . Si può arro-
tondare a , oppure a , . In questo caso si usa una convenzione, cioè quella di approssimare ad un numero con ultima
cifra pari (contando come pari). Quindi , si approssima a , e non , .
Rimane un ultimo aspetto da considerare, ossia come si propaga l’incertezza nel caso di una quantità funzione di
due o più misure. Supponiamo che 𝑥 , 𝑥 , … . , 𝑥 siano 𝑛 quantità misurabili e che la quantità 𝑈 sia esprimibile come
una funzione di queste variabili:

𝑈 𝑓 𝑥 ,𝑥 ,….,𝑥

Ciascuna osservabile 𝑥 è caratterizzata da un’incertezza 𝑆 . L’incertezza della quantità U, 𝑆 , è data da

𝜕𝑈 𝜕𝑈
𝑆 𝜌 𝑆𝑆
𝜕𝑥 𝜕𝑥

dove è la derivata della funzione U rispetto alla variabile 𝑥 e rispetto alla variabile 𝑥 . 𝜌 è il coefficiente di
correlazione tra le due variabili. Se ad esempio consideriamo la densità di massa, dove

𝑚
𝑈 𝑑
𝑉

Quindi

1 𝑚 𝑚 𝑆 𝑆 𝑆 𝑆
𝑆 𝑆 𝑆 2𝜌𝑚,𝑉 𝑆 𝑆 𝑑 2𝜌𝑚,𝑉
𝑉 𝑉 𝑉 𝑚 𝑉 𝑚𝑉

Se le due misure sono indipendenti, 𝜌 , 0 e quindi l’incertezza relativa della densità è data dalla radice quadra-
ta della somma dei quadrati delle incertezze relative di massa e volume:

𝑆 𝑆 𝑆
𝑑 𝑚 𝑉

Si noti che questa stima dell’incertezza è inferiore alla “incertezza massima”, cioè la semplice somma delle due incer-
tezze relative.
12

1.7 Proprietà chimiche e proprietà fisiche


Le sostanze sono caratterizzate da proprietà, ossia caratteristiche misurabili che la sostanza manifesta, in condi-
zioni non perturbate oppure come risposta ad uno stimolo esterno. Possiamo distinguere
proprietà chimiche: sono prevalentemente collegate alla capacità di una sostanza di interagire con altre. Una sostanza
può essere reattiva oppure inerte, avere particolare affinità per altre sostanze, ecc.
proprietà fisiche: sono collegate a caratteristiche di una sostanza, senza cambiarne la natura. Ad esempio la densità, la
temperatura di fusione o di ebollizione, il colore, l’indice di rifrazione della luce, ecc..

Possiamo inoltre riconoscere proprietà di tipo intensivo (ossia indipendenti dalla quantità di sostanza) o estensivo
(dipendenti dalla quantità di sostanza). La massa e il volume sono proprietà estensive, mentre il colore, l’indice di
rifrazione o le temperature critiche sono proprietà intensive.

Letture consigliate:
Capitolo 1 di W. Masterton, C. Hurley. Chimica: Principi e Reazioni
13

2 Struttura Atomica

2.1 I costituenti della materia e la meccanica quantistica


Uno studio della chimica deve necessariamente partire dagli elementi costitutivi della materia. Gli atomi sono par-
ticelle divisibili, costituite da elettroni, protoni e neutroni. Queste ultime particelle, sebbene normalmente considerate
“elementari”, non sono le entità più piccole della materia. Solo l’elettrone è effettivamente una particella elementare
secondo il cosiddetto Modello Standard della fisica (è infatti un leptone), mentre protoni e neutroni sono composti a
loro volta da quark. La diversa combinazione di quark up e down produce una carica eguale ed opposta a quella
dell’elettrone per il protone, ed una carica nulla per il neutrone. Tuttavia, ai fini dello studio della chimica e dei mate-
riali, possiamo considerare le tre particelle subatomiche (elettroni, neutroni e protoni) come non ulteriormente divisibi-
li e la base per la produzione e trasformazione dei materiali.

Figura . Le particelle elementari secondo il modello standard della fisica e la loro correlazione con la materia. Evidenziate in
giallo e in ocra sono le particelle che seguono la statistica di Fermi-Dirac (fermioni), in verde quelle che seguono la statistica di
Bose-Einstein (bosoni).

Un atomo è identificato con un simbolo e con un numero Z che identifica il numero di protoni che coincide con
quello di elettroni nella configurazione elettronica neutra di un atomo e viene chiamato numero atomico. Gli ioni
possono avere un numero superiore (anioni) o inferiore (cationi) di elettroni.
Il numero di massa A è la somma del numero di protoni e neutroni (𝐴 𝑍 𝑁, dove 𝑁 è il numero di neutro-
ni). In unità atomiche, la massa unitaria è identificata come un dodicesimo della massa del carbonio, che ha appunto
numero di massa 𝐴 12, essendo costituito da protoni, elettroni e neutroni (ossia il Carbonio , identificato
con il simbolo C che è l’isotopo più abbondante di tale elemento). Poiché in genere un elemento è presente in natura
con più di un isotopo,8 la cosiddetta massa atomica è equivalente alla media pesata (rispetto all’abbondanza naturale f)
delle masse di ciascun isotopo.
Un isotopo si indica con il simbolo dell’elemento (e.g., H, C, N ecc.) usando il numero Z in pedice (anche se spes-
so omesso perché intrinseco nel simbolo) e il numero A in apice. Ad esempio, per l’atomo di idrogeno si ha:
H prozio (spesso chiamato semplicemente idrogeno, H; è l’isotopo più diffuso con oltre il . %);
H deuterio (per cui si usa anche il simbolo D; è presente in ca. . %);
H 𝑡𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜 (si usa anche il simbolo T; è un isotopo radioattivo e molto raramente incontrato)9.
――
8 Isotopi di uno stesso elemento si differenziano per il numero di neutroni nel nucleo, essendo invece il numero di protoni invariabile.
9 Esistono anche altri isotopi dell’idrogeno, altamente instabili ed osservati solo per piccole frazioni di tempo.
14

Tabella 2.1 Le principali proprietà delle particelle subatomiche.

Particella Simbolo Massa Massa Carica (Coulomb) Carica


(Kg) (uma) (unità atomiche)

Elettrone e- 9,109390 10-31 5,94 10-4 -1,602177 10-19 -1


-27
Neutrone n 1,674929 10 1,00866 0 0
Protone p 1,672623 10-27 1,00728 +1,602177 10-19 +1

L’aggregazione delle particelle a formare gli atomi richiede una elevata energia. In particolare, dobbiamo conside-
rare come i nuclei formati da più protoni debbano vincere una inevitabile repulsione elettrostatica. L’energia necessa-
ria a stabilizzare i nuclei proviene dalle masse delle particelle subatomiche. Infatti, il nucleo di un atomo ha una massa
inferiore a quella attesa sommando le masse dei protoni e neutroni che costituiscono il nucleo. Questo effetto si chiama
difetto di massa. L’energia in gioco è facilmente calcolabile dalla relazione di Einstein 𝐸 𝑚𝑐 dove 𝑐 è la velocità
della luce e 𝑚 la massa. In particolare, la stabilizzazione ∆𝐸 (che per convenzione è una energia negativa) è fornita da
∆𝐸 ∆𝑚𝑐 , dove ∆𝑚 appunto il difetto di massa. Il tipo di forza è nucleare forte, una delle quattro forze fondamen-
tali (elettrostatica, gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole) che ha un raggio d’azione cortissimo e quindi non è
efficace tra nuclei di atomi diversi, per i quali conta la sola forza elettrostatica.

Le caratteristiche delle particelle subatomiche, in particolare la loro dimensione ed energia, non consentono di uti-
lizzare la fisica classica per spiegare il loro movimento e le loro interazioni. In effetti la scoperta di queste particelle
(tra la fine del XIX e l’inizio del X secolo) indusse lo sviluppo di nuove teorie fisiche per spiegare il loro comporta-
mento. Da qui trasse origine la meccanica quantistica, che si distingue nettamente da quella classica nella descrizione
di oggetti nanometrici.
La fisica quantistica si basa su alcuni postulati e su un concetto fondamentale, ossia che questo tipo di particelle
possa essere considerato alla stregua di onde elettromagnetiche (il dualismo onda-particella è stato proposto attorno al
da alcuni scienziati, tra cui in particolare il premio Nobel Louis De Broglie). Uno dei postulati fondamentali della
fisica quantistica implica che ciascuna proprietà della particella sia associata al valor medio di un certo operatore.
Pertanto, la posizione, la velocità e la quantità di moto, l’energia, la carica di una particella sono descritti da particolari
operatori. Un altro postulato sancisce il distacco dalla fisica classica (che possiamo considerare deterministica): gli
operatori posizione e quantità di moto non commutano, ossia l’ordine con il quale si ottengono prima l’uno e poi
l’altro è rilevante. Questo produce una incertezza intrinseca nella conoscenza di una proprietà, riassunta nel famoso
principio di indeterminazione proposto da Werner Heisenberg.
Un aspetto fondamentale della meccanica quantistica è proprio la quantizzazione dei valori di aspettazione di al-
cuni operatori, quali la quantità di moto e quindi l’energia, evidenti ad esempio negli spettri di emissione degli atomi.
Pertanto, un elettrone che si muove attorno ad un protone, può assumere solo alcune particolari “orbite”, caratterizzate
da valori discreti del momento angolare dell’elettrone. A queste speciali orbite corrispondono anche precise energie,
anch’esse ovviamente discrete. Pertanto, il passaggio da un’orbita ad un’altra avviene solo con assorbimento o emis-
sione di una precisa quantità di energia (il quanto appunto).
15

Figura . Il semplicistico modello atomico di Bohr. Il nucleo, composto di neutroni e protoni e quindi carico positivamente è al
centro di un sistema “planetario”, con gli elettroni che ruotano attorno in orbite prestabilite. Questo modello, sebbene ideato a
partire da un concetto quantomeccanico, si basa comunque su di una visione classica. A differenza di un sistema planetario
vero, dove le forze in gioco sono quelle gravitazionali, questo modello si basa su forze di intensità molto maggiore, quelle elet-
trostatiche. Per questo motivo, e a differenza del modello planetario-gravitazionale, un sistema come quello rappresentato in
figura non è stabile. Gli elettroni infatti collasserebbero sul nucleo.

Il termine orbita può far pensare ad un modello planetario per l’atomo e in qualche modo coincide con quello ori-
ginariamente proposto dal premio Nobel Niels Bohr. Il nucleo dell’atomo, costituito da protoni e neutroni, è più pesan-
te e quindi viene considerato ‘fermo’ rispetto all’elettrone, la cui massa è circa volte inferiore a quella del proto-
ne (si veda Tabella . ). Tuttavia, un modello con orbite ‘classiche’, adatto ad una visione corpuscolare delle particelle,
risulta errato. Gli elettroni non potrebbero che collassare sul nucleo poiché muovendosi emettono radiazione e perdono
energia, a differenza dei pianeti. Se, al contrario, il moto degli elettroni viene modellato come la propagazione di
un’onda (sempre tenendo fisso il nucleo), si riesce ad evitare il collasso, perdendo tuttavia una descrizione classica e
sottostando quindi alle leggi e ai postulati della meccanica quantistica. Oltre al sopracitato principio di indeterminazio-
ne, un altro postulato ha importanti conseguenze: se il moto dell’elettrone è descritto da un’equazione d’onda, di fatto
conosciamo solo la probabilità che un elettrone occupi una certa posizione dello spazio. L’ampiezza dell’onda associa-
ta all’elettrone (o più precisamente il suo modulo quadrato) esprime questa probabilità. Avendo utilizzato la natura
ondulatoria dell’elettrone, la traiettoria che esso descrive non è un’orbita, bensì un orbitale. In ottemperanza alle leggi
della meccanica quantistica, solo alcuni orbitali sono corrette soluzioni dell’equazione del moto degli elettroni, che
venne proposta dal fisico austriaco Erwin Schrödinger nel .
Dalla soluzione dell’equazione nel caso più semplice (atomo di idrogeno, con un solo elettrone), si ottengono mol-
te soluzioni possibili, che corrispondono a energie diverse E. Quella corrispondente all’idrogeno nel suo stato fonda-
mentale è quella di energia più bassa (più negativa). Tutte queste soluzioni sono possibili se la funzione d’onda assume
delle particolari forme chiamate orbitali atomici. Gli orbitali sono funzioni che, se descritte in un sistema di coordinate
polari, sono costituite da una parte radiale (dipendente solo dalla distanza dal nucleo) e una angolare (dipendente dai
due angoli polari). Per la parte radiale, la soluzione usa speciali polinomi (polinomi di Legendre) mentre la parte an-
golare è descritta dalle cosiddette armoniche sferiche. Queste ultime dànno il nome al tipo di orbitale (s, p, d, f, ecc.) e
ne caratterizzano la forma.
Come detto l’energia dei diversi stati di un elettrone differisce per quantità precise; quindi, per ciascun orbitale
l’elettrone che si muove ha una particolare energia, diversa da quella che avrebbe se si muovesse in un altro orbitale.
Ciascun elettrone in un atomo è caratterizzato da una sequenza di quattro numeri quantici che ne definiscono lo stato.
Tre di questi numeri quantici definiscono la parte spaziale dell’elettrone, mentre il quarto definisce la parte di spin. I
numeri quantici non sono variabili, ma parametri che definiscono quale funzione orbitale descrive l’elettrone. Le va-
riabili sono invece le coordinate nello spazio (delle posizioni o dei momenti), nel tempo ed una coordinata di spin.

I quattro numeri quantici sono:


Numero quantico principale (n), che identifica lo strato quantico dell’elettrone. Il numero n è un intero positivo senza
vincoli (n = 1, 2, 3, 4…..). Ad ogni n è associato uno strato, che prende rispettivamente il nome K, L, M, N ecc. La
parte radiale di un orbitale dipende in modo particolare dal valore n, essendo più contratta sul nucleo per n = 1 e
divenendo via via più diffusa (ossia prevalentemente concentrata lontana dal nucleo) al crescere di n.
16

Numero quantico secondario o azimutale (l).10 Anch’esso è un intero non negativo, vincolato da l = 0 a l = n -1. Defi-
nisce un sub-strato elettronico (rispettivamente s, p, d, f ecc.) che possiamo identificare anche con il tipo di orbita-
le in cui si colloca l’elettrone. Infatti, la parte angolare della funzione orbitalica dipende dal valore di l.
Numero quantico magnetico (ml). Anche questo numero è un intero che assume i valori ml = -l, -l+1, -l+2,…, 0, …., l-
2, l-1, l. Questo numero definisce quale particolare orbitale viene occupato (ad esempio per l = 1, ml = -1, 0, +1,
corrispondenti rispettivamente agli orbitali py, pz e px). Oltre che dal valore l, la parte angolare di un orbitale di-
pende anche da ml.
Numero quantico di spin (ms). Questo numero è un semi-intero e può valere +1/2 oppure -1/2. Nel caso di un elettrone
questo numero corrisponde anche al valore della variabile di spin, che non è una variabile continua, ma discreta. Il
numero quantico di spin non influenza la distribuzione spaziale dell’orbitale.

La funzione d’onda di un elettrone, quindi, può essere associata a questi quattro numeri quantici. Nel caso di una
funzione d’onda atomica poli-elettronica (ossia che descrive più di un elettrone) i numeri quantici l, ml e ms si possono
sommare (tuttavia con regole particolari) per ottenere dei valori complessivi L, ML e Ms, che descrivono lo stato com-
plessivo dell’atomo. In particolare, il numero Ms identifica lo stato di spin dell’atomo, che è particolarmente rilevante
nel caso Ms ≠ (ossia l’atomo è spin attivo).

Figura . Lo schema di riempimento degli orbitali atomici. Seguendo la linea delle frecce, il primo orbitale atomico riempito è
sempre s, poi s, p, s, p, s, d, p, s ecc. Si deduce che la sequenza non è banalmente prima lo strato con n = , poi
quello con n = ecc.

2.2 Configurazione elettronica degli atomi


A parte l’atomo di idrogeno, tutti gli atomi possiedono più di un elettrone e un nucleo che contiene altrettanti pro-
toni e un numero variabile di neutroni. In questo caso, la funzione d’onda deve descrivere il moto di tutti gli elettroni.
Poiché, come detto, essa esprime prevalentemente una probabilità, possiamo quindi utilizzare il prodotto delle ampiez-
ze delle onde dei singoli elettroni per descrivere la probabilità complessiva. Purtroppo, non esiste la possibilità di ri-
solvere l’equazione di Schrödinger nel caso di più elettroni e solo delle soluzioni approssimate possono essere trovate.
Nel caso di atomi, queste fanno uso degli orbitali per atomi idrogenoidi, cioè ipotetici cationi con un numero di protoni
equivalente a quello atteso per un certo atomo ma con solo un elettrone, modello per cui una soluzione esatta è possibi-
le. Mediante teoria perturbativa, dagli orbitali degli atomi idrogenoidi è possibile arrivare a soluzioni approssimate per
gli orbitali di atomi multielettronici neutri (oppure ioni, ma non necessariamente monoelettronici).
Utilizzando queste funzioni d’onda approssimate, è possibile calcolare l’energia associata ad una certa configura-
zione elettronica di un atomo (cioè la distribuzione degli elettroni nei vari orbitali disponibili). Con questo è possibile
predire le configurazioni elettroniche più stabili per ciascun elemento, che sono quelle che fanno uso degli orbitali di

――
10 Chiamato anche numero quantico orbitale oppure rotazionale.
17

più bassa energia, e derivare il cosiddetto principio dell’Aufbau.11 Nella distribuzione di elettroni in orbitali atomici,
tuttavia, bisogna tenere in considerazione la natura degli stessi, che impone la soddisfazione di una precisa condizione,
il cosiddetto principio di Pauli: due elettroni non possono avere la stessa sequenza di numeri quantici. Pertanto, in
ciascun orbitale atomico (caratterizzato da n, l e ml), si possono ospitare al massimo due elettroni che si distinguono
per un diverso numero quantico di spin (ms = +½, -½).
In base all’Aufbau, gli atomi isolati nei loro stati fondamentali distribuiscono gli elettroni con la sequenza rappre-
sentata in Figura . . Il livello più basso di energia è sempre quello dell’orbitale s. Seguono gli orbitali del secondo
strato ( s, p) ecc. Pertanto, le configurazioni elettroniche per i primi due periodi sono abbastanza semplici. La se-
quenza di energie in base al numero quantico principale si interrompe a partire dal quarto periodo, poiché gli orbitali
s risultano di energia inferiore ai d. Si noti che questo è valido solo per atomi neutri, poiché nei cationi metallici di
transizione l’energia degli orbitali d risulta inferiore a quella dei s. Pertanto, mentre la tipica configurazione elettro-
nica di un atomo neutro di un metallo di transizione è s s p s p s dn- , quella di un catione divalente dello stes-
so elemento è s s p s p dn- .

Figura . Il sistema “naturale” degli elementi proposto da Niels Bohr nel (“Sulla costituzione degli atomi”), sulla base delle
conoscenze quantomeccaniche e chimiche del momento. Si noti come alcuni elementi (ad es. il Tecnezio, numero atomico ,
simbolo Tc, e tutti gli elementi transuranici) non siano elencati in quanto non ancora riconosciuti. Si notino anche simboli atomici
oggi non più in uso, come A per Argon (oggi Ar), X per Xenon (oggi Xe), J per Iodio (oggi I).

2.3 Il sistema periodico degli elementi e le proprietà periodiche


Dalla sequenza di riempimento degli orbitali atomici, si può evincere la correlazione con il sistema periodico degli
elementi, rappresentato nella tavola di Mendeleev nel - , il quale ben prima dello sviluppo della meccanica quan-
tistica e quindi delle teorie sulla configurazione elettronica degli atomi, aveva riconosciuto proprietà e caratteristiche
degli atomi, almeno in quelli noti sino ad allora, che consentivano una classificazione. Proprio in base alla classifica-
zione di Mendeleev, è stato possibile prevedere l’esistenza di elementi che non erano ancora stati scoperti (ad esempio
Sc, Ga, Ge).
La classificazione di Mendeleev mette in luce il fatto che oltre alla teoria quantistica anche il comportamento degli
atomi sembra avere un andamento periodico e questo è molto importante per capire le proprietà degli atomi e il tipo di

――
11 In tedesco Aufbau significa architettura, struttura. In tedesco i nomi (anche quelli comuni) sono scritti in maiuscolo.
18

legami che si possono istaurare (altrimenti uno studio del tutto casuale di tutte le possibili combinazioni di tutti gli
elementi chimici sarebbe estremamente complesso).
Nella tavola periodica, gli elementi sono elencati in periodi (le righe della tabella) e gruppi (le colonne). Il numero
del periodo indica quale strato con maggiore numero quantico principale è occupato. A causa dell’anomalia
nell’Aufbau (con l’orbitale s riempito prima del d ecc.), gli atomi con lo strato d parzialmente riempito si trovano al
quarto periodo. Questi elementi sono chiamati metalli di transizione e chiaramente esistono sia per lo strato d, che per
quelli d e d (chiamati rispettivamente prima, seconda e terza serie di transizione).
Il numero del gruppo identifica il numero progressivo di elettroni di valenza. Originariamente i gruppi erano numerati
da a (in numero romano) e distinti in tipo A (ossia gruppi senza i metalli di transizione) e B (appunto i metalli di
transizione, in cui comunque i gruppi di Fe Co e Ni erano raggruppati in un unico gruppo, VIIIB). Per semplicità di
lettura, oggi i gruppi si numerano semplicemente da a , dove chiaramente i primi tre periodi non hanno i gruppi -
. Questa numerazione inoltre non fornisce più il numero di elettroni di valenza. Nel sesto e settimo periodo si inseri-
scono anche gli elementi che hanno elettroni f (Lantanoidi) e f (Attinoidi) rispettivamente. La tavola potrebbe essere
quindi ulteriormente allargata, perdendo tuttavia leggibilità. Pertanto, queste due ulteriori sequenze sono disposte come
due righe ulteriori e staccate dalla tabella principale, che quindi perde l’ordine di sequenza coincidente con il numero
atomico, a partire appunto dal primo atomo dopo il Bario (Z = ), che è appunto il Lantanio (Z = ) in sequenza di Z,
ma risulta l’Afnio (Z= ) nella tabella.
Una delle proprietà periodiche più interessanti è l’andamento della cosiddetta elettronegatività. Essa si può intuitiva-
mente definire come la capacità di un atomo di attirare gli elettroni. Tuttavia, non è definibile come un’osservabile
quantomeccanica. Infatti, esistono diverse scale di elettronegatività legate a quantità effettivamente misurabili. Ad
esempio, Mulliken ha proposto una misura della elettronegatività come la media delle energie di prima ionizzazione di
un atomo, ossia l’energia necessaria a strappare un elettrone all’atomo (normalmente chiamato potenziale di ionizza-
zione) e quella necessaria a forzare un elettrone in più all’atomo (normalmente chiamata affinità elettronica). Pauling,
al contrario, ha proposto una scala relativa, basata sulle energie di legame tra atomi, il che consente appunto di avere
un’idea della differenza di elettronegatività fra gli atomi. Assegnando un valore ad un atomo di riferimento (nel caso di
Pauling, l’idrogeno), è possibile avere una scala di elettronegatività abbastanza generalizzata, si veda Figura 2.6.

Figura . La tavola periodica degli elementi approvata dalla IUPA (International Union of Pure and Applied Chemistry). Imma-
gine riprodotta da www.iupac.org.
19

Figura . Una rappresentazione della scala di elettronegatività proposta da Pauling (per il modo in cui è definita da Pauling,
l’elettronegatività non ha unità di misura). Immagine riprodotta da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science
and Engineering: An Introduction, Wiley.

Si può notare come tutti gli atomi sulla sinistra della tavola periodica (come i metalli alcalini, alcalino terrosi) ab-
biano piccola elettronegatività, mentre quelli sulla destra (alogeni, calcogeni ecc.) sono molto più elettronegativi. Que-
sto giustifica per esempio la maggiore capacità di atomi alcalini a formare cationi monovalenti e di quelli alcalino
terrosi a formare cationi divalenti, e al contempo la facilità degli alogeni a formare anioni monovalenti e dei calcogeni
a formare anioni divalenti.
La differenza di elettronegatività tra due atomi ci consente anche di prevedere se un eventuale legame chimico tra essi
sarà polare oppure no e quale percentuale di ionicità si può attendere.

Letture consigliate:
Capitolo 2 di W. Masterton, C. Hurley. Chimica: Atomi, Molecole e Ioni
Capitolo 6 di W. Masterton, C. Hurley. Chimica: Struttura Elettronica e la Tavola Periodica
20

3 Il Legame Chimico

3.1 Struttura vs. composizione


Come anticipato nell’introduzione, per gli scopi inerenti alla chimica, la dimensione che maggiormente interessa è
quella degli atomi e quella della loro combinazione in molecole. Infatti, modificando la combinazione tra atomi (sia in
termini di composizione che di arrangiamento nello spazio) si possono modificare radicalmente le proprietà della ma-
teria. Ad esempio, il composto CH OH (metanolo) è un alcol con caratteristiche chimiche e fisiche abbastanza simili a
quelle del CH CH OH (etanolo), tuttavia il primo è un veleno per l’uomo, mentre il secondo, in quantità non eccessive,
può essere tollerato. Un esempio dell’importanza della struttura è invece fornito da due forme allotropiche del Carbo-
nio, il diamante e la grafite. In questo caso la composizione chimica è identica, essendo costituita esclusivamente da
atomi di Carbonio. Tuttavia, la disposizione degli atomi in queste strutture estese differisce in maniera fondamentale:
nel diamante ogni atomo di C è legato ad altri atomi (con geometria tetraedrica), mentre la grafite è composta di
strati non legati tra loro, in cui ogni atomo di C è legato ad altri atomi (formando una geometria trigonale). Le conse-
guenze sono enormi: il diamante è un materiale durissimo (che non si può sfogliare facilmente), mentre la grafite è
facilmente sfogliabile; il diamante non è conduttore elettrico, mentre la grafite lo è; il diamante è trasparente e incolo-
re, mentre la grafite è nera e opaca.

3.2 Il legame chimico


Per i motivi sopra illustrati, il concetto di legame chimico è fondamentale, perché indica la presenza e la natura di
una connessione tra due o più atomi in un materiale. Tuttavia, una definizione precisa del legame chimico non è possi-
bile. Ne è un esempio la famosa definizione fornita dal premio Nobel Linus Pauling, uno degli scienziati più influenti
del ‘ e autore del famoso testo “The nature of the Chemical Bond”.12 Secondo Pauling, “we shall say that there is a
chemical bond between two atoms or groups of atoms in case that the forces acting between them are such as to lead to
the formation of an aggregate with sufficient stability to make it convenient for the chemist to consider it as an inde-
pendent molecular species.”12
Il legame chimico dipende dalla configurazione elettronica assunta dagli atomi e dalle modalità di interazione degli
stessi. Alcuni autori identificano il legame chimico esclusivamente con la presenza di energie non classiche, ossia
dovute all’applicazione dei principi della quantomeccanica. In quest’ottica, tuttavia, sarebbero esclusi i legami dovuti
prevalentemente a forze ‘classiche’, specificatamente il legame ionico.
Pertanto una classificazione più comprensiva è quella in cui si identificano alcuni tipi di legame, non mutualmente
esclusivi:

3.2.1 Interazioni primarie.

Legame covalente. Due o più atomi sono legati dalla compartecipazione di uno o più elettroni, che si muovono in
orbitali molecolari, identificati come combinazione di orbitali atomici. Si noti che questa è una approssimazione,
in quanto, a differenza degli orbitali atomici, quelli molecolari non rappresentano mai una soluzione esatta
dell’equazione di Schrödinger; tuttavia, essi forniscono una buona approssimazione e una sensata interpretazione.
Spesso il legame covalente è visualizzato come interazione tra due centri (due atomi) con due elettroni (di spin
opposto). In caso di legame multiplo tra due atomi, le coppie di elettroni diventano due, tre, quattro ecc. Questa
visualizzazione tuttavia è incompleta, perché non considera il caso molto diffuso di avere delocalizzazione di una
coppia di elettroni (oppure anche solo di un elettrone) su più di due atomi. In questo caso il legame diventa a m
centri e n elettroni. La stabilizzazione in un legame covalente è dovuta allo “scambio” di funzioni d’onda atomi-
che che possono descrivere gli elettroni condivisi. Questo meccanismo è definibile solamente attraverso la mecca-
nica quantistica.

――
12 L. C. Pauling. “La Natura del Legame Chimico”, prima edizione ; terza edizione riveduta 1960.
21

Legame ionico. Se la differenza di elettronegatività (ossia la capacità di attirare elettroni, come discusso nel Capitolo
2) tra due atomi è molto elevata, lo stato associato alla presenza di un legame covalente, con elettroni condivisi, è
meno stabile energeticamente e prevale lo stato in cui l’atomo più elettronegativo si ionizza negativamente e quel-
lo meno elettronegativo diventa un catione. Per gli atomi dei gruppi fondamentali, la ionizzazione porta la confi-
gurazione elettronica a coincidere con quella di un gas nobile (ad esempio, il fluoro diventa un mono anione con
lo stesso numero di elettroni e distribuzione del Ne, cosi come il Na diventa un catione con lo stesso numero di
elettroni). In questa prospettiva, si l’effettiva distribuzione elettronica attorno al nucleo non è rilevante e possiamo
approssimare il catione come una carica puntuale positiva e l’anione come una carica puntuale negativa. Pertanto
l’energia di interazione può essere calcolata applicando semplicemente l’elettrostatica classica:

1 𝑛 𝑛 𝑒
𝐸
4𝜋𝜀 𝑅

dove 𝑛 e 𝑛 sono i numeri che identificano la carica atomica degli atomi 1 e 2 (quindi possono essere interi posi-
tivi o negativi), 𝑒 è la carica elementare, 𝑅 è la distanza tra il nucleo 1 e 2, e 𝜀 è la costante dielettrica del vuoto.
Naturalmente la forza è data da -dE/dR.
Sebbene una distinzione formale esista, legami puramente covalenti e puramente ionici di fatto non esistono, in
quanto il contributo elettrostatico di natura “classica” è sempre presente anche in legami tra due atomi identici, e
analogamente una certa condivisione degli elettroni (a causa della sovrapposizione delle funzioni d’onda atomi-
che) è di fatto inevitabile. Nella realtà dei fatti, quindi, gli stati ionici puri e quelli covalenti si mescolano, portan-
do ad una distribuzione non omogenea degli elettroni, che finiscono col gravitare prevalentemente attorno
all’atomo più elettronegativo, a cui si può assegnare una parziale carica negativa (almeno qualitativamente). Que-
sto risulta molto importante per capire le reazioni chimiche. Pauling ha proposto una stima della percentuale di io-
nicità (IC%) di un legame sulla base della differenza di elettronegatività dei due atomi coinvolti.

𝐼𝐶% 1 𝑒 100

Legame metallico. Sebbene i metalli siano materiali conosciuti sin dall’antichità, il legame metallico rimane uno dei
meno compresi. Il trasporto di elettroni avviene tramite la delocalizzazione degli stessi tra tutti gli atomi della
struttura, attraverso la sovrapposizione delle funzioni d’onda atomiche, che vanno a costituire le cosiddette bande.
Una banda completamente riempita di elettroni impedisce la conduzione, mentre una parzialmente occupata è
ideale. Un modo di rappresentare un metallo è quindi quello di un “mare” di elettroni che si muovono in una strut-
tura composta da cationi metallici “fissi”.

3.2.2 Interazioni secondarie o di van der Waals.

Secondo molti autori, questo non è un vero legame chimico, semmai un legame “fisico”, tuttavia le forze che danno
vita a questo tipo di interazione, le cosiddette forze di London, sono tali da stabilizzare addotti tra molecole, oppure tra
atomi di gas nobili, e sono le principali forze che agiscono tra molecole non polari in fase solida.

Interazioni tra dipoli permanenti. La distribuzione elettronica di un atomo o di una molecola è tale per cui, anche in
assenza di una carica elettrica totale, esistono regioni a prevalente carica positiva e regioni a prevalente carica ne-
gativa. Questa distribuzione non omogenea prende il nome di polarizzazione. La più semplice polarizzazione è
quella dipolare, dove si individua un solo baricentro di cariche positive ed uno di cariche negative. I dipoli degli
atomi (oppure quelli delle molecole) interagiscono con leggi dell’elettrostatica classica, del tutto analoghe a quelle
usate dalle cariche degli ioni (dette infatti monopoli). Tuttavia le interazioni tra dipoli sono più deboli poiché’
l’energia di interazione decade con il cubo della distanza tra i centri, invece che con la semplice distanza come ac-
cade per le interazioni ioniche. Esistono anche interazioni tra poli di ordine superiore (quadrupoli, ottupoli ecc.)
che sono via via più deboli.

Interazione tra dipoli indotti. Poiché una distribuzione di carica è polarizzabile, due molecole che interagiscono pro-
durranno una polarizzazione indotta dal campo elettrico di una molecola sulla densità elettronica dell’altra e vice-
22

versa. I dipoli (o multipoli) indotti contribuiscono quindi all’ interazione tra due molecole in maniera simile a
quella dei dipoli permanenti.

Interazioni tra dipoli istantanei. I movimenti degli atomi in una molecola producono anche dei dipoli (o multipoli)
istantanei, vale a dire di brevissima durata, che tuttavia contribuiscono alla energia di interazione tra atomi e mo-
lecole. I dipoli istantanei dipendono dalla polarizzabilità dell’atomo o della molecola (che a sua volta dipende dal-
la vicinanza in energia tra lo stato fondamentale e quelli eccitati). Un atomo molto polarizzabile produrrà maggio-
re contributo. Le forze in gioco sono chiamate forze di London, dal nome dello scienziato che le ha proposte.
Nella formulazione tradizionale, l’energia di interazione di London tra due atomi è direttamente proporzionale al
prodotto delle due polarizzabilità e inversamente proporzionale all’energia di prima ionizzazione e alla distanza
alla sesta potenza. Si deduce quindi che queste forze siano più deboli di quelle tra dipoli permanenti e straordina-
riamente più deboli di quelle tra cariche monopolari.

3.3 Legame chimico e geometria molecolare


Il legame ionico, quello metallico e le interazioni secondarie hanno in genere scarsa “direzionalità” (sebbene esi-
stano delle importanti eccezioni che saranno approfondite nel trattamento delle interazioni secondarie). Infatti, il lega-
me ionico si basa sull’interazione elettrostatica tra le cariche atomiche, quindi assimilabile con le interazioni tra sfere
cariche, che non hanno direzioni preferenziali. La situazione cambia se si considerano anche polarizzazioni negli ato-
mi, che quindi impartiscono una anisotropia nel campo elettrico e dunque una qualche direzionalità al legame. Il lega-
me metallico ha anch’esso scarsa direzionalità in quanto le bande di conduzione sono favorite prevalentemente dalla
sovrapposizione del maggior numero possibile di orbitali atomici; quindi, il vincolo principale nei sistemi metallici è
massimizzare il numero di contatti, e quindi “sfericizzando” l’intorno di un atomo. Da ultime, le interazioni di van der
Waals hanno debole direzionalità, anche se non del tutto assente. Infatti, le interazioni tra dipoli istantanei dipende
dalla polarizzabilità degli atomi coinvolti. Anche se spesso si assume la polarizzabilità atomica come isotropa, in realtà
non lo è.
Le molecole costituite dalla presenza di legami covalenti tra gli atomi sono invece soggette a vincoli dovuti al le-
game che influenzano la geometria. Come visto nel capitolo precedente, nel loro stato fondamentale gli atomi hanno
configurazioni elettroniche, che coinvolgono solo un certo numero di orbitali. N particolare, sono rilevanti gli orbitali
di valenza. Anche se gli atomi legati modificano radicalmente il proprio stato (e nel contesto di una molecola non si
può più parlare di stati atomici), gli orbitali impegnati nella formazione dei legami con altri atomi rimangono sostan-
zialmente quelli di valenza dello stato fondamentale isolato. Pertanto, esistono limitazioni rispetto alla “stereochimica”
(disposizione degli atomi nello spazio) per ciascun atomo in una molecola. Inoltre, il numero di elettroni di valenza
determina il numero (massimo) di legami che un atomo può formare e quindi determina automaticamente il numero
massimo di primi vicini, mentre come anticipato sopra, gli altri tipi di interazioni non hanno questo tipo di vincoli, ed
anzi hanno la tendenza a massimizzare il numero di interazioni.

3.4 Legame covalente e strutture di Lewis


Il concetto di molecola è strettamente legato a G. N. Lewis,13 il quale propose una semplificazione della rappre-
sentazione dei legami chimici in base ad alcune semplici assunzioni: a) ogni elettrone di valenza può accoppiarsi con
altri (di altri atomi o dello stesso) a formare un doppietto (rispettivamente di legame o di non-legame); b) ogni doppiet-
to viene rappresentato con una linea (localizzata su un atomo, oppure che unisce due atomi); c) ogni atomo viene a
possedere tanti doppietti quante sono le linee che lo riguardano (quindi anche nel caso di un legame con un altro ato-
mo, la linea che li unisce indica che entrambi gli elettroni appartengono ad entrambi gli atomi); d) il numero massimo
di elettroni per un atomo coincide con il riempimento dello strato di valenza fino al raggiungimento della configura-
zione elettronica di una gas nobile.
Queste semplici regole derivano dall’applicazione del principio di Pauli e dalla presenza degli strati quantici atomici,
come visto nel capitolo precedente. Infatti, l’accoppiamento tra elettroni implica avere due elettroni con spin opposto
in un orbitale (limite massimo in base al principio di Pauli). Inoltre, il riempimento di uno strato quantico consente ad

――
13 Gilbert Newton Lewis ( – 1946) è stato un chimico statunitense.
23

un atomo di assumere una configurazione elettronica simile a quella dei gas nobili, che sono eccezionalmente stabili.
Sulla base di questi principi, possiamo facilmente intuire che l’atomo di idrogeno ha a disposizione un solo legame
covalente, in quanto con due elettroni raggiungerebbe la configurazione elettronica dell’He. Questo spiega facilmente
la formazione della molecola di idrogeno H (quindi rappresentabile in forma di Lewis come H-H) che è la forma
stabile dell’idrogeno in condizioni ambientali (presente come gas molecolare) e anche in condizioni di bassa tempera-
tura (liquido e poi solido cristallino molecolare).14
Per altre molecole elementari biatomiche (cioè costituite da due atomi ma dello stesso elemento), possiamo fare le
seguenti previsioni:
He2 non esiste, in quanto i due atomi hanno già la configurazione di un gas nobile senza bisogno di condividere elet-
troni. Di fatto, addotti di gas nobili si formano solo per via di interazioni secondarie, come vedremo in seguito.
Nelle ipotetiche molecole di Li2, Be2 e B2 i due atomi non sono in grado di raggiungere la configurazione elettronica di
un gas nobile. Queste molecole sono estremamente instabili.
C2 potrebbe teoricamente esistere, ma richiederebbe un legame quadruplo tra i due atomi di carbonio, difficile da rea-
lizzare con gli orbitali a disposizione di un atomo del secondo periodo.
N2: questa molecola ovviamente esiste ed è anche molto abbondante nell’atmosfera terrestre (essendo la forma stabile
dell’azoto in condizioni ambientali). Necessita di legame triplo tra i due atomi di azoto, in modo che ciascuno di
essi possa raggiungere il numero di 8 elettroni di valenza (6 provenienti dai tre legami e 2 da un doppietto di non
legame). Pertanto, rappresentiamo questa molecola con:

:N≡N: oppure |N≡N|

O2: è un’altra molecola molto conosciuta e abbondante e rappresenta la forma stabile dell’ossigeno in condizioni am-
bientali. Poiché l’ossigeno possiede 6 elettroni di valenza, ha bisogno di fare solo due legami (risparmiando 4 elet-
troni di valenza per formare doppietti di non-legame) e quindi la molecola avrà la seguente formula di Lewis

Infine, la molecola di fluoro, è ovviamente caratterizzata da un solo legame (e 3 doppietti di non legame per ciascun
atomo), avendo il Fluoro 7 elettroni di valenza

Di seguito si propongono le formule di Lewis di altre importanti molecole:

――
14 Solo a pressione elevata l’idrogeno da molecolare si trasforma in polimerico e a pressioni estremamente elevate diviene metallico, come
dimostrato recentemente.
24

O
acqua
H H

H H
N ammoniaca

3.5 Orbitali ibridi e teoria del legame di valenza

Applicando strettamente il paradigma introdotto da Lewis, si potrebbe pensare di associare a ciascun legame sin-
golo uno orbitale che provenga dalla sovrapposizione di orbitali appartenenti a ciascuno dei due atomi interagenti e
opportunamente orientati. Questo modello è alla base della teoria del legame di valenza. Il modello è naturalmente
realizzabile da un punto di vista matematico, combinando opportunamente gli orbitali atomici a disposizione. Ad
esempio, un atomo di C ha elettroni di valenza e quindi dovrebbe formare legami. Se tutti singoli, il modo migliore
di disporre i legami (e quindi altri atomi) attorno al C è quello di formare un tetraedro, con al centro l’atomo di C e ai
vertici gli altri atomi. Tutti gli angoli tra vettori di legame sarebbero di ca. . º, e nell’ipotesi che i quattro atomi
attorno siano uguali (ad esempio atomi di idrogeno come nel metano), anche i legami dovrebbero essere identici.
Come fare, se si hanno a disposizione solo orbitali p ed uno s? Per raggiungere questo scopo, si può sfruttare una
proprietà speciale delle armoniche sferiche, che è la loro completezza, la quale consente di ricostruire in principio
qualunque forma tridimensionale, come combinazione di armoniche sferiche. Avendo a disposizione solo i primi due
tipi di armoniche (ossia l = e l = ), solo forme molto simmetriche sono riproducibili, tra queste una forma di simme-
tria tetraedrica come quella in figura . Infatti, una combinazione lineare dei orbitali p e di quello s produce quattro
nuovi orbitali cosiddetti ibridi, identici tra loro, ma ciascuno orientato verso un diverso vertice di un tetraedro. I coeffi-
cienti di tale combinazione lineare devono naturalmente considerare l’opportuna ‘normalizzazione’ dell’orbitale risul-
tante. In figura . , sono rappresentate altre ibridizzazioni classiche come quella 𝑠𝑝 e 𝑠𝑝 , tipiche di atomi con coordi-
nazione lineare o trigonale, rispettivamente.

Figura . Gli orbitali atomici di un atomo di C ibridizzati sp . Immagine riprodotta da Atkins, Friedman Molecular Quantum
Mechanics, Oxford University Press.
25

Figura . La costruzione di orbitali ibridi sp e sp

3.6 Repulsione dei doppietti elettronici nello strato di valenza (VSEPR)


Questa teoria è meglio conosciuta come VSEPR (Valence Shell Electron Pair Repulsion) e si fonda su un sempli-
ce principio elettrostatico, applicato successivamente a quello quantomeccanico dell’accoppiamento tra elettroni di
spin opposto: coppie di elettroni (formatesi appunto con legame covalente oppure come doppietti isolati) tendono a
respingersi e quindi si disporranno attorno a ciascun atomo in modo da occupare al meglio lo spazio disponibile.
La VSEPR di fatto è un’estensione della teoria di Lewis che ha un maggiore potere predittivo per quanto riguarda le
geometrie molecolari.
Per prevedere correttamente la geometria dobbiamo considerare la coordinazione attorno a ciascun atomo in una mole-
cola, contando il numero di doppietti di legame (nL cioè due elettroni appartenenti a due atomi diversi e accoppiati in
un legame covalente) e quello di doppietti di non-legame (nnL) ossia elettroni accoppiati ma appartenenti ad un solo
atomo. La somma nL + nnL indica il numero di coordinazione e determina una geometria di riferimento, come riassunto
in Tabella 3.1 e Figura 3.3.

Tabella 3.1 Le geometrie di riferimento nella teoria VSEPR

numero geometria
di coordinazione di riferimento

2 Lineare
3 Trigonale
4 Tetraedrico
5 Bipiramidale
6 Ottaedrico

Distorsioni dalle geometrie ideali si hanno nel caso gli oggetti coordinati non siano uguali e quindi la simmetria venga
ridotta. In particolare, i doppietti di non legame, essendo localizzati solo sull’atomo centrale, tendono a respingersi
maggiormente rispetto a quelli di legame e quindi richiedono opportune distorsioni della geometria di riferimento.
26

Figura . Le geometrie di riferimento nella teoria VSEPR

Consideriamo ad esempio la molecola di H O. La teoria di Lewis ci dice che esistono due legami tra O e ciascun
H. Quindi esistono due coppie elettroniche di legame che saturano la richiesta dell’idrogeno (di avere in totale elet-
troni) e quella dell’ossigeno (di averne nello strato di valenza). Questo implica che i restanti elettroni di valenza
dell’ossigeno formeranno due coppie elettroniche di non legame e occuperanno due orbitali disponibili. Avendo
oggetti intorno a sé (due doppietti di legame e due di non-legame), l’atomo di ossigeno tenderà ad assumere una geo-
metria tetraedrica. Tuttavia, i quattro oggetti non sono identici: i due doppietti di legame sono più diffusi lontano
dall’ossigeno poiché in compartecipazione con i due idrogeni, mentre i doppietti di non-legame sono interamente
localizzati sull’ossigeno e quindi più vicini. Questo implica che la repulsione tra i doppietti di non-legame sarà supe-
riore a quella tra i doppietti di legame. Pertanto, nonostante l’angolo tra due vettori che collegano il centro di un te-
traedro con i vertici sia di circa . º, l’angolo formato da due legami O-H è nella molecola di H O è di solo . º (e
ovviamente quello tra i due doppietti è superiore).
Con la teoria VSEPR si possono quindi prevedere le geometrie di molte molecole semplici. Ad esempio, il metano
CH sarà un tetraedro perfetto, la CO sarà lineare ed il carbonio nell’etilene C H avrà, approssimativamente, una
coordinazione trigonale. Queste ultime due molecole richiedono un chiarimento: nel caso il legame sia doppio (quindi
coinvolga due doppietti elettronici condivisi dai due atomi coinvolti), si considera come un unico oggetto, ovviamente
con potere repulsivo maggiore di quello di un doppietto singolo di legame. Questo significa che in CO , non si contano
legami all’atomo di C, ma solo coppie di legami, rientrando quindi nel caso lineare. In C H , il legame doppio C=C
conta come un unico oggetto e questo spiega la coordinazione trigonale (distorta poiché il legame C=C è diverso dai
due legami C-H).

3.7 Orbitali molecolari


Sebbene anche la teoria del legame di valenza implichi la combinazione di orbitali atomici ibridizzati, esiste un al-
tro modo di costruire orbitali molecolari a partire da quelli atomici senza un ‘pregiudizio’ come l’ibridizzazione. Si
parla quindi di orbitali molecolari canonici, costruiti a partire dagli orbitali atomici di base (ossia gli orbitali discussi
nel capitolo ) con combinazioni lineari che obbediscono unicamente a principi di simmetria (che qui non verranno
discussi in dettaglio) e al principio di ottenere una serie di orbitali molecolari che corrispondano, globalmente, alla
27

minore energia per la molecola (o in generale per il sistema di elettroni, visto che lo stesso principio può essere impie-
gato anche per polimeri e solidi estesi).
Di seguito vengono presentati alcuni casi particolari.

3.7.1 Molecola di H

Si tratta della molecola più semplice, costituita esclusivamente da due atomi di idrogeno, quindi due protoni (in
due nuclei diversi) e due elettroni, chiaramente condivisi per ottemperare al principio di raggiungere la configurazione
elettronica di un gas nobile (che per atomi del primo periodo significa avere due elettroni). Escludendo gli orbitali di
energia superiore, che sono disponibili ma non impiegati dagli atomi di idrogeno, la molecola si forma con la solo
combinazione dei due orbitali s, centrati su ciascuno dei due atomi di idrogeno, che indicheremo rispettivamente con
HA e HB. In questo caso, le regole di simmetria e il principio di minimizzare l’energia sono molto semplici da applica-
re. La combinazione di due orbitali s produce due orbitali molecolari:

𝜑 1𝑠 1𝑠

𝜑 1𝑠 1𝑠

Naturalmente sono necessari anche dei coefficienti di normalizzazione che qui omettiamo. Questi due orbitali moleco-
lari sono entrambi di tipo σ, ossia sono simmetrici rispetto all’asse del legame (un vettore che collega i due nuclei).
Gli orbitali molecolari devono rispettare lo stesso principio di Pauli degli orbitali atomici; quindi, ciascuno di essi può
ospitare al massimo due elettroni con spin opposto. E in ottemperanza al principio dell’Aufbau, l’orbitale con energia
inferiore viene occupato prima. In questo caso, 𝜑 ottenuto dalla somma in fase dei due orbitali è appunto l’orbitale
più stabile e quindi l’unico a venire occupato. Esso viene chiamato orbitale molecolare legante, appunto poiché contri-
buisce in maniera decisiva alla formazione di un legame tra i due atomi. L’orbitale 𝜑 invece, è chiamato orbitale
molecolare antilegante. Esso risulta vuoto e una sua eventuale occupazione produrrebbe una destabilizzazione della
molecola con conseguente allungamento della distanza di legame H-H. La situazione finale è quella descritta in Figura
. . I due orbitali vengono anche indicati con i simboli σ e σ* (in generale * viene impiegato per indicare una combi-
nazione che produce un orbitale antilegante).

Figura . Gli orbitali molecolari della molecola di H

3.7.2 Molecole biatomiche del secondo periodo

Se nel caso dell’idrogeno molecolare abbiamo a disposizione solo un tipo di orbitale atomico, la situazione è più
complessa con molecole di atomi del secondo periodo che hanno a disposizione anche orbitali p e sarebbe naturalmen-
te ancora più complessa con elementi del quarto periodo che hanno anche orbitali d.
28

Figura . Schema di orbitali molecolari per molecole biatomiche del secondo periodo. Gli orbitali di core non sono rappresen-
tati.

Anche in questo caso abbiamo orbitali s dello strato di valenza (2𝑠) che si combinano come nel caso degli orbitali 1𝑠
dell’idrogeno. Inoltre, abbiamo un orbitale 𝑝 per ogni atomo diretto lungo l’asse di legame (per convenzione asse 𝑧, e
quindi gli orbitali in questione sono gli orbitali 2𝑝 ). Sia gli orbitali 2𝑠 che i 2𝑝 sono simmetrici rispetto all’asse di
legame e quindi le loro combinazioni producono orbitali molecolari di tipo 𝜎.
Il caso interessante è rappresentato dalla interazione tra orbitali atomici p con asse perpendicolare a quello di legame.
L’orbitale molecolare formatosi avrà quindi un piano nodale parallelo all’asse di legame, mentre risulta antisimmetrico
rispetto all’asse del legame. Tali orbitali vengono indicati con la lettera π, e in caso rappresentino una combinazione
antilegante si usa il simbolo π*. Nel caso di molecole lineari esistono coppie equivalenti di orbitali π e π*, a seconda
che vengano utilizzati gli orbitali 2𝑝 di entrambi gli atomi, oppure gli orbitali 2𝑝 . Poiché esiste perfetta simmetria i
due orbitali π avranno identica energia (si dicono pertanto degeneri) e altrettanto i due orbitali π*.
Lo schema di Figura . non è “universale”. Bisogna infatti considerare alcuni importanti aspetti. In genere la sovrap-
posizione tra orbitali atomici con simmetria rispetto all’asse di legame produce una maggiore interazione (sia stabiliz-
zante per le combinazioni in fase, che destabilizzante per quelle in antifase), tuttavia questo dipende dalla estensione
degli orbitali e dalla distanza tra i due nuclei atomici. Inoltre, anche se nello schema per ogni orbitale atomico viene
rappresentata solo l’interazione tra due orbitali (un per ciascun atomo), in realtà ciascun orbitale di tipo  può interagi-
re con quelli  di un altro atomo. Quindi, in tutte le combinazioni  e * riportate nello schema possiamo considerare
il contributo sia degli orbitali 2𝑠 che 2𝑝 . Tuttavia, l’interazione sarà più rilevante tra orbitali di simile energia, per
questo nello schema si riportano separatamente quelle tra i due 2𝑠 e quelle tra i due 2𝑝 .
Per esemplificare deviazioni dallo schema, consideriamola molecola di B che presenta una anomalia: le energie degli
orbitali π sono inferiori a quelle del 2. Poiché l’occupazione elettronica degli orbitali molecolari, come per quelli
atomici, inizia dal basso, per la molecola di B (escludendo gli elettroni dei due cori) abbiamo elettroni di valenza
che quindi si distribuiranno negli orbitali , 2* e 1π. Ma quale dei due orbitali π? Entrambi, ma con un elettrone
solo. La situazione è infatti analoga a quella di un atomo isolato che comincia a riempire lo strato 2𝑝. Se abbiamo due
elettroni, essi si disporranno in due orbitali diversi (ad esempio, 2𝑝 e 2𝑝 ), per minimizzare la repulsione elettronica.
Analogamente gli ultimi due elettroni nella molecola di B occuperanno ciascuno uno dei due orbitali π. Poiché occu-
pano due orbitali diversi, i due elettroni possono avere un opposto stato di spin (come avviene quando occupano lo
stesso orbitale) oppure lo stesso stato di spin (cosa invece impossibile se ci fosse un solo orbitale). La seconda situa-
zione è più favorevole (come anche a livello atomico) e quindi la molecola di Boro si ritrova con due elettroni con lo
stesso spin, non compensati da elettroni di spin opposto. Per questo motivo, essa possiede un momento magnetico. Una
situazione analoga è quella della molecola di ossigeno. Pur seguendo lo schema di Figura . , nel caso dell’O , si arri-
vano ad occupare tutti gli orbitali fino ad avere due elettroni negli orbitali π*, e nuovamente la soluzione migliore è
quella di disporne uno per orbitale con eguale spin. Pertanto, anche la molecola di O è magnetica.
29

Un’ultima considerazione nello schema . , riguarda gli orbitali di core (1𝑠). Come sappiamo essi sono fortemente
localizzati attorno al nucleo dell’atomo e quindi poco propensi a interagire in un legame chimico. Tuttavia, in una
formulazione esclusivamente matematica non possiamo trascurare anche la combinazione tra orbitali di core. Per cui,
nello schema dovremmo anche prevedere altre due combinazioni, in fase ed in antifase, degli orbitali 1𝑠, che risulte-
ranno praticamente degeneri, in quanto non esiste alcuna stabilizzazione o destabilizzazione prodotta dalla loro somma
o differenza. Pertanto, negli schemi essi vengono normalmente esclusi.

3.7.3 Molecole con legami π

Tra le molecole viste in precedenza, due (etilene e acetilene) sono particolarmente emblematiche per riassumere
gli schemi di legame, combinando l’utilizzo sia di orbitali ibridi che di orbitali molecolari. Come si evince dalla for-
mula di Lewis, nell’etilene ciascun atomo di C è circondato da tre atomi ( H e l’altro C). Pertanto, per quanto visto
nel paragrafo . , gli atomi di C avranno la tendenza a formare una ibridizzazione 𝑠𝑝 mantenendo un ulteriore orbita-
le 𝑝 non coinvolto nell’ibridizzazione. Due dei tre orbitali ibridi sono chiaramente impiegati per formare il legame con
gli atomi di H, mentre il terzo è a disposizione per formare un legame di tipo  con l’altro atomo di C. I due orbitali p
rimasti a disposizione (uno per ciascun atomo di C) sono impiegati per instaurare un legame di tipo π, che implica
avere i due orbitali 𝑝 paralleli e quindi la molecola deve necessariamente essere planare. La presenza di un legame di
tipo  ed uno π, indica che tra i due atomi di C si è instaurato un legame di tipo doppio.
In maniera del tutto analoga possiamo costruire gli orbitali nel caso dell’acetilene, partendo però da atomi di C con
ibridizzazione 𝑠𝑝 e avendo quindi a disposizione due coppie di orbitali 𝑝. Alla fine, si formano dunque tre legami C-C.
Ciascun legame nella Figura . è quindi prodotto per interazione di un orbitale ibrido di C con un orbitale 1𝑠 de-
gli H, oppure con un altro orbitale ibrido del C, oppure per interazione degli orbitali 𝑝. In queste interazioni dobbiamo
ovviamente supporre che si formino due combinazioni (una come somma e una come differenza degli orbitali atomici
in gioco). La prima combinazione è quindi legante ed è occupata da due elettroni, l’altra è antilegante ed è vuota.
Nella Figura . sono rappresentate solo le interazioni leganti e tutte condensate nella stessa struttura.

Figura . Orbitali impiegati nella formazione del legame C-C nelle molecole di etilene e di acetilene. Immagine tratta da W.
Masterton, C. Hurley. Chemistry: principles and reactions.

3.8 Legame metallico


Il legame metallico è l’ultimo tipo di legame “primario”, ed è presente in solidi estesi che appunto hanno proprietà
metalliche (ossia conduttive). Questo tipo di legame rimane uno dei più dibattuti, in quanto la sua natura non è così
semplice da caratterizzare in termini di descrittori semplici.
In un modello molto elementare, possiamo identificare due diversi tipi di elettroni presenti in un solido metallico,
quelli vincolati ad un dato nucleo (tipicamente gli elettroni di core) e quelli liberi di muoversi (tipicamente gli elettroni
di valenza). Il core di un metallo risulta quindi carico positivo e i restanti elettroni liberi si muovono quindi come un
“mare di elettroni” in un campo di cariche positive.
30

Figura . Un modello per il metallo inteso come combinazione di cori atomici carichi positivamente e ‘mare’ di elettroni di
valenza liberi. Immagine riprodotta da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduc-
tion, Wiley

La caratteristica di questi composti è quindi quella di avere estrema facilità nel trasporto di elettroni (conducibilità
elettrica) e di energia (conducibilità termica).
Da un punto di vista orbitalico, possiamo visualizzare questi legami come estremamente delocalizzati su tutti gli atomi,
quindi con orbitali estesi e non localizzati. Questo significa creare delle bande elettroniche, che potrebbero essere
occupate (bande di valenza) o non occupate (bande di conduzione, in quanto libere per il passaggio di elettroni). La
differenza di energia tra la banda di valenza e quella di conduzione determina il tipo di comportamento elettrico di un
materiale. Se le due bande sono di fatto in contatto, la conduzione è estremamente semplice e quindi si ha un metallo,
se invece sono molto distanti, il composto sarà un isolante. Una situazione intermedia dà origine ai cosiddetti semicon-
duttori.

Figura . Schema di formazione delle bande in un solido

Letture consigliate:
Capitolo 7 di W. Masterton, C. Hurley. Captilo 7. Il legame covalente.
31

4 Forze intermolecolari e stati di aggregazione

4.1 Forze intermolecolari


Idealmente, possiamo rappresentare le molecole come gusci chiusi quando tutti gli atomi che le compongono han-
no raggiunto la configurazione elettronica di un gas nobile e quindi non ci sono elettroni non accoppiati o orbitali
potenzialmente occupabili. Tuttavia, questi gusci chiusi hanno la capacità di interagire tra loro poiché comunque eser-
citano reciprocamente forze di attrazione o repulsione, che tuttavia noi classifichiamo come interazioni secondarie
(come anticipato nel capitolo ), per distinguerle dai legami forti (covalente e ionico) che identifichiamo come intera-
zioni primarie.
In generale, possiamo riconoscere le seguenti forze:

Forze Elettrostatiche (classiche): se le molecole non sono elettronicamente neutre, avremmo tra loro forze analoghe a
quelle del legame ionico, sebbene mitigate dalle dimensioni maggiori. Questo può avvenire quando cationi ed
anioni non sono monoatomici (come Na+, F-, ecc.) ma sono molecolari (tipo l’anione carbonato CO32-, l’anione
solfato, SO42-, l’anione nitrato, NO3-, il catione ammonio, NH4+, ecc.). Tuttavia, anche molecole elettronicamente
neutre possono generare un campo elettrostatico ed interagire con altre molecole, anch’esse neutre. La condizione
per avere questo tipo di interazione è che le molecole siano dipolari, oppure quadrupolari o più in generale multi-
polari. In questo caso, si possono applicare estensioni della legge di Coulomb, che dipendono dalla presenza ap-
punto di momenti di dipolo, di quadrupole ecc. La principale differenza rispetto alle forze in gioco nei legami io-
nici è la dipendenza dalla distanza tra i centri atomici, che decade come R-n (n = 2 per l’interazione ionica, n = 3
per l’interazione carica-dipolo, n = 4 per l’interazione dipolo-dipolo, ecc.). Le corrispondenti energie di stabilizza-
zione o destabilizzazione decadono con R-(n-1). Da qui deduciamo che le interazioni tra molecole cariche elettrica-
mente (quindi ioni) sono più a lungo raggio di quelle tra molecole neutre dipolari (e.g. acqua), e così via.
Polarizzazione indotta: la distribuzione di carica di una molecola produce un campo di forze elettrostatiche che ov-
viamente influenza le molecole limitrofe e viceversa. Questa polarizzazione dipende dal campo elettrico prodotto
ma anche dalla polarizzabilità della molecola che è sottoposta a tale campo. L’effetto finale è la creazione di un
dipolo (indotto) aggiuntivo che si somma al dipolo esistente della molecola (che potrebbe non esistere se la mole-
cola, ad esempio, ha una simmetria che impedisce un dipolo permanente). Il dipolo indotto produce sempre una
stabilizzazione della molecola nel campo elettrico.
Forze di London: sono dovute a interazioni simili a quelle di polarizzazione, ma coinvolgono dipoli indotti non per-
manenti, dovuti alle configurazioni eccitate di una molecola che hanno basse probabilità di esistere, ma la somma
di tutte queste interazioni produce un effetto stabilizzante che diviene anche molto importante per molecole che
non siano polari e quindi non possano già godere di forte interazione di tipo elettrostatico (descritta nel primo pun-
to).
Repulsione a corto raggio: viene impropriamente chiamata repulsioni di Pauli, sebbene non esista una forza di Pauli.
Tuttavia, il principio di esclusione di Pauli implica una diminuzione della probabilità di stabilizzare elettroni con
eguale spin in regioni limitrofe dello spazio. Poiché in base a questo principio, l’avvicinamento di gusci elettronici
chiusi di molecole fa aumentare l’energia (quindi destabilizza), si può derivare una forza repulsiva che appunto dà
origine al nome.

4.1.1 Interazione elettrostatica.

Una espressione generale per il calcolo della interazione elettrostatica tra due molecole A e B costituite da atomi i
e j rispettivamente, è data da:

Zi Z j  A (r ' )  B (r )
Ees       nucA (r )  B (r ) d r    nucB (r )  A (r ) d r    d r d r'
i A j B rij r  r'

Dove Z è il numero atomico di un atomo (e quindi determina il numero di protoni), rij è la distanza tra i nuclei di atomi
i e j, ρ è la densità elettronica di una molecola (A oppure B) e nuc è il potenziale elettrostatico generato dai nuclei di
quella molecola.
32

Gli integrali nell’equazione sopra riportata possono essere approssimati con una espansione multipolare (quindi in
termini di dipolo-dipolo, dipolo quadrupolo ecc.).

4.1.2 Polarizzazione

La polarizzazione elettrica di una molecola A ad opera del campo elettrico di un’altra molecola B produce un di-
polo elettrico indotto (ossia aggiuntivo rispetto a quello in assenza del campo elettrico15):

𝛍∗𝐀 𝐄 ⋅ 𝛂𝐀

 è la polarizzabilità (un tensore del secondo ordine) della molecola A e E è il campo elettrico prodotto dalla molecola
B. L’interazione tra il dipolo indotto e il campo produce una energia (detta appunto energia di polarizzazione) che è
necessariamente stabilizzante:

𝐸 𝐄𝐀 ⋅ 𝛍∗𝐁 𝐄𝐁 ⋅ 𝛍∗𝐀

4.1.3 Forze di London (energia dispersiva)

Le interazioni fino ad ora discusse non rappresentano tutte le possibili interazioni tra due molecole A e B. Infatti,
esistono anche interazioni tra dipoli temporanei, prodotti dalle configurazioni elettroniche eccitate (ossia di energia
superiore a quella fondamentale). London16 ha proposto di valutare l’energia di questa interazione (chiamata anche
dispersiva) come un prodotto tra le polarizzabilità delle molecole coinvolte:

dove Eion è l’Energia di ionizzazione di una molecola (energia necessaria a estrarre un elettrone da quella molecola) e
RAB è la distanza tra i baricentri delle due molecole.

Figura . Una rappresentazione delle principali interazioni intermolecolari

――
15 Il dipolo della molecola in assenza di un campo esterno potrebbe anche essere nullo, in conseguenza della simmetria della molecola. In
particolare, non sono polari le molecole che possiedono un centro di inversione, oppure un asse di simmetria e un piano di riflessione (o un
altro asse di simmetria) ad esso perpendicolare.
16 London Z. Phys. ൫൳൭൪, 63, .
33

4.1.4 Il potenziale di Lennard-Jones

In assenza di dipoli molecolari, e quindi senza grossi campi elettrici prodotti da una molecola, le interazioni tra
due molecole si riducono a quella dispersiva e quella repulsiva. Per modellare queste interazioni, Lennard-Jones ha
proposto un potenziale intermolecolare di forma piuttosto semplice:

𝐸 4𝜖

Il primo termine, che avendo un esponente 12 rappresenta interazioni a cortissimo raggio, è un potenziale che esprime
il termine repulsivo (e infatti è destabilizzante). Il secondo termine, invece, rappresenta le interazioni di tipo dispersi-
vo, che agiscono a corto-medio raggio. 𝜖 è un parametro con dimensioni di energia e che dipende dalle molecole coin-
volte, R0 è il raggio di una sfera che approssima la molecola, mentre RAB è la distanza tra molecole. Il potenziale po-
trebbe essere anche scomposto in termini atomo-atomo, quindi considerando distanze individuali tra atomi i
(appartenenti alla molecola A) e j (appartenenti alla molecola B). In questo caso il potenziale si originerebbe dalla
sommatoria di tutte le possibili interazioni i-j.

, ,
𝐸 ∑ ∑ 4𝜖

Figura . Il potenziale di Lennard-Jones

4.1.5 Il legame ad idrogeno

Uno speciale tipo di interazione intermolecolare è quella del “legame ad idrogeno”. Questa interazione si instaura
tra due molecole che abbiano un gruppo donatore (D-H) ed uno accettore (A) rispettivamente. Un buon gruppo dona-
tore è spesso un gruppo acido, cioè l’idrogeno deve essere legato ad un atomo con forte elettronegatività (e.g. D = F,
O, N). Un buon gruppo accettore è altrettanto formato da un atomo molto elettronegativo che abbia un forte accumulo
di carica elettronica, in modo da poter attrarre l’idrogeno.
Sebbene possa apparire come una interazione elettrostatica classica, in realtà si tratta di un meccanismo più complesso
in cui si combinano elettrostatica e covalenza. Per questo è spesso annoverato tra i tipi di legame chimico ed è fonda-
mentale per molti fenomeni sia legati alla scienza dei materiali sia alla biologia (essendo centrale nel meccanismo di
trasferimento protonico, che è fondamentale nella biochimica).
Tra le molecole che sono più soggette al legame ad idrogeno c’è proprio l’acqua, che può fungere sia da donatore che
da accettore. Nell’acqua pura, è proprio il legame ad idrogeno il maggior responsabile dell’elevata temperatura di
ebollizione. Nelle soluzioni acquose, il legame ad idrogeno è spesso responsabile della stabilizzazione di ioni di soluto.
34

4.2 Nucleofili ed elettrofili


In base alle caratteristiche elettrostatiche delle molecole possiamo introdurre una classificazione molto impiegata
in chimica. Infatti, possiamo definire elettrofili quelle molecole che sono stabilizzate dall’interazione con un campo
elettrico negativo, e nucleofili quelle molecole che invece sono stabilizzate in un campo elettrico positivo. È abbastan-
za semplice intuire che in generale i cationi siano elettrofili e gli anioni siano nucleofili. In questo caso a predominare
le caratteristiche della molecola è la sua stessa carica elettrica. Quindi ioni Na+ e Cl- tenderanno a reagire tra loro e
formare il cloruro di sodio NaCl.
Un elettrofilo può essere caratterizzato: una carica elettrostatica positiva, oppure la diponibilità di orbitali molecolari
non occupati di energia sufficientemente bassa, quindi disponibili per un’interazione con elettroni disponibili su un
nucleofilo.
A sua volta il nucleofilo può essere caratterizzato da: una carica elettrostatica negativa oppure la disponibilità di un
orbitale molecolare occupato da elettroni di energia sufficientemente elevata, quindi disponibili ad essere trasferiti ad
un elettrofilo.
Se in una interazione tra nucleofilo ed elettrofilo prevale l’interazione elettrostatica, si parla di elettrofilo o nucleofilo
hard. Se invece prevale l’interazione orbitalica, allora si parla di elettrofilo o nucleofilo soft.

Figura . Uno schema che riassume le caratteristiche principali di molecole nucleofiliche o elettrofiliche.

Tra i nucleofili hard, troviamo H2O, NH3 (sebbene siano molecole neutre), gli ioni F-, OH-e Cl-, mentre i nucleofili soft
sono ad esempio I- (sebbene carico), CO, PH3.
Tra gli elettrofili, invece, sono hard cationi come Li+, Na+, K+, mentre sono soft alcuni cationi di metalli di transizione.

4.3 Stati di aggregazione. Lo Stato solido


Classicamente, si definiscono tre stati di aggregazione della materia, ossia solido, liquido e gassoso. Tuttavia, un
primo problema è creato dalla presenza del punto critico, ossia un punto nel diagramma di stato di una sostanza che
identifica una pressione e temperatura, al di sopra delle quali non è possibile riconoscere una fase gassosa o liquida e si
parla semplicemente di un fluido super-critico. Un secondo problema è che alcuni solidi (i vetri) hanno proprietà che
sono isotrope (ossia non dipendono dalla direzione di osservazione) come quelle dei liquidi o dei gas, e a differenza da
quelle dei solidi cristallini.
Per questi motivi, possiamo proporre una differente classificazione della materia, basata sul tipo di ordine presente tra
le molecole o atomi coinvolti. Si possono distinguere due tipi di aggregazione in questo caso: fasi della materia che
sono omogenee statisticamente e fasi che sono omogenee periodicamente.
Dalla figura 4.7 si può evincere come gas e liquidi, così come i solidi amorfi sono accomunati da alcune caratteristiche
strutturali (arrangiamento non periodico di atomi o molecole che statisticamente assumono tutte le possibili orientazio-
ni) e di funzionalità (le proprietà sono in tutti i casi isotrope). Al contrario, nei solidi cristallini, che hanno ordinamenti
35

periodici delle molecole e degli atomi, le proprietà sono anisotrope, ossia diverse a seconda della direzione. Alcune di
queste proprietà sono ad esempio:
Regolarità delle face dei solidi cristallini che spesso danno origine a forme regolari
La frattura di un solido cristallino produce spesso delle forme più piccole ma omeomorfe (ossia con analoga mor-
fologia).
I cristalli di uno stesso composto hanno spesso la stessa forma
Pleocroismo: alcuni cristalli hanno colori diversi a seconda della direzione di osservazione
Durezza non omogenea: scalfire la superficie di un cristallo in una direzione non è uguale a scalfirla in un’altra di-
rezione.
La conducibilità termica non è uguale in tutte le direzioni.
L’indice di rifrazione non è unico e varia in funzione della direzione

Possiamo considerare ad esempio la differenza tra la silice e il quarzo. Entrambi sono forme solide del composto SiO2,
tuttavia il quarzo è cristallino, mentre la silice è amorfo. La simmetria del quarzo implica che esistano solo due dire-
zioni speciali e in queste due direzioni si osservano indici di rifrazione (leggermente) diversi e conducibilità termica
molto diversa. Al contrario, la silice ha un unico indice di rifrazione e di conducibilità termica.

Figure . Una classificazione della materia sulla base dell’orientazione di atomi o molecole.

4.4 Il polimorfismo e le transizioni di fase in stato solido


Come anticipato anche nel capitolo , è possibile incontrare diverse fasi solide di uno stesso composto, in questo
caso si parla di polimorfismo. Alcune fasi sono cristalline (si veda capitolo per la trattazione dei reticoli cristallini)
ma altre potrebbero essere amorfe (non cristalline). Poiché il tratto caratteristico dei polimorfi è la differente struttura,
è anche chiaro che essi differiranno per energia e pertanto, in determinate condizioni termodinamiche (ossia Pressione
e Temperatura) sarà stabile una sola fase, cioè una sola fase avrà energia libera inferiore alle altre, tranne ovviamente
per i punti di transizione tra una fase e l’altra dove le energie di due fasi coincidono. Tuttavia, è spesso possibile osser-
vare fasi metastabili, ossia fasi solide che non sono energeticamente favorite a quella T e P, ma ugualmente presenti,
sia in modalità transiente (ossia sono in procinto di trasformarsi nella fase stabile) sia in modo permanente (e.g. il
diamante non è la fase stabile del C in condizioni ambientali, ma non si trasforma in grafite ed è anzi molto resistente).
Tra le varie transizioni di fase, ossia passaggi da una fase ad un’altra, vi sono anche quelle che trasformano un so-
lido in un liquido o in un gas. Naturalmente, le energie in gioco per trasformazioni che portino da fasi periodicamente
omogenee a fasi statisticamente omogenee sono molto più elevate (soprattutto in termini di calori latenti).

Letture consigliate:
Capitolo 9 di W. Masterton, C. Hurley. Liquidi e Solidi (Paragrafo 9.3)
36

5 Solidi e diagrammi di stato

5.1 La cristallografia e i cristalli


La cristallografia studia la morfologia e la struttura interna (atomica) dei cristalli.
Il concetto di cristallo è cresciuto molto nel tempo, a partire dalla prima proposta di Keplero, riportata nello “Strena
seu de nive sixangula”, dove discusse infatti la morfologia esagonale dei cristalli di neve, stabilendo una connessione
tra forma cristallina e simmetria. Più tardi, Rober Hooke usando i suoi microscopi stabiliva l’idea che i cristalli fossero
oggetti periodici, costituiti da una unità piccolo ripetuta un certo numero di volte (teoricamente fino all’infinito).
Un abate francese, René-Just Haüy (nel suo Essai d’une théorie sur la structure des cristaux, 1784) discusse le diffe-
renti morfologie dei cristalli di calcite (una delle forme del carbonato di calcio, CaCO3) descritte dall’impaccamento di
oggetti elementari di forma rombica.
Queste osservazioni ci conducono a formulare una descrizione matematica dei cristalli fornendo una descrizione della
unità minima ripetuta ed una del motivo di impaccamento (il cosiddetto reticolo cristallino).
Molto recentemente, tuttavia, la International Union of Crystallography (IUCr) è stata costretta a rivedere la definizio-
ne di cristallo includendo anche oggetti che mancano di una vera periodicità tridimensionale, ma presentano comunque
un ordine esteso. Questi oggetti sono stati chiamati quasicristalli e per la loro scoperta nel 2011 Daniel Shechtman è
stato insignito del premio Nobel.

Figure . . Un esempio di impaccamento di oggetti bidimensionali, con periodicità in due dimensioni. Immagine riprodotta da
‘Crystal Packing’ di A. Gavezzotti e H. Flack, IUCr Teaching Pamphlet, N. 21.

La periodicità di un oggetto può estendersi anche solo in una o due dimensioni, che comunque hanno un significato
nell’ambito della scienza dei materiali (fibre, film sottili, superficie, ecc.).
Lavorare in due dimensioni può essere utile e più facile per meglio apprezzare alcuni concetti rispetto alle tre dimen-
sioni dei cristalli. Ad esempio, in Figura 5.1 si vede un impaccamento di figure bidimensionali che formano un sistema
periodico in due dimensioni.

5.1.1 Gli impaccamenti cristallini e i reticoli

I cristalli sono il risultato di un processo di aggregazione che avviene quando gli atomi, ioni e le molecole si tro-
vano in stati meno densi e privi di una omogeneità periodica, come in fase gassosa, in soluzione, in un liquido fuso,
ecc. La formazione di un cristallo avviene di fatto dopo un riconoscimento molecolare, ossia un processo durante il
quale le forze intermolecolari (o interatomiche) discusse al capitolo operano un processo di selezione e portano dap-
prima alla formazione di un cosiddetto nucleo (nucleazione), cioè un cluster di molecole o di atomi con dimensioni
nanometriche. Successivamente il nucleo cresce a formare l’oggetto cristallino macroscopico. Questo insieme di pro-
37

cessi prende appunto il nome di nucleazione e crescita, in cui un ruolo fondamentale è quello della cinetica di ciascuno
dei due processi, che in alcuni casi potrebbe anche sovvertire l’ordine termodinamico e condurre a fasi metastabili
(cristalline o non-cristalline).

Prima di passare ai risultati di una rigorosa trattazione matematica dei reticoli cristallini, possiamo iniziare con un
metodo induttivo, basato su come i costituenti della materia possano organizzarsi in sistemi ordinati. Consideriamo ad
esempio i solidi elementari, ossia le sostanze elementari pure in stato solido, ad esempio dei metalli. Chiaramente la
forza trainante la formazione di un solido metallico è il legame metallico che tiene uniti gli atomi. Tuttavia, abbiamo
visto che tale legame non è direzionale e quindi possiamo immaginare che la situazione più stabile si ottenga cercando
di massimizzare le interazioni tra atomi, tenendo però presente le forze repulsive a corto raggio, già ampiamente di-
scusse nei capitoli e . Per questo motivo, un valido modello potrebbe essere quello di assumere gli atomi come sfere
rigide, identiche tra loro. La domanda adesso è come possiamo meglio impaccare un numero elevato di sfere massi-
mizzando la densità, un problema matematico risolto già nel medioevo per ottimizzare le armerie che contenevano
palle di cannone.
Cominciamo a considerare uno strato bidimensionale di sfere. Appare subito evidente che un impaccamento “qua-
drato” non sarebbe il più efficiente, mentre un impaccamento con filari sfalsati consente di minimizzare lo spazio
occupato. Si veda ad esempio la Figura . . Si intuisce che quest’ultimo impaccamento è il più efficiente e possiamo
immediatamente riconoscere una simmetria esagonale. Per questo si chiama impaccamento esagonale compatto in due
dimensioni.

Figura . . A sinistra un impaccamento esagonale compatto in uno stato bidimensionale. A destra un impaccamento quadrato
(non compatto). Immagine riprodotta da Hammond C. The basics of Crystallography and diffraction, Oxford University Press
.

Poiché siamo interessati a solidi tridimensionali, dobbiamo porci analogo problema nella direzione mancante e
quindi di come impaccare al meglio due o più strati esagonali. Seguendo un analogo ragionamento, possiamo facil-
mente concludere che un impaccamento che formi prismi a base esagonale non sia il più efficiente (poiché nella terza
dimensione avremmo di fatto impaccamenti quadrati semplici). Sfruttando la stessa idea possiamo sfalsare i due strati
in modo da avvicinarli maggiormente. Tuttavia, ci accorgiamo che il secondo strato potrebbe occupare in modo mu-
tuamente esclusivo due possibili seri di “buche” lasciare dal primo strato (ed identificate con B e C in Figura . ).
Quindi lo strato successivo potrebbe occupare le buche B oppure le buche C. Questo impaccamento è equivalente al
secondo strato, ma al terzo strato ho di nuovo due possibilità che daranno origini a due impaccamenti, entrambi com-
patti, ma di simmetria diversa. Infatti, se al secondo strato ho occupato le buche B, al terzo strato ho la possibilità di
occupare le buche A oppure C. In questo caso la sequenza ABA e quella ABC sono di simmetria completamente di-
versa, soprattutto se vengono ripetute mantenendo questa periodicità, ABABAB oppure ABCABCABC. Il primo di
questi impaccamenti si chiama esagonale compatto (in tre dimensioni) mentre il secondo è il cubico compatto (detto
anche cubico a facce centrate).
38

Figura . La genesi di un reticolo tridimensionale compatto. Immagine riprodotta da Hammond C. The basics of Crystallog-
raphy and diffraction, Oxford University Press .

Figura . In alto, l’impaccamento cubico compatto e la sua cella unitaria. In basso, l’impaccamento esagonale compatto.
Immagini riprodotte da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduction, Wiley.

Molti metalli possiedono infatti come impaccamento quello a facce centrate (FCC) oppure quello esagonale com-
patto (HCP). Tuttavia esistono anche altri impaccamenti non compatti (ossia che non massimizzano la densità) e che
sono comunque osservati, in particolare il cubico a corpo centrato (BCC), si veda Figura . .
39

Figura . L’impaccamento cubico a corpo centrato e la sua cella unitaria. Immagine riprodotta da William D. Callister, David G.
Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduction, Wiley.

Figura . Una immagine dell’atomium istallato presso il parco Heysel di Bruxelles (in occasione dell’esposizione universale del
). Esso rappresenta una cella unitaria della fase solida del Fe (chiamata fase , stabile fino a ca. 1000 °C) che ha un im-
paccamento cubico a corpo centrato. Immagine tratta da internet.

Come si evince da questo semplice modello, il modo di ottenere un impaccamento compatto implica una simme-
tria molto elevata. Bisogna comunque anche chiedersi qual è l’unità minima che viene ripetuta, visto che ovviamente
non è costituita semplicemente da un atomo, anche se gli atomi sono tutti identici nella struttura di un solido elementa-
re. Con unità ripetuta intendiamo un volume (chiamato cella unitaria) che possa essere traslato in tutte le direzioni
rimanendo identico a sé stesso, di fatto invocando una simmetria aggiuntiva rispetto alla rotazione, riflessione e inver-
sione citate sopra. Questa simmetria aggiuntiva è la traslazione. Chiaramente in tre dimensioni abbiamo bisogno di tre
vettori di base per descrivere un reticolo e quindi ci saranno parametri rilevanti: la lunghezza di ciascuno dei tre
vettori di base e gli angoli tra di essi (si veda la Figura . ).
Si può dimostrare con la geometria che in 3 dimensioni esistono solo 7 tipi possibili di reticoli. Le relazioni tra i sei
parametri sono riassunte nella tabella 5.1.

Figura . I parametri di una cella unitaria. Si noti che nella posizione dei nodi reticolari non ci devono necessariamente
essere degli atomi, anche se nelle celle elementari viste in precedenza questo era effettivamente il caso. I vettori e i nodi sono
solo costruzioni virtuali che descrivono componenti traslazionali presenti nei solidi.
40

Come anticipato, tuttavia, è possibile avere nodi reticolari anche in posizioni speciali di una cella, ad esempio al
centro della cella medesima oppure al centro di una faccia. Pertanto il numero totale di possibili reticoli cristallini è di
, suddivisi come riportato in tabella . . Un reticolo con solo nodi ai vertici della cella si chiama primitivo (P). Se ha
i nodi solo su due facce parallele, si chiama a faccia centrata (e il nome della faccia è A, B o C, a seconda di quale
vettore non sia coinvolto nel piano della faccia), se ha tutte le facce centrate si chiama a facce centrate (F), e infine se
ha un nodo al centro si chiama a corpo centrato (I).

Tabella 5.1 I sette possibili reticoli cristallini


Sistema lunghezza dei angoli tra i
vettori di base vettori di base

Triclino a≠b≠c α ≠ β ≠ γ≠ 90°


Monoclino a≠b≠c α = γ = 90°, β > 90°
Ortorombico a≠b≠c α = β = γ = 90°
Tetragonale a=b≠c α = β = γ = 90°
Trigonale-esagonale a=b≠c α = β = 90°, γ = 120°
Romboedrico a=b=c α = β = γ ≠ 90°
Cubico a=b=c α = β = γ = 90°

Come anticipato nel paragrafo introduttivo, oltre a sistemi esattamente periodici, esistono anche sistemi come i
cosiddetti quasicristalli che non hanno una periodicità nello spazio, tuttavia sono ordinati. Questo tipo di sistemi sono
stati previsti matematicamente dal matematico Roger Penrose, che per la pavimentazione (tassellatura) di piani aveva
proposto figure con una simmetria pentagonale, che però non è compatibile con la periodicità. I quasicristalli sono
spesso ottenuti da sintesi di leghe metalliche, tuttavia recentemente sono stati osservati anche come cristalli naturali,
trovati in minerali di origine meteoritica.

Figura . Un esempio di tassellatura di Penrose, prodotte con la applicazione disponibile al sito internet.
https://misc. o o.org/penrose/
Come si può evincere non esiste nessuna periodicità, tuttavia l’oggetto mantiene una simmetria pentagonale.

5.1.2 Cristalli singoli e policristalli

In ambito tecnologico e chimico, importante è differenziare il tipo di morfologia cristallina presentata da una spe-
cie. Possiamo parlare di cristalli singoli quando l’orientamento periodico viene mantenuto fino a dimensioni visibili e
ben oltre il nanometro. Molto importanti sono i monocristalli di Silicio, ad esempio, che sono cresciuti con metodi
come quello di Czochralski, ossia con un seme monocristallino introdotto nel fuso e costantemente sollevato durante
una rotazione del fuso. In questo caso, si possono crescere monocristalli di dimensioni enormi e di largo impiego tec-
nologico (tipo i wafer di Si).
41

Anche la natura produce monocristalli, a volte di dimensioni giganti come quelli di gesso (ossia un minerale con for-
mula CaSO .H O) trovati nelle miniere di Naica in Messico.

Figura . Un’immagine dei cristalli giganti trovati nella miniera di Naica in Messico e usati nel film documentario El Misterio de
los cristales gigantes, realizzato da Madrid Scientific Films e a cura di J-M Garcia-Ruiz dell’università di Granada (l’immagine
riprodotta è la locandina del film).
http://www.elmisteriodeloscristalesgigantes.com/elmisteriodeloscristalesgigantes/La_pelicula_ .html

In altri casi, invece, i cristalli non sono singoli e pertanto si parla di policristallo. Significa che, nonostante si ab-
bia a che fare con la stessa fase solida, esistono più di una orientazione de sistema periodico. Se abbiamo due monocri-
stalli attaccati gli uni agli altri mediante una superficie di contatto, oppure cresciuti in maniera interallacciata, si parla
di geminazione. In realtà il fenomeno si può presentare anche quando si abbiano tre o più cristalli. Se la geminazione è
di contatto superficiale, è possibile ottenere una specie monocristallina dalla semplice separazione, mentre se il feno-
meno è avvenuto durante la crescita tale separazione non è possibile. Nel caso in cui la situazione sia ripetuta
all’infinito e con domini cristallini di dimensioni micrometriche o sub-micrometriche, si dice appunto che il materiale
è policristallino. È il caso di molti metalli che sono cristallini ma raramente cresciuti in modo monocristallino. Spesso
in chimica si ottengono particelle cristalline separate tra loro ma di dimensioni micrometriche. Anche in questo caso si
parla di materiali policristallini, o polveri cristalline.

5.2 Solidi amorfi


L’altra faccia dei solidi è rappresentata da quelli non-cristallini chiamati amorfi (cioè letteralmente senza una for-
ma). Come abbiamo visto in precedenza (capitolo ) questi solidi sono caratterizzati dalla mancanza di una omogeneità
di tipo periodico, ma, come liquidi o gas, solo di tipo statistico. Pertanto, non si riscontra in questi solidi alcuna forma
di ordine.
L’esempio più tipico di solidi amorfi è rappresentato dai vetri, che sono ottenuti da rapidi raffreddamenti dei fusi e
quindi non riescono a dar luogo a sistemi ordinati. In genere molti materiali ceramici possono essere di tipo vetroso
(anche se altri ceramici sono cristallini), mentre è più raro che siano vetrosi i metalli.
42

Figura . A sinistra, l’impaccamento cristallino dell’ossido di Silicio (SiO ), a destra l’impaccamento nella silice amorfa. Im-
magine riprodotta da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduction, Wiley.

Una delle caratteristiche principali dei solidi amorfi è che la loro densità è decisamente inferiore a quella deli ana-
loghi composti cristallini. Questo effetto è dovuto prevalentemente alla rapidità di formazione di una fase vetrosa,
ottenuta come si diceva per rapido raffreddamento, che non consente di ottimizzare l’impaccamento a favore invece di
una crescita veloce. Anche se non è possibile una prova generalizzata, questo fenomeno implicherebbe che i solidi
cristallini sono generalmente più stabili termodinamicamente di quelli amorfi, che invece sono prodotti cinetici.

5.3 Trasformazioni in solidi amorfi e cristallini


Come abbiamo anticipato nel Capitolo , esiste la possibilità di trasformare una fase cristallina in un’altra median-
te una transizione di fase. Le più note transizioni di fase sono la fusione, l’evaporazione, la sublimazione, la solidifica-
zione e il condensamento, ossia tutti passaggi possibili tra solidi, liquidi e gas (tenendo conto che il termine sublima-
zione è impiegato per indicare sia per il passaggio solido-gas che viceversa).17
Queste trasformazioni implicano la copresenza delle due fasi alla temperatura e pressione di trasformazione, punto in
cui si trovano in equilibrio termodinamico tra loro. Tali transizioni sono visibili anche tra fasi solide, che tuttavia pos-
sono dar luogo anche ad altre trasformazioni (non possibili nelle fasi liquide/gassose) come le transizioni vetrose che
trasformano un materiale (in genere polimerico) da solido deformabile plasticamente a rigido.

5.4 Diagrammi di fase (diagrammi di stato)


Il diagramma di fase di un composto è un grafico nel quale si rappresentano le zone di stabilità di tutte le fasi, in
funzione di temperatura e pressione. Tuttavia, è possibile anche considerare un diagramma a due, o più, componenti,
ossia due o più composti che esistono anche come puri ma in un dato sistema sono miscelati in qualche modo (ad
esempio soluto e solvente di una soluzione). Nel caso di due componenti dobbiamo introdurre il concetto di limite di
solubilità, molto simile a quanto normalmente impiegato in chimica per discutere si soluzioni liquide, in cui un soluto
può essere disciolto fino ad una concentrazione limite, detta appunto limite di solubilità e oltre il quale si osservano
due fasi, la soluzione e una fase pura di composto non disciolto. Naturalmente il limite di solubilità varia con la tempe-
ratura e la pressione.
In quest’ottica è necessario chiarire anche il concetto stesso di fase, ossia una porzione chiaramente definita della
materia (quindi separata da altre fasi con superficie) che abbia una costituzione chimica e proprietà omogenee al suo
interno. Nel caso del sistema soluto-solvente, la soluzione è chiaramente una fase, così come l’eventuale composto di
soluto non disciolto, se al di sopra del limite di solubilità.
Un sistema monofasico è detto omogeneo, mentre uno con più fasi è chiamato eterogeneo.

――
17 A volte si utilizza anche il termine brinamento o sublimazione inversa per indicare il passaggio da fase gassosa a fase solida.
43

Figura . Il diagramma di fase dell’acqua. Immagine riprodotta da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science
and Engineering: An Introduction, Wiley.

5.4.1 Diagrammi di fase ad un componente

Il più noto diagramma di fase è certamente quello dell’acqua (Figura . ), presente nelle sue forme più classiche:
liquida (a temperatura e pressione ambientali), solida (il ghiaccio, che si forma a bassa temperatura e alta pressione) e
aeriforme (il vapore, che si forma ad alta temperatura per ebollizione). Tuttavia, anche un diagramma unario (ossia ad
un solo componente) può nascondere non poche peculiarità. Il ghiaccio, ad esempio, si manifesta in oltre fasi solide
riconosciute con appositi esperimenti ad elevata pressione. Pertanto la regione chiamata genericamente ‘solido’ è in
realtà molto densamente popolata. Come noto, il legame tra molecole di H O in fase solida è prevalentemente quello
ad idrogeno, tuttavia diverse posizioni degli atomi di H e diversi modi di ordinare le molecole d’acqua possono dar
vita a strutture diverse, con simmetrie differenti e appartenenti a sistemi cristallini (oppure a gruppi spaziali di simme-
tria) differenti.
Possiamo considerare anche un altro sistema ad un componente, quello del benzene, che è una molecola stabile in
fase liquida a temperatura e pressione ambientali, che solidifica a temperatura bassa oppure alta pressione. Le fasi in
alta pressione sono molteplici e si contraddistinguono per essere prima fasi cristalline molecolari (ovvero dove si rico-
nosce ancora la presenza di molecole di benzene interagenti tra loro in modo ordinato) e poi polimeriche amorfe, ossia
dove le molecole di benzene hanno subito una reazione di condensazione (ossia una addizione reciproca e multipla) e
hanno formato un sistema polimerico, che però ha perduto la cristallinità. È interessante che questo polimero risulta
ancora presente in fase metastabile a pressione ambiente e non si trasforma rapidamente nella fase liquida del benzene,
ovvero quella stabile in quelle condizioni.
44

Figura . Il diagramma di fase del benzene, dove ad alta pressione si riconoscono alcune fasi di solido molecolare S (I-IV),
ortorombiche e monocline, e poi alcune fasi polimeriche P (I-III) alle pressioni più elevate. Riprodotto da Budzianowski, A.;
Katrusiak, A. Acta Cryst., , Bਈ਄, - .

5.4.2 Diagrammi di fase a due componenti

Decisamente più complessi sono i sistemi con più componenti, come ad esempio quelli bicomponenti. In questi
casi, si aggiunge una variabile, ossia la composizione percentuale dei due componenti e questo prevederebbe di esten-
dere in dimensioni la visualizzazione del diagramma di fasi. Ancora più complesso ovviamente il caso con o più
componenti.
I sistemi bicomponenti sono semplificati qualora le fasi solide presenti siano tra loro isomorfe, come due metalli che
abbiano lo stesso tipo di impaccamento. Prendiamo ad esempio il sistema bicomponente Cu/Ni: in fase solida essi sono
entrambi stabili, come elementi puri, in fasi FCC (cubiche a facce centrate). Quindi, a parte le differenze di raggio
atomico, i due metalli presentano strutture molto simili. La fase miscela in fase solida di questi due componenti produ-
ce un solo tipo di fase, la cosiddetta fase α.18 Essa è in competizione con quella liquida, ovviamente stabile ad alta
temperatura. Tuttavia, le due fasi hanno composizioni diverse nei due componenti (poiché uno dei due metalli fonde,
come sostanza pura, ad una temperatura inferiore all’altro). Pertanto per temperature intermedie tra le temperature di
fusione delle due sostanze pure, esiste un intervallo di concentrazioni relative di Ni e Cu per cui si stabilizza una mi-
scela di fase solida (più ricca nel componente più alto fondente) e di fase liquida (più ricca nel componente più basso
fondente), in modo comunque che la composizione complessiva rimanga invariata.

――
18 Lettere greche sono normalmente impiegate per dar un nome a diverse fasi solide di un dato composto. Sono ordinate secondo l’alfabeto
greco e l’ordine coincide in genere con l’ordine cronologico di scoperta.
45

Figura . Il sistema bicomponenete Ni/Cu. In alto l’intero diagramma di fase, in baso una porzione che consente di capire
come si calcolano le composizioni percentuali di ciascuna fase (liquido e fase α), così come la composizione % dei due compo-
nenti. Immagine riprodotta da William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduction,
Wiley.

Se analizziamo invece la miscela Cu/Ag, incontriamo una situazione diversa. Infatti, in questo caso esistono due
fasi corrispondenti a soluzione Ag/Cu, rispettivamente α e β. Questo comporta l’esistenza di una miscela delle due fasi
solide stabile per un ampio intervallo di concentrazioni di Ag e Cu, per temperature inferiori a ºC. La fase α è poi
stabile in forma pura con alte concentrazioni di Cu e, al contrario, la fase β per alte concentrazioni di Ag. A temperatu-
re più elevate, vi sono zone di stabilità di miscela tra fase liquida e fase α oppure fase liquida e fase β. Il sistema pre-
sente un punto di eutettico, cioè un punto in cui la miscela di fasi ha una temperatura di fusione più bassa di quella
delle due fasi pure.19

――
19 Eutettico, infatti, significa di “facile fusione”
46

Figura . Il sistema bicomponenete Ag/Cu, che presenta due fasi solide e un punto di eutettico. Immagine riprodotta da
William D. Callister, David G. Rethwisch Materials Science and Engineering: An Introduction, Wiley.

Letture consigliate:
Capitolo 9 di W. Masterton, C. Hurley. Liquidi e Solidi
47

6 Lo stato gassoso e lo stato liquido

6.1 I gas: Generalità e misure


Se lo stato solido è quello normalmente più aggregato, ossia con maggiore densità, quello gassoso è invece quello
più rarefatto e di minore densità. Lo studio dei gas, in particolare dell’aria, è naturalmente molto antico e buona parte
delle teorie sui gas sono note già dal XVIII e XIX secolo.

Nello studio dei gas, quattro variabili sono importanti:


a) La Quantità di Sostanza, ovvero il numero di moli di gas (eventualmente un numero frazionario e inferiore a ).
b) La Temperatura, che determina l’energia cinetica delle molecole (o degli atomi) di gas. È fondamentale che sia
espressa in Kelvin (K), ossia la cosiddetta Temperatura Assoluta.
c) La Pressione del gas.
d) Il Volume del gas.
Gli ultimi due punti sono associati, poiché, come è facile intuire dalle unità di misura, il prodotto Pressione-Volume
(PV) è un’energia. Ricordando infatti che la pressione si misura in N/m (Newton al metro quadro) ossia Kg
m/s /m Kg/m s , il prodotto PV si misura in Kg m /s J. Come vedremo in seguito, anche la tempera-
tura assoluta (espressa in K) è proporzionale alla energia di una singola particella.20 Quindi il prodotto della temperatu-
ra per la quantità di sostanza, espresso in moli di particelle, è proporzionale (tramite un’opportuna costante) all’energia
termica del sistema. Vedremo che queste due forme di energia devono coincidere e la loro equalizzazione origina la
nota equazione dei gas ideali (a volte chiamata equazione dei gas perfetti).

Prima di arrivare all’equazione dei gas, vediamo alcuni aspetti delle misurazioni.
Come è noto, un gas si espande uniformemente nel volume nel quale è contenuto, che dunque diventa il Volume
del gas. Spesso il volume è espresso in litri (L). Il litro non è un’unità di misura del sistema internazionale, e corri-
sponde a un millesimo di metro cubo.
La quantità di sostanza è espressa in moli (mol) e spesso si utilizza il numero di moli (n) per misurarla, dove:

𝑚
𝑛
M

dove 𝑚 è la massa del gas e M la massa molare (cioè la massa media di una mole di molecole di gas o della miscela di
molecole che compongono il gas).
La Pressione P del gas è quella esercitata dalle molecole di gas sulle pareti del contenitore e misurata con molte
unità di misura, a seconda delle applicazioni. Nel sistema internazionale la Pressione si misura in Pascal (Pa), definito
con Pa N/m (appunto con le dimensioni di forza per unità di superficie). Tuttavia, questa non è l’unità maggior-
mente impiegata. In genere, si usano le seguenti unità:

0,987 atm 1 bar 100 kPa 14,5 psi 750 mm Hg

Il psi (pounds per square inch, ossia libbra per pollice quadrato) è una unità in uso prevalentemente nei paesi an-
glosassoni, ma a volte impiegata a livello industriale. L’atmosfera standard (atm) corrisponde circa alla pressione
dell’aria nell’atmosfera a livello del mare e viene definita come la pressione esercitata da una colonna di mm di
mercurio (Hg, l’unico metallo elementare liquido a T e P ambiente). L’atmosfera standard è leggermente superiore al
bar, che coincide con kPa.

――
20 La temperatura normalmente espressa in ℃ è semplicemente ottenuta da quella in K con la formula: 𝑇 𝑇℃ 273,15. Infatti, la tem-
peratura di 𝑇℃ 273,15 ℃ è nota come zero assoluto. Nel mondo anglosassone è in uso il grado Fahrenheit, definito con 𝑇℉
𝑇 1,8 459,67 𝑇℉ 𝑇℃ 1,8 32. Lo zero per la scala Fahrenheit corrisponde circa alla temperatura di congelamento di una
miscela acqua e cloruro di ammonio mentre è circa la temperatura del corpo umano (anche se inizialmente la scala di Fahrenheit la
poneva a 90 ℉).
48

6.2 La legge dei gas ideali


Esistono una serie di relazioni che sono verificabili tra quantità citate nel precedente paragrafo:
a) a P e T costante, il volume del gas è direttamente proporzionale alla quantità di sostanza. Quindi:

𝑉 𝑘 𝑛

b) a P e quantità costante, il volume del gas è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta, espressa in K
(legge di Charles o prima legge di Gay-Lussac) 21:

𝑉 𝑘 𝑇

c) a T e quantità costante, il volume del gas è inversamente proporzionale alla Pressione (legge di Boyle) 22:

𝑘
𝑉
𝑃

Se si combinano le tre relazioni, si ottiene che:

𝑛𝑇
𝑉 𝑅
𝑃

dove 𝑅 è la cosiddetta costante dei gas ideali (espressa per mole di sostanza). Esistono diverse unità di misura per
esprimere 𝑅:

L atm J g m
𝑅 0,0821 8,31 8,31 10
mol K mol K s mol K

La legge dei gas ideali viene spesso presentata come

𝑃𝑉 𝑛𝑅𝑇

Per quanto detto in precedenza, questa è una equazione tra due energie, quella meccanica 𝑃𝑉 e quella termica 𝑛𝑅𝑇 che
si devono bilanciare. Importante notare come entrambe siano proprietà estensive (dettate da 𝑉 e 𝑛, rispettivamente).
Con la legge dei gas ideali si possono ricavare molte quantità, conoscendo almeno in parte lo stato del sistema. Su
questo verranno svolti molti esercizi.
È importante notare come dalla legge dei gasi ideali discenda la legge di combinazione dei volumi (anche questa
dovuta a Gay-Lussac), secondo la quale i rapporti tra i volumi dei gas coinvolti in una reazione chimica è lo stesso del
rapporto molare tra i reagenti o tra i prodotti. Quindi se consideriamo una reazione chimica in fase gassosa con:

𝐴 𝐵 → 𝐴𝐵

i volumi dei reagenti 𝐴 e 𝐵 devono coincidere per ottenere un eguale volume di 𝐴𝐵. Se la reazione presenta dei coeffi-
cienti e i reagenti o i prodotti hanno coefficienti nelle formule, dovremo considerare le proporzioni opportunamente.
Ad esempio, per la reazione:

𝐴 𝐵 → 2𝐴𝐵

la legge deve interpretarsi come: un volume di 𝐴 unito ad un volume di 𝐵 fornisce due volumi di 𝐴𝐵. Oppure

――
21 Jacques Charles ( – ) è stato uno scienziato francese. Joseph Louis Gay-Lussac ( – ) è stato un fisico e chimico francese.
22 Robert Boyle ( – ) è stato un fisico e chimico Inglese.
49

2𝐴 𝐵 → 2𝐴 𝐵

in questo caso, la decomposizione di due volumi di 𝐴 𝐵 produce due volumi 𝐴 e uno di 𝐵 .

Nel caso di una miscela di gas 𝐴 𝐵, possiamo scrivere la legge dei gas ideali sommando le due quantità di so-
stanza, quindi:

𝑃𝑉 𝑛 𝑅𝑇 𝑛 𝑛 𝑅𝑇

Se esprimiamo tutto in termini di pressione, possiamo scrivere

𝑛 𝑛 𝑛 𝑛
𝑃 𝑅𝑇 𝑅𝑇 𝑅𝑇 𝑃 𝑃
𝑉 𝑉 𝑉

dove 𝑃 e 𝑃 sono le pressioni parziali dei gas 𝐴 e 𝐵. Questa è la legge di Dalton: la pressione totale di una miscela è
data dalla somma delle pressioni parziali dei componenti della miscela. La stessa legge potrebbe essere riscritta in
termini di rapporti tra le quantità di sostanza. Quindi:

𝑃 𝑛
𝑋 →𝑃 𝑋 𝑃
𝑃 𝑛

dove 𝑋 è la frazione molare del componente A nella miscela.


Un altro aspetto importante è quello della pressione parziale dei vapori che fuoriescono da un liquido. Sebbene al
di sotto della temperatura di ebollizione, da un liquido possono fuoriuscire molecole di acqua in forma gassosa. Esse
vanno ad aumentare la pressione totale (per esempio quella dell’aria soprastante il liquido). La pressione parziale del
vapore è detta tensione di vapore che naturalmente dipende dalla temperatura. Sopra la temperatura di ebollizione, la
tensione di vapore corrisponde ad una frazione molare del % nell’equilibrio liquido-vapore.

Un ultimo commento a termine di questo paragrafo. Abbiamo parlato di equazione di un gas ideale. Evidentemen-
te si tratta di un modello che non necessariamente descrivere una situazione reale. Il modello si basa sull’ipotesi che le
molecole delle sostanze presenti in una miscela di gas (oppure nel gas di una sostanza pura) non interagiscano tra loro
se non attraverso urti di topo elastico; quindi, non si considerano le interazioni repulsive o le interazioni attrattive di
tipo secondario che abbiamo appreso nel Capitolo . Nei modelli (molto più complessi) di gas reali, invece, le intera-
zioni tra molecole che costituiscono il gas sono prese in esplicita considerazione. Il modello gas ideale rimane abba-
stanza valido nelle situazioni di estrema rarefazione, ma il limite di validità dipende dal tipo di molecole che compon-
gono il gas.

6.3 Teoria cinetica dei gas


La pressione dei gas dipende dalla velocità con cui le molecole del gas si muovono e urtano le pareti del conteni-
tore, quindi (come intuibile) dalla temperatura che fornisce l’energia cinetica alle molecole. Pertanto, lo studio dei gas
deve soffermarsi anche sulla cinetica delle molecole. Come sappiamo dalle leggi del moto, l’energia cinetica di un
corpo è data da

1
𝐸 𝑚𝑣
2

Nell’ipotesi che tutte le direzioni siano egualmente percorribili dalle molecole, possiamo scomporre l’energia in tre
energie cinetiche lineari:

1 1 3
𝐸 𝑚𝑣 𝑚 𝑣 𝑣 𝑣 𝑚𝑣
2 2 2
50

Poiché nell’urto contro una parete conta solo la velocità in direzione normale alla parete (𝑣 1/3𝑣 ) e tenendo conto
di tutte le molecole di gas si ottiene:

𝑁𝑚〈𝑣〉
𝑃
3𝑉

dove 𝑁 𝑛𝑁 è il numero di molecole e 〈𝑣〉 è la velocità media delle molecole, che non è uguale per tutte ma distri-
buita con una certa funzione (distribuzione di probabilità, si veda ad esempio la figura 6.1). Sul sito
http://www.falstad.com/gas/ è possibile visualizzare in modo interattivo alcune simulazioni. Il valor medio della distri-
buzione 〈𝑣〉 dipende dalla temperatura e quindi è maggiore per temperature più elevate. Quindi

𝑛𝑁 𝑚〈𝑣〉
𝑛𝑅𝑇
3

3𝑅𝑇 3𝑘 𝑇
〈𝑣〉
𝑁𝑚 𝑚

dove 𝑘 𝑅/𝑁 è la costante di Boltzmann (𝑘 1.380649 10 JK . L’energia cinetica media per molecola
sarà quindi

1 3𝑅𝑇 3
〈𝐸 〉 𝑚〈𝑣〉 𝑘 𝑇
2 2𝑁 2

Si noti che l’energia cinetica dipende da una sola variabile, ossia la Temperatura, ed è indipendente dalla massa (e
quindi dal tipo di molecola).

Conoscendo l’energia cinetica delle molecole del gas è possibile anche calcolare i fenomeni di diffusione del gas.
Tra questi, l’effusione, ossia la diffusione attraverso piccoli pori, è inversamente proporzionale alla radice quadrata
della massa molecolare (legge di Graham).

Figura . Distribuzione delle velocità di molecole in un gas. A confronto due diverse temperature 𝑇 e 𝑇 . La funzione
𝑓 𝑣 esprime la probabilità di trovare una molecola con una particolare velocità. Il valor medio si ottiene con 〈𝑣〉 𝑣𝑓 𝑣 𝑑𝑣.

6.4 Gas reali


Come anticipato, l’equazione dei gas ideali ha limiti di validità che dipendono dall’approssimazione di molecole
isolate e non interagenti se non con urti elastici, che quindi non modificano l’energia cinetica complessiva del sistema.
Questa approssimazione è ragionevole per pressioni basse e temperature elevate, e comunque dipende dal tipo di mo-
lecola del gas (o di molecole in miscele di gas). Se un gas si trova a T e P vicine a quelle di condensazione (dove il gas
diventa un liquido) la legge vista in precedenza è poco adatta e necessita di correzioni. In generale, comunque, il vo-
lume molare osservato per un gas è inferiore a quello predetto dalla legge dei gas ideali, il che indica l’importanza
delle attrazioni attraverso le forze intermolecolari e la non perfetta elasticità degli urti.
Un’equazione di stato che sostituisce quella dei gas ideali è per esempio l’equazione di van der Waals:
51

𝑎
𝑃 𝑉 𝑏 𝑅𝑇
𝑉

dove 𝑉 è il volume molare ( 𝑉/𝑛) e i coefficienti 𝑎 e 𝑏 sono determinati empiricamente per ciascun gas.
Si veda uno schema di rappresentazione nella figura . .

Figura . Equazione di stato di un gas reale secondo la legge di Van der Waals a diverse temperature (Figura tratta da
https://www.tec-science.com).

6.5 Lo stato liquido


Come visto in precedenza, i liquidi sono in equilibrio con i gas attraverso e la tensione di vapore indica quanta
componente gassosa è presente. Essa dipende dalla temperatura, mentre la completa evaporazione di un liquido avvie-
ne per temperature eguali o superiori alla temperatura di ebollizione. A questa temperatura la tensione di vapore coin-
cide con la pressione che agisce sulla superficie del liquido. Se questa pressione è di mm Hg ( atm), la temperatu-
ra è detta temperatura normale di ebollizione, ma ovviamente ad ogni pressione esercitata esiste una temperatura di
ebollizione.
Come anticipato nel capitolo , i gas ed i liquidi hanno molte caratteristiche in comune, come ad esempio
l’isotropia delle proprietà e la mancanza di una forma definita, che quindi viene determinata dal contenitore. Nonostan-
te queste somiglianze, la trasformazione da liquido a gas o viceversa è una transizione di fase (vaporizzazio-
ne/condensazione), come le trasformazioni liquido-solido e gas-solido. Tuttavia, per la linea di demarcazione tra liqui-
do e gas esiste un punto oltre il quale non esiste più differenza (si veda Figura . ). Questo è il cosiddetto punto
critico, cioè un punto sul diagramma di fase determinato da una precisa Temperatura critica (Tc) e Pressione critica
(Pc) al di sopra delle quali non esiste più differenziazione tra liquido e gas ed è presente una sola fase detta fluido su-
percritico. Per l’H O, ad esempio, il punto critico si incontra alla temperatura di 374 ℃ e alla pressione di atm.
Nei prossimi capitoli studieremo alcuni importanti aspetti dei liquidi, in combinazione con solidi in essi disciolti,
ossia le soluzioni.
52

Figura . Diagramma di fase ideale, con indicazione del punto triplo e del punto critico.

6.6 Transizioni di fase e Diagrammi di fase


Con lo studio dei gas e dei liquidi in questo Capitolo, abbiamo affrontato tutti i tipi di stati di aggregazione (in-
sieme allo stato solido studiato nel Capitolo ).
Come detto, le trasformazioni da una fase ad un’altra si chiamano transizioni di fase. Esse avvengono certamente
per cambiamenti di stati di aggregazione (tranne per i fluidi supercritici), ma anche tra diverse fasi nello stesso stato di
aggregazione, come ad esempio nelle trasformazioni solido-solido.
Quando lo stato di aggregazione varia, le transizioni prendono il nome di
Ebollizione o evaporazione (liquido  gas)
Condensazione o liquefazione (gas  liquido)
Sublimazione (termine usato sia per solido  gas che per gas  solido; la trasformazione gas solido è detta an-
che brinamento)
Fusione (solido  liquido)
Solidificazione (liquido  solido).

Ciascuna di queste trasformazioni è associata a precise temperature e pressioni, così diviene possibile stabilire del-
le curve in un diagramma Pressione-Temperature per stabilire la separazione tra ciascuna coppia di stati di aggregazio-
ne (o più in generale per separare ciascuna coppia di fasi che siano mutuamente trasformabili). In questo diagramma,
oltre al punto critico, esiste anche un punto triplo (Figura . ) che separa tutte e tre gli stati di aggregazione (o in gene-
rale più punti critici che separano tre fasi, se consideriamo le diverse fasi solide riscontrabili). Nel caso dell’acqua il
punto triplo si trova a 𝑇 0℃e𝑃 0,6 kPa.
Lungo le linee di demarcazione del confine tra diverse fasi e ai punti critici le fasi in gioco sono in equilibrio.
Come vedremo nei prossimi capitoli, questo significa che le energie associate alle diverse fasi si equivalgono, mentre
piccole variazioni di pressione o temperatura spostano l’equilibrio in favore di una o di un’altra fase.

Letture consigliate:
Capitolo 5 di W. Masterton, C. Hurley. I Gas
Capitolo 9 di W. Masterton, C. Hurley. Liquidi e Solidi

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