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Patologia generale

La patologia è lo studio delle lesioni (alterazioni) che si stabiliscono in organi e apparati specializzati, in
seguito all’azione di specifiche cause danneggianti e delle loro conseguenze.
La conoscenza della patologia consente alla Medicina Clinica di:
1. Comprendere i segni di malattia
2. Formulare la diagnosi di malattia
3. Progettare una terapia adeguata
Conoscere i meccanismi con i quali la malattia si presenta è
fondamentale per progettare terapie adeguate. La patologia
generale studia le cause della malattia, le modalità di interazione
fra ospite e agente infettante e, infine, lo stato dell’ospite. Grazie
alla patologia generale, dunque, ci è possibile osservare le
alterazioni delle funzioni cellulari e, di conseguenza, i processi
patologici fondamentali che vengono alterati, che vanno a
costituire le cosiddette lesioni elementari. Fino a questo punto
siamo, come già detto, nell’ambito della patologia generale. La
patologia generale è fondamentale affinché siano presentate quelle
indicazioni alla patologia speciale, la quale affronta la patologia
degli organi e degli apparati.
Infine, abbiamo la medicina clinica, la quale, grazie a tutto ciò che
viene presentato dalla patologia, analizza i segni e i sintomi della malattia, l’evoluzione della malattia, la
possibile guarigione o anche la morte da malattia.
Nell’albero della medicina, il tronco corrisponde alla Patologia
Generale, che trae origine da tutte le scienze di base. Dalla patologia
generale partono, poi, tutti i rami della patologia, che costituiscono la
vera e propria medicina.
Troviamo diverse tipologie di Patologia:
1. Patologia generale: studia i meccanismi di danno subìto dalle
cellule a vari livelli della loro organizzazione e le reazioni
fondamentali delle cellule e delle matrici extracellulari agli
stimoli lesivi (quindi le conseguenze di questi agenti
danneggianti);
2. Patologia sistemica: studia lo stato di malattia in soggetti che
hanno subìto danni da agenti specifici di malattia in organi
specializzati.
Le malattie possono essere studiate a diversi livelli:
1. A livelli di popolazione (epidemiologia)
2. A livello di singoli individui (medicina clinica)
3. A livello degli organi (fisiopatologia)
4. A livello dei tessuti (istopatologia)
5. A livello delle cellule (citopatologia)
6. A livello degli organuli molecolari (biochimica)
7. A livello delle molecole (biofisica)
8. A livello dei geni (biologia molecolare)

Il termine patologia deriva dal greco “pathos” (sofferenza) e “lògos” (studio).


La patologia studia, quindi, l’eziologia (cause), la patogenesi (meccanismi), le modificazioni morfologiche,
le alterazioni funzionali e il loro significato clinico. La patologia è una scienza multidisciplinare che studia,
mediante l’uso di tecniche molecolari, microbiologiche, immunologiche e morfologiche, i perché e i “per

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come” della sintomatologia manifestata dai pazienti, al fine di fornire una solida base affinché si abbia un
razionale trattamento clinico e terapeutico della malattia. Il perché (causa) è l’eziologia, mentre il come
(come avviene, perché si sviluppa, quali sono i meccanismi che permettono l’evoluzione della malattia) è la
patogenesi. Quindi, i 4 aspetti di una malattia che formano il nucleo di una patologia sono:
1. La causa (eziologia): il riconoscimento delle cause è fondamentale perché permette un’efficace
prevenzione. Un grande esempio di prevenzione è rappresentato dalle vaccinazioni, le quali derivano
dalle nostre conoscenze riguardo le cause che determinano una particolare malattia. Un particolare
virus viene preso, reso inattivo e inoculato nell’organismo, in modo da stimolare una risposta
immunitaria, la quale produce degli anticorpi per eliminare il patogeno. Questo stimolo di
sollecitazione crea memoria immunologica nei confronti del patogeno.
2. I meccanismi della sua evoluzione (patogenesi) ovvero i meccanismi responsabili della comparsa
delle malattie, che vengono innescati dagli agenti eziologici e che sono direttamente responsabili
della comparsa delle manifestazioni patologiche.
3. Le alterazioni strutturali indotte in cellule ed organi (modificazioni morfologiche).
4. Le conseguenze funzionali di queste modificazioni morfologiche (importanza clinica).

Tutte queste conoscenze della patologia sono importanti per un eventuale intervento farmacologico
razionale ed adeguato. Tuttavia, non di tutte le malattie oggi conosciamo la causa. In questo caso, quindi, si
cercherà di comprendere i meccanismi con cui questa malattia si sviluppa, cercando di conseguenza di
modificare ed ostacolare proprio questi ultimi (per esempio, nel caso del diabete insulina dipendente e non).
Le cellule β del pancreas vengono qui, infatti, distrutte e quindi non viene prodotta insulina: per questo
motivo somministriamo noi l’insulina mancante.
Tuttavia, è necessario porre molta attenzione a questi interventi farmacologici. Questo perché, a volte,
certi meccanismi non sono fisiologici per altre situazioni. Ad esempio, nel caso della trombosi arteriosa,
ossia della chiusura di una determinata arteria, che provoca un infarto del miocardio. Come si forma il
trombo? Uno dei meccanismi è un adenoma (deposito di grasso), che provoca una aggregazione
piastrinica. In questo caso si esegue una terapia preventiva con dei farmaci antiaggreganti. Tuttavia,
bisogna stare molto attenti, poiché queste sostanze riducono l’aggregazione piastrinica, provocando
magari emorragie in altri luoghi dell’organismo. Che cos’è, quindi, una malattia? E’ una alterazione
strutturale e funzionale di una cellula, di un tessuto o di un organo, capace di ripercuotersi
nell’economia dell’intero organismo. La malattia provoca un’alterazione dell’omeostasi (equilibrio
dell’organismo) in atto o in evoluzione. La malattia, con le sue manifestazioni, risulta dalla somma fra il
danno prodotto dall’agente nocivo e la reazione del nostro stesso organismo.
La comparsa dei fenomeni soggettivi (avvertiti dal paziente) ed obiettivi (individuabili dalla visita medica
e/o dagli esami di laboratorio e da indagini diagnostiche) vanno sotto il nome di sintomi; il riscontro e
l’analisi critica di questi consente il medico di fare una diagnosi; cioè di individuare il tipo di malattia e di
formulare, sulla base della sua esperienza, la prognosi; cioè di prenderne la durata è l’esito è di
prescrivere l’idonea terapia.

Criteri classificativi
Le malattie possono essere classificate con:
1. Criteri topografici, in relazione a dove si sviluppano
2. Criteri anatomici, in relazione al tessuto o all’organo che colpiscono
3. Criteri funzionali, in relazione alla funzionalità su cui agiscono
4. Criteri eziologici, in relazione alle cause (infettivi, virali, genetiche)
5. Criteri clinici
6. Criteri patologici, in relazione alla natura del processo patologico
7. Criteri epidemiologici, in relazione a dati statistici

Come si manifesta una malattia? Possiamo avere:

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1. Fenomeno morboso, ossia una deviazione più semplice (abrasione), rappresenta la più semplice
deviazione dalla norma di una carattere morfologico, biochimico o funzionale di un tessuto o di un
organo, la quale può essere presente senza provocare la comparsa di una sintomatologia di rilievo;
2. Processo morboso, ossia più fenomeni morbosi (infiammazione), risulta dall’associazione di più
fenomeni morbosi ed è, pertanto, indice di una maggiore gravità. Si ricorda come esempi
l’infiammazione alla cui realizzazione concorrono collettivamente più fenomeni morbosi, come la
vasodilatazione, l’iperemia, la diapedesi dei leucociti, la leucocitosi e la febbre;
3. Uno stato morboso (ossia che non cambia), che indica una condizione abnorme permanente che può
anche non incidere particolarmente nell’economia dell’organismo (per esempio, dita
soprannumerarie, cicatrici, calvizie, daltonismo, albinismo). Spesso è priva di alcuna influenza
sull’intero organismo, nel quale possono subentrare, in alcuni casi, fenomeni di adattamento, ma
capace di rendere questo più suscettibile alla comparsa di altre manifestazioni patologiche;
4. Malattia, cioè la condizione dinamica, evolutiva, con alterazione anatomica e funzionale
dell’omeostasi. La malattia può andare incontro ad una guarigione o ad una cronicizzazione o, a
volte, alla morte.
La malattia è comunque un evento che presenta un inizio, un decorso ed una fine. Durante questo processo,
la vita delle parti colpite e anche dell’intero organismo può essere sottoposta a grave rischio e il processo
può concludersi con:
1. La morte delle parti colpite o dell’intero organismo
2. Il cronicizzazione delle funzioni e delle strutture (guarigione con difetto)
3. Ripristino totale (guarigione completa con restitutio ad integrum).
La malattia è anche il processo di difesa o di adattamento con cui l’organismo reagisce e comprende non
solo la parte ammalata, ma anche i sistemi di correlazione che realizzano quella difesa. Tanto più grande
sarà la noxa (danno), tanto maggiore sarà il coinvolgimento di questi sistemi con l’evocazione di fenomeni
di tipo generale, come febbre, dolore, metabolismo alterato.

Eziologia (cause) e patogenesi (meccanismi)


Esistono cause esogene (estrinseche) e cause endogene (intrinseche), a seconda che dipendano
dall’organismo o dall’ambiente esterno. Oltre a queste cause, ne esistono delle altre (concause), che possono
favorire o sfavorire lo sviluppo della malattia: sono le cosiddette coadiuvanti della malattia (se aiutano
l’insorgere della malattia) o determinanti della malattia (se rappresentano le vere e proprie cause della
malattia stessa).
Affinché si sviluppi la malattia, il soggetto deve presentare le cosiddette “quattro R”:
1. Deve essere recettivo
2. Non deve essere refrattario
3. Non deve essere resistente
4. Deve essere reattivo
Ma cosa significano questi termini? Un soggetto è:
1. Recettivo, quando si ammala, ossia subisce la conseguenza del contatto;
2. Refrattario, se non subisce nessuna conseguenza (per esempio la mancanza sulle cellule di recettori
per i virus);
3. Resistente, che resiste in virtù di un efficace meccanismo difensivo da parte della barriera muco-
cutanea e dell’immunità naturale specifica (vaccinati);
4. Reattivo, se il contatto stimola una risposta particolarmente efficiente da parte dei meccanismi
dell’immunità specifica con produzione di anticorpi.

Facendo riferimento alla figura a lato, le cause di una malattia possono essere di:
1. Natura fisica (traumi, alterazioni della temperatura, radiazioni ionizzanti)
2. Natura chimica
3. Natura biologica (microrganismi, malattie genetiche somatiche o ereditarie)

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Esistono esempi di condizioni morbose in cui le cause
sono esclusivamente esterne, ambientali, come
l’annegamento, la folgorazione, la tossina botulinica,
un’infezione di massima diffusione e virulenza, ecc. In
questo caso l’organismo soggiace passivamente
all’agente.
Esistono, poi, esempi di condizioni morbose in cui le
cause appaiono esclusivamente interne, come nel caso di
una malattia ereditaria.

Dunque, gli eventi patologici possono essere classificati in base all’incidenza dell’eredità genetica e
dell’influenza ambientale. Non esistono, però, patologie causate unicamente da fattori ambientali o da fattori
ereditari, ma ogni patologia deriva dall’interazione fra questi diversi fattori eziologici. Per esempio, il
bacillo della tubercolosi potrà verificare la malattia in dipendenza della virulenza, della carica (quantità dei
microrganismi presenti), della via di penetrazione, ma si verificherà in dipendenza di condizioni interne ed
esterne al soggetto, come l’età, un precedente contatto, uno stato nutrizionale, ecc.

Una malattia può essere:


1. Focale, se limitata ad una zona precisa di un
organo (es. tonsille, apice dentario);
2. Diffusa, se colpisce un distretto (es.
polmonite);
3. Disseminata, come il morbillo o la varicella;
4. Sistemica, se occupa un intero sistema
(sistema emopoietico, apparato
gastrointestinale, SNC);
5. Generalizzata, se si distribuisce a diversi organi, apparati, sistemi.

Esiste, inoltre, una classificazione in relazione al decorso della malattia:


1. Malattia subacuta, quando insorge in modo meno rapido
2. Malattia acuta, se insorge in maniera molto brusca, con sintomi gravi, terminando con la guarigione
o con la morte dell’individuo
3. Malattia cronica, nel caso in cui esordisce in modo progressivo, lento, con sintomi meno gravi, fino
a che non viene raggiunto una sorta di equilibrio tra l'agente patogeno e l'organismo (la malattia non
è totalmente curabile).

L’immunologia, l’immunopatologia e il sistema immunitario


L’immunologia è la scienza che studia l’immunità e gli eventi molecolari e cellulari che avvengono in
seguito all’incontro con agenti microbici o macromolecole estranee.
L’immunità è la protezione dalle malattie e da sostanze estranee. Un sistema immune comprende tutte
quelle cellule e molecole coinvolte nell’immunità. Infine, la riposta immune è al risposta organica
all’introduzione di sostanze estranee.
L’immunopatologia analizza, invece, i casi in cui il sistema immunitario non funziona
correttamente, come alcune reazioni di ipersensibilità: allergie o malattie autoimmuni. Il sistema
immunitario è l’insieme delle cellule prodotte per la difesa contro le infezioni, per riconoscere
cellule potenzialmente tumorali, per il riconoscimento dei tessuti trapiantati e di proteine estranee.
Distinguiamo due tipologie di immunità:
1. Barriere meccanico-chimiche. Sfrutta l’impossibilità del batterio di oltrepassare barriere fisiche e
chimiche prodotte dal corpo umano.
2. Immunità innata o naturale. E’ una risposta precoce nei confronti dei microbi, che si basa su
barriere meccaniche-chimiche e da meccanismi ripetitivi e aspecifici. Questa immunità sfrutta,
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infatti, cellule già presenti nel nostro organismo alla nascita dell’individuo. Per qualunque batterio, la
risposta è sempre identica (manca la specificità). Queste cellule non possiedono dei recettori specifici
che si legano a particolari patogeni, ma hanno dei recettori che riconoscono determinati pattern
molecolari comuni a tanti tipi di batteri: si hanno, dunque, risposte stereotipate, che non presentano
memoria immunologica.
3. Immunità acquisita o adattativa o specifica. E’ una risposta più tardiva, poiché necessita di uno
stimolo, derivante proprio dall’incontro fra la cellula immunologica e il batterio o virus. E’
un’immunità capace di distinguere in maniera straordinariamente specifica le diverse molecole
estranee, in grado di rispondere in modo sempre più potente ad esse dopo contatti ripetuti. Ogni
cellula possiede un particolare recettore per un determinato patogeno:
l’interazione fra i due provoca la formazione della cosiddetta memoria immunologica, che entra in
azione al secondo contatto col batterio (proprio su questo concetto si basano i vaccini).
Fra le barriere fisiche e chimiche, troviamo la cute, le secrezioni, il pH dello stomaco, alcuni enzimi. Fra le
barriere della risposta naturale o innata abbiamo, invece, i granulociti, le cellule NK (sono citotossiche,
ossia riconoscono quelle cellule che sono state ormai infettate da virus), alcune tipologie di citochine, il
complemento (alcune proteine inattive che, a contatto con il patogeno, si attivano e provocano la formazione
di un poro sul batterio, al fine di riempirlo di acqua e farlo andare incontro a lisi). Per quanto riguarda la
risposta acquisita, troviamo i linfociti B, i linfociti T, gli anticorpi (molecole specifiche prodotte dai linfociti
T, che servono per attaccare specificatamente i patogeni).

Barriere maccanismo-chimiche
È costituita dalle cellule epiteliali che formano il rivestimento della cute e delle mucose e da alcune
molecole da esse sintetizzate e secrete. Inoltre si aggiungono anche i prodotti della secrezione della
ghinadole presenti nei tessuti di rivestimento e dai microrganismi della flora saprofitica e da alcune
molecole, da essi sintetizzati e secrete.
La cute integra rappresenta la prima barriera fisica, che ci difende dall’esterno. La cute si rigenera
continuamente e, dallo strato più profondo, attraverso la desquamazione, impedisce a molti microbi di
penetrare all’interno, inoltre questa contiene cheratina la quale non è digeribile ne oltrepassabile dalla
maggior parte dei microrganismi. La cute, però, funge anche da barriera chimica, col sudore e il sebo (il
sudore ha un’azione antimicrobica del pH acido). Al livello delle mucose, si ha molto muco, il quale
invischia i microrganismi e, attraverso ciglia, espelle i patogeni all’esterno.
Altra barriera estremamente importante è la flora indigena (come la flora intestinale, la flora vaginale, ecc.),
ossia microrganismi residenti in un certo distretto che, di solito, non causano malattia e che, per
competizione, impediscono la colonizzazione da parte di germi patogeni.

L’immunità innata
E’ una risposta molto rapida nei confronti dei patogeni (nel giro di poche ore). Ha una bassa specificità, non
presenta memoria immunologica ed è un’immunità filogeneticamente antica (presente già negli
invertebrati).
I fattori dell’immunità naturale si possono classificare in: cellulare (polimorfonucleati – PMN, cellule
Natural Killer, monociti/macrofagi, cellule dendritiche di Langerhans) ed umorali (proteine plasmatiche,
quali il sistema del complemento ed altre proteine reattive).
La distinzione tra cellulare e umorale stà nel fatto che il corpo umano per effettuare il riconoscimento delle
molecole dispone di molecole, definite recettori, che possono avere una distribuzione diversa:
a. Essere espresse dalle cellule prima menzionate sulla loro superficie o nel citoso (recettori di
membrana e recettori citosolici;
b. Essere presenti in soluzione (recettori solubili) nel sangue e nei fluidi dell’organismo.
I recettori cellulari dell’immunità innata sono appannaggio di più tipi cellulari (ad es. ovociti, macrofagi,
cellule dendritiche..), alcuni dei quali esprimono contemporaneamente recettori che riconoscono molecole
differenti. Al contrario, i recettori dell’immunità specifica, rappresentati dal B cell receptor (BCR) e dal T
cell receptor (TCR) sono espressi esclusivamente è rispettivamente dai linfociti B e dai linfociti T. La
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molteplicità dei bersagli contemporaneamente aggredibili e per l’immediatezza del suo intervento in quanto
i suoi protagonisti cellulari ed umorali preesistono nell’organismo, indipendentemente da qualsiasi tipo di
aggressione. Inoltre anche la formazione dell’infiammazione è un meccanismo di difesa atto a circoscrivere
e ad eliminare gli agenti dannosi esogeni ed endogeni. Questa è la ragione per cui i fattori cellulari ed
umorali dell’immunità innata possono anche essere definiti fattori dell’infiammazione.

Cellule dell’immunità innata e dell’infiammazione


I fattori cellulari riscontrati in questo tipo di immunità, per la maggior parte sono presenti nel sangue e
sono: leucociti polimorfonucleati (PMN), i monociti e le cellule Natural Killer. Questi possono migrare dal
letto sanguigno per raggiungere sia il sito in cui si sono impiantiti i microbi e sia quello in cui sono presenti
sostanze abnormi derivate dalla disintegrazione tissutale o altri agenti estranei dannosi.
Altre cellule come i mastociti, i macrofagi, le cellule accessorie sono invece cellule residenti nei tessuti.
I polimorfonucleati, monociti e cellule NK
Sono cellule ematiche che in presenza di un’infezione sono stimolati ad intraprendere un processo
differenziativo da una particolare categoria di citochine, i cosiddetti fattori di crescita emopoietici, rilasciati
da varie cellule sotto stimolo da alcune molecole di provenienza microbica.
 I PMN sono le prime cellule ad abbandonare il circolo sanguigno per riversarsi nei tessuti nei quali
sono richiamati da fattori chemiotattitici rilasciati dai microbi che da alcune cellule dell’organismo,
in particolare dai linfociti T. Questi si differenziano in base alla colorazione che assumono durante la
visione al microscopio sotto stimolo di alcuni coloranti chimici:
o I granulociti neutrofili sono i più numerosi (70%), una volta fuoriusciti dai vasi riconoscono
con i loro recettori alcune molecole della superficie dei microbi con i quali vengono a
contatto. Questi possono procedere alla distruzione dei microbi in due maniere: fagocitandoli
e digerendoli in vescicole fagocitiche oppure uccidendoli con il rilascio di sostanze
microbicide contenute nei granuli che vengono da essi espulsi.
o I granulociti eosinofili aumentano il loro numero solo in due condizioni: parassitarie
soprattutto quelle da elminti e le reazioni allergiche. Questi rilasciano diverse proteine
enzimatiche o tossiche, che diventano responsabili di danno tissutale.
o I granulociti basofili sono equivalenti ai mastociti, infatti degranulano liberano acnh’essi
mediatori chimici della flogosi e rilasciano citochine.
 I monociti sono cellule ematiche di provenienza midollare. Anch’essi migrano nei tessuti dove si
differenziano in macrofagi, ma anche in altri tipi cellulari, che come i macrofagi sono dotati di
grande attività fagocitaria e conseguentemente digestiva sia nei riguardi delle cellule dell’organismo
che hanno compiuto il loro ciclo vitale che nei riguardi degli agenti invasori.
Oltre all’azione fagocitaria, questi vengono attivati dai lipolisaccaridi (LPS) batterici, che
riconoscono a mezzo di peculiari recettori ed in conseguenza rilasciano una serie di citochine e
chemiochine. Tra le citochine si ricorda il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF Alfa) perchè esso
porta un segnale di attivazione alle cellule endoteliali che formano il rivestimento interno dei vasi
sanguigni a diretto contatto con il sangue circolante. Una volta attivate, le cellule endoteliali
sintetizzano ed esprimono sulla loro superficie alcune molecole di adesione alle quali aderiscono i
PMN che i monociti, che vengono dapprima trattenuti sul posto per poi fuoriuscire dal circolo, grazie
all’allentamento delle giunzioni interendoteliali ed all’azione di richiamo esercitata dai cosiddetti
‘’fattori chemiotattici’’ rilasciati sia dai microbi che da alcune cellule dell’organismo in particolari
dai linfociti T.
 Le cellule natural killer una volta stimolati dal alcune citochine (IL2 e IL12) acquisiscono capacità
di riconoscere ed uccidere due categorie di cellule, cioè quelle infettate da virus e quelle
neoplastiche. Inseriscono infatti molecole ad azione lirica che ne provoca la morte e quindi si
distaccano da esse per essere riciclate per un ulteriore intervento dello stesso tipo.
 I mastociti caratterizzati dalla presenza nel citoplasma di granuli che vengono espulsi quando sono
raggiunti da stimoli fisici (traumi, calore, radiazione), chimici (tossine e altre molecole) o sono
sottoposti a stimoli immunologici. In seguito a tale stimolazione vanno incontro ad una

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degranulazione esplosiva consistente nella liberazione dei granuli che contengono una serie di
molecole responsabili dell’innesco del processo infiammatorio.

Parte umorale dell’immunità innata


Sempre facenti dell’immunità innata, abbiamo alcuni mediatori solubili presenti nei liquidi biologici, come
il lisozima (che si trova nelle lacrime degli occhi, nella saliva, ecc.), il quale riesce a scompaginare la parete
cellulare dei batteri. Abbiamo, poi, alcune proteine chelanti del ferro (lattoferrina e transferrina), che
legano il ferro, elemento indispensabile per il metabolismo batterico.
Poi troviamo il cosiddetto sistema del complemento o, più semplicemente, complemento, ossia un insieme
di proteine del siero che, una volta attivate, possono portare alla lisi o alla fagocitosi di alcuni batteri. Il
sistema del complemento, infatti, è costituito da una ventina di proteine circolanti e di membrana, capaci di
interagire reciprocamente e con le membrane cellulari. L'attivazione a cascata delle sue proteine solubili, che
convenzionalmente vengono chiamate componenti, permette a queste ultime di introdursi nelle membrane
degli agenti patogeni, venendo a formare dei pori, i quali portano necessariamente alla lisi del patogeno.
Durante l'attivazione del complemento si ha, inoltre, il reclutamento di varie cellule immunocompetenti,
quali cellule fagocitarie (monociti, macrofagi, polinucleati), linfociti B e linfociti T. Sempre per quanto
riguarda l’immunità innata, abbiamo anche le cosiddette defensine, con attività antibatterica, antifungina e
antivirale (sebo, sudore, acido etc.).

Le citochine sono molecole proteiche con funzione di molecole trasportatrici di segnali le quali interagendo
con recettori di membrana espressi dalle cellule bersaglio, trasducono un segnale che traverso varie viè e
vari fattori di trascrizione, modula la trascrizione di geni che codificano per proteine responsabili di
importanti funzioni cellulari. Esse apportano segnali di attivazione alle cellule immunitarie ed alle cellule
endoteliali, segnali che favoriscono il reclutamento dei leucociti dal sangue e segnali che stimolano la
leucopoiesi del midollo osseo. Queste si differenziano in:
 Tumor Necrosis Factor (TNF), queste vanno a stimolare le cellule endoteliali a dilatarsi e ad
esprimere molecole di adesione, inoltre hanno una azione sui componenti del complemento che
vengono ad’essi attratti chemotatticamente, il sistema coagulativo che viene attivato con conseguente
formazione di coaguli;
 Interleuchina 1 (IL-1), questa induce l’attivazione dei linfociti T helper e l’espansione clonare dei
linfociti B
 Interleuchina 6 (IL-6), promuove il fegato al rilascio delle proteine di fase acuta ed a livello
ipotalamico il rialzo termico febbrile. Inoltre gioca un ruolo essenziale nella risposta infiammatoria e
partecipa alla risposta immunitaria adatti a stimolando la secrezione degli anticorpi delle
plasmacellule;
 Interleuchina 12 (IL-12)
 Inteferoni (IFN), sono proteine elaborate e secrete prevalentemente ma non esclusivamente dalle
cellule che hanno subito l’infezione virale che espletano per quanto riguarda la difesa immunitaria
dell’organismo uan serie di funzioni, di cui la prima quella antivirale. Essi agiscono sulle cellule
infettate dai virus determinando un blocco del ciclo della replicazione virale.
Le chemochine sono citochine che esercitano un’azione di richiamo verso cellule diverse da quelle che le
hanno prodotte. Infatti queste permettono l’approdo dei leucociti sulla parete endoteliale dei vasi e
successivamente la loro extravasione ed il loro afflusso in una determinata direzione, piuttosto che in
un’altra.
Dunque, la risposta naturale è innata, è non specifica ed è mediata da una serie di meccanismi umorali
(attivazione del complemento e di alcune citochine) e cellulari (attivazione dei macrofagi e delle cellule
NK) che, a seconda dei tempi di attuazione, possono essere raggruppati in:
1. Attuazione rapida (dai 4 minuti alle 4 ore): abbiamo l’attivazione del complemento per via
alternativa e l’attivazione die macrofagi.

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2. Attuazione media e lenta (dalle 4 ore ai 4 giorni): abbiamo l’infiammazione, poi l’attivazione delle
cellule NK e la liberazione delle citochine.

Attivazione del complemento


L’attivazione del complemento per via alternativa, come già detto, fa parte dell’immunità naturale: questa
viene attivata proprio dalla presenza del microbo stesso in cui si avvierà una cascata enzimatica nel senso
che ogni componenti e assume attività proteolitica specifica nei riguardi di un altro componente che viene
spezzato in due frammenti di diseguale lunghezza. Di questi frammenti uno, acquisendo attività
enzimatica, rimane coinvolto nella cascata, mentre l’altro rimane libero e compie altre funzioni.
L’attivazione del C assume una importanza rilevante:
 I prodotti terminali dell’attivazione (C3b etc.), formanti il cosiddetto complesso d’attacco,
inducono la lisi dei batteri, dei virus, di altri agenti patogeni ed anche di cellule alterate dello stesso
organismo;
 I frammenti che non partecipano alla cascata enzimatica contribuiscono ad innescare ed ampliare
la reazione infiammatoria in corrispondenza del focolaio in cui sono annidati i microbi. Tra questi
C3a e C5a agiscono da anifolotossine ciè inducono la degranulazione dei mastociti, mentre altri
agiscono da fattori
chemotattici.
Normalmente, nel sangue sono già
presenti tutte le varie componenti del
complemento (C1, C2, C3, ecc.) e si
trovano in forma inattiva. Una volta a
contatto col microbo, il fattore solubile
C3 (una proteina inattiva presente nel
plasma) viene idrolizzato e questo
forma C3i o C3(H2O) il quale sotto
l’azione del fattore B forma C3iB.
Questo sotto l’azione di un altro
fattore, il fattore D, viene diviso in 2
parti: un C3iBa, che resta libero e
solubile, e un C3iBb che, invece, viene
vincolato e legato sulla superficie del
microbo, assumendo l’attività di C3
convertasi alternativa. Una volta formato il complesso C3 convertasi alternativo, viene capitata una altra
protine C3 in soluzione, il quale viene diviso in C3a che rimane in soluzione e C3b che diventa il primo
pezzetto del futuro poro. Dopodichè il pezzo di C3b neo formato sempre sotto stimolo del fatto B che lo
trasforma in C3bB, dopo con il fattore D
si ha la seconda divisione in C3bBa, che
và in soluzione, e in C3bBb detto anche
amplificatore o anche enzima C3-
convertasi poichè và ad amplificare
l’azione di conversione rispetto al
C3iBb. Infatti in conseguenza a ciò
questo vengono prodotti molti C3b che si
assemblano attorno al C3bBb formando
il complesso C3bBbC3b o C3bnBb, che
forma l’enzima C5 convertasi.
Successivamente la quale scinde il C5,
anche in questo caso, in due forme, una
libera e una vincolata alla superficie del
batterio. Il meccanismo va avanti con la produzione del C6, C7, C8, C9, fino a che tutta questa cascata
amplificativa va a creare, sulla superficie del batterio, un poro, che provoca l’entrata di acqua e la lisi.
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La fagocitosi
La fagocitosi può essere mediata dai fagociti, dai macrofagi o dai granulociti neutrofili. [PER
RICORDARE: Le cellule fagocitarie (o fagociti) si distinguono in: macrofagi, che si differenziano a
seconda del tessuto in cui si trovano, monociti (sono i macrofagi che si trovano in circolo ed assumono
una conformazione diversa da quella che hanno nei tessuti) e granulociti neutrofili (o polimorfonucleati),
che aumentano notevolmente di numero nelle infezioni batteriche.
Tutti derivano dalle cellule staminali del midollo osseo, e poi migrano nei tessuti].
Un fagocita, che viene richiamato nella zona interessata grazie ad un gradiente chemotattico, è dotato di
recettori, che si legano al batterio, grazie al riconoscimento di pezzetti del complemento, appena attaccatosi
alla superficie del batterio. Questo legame favorisce la formazione di un fagosoma, il quale si fonde con un
lisosoma (che contiene enzimi che producono radicali tossici dell’ossigeno). Il batterio, che risulta
intrappolato nel fagolisosoma, viene digerito da sostanze molto tossiche, come l’ipoclorito o alcuni radicali
liberi di ossigeno: durante questi processi, infatti, si ha una vera e propria esplosione ossidativa.
I granulociti neutrofili, appena terminata la fagocitosi, muoiono attraverso apoptosi. I macrofagi sono altre
cellule con capacità di fagocitosi, estremamente importanti. Questi, a differenza dei granulociti neutrofili,
sopravvivono alla digestione dei batteri. I macrofagi realizzano funzioni di fagocitosi sia in modo diretto
(immunità innata), sia attraverso i recettori che riconoscono il C3b, legato sulla superficie dei batteri in
seguito all’attivazione del complemento, ma possono riconoscere i batteri anche dopo che c’è stata
l’attivazione di una risposta specifica, con produzione di anticorpi (in altre parole, gli anticorpi che si legano
ai batteri, inducono l’attivazione di macrofagi). I macrofagi, generalmente, cominciano anche a produrre
citochine, come ad esempio l’interferone, che stimolano a loro volta l’infiammazione e l’arrivo di anticorpi
e di altri macrofagi.
Le citochine da ricordare sono assolutamente quelle pro-infiammatorie:
1. L’interleuchina-1, se prodotta in grande quantità, induce la febbre. Essa, attraverso il circolo
sanguigno, raggiunge al cervello, nel centro della termoregolazione (a livello dell’ipotalamo). Qui,
l’interleuchina-1 induce la produzione di prostaglandine: questa sposta il setpoint del centro della
termoregolazione, portandolo, per esempio, da 36 a 39. A questo punto, il centro invia messaggi per
produrre calore e far aumentare la temperatura periferica, che risulta essere inferiore al nuovo
setpoint.
2. La tubornecrosifactor-α (TNF-α), che induce la febbre (insieme all’IL-1).
3. L’interleuchina-6, che fa cambiare la sintesi delle proteine del fegato, promuovendo la sintesi di
quelle proteine utili per combattere il patogeno; anche l’IL-6 partecipa alla promozione della febbre.

L’evoluzione di alcuni patogeni e l’immunità acquisita


Tuttavia, nonostante l’immunità innata, molti patogeni si sono evoluti e hanno adottato tecniche di difesa.
Dunque, se nonostante l’attivazione di questi meccanismi della risposta naturale, l’infezione continua a
progredire, il sistema immunitario metterà in moto la risposta immunitaria acquisita, che quindi compare
dopo diversi giorni dal contatto col patogeno. La prima stimolazione induce non solo una risposta ma anche
la comparsa di una memoria del riconoscimento effettuato. Presenta alta specificità, una forte risposta di
memoria ed è filogeneticamente molto recente (presente solo nei vertebrati). Nell’immunità specifica
distinguiamo:
1. Un’immunità attiva, quando è il nostro sistema immunitario che viene indotto a produrre una
risposta. La abbiamo tutte le volte che abbiamo un’infezione, ma anche subito dopo una
vaccinazione. Quest’immunità si presenta dopo diversi giorni: presenta una risposta specifica e una
memoria immunologica.
2. Un’immunità passiva, quando gli anticorpi prodotti da un organismo vengono immessi in un altro
organismo: gli anticorpi vengono, dunque, somministrati; abbiamo, quindi, una risposta specifica, ma
non si avrà una memoria immunitaria.
Per esempio, una tipologia di immunità passiva la si ha con l’allattamento: gli anticorpi della madre passano,
attraverso il latte, al bambino. Tuttavia, oltre all’immunità di tipo naturale (come nel caso appena descritto),
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possiamo avere anche un’immunità acquisita di tipo artificiale: attiva, come i vaccini, o passiva, come le γ
globuline (anticorpi). Queste ultime, per esempio, vengono immesse in un organismo quando questo prende
il tetano, senza essere stato precedentemente vaccinato: in altre parole, gli anticorpi gli vengono
somministrati dall’esterno. Esistono due tipologie di immunità acquisita:
1. L’immunità umorale, diretta verso microbi extracellulari. I linfociti B sono le cellule capaci di
riconoscere i batteri fuori dalle cellule. Ogni linfocita B presenta un suo recettore specifico per un
determinato batterio. Una volta effettuato il legame col patogeno, il linfocita B produce gli anticorpi,
i quali si legano ai batteri, eliminandoli. I linfociti B attivati dall’interazione con l’antigene, sono
principalmente presenti nel sangue ed in altri fluidi dell’organismo, una volta indicati come umori.
2. L’immunità cellulo-mediata, indirizzata verso microbi che si trovano dentro le cellule con virus o
microbi fagocitati. Le cellule responsabili di questa immunità sono i linfociti T. Di questi, però, ne
esistono due tipi: i linfociti T helper (o CD4) e i linfociti T citotossici (CD8). I primi sono
importantissimi, poiché, come dice il loro nome, aiutano le risposte immunitarie: essi producono, una
volta attivati, una grande quantità di citochine (mediatori solubili) adatte al particolare patogeno; a
seconda di quale citochina viene prodotta, viene scelta la risposta più adatta per eliminare il
particolare patogeno. Se, per esempio, i CD4 vengono attivati da alcuni macrofagi, la citochina che
viene emessa sarà l’interferone γ, il quale induce un aumento della produzione di radicali liberi di
ossigeno nel macrofago stesso.
I linfociti CD8, una volta riconosciute le cellule infettate, ci si legano e la uccidono (sono
responsabili, quindi, dell’uccisione diretta di tutte quelle cellule già infettate), attraverso meccanismi
litici. I CD8, per potersi attivare, hanno però bisogno di un segnale da parte dei CD4.

Antigeni e apteni
Per antigene si intende un generatore di anti(corpi), una molecola nella cui struttura sono presenti
raggruppamenti chimici (detti epitopi o gruppi determinati) aventi una conformazione riconoscibile dai
recettori presenti sulla superficie dei linfociti , che da tale riconoscimento sono stimolati a dare una risposta
anticorpale o cellulomediata. Questi recettori sono antigene-specifici, sono epitopo-specifici in quanto
ciascun linfocita ha recettori che riconoscono un solo epitopi.
Gli apteni sono antigeni incompleti, sostanze generalmente di natura non proteica, incapaci di stimolare una
risposta immunitaria specifica ma che acquisiscono potere antigene quando vengono legati a proteine
chiamate carrier.

Le fasi delle risposte immunitarie specifiche


1. Fase di riconoscimento: ogni cellula ha un suo recettore, che può riconoscere un tipo X di batterio.
La fase di riconoscimento avviene dopo diversi giorni dall’attivazione delle risposte innate. Ma dove
avviene questa fase? Avviene a livello degli organi linfoidi secondari (linfonodi, tessuto linfoide
associato alle mucose, tessuto linfoide associato all’apparato respiratorio, tonsille, milza, ecc).
2. Fase di attivazione: a livello degli organi linfoidi secondari la cellula specifica, adatta allo specifico
patogeno, va incontro ad un’espansione clonale. Il clone si differenzia in cellule effettrici. Se erano
linfociti B, per esempio, diventano plasmacellule, le quali producono poi anticorpi specifici. Questi,
attraverso il sangue, raggiungono la periferia e uccidono il batterio.
3. Fase effettrice: abbiamo l’eliminazione del patogeno.
4. Declino della risposta (ripristino dell’omeostasi del sistema immunitario): tuti i cloni restanti, una
volta uccisi tutti i batteri, vanno incontro ad apoptosi. Soltanto poche cellule specifiche restano,
dando vita alla memoria immunitaria, responsabile della cosiddetta risposta secondaria, molto più
veloce e reattiva.
Dunque, le principali caratteristiche delle risposte specifiche sono specificità, memoria, specializzazione
(risposte altamente specializzate) e, soprattutto, capacità di distinguere il self (proprio) dal not-self
(estraneo).

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La specificità del sistema immunitario è data dalla presenza, sul linfocita, di un recettore specifico: sui
linfociti T è presente il TCR (T Cell Receptor), mentre i linfociti B hanno, come recettore, delle molecole di
anticorpi specifici, che restano adesi sulla superficie. Ogni linfocita, col suo recettore,
può riconoscere una sola parte del patogeno, detta epitopo o determinante
antigenico. Quindi, esisteranno tanti linfociti con la possibilità di
riconoscere diversi epitopi di un determinato batterio (ogni patogeno,
infatti, possiede più epitopi e ogni epitopo viene riconosciuto da un
particolare linfocita). Di conseguenza, la risposta immunitaria, se un
batterio viene riconosciuto da più linfociti, sarà di tipo policlonale, poiché
ogni linfocita riconosce una diversa parte (epitopo) dello stesso batterio.
Esistono, dunque, tanti linfociti stimolati, quanti sono i determinanti
antigenici che formano l’antigene. La risposta immunitaria sarà data dalla
somma dei cloni
venutisi a formare a partire da ogni linfocita che ha riconosciuto l’antigene (nella figura, per esempio, sia il
linfocita 1, che il 2, che il 3, hanno riconosciuto un diverso epitopo sulla superficie del batterio, ma tutti e tre
daranno vita ad una risposta immunitaria per quel determinato antigene: la somma dei cloni derivanti dal
linfocita 1, dal 2 e dal 3 sarà uguale alla risposta immunitaria totale per quella specie batterica).
I linfociti sono tantissimi, ognuno diverso dall’altro, poiché ciascuno è dotato di un proprio recettore per un
particolare epitopo: questo meccanismo si chiama repertorio linfocitario. Ma come si genera questo
recettore? Si genera in maniera casuale, durante la maturazione di queste cellule, per ricombinazione genica.
Tuttavia, proprio a causa del fatto che la creazione di questi recettori è casuale, è molto probabile che,
durante la maturazione, si vengano a creare delle cellule che possono riconoscere molecole self (e quindi
attaccare e distruggere molecole del nostro stesso organismo). E’, quindi, necessario, che ci sia una
selezione, durante lo sviluppo di queste cellule: tutte le cellule che potrebbero essere pericolose per
l’organismo devono essere eliminate. Questa prima eliminazione avviene negli organi linfoidi primari (il
Timo per i linfociti T e il Midollo Osseo per i linfociti B). Basti pensare che, di tutte le cellule che arrivano
al Timo, il 95% vengono distrutte per apoptosi, perché potrebbero essere cellule pericolose per l’organismo:
al livello del Timo, dunque, abbiamo una selezione estremamente consistente.

La memoria
Quando un antigene si presenta per la prima volta, come già detto, il sistema immunitario produce una
risposta primaria, lasciando un linfocita di memoria per ciascuno degli epitopi dell’antigene.
Quando lo stesso tipo di antigene verrà nuovamente a contatto con il sistema immunitario (risposta
secondaria), il linfocita di memoria si riattiva più
velocemente, per produrre tanti quanti cloni di linfociti
specifici saranno necessari contro l’antigene: ciò
avviene in maniera molto più rapida ed efficiente che
nella risposta primaria.
Come è possibile notare, infatti, dall’immagine a
sinistra (risposta umorale), sull’asse delle X abbiamo il
tempo, mentre su quello delle Y la produzione di
anticorpi. Il massimo della produzione degli anticorpi
(nella risposta primaria) si ha più o meno verso la 3°
settimana. Durante le risposte primarie, vengono
prodotti dei particolari
anticorpi, detti IgM. Una volta debellato il patogeno, abbiamo la fase del declino della risposta
(omeostatica), in cui vengono eliminati tutti i cloni e restano solo le cellule della memoria. Nella parte
successiva del grafico è possibile vedere come sia differente la risposta secondaria: ad un nuovo contatto
con lo stesso tipo di patogeno, nel giro di uno o due giorni si ha l’immediata attivazione delle cellule di
memoria, che producono una quantità di anticorpi estremamente alta, con un picco molto veloce ed elevato.
Ma non solo questo differenzia le risposte secondarie da quelle primarie: abbiamo che gli anticorpi prodotti

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sono diversi, poiché sono molto più affini per il batterio. Quindi, riassumendo, la risposta secondaria si
differenzia da quella primaria soprattutto per:
1. Rapidità di risposta
2. Quantità di anticorpi prodotti
3. Affinità degli anticorpi
4. Cambiamento di classe degli anticorpi, al fine di scegliere quelli più specializzati per quel
determinato patogeno (i cambiamenti di classe si hanno grazie all’azione dei linfociti T Helper; nel
caso degli allergici, le IgM vengono trasformate in IgE grazie all’azione dei linfociti CD4 di tipo
Th2).
Ovviamente, la risposta immunitaria si migliora sempre, all’aumentare dei contatti.

Specializzazione e capacità di distinguere il proprio dall’estraneo


La risposta immunitaria acquisita è una risposta specifica, indotta da un antigene che genera una risposta per
quel determinato antigene. Inizia la sua azione dopo la risposta naturale. Le prime azioni si osservano tra le
96 e le 120 ore post-infezione.
Il sistema immunitario è capace di discriminare tra il self e il not-self. Viene, infatti, sviluppato un
meccanismo di tolleranza immunologica capace di bloccare le reazioni immunitarie nei confronti degli
antigeni self.

La tolleranza
Esistono due tipi di tolleranza:
1. Tolleranza centrale, che si verifica al momento dello sviluppo dei linfociti
(precedentemente spiegata). Consiste nella delezione clonale (mediante apoptosi) della maggior
parte dei linfociti T nel Timo e dei linfociti B nel Midollo: vengono eliminati quei linfociti che
potrebbero danneggiare le cellule self del nostro organismo.
2. Tolleranza periferica. Nel Timo o nel Midollo Osseo, la maggior parte delle cellule viene eliminata,
ma qualcuna può sfuggire a questo meccanismo. E’ necessario, quindi, che ci siano una serie di
controlli anche periferici, per bloccare l’insorgere di malattie autoimmuni. Questi linfociti che
vengono riconosciuti a livello periferico, possono andare incontro o ad apoptosi o ad anergia
(possono legare l’elemento antigenico, ma non ricevono il segnale di attivazione: restano, quindi,
incapaci di attivarsi e non possono proliferare).
La capacità di distinguere il proprio dall’estraneo è estremamente importante. In questa selezione giocano
un ruolo fondamentale i cosiddetti antigeni di istocompatibilità (come dice il nome stesso, sono quelle
molecole che distinguono un individuo dall’altro). A volte, tuttavia, possono verificarsi errori nel sistema
immunitario. Se questo non risponde a nessuna particella estranea, si ha la tolleranza (se il sistema
immunitario diviene tollerante nei confronti di un patogeno, non ci sarà né produzione di anticorpi né di
cellule della memoria e, di conseguenza, il patogeno potrà muoversi liberamente). Se, invece, il sistema
immunitario reagisce contro le sue stesse strutture, si definisce autoimmunità.
Quindi, concludendo, cos’è che avviene quando si ha l’attivazione delle risposte specifiche? Abbiamo la
nostra cellula precursore dei linfociti (che si genera dalla cellula staminale del tessuto emopoietico) e,
successivamente, la maturazione nei vari gradi di differenziazione. Durante questo processo di maturazione,
fino ad arrivare al linfocita maturo, si generano i recettori. Al termine avremo, quindi, il repertorio
linfocitario (circa 1012). Successivamente si avrà la tolleranza centrale e, subito dopo, quella periferica. A
livello periferico, poi, quando entriamo in contatto con un antigene, questo viene portato a livello degli
organi linfoidi secondari. Qui, dove passano quotidianamente tutti i linfociti del nostro corpo, il linfocita
specifico si legherà al determinante antigenico sull’antigene e si avrà l’espansione clonale. Vengono,
dunque, prodotti gli anticorpi contro l’antigene, che andranno in periferia a svolgere la loro funzione
effettrice.
Tutte le volte che un linfocita deve essere attivato, sono necessari 2 segnali di attivazione:
1. Il legame fra l’antigene e il recettore

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2. Un secondo segnale, che può essere di diversa natura (per esempio, possono essere alcuni
componenti del complemento, che intanto si sono già adesi alla superficie del patogeno; può essere il
rilascio di alcune citochine, ecc.).
Per esempio, i linfociti T avevamo detto essere quelli capaci di riconoscere le cellule infettate. Ma come
fanno? E’ assolutamente necessario che queste, una volta infettate, mostrino sulla loro superficie alcuni
epitopi del patogeno: le cellule infettate prendono i determinanti antigenici del patogeno e li associano a
delle particolari molecole, dette molecole del complesso maggiore di istocompatibilità. In altre parole, il
peptide antigenico viene inserito in queste molecole, che lo espongono sulla superficie: i linfociti T,
attraverso il loro recettore, possono così comprendere quali cellule sono infettate (primo segnale). E’
necessario, però, il secondo segnale che, per quanto riguarda i linfociti T, è il legame di due recettori, il
CD28 del linfocita T e il B7 della cellula infettata. Quando si ha anche questo legame, allora si ha il segnale
per la proliferazione clonale.

Caratteristiche generali degli antigeni


Il nome “antigene” deriva dal greco e significa “qualcosa che genera una sostanza contro”. Possiamo
definire come antigene qualsiasi molecola che reagisce con gli elementi del sistema immunitario, sia
esogena che endogena (per esempio, nel caso di alcune patologie autoimmuni, in cui un antigene self
viene riconosciuto dal sistema immunitario).
Gli antigeni, dunque, sono tutte quelle sostanze che il sistema immunitario riconosce come estranee. Alcuni
antigeni sono, quindi, patogeni, mentre altri no.
Un antigene è una qualsiasi molecola che può essere riconosciuta dal sistema immunitario. Tuttavia, un
antigene può anche essere non immunogeno, ossia non stimola una risposta immunitaria. L’antigene è quella
sostanza capace di legarsi ad uno specifico anticorpo (oppure a un linfocita T): solo alcuni antigeni sono
immunogeni, cioè in grado di stimolare la produzione di anticorpi specifici. La maggior parte si
comportano, invece, da apteni: antigeni di piccolissime dimensioni che non riescono ad attivare la risposta
immunitaria. Questi si trasformano in antigeni immunogeni solo se legati ad una molecola carrier. La
risposta immunitaria che si genera, a questo punto, sarà diretta verso due cose:
1. Verso il batterio
2. Verso la proteina carrier (esisteranno, infatti, alcuni linfociti capaci di riconoscere la proteina
carrier).
Quindi: “tutti gli immunogeni sono antigeni, ma non tutti gli antigeni sono immunogeni”. Molti farmaci
sono degli apteni: vengono riconosciuti dal sistema immunitario, ma da soli non sono in grado di attivarsi.
La penicillina, per esempio, può andare a legarsi ad alcuni globuli rossi e diventare, così, immunogena: la
conseguenza è che vengono prodotti anticorpi, che attaccheranno il globulo rosso e lo distruggeranno.

I recettori per gli antigeni


Tra i recettori che troviamo sulle cellule come segnale di infezione troviamo:
1. Anticorpi per quando riguarda i Linfociti B
2. Recettore dei Linfociti T (TCR può riconoscere solo dei peptidi antigenici espresse sulla membrana
delle nostre cellule, i quali una volta fagocitate e digerite vengono conservate nei MHC che poi andrà
ad esporle sulla membrana)
3. Molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC)

Il linfocita B e il suo recettore per l’antigene


Il linfocita B, per esempio, come recettore per l’antigene presenta delle immunoglobuline o γglobuline
(anticorpi) chiamati anche BRC. Sono antigeni in forma nativa. Gli anticorpi vengono chiamati anche γ-
globuline perché, se effettuiamo un elettroforesi, possiamo notare come tutte le proteine (in funzione della
carica elettrica) si separano: le immunoglobuline (o anticorpi) li troveremo tutti nella porzione così detta
“gamma”. Il recettore per l’antigene è deputato al riconoscimento diretto dell’antigene e alla formazione di
un legame con esso. Riconoscimento diretto significa che l’interazione BCR-antigene avviene senza il
contemporaneo intervento di altre molecole (nei linfociti T si ha bisogno dell’associazione di una molecola
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di HLA di I o di II classe). Gli anticorpi si legano all’antigene sia nella fase di riconoscimento, sia nella fase
effettrice dell’immunità umorale. Nella fase di riconoscimento l’anticorpo di membrana riconosce
l’antigene. Nella fase effettrice l’anticorpo libero si lega all’antigene e:
1. Si neutralizzano microbi o prodotti microbici tossici
2. Si attiva il sistema del complemento
3. Si opsonizzano (si rendono adatti alla fagocitosi da parte di alcuni macrofagi) gli antigeni
4. Si attivano cellule citotossiche che, riconoscendo gli anticorpi che hanno rivestito i patogeni, attivano
delle sostanze tossiche che uccidono il patogeno
Ma dove li troviamo gli anticorpi? Li possiamo trovare nella parte fluida del sangue (siero), nelle secrezioni
mucose e sulle membrane dei linfociti B.
Come sono fatti?

1- La struttura fondamentale dell’anticorpo


La struttura fondamentale di una molecola di anticorpo ha una tipica forma ad “Y”. Abbiamo 4 catene
polipeptidiche: due leggere e due pesanti. Dei ponti disolfuro legano
le due catene pesanti fra di loro e ogni catena leggera alla catena
pesante. Quando si ha l’interazione tra il BCR e l’antigene specifico,
si ha una modificazione conformazione le, che viene trasmessa alle
coppie di molecole Igα e Igβ che trasducono il segnale determinando
l’attivazione del linfocita B. Di catene pesanti ne esistono 5 tipologie
diverse: a seconda della categoria della catena si verranno a formare
diversi isotipi di anticorpi (per esempio, se avessimo la catena B,
l’anticorpo sarà un’immunoglobulina della classe M, ossia delle IgM;
se, invece, abbiamo una catena pesante gamma, si formeranno delle
IgG; se abbiamo una catena pesante epsilon, avremmo delle IgE; se
abbiamo una catena pesante α, delle IgA e, infine, se abbiamo una catena pesante E delle IgB).
Di catene leggere, invece, ne esistono solo 2 tipi K o lamda: a differenza delle catene pesanti, il fatto che ci
sia una o l’altra catena leggera non cambia nulla dal punto di vista funzionale.
Ogni catena che costituisce la struttura base dell’anticorpo è costituita da regioni di 110 aminoacidi,
chiamate domini. Alle estremità ammino-terminali (nella parte esterna della Y), abbiamo la presenza di 1
dominio variabile che darà la specificità. Questa è la parte dell’anticorpo che varia da anticorpo a anticorpo.
(Ogni anticorpo è infatti specifico solo per un determinato epitopo).
Le due catene in quel punto formeranno il sito di legame per l’antigene. Ogni anticorpo, quindi, può
riconoscere due epitopi, ma sempre dello stesso tipo!
(Ogni anticorpo, infatti, è sempre specifico per un particolare
antigene: riconosce due epitopi, poiché presenta due braccia in
cui si ha una catena variabile, ma i due epitopi sono uguali).
Ci sono poi dei domini costanti, che non cambiano. La
catena leggera è formata, come già detto, da un solo
dominio variabile e da uno costante. Quella pesante, invece,
presenta un solo dominio variabile e poi può raggiungere
fino a 3 - 4 domini costanti.
Un altro aspetto fondamentale nella struttura degli anticorpi è
la cosiddetta zona o regione “a cerniera”. A volte accade,
infatti, che tra la I e la II regione costante delle catene
pesanti si abbia una regione a cerniera: questa favorisce il
movimento delle due braccia dell’anticorpo. Questo è importantissimo perché favorirà il legame
dell’anticorpo agli epitopi presenti sul patogeno; è un po’ come se, nel punto a cerniera, l’anticorpo
potesse calibrare l’apertura della tasca per l’epitopo, in modo da raggiungere la massima compatibilità
possibile col determinante antigenico.

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Un’altra importante nozione riguarda l’interno delle regioni variabili. Esistono, in questi punti, delle regioni
di ipervariabilità (CDR) dove è concentrata la maggior parte delle differenze di sequenza tra le diverse
molecole di anticorpo: queste sono proprio le porzioni che stringono i veri e propri legami con l’antigene.
Ogni volta che si ha un nuovo contatto con l’antigene, sono proprio queste parti che si vanno a modificare,
per divenire sempre più affini. I legami non sono legami forti, ma legami con le forze di Van Der Waals.

Attivazione dei linfociti B


Quando i microbi hanno superato la prima linea difensiva raggiungono i linfonodi dove risiedono i linfociti
B vergini e qui avviene l’interazione tra il BCR e la molecola microbica. L’attivazione comporta nei
linfociti B uno stimolo proliferative che induce un doppio effetto in quanto il linfocita B può differenziarsi
in plasmacellule che è la cellula che sintetizza e secerne le immunoglobuline o anticorpi ovvero in linfocita
della memoria che presiederà alla risposta secondaria.
I linfociti B riconoscono tramite il loro BCR sia antigeni di natura proteica e sia quelli di natura
polisaccaridica e lipidica. La risposta agli antigeni proteici da parte dei linfociti B avviene solo se è seguita
da una seconda stimolazione effettuata dalle citochine (IL-2, IL-4, IL-5, IL-6) sintetizzate e secrete dai
linfociti T helper (CD4+). Per tale ragione gli antigeni proteici sono considerati antigeni T-dipendenti, a
differenza di quelli polisaccaridici e lipidici, che sono detti antigeni T-indipendenti perchè capaci di indurre
la formazione di anticorpi senza l’intervento dei linfociti T. Gli antigeni proteici, riconosciuti dai linfociti B,
sono da questi interna lizzati in vescicole citoplasmatiche e processati (digeriti). I peptidi che originano dalla
processazione (epitopi) vengono complessati a molecole del MHC di II classe ed espressi sulla superficie
cellulare, fenomeno che consente il riconoscimento di essi da parte dei linfociti T CD4+ tramite il loro TCR.
Il linfocita B si comportano da APC, cioè da cellule presentanti l’antigene. Inoltre iniziano a produrre e ad
esprimere sulla loro superficie molecolare costimolatorie, dette B7 che vengono anch’esse riconosciute da
recettori di membrana dei linfociti T CD4+. Questi una volta ricevuto il doppio segnale (dall’antigene
associato alla molecola MHC di II classe e dalle molecole B7) sono stimolati a produrre citochine, in
particolare la IL-2, che stimolano i linfociti B a ruoli fermare ed a differenziarsi in plasmacellule e linfociti
della memoria.
I linfociti T helper, Inoltre, sono stimolati, oltre che dai linfociti B, anche dalle altre APC, che presentano ad
essi l’antigene in associazione a molecole MHC di II classe.

La scoperta dell’anticorpo
Ma gli scienziati come hanno fatto a capire quali erano le parti che legavano l’antigene e quali davano le
proprietà effettrici dell’anticorpo? Nel 1962 Porter ha preso degli anticorpi e li hanno trattati con degli
enzimi (papaina o pepsina), che tagliavano queste molecole in punti precisi e si sapevano quali erano i
frammenti che si formavano. La papaina taglia gli anticorpi sopra la zona cerniera, determinando la
formazione di 3 frammenti: due frammenti Fab (che è stato dimostrato essere i due frammenti che legano
l’antigene) e un frammento costituito prevalentemente dalla parte costante dalle catene pesanti, detto
frammento Fc o frammento cristallizzabile (si è visto che era la parte dell’anticorpo con meccanismo
effettore).
La parte variabile Fab differisce, ovviamente, nei diversi anticorpi; la struttura molecolare degli epitopi si
adatta al sito di legame nella parte Fab dell’anticorpo proprio come una chiave nella serratura. I legami che
si vengono a formare non sono mai forti (covalenti), ma deboli (Van Der Waals).
Gli anticorpi possono esistere come recettori di linfociti B, ma anche (come sappiamo) sotto forma di
molecole secrete dalle plasmacellule, nella fase effettrice. Che cosa differenzia i due tipi di anticorpo? Sono
identici per struttura e per specificità: si differenziano perché quelli che devono funzionare da recettori
verranno dotati, al momento della loro sintesi, di un piccolo segmento, che vincola gli anticorpi alla
superficie dei linfociti B. Quando, invece, il linfocita B è stato attivato e diventa plasmacellula, questo
segmento non viene più attaccato, ma addirittura viene attaccato un piccolo frammento che consente
l’attraversamento della membrana cellulare e, dunque, la secrezione di anticorpi negli spazi interstiziali e nel
sangue.

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Quando l’anticorpo deve funzionare da recettore, viene sommata alla parte terminale dell’anticorpo sulla
membrana dell’anticorpo e funziona da recettore. Altre molecole come le IgB e le IgA(Alfa), inviano un
segnale di attivazione all’interno della cellula in quanto l’anticorpo ha delle estremità interne alla cellula
molto corte.
Come già detto, in funzione della struttura delle regioni costanti (C) delle catena pesante si differenziano 5
classi di isotipi prodotti dai linfociti B:
Monomerica, secreti come forma base sopracitata.
Polimerica, secreti in forme polimerica, costituiti da più basi, formato di dimeri o trimeri.
1. IgG, secreta in forma monomerica
2. IgD, secreta in forma monomerica
3. IgE, secreta in forma monomerica
4. IgA, secreta in forma polimerica (quasi sempre in forma di dimeri o trimeri: significa che si
assoceranno almeno 2 o 3 unità base)
5. IgM, secreta in forma polimerica (quasi sempre formato da 5 unità base ripetute).

IgM
Sono i primi a comparire nel sangue, in risposta ad antigeni: è l’isotipo
predominante nella risposta primaria. Hanno un potere agglutinante,
possiedono la capacità di attivare il complemento e, essendo anticorpi di
grandi dimensioni, non attraversano la placenta (non hanno, quindi,
funzione di immunità passiva per il feto). Gli IgM sono particolarmente
attivi contro un gran numero di batteri Gram-negativi e possono anche
neutralizzare agenti virali, prima che questi penetrino all’interno delle
cellule. Possono riconoscere 10 epitopi uguali. A causa delle loro
dimensioni si trovano prevalentemente nel siero

IgG
Sono coinvolti nella risposta umorale secondarie (rappresentano il 70% delle Ig sieriche). Sono gli anticorpi
più prodotti, durante il secondo o terzo contatto con l’antigene
derivante dalla memoria.
Gli IgG possono opsonizzare, neutralizzare microbi e tossine in quanto se legano
al microrganismo esponendo il complemento sulla superficie dando la possibilità
di attivare i macrofagi, attivare il complemento per via classica e attraversare la
placenta: questi danno, quindi, la immunità innata al feto.
L’IgG, a causa delle sue piccole dimensioni, può facilmente lasciare il torrente
circolatorio ed installarsi a livello tissutale dove svolge un importante ruolo di
difesa.
Nelle IgG, esistono 4 sottoclassi: le IgG1, le IgG2, le IgG3 e le IgG4; queste differiscono soprattutto per
la sequenza amminoacidica a livello della
cerniera (la IgG4 non può attivare il complemento).

Nella fase iniziare della risposta primaria di ha il rilascio di antigeni quali IgM, dopo
nella risposta secondaria di ha il rilascio di IgG che sono più specifici e danno una
risposta più rapida e numerosa.

IgA
Sono Ig dimeriche. Vengono sintetizzate dai linfociti B dei tessuti linfoidi associati alle
mucose. Sono presenti nelle secrezioni, nel latte, nella saliva, nelle lacrime, ecc.
Impediscono, infatti, l’aderenza di microrganismi infatti si ritrovano a livello della
saliva, impedendo quindi una risposta batterica e virale. Presentano, invece, una scarsa
attività opsonizzante e una scarsa attivazione del complemento. Anche nelle IgA, sono
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state riconosciute due sottoclassi, le IgA1 (presenti prevalentemente nel plasma in forma monomerici o
dimerica) e le IgA2 (sempre dimeriche, presenti nelle secrezioni ghiandolari e anche sulla superficie delle
mucose dov'è hanno il compito di incrementare la struttura difensiva della prima linea di difesa).
Attivazione del complemento per via alternativa. Una volta secrete dalle plasmacellule che le hanno
sintetizzate, le IgA vengono captate da un recettore espresso sul lato basale dalle cellule epiteliali che
rivestono le mucose, questo rimane adeso ad esse costituendo il frammento secretorio, che si posiziona in
vicinanza del frammento J. Le IgA così capitate sono trasportate attraverso il citoplasma fino al lato
luminale delle cellule mucosale dove vanno incontro ad un duplice destino in quando un’aliquota di esse
viene liberata con le secrezioni mentre l’altra aliquota rimane adesca alla superficie.
Viè è una componente di transitosi che permette l’attraversamento delle cellule.

IgE
Vengono prodotte in casi di infezioni da parassiti, in particolare le parassitosi da elminti
(vermi), favorendo l’attività citotossica degli eosinofili: questi, infatti, sono in grado di
ledere la superficie di questi parassiti.
Quindi, le IgE riconoscono il parassita e favoriscono l’attività citotossica da parte dei
granulociti eosinofili. Le IgE vengono prodotte, erroneamente, anche nel caso di un
soggetto allergico. Per esempio, se si ha un contatto col polline, una parte delle IgE
andranno a legarsi col polline, distruggendolo, ma una parte andrà a legarsi a dei
mastociti. Dunque, quando si avrà un secondo contatto con l’allergene, il polline verrà immediatamente
riconosciuto da queste IgE dei mastociti, si legherà sulla superficie del mastocita e quest’ultimo eseguirà
il suo lavoro, ossia degranula: butta fuori il contenuto dei granuli, ricchi di istamina, instaurando un
processo infiammatorio locale. Un altra parte della popolazione che può essere colpita da infezione di
elminti sono i bambini che giocando per terra possono far sviluppare l’infestazione di vermi

IgD
Funzionano soprattutto come recettori per i linfociti B (come le IgM quando
funzionano da elementi monomerici come recettori). Il ruolo non è molto chiarito.
Gli anticorpi sono quindi importanti per la neutralizzazione dei microbi e delle
tossine. La presenza degli anticorpi sulle mucose, ad esempio, favorisce la
neutralizzazione dei vari microbi presenti all’interno di esse. Abbiamo inoltre una
neutralizzazione dei microbi rilasciati dalle cellule tessutali infettate nel nostro
organismo. Un’altra attività è quella non solo di bloccare ma anche di evitare
l’effetto tossico delle tossine.

Reazione delle immunoglobuline con i rispettivi antigeni


Nel caso degli antigeni solubili, la reazione con l’anticorpo comporta la formazione di immunocomplessi
risultati dall’unione dei due tipi di molecole che partecipano alla reazione. Questi quando raggiungono una
certa dimensione risultano insolubili, con la seguente precipitazione sul fondo della provetta (reazione di
precipitazione).
Nel caso degli antigeni insolubili cioè espressi sulla superficie di particelle che restano sospese nel mezzo
liquido in cui sono presenti (es. cellule di vario tipo comprese quelle microbiche), l’unione con gli specifici
anticorpi comporta la formazione di aggregati, apprezzabili molte volte anche ad occhio nudo. Si tratta della
reazione di agglutinazione perchè le particelle aderiscono tra loco con l’intermediazione delle specifiche
immunoglobuline che formano ponti di connessione a mezzo dei loro frammenti Fab, di cui uno si connette
con un antigene superficiale di una particella e l’altro con un antigene superficiale espresso da un’altra
particella.
Sia nel caso degli antigeni solubili che nel caso di quelli insolubili, l’unione con lo specifico anticorpo può
provocare la perdita di una o più funzioni, quali ad es. la perdita della tossicità di una tossina,
l’immobilizzazione di un batterio, la perdita della capacità infettiva di un virus, reazione di
neutralizzazione.

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Risposta anticorpale primaria e secondaria
Il primo contatto con un antigene viene definita risposta primaria, quella che successivamente consegue al
secondo, ed eventualmente ad ulteriori conttati con lo stesso antigene, viene detta risposta secondaria.
Quest’ultima è sempre di maggiore durata e più intensa della risposta primaria.
Nel caso dei linfociti B, prima che la risposta immunitaria verso gli invasori si concretizzi, è necessario che
essi si differenziano in plasmacellule, produttrici degli anticorpi capaci di interagire con gli antigeni
microbici ed in linfociti della memoria, i quali a differenza dei linfociti vergini hanno una vita molto più
lunga. Nel contempo, i linfociti T CD4+ attivati partecipano alla cooperazione T-B e si differenziano
anch’essi in linfociti della memoria dalla lunga vita.
La risposta secondaria diventa apprezzabile nell’organismo circa una settimana dopo la stimolazione
antigeni a esercitata da microbi invasori, o dall’introduzione di un qualsiasi vaccino con la presenza nel
sangue di IgM specifiche, la cui concentrazione aumentata gradualmente raggiunge il picco alla fine della
settimana successiva, per poi declinare lentamente.
La risposta secondaria che è evocata esclusivamente dalla successiva penetrazione nell’organismo dello
stesso antigene che in precedenza aveva indotto una risposta primaria, inizia rapidissimamente ed è
caratterizzata da una scarsissima produzione di IgM e da un più sostenuto aumento della concetrnazione nel
sangue di specifiche IgG.

Come si misurano gli anticorpi nel siero?


Viene preso un campione di siero, diluito in più provette, sempre di
più, per avere una scala di diluizione variabile da maggiore a minore.
Inseriamo poi degli antigeni all’interno delle provette. Se c’è reazione
da parte degli anticorpi presenti nel siero si formerà un legame
antigene – anticorpo, che genererà un corpo di fondo. L’ultima
provetta più diluita dove si vede questo corpo di fondo rappresenta il
valore del titolo. La misura (o titolo) è l'inverso della più bassa
concentrazione (o della più alta diluizione) del siero del paziente che
mantiene attività rilevabile nei confronti di un antigene noto. In altre
parole, il titolo è la più bassa concentrazione di siero che ha ancora
attività antigenica rilevabile. Nel caso della figura, il titolo è 128.

2- Recettore per i linfociti T (TCR)


Adesso che abbiamo appena analizzato gli anticorpi, andiamo a vedere più nello specifico, invece, i TCR.
Esiste soltanto come forma di recettore (non esiste come forma solubile, come negli anticorpi) ed è sempre
legato alla membrana dei linfociti T. Il TCR è diverso dal
BCR in quanto ha la capacità di riconoscere esclusivamente
peptidi derivati da antigeni proteici, esposti dalle cellule in
associazione a molecole MHC (restrizione MHC). Ciò
comporta che per essere riconosciuti dai linfociti T, gli
antigeni proteici debbono prima essere fagocitati, processati
(digeriti) da cellule definite APC (antigen presenting cell) in
modo che i peptidi da essi derivati e funzionanti da epitopi,
possono essere esposti ai TCR dei linfociti T in associazione
a molecole MHC. I TCR sono etero dimeri, cioè molecole
costituite da due catene peptidiche, che possono essere
presenti in due coppie diverse: α e β nella maggior parte dei
linfociti T e γ e δ in una piccola sotto popolazione che
rappresenta circa il 10% di tutti i linfociti T. E’ composto da
due catene polipeptidiche: una catena α e una catena β. Come per gli anticorpi, il TCR è costituito da due
regioni di tipo variabile (che saranno le due regioni in grado di riconoscere il peptide antigenico quando gli

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viene presentato). Sia sulla alfa che sulla beta abbiamo una regione costante, una parte transmembrana e una
piccola coda citoplasmatica.
Il TCR è un vero e proprio complesso recettoriale. Anche il TCR, come gli anticorpi, ha una breve coda: da
solo, quindi, non riesce a trasdurre il segnale dentro le cellule, motivo per il quale va associato ad alcune
proteine (il complesso CD3), che vengono fosforilate quando il TCR viene legato, permettendo così la
trasduzione del segnale all’interno della cellula.
La selezione clonare induce il fenomeno della tolleranza immunitaria in quanto porta alla scomparsa dei
linfociti T autoreattivi ed è quindi responsabile della capacità del sistema immunitario di discriminazione tra
il proprio (self) ed il non proprio (non self).
Esistono, però, due famiglie di linfociti T (i vari linfociti, infatti, presentano diverse proteine del complesso
recettoriale): i citotossici (T-CD8, che si chiamano così perché, associato al recettore, su questi linfociti
troviamo un molecola, importante per il legame col recettore, chiamata proprio CD8) e gli helper (T-CD4,
che hanno, come molecola associata al recettore, il CD4).
Importante ricordare come quest’ultimo recettore (CD4) possa
riconoscere dei peptidi antigenici soltanto quando sono inseriti nella
tasca del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che si
trova sulla cellula che presenta il peptide antigenico.
Quindi, ripetendo, com’è che funziona il riconoscimento del
complesso MHC-peptide da parte di un TCR? Gli antigeni vengono
catturati dalle APC (cellule presentanti gli antigeni), la cui funzione è
proprio quella di esporre peptidi derivanti da antigeni proteici. Una
volta esposti, i peptidi si legano alle molecole MHC: una volta
avvenuto questo legame, il TCR del
linfocita T riconosce alcuni residui del peptide e alcuni residui
dell’MHC stessa, dando vita alla risposta immunitaria.
Come è possibile vedere dalla foto a destra (una semplificazione estrema del processo), il peptide
(quel cubetto marroncino) legatosi al sito dell’MHC, si lega poi anche al TCR (che lega anche l’MHC),
dando vita alla risposta immunitaria.

APC: Le cellule che presentano l’antigene


Come già detto, esistono alcune cellule che aiutano il linfocita T a riconoscere l’antigene. Queste sono le
cellule APC “professioniste”, le quali presentano ai linfociti T l’antigene associato alle molecole MHC II.
Ne sono un esempio le cellule dendritiche, le più efficaci nello svolgere questo meccanismo.
Queste, per esempio, hanno una forma stellata e si trovano sotto l’epidermide. Esse captano il patogeno, lo
fagocitano, lo digeriscono e lo riducono in piccoli pezzettini, che vengono esposti nel complesso di
istocompatibilità. Tutto questo processo viene svolto a livello dell’epidermide; poi queste cellule migrano
nei linfonodi o nella milza, per il riconoscimento e l’attivazione della risposta specifica. Le cellule
dendritiche, oltre alla capacità di presentare il peptide antigenico, danno il secondo segnale di attivazione
per i linfociti T.
Altre cellule sono i monociti macrofagi (a livello tissutale) e i linfociti B. Questi ultimi, quindi, hanno un
doppio ruolo: attivano le risposte umorali e, allo stesso tempo, attivano anche i linfociti T, fungendo da
APC.

Le due tipologie di MCH: MHC-I e MHC-II


Se pensiamo che esistono due sottopopolazioni di linfociti T (CD4 e CD8), sarà ovvio capire come siano
presenti, dunque, anche due differenti MHC (I e II tipo).
La prima classe dell’MHC ha la funzione di attivare i linfociti T-citotossici (CD8), che riconoscono le
cellule infettate da virus (cellule nucleate) e le uccidono: tutte le cellule nucleate, quindi, potenzialmente
possono essere uccise da un CD8. Tutte le cellule nucleate, infatti, esprimono il complesso maggiore di
istocompatibilità di classe prima.

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Viceversa, i linfociti T-CD4, che sono invece i coordinatori delle infezioni (scelgono la risposta più adatta al
particolare patogeno, liberando determinate citochine, piuttosto che altre), non possono essere attivati
indiscriminatamente da tutte le cellule nucleate, ma necessitano delle APC professioniste, che si dovranno
prima associare ad un MHC di classe due.
Ovviamente, anche le APC, in caso di necessità (se tipo sono state infettate) possono legarsi anche all’MHC
di classe 1, producendo così i CD8, per essere uccise.

Ma cos’è questo MHC? L’MHC è il locus, dove troviamo tanti geni che codificano per le molecole di
questo complesso, che ha come prima funzione quella di presentare l’antigene ai linfociti T. Gli MHC
dell’uomo sono anche chiamati HLA (antigeni leucocitari umani), perché identificati per la prima volta nel
sangue. Questi MHC sono costituiti da geni estremamente polimorfici (hanno più forme: esistono, nella
popolazione, una grande quantità di forme alleliche; ognuno di noi ha una diversa forma allelica di MHC.
Se fossimo 1000 in una stessa stanza, sarebbe ancora difficile trovare due individui con lo stesso MHC).
E’ l’associazione dell’antigene con il tipo di MHC (classe I o II) che determina il tipo di linfocita T
coinvolto nella risposta immunitaria (cioè o CD8 o CD4).
I geni MHC sono espressi in ogni individuo in maniera codominante. Ma perché è importante questo fatto
che vengano espressi in maniera codominante? Per aumentare le possibilità di poter presentare una più
vasta gamma di peptidi antigenici. Il polimorfismo stesso, infatti, garantisce la sopravvivenza della specie:
se arriva un virus stranissimo e modificato, grazie all’enorme variabilità genetica, è possibile che una
persona in tutto il mondo abbia la capacità di attivare il suo sistema immunitario e sopravvivere alla
pandemia. Ogni individuo possiede un patrimonio di molecole di MHC che sono derivate metà dal padre e
metà dalla madre e espressi tutti su una stessa cellula.
L’insieme di tutte queste molecole è definito aplotipo.
Abbiamo detto che l’MHC è un locus in cui si trovano diversi geni.
Dell’MHC-I esistono 3 geni diversi: HLA-A; HLA-B; HLA-C. Ogni individuo, quindi, manifesterà 2 HLA-
A; 2 HLA-B; 2 HLA-C (2, perché una deriva dal padre e una dalla madre ed entrambe vengono espresse).
Quindi, sulle cellule nucleate, in tutto, troveremo 6 molecole di MHC-I (ossia 2 HLA-A; 2 HLA-B e 2
HLA-C).
Dell’MHC-II esistono altri 3 geni diversi: HLA-DP; HLA-DQ; HLA-DR. Ogni individuo, quindi,
manifesterà 2 HLA-DP; 2 HLA-DQ; 2 HLA-DR. E’ stato scoperto, nel caso dell’MHC-II, che le molecole
che si possono venire a formare sono più di 6, perché può accadere che, per la loro struttura, ci sia uno
scambio genetico durante la sintesi di catene.

Struttura delle MHC I (presente su tutte le cellule nucleate) Anche in questo caso abbiamo 2 catene
polipeptidiche. Una catena α e una β (beta2microglobulina). L’unica
funzione di questa proteina è quella di stabilizzare la struttura della
catena alfa, responsabile della tasca che accoglierà il peptide
antigenico. Questa è costituita, come al solito, da dei domini: un
dominio-α-1 e un dominio-α-2 (nella parte esterna, ammino-
terminale: parte variabile, che lega il peptide antigenico), che
cambia ed è, quindi, polimorfica; poi abbiamo un dominio-α-3, che
è costante: questo è estremamente importante, poiché viene
riconosciuto dal recettore dei linfociti T; il CD8, a questo punto, va
a legarsi all’α-3.

Struttura delle MHC II (sono


presenti solo sulle cellule APC)
Anche in questo caso abbiamo due catene polipeptidiche α e β ma,
a differenza di prima, entrambe le catene hanno il proprio gene a

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livello del locus ed entrambe partecipano al dominio della formazione della tasca. Come sempre, la parte
polimorfica accoglie il peptide antigenico.
Sia in catena α che β abbiamo, poi, domini costanti non polimorfici. Il dominio riconosciuto dal CD4,
qui, è il β-2: quest’ultimo, quindi, si unirà al CD4, nel momento del legame, favorendo l’attivazione del
linfocita CD4.

Ricorda: le molecole MCH-I ed MCH-II completamente assemblate sono degli eterotrimeri, composti da:
1. Una catena alfa
2. Una catena beta
3. Il peptide antigenico nella tasca

Meccanismi effettori dell’Immunità cellulo-mediata


Una volta attivati i linfociti T tramite tutta questa fase di riconoscimento, a quali eventi andiamo incontro?
Per quanto riguarda i linfociti CD8, sono particolarmente efficienti per eliminare cellule infettate da virus e
cellule tumorali. In molti casi è comunque richiesto l’aiuto dei CD4. Questi linfociti uccidono le cellule
attraverso diverse fasi:
1. Riconoscimento della cellula bersaglio
2. Attivazione del linfocita T citotossico (riorganizzazione dei granuli tossici interni, che vengono
indirizzate verso la cellula bersaglio). E’ detto “bacio mortale”.
3. Liberazione dei granuli letali verso la cellula bersaglio. E’ detto “colpo letale”.
4. Distacco tra la cellula bersaglio e il LTC (linfocita T citotossico).
Per quanto riguarda i linfociti CD4, invece, iniziamo con il dire che dividiamo i linfociti T helper in Th1 e
Th2, che si diversificano per le citochine che producono, ossia i mediatori solubili che producono.
I linfociti Th-1 producono citochine pro infiammatorie, che stimolano il processo infiammatorio. In
particolare questi linfociti producono un’importante citochina (l’interferone-gamma, che attiva i macrofagi
che hanno fagocitato il patogeno, rendendoli più aggressivi).
I linfociti Th-2 sono caratterizzati da altri tipi di citochine, che vanno a stimolare le risposte di tipo
umorale, ossia la produzione di anticorpi. Non attivano quindi i macrofagi. Producono anzi una citochina
che blocca i Th1. Sono coinvolti infine nella risposta alle allergie, poiché inducono un cambiamento di
classe degli anticorpi prodotti: vengono prodotte le IgE, al posto delle IgM. Una volta attivati, i macrofagi
hanno diverse funzioni:
1. Uccisione di patogeni, mediante fagocitosi e azione di enzimi contenuti nei lisosomi e specie
radicaliche (NO e ROS)
2. Secrezione di citochine
3. Aumentata espressione di molecole MHC
4. Macrofagi attivati e neutrofili

L’infiammazione
L’infiammazione o flogosi è un processo morboso (risultato dell’associazione di più fenomeni morbosi)
che si manifesta negli organismi forniti di un sistema circolatorio, come meccanismo di difesa contro
l’aggressione da parte di qualsiasi agente dannoso. E’ la risposta di un tessuto vivente e vascolarizzato ad
un danno subito. Un’azione dannosa comporta la produzione di mediatori chimici, che agiscono sul
microcircolo, facendo in modo che questo venga alterato. Dal microcircolo fuoriescono poi delle sostanze,
contenute nel plasma, che formeranno una raccolta negli spazi extracellulari, chiamata essudato. Questo
servirà a far fronte al danno, per ripararlo e ripristinare la situazione precedente all’evento lesivo. E’ una
reazione preferenziale te locale ma non solo in quanto tutt'e le volte che l’intensità della risposta
infiammatoria locale supera una certa soglia si rendono manifesti alcuni fenomeni, definiti manifestazioni
sistemiche della flogosi, causati da diverse molecole, sintetizzate e rilasciate nel sangue dalle cellule che

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rispondono all’azione lesiva, le quali agiscono su organi anatomicamente distanti. Ma di che natura
possono essere questi agenti dannosi?
1. Agenti fisici, come radiazioni, tagli o contusioni.
2. Agenti chimici, come acidi e sostanze tossiche.
3. Agenti infettivi e tossine microbiche.
4. Necrosi tissutali (qualsiasi causa), ossia la morte a livello dei tessuti.
5. Corpi estranei, come una spina di rosa, un punto di sutura.
6. Reazioni immunitarie.
L’infiammazione dura tutto il tempo necessario per eliminare la causa e riparare il tessuto danneggiato. Mira
a distruggere e confinare l’agente lesivo e, contemporaneamente, a riparare il tessuto. La risposta però se
perdura nel tempo può generare una fonte di ulteriore danno che si ripercuote sull’intero organismo
(malattie infiammatorie). Si tratta di un risposta con significato difensivo. In genere ne distinguiamo due
tipi:
1. Infiammazione (o flogosi) acuta: è una risposta stereotipata (sempre identica, qualsiasi sia la causa),
di tipologia innata, aspecifica. Ha una durata abbastanza breve: parte immediatamente e dura alcuni
giorni. E’ caratterizzata da modificazioni di fenomeni vascolo-ematici; è coinvolto soprattutto il
microcircolo (arteriole, venule e capillari). Questa infiammazione dà sempre essudato, costituito da
liquido, proteine plasmatiche e leucociti (in particolare i granulociti neutrofili) che migrano nei
tessuti.
2. Infiammazione (o flogosi) cronica: è di lunga durata (può durare mesi o anni). La risposta vascolare
è praticamente assente (cioè non viene toccato il microcircolo); abbiamo, invece, la comparsa e
presenza di linfociti macrofagi e un grande sistema di riparazione del danno (neo angiogenesi e
deposito di tessuto connettivo, al fine di ricreare il tessuto leso).

La flogosi acuta o angioflogosi


L’infiammazione rappresenta la reazione di un tessuto e del suo microcircolo a un insulto patogenetico. Essa
è caratterizzata dalla generazione di mediatori dell’infiammazione e dal movimento di liquido e leucociti dal
sangue ai tessuti extravascolari. Diverse caratterizzano l’infiammazione:
1. Iniziazione. Abbiamo il danno e la stimolazione da parte del danno, che provoca i cambiamenti del
microcircolo e la migrazione di globuli bianchi nella sede del danno.
2. Amplificazione. I mediatori solubili vengono prodotti e aumentati di numero Questi mediatori, poi,
amplificano anche la risposta infiammatoria.
3. Terminazione, accompagnata da un’inibizione della produzione dei mediatori chimici, per bloccare
la risposta dell’organismo, una volta che l’infiammazione non serve più.
Per i processi infiammatori si usa la desinenza “-ite”; si prendono i prefissi anatomici e si aggiunge la
desinenza. Per esempio, l’infiammazione di un’arteria, sarà un’arterite. Le infiammazioni, poi, possono
essere:
1. A focolaio, ossia in un’unica area
2. Multifocale, cioè con più focolai distribuiti in parti diverse nel nostro organismo, con ogni focolaio
separato dall’altro
3. Diffusa, quando l’infiammazione coinvolge tutto il tessuto: è, quindi, generalizzata su tutto l’organo.
L’infiammazione acuta è caratterizzata da alcuni segni cardinali che si presentano sempre:
1. Rossore (rubor)
2. Tumefazione (tumor)
3. Calore (calor)
4. Dolore (dolor)
5. Perdita della funzionalità (functio laesa)
Questi segni clinici si manifestano perché i mediatori chimici vanno ad alterare il microcircolo. Il rossore lo
abbiamo perché i vasi si dilatano e, quindi, arriva più sangue. L’aumento del flusso sanguigno, poi, provoca
l’aumento della temperatura, poiché il sangue è sempre più caldo della superficie corporea. Il gonfiore (o
edema infiammatorio) viene determinato dai mediatori solubili, che vanno infatti a modificare anche la
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permeabilità dell’endotelio vascolare, provocando quindi una fuoriuscita di liquido dai vasi. L’ultimo segno
è il dolore: la pressione del liquido fuori dai vasi determina, poi, dolore. In più, vengono prodotti, in risposta
all’agente dannoso, dei mediatori chiamati algogeni (che generano il dolore).

Quindi, l’infiammazione è un continuum di cambiamenti. La flogosi acuta può andare incontro a


risoluzione, se l’agente dannoso viene bloccato e si ha un ripristino delle condizioni iniziali pre flogosi.
Questa risoluzione può essere, a seconda dell’entità del danno, o con cicatrizzazione (in cui la funzione
dell’organo potrà risultare compromessa, anche dopo la fine dell’infiammazione) oppure senza
cicatrizzazione, in cui l’organo riprende la piena funzionalità.
Specialmente, se l’infiammazione è determinata dai cosiddetti batteri tiogeni, si viene a formare pus: questi
infatti, richiamano localmente grandi quantità di granulociti neutrofili che muoiono e formano il pus.
L’infiammazione, se invece non riesce ad eliminare l’agente danneggiate, diviene prima cronica attiva e,
dopodiché, del tutto cronica. Mentre nell’infiammazione acuta abbiamo soprattutto la presenza di
leucociti polimorfonucleati, nell’infiammazione cronica troviamo plasmacellule, linfociti e macrofagi
(l‘infiammazione cronica, infatti, non coinvolge mai il microcircolo). La flogosi acuta, per il fatto che
coinvolge il microcircolo, viene detta angioflogosi, mentre la cronica (che non coinvolge il
microcircolo), viene chiamata istoflogosi.

Durante l’infiammazione acuta, se viene risolta la causa che l’ha generata, si passa quindi subito alla
risoluzione dell’infiammazione con un recupero totale del tessuto o organo colpito, si ha quindi un
continuum. Se invece le cellule colpite non hanno la caratteristica di generarsi, la risoluzione avverrà con
una sostituzione con del connettivo e quindi una cicatrice della parte colpita, non si ha quindi un continuum.
Altrimenti si ha quindi una immunità specifica con una fase di infiammazione cronica, vengono coinvolti
altri tipi cellulari.
Oppure si può avere una infiammazione acuta, quando è data da alcuni tipi di batteri (biogeni, generatori di
pus) che genera un ascesso. I linfociti neutrofili escono dal circolo per combattere l’agente che ha generato
l’infezione. I linfociti granulociti neutrofili morti si raccolgono formando un ascesso. L’ascesso di fatto è
una raccolta di questo pus che può raccogliersi in uno spazio nuovo o raccogliere in una cavità preformata.
Anche l’ascesso può andare incontro ad una risoluzione qualora venga svuotato e la formazione di una
cicatrizzazione dello spazio creato che viene ripristinato con la formazione di connettivo.

Fase di iniziazione
Si ha il riconoscimento molecolare degli agenti patogeni cioè di molecole esogene o di costituenti endogeni
alterati. Al riconoscimento di questi presiedono:
A. Le cellule dell’immunità innata (monociti/macrofagi, PMN, cellule NK e cellule accessorie), tramite
diversi recettori espressi sulla loro membrana che riconoscono raggruppamenti molecolari presenti
nei microorganismi e nei tessuti alterati. Questi trasducono un segnale che attraverso diverse viè
raggiungono il nucleo, modulando nel DNA la trascrizione di diversi geni. In particolare vengono
attivati quei geni che codificano per molecole coinvolte nel processo di fagocitosi e quelli che
codificano per citochine.
B. Diverse molecole plasmatiche che fungono anch’esse da recettori solubili perchè in grado di
riconoscere strutture molecolari esibite dagli agenti infiammatori e dai tessuti danneggiati e di
interagire con esse.

Nell’infiammazione acuta abbiamo la cosiddetta triplice risposta:


1. Vasocostrizione transitoria delle arteriole (pochi secondi) che non gioca alcun ruolo significativo;
2. Vasodilatazione delle arteriole pre-capillari, che provoca un aumento della quantità di sangue che
arriva alle arteriole
3. Iperemia attiva, cioè arriva più sangue dovuto alla dilatazione della parete artiolare, al rilassamento
delle venule ed al cedimento degli sfinteri pre capillari che immette sangue in capillari
fisiologicamente chiusi

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4. Iperemia passiva, subentra a quella attiva, rallentamento della velocità del sangue nel micro circolo
che può culminare nella stasi. Ciò avviene per causa dell’aumento:
5. Stasi del sangue (il sangue rallenta la sua velocità, per favorire la fuoriuscita dei globuli bianchi, che
devono combattere l’agente dannoso) e marginazione, con un aumento della permeabilità
endoteliale, che provoca, come già detto, la formazione dell’essudato e la fuoriuscita di linfociti
secondo gradiente chimico, che si dirigeranno verso il focolaio infiammatorio (chemiotassi).
Ma da cosa sono date queste alterazioni?
Questi eventi descritti sono determinati da alcuni mediatori chimici, come già detto:
1. Vasocostrizione, ha un’origine neurogena
2. Vasodilatazione, dovuta dal rilassamento delle fibrocellule muscolari liscie e generata dall’istamina,
prodotta dai mastociti, ossia cellule derivanti dai granulociti basofili del sangue che, passati nei
tessuti, divengono mastociti. Queste cellule rilasciano istamina, ma anche altri mediatori come le
prostaglandine E.
3. Permeabilità, favorita sempre dall’istamina, dai leucotrieni (derivati dell’acido arachidonico) e dalla
bradichinina. Tutte queste sostanze causano la contrazione delle cellule endoteliali, aumentando la
distanza fra le cellule, aprendo delle finestrelle attraverso le quali le varie sostanze possono passare.
Sulla permeabilità vanno ad agire anche i pezzettini rilasciati dall’attivazione del complemento, ossia
C5a e C3a.
4. Diminuzione della velocità, causata dalla vasodilatazione nell’area
5. Marti azione dei leucociti lungo le pareti vasali, la diminuzione del flusso provoca il contatto tra
l’endotelio e le WBC, grazie ad un aumento del numero delle molecole di adesina
6. Formazione dell’Essudato, la raccolta fuori dal vaso di tutti questi prodotti chimici.

Regolazione della permeabilità vascolare


La regolazione della permeabilità vascolare è influenzata dalla cosiddetta Legge di Starling: “lo scambio di
liquidi tra i compartimenti vascolari ed extra-vascolari è il risultato di un equilibrio di forza che drenano
liquido dentro lo spazio vascolare o fuori verso i tessuti”.
La pressione idrostatica del sangue è quella pressione derivante dalla sistole (contrazione) del ventricolo,
che spinge il sangue verso le parete dei vasi. Questa pressione è contrastata dalla pressione oncotica (o
colloido-osmotica), dovuta dalla presenza di proteine plasmatica che rimangono all’interno del sangue e che
non possono fuoriuscire. Questo quindi provoca una concentrazione nel sangue di proteine che per tanto
richiameranno plasma all’interno del vaso. Il risultato netto è un continuo movimento di fluido attraverso le
arteriole pre-capillari, dal compartimento intravascolare ai tessuti dove esso è trasportato via dai vasi
linfatici o riassorbito nelle venule postcapillari.
Ma se abbiamo un processo infiammatorio, cosa accade? Aumenta la quantità di sangue che arriva, quindi
aumenta la pressione idrostatica (che passa da 32mmHg a 50mmHg), causata dall’iperemia, alla stasi ed
all’ostacolato drenaggio dei linfatici. Inoltre, si ha un’alterazione della permeabilità dell’endotelio, causata
dalla ridotta concentrazione delle proteine plasmatiche, che gradualmente si accumulano nel corso
dell’essudazione esterna dei vasi contribuendo all’ulteriore richiamo di acqua in quella sede, quindi, le
cellule si contraggono e si aprono degli spazi, dai quali usciranno molte proteine, riducendo la pressione
colloido-osmotica. Quindi, se aumenta la pressione idrostatica e diminuisce quella oncotica, uscirà
moltissimo liquido dal vaso, che provocherà un edema.
Quando il liquido che fuoriesce ha basso contenuto proteico (quindi, quando non si hanno alterazioni) viene
detto trasudato (con densità minore di 1015). Quando, invece, si ha un alto contenuto di proteine (densità
maggiore di 1015), si parla di edema o essudato. La differenza per cui si forma uno o l’altro ricade nella
tipologia di infiammazione e quindi dal richiamo di proteine nella zona lesionata
Con l’attivazione di tutti questi processi, cominciano ad arrivare anche tutte quelle cellule implicate nella
risposta infiammatoria acuta, come le citochine prodotte dai macrofagi locali. Tutte queste sostanze vanno a
modificare l’espressione di alcune cosiddette molecole di adesione, che tendono a

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bloccare i granulociti o i macrofagi, che arrivano
localmente, attraverso un legame recettoreligando.
Ma come avviene questo processo? Inizialmente,
abbiamo un rallentamento del flusso ematico (stasi),
le cellule si legano alle molecole di adesione e
incominciano a rotolare (rolling) sulla superficie
endoteliale. Ad un certo punto si vengono a creare
dei legami più forti e il granulocita viene bloccate
sulla superficie dell’endotelio. Infine, attraverso un
processo chiamato di diapedesi, il granulocita si
insinua tra una cellula e l’altra dell’endotelio ed entra
negli spazi interstiziali. Questo processo è detto di
“diapedesi”. Una volta nei liquido
interstiziale, il granulocita si recherà al livello del tessuto
nella zona infiammata, grazie ad un livello di concentrazione chemiotattico, dove svolgerà il proprio ruolo
di cellula di difesa. Le molecole di adesione, quindi, non sono altro che una sorta di recettori che fungono da
agganci per i granulociti.
I mediatori d’infiammazione sono quindi un gruppo di sostanze che causano la risposta infiammatoria: ne
sono un esempio le citochine, oppure l’ossido nitrico (un gas). Queste vengono prodotte da cellule che
provocano vasodilatazione, aumento della permeabilità vascolare, migrazione e chemiotassi dei leucociti.
Ciascuna ha un’unica fonte, bersaglio ed effetto. Ogni molecola ha uno specifico inibitore che ne blocca
l’effetto.

I direttori dell’infiammazione
I direttori dell’infiammazione sono i cosiddetti mediatori chimici. Questi sono un gruppo di sostanze
generate nel focolaio infiammatorio, che causano la risposta flogistica, causando vasodilatazione,
aumento della permeabilità vascolare, migrazione e chemiotassi dei leucociti. Questi mediatori sono di
varia natura, come le citochine, ma anche sostanze. Ogni molecola presenta uno specifico inibitore
che ne blocca l’effetto. I mediatori sono suddivisi in:
1. Mediatori di derivazione cellulare. Possono essere proteine preformate già preseti nei granuli
cellulari (istamina o serotonina, per esempio), fosfolipidi di membrana (come i derivati dell’acido
arachidonico, citochine), amine vasoattive (rilasciate da mastociti e piastrine)
2. Mediatori presenti come precursori inattivi nel plasma, come le proteine della cascata del
complemento (C3a, C5a) e tutte le proteine della coagulazione, la cui attivazione è iniziata dal fattore
di Hageman. Tutte queste proteine, ovviamente, sono sintetizzate dal fegato.
Ma quali sono gli effetti?
I mediatori chimici dell’infiammazione preformati:
1. Le amine vasoattive, come istamina o serotonina, producono dilatazione degli sfinteri arteriolari pre-
capillari e aumento della permeabilità venulare per contrazione delle cellule endoteliali. Le piastrine
sono normalmente attivate da un fattori cosiddetto fattore attivante le piastrine (PAF): ha moltissimi
effetti, tra cui la vasodilatazione e l’aumento della permeabilità vascolare con una forza di 100-
10.000 volte maggiore rispetto all’istamina. Il PAF serve anche ad attivare la serotonina, poiché il
PAF attiva l’aggregazione piastrinica e la serotonina si attiva dopo quest’ultima.
I mediatori chimici dell’infiammazione:
2. Derivati dell’acido arachidonico, sintetizzati dai fosfolipidi di membrana, attraverso l’attivazione di
fosfolipasi (i corticosteroidi bloccano il rilascio di acido arachidonico nelle cellule infiammatorie,
riducendo quindi l’effetto infiammatorio quando eccessivo).
Tra questi derivati troviamo i leucotrieni, che agiscono sulla muscolatura liscia, costringendo i
bronchioli e rendendo difficile la respirazione. Altri derivati sono le prostaglandine PGI2 che causa
vasodilatazione e inibisce l’aggregazione piastrinica e i trombossani A2, che favorisce

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l’aggregazione piastrinica, a seconda di quale dei due prevale si può avere risultati diversi tra chi
inibisce e chi favorisce l’aggregrazione piastrinica.
L’aspirina, inibisce i mediatori dell’infiammazione dell’enzima ciclo-ossigenasi, la via delle
prostaglandine. La via invece della 5-lipossigenasi non viene inibita e può comunque formarsi vari
tipi di leucotriene coinvolti nel broncospasmo e vasocostrizione, con un aumento della permeabilità.
Il cortisone inibisce la fosfolipasi, quindi da ciò non si avrà più la formazione dell’acido
arachidonico con la formazione delle due vie di formazione: le prostaglandine e i leucotriene.
3. Citochine, come le interleuchine (prodotte dai macrofagi), che attivano le cellule infiammatorie;
l’interleuchina 1, per esempio, cambia la regolazione corporea, provocandoci la febbre.
L’interleuchina-6, che attiva alcune cellule infiammatorie. Altre citochine sono i fattori di crescita,
che vanno ad agire a livello del midollo osseo, aumentando la produzione dei granulociti neutrofili e
macrofagi (se questi, infatti, muoiono nell’essudato, è necessario produrne di più). Le chemochine,
che stimolano la chemotassi, meccanismo per cui vengono richiamati nel focolaio i macrofagi e
neutrofili secondo il gradiente. Interferone per azione antivirale. Infine, la TNF-α, produce febbre,
anoressia, shock, citotossicità e attivazione di cellule endoteliali e tessutali. In particolare,
l’interleuchin-1, l’interleuchina-6 e la TNF-α sono estremamente importanti per i loro effetti
sistemici (soprattutto febbre): gli effetti sistemi prendono il nome di fase acuta.
4. Ossido Nitrico (NO), prodotto dai macrofagi e dalle cellule endoteliali. Queste cellule sono dotato
dell’enzima ossido nitrico sintetasi, che hanno la capacità di produrre l’NO. Questo gas è un
potentissimo vaso dilatatore (viene prodotto, però, dopo l’istamina), tanto che è coinvolto nel
cosiddetto shock settico (quando i batteri sono penetrati nel circolo ematico e, dunque, raggiungono
tutto l’organismo).
Mediatori chimici dell’infiammazione, già presenti nel plasma e non formati dalle cellule.
5. C3a e C5a cascata del complemento.
Questi si trovano, come già detto, nel
plasma sanguigno. La formazione del C3
è di cruciale importanza, perché questo
componente interagisce con entrambe le
vie di attivazione. Queste due molecole
(c3a e c5a, che vengono prodotte,
durante l’attivazione del complemento;
nel momento della divisione, infatti,
alcune c3a e c5a solubili restano nel
plasma sanguigno) sono conosciute come
anafilotossine e sono in grado di indurre
il rilascio di istamina; il c5a ha invece
una potente proprietà chemiotattica. Il complesso di attacco alla membrana, alla fine, provoca la
produzione di un canale cilindrico transmembrana che porta alla lisi cellulare.
La via classica comincia quando sulla superficie del patogeno si ha una serie di anticorpi.
Alcune classi di anticorpi finalizzate all’attivazione del complemento sono le IgM e le IgG.
6. Proteasi plasmatiche o sistema delle chinine, sono legate alla cosiddetta cascata delle chinine; ossia
peptidi vasoattivi che si generano alla fine della cascata, dove vengono attivate per scissione delle
proteasi. Le proteasi che si generano in questa cascata, sono dette callicreine (chininogeno è la stessa
molecola in forma inattiva). Importante è anche il fattore di Hageman o fattore XII, che può essere
attivato una volta che viene prodotta la callicreina.
Il prodotto finale di questa cascata è la bradichinina, un mediatore responsabile del dolore; la
molecola algogena per eccellenza.
Altri due prodotti sempre appartenenti alle proteasi plasmatiche sono: il sistema della coagulazione
ed il sistema fibrinolitico, che si completano e si controbilanciano. Questi sono attivati dal fattore di
Hageman (che si trova in forma inattiva del plasma). Questa via di attivazione del fattore si chiama
via intrinseca. Ne esiste un’altra detta via estrinseca. Il fattore si attiva una volta che l’endotelio
modifica la sua conformazione, favorendo la permeabilità. Le molecole presenti nel plasma a questo
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punto si trovano in contatto con le parti sottostanti all’endotelio, è proprio in questo momento che si
attiva il fattore di
Hageman. In quest’attivazione
della cascata coagulativa e
fibrinolitica sono importanti:
fibrinogeno (trasformato in
fibrina) e plasminogeno e
plasmina.

Analizzando il tutto: il fattore XII viene attivato, si trasforma in fattore XIIa.


A questo punto, nella catena della coagulazione, il fattore viene tagliato e diviene fattore XIa. La
protrombina si trasforma in trombina e questa a sua volta taglia il fibrinogeno e lo trasforma in fibrina.
Durante questo taglio si forma fibrina e fibrinopeptidi, che hanno un effetto stimolatorio del processo
infiammatorio. La fibrina è una
proteina che serve a mantenere localizzata l’infiammazione.
La fibrina tuttavia deve essere poi eliminata, ogni volta quindi viene attivato il sistema fibrinolitico,
che va ad eliminare la fibrina rimasta dopo il processo. Questo sistema attiva la callicreina che agisce
sul plasminogeno formando la plasmina.
A questo punto si attiva la cascata del complemento, dove la plasmina consente l’attivazione della
cascata del complemento da C3 a C3a.

Captazione
Attraverso tipologie di molecole di adesione, che funzionano come dei ganci per legare i legandi sulla
superficie delle cellule bianche. Questo blocco consente di insinuarsi tra le cellule dell’endotelio e uscire dai
vasi per entrare nel liquido extracellulare dove seguiranno un gradiente chimico fino alla sede
dell’infiammazione.

Fasi dell’essudato
In mezzo alle cellule di un tessuto infiammato si ha la presenza dell’essudato bianco, dove vi sono tante
cellule del tipo granulociti neutrofili. I primi momenti dell’infiammazione si ha l’uscita di liqudi e proteine
con formazione dell’edema infiammatorio, dopo i granulociti neutrofili e poi i monociti che diventeranno
dei macrofagi quando passano nei tessuti. Il macrofago, nella fase più tardiva dell’infiammazione acuta, sarà
di fagocitare ciò che si è generato nel processo iniziale, cioè l’essudato. Se l’oggetto debellante non è stato
eliminato, questi attiveranno un’infiammazione cronica.

Fagocitosi
E’ la funzione che permettere di rimuovere agenti patogeni e/o detriti cellulari ad opera di fagociti
professionali (granulociti neurofili, macrofagi). Hanno due meccanismi di demolizione delle cellule
fagocitate: ossigeno dipendente o ossigeno indipendente.

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Le prime cellule che arrivano al focolaio infettivo, subito dopo l’edema, sono i neutrofili; solo
successivamente arrivano anche i macrofagi e i monociti. Nel processo di fagocitosi distinguiamo 3
fasi:
1. Captazione, ossia l’adesione delle particelle alla superficie del fagocita, attraverso alcuni recettori.
Qui, sono presenti le opsonine che, nel momento in cui rivestono un microrganismo, aumentano
enormemente l'efficienza della fagocitosi in quanto esse sono riconosciute da recettori espressi sulla
membrana dei fagociti.
2. Inglobamento del materiale da parte del fagocita, con conseguente formazione dello pseudopode e
poi del fagosoma
3. Demolizione del materiale fagocitario, con la successiva fusione del fagosoma - lisosoma. I
meccanismi degradativi, ossigeno - indipendente sono favoriti da diversi fattori: pH acido, lisozimi,
lattoferrina, proteine cationiche (alterano la membrana dei batteri), idrolasi acide lisosomiali
(tagliano e digeriscono grazie alle proteasi, fosfatasi, nucleasi).
Altri fattori sono le componenti ossigeno - dipendenti, capaci di degradare ulteriormente ciò che è
stato fagocitato. Nei granulociti queste sono le mieloperopsidasi. Questi meccanismi ossigeno -
dipendenti, vengono attivati attraverso l’azione dei mediatori solubili, generando il cosiddetto
“scoppio respiratorio”.
Questo ha due tipologie di effetti:
1. Benefici, che si dividono a sua volta in intracellulari, grazie alla potente azione microbicida;
ed extracellulari, attraverso la modulazione e l’amplificazione della reazione infiammatoria.
2. Dannosi, che consistono dal punto di vista intracellulare nell’effetto citotossico sul fagocita e
quindi la sua distruzione con conseguente liberazione di componenti tossiche per i tessuti. Dal punto
di vista extracellulare si ha invece la diffusione di sostanze (come il superossido) al di fuori della
cellula fagocitaria. Si ha quindi un effetto tossico sui tessuti.
NB: Fu Lewis Thomas a studiare la lesione tissutale indotta dallo scoppio respiratorio dei leucociti. Thomas
affermò che: “L’attività dei leucociti polimorfonucleati e dei macrofagi porta all’uccisione dei
microrganismi e all’eventuale danno dell’ospite attraverso il rilascio extracellulare di enzimi e di specie
reattive dell’ossigeno. Il nostro arsenale per eliminare i batteri è così potente e consta di numerosi e
differenti meccanismi di difesa che siamo più in pericolo dal sistema stesso che dagli “invasori”. Viviamo
in mezzo ad un congegno esplosivo; siamo “minati”.

Infiammazione acuta: modificazione vascolare e formazione dell’essudato


Le condizioni per cui si genera un essudato e la tipologia di essudato è data da:
 Modificazioni del calibro, si ha una vasocostrizione fugace, vasodilatazione, aumento del flusso
sanguigno.
 Modificazioni strutturali, aumento della permeabilità, fuoriuscita fluidi e proteine.
 Marginazione, adesione e migrazione leucocitaria.

Le varie tipologie di essudato


Le infiammazioni acute possono essere categorizzate in base al tipo di essudato.
La permeabilità dei vasi può essere infatti più o meno forte, ciò determinerà il tipo di essudato prodotto.
L’essudato ha soprattutto una funzione di difesa, di barriera meccanica, tenta infatti di mantenere localizzato
l’agente infettante. Genera inoltre un pH acido (5,3), per facilitare la fagocitosi; è particolarmente ricco di
anticorpi e, infine, è importante anche perché gran parte dell’essudato viene poi drenato dai tessuti linfatici,
così da dare vita ad una risposta immunitaria.
La tipologia di essudato varia al variare delle sue componenti, ossia la quantità di acqua, la quantità dei
leucociti, la quantità di fibrinogeno e la quantità di eritrociti.
Esiste, quindi, essudato di tipo:
1. Sieroso, limpido, giallognolo, contenente acqua e pochissimo proteine di basse peso molecolare. E’
poverissimo di cellule e fibrinogeno. La permeabilità di questi vasi, dunque, non è molto alterata: il
passaggio di cellule ad alto peso molecolare (come il fibrinogeno) non avviene. Questo essudato è
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tipico delle sierose (pericardica, pleurica e peritoneo) e delle ustioni di secondo grado. Questo tipo di
essudato può organizzarsi a formare delle sinechi..
2. Fibrinoso, ricco di fibrinogeno, grazie al fatto che gli spazi intercellulari sono molto più ampi. Il
fibrinogeno viene poi trasformato in fibrina, nelle cui maglie restano intrappolati i leucociti, che
donano un tipico colore biancastro. Questo essudato è caratteristico della polmonite pneumococcica
ed è possibile trovarlo anche associato ad essudato emorragico e necrotizzante. Se vi è la presenza di
eritrociti si può avere un essudato fibrinoso–emorragico (punto 5) dovuto a infezioni da
pneumococco. Quello fibrinoso-necrotizzante (punto 6), essudato tenacemente ancorato ad una
mucosa necrotica.
3. Mucoso o catarrale, che contiene una grande quantità di mucina (prodotta dalle cellule mucipare),
con cellule epiteliali di sfaldamento. Questo essudato si trova nelle mucose dell’apparato digerente e
dell’apparato respiratorio. Questo tipo di essudato, a volte, può essere associato anche all’essudato
purulento (muco-purulento).
4. Purulento, costituito da pus, formato da granulociti neutrofili (suppurazione) che, una volta dato vita
al pus, vengono chiamati piociti. Molte volte, questo essudato viene prodotto da alcuni batteri, detti
piogeni (staphylococcu aureus, streptococcus pyogens etc.), che richiamano i granulociti neutrofili.
Se questo essudato si raccoglie in una cavità neoformata, viene detto ascesso; se si raccoglie in una
cavità preesistente empiema; nelle articolazioni pioartro; se si infiltra nei tessuti circostanti si dice
flemmone (interstizio sottocute, muscolo, sottomuscolo).
5. Emorragico, quando abbiamo fuoriuscita massiva di eritrociti, in seguito ad un grosso danno
dell’endotelio. E’ tipico della broncopolmonite virale.
6. Necrotizzante, derivante da un’estesa necrosi di un tessuto. E’ dato da alcuni tipologie particolari di
microrganismi, come gli streptococchi, i clostridi o dal bacillo del carbonchio.

Esiti del processo infiammatorio


Alla fine della flogosi, possiamo avere:
1. Risoluzione completa (restitutio ad integrum), quando il danno dell’agente danneggiante è
relativamente scarso e, soprattutto, quando le cellule dell’organismo danneggiate sono di una specie
con capacità rigenerativa. Cosa accade? I mediatori chimici vengono neutralizzati, la permeabilità
vascolare torna alla norma, cessa l’infiltrazione leucocitaria e i neutrofili muoiono per apoptosi.
Infine, tutto il materiale infiammatorio viene rimosso.
2. Cicatrizzazione con fibrosi (che non lascia una funzionalità completa del tessuto, poiché le cellule
cicatrizzanti non permettono la medesima funzione: si ha la functio leso, quinto punto cardinale del
processo infiammatorio), quando si ha una sostanziale distruzione tessutale, una mancata
rigenerazione delle cellule parenchimali e un abbondante essudato di fibrina. Cosa accade? Nell’area
dell’essudato cresce tessuto connettivo, che si organizza a formare cicatrici (vengono richiamati i
fibroblasti, che depositano il collagene, formando la cicatrice).
3. Progressione verso l’infiammazione cronica, quando l’agente dannoso persiste e sono presenti
interferenze coi normali processi di guarigione (es. ascesso polmonare cronico da polmonite non
risolta)

Gli effetti sistemici della flogosi (o istoflogosi)


Infiammazione lunga durata (settimane o mesi), costituita da:
 Fase attiva
 Fase di distruzione tissutale
 Riparazione
Le cause per cui si può avere una flogosi:
 Esito di una flogosi acuta
 Infezioni sostenuta da microrganismi persistenti (es. Micobatteri della tubercolosi, leishmania, agenti
fungini), risposta immune di ipersensibilità ritardata – infiammazione granulomatosa.
 Esposizione prolungata ad agenti potenzialmente tossici (esogeni o endogeni)
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 Autoimmunità

Fra gli effetti sistemici della flogosi, possiamo trovare:


1. Un aumento delle cosiddette proteine di fase acuta da parte del fegato (interleuchina-6), come il
fibrinogeno.
2. Febbre, dovuta all’azione dei pirogeni endogeni IL-1 e del TNF-α. Ma chi stimola la produzione di
questi pirogeni endogeni? I pirogeni esogeni, ossia i batteri.
3. Leucocitosi, ossia l’aumento dei globuli bianchi (eosinofili, neutrofili o linfociti).
4. Leucopenia, ossia la riduzione dei globuli bianchi (patologia autoimmune, molto rara).
5. Shock, ossia la caduta di pressione con conseguenze mortali: abbiamo, infatti, una vasodilatazione
sistemica, con conseguente uscita di liquido in tutto l’organismo e morte.
Dagli spazi interstiziali del vaso sanguigno arrivano i monociti che si replicano e su effetto delle citochine si
differenziano e formano i granulomi dove si sono trasformati in macrofagi maturi, questi iniziano a
fagocitare, falliscono e rilasciano delle sostanze che originano dei danni alle cellule. Nel tentativo di
aggredire l’agente patogeno, riesce anche a presentare gli effettivi antigenici ai linfociti T, percui si ha i
linfociti T Helper che producono l’interferone gamma che stimola il macrofago a eliminare l’agente.

Differenziazione dei macrofagi


I macrofagi, possono diventare cellule epitelioide, che assomigliano a delle cellule epiteliali, non fagocitano
ma hanno il compito di produrre delle citochine, mediatori che stimolano i macrofagi.
Un altro tipo sono le cellule giganti, ampie masse citoplasmatiche provviste di numerosi nuclei (solitamente
10 o 20), tipica del granuloma della tubercolosi. Questi si dispongono a corona o ferro di cavallo, tranne nel
granuloma da corpi estranei in cui i nuclei centralo o irregolarmente sparsi. La sua origine deriva dal sincizio
(fusione di più cellule) a partire da macrofagi o cellule epitelioidi.
Quindi epitelioma, cellule giganti e tessuto cicatrizzato forma il granuloma. Questo può essere diviso in un
tipo a ridotto rinnovamento cellulare, caratterizzato da longevità ed infrequenza divisione dei macrofagi (+
+da corpi estranei) o ad elevato rinnovamento cellulare caratterizzati da elevato migrazione e proliferazione
dei macrofagi (++ granulomi batterici)

Ma cosa si intende esattamente per fase acuta? Si intende una vasta e complessa serie di risposte
fisiologiche aspecifiche, che iniziano immediatamente dopo che l’organismo è stato colpito da un trauma,
un’infezione o qualunque causa che produca danno.
Anche se la risposta inizia ed è più evidente a livello locale, la risposta acuta deve essere considerata un
processo dinamico che altera l’omeostasi e coinvolge quasi tutti gli organi, mediante meccanismi di auto
mantenimento e di amplificazione la risposta infiammatoria si può accentuare, producendo uno stato
patologico generalizzato.
Nella fase acuta, è possibile che i pirogeni IL1 and TNF-α, oltre a produrre febbre, diminuisca notevolmente
l’appetito, con conseguente possibile anoressia. Poi vi sono la presenza delle proteine di fase Acuta-
incremento non specifico di molte proteine plasmatiche (fibrinogeno) che risultano in elevata VES.
Nella fase acuta vengono coinvolti una grande quantità di organi (effetto sistemico):
1. Ipotalamo (febbre e fattori liberanti ormoni ipofisari)
2. Ipofisi (liberazione di tropine, come ACTH, GH e ADH)
3. Ghiandole endocrine, che secernono insulina, glucagone, T3, T4, aldosterone, catecolamine
4. Midollo osseo (per la leucocitosi)
5. Sistema immunitario (proliferazione linfocitaria)
6. Sangue (aumento delle immunoglobuline e della VES)
7. Fegato (proteine della fase acuta). Il fegato umano in condizioni fisiologiche sintetizza oltre 20 gr di
proteine al giorno, riversate nel plasma e utilizzate come fattori di crescita, proteine di trasporto,
proteine che intervengono nei processi di difesa dell’organismo. Durante l’infiammazione acuta si
verifica un cambiamento del profilo biosintetico del fegato, che risponde con un’aumentata sintesi
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delle proteine della fase acuta e contemporaneamente riduce la sintesi e la concentrazione nel plasma
di altre proteine, dette perciò proteine “negative” della fase acuta. Dunque, le proteine positive della
fase acuta saranno quelle prodotte maggiormente, mentre quelle negative sono quelle prodotte in
maniera ridotta.

Ma quali sono queste proteine positive della fase acuta?


1. Proteine plasmatiche per i fattori del complemento. Le opsonine e i fattori chemiotattici per i
neutrofili e i macrofagi provocano, infatti, la distruzione dei microrganismi patogeni, la riparazione
del danno e la guarigione.
2. Fattori della coagulazione, per prevenire o bloccare l’emorragia, intrappolare i microrganismi nei
focolai infiammatori e promuovere la guarigione delle ferite.
3. Inibitori delle proteasi, che neutralizzano l’attività delle proteasi liberate dai neutrofili e dai
macrofagi, limitando la fase demolitiva dell’infiammazione
4. Proteine leganti i metalli, che portano il ferro al fegato, non rendendolo disponibile per la crescita dei
batteri.
In genere la risposta della fase acuta dura solo pochi giorni. Se le cause persistono non si può avere il
mantenimento di queste componenti proteiche, tanto che nel caso persista, le stesse molecole di difesa
possono diventare responsabili di alcune patologie (divengono quindi dannose per il corpo).

Ripetendo, quindi, durante la fase acuta aumentano le proteine plasmatiche dei fattori del complemento e si
ha la loro attivazione. Si ha un aumento dei fattori di coagulazione (promuove la guarigione delle ferite).
Aumentano inoltre gli inibitori delle proteasi, limitando la fase dannosa dell’infiammazione.
Aumentano la sintesi di proteine leganti metalli (come ad esempio il ferro), alcuni batteri infatti utilizzano i
metalli per crescere.
La proteina PCR attiva si lega alla superficie dei patogeni e attiva il complemento per via classica; in più
modula l’attivazione delle piastrine, aumenta la chemiotassi e la fagocitosi, aumenta l’attività dei NK, e
favorisce l’opsonizzazione.

Quando vi è in corso una infiammazione la VES (velocità eritro sedimentazione), questa indica la
produzione delle proteine di fase acuta. Il tutto è dovuto al fatto che gli eritrociti iniziano a coagulare ed’è
dovuto alle proteine di fase acuta che si metto a ponte tra i globuli rossi rendendoli più pesanti.

Le alterazioni della temperatura corporea, ipertermia e febbre


Uno degli effetti sistemici della flogosi acuta è la febbre.
La febbre è un’ipertermia e un’alterazione della temperatura corporea. Questa, normalmente, nell’uomo è di
circa 37°C. In effetti si tratta di una semplificazione della realtà, poiché la temperatura è differente nelle
varie parti del corpo umano. Esiste, infatti, una temperatura corporea centrale e una periferica
(quest’ultima risente moltissimo delle condizioni esterne e subisce molte variazioni). Quali sono gli aspetti
che possono influire sulla temperatura?

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1. La temperatura ambientale. Per esempio, alla temperatura ambientale di 30°, la temperatura del corpo
di un uomo vestito leggero è di 37°. Se la temperatura ambientale, invece, diminuisce, gli organi
profondi restano a 37°, mentre le parti del corpo periferiche tendono a diminuire di temperatura.
La temperatura corporea è regolata da un centro, detto centro di termoregolazione, che si trova a livello
ipotalamico. Questo valuta costantemente la temperatura, sia a livello periferico che a livello centrale,
decidendo quali accorgimenti devono essere indotti per ripristinare la temperatura a livelli normali. La
temperatura centrale gli viene indicata dal sangue dei livelli profondi di circolazione. La temperatura
superficiale, invece, gli viene data da alcuni particolari termocettori periferici, che sono molto sensibili alle
variazioni della temperatura, sia sopra che sotto i 37°.
E’ importante ricordare, però, che la temperatura del corpo varia nel tempo. Nel corso della giornata subisce
grandi variazioni, che vanno da 0,5 a 1°, toccando il minimo all’alba ed il massimo il pomeriggio (ritmo
circadiano), in relazione al rilascio di alcuni ormoni. Nella dona, inoltre, si hanno alcune variazioni della
temperatura corporea, in funzione del ciclo mestruale: la temperatura è più bassa nella fase pre-ovulatoria,
aumenta di circa 0,6° all’ovulazione e si mantiene tale sino alla mestruazione.
La temperatura corporea può aumentare leggermente anche dopo i pasti, in relazione all’età, durante una
gravidanza o durante un’attività fisica. Ma come si misura la temperatura?
1. La temperatura rettale, é quella meglio rappresentativa della temperatura centrale: la sua misura
media è di 37°C con variazione massima di più o meno 0,5°C.
2. La temperatura sottolinguale é di circa 0,2-0,5°C inferiore a quella rettale.
3. I valori della temperatura ascellare sono 36,6°C ± 0,5°C, quindi lievemente più bassi della
temperatura centrale.

Ma come viene regolata la temperatura corporea? La temperatura corporea è un equilibrio fra


termodispersione e termogenesi. Questa, infatti, resta circa costante, intorno ai 37ç, quando il coro riesce ad
eliminare tanto calore quanto ne ha prodotto.
Esiste, come già detto, un centro di termoregolazione, a livello ipotalamico, detto anche termostato
ipotalamico. Come già detto, questo centro di termoregolazione è in grado di ricevere segnali dai recettori
periferici e dal sangue della circolazione profonda. I segnali vengono elaborati dal centro ipotalamico, che a
sua volta genera segnali efferenti che influenzano la produzione o la dispersione, attraverso il sistema
nervoso simpatico (attraverso il rilascio di ormoni da parte del sistema endocrina) ed il sistema nervoso
somatomotorio.
L’ipotalamo, quindi, va ad influenzare l’ipofisi, che a sua volta stimola la tiroide a rilasciare T3 e
T4, per il controllo del metabolismo basale; inoltre si produrrà vasocostrizione, se c’è necessità di mantenere
calore, vasodilatazione se c’è necessita di disperdere il calore; verranno prodotti brividi, per produrre calore,
da parte dell’apparato muscolare; gli atti respiratori, in caso di eccessiva temperatura corporea, aumentano,
così da disperdere una maggiore quantità di vapore acquo e disperdere calore.

La piressia: ipertermia e febbre


L’elevazione della temperatura corporea a livelli patologici è detta piressia. E’ generata da due meccanismi
patogenetici del tutto diversi, a cui corrispondono due condizioni patologiche differenti: ipertermia e
febbre. Queste due diversificano dai meccanismi patogenetici, che inducono questi processi. L’ipertermia si
verifica quando s’instaura una condizione di persistente squilibrio tra ingresso di calore nel sistema
(termogenesi) ed uscita di calore dal sistema (termodispersione), che provoca un progressivo accumulo di
calore nel corpo e un aumento a livelli patologici della temperatura.
Nell’ipertermia, il sistema di termoregolazione è incapace di mantenere la temperatura corporea entro il
limite superiore della norma.
La febbre, invece, ha un meccanismo patogenetico differente: si ha un danno chimico a livello ipotalamico,
a causa di alcune sostanze (IL-1, IL-6 e TNF-α, chiamate citochine pirogene), che modificano questa
temperatura di riferimento di 37°, spostandola a livelli molto più alti (circa 39 o 40). Il sistema di
termoregolazione, nella febbre, è dunque perfettamente funzionante, anche se portato a livelli maggiori.

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Quindi, la distinzione tra ipertermia e febbre non è accademica, ma riveste importanza in clinica. In
particolare, l’approccio terapeutico è differente: nel caso dell’ipertermia dovrà, infatti, essere rivolto a
raffreddare il corpo con mezzi fisici, mentre nella febbre si dovrà intervenire con farmaci antipiretici, in
grado di riportare il “set point” ipotalamico alterato a valori normali. Gli antipiretici, come la tachipirina,
bloccano la ciclossigenasi, che utilizza l’acido arachidonico, per produrre le prostaglandine (la PGE-2
cambia la temperatura corporea).

Ma quali sono le cause principali dell’ipertermia?


1. Cause esogene: temperature molto alte, alta umidità relativa e carente
ventilazione
2. Cause endogene all’organismo: Eccessiva termogenesi
• Inefficiente termodispersione
• Dissociazione fra termogenesi e termodispersione (per esempio, in caso di tumore a livello
ipotalamico)
I fattori esogeni ed endogeni possono variamente combinarsi e determinare forme di ipertermia, che possono
variare da lievi, a gravi, a molto gravi, con imminente pericolo di vita, come nel caso del colpo di calore o
ipertermie maligne.
Il primo si verifica quando c’è ipertermia persistente con temperatura rettale sopra i 40°: si possono
determinare gravi danni a carico del cervello, con edema cerebrale e apoptosi neuronale (con coma).
Clinicamente, il paziente manifesta disorientamento, delirio e convulsioni; il danno cerebrale ha anche
effetti peggiorativi sull’ipertermia, perché altera il centro di termoregolazione, inibendo la sudorazione.
Fra le cause del colpo di calore, abbiamo anche un eccessiva sudorazione: questo provoca una diminuzione
dei liquidi e, di conseguenza, una diminuzione del liquido nel sangue. Questo provoca una vasocostrizione
(per evitare la perdita di altri liquidi), che portano ad un aumento della temperatura corporea.
Il colpo di calore va, tuttavia, distinto dal collasso di calore, un fenomeno molto meno grave. Questo si può
verificare anche a seguito di modesta esposizione a temperature più elevate. Il fenomeno è dovuto alla
caduta della pressione arteriosa, per un eccesso di vasodilatazione periferica (è, quindi, un errore del circolo
periferico, non di termoregolazioni centrali).
Tra le ipertermie, troviamo poi le cosiddette ipertermie estreme, derivante solo da cause endogene. Un
esempio, può essere l’ipertermia maligna, che si può manifestare alla somministrazione di farmaci
miorilassanti: si manifesta con un rapido aumento della temperatura oltre i 40°C. L’elevata temperatura,
ovviamente, provoca delle conseguenze cardiocircolatorie ed alterazioni ematochimiche, fino a portare quasi
sempre a morte.

La febbre
La febbre è un aumento della temperatura corporea al di sopra dei valori normali, causata da uno
spostamento a valori patologici della temperatura di riferimento (“set point”) del termostato ipotalamico, per
azione di mediatori chimici endogeni: le citochine pirogene.
Ma quali sono le cause della febbre?
1. I batteri Gram-negativi esercitano la loro azione pirogena, liberando alcune endotossine, i più
potenti agenti pirogeni esogeni. La liberazione di endotossine avviene in seguito a disgregazione del
corpo batterico;
2. I batteri Gram-negativi possono liberare, inoltre, senza perdita della loro integrità strutturale,
un’endotossina corrispondente a una ben definita struttura lipo-polisaccaridica (LPS) della loro
membrana, che induce la febbre.
3. I batteri Gram-positivi esercitano la loro azione pirogena come conseguenza della fagocitosi del
corpo batterico da parte dei macrofagi, ma anche della liberazione di esotossine.
4. I virus. L’effetto scatenante è soprattutto da riportare alla loro azione citopatogena e citocida
sulle cellule dell’organismo.

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Ma come fanno le citochine a raggiungere il centro di termoregolazione ipotalamico, se è presente la
barriera ematoencefalica?
E’ stato scoperto che, a livello dell’ipotalamo, è presente una zona cribrosa, che permette il passaggio di
alcune citochine.
Un’altra teoria spiega, invece, come queste citochine possano legarsi alla parete ematoencefalica, inducendo
le cellule endoteliali della parete a produrre una molecola uguale all’interno della parete. Queste citochine,
però, non agiscono direttamente sui neuroni: esse attivano la fosfolipasi del centro di termoregolazione;
questa fosfolipasi taglia l’acido arachidonico presente sui neuroni, che viene quindi reso disponibile
all’enzima ciclossigenasi per produrre la prostaglandine 2 (PGE-2).

L’aumento di quest’ultima agisce sul set point del centro termoregolatorio, che si sposta su
temperature più alte. Ma a cosa serve la febbre? La febbre è una risposta della fase acuta.
Si tratta di una risposta (molto costosa in termini energetici) mantenuta durante tutta l’evoluzione quindi
deve certamente servire a qualcosa!
1. Alcuni microrganismi muoiono a temperature raggiunte durante la febbre (spirochete >
41°C; pneumococchi 40°C), quindi almeno nelle infezioni sembra essere utile;
2. La funzionalità dei leucociti è fortemente aumentata (mobilità) dall’aumento della temperatura;
3. L’efficacia del TNF nell’uccidere le cellule tumorali è aumentata.
Un abbassamento quindi voluto della febbre, può impedire la risposta immunitaria del corpo umano.

La febbre si divide in varie fasi:


1. Fase di rialzo termico o ascesa o prodromica: la temperatura aumenta; l’individuo ha freddo, si
hanno brividi e termoconservazione (vasocostrizione, pallore)
2. Fase del fastigio o stazionaria: la temperatura resta costante; l’individuo ha caldo per l’elevata
temperatura corporea
3. Fase della defervescenza o discesa: la temperatura diminuisce; l’individuo ha caldo e suda; aumento
termodispersione per sudorazione per rilasciare la temperatura accumulata; questa fase può avvenire
gradualmente (per lisi) o bruscamente (per crisi), questo può avvenire per l’introduzione di farmaci o
naturalmente.
Quando il centro termoregolatore ipotalamico, sposta verso temperature patologicamente alte la temperatura
di riferimento, si crea un differenziale tra temperatura del sangue e del “set point”. L’ipotalamo interviene
favorendo la termogenesi e riducendo la termodispersione al fine di portare la temperatura al nuovo valore.

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Dal centro termoregolatore dell’ipotalamo partono impulsi nervosi attraverso fibre simpatiche, provocano
vasocostrizione periferica (pallore) e riduzione della dispersione di calore.
Si ha anche contrazione della muscolatura liscia dei peli e pilo-erezione (orripilazione, pelle d’oca) Segnali
giungono anche alla corteccia cerebrale, inducendo sensazione di freddo e conseguenti modificazioni del
comportamento tendenti alla ricerca di condizioni ambientale favorenti la conservazione di calore (posizione
fetale). Se il rialzo termico è rapido e consistente, all’attivazione dei meccanismi di riduzione della
dispersione di calore si associano contrazioni muscolari involontari, il brivido, che aumentano la
termogenesi. Inoltre si avrà la produzione da parte della tiroide T3 e T4, con un aumento del metabolismo
con rilascio di glucosio (da glicogeno e tessuto lipidico) per aumentare la temperatura. Quando si raggiunge
il fastigio, la temperatura corrisponde al nuovo “set point” ipotalamico, e l’incremento termico si arresta. A
questo punto (fase stazionaria) la temperatura tende a mantenersi ad un livello più elevato.
Quando la causa di febbre scompare, o in seguito ai farmaci, si ha defervescenza, il “set point” ipotalamico
ritorna a valori normali ed il centro termoregolatore invia segnali opposti a quelli della fase di ascesa,
inducendo aumento della termodispersione per dilatazione vascolare periferica (rossore) e sudorazione,
sensazione di caldo e conseguenti comportamenti tendenti alla ricerca di condizioni ambientale favorenti la
cessione di calore: aumento del senso di sete, aumento della minzione etc.
In funzione della maggiore o minore attivazione dei processi di termodispersione durante la defervescenza,
la febbre può cadere verso i valori normali rapidamente, per crisi, o lentamente, per lisi.

Quadri clinici di febbre


A differenza dell’ipertermia in cui il livello di piressia non ha un limite superiore, nella febbre la
temperatura corporea raramente supera i 41°C. Una febbre che non supera i 38°C si definisce febbricola; se
la febbre raggiunge i 38,5°C: febbre lieve; i 39°C: febbre moderata; i 39,5°C: febbre elevata; i 41°C:
iperpiressia; oltre i 41°C: iperpiressia estrema.
A seconda dell’andamento nel tempo si possono distinguere vari tipi di febbre. A tale proposito bisogna
però preliminarmente notare che oggi il diffuso uso di farmaci antipiretici, glicocorticoidi e antibiotici il più
delle volte altera e rende irriconoscibile il tipo di febbre.

I quadri febbrili classici sono quattro:


1. Febbre continua in cui l’aumento della temperatura corporea è persistente con variazioni giornaliere
inferiori a 1°C. Casi di febbre continua sono la febbre tifoide (non trattata) e la tubercolosi miliare in
cui caratteristicamente il ritmo circadiano è abolito o addirittura invertito.
2. Febbre remittente in cui la temperatura corporea si abbassa ed alza significativamente 2 o più volte
ogni giorno di oltre 1°C senza però mai ritornare a valori normali: tale andamento si manifesta nella
maggioranza delle malattie febbrili (malattie virali, svariate infezioni batteriche e di origine non
infettiva) ed è perciò aspecifico. Il trattamento con farmaci antipiretici può trasformare una febbre
continua in una remittente
3. Febbre intermittente durante il giorno, la febbre cade sino a valori normali per poi risalire. La febbre
intermittente, specialmente se con escursioni molto ampie della temperatura, è anche detta febbre
settica perché comune nelle infezioni da piogeni sia localizzate (ascessi) o sistemiche e nella
tubercolosi. Febbre intermittente è anche caratteristica delle malattie neoplastiche maligne. La
Malaria, in cui l’alternanza di febbre e apiressia è funzione del ciclo biologico del parassita (terzana:
gli episodi febbrili si manifestano il primo ed il terzo giorno, causata dal Plasmodium vivax;
quartana: accessi febbrili il primo ed il quarto giorno, causata dal Plasmodium Malariae)
4. Febbre ricorrente in cui episodi febbrili sono intervallati da periodi di temperatura normale. La
durata del ciclo piressia/apiressia è variabile e caratteristico della malattia che sottende la febbre:
• L’infezione da Borrelia e da morso di ratto, in cui periodi febbrili sono intervallati da periodi
di apiressia di qualche giorno
• Il morbo di Hodgkin ed altri linfomi che presentano periodi di piressia della durata di 3-10
giorni, intervallati da periodi di apiressia della stessa durata (febbre di PelEbstein)

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• La neutropenia ciclica, in cui la febbre compare ogni 21 giorni, accompagnando la
neutropenia;
• La Brucellosi (febbre maltese o melitense), con febbre cosiddetta ondulante, perché i periodi
febbrili di diversi giorni sino a più settimane, intervallati da qualche giorno di remissione
completa, sono caratterizzati da effervescenza e defervescenza lenta.

Effetti primari riferibili alle citochine pirogene


 Immune stimolazione linfociti T e B
 Attivazione macrofagi a
 Leucocitosi ematica
 Infiltrazione infiammatoria
 Liberazione di lattoferrina dai neutrofili
 Lombalgia, artralgia

Effetti secondari (riferibili alla piressia febbrile)


Alterazioni metaboliche:
 Aumento attività metabolica
 Aumento dei processi ossidativi
 Chetone ia e chetonuria
 Attivazione del catabolismo muscolare

Alterazione di sistemi e apparati:


 Aumento frequenza cardiaca (+10 battiti/minuti/1°C di aumento della temperatura)
 Iper ventilazione
 Incremento della immuni stimolazioen
 Convulsione nei bambini e negli adulti epilettici
 Alterazione dello stato di coscienza

Conseguenze dell’infiammazione:
1. Guarigione:
• Restituzione o rigenerazione: le cellule rigenerate sono del tipo originale
• Riparazione o organizzazione fibrosa: rimozione dell’essudato infiammatorio e sua
sostituzione con tessuto cicatriziale
2. Permanenza:
• Come angioflogosi (permangono i fenomeni vasculo-essudativi)
• Come evoluzione in istoflogosi: i fenomeni vascolari ed essudativi diminuiscono fino a
cessare. Sono esaltati i fenomeni proliferativi dei monociti, fibroblasti ed endoteli
Ma quali sono le differenze fra una flogosi acuta (o angioflogosi) e una flogosi cronica (o istoflogosi)?
1. Mentre nella prima abbiamo una prevalenza di fenomeni vascolo essudativi (essudato), nella seconda
questi processi sono molto scarsi
2. Mentre nella prima abbiamo una prevalenza di granulociti, nella seconda troviamo una grande
quantità di linfociti e monociti.
3. Mentre nella prima abbiamo una grandissima secrezione di mediatori chimici, nella seconda questa
diminuisce notevolmente.
4. Nell’istoflogosi abbiamo fenomeni proliferativi di linfociti, monociti e macrofagi (cosa impossibile
nell’angioflogosi)
5. Nell’istoflogosi troviamo una proliferazione connettivale molto elevata (con fibroblasti e endoteli:
cellule deputate alla cicatrizzazione)

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6. Mentre l’angioflogosi dura un tempo ben determinato, l’istoflogosi può durare vari anni o anche tutta
la vita; inoltre, l’istoflogosi termina sempre con fenomeni riparativi.

Quando si ha l’incontro col patogeno abbiamo, come prima cosa, un’infezione acuta, che ha il compito di
eliminare il patogeno. Se questo processo funziona, si va incontro ad una guarigione.
Tuttavia, se il patogeno non viene eliminato del tutto, l’organismo risponde con una flogosi acuta
cronicizzata. In questo caso, cosa accade? Scompaiono tutte le cellule di un’infezione acuta classica e
compaiono nuove cellule, dette infiltrati parvicellulari, che si insinuano in mezzo alle fibre del tessuto
(sono i responsabili della flogosi acuta cronicizzata): non abbiamo più fenomeni di essudato. Nel caso,
invece, che il patogeno sia ad alta resistenza (molto resistente, cioè, all’infiammazione acuta), si viene a
formare una cosiddetta flogosi cronica ab inito. In questi casi, si vengono a formare degli ammassi cellulari
discreti, formati o da granulomi non immunitari o da granulomi immunitari.

Ma quali sono le cause delle varie infiammazioni?


Nel caso dell’infiammazione cronica primaria, tra le cause troviamo:
1. Resistenza agli agenti infettivi da eliminare (per esempio, nel caso della tubercolosi e della lebbra;
qui, i micobatteri vengono fagocitati dai macrofagi, ma non possono essere digeriti: di conseguenza,
questi micobatteri continueranno per sempre a stimolare una risposta immunitaria, cronicizzando
l’infezione).
1. Materiale endogeno (materiale necrotico, osso), questi materiali sono difficilmente eliminabili
attraverso la fagocitosi, saranno quindi uno stimolo per produrre un processo flogistico.
2. Materiale esogeno (come l’asbesto): piccole particelle che vengono inalate e che, una volta
all’interno dell’organismo, non possono essere metabolizzate o demolite.
3. Patologie autoimmuni
4. Patologie infiammatorie croniche specifiche, quali il morbo di Crohn

Nel caso dell’infiammazione cronica secondaria, abbiamo:


1. Progressione di un’infiammazione acute,
favorita da suppurazione (essudato
purulento; quando si ha un ascesso, per
esempio, possiamo avere una
cronicizzazione di quest’ascesso, se non
opportunamente trattato), necrosi estesa e
drenaggio difettoso; favorita anche dalla
presenza di materiale indigeribile
2. Episodi ricorrenti di infiammazione acuta
(qui predominano i linfociti, al posto dei
neutrofili)
3. Altri casi specifici, come il rigetto dei
trapianti (risposta immunitaria cronica
contro la parte trapiantata).

La flogosi cronica: classificazione


E’ un processo infiammatorio che perdura nel tempo.
La flogosi cronica può essere suddivisa in:
1. Forme aspecifiche, ossia una cronicizzazione di una flogosi acuta (le cause sono le stesse della
flogosi acuta). Le flogosi acute, infatti, possono cronicizzare, a causa della persistenza dell’agente
eziologico o dalla perseverante esposizione allo stesso agente flogogeno che ha provocato la risposta
acuta o anche ad agenti flogogeno diversi. Alle caratteristiche della flogosi acuta, si aggiungono la
riparazione, che termina in sclerosi (o cicatrizzazione), mediante il tessuto di granulazione (o tessuto
di riparazione).
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2. Forme specifiche, caratterizzate dalla formazione di granulomi (la causa è diagnosticabile
istologicamente). In questo caso, si vengono a formare accumuli di cellule, che modificano la
morfologia del tessuto, dando origine ad un granuloma. Questo è un nodulo di tessuto infiammatorio
ben circoscritto. L’aspetto istologico di un granuloma è diverso, a seconda dell’agente eziologico che
agisce. Il granuloma viene, poi, sostituito da una cicatrice (o sclerosi).

Caratteristiche istologiche dell’infiammazione cronica


1. Modificazione della popolazione cellulare: predominano i macrofagi e i linfociti, perché sono
cellule più specializzate (per esempio, dopo la presentazione dell’antigene, si ha la conseguente
produzione di anticorpi o la produzione dei CD8 per l’uccisione diretta).
2. Modificazioni istologiche: si ha, per esempio, l’ispessimento endoteliale delle venule del focolaio
infiammatorio, al fine di reclutare i linfociti.
3. Formazione di una tessuto di riparazione (o granulazione); questo contiene una serie di puntini
rossi, che sono vasi sanguigni: abbiamo una neoangiogenesi, al fine di irrorare di sangue il nuovo
tessuto formatosi. Questo tessuto è ricco anche di fibroblasti attivati, macrofagi e cellule
infiammatorie.

Come già detto, i macrofagi sono le principali cellule responsabili della flogosi cronica. Questi sono cellule
derivate dal midollo osseo, circolano nel sangue sotto forma di monociti e, arrivati ai tessuti, si
differenziano nei macrofagi (assumono diversi nomi, a seconda di dove si trovano):
1. Istiociti, del tessuto connettivo lasso
2. Macrofagi alveolari
3. Macrofagi peritoneali
4. Cellule di Kupfer
5. Osteoclasti
6. Microglia
7. Istiociti specializzati (come le cellule epitelioidi)
8. Cellule giganti
I macrofagi sono cellule di dimensioni notevoli, hanno un’emivita lunga, svolgono anche la funzione di
APC (cellule presentanti l’antigene) ed eseguono l’attività di fagocitosi. Questi sono attivati dai linfociti,
che potenziano le loro capacità fagocitiche e citotossiche. Infine, i macrofagi possono dare vita ai
granulomi, proprio sotto l’effetto potenziante dei linfociti.
Ma come si reclutano queste i macrofagi e i linfociti? Si richiamano attraverso la secrezione di molecole di
adesione e attraverso processi chemiotattici (i linfociti e i macrofagi si muovono verso il focolaio infettivo).
Una volta reclutate, queste cellule cominciano a proliferare, stimolate dalle citochine e si localizzano nel
luogo dell’infiammazione.
Le interazioni macrofago-linfocita sono alla base del meccanismo che procura, poi,
l’infiammazione cronica: macrofagi e linfociti, infatti, si attivano a vicenda, tramite la produzione di
citochine (IL-1, TNF). Una volta attivati, entrambi producono altri mediatori chimici, come l’NO (una
specie estremamente reattiva dell’ossigeno) o alcune proteasi, che provocano danni tissutali, citochine,
fattori chemiotattici e alcuni fattori di crescita.

Infiammazione non granulomatosa


Nell’infiammazione cronica non granulomatosa, la composizione dell’infiltrato linfomonocitario mantiene
nel tempo le stesse caratteristiche con qualche variazione relativa alla prevalente partecipazione di alcuni
piuttosto che di altri elementi, qualunque sia l’agente eziologico responsabile del processo. Questa
variazione è particolarmente evidente nella flogosi cronica allergica.
Le cellule dell’infiltrato formano frequentemente una specie di manicotto attorno alla parete dei vasi che
vengono da esso compressi con conseguente riduzione dell’apporto ematico che provoca ischemia.

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Infiammazione granulomatosa
Il granuloma è un’aggregazione di macrofagi che assumono un aspetto di cellula epiteliale (cellule
epitelioidi) e formano noduli, che possono essere grandi fino a numero millimetri. Quasi sempre, le cellule
epitelioidi sono circondate dai linfociti. A causa dello scarso apporto di O2 e di nutrienti attraverso gli spessi
strati cellulari concentrici del granuloma, spesso questo và incontro a necrosi.
Frequentemente, le cellule epitelioidi si fondono in cellule giganti multinucleate (fino a 20 nuclei), le
cosiddette cellule di Langhans, che si localizzano alla periferia o al centro del granuloma. Le aree di
infiammazione granulomatosa possono andare incontro a necrosi (che può essere di tipo caseosa).
Ma quali sono le cause dei granulomi?
1. A causa dell’entrata di corpi estranei, non digeribili dai macrofagi (schegge, spine, punti di sutura,
ecc.). Dunque, al centro troveremo il corpo estraneo e, attorno, tutti i macrofagi e i linfociti, che
tentano di digerirlo, avvolgendolo (ma non ci riescono). Non abbiamo mai la presenza di necrosi.
2. A causa di sostanze tossiche. Tra queste, abbiamo le pneumoconiosi che, una volta inalate, possono
stimolare la formazione dei granulomi.
3. A causa di una risposta immunitaria patologica (per esempio, nel caso del granuloma di Aschoff,
che si presenta nel reumatismo articolare acuto).
4. Per cause sconosciute. Per esempio, nel caso della sarcoidosi: si formano una serie di granulomi, ma
non conosciamo la causa.
5. Una particolare causa, molto importante, è la tubercolosi.
L’evoluzione dei granulomi verso la guarigione avviene con tre modalità:
1) Sostituzione fibrosi a con formazione di una cicatrice
2) Deposizione di sali di calcio
3) Incapsulamento cioè delimitazione da parte di una capsula connettivale.

L’immunopatologia
Reazioni di ipersensibilità
Vengono definite come delle reazioni immuni che provocano la comparsa di manifestazioni patologiche
localizzate e/o sistemiche. Sono chiamate reazioni di ipersensibilità
Quelle di 1° – 2° – 3° tipo hanno come responsabile la produzione di anticorpi (immunità umorale)
Quella di 4° sono cellulo-mediata perchè coinvolti i linfociti T (immunità specifica)
Molte volte, il sistema immunitario può attivarsi in maniera scorretta, portando a diverse immunopatologie
(ipersensibilità o immunodeficienze).
Le reazioni di ipersensibilità sono reazioni immuni, che provocano la comparsa di manifestazioni
patologiche, localizzate o sistemiche.
Esistono 4 tipologie di ipersensibilità, differenziate per il meccanismo alla base: i primi 3 tipi coinvolgono
sempre la produzione di anticorpi, mentre quella del quarto tipo è cellulo-mediata.
1. Tipo 1: Sono anche chiamate “ipersensibilità immediate” o “allergie”. In questa situazione vengono
prodotti una speciale classe di anticorpi, che sono le IgE;
2. Tipo 2: Qui vengono prodotte o le IgG o le IgM. In questo caso, però, questi anticorpi sono diretti
verso antigeni corpuscolati, cioè che si trovano o sulla superficie di cellule o sulle membrane basali
di alcuni tessuti. Queste sensibilità sono chiamate anche citotossiche o citolitiche.
3. Tipo 3: chiamate anche “malattie mediate da immunocomplessi”. Anche in questo caso vengono
prodotti degli anticorpi (IgG o IgM), diretti però verso antigeni solubili (cioè non vincolati alla
superficie di strutture cellulari: per questo motivo, si vengono a formare, in circolo, degli
immunocomplessi, che restano disciolti nel plasma e che possono, in opportune condizione,
precipitare e sedimentare in particolari porzioni dell’organismo, alterando la funzionalità
dell’organo).
4. Tipo 4: Malattie mediate dalla produzione dei linfociti T (CD4 o CD8).

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Primo tipo
E’ chiamata anche reazione di ipersensibilità anafilattica o allergica. Qui vengono reclutate moltissime IgE.
“Allergia” significa “reattività diversa”. Nei soggetti allergici, l’antigene provoca la produzione di IgE, al
posto delle IgM o delle IgG. Gli allergici sono, infatti, atopici, poiché hanno la capacità abnorme di
sviluppare un’ipersensibilità.
Questa reazione di ipersensibilità, viene chiamata anche anafilassi, poiché, al secondo contatto, anziché
rafforzare la risposta, si ha una manifestazione gravissima, che provoca una infiammazione esagerata.
Ciò che provoca l’allergia è detto allergene: ogni allergene presenta, sulla superficie, una grande quantità di
epitopi ripetuti.
Ma cosa accade? Un individuo allergico incontra per la prima volta un allergene: il sistema immunitario
produce una grande quantità di IgE (che sostituiscono da subito le IgM, che normalmente dovrebbero essere
prodotte): questo primo contatto è detto di sensibilizzazione. Tutte queste IgE si vanno a legare ai mastociti.
Al secondo contatto, appena arriva l’allergene, questo viene immediatamente riconosciuto dalle IgE
specifiche, legate sui mastociti, provocando la degranulazione. I mastociti, infatti, liberano istamina,
proteasi ed alcuni derivati dell’acido arachidonico, dando vita ad un’infiammazione eccessiva.
Ma perché questi soggetti producono le IgE in maniera eccessiva? Perché hanno una predisposizione
genetica a rispondere agli allergeni, con una risposta di tipo Th2, favorendo il cambiamento di classe verso
le IgE.
(Preso a lezione: Quella di 1° tipo, chiamata anche immediata, sono le allergie. Allergia significa una
reattività diversa, verso determinati allergeni, antigeni che provoca l’allergia. Gli allergeni normalmente
inducono una risposta immunitaria di tipo Th1 che induce la risposta di IgM e IgG, quelli allergici hanno
una predisposizione a rispondere verso questi allergeni con una risposta Th2 che favoriscono la produzione
di IgE.I soggetti normali rispondono agli allergeni con la sintesi di IgM e IgG. La risposta immunitaria è
polarizzata prevalentemente in sensi Th1 (IL12 – INF-gamma).
La polarizzazione dipende dal tipo di stimolazione sui T indotto dalle APC e dai linfociti Treg.
I soggetti atipici rispondo agli allergeni con una polarizzazione in senso Th2 (IL-4) e producono IgE.
Nella fase di contatto o di sensibilizzazione, si andranno a legare nella membrana dei mastociti gli antigeni,
lega le IgE specifici per l’allergene. In questo primo contatto non ci si accorge di nulla ma ci siamo
sensibilizzati. Al secondo contatto con l’allergene, questo svilupperà una reazione data dal fatto che sui
mastociti è legato l’IgE che scatenerà la degranulizzazione dei mastociti che andrà a rilasciare l’istamina che
agirà a livello locale con una vasodilatazione e un aumento di permeabilità con favorimento della
formazione di edema. Inoltre questi che hanno la possibilità di sviluppare altri mediatori pro-infiammatori
con un’azione tardiva. Per scatenare la degranulazione è obbligatorio che sulla superficie vi siano legati
almeno due IgE.
Vi sono delle condizioni più o meno gravi con cui si manifesta: rinite allergica, congiuntivite (aumento della
secernazione mucosa, infiammazione delle prime vie respiratorie), allergie alimentari (aumento della
peristalsi dovuta a contrazione della muscolatura liscia intestinale data dal rilascio delle sostanze dei
mastociti), asma bronchiale (esaltata responsività bronchiale con broncocostrizione fenomeni infiammatori e
danno tissutale causata dalla fase tardiva della reazione), anafilassi provocata dai farmaci, punture di insetti,
alimentari (caduta della pressione sanguigna con shock, causata dalla dilatazione vascolare e perdita di fluidi
dal letto capillare, ostruzione delle vie aeree da edema della laringe).
Durante uno shock anafilattico è fondamentale l’utilizzo della adrenalina per bloccare l’ulteriore
degradazione dei mastociti.)

Avevamo detto che gli allergeni dovevano presentare necessariamente degli epitopi ripetuti poiché, alla
fine di attivare i mastociti, sono necessari almeno due legami con due IgE. L’ipersensibilità di primo tipo
possono provocare diverse sindromi:
1. Rinite allergica, congiuntivite: aumento della secrezione mucosa e infiammazione delle prime vie
respiratorie;
2. Allergie alimentari, con un aumento della peristalsi, dovuta a contrazioni eccessive dell’intestino.

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3. Asma bronchiale: esaltata risposta bronchiale con broncocostrizione. In questo caso, vengono
utilizzati i corticosteroidi, poiché riducono l’infiammazione e inducono un rilasciamento della
muscolatura liscia bronchiale.
4. Shock anafilattico, quando abbiamo una caduta della pressione sanguigna (shock), causata dalla
dilatazione vascolare, con conseguente ostruzione delle vie aeree. In questi casi viene utilizzata
l’adrenalina, poiché aumenta la gittata cardiaca, controbattendo lo shock.

Secondo tipo (citolitiche o citotossiche)


Queste ipersensibilità sono mediate da anticorpi specifici della classe delle IgM o delle IgG.
Ma quali anticorpi sono responsabili di queste reazioni?
1. Autoanticorpi, verso antigeni cellulari superficiali (se, per esempio, sono nei confronti di alcuni
globuli rossi, avremo l’anemia emolitica autoimmune)
2. Alloanticorpi, diretti verso antigeni presenti sulla superficie di cellule di individui della stessa specie.
Si hanno, per esempio, nei casi post trasfusione o immediatamente dopo il trapianto di organi e
tessuti (vengono prodotti anticorpi contro antigeni espressi su tessuti di un organismo not self).
3. Anticorpi diretti verso antigeni o apteni estranei complessati a proteine di superficie. Esistono molti
farmaci, che fungono proprio come degli apteni, che possono legarsi, per esempio, alla superficie dei
globuli rossi. In questo caso, si viene a produrre una risposta immunitaria nei confronti degli
eritrociti, portando a lisi di questi ultimi (gli anticorpi, riconoscono, infatti il legame fra farmaco e
globulo rosso).

(Preso a lezione: Anticorpi specifici mediata da anticorpi igm o IgG circolanti che legano antigeni sulla
superficie di cellule o della matrice extracellulare. Gli antigeni devono essere corpuscolati , non solubili. Gli
anticorpi possono essere o auto anticorpi verso antigeni superficiali dello stesso individuo.
Autoanticorpi (verso antigeni cellulari superficiali dello stesso individuo:
 Anemia emolitica autoimmune
 Piastrinopenia auimmune
 Leucopenia autoimmuni
 Pemfigo (anticorpi verso antigeni delle cellule epiteliali, es. molecole di adesione)
 Sindrome di Goodpasture (antigene comune alla membrana base dei glomeruli renali e degli alveoli
polmonari
 Anticorpi anti recettore
Alloanticorpi: verso antigeni presenti in individui della stessa specie
 Reazioni post-trasfusionali
 Malattia emolitica del neonato o ittero emolitico (da fattore Rh)
 Reazioni immediate al trapianto di organi e tessuti (presenza di anticorpi pre trapianto)
Anticorpi diretti verso antigeni o apteni estranei, complessati a proteine di superficie self (self modificato)
 Reazioni a farmaci che si fissano su proteine della superficie cellulare)

Ma quali sono i meccanismi patogenetici che sono alla base dell’ipersensibilità mediata da anticorpi? Sono
3:
1. Opsonizzazione di cellule da parte di anticorpi e componenti del complemento e ingestione da parte
di fagociti. Se una cellula viene rivestita da anticorpi IgG, per esempio, si avrà subito l’attivazione
dei fagociti. Se, invece, si legheranno delle IgM, si avrà anche l’attivazione del complemento, per via
classica.
2. Lisi indotta dal complemento che viene attivato per via classica
3. Infiammazione indotta da anticorpi che si legano ai recettori Fc di leucociti e dai componenti della
cascata del complemento. IgG che possono attivare la citotossicità anticorpo-dipendente (neutrofili,
macrofagi, NK).

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Secondo tipo (malattie autoimmuni)
Si ha la produzione di auto anticorpi antirecettori che disturbano la funzione normale dei recettori,
producono un alterazione della funzione della cellula, quindi con non una funzione citotossica o citolitica.
Nelle ipersensibilità di II tipo possono essere incluse altre due malattie autoimmuni, in cui si ha un
cambiamento nella funzione del tessuto attaccato:
1. Malattia di Graves, una malattia autoimmune, in cui vengono prodotti degli autoanticorpi, che si
vanno a legare sulle cellule della tiroide a dei recettori per l’ormone TSH. Questo autoanticorpo
mima, di fatto, la funzione dell’ormone TSH (come se l’ipotalamo producesse grandi quantità di
TSH): di conseguenza, la tiroide produrrà tanto T3 e T4 e il soggetto diviene ipertiroideo. In questo
caso, quindi, non abbiamo una lisi di cellule.
2. Miastenia grave. Qui, abbiamo la produzione di autoanticorpi contro il recettore per l’acetilcolina,
impedendo la contrazione dei muscoli (paralisi).
Esistono, tuttavia, altri esempi, come il diabete mellito insulino-resistente, provocato da anticorpi che
mascherano il recettore per l’insulina. Al contrario, esiste anche una forma di ipoglicemia provocata da
anticorpi che si legano e stimolano il recettore per l’insulina.

Un’ipersensibilità di II tipo, mediata da alloanticorpi, è la malattia emolitica del neonato, che può colpire il
feto di madre Rh negativa e padre Rh positivo, se il feto è Rh positivo.
È detta anche malattia emolitica anti-D, per la presenza nel circolo di anticorpi anti-D di origine materna,
sviluppatisi in seguito ad una prima gravidanza. Infatti, se per il sistema AB0 esistono anticorpi naturali (nel
senso che la loro comparsa non è legata ad una stimolazione antigenica) contro gli antigeni presenti sulla
membrana degli eritrociti, per il gruppo Rh invece gli anticorpi anti D si vengono a creare in seguito al
contatto con l'antigene.
Questa si caratterizza per la distruzione dei globuli rossi fetali, a causa del passaggio transplacentare dei
corrispondenti alloanticorpi di tipo IgG prodotti dalla madre.
Avremo che nel parto, il passaggio di sangue del figlio alla madre causerà una risposta immunitaria della
madre stessa. Questa risposta, o meglio gli anticorpi implicati, saranno ripassati al figlio tramite la placenta
e andranno ad attaccare proprio i globuli rossi del bambino, che non essendo della madre vengono visti
come not-self. Più sono gli anticorpi immessi nella placenta dalla madre, più sono i globuli rossi demoliti
nel figlio. In casi estremi, questa situazione può portare alla morte del neonato. NB: per la risoluzione del
problema, causato dall’antigene D presente nel sangue del neonato, si procede immediatamente con
l’immissione nella madre di IgM estranee, in modo che il suo organismo sia già pronto a distruggere quel
sangue, senza attivare il proprio sistema immunitario.

Un altro esempio sono i meccanismi immunologici del rigetto di trapianto. (Rigetto iperacuto: da minuti a
poche ore).
Nel rigetto iperacuto, anticorpi preformati reagiscono con gli alloantigeni espressi sull’endotelio dei vasi
del trapianto, attivano il complemento e stimolano un processo di trombosi e necrosi dei vasi.

Reazioni di ipersensibilità di III tipo o da immunocomplessi


Anche in questo caso abbiamo anticorpi indirizzati verso antigeni solubili. Questi anticorpi legano l’antigene
e formano un immunocomplesso. Questi possono avere diverse grandezze, che dipendono dalla quantità di
anticorpi e antigeni presenti nella formazione dell’immunocomplesso. Gli immunocomplessi di grandi
dimensioni sono quelli eliminati con maggiore facilità. Questi formano un grosso reticolo, che gli permette
di legarsi agli eritrociti, che poi li porterà a distruggersi nella milza (eritrocateresi). I piccoli
immunocomplessi tendono invece a precipitare nei punti in cui si ha una grande filtrazione (pareti vasali e
glomerulo renale). Una volta lì si attivano i processi di difesa, e quindi l’attivazione del processo
infiammatorio, tramite il complemento o l’attivazione di macrofagi. In questo caso si attivano sia le IgG che
le IgM.
Esistono 3 situazioni, in cui si può avere la formazione di un immunocomplesso:

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1. Infezione cronica, persistente non eccessivamente severa, per esempio nella lebbra, nella malaria,
nella febbre emorragica.
2. Patologie autoimmuni, quando il sistema immunitario riconosce degli agenti self come estranei. In
questa situazione si formano immunocomplessi che vanno in circolo, vengono rimossi dagli eritrociti
o dai fagociti mononucleati. Ma quando la formazione di immunocomplessi supera la capacità di
rimozione, questi si depositano nei tessuti. Es. LES (lupus eritematoso sistemico), artrite reumatoide
3. Inalazione di agenti antigenici. Ci sono due situazioni tipiche: malattie dell’allevamento di piccioni
e polmone del contadino.
Es. Di malattia:
Malattia Elementi attivi Conseguenza
Lupus eritematoso sistemico DNA, nucleoproteine Nefrite, artrite, vasculite
Poliarteriosa nodosa Antigene di sup. del virus o HBV Vasculite

Ipersensibilità di tipo IV (con risposte cellulo mediate)


Questa ipersensibilità richiede la presenza di linfociti T (da qui cellulo-mediata) e di un antigene. Sono dette
anche risposte ritardate, poiché possono passare anche 24-48 ore dalla stimolazione, prima che si
manifestino. In questa ipersensibilità le cellule più coinvolte sono i linfociti TCD4, in particolare i Th1,
ossia i pro infiammatori. Quando vengono attivati sono indotti a produrre citochine infiammatorie. In parte
si attivano anche TCD8, che uccidono le cellule in cui sono legati gli antigeni.
In qualche malattia i linfociti T-CD8 uccidono direttamente le cellule dei tessuti.
Un esempio classico di ipersensibilità di IV tipo è la formazione di un granuloma. Quando sono presenti
delle sostanze non digeribili dai macrofagi, questi comunque riescono a presentare i peptidi antigenici ai
linfociti T-CD4. Questi si attivano e cominciano a maturare sotto forma di popolazione Th1, iniziando
quindi a produrre grandi quantità di IL-2 (fattore che stimola lo sviluppo dei linfociti T-CD4). In questo
modo, i linfociti T-CD4 potranno produrre una grande quantità di IFN-γ, che stimolerà il macrofago a
formare il granuloma, le cellule giganti e le cellule epitelioidi. Un altro esempio è la dermatite da contatto.
Questa può essere causata dal contatto con alcuni metalli rari (zirconio) o sostanze vegetali (linfa di mango).
Al contatto con la pelle, queste sostanze
(apteni) si associano ad alcune proteine dell’organismo, divenendo immunogene. Vengono captate da alcune
cellule dendritiche, che le portano a livello dei linfonodi. Qui, abbiamo l’attivazione dei linfociti T-CD4 di
tipo Th1. Questi tornano in periferia (ove è avvenuto il contatto) e cominciano a produrre una grande
quantità di IFN-γ, il quale richiama ed attiva i macrofagi e le cellule infiammatorie, che cominceranno a
produrre una grande quantità di citochine chemiotattiche: abbiamo la formazione locale di un processo
infiammatorio; sulla superficie della pelle vengono, così, a comparire una serie di vescicole, molto
probabilmente cariche di essudato.

I processi riparativi
I meccanismi riparativi riguardano quelle cellule che possono eseguire il ciclo cellulare. Esistono diversi tipi
di cellule:
1. Cellule labili, soggette cioè a continuo rinnovamento per replicazione costante (per esempio, gli
eritrociti, le cellule del midollo osseo o dell’epidermide);
2. Cellule stabili, che normalmente non replicano ma possono farlo in caso di necessità (per esempio, le
cellule del fegato: epatociti). Qui, alcune cellule ferme alla fase G0, di quiescenza, vengono
richiamate nel ciclo cellulare, al fine di completare la maturazione;

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3. Cellule perenni, con vita lunghissima, che non riescono ad entrare nel ciclo cellulare: non possono
dividersi o moltiplicarsi. Un loro danno
provoca necessariamente la sostituzione di
queste cellule con un tessuto fibroso e
cicatriziale.
La normale omeostasi è bilanciata da un
continuo equilibrio fra proliferazione ed
apoptosi. Quando si ha, invece, un danno (di
qualsiasi origine), possiamo avere:
1. Rigenerazione franca, se parliamo di
cellule labili
2. Rigenerazione con ipertrofia, se
l’organo è costituito da cellule stabili
3. Riparazione, quando abbiamo cellule
perenni, con la sostituzione del tessuto
mancante con cellule cicatriziali
4. Infiammazione cronica, con la
formazione di fibrosi
E’ importante ricordare come, nel caso delle cellule perenni, il tessuto originale viene sostituito con tessuto
connettivo.
Il danno a carico di tessuti diversi determina il coinvolgimento di tipi cellulari specifici del tessuto
interessato. Contemporaneamente, però, le cellule endoteliali e i fibroblasti, in qualità di componenti
strutturali ubiquitari, le cellule dell’infiammazione e le piastrine intervengono in qualunque processo
riparativo.
Vediamo, ora, alcuni termini fondamentali:
1. Rigenerazione: proliferazione delle cellule del tessuto danneggiato, con sostituzione delle cellule
morte. Il tessuto riassume, sia strutturalmente che funzionalmente, la sua integrità.
2. Riparazione: si ha quando il tessuto non può rigenerarsi. Il tessuto distrutto viene sostituito con
tessuto connettivo (cicatrice). C’è un ritorno all’integrità strutturale, ma non viene ricostituita la
completa funzionalità del tessuto.
3. Cicatrice: è un tessuto fibroso denso, che colma e ripara una perdita di tessuto. Si presenta come un
tessuto liscio, lucido, con poche cellule (qualche fibroblasto) e per niente vascolarizzato.
4. Organizzazione: sostituzione con tessuto connettivo. Questa l’avevamo già trovata parlando degli
ascessi. Significa che si attivano dei processi riparativi con lo scopo di eliminare l’agente
danneggiante e riparare il danno tramite la deposizione di tessuto connettivo.
5. Sclerosi/fibrosi: aumento del tessuto connettivo fibroso denso in un determinato distretto. E’ diverso
dalla cicatrice, in quanto si tratta di un aumento patologico. Questo provoca lo scompaginamento di
un organo, per sostituzione con tessuto connettivo. Ciò porta necessariamente all’insufficienza stessa
dell’organo.
6. Cheloide: cicatrice esuberante sulla cute. La quantità di connettivo depositata è maggiore a quella
necessaria per chiudere la ferita.
7. Aderenza: porzioni di fibrina che uniscono zone della superficie degli organi, rivestiti da sierose.

La guarigione delle ferite Esistono 2


modalità:
1. Guarigione per prima intenzione, in cui i lembi della ferita sono molto vicini e non viene a mancare
tessuto fra un lembo e l’altro.
2. Guarigione per seconda intenzione, caratterizzata da una ferita, in cui parte del tessuto viene a
mancare. Questa guarigione richiede molto più tempo; è necessario il coinvolgimento di più cellule e
di più tessuto di granulazione. In questi casi, infatti, molto spesso vengono posti dei punti di sutura,
al fine di avvicinare i due lembi e ridurre la quantità di tessuto che deve essere sostituito. Tuttavia, in
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una fase della guarigione, esistono dei miofibroblasti, che avvicinano i due lembi della ferita, per
ridurre la quantità di tessuto da neoformare (proprio come i punti di sutura).
3. Guarigione per seconda intenzione con ferita infettata. In questo caso, oltre al tessuto di
granulazione, si viene a formare anche il pus.

In tutti i tipi di ferite, si ha sempre una formazione di un coagulo, seguita da una fase infiammatoria, alla
quale succede una riepitelizzazione (in cui la ferita viene chiusa velocemente con un nuovo epitelio). In
seguito, si ha la formazione del tessuto di granulazione (che appara, appunto, con dei piccoli puntini rossi,
che sono proprio i nuovi vasi sanguigni, dovute alla neoangiogenesi). Infine, abbiamo la contrazione della
ferita.
1. Un primo evento riguarda la cascata coagulativa: i componenti, che si trovano in forma inattiva nel
sangue, vengono a contatto con la membrana basale, dando vita alla cascata, allo scopo di formare
un tappo emostatico, che blocca la fuoriuscita di sangue dai vasi lesionati. Si viene, dunque, a creare
una crosta, che rappresenta proprio la disidratazione del coagulo, importantissima poiché tappa e
protegge la ferita dall’ambiente esterno, limitando così l’ingresso di patogeni. Il processo è molto
veloce: inizia subito e dura solo qualche minuto.
2. Abbiamo ora la migrazione di neutrofili (infiammazione acuta). Nella ferita sono presenti molti
detriti cellulari e infiammatori. Di conseguenza, i fagociti residenti cominciano a fagocitare; questi,
tuttavia, sappiamo essere delle molecole molto attive nel produrre sostanze pro-infiammatorie: viene
indotto un processo infiammatorio, col quale vengono richiamati i neutrofili e i macrofagi. Questi
ultimi producono fattori di neoangiogenesi, al fine di formare nuovi vasi sanguigni, che vanno a
convogliarsi verso la zona che deve essere riparata. Questa fase si verifica nel giro di qualche ora
dalla ferita.
3. La ferita, a questo punto, deve essere completamente ripristinata e chiusa (riepitelizzazione). Sotto
l’effetto di fattori di crescita, abbiamo la stimolazione di cellule epiteliali, che cominciano a chiudere
la ferita: queste crescono ai bordi del taglio, insinuandosi sotto la crosta. Comincia anche la
gemmazione dei vasi che erano stati generati. Se la ferita è poco profonda e interessa solo
l’epidermide, la guarigione si può dire conclusa.
4. A questo punto, giungono dei macrofagi, attraverso il sangue, col compito di ripulire la ferita,
eliminando anche i granulociti neutrofili (che, una volta effettuata la loro funzione, muoiono). Si
viene a formare il tessuto di granulazione, formato dai vasi neoangiogenesi, dai fibroblasti
(richiamati grazie ad alcuni fattori chemiotattici), da alcune cellule infiammatorie e dal connettivo,
ricco di collagene.

Ma come si formano questi vasi di angiogenesi?


Grazie alla produzione di alcuni fattori di crescita da parte dei macrofagi. Il fattore di crescita più importante
è il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor).

5. Evoluzione del tessuto di granulazione. Le cellule infiammatorie tendono a scomparire per apoptosi,
cessa la proliferazione e lo stato attivato dei fibroblasti, non si ha più la neoformazione di vasi
(vengono prodotte sostanze per inibire la neoangiogenesi) e non si ha più la neoformazione di
collagene.
6. Contrazione della ferita. In caso di ferite estese, i fibroblasti presenti nel tessuto di granulazione,
modificano il loro fenotipo e diventano miofibroblasti (assumono la capacità di contrarsi), riducendo
così l’ampiezza della ferita (in una guarigione per seconda intenzione). Si ha, poi, la formazione di
tessuto fibroso, in cui si hanno pochissimi vasi, molti fibroblasti e una certa quota di sostanza
intercellulare. Successivamente, questo tessuto fibroso, va incontro alla trasformazione in tessuto
sclerotico, in cui si hanno pochissimi fibroblasti quiescenti, senza vasi, senza cellule infiammatorie e
moltissimo collagene (vera e propria cicatrice).

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I fibroblasti
Sono cellule del tessuto connettivo (cellule mesenchimali) col compito di depositare il collagene. Queste
cellule vengono richiamate da quasi tutte le cellule coinvolte nei processi infiammatori e immunitari.

Fattori che influenzano la guarigione delle ferite


1. Fattori locali:
• Infezioni, che amplificano la fase infiammatoria
• Presenza di corpi estranei, che prolungano la fase infiammatoria
• Fattori meccanici, come la compressione, che riduce l’irrorazione della ferita
• Sede della lesione: una ferita dove la cute è molto sottile, è più complessa la guarigione
2. Fattori sistemici:
• Farmaci: i cortisonici, per esempio, diminuiscono l’infiammazione
• Fattori nutrizionali: una carenza di vitamina C, per esempio, riduca la sintesi di collagene e
di costruzione del tessuto di granulazione
• Diabete, che va ad alterare il microcircolo e porta ad una maggior propensione alle infezione,
con una diminuzione della chemiotassi e di produzione di macrofagi
• Malattie vascolari, come l’aterosclerosi, che provocano una diminuzione dell’arrivo di
sangue alla ferita

Questi fattori provocano alcune complicazione delle ferite, come:


1. Inadeguata formazione del tessuto di granulazione:
• Per deiscenza, ossia una rottura della ferita, causata da uno stress (per esempio, un colpo di
tosse)
• Ulcerazione
2. Eccessiva formazione di tessuto di granulazione, (eccesso di TGFbeta ormone che guida la
produzione di collagene) quando è alterata la produzione di fattori di crescita: si vengono a formare
cicatrici ipertrofiche e se supera i margini cheloidi
3. Eccessiva contrazione delle ferite (normalmente avvengono in gravi ustioni di terzo grado) in cui si
ha una necrosi dell’epidermine e del derma con un processo infiammatorio che porta un essudato di
tipo fibrinoso e nel cercare di riparare si può avere una eccessiva contrazione dei fibroblasti.

La fibrosi epatica (cirrosi)


Lesioni croniche del fegato come nel caso di assunzione prolungata di alcool o nel
caso di epatite C causano una perdita cronica di tessuto. A questo fà seguito il
tentativo di guarigione che si manifesta nella rigenerazione degli epatociti e nella
fibrosi (=eccessiva deposizione di collagene da parte dei fibroblasti). Si ha quindi dei
noduli di rigenerazione che vengono ‘’strozzati’’ da parte del tessuto fibroso. La
cirrosi epatica è una malattia cronica e degenerativa del fegato. Si manifesta quando
tale organo risponde ad una lesione o ad un processo morboso distruggendo le proprie
cellule e sostituendole con interconnessioni cicatriziali, tra le quali si sviluppano
noduli di cellule in rigenerazione; di conseguenza, l'organo perde a poco a poco
architettura e funzioni, con ripercussioni negative sull'intero organismo.
Tra le principali cause di questa malattia troviamo le epatiti virali (B, C e D) e quelle autoimmuni, l'abuso di
alcol o l’abuso di certi farmaci.

La guarigione delle fratture


E’ un processo simile a quello di guarigione delle ferite cutanee. Può avvenire, anche in questo caso, per
prima o seconda intenzione. Come primo evento abbiamo la formazione del coagulo, a cui segue la reazione
infiammatoria. Successivamente, abbiamo i fenomeni proliferativi: viene indotta la neoangiogenesi e la
riepitelizzazione; i condroblasti, poi, producono cartilagine, formando il cosiddetto callo (callo osseo =
tessuto connettivo fibroso che diventa poi più consistente tramite produzione di cartilagine da parte dei
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condrociti), che diviene sempre più duro. Nel frattempo vengono stimolati gli osteoclasti, con il compito di
rimuovere la cartilagine, e gli osteoblasti, che vanno a depositare nuovo tessuto osseo, per deposizione di
Sali di calcio.

La guarigione nel sistema nervoso


I neuroni sono cellule perenni. I danni al sistema nervoso sono, dunque, irreversibili. Se abbiamo un danno a
livello del SNC, le cellule della glia e gli astrociti vanno a formare una cicatrice. Se abbiamo avuto un
danno a livello del SNP, invece, si ha la riparazione delle fibre, se non sono lesi i pirenofori, da cui partono
gli assoni e, soprattutto, se i due monconi periferici di assone rimangono ravvicinati.

Caratteristiche generali sulle arterie


Le arterie si dividono in:
1. Arterie maggiori (o elastiche) includono: aorta, l’innominata, la succlavia, l’inzio della carotide
comune e l’origine delle arterie polmonare
2. Arterie di medio calibro (o muscolari)
3. Piccole arterie (con calibro inferiore ai 2mm)
4. Capillari

Le arterie sono costituite da 3 tonache: tunica intima, quella più interna (verso il lume del vaso), una tunica
media, costituita prevalentemente da tessuto muscolare liscio, tunica avventizia, in cui troviamo tutti i vasa
vasorum (per la nutrizione delle cellule costituenti le arterie) e tutti i nervi.
1. La tunica intima è costituita, nella parte diretta verso il lume, dagli endociti, che formano
l’endotelio: questo serve ad impedire la coagulazione del sangue: questi, continuamente producono
sostanze favorenti la fluidità sanguigna. L’endotelio è molto importante, anche perché separa il
sangue dagli altri strati, che sono trombogenici (stimolano l’aggregazione piastrinica). Favorisce il
passaggio del colesterolo LDL dall’interno
all’esterno del lume.
2. La lamina elastica è uno strato di fibre
elastiche disperse e disposte in direzione
longitudinale. Questo strato non è continuo,
bensì fenestrato: attraverso questi spazi,
soprattutto nelle arterie di medio calibro, le
cellule muscolari lisce possono penetrare
nell’intima.
3. La tunica media (o strato muscolare). E’
composto da un’alternanza di strati di cellule muscolari lisce e fibre elastiche. E’ poco vascolarizzata
ed è responsabile della propagazione dell’impulso sistolico del cuore. Con l’avanzare dell’età, le
fibre elastiche si deteriorano e vengono sostituite da tessuto fibroso. In condizioni fisiologiche le
cellule muscolari liscie regolano la vasocostrizione/dilatazione dei vasi. Inoltre esse sono in grado di
sintetizzare vari tipi di collagene, PGAG ed elastina. In corso di arteriosclerosi, le cellule muscolari
lisce possono differenziarsi, proliferare e migrare nella tunica intima, diventando miointimali: queste
producono connettivo e favoriscono la creazione di una capsula fibrosa.
4. La tunica avventizia, costituita da tessuto connettivo, contenente fibroblasti, fibre elastiche e vasa
vasorum. Le connessioni nervose sono estremamente numerose, soprattutto nelle arterie di medio o
piccolo calibro, dove giocano un rande ruolo nella vasodilatazione o vasocostrizione.

Le principali patologie che coinvolgono le arterie sono malattie, che vengono raggruppate sotto il nome di
arteriosclerosi. Di queste, è molto importante l’aterosclerosi, processo che riguarda le grandi e medie arterie
ovvero coloro che hanno le cellule muscolari.

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L’aterosclerosi L’aterosclerosi (AS) è una malattia delle larghe e medie arterie, tra le quali le più colpite
sono l’aorta, le coronarie e le arterie del sistema cerebrale: si viene, qui, a provocare un adenoma. Le
manifestazioni cliniche principali sono, quindi, l’infarto miocardico e l’infarto cerebrale (ictus).
L’AS provoca, a volte, anche altre patologie meno gravi, come l’ischemia cardiaca cronica (riduzione di
apporto di ossigeno), la gangrena agli arti inferiori, l’encefalopatia ischemica, l’aneurisma e la stenosi
(riduzione del lume del vaso, con diminuzione di apporto di nutrimenti e ossigeno).
L’aterosclerosi è causata dallo sviluppo dell’ateroma, una lesione delle arterie che appare come una placca
rialzata rispetto alla parete vasale interna (intima). Questo è meglio conosciuto con il nome di placca
aterosclerotica; è definibile come una degenerazione delle pareti arteriose, dovuta al deposito di placche
formate essenzialmente da un ‘’core’’ di grasso (LDL ossidate) e esternamente da tessuto cicatriziale;
un'arteria infarcita di materiale lipidico e tessuto fibrotico perde, infatti, elasticità e resistenza, risultando
più suscettibile alla rottura, riducendo il proprio lume interno ed ostacolando il flusso sanguigno. Inoltre, in
caso di rottura dell'ateroma (se questa placca è particolarmente sottile può, infatti, andare facilmente
incontro a rottura), il primo fenomeno che si instaura è una serie di processi riparativi e coagulativi, che
possono portare alla rapida occlusione del vaso (trombosi), o generare embolie più o meno severe (questo
qualora un frammento dell'ateroma si stacchi e venga spinto in periferia, andando così ad occludere i
capillari arteriosi periferici).

L’ateroma, nella sua parte più centrale, è costituito da un core di lipidi (colesterolo complessato a proteine e,
soprattutto, LDL, ossia colesterolo cattivo). Le LDL, infatti, che si trovano normalmente libere nel sangue,
una volta che incontrano un endotelio alterato, vengono ossidate. Le LDL ossidate, con molta facilità,
riescono a penetrare nella tunica intima, dove cominciano ad accumularsi e a richiamare localmente le
cellule infiammatorie, in particolare i macrofagi. Questi ultimi, infatti, tentano di fagocitare le LDL;
tuttavia, in questo processo, i macrofagi rilasciano tutte quelle sostanze pro-infiammatorie, che richiamano
vari tipi di cellule. Di fatti, dunque, ciò che accade è l’instaurazione di un vero e proprio processo
infiammatorio (in altre parole, la placca ateromasica è un complesso infiammatorio).
Dunque, dicevano che l’ateroma è costituito, all’interno, da un core lipidico e, più esternamente, da tutta
quella serie di cellule infiammatorie, quali macrofagi, granulociti, piastrine, fibroblasti e loro forme di
differenziazione (cellule miointimali e cellule schiumose, così chiamate perché hanno fagocitato i lipidi: il
loro citoplasma appare ricco di bolle d’aria). A questo, però, bisogna aggiungere la formazione successiva di
una capsula esterna fibrosa (ad un certo punto, infatti, viene depositato del connettivo, al fine di tentare di
riparare o mantenere localizzata questa struttura ateromasica). Un ateroma, dunque, presenta 3 strati
principali, che si vengono a formare uno dietro l’altro: un core lipidico interno, uno strato di cellule
infiammatorie e una capsula esterna fibrosa.
L’ateroma viene suddiviso in 3 stadi di sviluppo:
1. I lipidi (soprattutto LDL) cominciano ad accumularsi, andando a formare quella che è nota come
stria lipidica. Questi lipidi, come già detto, cominciano a richiamare tutte quelle cellule pro-
infiammatorie.
2. La placca ateromasica viene, poi, rivestita da materiale coagulativo, raggiungendo così il secondo
stadio: la placca fibrosa.
3. La placca fibrosa aumenta sempre più di dimensioni. Può, però, accadere anche che la placca si
rompa, andando a provocare, come già detto, un trombo o un embolia. Siamo nella fase di lesione
complicata. Purtroppo, i sintomi si sviluppano solamente in quest’ultima fase: si scopre, quindi, si
avere placche ateromasiche solamente nella fase più avanzata.

Formazione dell’ateroma: le fasi


1. Il primo evento che deve accadere, prima che queste LDL vengano internalizzate nell’intima, è
un’alterazione della permeabilità dell’endotelio. Questa può essere data da:
• Iperlipidemia (nei soggetti che hanno una grande quantità circolate di colesterolo e di LDL);

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• Ipertensione (negli ipertesi, infatti, la pressione è maggiore: questo può recare danno alle
arterie, soprattutto nei punti di dislocazione; la formazione degli ateromi è molto frequente
in questi punti);
• Fumo, che danneggia l’endotelio, rendendolo poco elastico;
• Omocisteina (alte concentrazioni favoriscono un danno endoteliale);
• Risposta immune, per esempio quando si ha la precipitazione e deposizione di
immunocomplessi (ipersensibilità di Terzo Tipo): se degli immunocomplessi precipitano a
livello dell’endotelio, si ha l’attivazione del sistema immunitario, che provoca un danno
endoteliale e favorisce l’instaurarsi dell’ateroma.
2. Tutti questi danni all’endotelio, provocano un aumento della permeabilità dell’endotelio alle
lipoproteine (soprattutto all’LDL). Questo comporta l’incremento dell’espressione delle molecole di
adesione per i leucociti (si comincia a creare una situazione pro-infiammatoria). L’arrivo di LDL,
poi, funge da fattore chemioattraente che richiama una grande quantità di neutrofili, che si insinuano
e penetrano nella tunica intima. L’ateroma, infatti, è all’interno dell’intima: qua, infatti, si
accumulano i lipidi e le cellule infiammatorie; aumentando di volume l’intima, si riduce il lume
del vaso.
3. A questo punto cosa accade? Arrivano i macrofagi, come già detto, che cominciano a mangiare le
LDL ossidate, divenendo cellule schiumose; nel fare questo, però, rilasciano sostanze pro-
infiammatorie: vengono richiamati i granulociti, vengono rilasciate tutta una serie di sostanze
tossiche nell’ambiente. Si viene, quindi, a creare una sorta di poltiglia, fra cellule morte, LDL
ossidate, macrofagi con materiale indigeribili, ecc.
4. I macrofagi producono, oltre alle citochine pro-infiammatorie, una grande quantità di altre sostanze
(come i fattori che stimolano la proliferazione dei fibroblasti, sostanze che inducono la
neoangiogenesi): tutte queste sostanze vengono, dunque, rilasciate, dando origine ad una vera e
propria flogosi. Sotto l’influenza di questi fattori, vengono richiamati nell’intima anche i miociti:
accade, quindi, che la tonaca media (muscolare) si riduce di dimensioni (riducendo anche l’elasticità
del vaso). I miociti, inoltre, cominciano a depositare collage, andando a formare una capsula fibrosa,
che avvolge il tutto (abbiamo il cosiddetto ateroma fibro-adiposo). Ora, sarà meglio, per la persona,
avere un ateroma con la capsula fibrosa molto spessa o con la capsula fibrosa sottile? La risposta è:
spessa. Questo perché, se la placca fosse sottile, andrebbe molto più facilmente incontro a rottura, In
questo caso, darebbe immediatamente vita a processi riparativi e coagulativi, andando a formare un
trombo. Se, invece, parti della capsula fibrosa cominciano a disperdersi nel circolo sanguigno,
possono andare a bloccarsi a livello capillare, dando vita o ad un’embolia.

Il trasporto dei trigliceridi e del colesterolo nel plasma sanguigno


Le lipoproteine trasportano dei lipidi e delle sostanze idrofobiche nel sangue.
Esistono 2 vie: esogena e endogena.
Si parte dalla via esogena, attraverso l’assorbimento dei
grassi dalla dieta, che vanno a formare i chilomicroni
(formati da trigliceridi). Questi, nei capillari, vengono
trasformati, grazie all’azione dell’enzima lipoproteina
lipasi, che stacca gli acidi grassi liberi, inviandoli ai
tessuti; il resto della molecola viene, invece, inviato verso
il fegato. Questo capta i residui, utilizzando il colesterolo
contenuto in essi: lo trasforma e lo secerne come VLDL.
Queste vengono reimmesse nei capillari: qui vengono
separate degli acidi grassi (che tornano al tessuto adiposo e
al muscolo), e si formano delle lipoproteine di piccole
dimensioni, chiamate IDL. Queste possono essere
trasformate in LDL (via endogena). Le LDL (lipoproteine a bassa densità) servono a trasportare il
colesterolo dal fegato ai tessuti extraepatici: qui sono presenti dei recettori che, una volta effettuato il

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legame con le LDL, liberano le HDL (lipoproteine ad alta densità), che sono il colesterolo buono. Se si
ha un’alterazione di questi passaggi, possiamo avere un incremento delle LDL (colesterolo cattivo) e una
diminuzione delle HDL (colesterolo buono). Negli esami del sangue, quindi, il colesterolo totale ha poco
significato: è fondamentale analizzare, invece, il rapporto fra LDL e HDL.

Le lipoproteine
1. Chilomicroni: trasportano trigliceridi e colesterolo della dieta dall’intestino ai tessuti periferici
(tessuto adiposo e fegato);
2. VLDL: sintetizzate nel fegato, in particolare da una dieta ricca di zuccheri;
3. IDL: si formano dalle VLDL, dopo che hanno ceduto ai tessuti parte del loro contenuto in
trigliceridi. Sono più piccole delle VLDL e ricche di colesterolo ed esteri del colesterolo;
4. LDL: si formano dalle IDL che restano più a lungo in circolazione e hanno perduto parte della
componente proteica. Trasportano il colesterolo ai tessuti periferici;
5. HDL: sintetizzate principalmente nel fegato, recuperano il colesterolo in eccesso.

Livelli lipidi plasmatici normali (adulto)


Colesterolo totale < 200mg/dl
HDL – C > 35mg/dl
Trigliceridi < 200mg/dl
LDL – C < 130mg/dl
Colesterolo totale
 < 200 mg / 100 ml, valore accettabile
 200-250 mg/ 100 ml valore moderatamente elevato
 > 250 mg / 100 ml valore elavato
Rapporto colesterolo totale / HDL
I valori assoluti, tuttavia, ci dicono poco: bisogna, invece, andare a vedere il rapporto che c’è fra colesterolo
totale e HDL. Questo, per essere positivo, deve essere compreso fra 3 e 4.
Per esempio, se una persona ha un valore di colesterolo totale di 240 e un valore di HDL di 60, è tutto
sommato un rapporto accettabile (siamo al limite), nonostante il colesterolo totale sia maggiore di quello
consigliato (è il rapporto ad essere positivo).
Se invece, per esempio, un altro soggetto possiede un valore di colesterolo di 240, ma ha un valore di HDL
di 30, il rapporto risultante sarà 8: estremamente pericoloso (favorisce un peggioramento della placca
ateromasica).

Malattie riguardanti geni per le varie componenti del processo lipidico può causare la aterosclerosi
(deficenza di Apo A1 = assenza di HDL con quindi una grave aterosclerosi, deficenza di lipoproteina lipasi
= iperlipidemia di tipo I con una iper-trigliceridemia con una minima aterosclerosi).

Epidemiologia e caratteristiche generali dell’AS


Le placche ateromasiche si sviluppano lentamente ed insidiosamente per molti anni. La lesione complicata,
che rappresenta il risultato di 30-50 anni di sviluppo, è nella maggior parte dei casi responsabile dei sintomi
clinici.
Le placche ateromasiche, soprattutto nelle prime fasi del loro sviluppo, si presentano molto sparse e
distanziate tra loro nei vasi. Col progredire della malattia, se ne formano un numero sempre maggiore e,
ingrandendosi, possono arrivare a coprire completamente intere porzioni di arterie. Gli ateromi, aumentando
di volume, tendono a protrudere all’interno del lume vasale ed alterare il normale flusso sanguigno. Infine,
l’ateroma può ulcerarsi, determinando lo sviluppo di un trombo in situ, che può impedire completamente il
flusso ematico.

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Alternativamente i trombi (o frammenti di questi) possono frammentarsi, staccarsi ed entrare in circolo,
andando a costituire l’embolo, ossia degli aggregati che circolano nel sangue e possono andare ad occludere
dei vasi di piccole dimensioni.
Infine, gli ateromi, aumentando il loro volume, tendono ad invadere la tunica media (muscolare),
indebolendo la struttura dell’arteria, causando lo sfiancamento (aneurisma) e predisponendo probabili
emorragie (per esempio, se l’ateroma si è ingrossato così tanto da rompere la tunica avventizia, ossia quella
più esterna). Le possibili conseguenze di un ateroma sono, dunque:
1. Riduzione del flusso sanguigno arterioso
2. Formazione di un trombo
3. Formazione di un’embolia
4. Formazione di un aneurisma e, di conseguenza, possibile rottura del vaso (con emorragia)

Complicanze dell’AS
Sul cervello
Fra le arterie che possono essere colpite abbiamo le carotidi, le arterie vertebrali e l’arteria cerebrale.
L’occlusione di una di queste arterie può provocare:
1. Ischemia acuta (ictus), causato dall’occlusione delle arterie cerebrali
2. Aneurisma e rottura (emorragia cerebrale)
3. Ischemia cronica (demenza), ossia una diminuzione del flusso ematico che arriva al cervello

Sul rene
Si può avere una riduzione delle dimensioni del lume dell’arteria extrarenale, che comporta un’alterazione
della pressione sanguigna (a livello del rene c’è, infatti, un forte controllo della pressione arteriosa).
Un altro evento può essere la stenosi extrarenale (la stenosi è una condizione patologica, che comporta il
restringimento del lume di un vaso), che provoca ipertensione renale (uremia). Questa, di conseguenza,
causa un’insufficienza renale.

Sull’aorta, sulle arterie viscerali / periferiche


A livello dell’aorta l’aterosclerosi può provocare una stenosi aortica, con conseguente lipotimia (sensazione
di improvvisa debolezza che non comporta la completa perdita di coscienza) e morte. A livello periferico,
invece, se per esempio si occlude un’arteria della gamba, può portare alla gangrena di tutto l’arto.

Sul cuore
Quando sono coinvolte le arterie coronarie, possiamo avere un’ischemia intermittente (fasi alternate di
diminuzione del flusso ematico), ma possiamo anche avere un’ischemia cronica (fibrosi del miocardio) o
anche un’ischemia acuta, che provoca necessariamente la morte del tessuto irrorato dalle coronarie.

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Fattori di rischio per l’aterosclerosi
Abbiamo:
1. Fattori irreversibili:
• Età (con l’invecchiamento, la possibilità di sviluppare l’AS aumenta)
• Sesso (gli uomini sono più inclini)
• Patologie progresse, come il diabete
• Ipercolesterolemia su base genetica
• Ipertensione su base genetica
• Obesità su base genetica
2. Fattori reversibili:
• Stress
• Fumo di sigaretta
• Uso di contraccettivi orali
• Ipercolesterolemia, che deriva da diete scorrette
• Ipertensione, derivante da diete sbilanciate o da sedentarietà
• Obesità, derivante anche questa da diete sbilanciata e da prolungata sedentarietà
Quando in un individuo coesistono contemporaneamente più fattori predisponenti all’AS, le singole
percentuali di rischio di infarto miocardico o di altre patologie correlate non si sommano, ma si uniscono in
modo esponenziale.

Le neoplasie: disordini della crescita cellulare


Nei tentativi di mantenere un’adeguata omeostasi, le cellule dei tessuti devono essere capaci di adattarsi a
modificazioni del rifornimento di nutrienti e al carico di lavoro. In altre parole, i tessuti devono essere in
grado di modificare le loro dimensioni, magari perché l’organo richiede maggiori prestazioni (per esempio,
nelle situazioni di stress). Davanti ad una fonte di stress si può avere un aumento della richiesta funzionale o
un danno cellulare reversibile con la comparsa di uno stress persistente è un fenomeno di adattamento che
può portare ad una ipertrofia/iperplasia o una atrofia/metaplasia/depositi con una rimozione dello stress e il
ritorno ad una cellula normale. Allo stesso modo quando il danno è lieve quello può portare sempre ad una
cellula normale ma davanti ad un danno grave questo può provocare un danno cellulare irreversibile con la
morte cellulare.
Come metodi di adattamento, abbiamo o un’ipertrofia/ipotrofia o un’iperplasia/ipoplasia (riguardo alla
crescita), ma anche una metaplasia (nel caso in cui un certo epitelio debba essere sostituito da uno più
resistente).
Tutte queste risposte regrediscono, una volta che comincia a mancare lo stimolo; nel caso di un tumore,
invece, continuano a svilupparsi anche se viene a mancare lo stimolo alla base.

Un organo può andare incontro a:


1. Variazioni positive o negative delle sue dimensioni, queste modificazioni riguardano solo e soltanto
le cellule parenchimali (non abbiamo fenomeni di stasi, edema o infiammazione) – adattamento della
crescita:
• Iperplasia: aumento del numero delle cellule (le cellule che possono andare incontro a
questo fenomeno sono le cellule labili e stabili, che possono differenziarsi). Anche qui si può
avere un caso di iperplasia fisiologica e patologica. Quella fisiologica un esempio può essere
l’ingrandimento del seno, sotto l’effetto degli ormoni, nella pubertà. Un aspetto patologico
può essere l’iperplasia della corticale del surrene.
• Ipertrofia: Aumento delle dimensioni delle cellule (solo le cellule perenni, che non possono
differenziarsi). L’ipertrofia è sempre un adattamento reversibile (una volta che lo stimolo
viene a mancare, si ritorna alle condizioni iniziali) e coinvolge, in genere, sempre un solo
organo. L’ipertrofia può essere fisiologica quando si ha: la stimolazione ormonale (ipertrofia
muscolare dell’utero in gravidanza e iperplasia della mucosa uterina durante il ciclo, oppure
l’aumento nutrizionale che comporta un aumento del tessuto adiposo, oppure una
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stimolazione delle difese biologiche con una iperplasia di organi linfoidi, per esempio i
linfonodi. Un esempio di ipertrofia è l’accrescimento muscolare derivante dal body building.
Come aspetto patologico, invece, abbiamo l’ipertrofia prostatica, negli anziani o l’ipertrofia
del miocardio a seguito di stati ipertensivi.
• Atrofia (costituita da fenomeni di ipoplasia e ipertrofia): diminuzione delle dimensioni
(ipotrofia) e del numero di cellule (ipoplasia). Un esempio di atrofia è il caso di Timo che,
dopo la pubertà, va atrofizzandosi. Nel caso di patologie, troviamo l’atrofia dei muscoli, in
caso di disuso degli stessi.
L’atrofia può essere fisiologica e patologica e derminata una riduzione della attività
funzionale o dalla riduzione della stimolazione ormonale.
L’atrofia può derivare da un disuso funzionale (ingessatura), da denervazione (poliomielite),
da diminuito apporto sanguigno, da inadeguata nutrizione, da perdita di stimolazione
endocrina e da invecchiamento.

Cellule labili: vengono eliminate e si riproducono costantemente


Cellule stabili: hanno una lunga vita, si riproducono di rado
Cellule perenni: non si moltiplicano mai

Caratteristiche dell’ipertrofia
 Reversibilità: riacquisto delle normali dimensioni è una caratteristica distintiva dell’ipertrofie non
neoplastiche
 Distrettualità: coinvolgimento di un solo organo (eccezioni: gigantismo, acromeglia e macroscomia
fetale)

2. Alterazioni del differenziamento:


• Metaplasia , quando un tipo cellulare viene sostituito con un altro più resistente allo stress
• Displasia, anticamera che può portare alla neoplasia. Si ha l’alterazione del differenziamento
• Anaplasia, caratteristica della perdita del differenziamento, caratteristica dei tumori.

Meccanismo patogenetico: esistono diverse modalità con cui il tessuto o l’organo aumenta di dimensioni:
1. Aumento in numero delle cellule in via di replicazione
2. Aumenta il ritmo dei raddoppi cellulari (il ciclo cellulare diventa più breve), senza aumento della
quota di replicazione
3. Incremento di sopravvivenza delle cellule interessate (riduzione dell’apoptosi)
Alla base dell’iperplasia abbiamo quasi sempre gli ormoni, che rappresentano i regolatori di questi processi
(normalmente gli steroidei che entrano nel nucleo, aumento dei fattori di trascrizione con un aumento della
sintesi proteica ad esempio).

La metaplasia e la displasia
La metaplasia è una forma di accrescimento cellulare patologico controllato e reversibile, caratterizzato da
una sostituzione adattativa di un tipo di cellula adulta ben differenziata, da parte di un altro tipo di cellula
adulta (per esempio quelle epiteliali, in condizioni di irritazione cronica, il delicato e vulnerabile epitelio
bronchiale e bronchiolare cilindrico pseudostratificato ciliato, può venire sostituito dal più ruvido epitelio
squamoso pluristratificato). L’epitelio squamoso pluristratificato è più adatto a sopravvivere in un ambiente
avverso. La metaplasia rappresenta una risposta adattativa e difensiva. In genere, la metaplasia coinvolge gli
epiteli; tuttavia, esistono casi in cui anche il tessuto connettivo può andare incontro a metaplasie, dopo
lesione dei tessuti molli: ciò provoca la formazione, normalmente, di osso (irreversibile) grazie alle
metaplasia di fibroblasti verso osteoblasti con neoformazione di osso.
La trasformazione metaplastica, spesso è ben ordinata; tuttavia, quando lo stimolo persiste, l’epitelio
metaplastico diviene alquanto disordinato (metaplasia atipica), divenendo una displasia. Questa è una
proliferazione cellulare reversibile, caratterizzata, tuttavia, da un’eterogeneità cellulare ed un aumentato
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numero di mitosi (eterogenerità cellulare). Tra le proliferazioni non neoplastiche è la più disordinata.
Spesso, la displasia è un precursore della neoplasia, ossia il tumore: tra le proliferazioni non neoplastiche,
dunque, la displasia rappresenta la più disordinata. Gli eventi che caratterizzano le displasie sono:
1. Perdita di uniformità sia fra le singole cellule che nel loro orientamento architettonico
2. Spiccato polimorfismo (variazioni in calibro e forma), con nuclei spiccatamente tingibili (quindi vi è
una forte attività di sintesi) e ingranditi in rapporto al volume cellulare
3. Mitosi molto più frequenti, benchè morfologicamente siano contenute nei parametri normali
4. Spesso le mitosi sono in distretti ectopici all’interno dell’epitelio, ossia in quei punti dove non
dovrebbero avvenire
La displasia appare caratteristicamente associata ad irritazione o infiammazione cronica.
Normalmente, la si ha a livello della cervice uterina, delle vie respiratorie, della cavità orale e della colecisti.
Esistono diversi grandi di displasia:
1. Lieve-media, ancora reversibile e controllata, è una proliferazione ancora reversibile e controllata;
2. Grave, dove le alterazioni cellulari sono molto importanti, poiché vi consegue quasi sempre la
trasformazione in neoplasia (la displasia grave può essere considerata un carcinoma in situ).

Diagnosi citologica dei tumori: il test di papanicolau (1928, PAP- test). Metodo che permette di analizzare le
cellule di sfaldamento provenienti dalla cervice uterina.

Le neoplasie
Le neoplasie sono una massa abnorme di tessuto, il cui accrescimento è esorbitante e scoordinato con quello
dei tessuti normali e progredisce nella stessa maniera eccessiva anche dopo la cessazione degli stimoli che
lo hanno evocato.
Le neoplasie si caratterizzano per:
1. La perdita della risposta ai controllo della crescita normale
2. Le cellule neoplastiche riescono a riprodursi svincolandosi dalle influenze regolatrici
3. Le neoplasie si comportano come parassiti e competono con le altre cellule ed i tessuti normali
4. Le neoplasie si accrescono in volume, indipendentemente dall’ambiente locale che le circonda e
dallo stato nutrizionale dell’ospite
5. Le neoplasie possono continuare ad accrescersi anche in paziente cachettici (stato di gravissimo e
progressivo deperimento generale dell’organismo)
L’autonomia delle neoplasie, tuttavia, spesso non è completa: molte tipologie, infatti, necessitano di ormoni
(ormono-dipendenti). Alcune neoplasia hanno anche la capacità di andar incontro a neoangiogenesi,
formando i propri nuovi vasi sanguigni per la propria vascolarizzazione. I geni che vanno incontro ad
alterazioni, in caso di neoplasie, saranno quelli che controllano la proliferazione, la morte cellulare, il
differenziamento delle cellule e quelli adibiti al controllo del genoma.
Ma quali possono essere le cause della trasformazione (eziologia) e i meccanismi (patogenesi)? Alla base
della patogenesi del tumore ci sono le mutazioni di determinati geni che: controllano la proliferazione, la
morte cellulare programmata, controllo del differenziamento, controllo della stabilità del genoma.
Le cause di mutazioni possono essere:
1. Cause esogene o ambientali, come gli agenti chimici, fisici o biologici.
2. Cause endogene, come le mutazioni ereditarie, le mutazioni casuali, gli squilibri ormonali e gli
agenti mutageni.
I tumori possono originarsi in tutti i tessuti con capacità proliferativa. Sono un gruppo di malattie che
condividono caratteristiche fondamentali.
Ma come classifichiamo i tumori?
1. Eziologia: da radiazioni ionizzanti, da virus, da amine aromatiche, ecc.
2. Organo di origine: della mammella, del polmone, del colon, ecc.
3. Embriogenesi: se derivano dall’ectoderma, dall’endoderma, dal mesoderma, ecc.
4. Istogenesi (molto utilizzata oggi): in funzione del tessuto di origine (epiteliali o connettivali)
5. Comportamento biologico (molto utilizzata oggi): benigni o maligni
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6. Differente potenziale della cellule di origine: totipotente, pluripotente o unipotente
7. Aspetto macroscopico: ulcerato, gelatinoso, scirroso, midollare, villoso, ecc.

I tumori benigni e i tumori maligni


I tumori benigni sono cellule neoplastiche sempre localizzati e non infiltrano il tessuto normale in quanto
non riescono a oltrepassare la membrana basale: presentano una crescita espansiva (non si infiltrano, ma si
espandono nello stesso punto in cui sono generati, dando problemi di compressione delle cellule vicine.
Questi tumori, dunque, producono danni rilevanti solo per compressione od ostruzione di strutture
anatomiche importanti o quando hanno capacità secernente, a causa della grande quantità di ormone
prodotto (es. insulinoma, tumore benigno delle cellula beta del pancreas con produzione fuori controllo di
insulina andando incontro a crisi ipoglicemiche).
I tumori maligni, invece, sono invasivi, cioè si infiltrano nei tessuti normali circostanti, distruggendoli e
metastatizzando, dando quindi origine a tumori secondari (che possono anche essere completamente diversi
da quello di origine).
Vediamo alcune caratteristiche frequenti nei tumori benigni e in quelli maligni:
1. Benigni
• Ben riconoscibili. Il tessuto di origine è ben riconoscibile
• Aumento di dimensioni generalmente con una certa regolarità fino ad arrivare ad uno stadio
limite o regredire.
• Danni per compressione.
• Basso indice mitotico
• Mitosi normali
• Nucleoli normali
• Rapporto nucleo/citoplasma normale
• Ploidia normale
• Grado di differenziazione simile al normale
• Mantiene le funzioni differenziate normali
• Incapsulati da un tessuto connettivo circostante, che non permette al tumore di espandersi
ulteriormente in altri organi
2. Maligni:
• La struttura del tessuto di origine è perduta in vario grado così come il differenziamento delle
singole cellule (anaplasia). Pleiomorfismo cellulare forma e dimensioni non uniformi
• Irregolare. Può essere lenta e poi improvvisamente rapida. Minori numerose e con forme
abnormi. Crescita espansiva e invasiva
• Distruzione dei tessuti per infiltrazione disseminazione metastatica, cachessia
• Elevato indice mitotico
• Mitosi anomale
• Nucleoli grandi
• Rapporto nucleo/citoplasma aumentato
• Ploidia alterata
• Grado di differenziazione scarso
• Funzioni differenziate alterato o perse
• Privi di capsula
Cos’è che, in un tumore, dobbiamo andare a verificare, al fine di capire se questo è maligno o benigno?
1. Iperplasia (minor tempo di replicazione, aumento delle cellule in replicazione, minor
differenziamento e minor apoptosi)
2. Anaplasia, ossia l’anomala architettura dell’organo e del tessuto
3. Invasività, cioè l’accrescimento infiltrativo
4. Metastasi, ossia tumori secondari, in altri organi

La massa tumorale ha due principali componenti:


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1. Parenchima, dove ci sono le cellule neoplastiche proliferanti
2. Stroma, dove troviamo cellule, tessuto connettivo e vasi

Nomenclatura
Normalmente, per indicare un tumore benigno, si prende l’organo di origine e si aggiunge i suffisso “-oma”:
per esempio, adenoma o condroma, osteoma. Tuttavia, esistono delle eccezioni, come, per esempio,
melanoma, epatoma, linfoma, che sono tumori maligni.
Le neoplasie maligne, invece, sono indicate con il suffisso “-carcinoma” se di origine epiteliale
(adenocarcinoma), con il suffisso “-sarcoma” se di origine mesenchimale (connettivale) (fibrosarcoma,
liposarcoma, condrosarcoma, osteosarcoma, leiomiosarcoma (cellule muscolari liscie), rabdomiosarcoma
(cellula muscolatura striata)), con il suffisso “-blastoma” per neoplasie di possibile origine embrionale
(retinoblastoma). Per il tessuto emopoietico, invece, si parla di leucemie per le neoplasie che originano nel
midollo osseo (linfonodo primario), e di linfomi, per le neoplasie che originano nei linfonodi (linfonodi
secondari).

I tumori vengono classificati anche in base all’aspetto macroscopico, in base alle caratteristiche dello stroma
(scirroso, mucinoso, midollare, ecc.) per gli epiteli di rivestimento e epiteliale.
Per esempio, in base all’aspetto macroscopico, l’epiteliale di rivestimento lo chiamiamo polipo e papilloma.
Il primo è un tumore benigno a forma di clava, sorretta da uno stroma di connettivo riccamente
vascolarizzato. Il papilloma, invece, è un’escrescenza su una superficie epiteliale che presenta lunghe e
sottili digitazioni, dette papille. Questo ha, normalmente, superficie maggiore e, in genere, si replica in
modo attivo.

Cellule di origine Comportament


o
Benigni Maligni
Epiteliale Polipo Carcinoma
 Rivestimento Papilloma
 Ghiandolare Adenoma Adenocarcinoma
Connettivale -oma -sarcoma

I tumori dei tessuti connettivi


I sarcomi sono dei tumori maligni di origine connettivale. I tumori di origine maligna connettivale, si può
avere dei sarcomi indifferenziati e per cui non si riesce a capire l’origine.
I tumori possono anche essere chiamati con gli eponimi, ossia col nome di chi per la prima volta li ha
evidenziati [per esempio, il sarcoma di Ewing (cellule neuroepiteliali), il linfoma di Hodgkin (Cellule
linfoidi) sarcoma di di Kaposi (endotelio vascolare), ecc.].
Esistono, inoltre, dei criteri di classificazione, che tengono conto della classificazione clinica; ne abbiamo
due tipologie:
1. Gradazione (grading). In questo caso, andiamo ad analizzare:
• Grado di differenziazione
• Attività proliferativa
• Aspetto morfologico (anaplasia, alterazione dell’architettura, perdita dell’attività funzionale,
ecc.). Esistono vari gradi:
 Grado I: tumori costituiti da cellule ben differenziate
 Grado II: tumori costituiti da cellule con differenziazione di medio grado
 Grado III: tumori costituiti da cellule indifferenziate
 Grado IV: tumori costituiti da cellule il cui grado di differenziazione non è definibile

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2. Stadiazione o TNM (T sono le dimensioni del tumore; N è lo stadio dei linfonodi regionali e
juxtaregionali; M è la presenza di metastasi in altri organi o tessuti).

Frequenza dei vari tipi di neoplasie maligne


● I carcinomi rappresentano la grandissima parte delle neoplasie: circa 85-90%. Questo perchè sono
epiteliali quindi le parti più esposte agli agenti cancerogeni.
● I sarcomi sono poco frequenti: circa 1-2%
● Le leucemie circa il 3%
● I linfomi circa il 4%
● Altri (melanomi, tumori cellule del sistema nervoso,) circa il 5%

Storia naturale dei tumori: gli step


1. Fase pre-clinica, che precede la comparsa dei sintomi. E’ una fase molto lunga (può durare diversi
anni). La cellula tumorale trasformata deve dividersi ed accrescersi moltissime volte, prima di poter
essere diagnosticata. Il tumore deve essere composto almeno da 109-1010 cellule tumorali (1-10g).
2. Fase post-diagnostica, che può essere più o meno lunga.

La cancerogenesi è il processo multifasico, mediante il quale una cellula normale si trasforma in cellula
tumorale: è caratterizzato da più eventi necessari per consentire la trasformazione (in tutti abbiamo
trasformazioni genetiche):
1. Fase di iniziazione: abbiamo un’alterazione a livello dei geni, che rende queste cellule svincolate dal
controllo di duplicazione e viene anche inibito il meccanismo apoptotico. La causa può essere un
agente cancerogeno o un’alterazione del DNA. Si ha un agente iniziante cancerogeno primario,
oppure un’alterazione del DNA o una causa genetica.
2. Fase di promozione. In genere, anche in questa fase ci deve essere un danno, che induce altre
alterazioni del DNA, che comporta la proliferazione cellulare incontrollabile. Qui si ha come causa
un agente co-cancerogeno.
3. Fase di progressione, in cui la massa cellulare comincia a diventare eterogenea, qui si ha che le
cellule si accumulano con delle mutazioni genetiche e determina una grande eterogeneità tra tutta la
massa cellulare derivata dall’instabilità delle stesse.: ogni cellula dà origine a dei cloni diversi,
adattandosi e divenendo più maligni. Questo accade perché le cellule tumorali possiedono una
grandissima instabilità genetica. In questa fase si ha una selezione cellulare: solamente le cellule più
invasiva sopravvivono.

Ovviamente con il passare dell’età si ha maggiore probabilità di avere un tumore. Però si deve avere tanti
eventi mutageni o condizioni che nel tempo da una cellula normale si passa ad una lesione preneoplastiche,
lesioni benigne e poi lesioni invasive. Anche eventi genetici ed epigenetica che non cambiano le basi
genetiche ma l’aggiunta di un gruppo metile in un gene può far cambiare la sua espressione e quindi
contribuire alla trasformazione.

Ogni tumore, oggi, viene trattato come una malattia a sé; questi, infatti, differiscono per:
1. Insorgenza, che può essere monoclonale, oligoclonale o policlonale (a seconda da quante cellule
parte la mutazione)
2. Presenza di lesioni preneoplastiche più o meno definite
3. Numero e tipo di eventi necessari per l’acquisizione della malignità
4. Durata dell’intera storia e delle sue fasi
5. Evoluzione ed aggressività
6. Sedi metastatiche
7. Interazioni con l’ospite

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La monoclonalità
La gran parte dei tumori ha un’origine monoclonale, cioè da una sola cellula, come il Mieloma multiplo o il
Glucoso-6-fosfato-deidrogenasi.

Mieloma: Ogni mieloma, neoplasia maligna costituita da plasmacellule, produce un solo tipo di anticorpo
con una sola specificità, dimostrando che tutte le cellule derivano da un solo precursore con quella
specificità (significa, infatti, che un solo linfocita B impazzito ha prodotto il mieloma, poiché sappiamo che
ogni linfocita B produce un solo tipo di anticorpo).

Glucoso-6-fosfato-deidrogenasi: Nella donna, durante la vita embrionale, in ciascuna cellula viene inattivato
uno dei due cromosomi X (lyonizzazione). Le donne adulte sono dei mosaici per quanto riguarda i geni
presenti sull’X: l’inattivazione colpisce casualmente o il cromosoma X di origine materna o quello di
origine paterna. La glucoso-6-fosfato deidrogenasi, codificata da un gene del cromosoma X, esiste in forme
diverse. Alcune cellule possono quindi esprimere una variante ed altre l’altra variante, una di origine paterna
e l’altra di origine materna.
La gran parte dei tumori nelle donne, invece, presenta una sola variante della glucosio-6-fosfato
deidrogenasi. Se l’origine della neoplasia non fosse monoclonale dovrebbero essere, invece, presenti nel
tumore cellule di entrambe le varianti.

Lesioni preneoplastiche
Alcuni esempi di lesioni preneoplastiche possono essere:
1. Iperplasia atipica della mammella
2. Nevi (sono i nei alterati) displastici
3. Cirrosi epatica

Eterogeneità
Durante, quindi, la storia naturale dei tumori, insorge una eterogeneità cellulare, nonostante l’origine
monoclonale. L’eterogeneità consiste in:
1. Alterazioni del cariotipo (numero dei cromosomi)
2. Caratteristiche morfologiche
3. Sensibilità agli ormoni
4. Caratteristiche differenziative
5. Cambiano alcuni recettori
6. Acquisiscono l’immunogenicità (il sistema immunitario non le elimina)

Nella fase di progressione, una particolare cellula comincia a proliferare, costituendo una grandissima
quantità di cloni. Questa è, infatti, una sequenza di eventi genici e non, che colpiscono una cellula,
fornendole le competenze per la malignità e la resistenza alle terapie. In questa fase si ha l’attivazione dei
cosiddetti oncogeni (geni che una volta mutati stimolano la replicazione e diffusione delle cellule)e
l’inattivazione degli oncosoppressori (controllano l’apoptosi).
Questi sono i geni responsabili del tumore:
1. Proto-oncogeni (favoriscono il ciclo cellulare), che vengono attivati e diventano oncogeni. Fra gli
oncogeni abbiamo, per esempio, gli ormoni/fattori di crescita, i recettori di alcuni fattori di crescita,
alcuni trasduttori del segnale, i fattori di trascrizione e sintesi del DNA e, infine, le cicline (che
controllano proprio le fasi del ciclo cellulare).
Proto oncogene – ongogene – aumento/diminuzione di funzionalità.
2. Oncosoppressori, che inibiscono la proliferazione (vengono inibiti). Fra questi troviamo i fattori
inibitori della crescita, tirosina fosfatasi, gli inibitori dei trasduttori del segnale, i regolatori della
trascrizione e della sintesi del DNA.
3. Geni adibiti al sistema della riparazione del DNA (vengono inibiti)
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4. Geni che regolano la morte cellulare (vengono inibiti)
5. Geni che codificano microRNA ovvero delle piccole sequenze di RNA che funzionano come stop
per gli RNA che portano l’informazione genetica ai ribosomi per la sintesi proteica. Quindi sono
degli inibitori dell’espressione genetica.

P53
Il P53 è l’oncosoppressore per eccellenza. Nel caso in cui ci siano delle alterazioni del genoma in una
cellula, il P53 attiva alcune molecole, bloccando la cellula e impedendole di entrare nel ciclo;
contemporaneamente, attiva la riparazione del DNA: se la cellula viene riparate, P53 riattiva il ciclo, mentre
se non è riparata, questa viene mandata in apoptosi.
Nel caso di un’inibizione di p53, la cellula mutata continua a replicarsi anche se presenta errori nel genoma
(il 50% dei tumori è dovuto a questo errore).

Il sistema immunitario e tumori


Il sistema immunitario può riconoscere ed eliminare le cellule tumorali. I tumori che stimolano
maggiormente il sistema immunitario sono quelli di origine virale, normalmente. i vaccini contro i virus
dell’epatite B e del papilloma sono anche vaccini anti-tumorali (rispettivamente contro il carcinoma epatico
e carcinoma ano-genitali).
Il processo flogistico è un fattore di rischio per l’insorgenza di tumori, molto probabilmente per un aumento
di produzione di citochine mitogeniche.
Per combattere i tumori sono utilizzate molte terapie immunologiche, come:
1. Vaccini
2. Stimolazione delle citochine di autodifesa (IFN, IL-2)
3. Immunotossine, ossia degli anticorpi monoclonali coniugati a tossine, contro specifici antigeni
tumorali, anche se è molto difficile individuare antigeni tumorali.
4. Espansione clonale in vitro di alcuni linfociti T specifici per il tumore
5. Espansione clonare e ri-iniezione di linfociti dal sangue periferico del paziente trattati con IL-2 e con
cellule tumorali del materiale operatorio.
Fra le cellule immunitarie anti tumorali troviamo i linfociti T CD8 e le NK che, tuttavia, devono possedere
recettori specifici per le cellule tumorali. Quando questo riconosce e si lega all’antigene MHC di classe I.
Nelle cellule modificate ci possono sono delle proteine Self trasformate o non prodotte le quali vengono
riconosciute dal linfocita T.
Le cellule per sfuggire alle cellule linfociti T, possono non produrre gli antigeni antitumorali e per tanto non
si può creare l’antigene del MHC che attiva il linfocita. Oppure manca la molecola che mostra il peptide
modificato, oppure ancora, producono delle citochine immunosoppressive.

Effetti locali e sistemici dei tumori I tumori


hanno:
1. Effetti locali. I tumori benigni, per compressione, possono provocare delle alterazioni alle cellule
circostanti, esempio: adenoma ipofisario. I tumori maligni, per effetti molteplici, infiltrano e
distruggono i tessuti vicini, esempio: carcinoma renale penetra vena renale e raggiunge senza perdere
contatto col tumore primitivo la cava inferiore e il cuore destro.
2. Effetti sistemici. I tumori maligni, invece, hanno effetti molteplici, poiché si infiltrano e distruggono
i tessuti vicini.
Le cellule tumorali possiedono alcune peculiarità enormi, ovvero alterazioni comportamentali delle cellule
tumorali:
1. Immortalità, non vanno in apoptosi
2. Perdita della dipendenza da ancoraggio (quando queste cellule si staccano dalle altre, non muoiono,
ma anzi, possono vivere benissimo da sole)
3. Perdita dell’inibizione da contatto, quando le cellule si dividono anche se sono attaccate le une con le
altre per tanto non si ha il blocco del ciclo cellulare creando quindi una massa.
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4. Perdita dell’orientamento: si moltiplicano in tutte le direzioni
5. Si accrescono anche senza stimolo di un fattori di crescita

La metastatizzazione
Diffusione di cellule dal tumore primitivo e formazione di un tumore secondario in altra sede. E’ la
principale causa di fallimento terapeutico e di mortalità per tumore. Alla diagnosi complessivamente un
terzo dei pazienti ha metastasi già rilevabili clinicamente ed un terzo ha metastasi ancora occulte.
Il fenotipo metastatico non è attribuibile ad un singolo gene, ma a più geni che conferiscono alle cellule
tumorali entrate in circolo la capacità di arrestarsi in un determinato sito, grazie a particolari molecole di
adesione, e di sopravvivere resistendo alle difese immunitarie dell’ospite. Quindi, cosa deve avvenire nel
processo di metastatizzazione?
Intanto bisogna ricordare un concetto fondamentale: le vie seguite dalle metastasi per diffondersi
nell’organismo sono essenzialmente due, quella linfatica e quella ematica. La via linfatica è
decisamente preferita ai tumori di natura epiteliale, i carcinomi.
La via ematica diretta sembra, invece, essere seguita preferenzialmente dai tumori di natura connettivale
(sarcomi).
Dalla cellula iniziale trasformata, si ha un’espansione clonale, con la produzione di cloni diversi
(eterogeneità) e angiogenesi. Questi cloni (detti
sottocloni metastatici) hanno la capacità di penetrare
la membrana basale e passare attraverso la matrice
extracellulare, entrando nel vaso sanguigno. Qui,
l’interazione con una cellula linfatica dell’organismo,
provoca la formazione di un embolo costituito da
cellule tumorali. A questo punto, le cellule tumorali
possono fermarsi ad un particolare livello del vaso,
aderendo alla membrana basale di questo e,
successivamente, fuoriuscendo. Una volta fuori, le
cellule tumorali cominciano a formare la vera e
propria metastasi, sempre accompagnata da fenomeni
di angiogenesi e di crescita cellulare (tumore
secondario).
Ma quali caratteristiche devono acquisire le cellule,
per arrivare ad essere metastatiche?
1. Acquisiscono le capacità dei leucociti di dividersi
e di moltiplicarsi
2. Acquisiscono le capacità degli osteoclasti di
demolire tessuti
3. Assumono le capacità dei fibroblasti di depositare
tessuto connettivo
4. Ecc.
Questo processo richiede tantissime interazioni, con la
matrice extracellulare, con le cellule stromali,
parenchimali, endoteliali, ecc.
Nell’invasione, i meccanismi con cui le cellule tumorali riescono ad insinuarsi tra le cellule normali e ad
oltrepassare le barriere sono:
1. Proliferazione e compressione
2. Minore coesione cellulare (alterazione dei sistemi di adesione), tendono a svincolarsi tra loro
3. Minore adesione cellula-matrice, si stacca dalla membrana basale
4. Alterata deposizione della matrice extracellulare,
5. Degradazione della matrice extracellulare, per attraversare i tessuti distruggono la matrice
extracellulare

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6. Bilancio tra enzimi litici (metalloproteasi, attivatori del plasminogeno, catepsine) e loro inibitori
fisiologici (TIMP, PAI, stefine)
7. Migrazione in risposta a fattori chemiotattici, si producono i fattori chemiotattici, così da stimolare la
via presa.
Prima di tutto, quindi, come già detto, abbiamo il distacco dal tumore primario (E-caderina adesione
cellula-cellula), poi abbiamo l’attacco ai componenti della matrice extracellulare (recettore per laminina
diffusa su tutta la superficie, così da potersi attaccare e muoversi tra le cellule), con la successive
degradazione di questa matrice (così da crearsi un tunnel). Poi abbiamo la migrazione delle cellule tumorali
nell’organismo (fattori di motilità auto crini prodotti da cellule tumorali e fattori paracrini – HGF (fattore di
crescita epatocitario), SCF (stem cell factor) – prodotti dalla stroma).
Alcuni tipi di tumori sono invasivi, ma non metastatici (per esempio, il tumore carcinoma baso cellulare
della cute (detto basilica) molti tumori del sistema nervoso centrale).

Le vie di disseminazione
Le metastasi possono seguire:
1. Via linfatica (per esempio, nel caso dei carcinomi e delle metastasi linfonodali)
2. Via ematica (nel caso dei sarcomi e dei carcinomi)
3. In cavità/transcelomatica (membrane che rivestono l’interno dell’organismo, carcinoma ovarico in
peritoneo, oppure il tumore del polmone)
4. Via canalicolare (tipica dei tumori che riguardano le ghiandole, adenocarcinomi della pelvi renale
che, attraverso l’uretere, possono dare metastasi nella vescica urinaria)
5. Altre (per contatto/contiguità, come ad esempio il tumore del labbro inferiore, che può dare metastasi
al labbro superiore).

Metastasi linfonodali
 Invasione dei linfonodi come fattore prognostico, ingrossamento dei linfonodi non vuole dire sempre
che sono invasi, a volte sono reattivi.
 Linfonodo sentinella: indentificare il primo linfonodo che riceve linfa dal tumore. Buona
correlazione tra positività del linfonodo sentinella (presenza di cellule tumorali) e metastatizza zione
a distanza.
 Recettori per chemochine (homing dei leucociti) (es. CXCRA e CCR7 nel ca mammario): alti livelli
guidano a siti metastatica ricchi della relativa chemochine (linfonodi, polmone, fegato, midollo
osseo). I carcinomi daranno prevalentemente tumori nelle sede sopra citate.

Disseminazione ematogena
CELLULE TUMORALI CIRCOLANTI
Le interazioni che avvengono in circolo possono porotare a:
 Distruzione delle cellule tumorali
o Mancato ancoraggio
o Fattori fisici
o Lisi immune
 Rotazione delle cellule tumorali

In conclusione del processo metastatico


Il processo di metastatizzazione è estremamente inefficiente, infatti meno di una cellula tumorale su un
milione dà origine ad una metastasi.
 Le cellule di molti tumori solidi non sono in grado di sopravvivere e proliferare se non aderiscono ad
un substrato, hanno quindi vita in circolo limitata.
 Condizioni fisiche critiche
 Risposte immunitarie,
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 Incompatibilità tra seed e soil.

Esistono delle sedi preferite, rispetto al tipo di metastasi. I tumori colonizzano, infatti, di preferenza, organi
o distretti caratteristici.
Per esempio, se abbiamo un carcinoma del colon, questo può effettuare metastasi al fegato e al polmone (al
polmone perchè dal fegato può usare la vena cava e andare in sede di polmone). Se abbiamo un tumore a
livello della mammella, si possono avere metastasi alle ossa e al cervello. Un melanoma cutaneo, poi,
provoca metastasi a livello della cute, del cervello, del fegato e dell’intestino. I tumori microcitoma
polmonari può andare al cervello, fegato, ossa. I tumori, infatti, scelgono l’organo in funzione delle
condizioni ideali che trovano al fine di accrescersi. Le sedi di metastasi sono spesso i primi filtri capillari
incontrati dalle cellule tumorali.

A volte, se le condizioni non sono proprio ideali, il tumore può andare incontro a dormienza, in cui le
metastasi non si moltiplicano e restano ferme anche per 20 anni (micrometastasi dormienti).

Effetti sistemici
1. Effetti conseguenti alle alterazioni anatomo-funzionali degli organi interessati dalla crescita del
tumore primitivo e/o delle metastasi.
2. Effetti sistemici, conseguenti all’azione diretta del tumore su specifici apparati e sistemi biologici
dell’ospite, attraverso la generazione di mediatori di varia natura.
Gli effetti locali possono essere: emorragia (erosione delle pareti dei vasi nei tessuti invasi dal tumore),
ostruzione (ostruzione meccanica e/O blocco della motilità degli organi cavi infiltrati dal tumore),
compressione (compressione di vasi venosi e linfatici, o dei nervi motori o sensitivi), distruzione dei tessuti
(distruzione del parenchiama epatico da parte di tumori primitivi o metastatici), infezione.

Sindrome paraneoplastiche, sono il risultato degli effetti sistemici. Sono l’insieme di sintomi che si
osservano nel 10-15% dei pazienti con tumore. Sono dovuti a: sostanze prodotte dalle cellule tumorali (es.
ormoni, fattori di crescita etc. ) o dalle reazioni immunitarie verso molecole del tumore condivise da altre
cellule normali. Possono essere di ordine generale (febbre, proteine di fase acuta etc.; dove le cellule
coinvolte sono le citochine proinfiammatorie ), endocrinologico, neurologico, ematologiche/immunitarie,
renali, cutanee, gastrointestinali.
Sindrome endocrine, secrezione ectopica di ACTH, ormone adrenocroticotropo, nel Ca polmonare a piccole
cellule e non. Secrezione di PTH, ormone paratiroide, nel Ca polmone a cellule squamose, cancro della
vescica. Secrezione di ADH, ormone anti diuretico, nel tumore polmonare.
Sindrome ematologiche, anemia causata da risposte immune verso antigeni comuni al tumore e agli eritrociti
(causata anche da perdita di sangue, minore introduzione di molecole essenziali, ridotta eritropoietina).
 Eritrocitosi, dovuta a eritropoietina secreta dal tumore o in risposta ad altre molecole secrete dal
tumore che aumentano attività di eritropoietina. Presenza di alcuni pazienti affetti da ca renale,
epatocarcinoma, emangloblastoma: eritropoietina secreta dalle cellule del tumore.
 Reazioni leucemoidi causate da produzione di CSF da parte delle cellule tumorali.
Cachessia, sindrome biologico-clinica caratterizzata da: perdita di peso, perdita delle masse muscolari,
depressione delle riserve lipidiche, anoressia. Questa è dovuta da due tipi di mediatori che intervengono:
 Citochine prodotte da cellule del tumore o da cellule dell’ospite: TNF Alfa, IL-6, IL-1, INF gamma
 Prodotti catabolici secreti dal tumore: LMF e PIF, aumento del catabolismo lipidico ed aumento del
catabolismo proteico, mediatori possono essere rilevati nel siero o nelle urine del pazienti.
Più frequente nel tumore al polmone (60%) è tratto gastrointestinale.
Là supplementari onde alimentare e la manipolazione farmacologica dell’appetito possono portare ad
aumento di peso (acqua e tessuto adiposo), ma non a ripristino di masse muscolari.

Professoressa Cipolleschi

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Ustioni
Trama determinato dal trasferimento di energia termica ai tessuti. Il calore determina nelle cellule:
alterazioni enzimatiche, denaturazione proteica e danni alle membrane con necrosi delle stesse cellule e
tessuti.
La temperatura necessaria perché abbia luogo il danno tissutale è rapportata al tempo di esposizione e alla
fonte di calore (appena sopra di 45° è necessaria 1 ora di esposizione per determinare morte cellulare, a 70°
meno di un secondo).

Determinazione delle gravità delle ustioni


 Profondità e grado delle ustioni (in 4 gradi).
o L’ustione di 1° grado (eritematose) è un ustione superficiale che interessa solo l’epidermide,
caratterizzata da arrossamento della pelle, e a volte, da un leggero gonfiore. Il paziente in
genere lamenta dolore localizzato. L’ustione guarisce da sola, senza produrre cicatrici. Dal
momento che la cute non è stata attraversata, questo tipo di ustione viene considerata lieve.
o L’ustione di 2° grado (bollose) interessamento di epidermide e derma, no invasione del
sottocute. Dolore intenso con notevole arrossamento. Comparsa di vescicole entro 48h a
causa del danneggiamento dei vasi che sversano plasma in vescicole (frittene). Trattate
adeguatamente guariscono lasciando una leggera cicatrice.
o L’ustione di 3° grado (necrotiche o escarotiche) la lesione è molto profonda e si estende a
tutto il derma con interessamento del sottocutaneo. Si presentano con cute asciutta e secca. Vi
è un dolore intenso ma può anche mancare il dolore in quando il dolore distrugge le
terminazioni nervose. Guariscono lasciando cicatrici evidenti
o L’ustione di 4° grado, carbonizzazione del tessuto. L’ustione è profonda e non è dolorosa per
distruzione delle terminazioni nervose.
 Estensione della zona lesa, per determinarla si applica regola del 9. Si divide la superficie corporea in
settori e ad ognuna di essa si dà un valore di 9 (art. Superiori dx e sx e testa ) o un multiplo (18%
nell’ arto inferiore sx e dx e tronco il 36%). Lesioni che si estendono per oltre il 20% portano allo
shock ipovolemico con mancanza di approvvigionamento di nutrienti per caduta repentina della
pressione e quindi del volume di sangue.
 Regione del corpo, ci sono zone dove l’ustione prende una particolare gravità come il viso per
presenza di organi importanti e iniziò delle vie aeree. Anche le mani e piedi sono importanti, in
quanto questo producono cicatrizzazioni che possono impedire la funzionalità degli stessi.
 Età del paziente, la prognosi importante per il bambino è nell’anziano perché vi è una maggiore
suscettibilità alle infezioni e i processi riparativi avvengono in maniera più lenta.
 Agente lesivo, le ustioni possono essere provocate con diversi meccanismi. Queste possono essere
da:
o Fiamma
o Da liquidi bollenti
o Da contatto
o Da elettricità
o Da esplosione
o Da sostanze chimiche, molto importanti perchè l’agente rimane sulla cute ed esercitare il suo
potere ustionante
o Da radiazioni ultraviolette
o Da gas o vapori bollenti
 Malattie o lesioni preesistenti, individui cardiopatici ha una prognosi peggiore rispetto ad uno in
buone condizioni
 Presenza di lesioni interne derivante dalla inalazione di fumi caldi e tossici, questo sì verifica in
individui che rimangono in edifici in fiamma, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio

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 Prontezza ed efficacia della terapia, rivolta alla prevenzione e controllo delle lesioni. I tessuti
necrotici e ustionati sono un ottimo terreno di proliferazione dei microrganismi. Inoltre una ferita che
trasuda molto comporta una perdita di liquidi che vanno ricompensanti.
 Paziente gravemente ustionato, sviluppa uno stato ipermetabolico, si ha perdita di calore, per cui il
paziente deve essere tenuto in un ambiente caldo, ed avvolto nell’alluminio per impedire la perdita di
calore. Inoltre deve essere nutrito in maniera adeguata.

La patologia vascolare
E’ una patologia estremamente frequente, soprattutto nei paesi più benestanti. Circa il 44% delle morti è
dovuto, infatti, a malattie vascolari, come ictus cerebrale sia ischemico che emorragico.
Esistono delle condizioni patologiche, che possono colpire sia il microcircolo (con alterazioni degli scambi
di liquidi, con accumulo di liquidi e edema) che i grandi vasi (funzione di portare il sangue dal cuore al
microcircolo) ad esempio un ostruzione da trombo o embolo o una compressione esterna. Esistono anche
delle patologie che prediligono una sezione o l’altra tipo l’arterosclerosi che riguarda i grandi vasi, oppure
edema che colpisce il microcircolo
L’iperemia è una condizione, in cui, all’interno del microcircolo, è contenuta una quantità maggiore di
sangue della norma. Questa può essere:
1. Attiva o arteriosa, che si verifica quando, in seguito ad una vasodilatazione a livello arteriolare,
aumenta la quantità di flusso del microcircolo (si aprono più sfinteri capillari delle metarteriole, che
permettono l’apertura di più capillari e un’entrata di una maggior quantità di sangue a livello
periferico). Il tessuto, di conseguenza, sarà rosso e caldo. Si può avere nel processo infiammatorio o
nel processo febbrile o in seguito all’intensa attività fisica oppure per stimoli emozionali.
2. Passiva o venosa (anche congestione o stasi), che si verifica quando l’aumento della quantità di
sangue è dovuta ad un blocco, che provoca un ristagno di sangue. In questo caso, il tessuto non sarà
arrosato e caldo, ma sarà freddo e violaceo/bluastro in quanto non si ha l’ossigenazione
dell’emoglobina. In questi tessuti ci sarà maggiore coagulazione di sangue e quindi un maggior evento
trombotico. Quali possono essere le cause di quest’iperemia passiva? Può essere causato da un embolo
(libero nel lume vasale) o da un trombo (sempre attaccato alle pareti del vaso), ma anche da una causa
compressiva, in seguito, per esempio, ad un tumore. A volte, inoltre, se si ha un deficit propulsivo da
parte del cuore, questo provocherà un ristagno a monte di sangue sulla parte interessata dal deficit (es.
interessamento del ventricolo destro, maggior ristagno a livello tissutale, interessamento del ventricolo
sx maggiore ristagno aortico).

Edema non infiammatorio


Sappiamo come l’acqua sia il principale costituente dell’organismo (60-65% del peso corporeo). In una
persona adulta, i 40L totali sono così suddivisi:
1. Volume liquido intracellulare, circa 25L
2. Volume liquido extracellulare, circa 15L, suddiviso in: Volume plasmatico o intravasale, di circa 3L
Volume interstiziale o extravasale, di circa 12L.
3. Volemia, ossia il liquido contenuto nel sangue, si circa 5L (2L dati dalla massa di eritrociti e 3L del
plasma).
Quello che mantiene costante i valori dei liquidi è dato dalla pressione osmotica dato dagli elementi in
soluzione nel sangue, ovvero gli elettroliti.
Gli elettroliti sono particelle cariche positivamente o negativamente (ioni positivi o cationi e ioni negativi o
anioni) presenti nelle soluzioni. Questi sono i principali soluti dei liquidi dell’organismo e regolano la
pressione osmotica. Le proteine plasmatiche in specialmente l’albumina interessa il compartimento
INTRAVASALE. Il Na+ il comportamento INTERSTIZIALE, mentre il K+ il compartimento
INTRACELLULARE.
Questi liquidi tra plasma sanguigno e liquido interstiziale è regolato dall’equilibro di Starling.
Secondo questa ipotesi, il bilancio normale dei liquidi è mantenuto da 2 gruppi opposti di forze:

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1. Quelle che causano l’uscita di liquidi dal letto vascolare (pressione idrostatica intravasale e
pressione osmotica del liquido interstiziale)
2. Quelle che causano l’entrata di liquidi (pressione osmotica delle proteine plasmatiche e pressione
idrostatica tissutale)
La pressione idrostatica è di 40-45 mmHg, mentre quella colloiodo plasmatica è di 35 mmHg ed’è
determinata dalla concentrazione di proteine plasmatiche; per cui si avrà la filtrazione favorita anche dalla
pressione osmotica dalle proteine dell’interstizio e dallo ione sodio. Sulla parte venosa del capillare, la
pressione idrostatica è di 10-15 mmHg e la forza colloiodo osmotica prevale creando un riassorbimento di
liquido. Il sistema consente che quasi tutto il liquido filtrato venga riassorbimento, la parte minore non
riassorbita viene drenata dal sistema linfatico che esercita una pressione negativa di -2-3 mmHg (pressione
di aspirazione).
Se una di queste forze si altera, i liquidi si vanno ad accumulare nell’interstizio o nelle cavità preformate,
provocando un edema (solo nel caso di un edema cerebrale, il liquido può accumularsi all’interno delle
cellule). Questo può essere localizzato se interessa un tessuto o una cavità preformata e si indica una
terminologia specifica prendono il prefisso –idro e mettendolo prima della cavità interessata (idropericardio,
idroperitoneo o ascite, idrocefalo etc.). Se l’edema è generalizzato si chiama anasarca. Come avevamo già
detto, quando il liquido che fuoriesce ha basso contenuto proteico (quindi, quando non si hanno alterazioni)
viene detto trasudato (con densità minore di 1015) E si crea esclusivamente per alterazione di una delle
forze. Quando, invece, si ha un alto contenuto di proteine e cellule (densità maggiore di 1015), si parla di
edema o essudato che è di origine infiammatorio per aumento della permeabilità dell’endotelio vascolare.
Per capire se siamo di fronte ad un essudato (di origine quindi infiammatorio) o ad un trasudato (non
infiammatorio), si esegue la cosiddetta Reazione di Rivalta: si pone una piccola quantità di liquido raccolto
in un contenitore contenente acido acetico diluito; se si forma una nubecola, abbiamo un essudato
(precipitazione in ambiente acido della componente glicoproteica e mucopolisaccaridica) e per tanto la
prova di ribalta è positiva.

Le cause
Ma quali sono le cause fisiopatologiche dell’edema?
1. Aumento della pressione idrostatica a livello venulare (pressione venosa). Questo può dare vita ad
edemi generalizzati o localizzati. E’ dovuto a:
• Ritorno venoso alterato, che si può verificare per un deficit di forza propulsiva o per
condizioni che impediscono al cuore di svolgere la sua funzione, ne è un esempio la
pericardite costrittiva (interessa il pericardio che è infiammato con accumulo nella cavità
pericardico di essudato fibrinoso, la quale può attaccare i due foglietti che non potendo più
scorrere tra di loro và a imbrigliare il cuore). Un altro esempio è la cirrosi epatica, che a
causa del danno agli epatociti e del loro tentativo di riparazione, provoca una compressione
dei vasi. Qui però gli edemi si verificano con tutte e quattro le cause dell’edema non
infiammatorio.
Un altra causa può essere un ostruzione e restringimento venoso per causa: di trombi,
compressione esterna, inattività degli arti inferiori con lunghi periodi di immobilità.
2. Riduzione della pressione oncotica delle proteine del plasma e ipoprotinemia. Questa è una
condizione sistemica: per questo motivo, ciò provoca necessariamente edemi generalizzati. Può
essere dovuta a:
• Glomerulopatie con perdita di proteine, sindrome nefrosica
• Cirrosi epatica, che provoca una ridotta sintesi di proteine.
• Malnutrizione, soprattutto quando la dieta è povera di proteine (edema da fame, soprattutto
quando ad un primo figlio viene sospesa la nutrizione di latte materno con delle farine, le
quali non sono contenenti di proteine le quali quindi provocano un edema generalizzato al
peritoneo con un gonfiore generalizzato all’addome)
• Gastroenteropatia con perdita di proteine per l’apparato gastroenterico per vomito o diarrea.
3. Ritenzione del sodio. Anche questo provoca edemi generalizzati. Può essere dovuta a:
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• Eccessiva assunzione di sale, con ridotta funzione renale
• Aumento della secrezione di renina-angiotensina-aldosterone
4. Ostruzione linfatica, che provoca edemi localizzati. Questa può essere dovuta a cause neoplastiche,
infiammatorie, ma anche in seguito ad irradiazioni. Questa può essere causata dalla clamidia
(microrganismo intracellulare) il quale porta un edema a livello dei genitali.
Per scoprire se un tessuto è edematoso, basta eseguire una leggera pressione sul tessuto. Se resta una
fossetta, allora è edematoso. Questo perchè normalmente l’acqua si trova sotto forma di gel legata alle
proteine. Nel caso degli edemi l’acqua si trova libera per cui crea una fossetta. L’edea da insuff. Cardiaca è
un edema generalizzato che è influenzato dalla pressione per cui se è in piedi il liquido sarà evidente a
livello degli arti inferiori, mentre se è a sedere a livello sacrale. Quello inerente la parte renale, provoca una
edema dei tessuti molli.
Le due forme più gravi di edema sono quello cerebrale e quello polmonare. L’aumento del volume
encefalico, legato all’edema, può determinare, dal momento che l’encefalo è racchiuso in una scatola rigida,
un aumento della pressione endocranica. Ciò comporta convulsioni, vomito cerebrale (non preceduto da
nausea, indipendentemente dal pasto e a getto improvviso) e cefalea.
Se l’edema è a livello degli alveoli polmonari, questo provoca la chiusura degli alveoli e la morte
dell’individuo. La causa è lo scompenso del ventricolo sinistro, la quale creerà un accumulo a monte a
livello dei polmoni.

L’emorragia
Le emorragie ovvero la fuoriuscita di sangue, possono essere:
1. Esterne, chiamate con nomi diversi, a seconda del luogo anatomico:
• Epistassi: fuoruscita di sangue dal naso.
• Otorragia: fuoriuscita di sangue dell’orecchio.
• Emottisi o emostoe: se viene dall'apparato respiratorio.
• Ematemesi: apparato digerente.
• Melena: sangue nelle feci, se il sangue proviene dai tratti alti del digerente, è stato digerito e
causa feci di colore nero.
• Enterorragia: Parti basse dell'intestino, sangue provenienti dal colon.
• Rettorragia: Proviene dal retto, sangue proveniente dal retto.
• Ematuria: Nelle urine.
• Menorragia: Mestruazione particolarmente abbondante.
• Metrorragia: perdita di sangue tra una mestruazione e la successiva.
2. Interne, che possono riguardare o un tessuto (petecchie, se sono piccole come la capocchia
di uno spillo; porpore, se hanno fino ad 1cm di diametro; ecchimosi, se hanno dimensioni molto grandi).
Se si raccoglie in cavità, in questo caso, davanti alla parola, mettiamo il prefisso “emo” (emopericardio).
Se la cavità è, invece, neoformata, si parla di ematoma. Ma quali sono le cause principali delle
emorragie?
1. Traumi
2. Stati patologici dei vasi (aterosclerosi)
3. Tumori maligni, che aggrediscono la parete vasale
4. Ipertensione, che può provocare emorragie a livello di piccoli vasi
5. Diatesi emorragiche, ossia un gruppo di affezioni cliniche, che provocano sanguinamento (per
esempio, il deficit di piastrine e tutti i deficit della coagulazione)
6. Malattie infettive, come la tubercolosi, che provoca la fuoriuscita di sangue dalla bocca
7. Ipovitaminosi, come la carenza di vitamina C (scorbuto) o della vitamina K. La prima interviene
nella sintesi del collagene; se c’è poca vitamina C, c’è poco collagene e la parete del vaso risulterà
fragile.

E’ importante stare attenti a:

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1. Entità della perdita. Perdite fino al 15-20% non comportano conseguenze patologiche (quantità delle
trasfusioni). Perdite superiori al 25-30%, se avvengono rapidamente, possono portare al cosiddetto
shock ipovolemico, conseguente cioè alla perdita di liquido del sangue. Questa è una condizione di
ischemia generalizzata, per cui per una brusca caduta della pressione arteriosa i tessuti non sono
perfusi in maniera adeguata. Perdite di una certa entità che, invece, avvengono ad una velocità lenta,
non portano allo shock (il midollo riesce a reintegrare), ma possono provocare un’anemia.
2. Sede della perdita; un’emorragia cerebrale è, sicuramente più importante di un’emorragia nasale
(epistassi).
3. Durata della perdita. Perdite prolungate nel tempo, possono causare delle anemia.

Processo emostatico
Il coagulo non è aderente con la parete vasale, superficie liscia e struttura omogenea, lucido elastico. Si
forma quando il sangue ristagna (post mortem, stasi ematica, arresto del flusso, in vitro). Le piastrine sono
coinvolte nella formazione del coagulo.
Il trombo è saldato per un tratto più o meno esteso all’endotelio della parete vasale o all’endocardio. Ha una
superficie pitto sto regolare, struttura non omogenea. Granulo, friabile. Si forma quando il sangue circola.
Fenomeno attivo che coinvolge il sistema emostatico

Il processo emostatico è una serie di reazioni biochimiche e cellulari, sequenziali e sinergiche, finalizzate ed
impedire la perdita di sangue dai vasi. Ha una funzione di riparare lesioni vascolari a fine di evitare
emorragie e di mantenere il sangue fluido e quindi impedire la formazione di trombi. Le alterazioni
dell’emostasi si possono ricondurre quindi a due quadri:
 Deficenza del sistema emostatico – manifestazioni emorragiche (malattie emorragiche)
 Inappropriata attivazione intravascolari dell’emostasi – formazione di trombi (trombosi)
Quindi si possono considere la trombosi come una estensione patologica.
Un aumento eccessivo di emostasi può provocare dei trombi, mentre una diminuzione può portare ad
emorragie.
L’endotelio oltre che a isolare il sotto endotelio dal sangue, produce una serie di fattori fondamentali
nell’emostasi. Il primo effetto è quello di separare, perchè il sotto endotelio è una struttura pro-coagulante,
tutte le proteine della matrice hanno questo effetto coagulante ma in primo luogo è il collagene carico
negativamente. Inoltre svolge un ruolo fondamentale nell’attivare la coagulazione del sangue (la più grande
ghiandola endocrina del nostro organismo):
Attività protrombotiche
 Aggregazione e adesione piastriniche (adesione alla membrana basale): platelet activation factor,
fattore di Von Willbrand (favorisce l’adesione delle piastrine alla parete basale, è il principale
collante nel processo di adesione. Il fibrinogeno è il maggiore collante nel processo di aggregazione
che poi sarà trasformata in fibrina che legerà tutto l’aggregato piastrinico)
 Coagulazione: fattore tissutale (è il fatto è che innesta la via estrinseca la via di coagulazione),
fattore V, legale di IXa e Xa
 Inibizione: inibizione del tPA (inibizione della
fibrogenolisi)
Attività antitrombotiche
 Inibizione dell’aggregazione piastrinica (si
intende l’attacco delle piastrine tra di loro): PGI2
(prostaciclina – metabolica dell’acido
arachidonico), ecto-ADPasi, NO (vasodilatazione
dell’ossido d’azoto).
 Inibizione della coagulazione: trombomodulina,
eparina (aumenta di 1000 volte il legame tra la
trombina e il suo inibitore antitrombina3; infatti

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questo aumenta l’affinità dell’inibitore con la trombina), -2-macroglobulina (induce la fibrinolisi
ovvero degrada la fibrina)
 Fibrinolisi: attivatore tissutale (tPA), urochinasi.

Ma quali sono le fasi del processo?


 Fase vascolare, che coinvolge i vasi. La prima reazione del vaso ad un danneggiamento è una
breve vasocostrizione, indotta da una sostanza dell’endotelio l’endotelina, che serve a ridurre
momentaneamente la perdita di sangue e l’adesione delle piastrine. Inoltre i fattori della
coagulazione potranno concentrarsi nella sede della lesione. Questa vasocostrizione è dovuta a
vari fattori, come la risposta diretta delle fibrocellule muscolari allo stiramento e la secrezione di
endotelina.
 Fase piastrinica, che coinvolge le piastrine, che forma una tappo piastrinica molto molliccio e
resistente (tappo primario), successivamente entra in gioco la fibrina che rende il tappo molto
elastico (tappo secondario). Quando il sangue viene a contatto con le strutture sottoendoteliali, si
innesca una risposta delle piastrine, che è possibile suddividere in 4 fasi:
• Adesione delle piastrine sulla superficie danneggiata dell’endotelio ed attivazione. Per
adesione si intende la capacità delle piastrine di legarsi essenzialmente al collagene: ciò
determina l’attivazione piastrinica con innesco delle vie di trasduzione del segnale. Le
piastrine circolanti vengono attirate e si viene a formare un addensamento di piastrine nel
punto di danneggiamento. Se non sono presenti alcuni particolari recettori, le piastrine non
riescono ad aderire al sottoendotelio.
• Cambiamento di forma. Questo consiste in una veloce trasformazione della forma discoidale
ad una irregolarmente sferica. Il cambiamento di forma comporta una fase successiva,
chiamata "fase di degranulazione”, con rilascio di tutte quelle molecole pro attivazione
piastrinica.
• Secrezione del contenuto dei granuli. All’interno dei granuli piastrinici troviamo i lisosomi
(ricchi di enzimi litici, deputati alla digestione), granuli delta (dove sono contenute molecole
stimolanti l’aggregazione piastrinica, come l’ADP, l’ATP e lo ione calcio) e granuli alpha
(qui troviamo proteine adesive, come il fibrinogeno, la fibronectina, il fattore di von
Willebrand, alcuni modulatori di crescita e, infine, alcuni fattori della coagulazione)
• Aggregazione. Questa si verifica perché il fibrinogeno si pone a ponte fra le varie piastrine: è,
quindi, un collante dell’aggregazione. L’aggregazione piastrinica è un fenomeno bifasico. In
una prima fase abbiamo l’aggregazione primaria, un processo reversibile (tappo piastrinico
primario); nella seconda fase abbiamo, invece, l’aggregazione secondaria, un processo
irreversibile (tappo piastrinico secondario). Fra le sostanze antagoniste dell’aggregazione
troviamo la prostaciclina, la Proteina C la PGD2, l’adenosina, l’adrenalina e l’ossido nitrico
(NO). RICORDATELE (soprattutto la prostaciclina e la proteina C).
• Attività procoagulante dei fosfolipidi di superifice, i fosfolipidi di membrana forniscono siti
di legame per i fattori della coagulazione.
 Fase coagulativa, dove è coinvolto il sistema della coagulazione. Questa è l’attivazione della
cascata coagulativa, che porta alla formazione di fibrinogeno e alla coagulazione. Di fattori della
coagulazione ne conosciamo 13, he si trovano nel plasma in forma inattiva (il fattore 1 non è
altro che il fibrinogeno, il 2 è la protrombina, il 4 è lo ione calcio, ecc.). Per attivarsi devono
subire una scissione proteolitica (la proteina si spezza) così che si componga una componente
attivo (che diventa enzima sui substrati che sono i fattori non coagulati). Ogni tappa della cascata
coagulativo è il risultato di una complessa reazione che avviene tra:
• Un enzima (fattore della coagulazione già attivato)
• Un substrato (fattore della coagulazione su cui agisce l’enzima)
• Un cofattore (accellerazione della reazione)
• Una superficie di reazione

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• Ioni calcio
Ma cosa sono questi fattori? Sono proteine di varia natura (la maggior parte sono serino-
proteine), che circolano nel sangue o sono legate a cellule in forma inattiva. La maggior parte di
queste vengono sintetizzate nel fegato. Importante ricordare, inoltre, che alcuni fattori, al fine di
essere attivati, necessitano della vitamina K.
I fattori della coagulazione agiscono in sequenza nell’ambito di due sistemi:
• Sistema intrinseco, in cui i componenti sono tutti presenti nel sangue e il suo evento
principale portano all’attivazione del fattore di Hageman. Si attiva a contatto con il
sottoendotelio negativo, il fattore XII che porta alla scissione proteolitica in XIIa (fattore di
Hageman);
• Sistema estrinseco, dove abbiamo la partecipazione di componenti di derivazione esterna al
sangue e dal tessuto danneggiato; il suo evento principale è l’attivazione del fattore VII.
La fine è, poi, comune a tutti e due i sistemi.
 Fase fibrinolitica, con fibrinolisi. Questa rappresenta il meccanismo fondamentale attraverso il
quale si dissolve il coagulo di fibrina, dopo che il vaso è stato riparato. Grazie a questi elementi,
si viene a formare un tappo piastrinico e la conseguente riparazione del vaso.
Esistono, oggi, numerosi fattori fisiologici per il controllo della coagulazione. Per esempio, fra le sostanze
che inibiscono la coagulazione troviamo l’antitrombina III, il C1-inattivatore, il cofattore eparinico III,
l’alfa-2-macroglobulina, ecc.
Dunque, per la regolazione e il controllo biochimico della coagulazione, esistono diverse modalità. Questo
può essere regolato attraverso:
1. Flusso sanguigno
2. Inattivazione delle proteasi attive, attraverso l’utilizzo di inibitori fisiologici, precedentemente detti
Ogni deficit o alterazione di un singolo componente di uno dei sistemi che compongono l’emostasi, possono
portare a patologie, come il trombo o le emorragie. Queste ultime, a seconda di dove si verificano, possono
essere classificate in cardiache, arteriose, venose, capillare, ma anche interne o esterne. Infine, possono
essere suddivise anche secondo la loro durata e la loro porzione anatomica. L’alterazione dell’emostasi può
riguardare una qualunque delle fasi del processo emostatico.
1. Difetti vasali
2. Difetti piastrinici; per esempio, se abbiamo una diminuzione del numero delle piastrine
(piastrinopenie e piastrinopatie)
3. Difetta della coagulazione, magari dovuti o all’alterazione o alla mancanza di alcuni dei
fattori. Per esempio, nell’emofilia A è dovuta alla deficienza del fattore VIII.

L’emostasi si attiva quando si deve attivare un’emorragia. Le condizioni che possono creare un opportuna
emostasi sono tre:
1. danno endoteliale, danno che riguarda l’endotelio e basta per tanto il vaso è integro.
2. anomalie del flusso ematico (sia come stasi che come turbolenza),
3. ipercoagulabilità.

Le malattie cardiovascolari e le trombosi


Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nei paesi occidentali: questo causano circa il 36%
dei decessi nei paesi occidentali. La formazione del trombo può essere data da:

Le lesioni endoteliali sono le più importanti e più frequenti fattori trombogeniche specialmente nel:
Cuore
 Nei siti di infarto del miocardio
 Su valvole colpite da malattie infiammatorie
 Su protesi valvolari
Arterie:

70
 Su placche ulcerate nell’ateroslerosi
 Nell’ipertensione <- stress emodinamici (denudazione arteriolare)
 Su lesioni da fumo di sigaretta
 Su lesioni su base immunologica (sindrome LAC – lupus anti coagula)
 In condizioni di stress (l’adrenalina danneggia i rettamente la parete vascolare
 Nell’ipossia da rallentamento del flusso e ristagno
 Lesioni da alte dosi di endotossina

Effetti meccanici legati al flusso sanguigno


Ridotta velocità del sangue (importante nelle vene). Fenomeno generale (insufficienza cardiaca congestizia)
o locale (ostacolo al deflusso negli arti):
 Prolungata immobilizzazione
 Ridotta attività muscolare
 Occlusione del drenaggio venoso
Si può verificare stasi anche nel circolo arterioso (cardiopatia congestizia o dilatati a, aneurismi, aneurismi
paradossi conseguenti ad infarto cardiaco, fibrillazione atriale)
Turbolenza del flusso sanguigno (importante per cuore ed arterie:
 Punti di biforcazione perdita disposizione dell’endotelio secondo la direzione del flusso, quindi
distacco dell’edotelio stesso
 In corrispondenza di lesioni aterosclerotiche

Ipercoagulabilità del sangue: Per aumento dei fattori della coagulazione o per deficit degli inbitori della
coagulazione
 Deficit genetico di anti trombina III o proteina C
 Sindrome nefrosica (per aumentata escrezione renale di anti trombina III)
 Gravi traumi, fratture e ustioni (per aumento rilascio di fattore tissutale)
 Cancro diffuso (per la probabile secrezione di fattori trombogenici da parte delle cellule tumorali)
 Stati post-operatori e di immobilizzazione (in quanto, conseguentemente al raffreddamento del
flusso, aumenta il tempo di contatto dei fattori della coagulazione con l’endotelio leso dall’ipossia)
 Gravidanza avanzata e periodo post-partum
 Uso di contraccettivi orali
 Fumo (sembra attivare il fattore di Hageman)

Fattori di rischio di trombosi: razza, età, fumo, obesità, immobilizzazione e permanenza a letto.

Le trombosi sono un processo patologico, che dà luogo alla formazione di un trombo, ossia una massa
semisolida, aderente alla parete vascolare, formata da costituenti del sangue all’interno del sistema
vascolare. Che differenza c’è, quindi, fra trombo e coagulo?
Il primo è il prodotto del sistema di coagulazione, inteso come tutti quei processi che portano alla
formazione del fibrinogeno in fibrina. Il secondo, invece, porta un’interazione fra le cellule dell’endotelio
vascolare e i costituenti del sangue.
I trombi possono essere:
1. Arteriosi. Si formano di solito su superfici endoteliali lese, soprattutto per processi di aterosclerosi.
Li troviamo nel cuore e nell’aorta e presentano l’aspetto di trombi variegati (a strisce gialle e rosse
alternate). Nelle arterie di piccolo calibro si presentano come trombi bianchi. Sono predisposti i
pazienti con presenza di ateroma.la patogenesi sono un flusso turbolento, danneggiamento
endoteliale, con una sintomatologia più veloce. Le complicazioni possono essere infarti o emolico
arterioso.
2. Venosi. Si formano nelle vene, in condizioni di stasi ematica (molto frequente, se pensiamo agli arti
inferiori, dove, soprattutto negli anziani, il sangue tende a ristagnare). Si presentano come masse

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rosse. Si formano spesso a livello delle valvole venose, dove il sangue ristagna facilmente. Sono
sempre occlusivi. Sono predisposti i pazienti con immobilizzazione. La patogenesi può essere una
coagulazione veloce del sangue con una sintomatologia più lenta. Le complicazione possono essere
una embolia polmonare.

Ma quali sono gli eventi che si devono verificare per la formazione di un trombo?
Si parla della cosiddetta triade di Virchow:
1. Alterazione del flusso del sangue:
• Stasi ematica, causata o da una ridotta attività della pompa del cuore o da un’aumentata
viscosità del sangue
• Turbolenza, ossia una variazione della regolarità del flusso, che si verifica spesso nei punti di
biforcazione dei vasi.
2. Alterazione dell’endotelio, che deve diventare trombogenico. Fra le cause troviamo:
• Placche ateromasiche
• Ipercolesterolemia
• Diabete
• Focolai infiammatori
• Omocisteina
• Endotossine batteriche
• Fumo
3. Alterazione dei componenti del sangue, che portano ad un’ipercoagulabilità. Fra le cause, possiamo
trovare:
• Fattore V mutato
• Deficienza di antitrombina III
• Immobilizzazione prolungata a letto, che favorisce la diminuzione del flusso sanguigno
• Danni tessutali gravi
• Cancro
• Valvole cardiache artificiali
• Fumo

Le tipologie di trombi
Esistono diverse tipologie di trombi:
1. Trombo bianco, formato da piastrine e fibrina. Rappresenta la fase iniziale della trombosi
2. Trombo rosso, se nella rete di fibrina che si forma nel trombo banco rimangono imbrigliati eritrociti
e leucociti.
3. Trombo variegato, se sono presenti strie bianche e rosse.
4. Vegetazioni, ossia particolari tipi di trombi che si originano all’interno del cuore, soprattutto sulle
valvole. Questi trombi sono particolarmente friabili: possono facilmente staccarsi dei pezzi, dando
vita ad emboli.

Evoluzione di un trombo
Un trombo può o andare incontro a:
1. Risoluzione, rimosso dalla plasmina che risolve la fibrina e discioglie il trombo
2. Embolizzazione, se alcuni pezzi del trombo si staccano e circolano liberi nel sangue. Un’embolia può
provocare un’ischemia, ossia una condizione caratterizzata da una perfusione dei tessuti inadeguata
al fabbisogno del tessuto. Questa può essere o limitata ad un organo o tessuto oppure può essere
generalizzata, che può provocare uno shock.
L’ischemia localizzata è caratterizzata da riduzione di apporto di ossigeno, riduzione di disponibilità
di metaboliti e aumento di cataboliti (sostanze tossiche) nel tessuto. Un’ischemia provoca una
riduzione della produzione di ATP, che porta ad un danno all’equilibrio di elettroliti, che provoca un

72
rigonfiamento della cellula arrivando, alla fine, alla morte cellulare (necrosi). In genere, quando una
zona ischemica viene poi ricanalizzata
(quindi nel tessuto torna l’ossigeno), abbiamo un danno da riperfusione: l’ossigeno che raggiunge il
tessuto necrotico viene utilizzato dalla xantino ossidasi al fine di produrre radicali liberi, che si
somma al danno ischemico.
3. Organizzazione del trombo. Nel luogo del trombo vengono prodotte delle sostanze che favoriscono
la neoangiogenesi, con la formazione di nuovi vasi e di una struttura compatta ed organizzata
(processo riparativo)
4. Occlusione del vaso con un blocco del flusso e quindi una ischemia
5. Ricanalizzazione, se si vengono a formare dei piccoli capillari all’interno del trombo stesso, che si
ampliano e permettono al sangue di attraversare il trombo e continuare la propria circolazione

Infarto
Se in una zona ischemica non viene ripristinato velocemente il flusso ematico, questa va incontro a morte
improvvisa. Questo processo viene chiamato infarto. Il tempo che intercorre fra l’ischemia (riduzione della
quantità di sangue che arriva al tessuto) e la necrosi può variare a seconda dei tessuti e delle strutture
anatomiche interessate (alcuni tessuti sono più sensibili alla riduzione di sangue, altri meno).
Quando in un tessuto si verifica un infarto, il danno è trattato dal sistema immunitario come ogni altro danno
all’organismo: si attuano una serie di meccanismi per cui il tessuto necrotico viene prontamente sostituito da
tessuto cicatriziale.
Durante un infarto, dalla zona necrotica si liberano delle sostanze che entrano nel circolo sanguigno e le loro
tracce nel plasma sono utili per la diagnosi di infarto. Fra gli enzimi che troviamo, c’è la mioglobina, la
CPK creatinfosfochinasi, isoforma MB, troponina T e I. Localizzazione dell’infarto:
1. Infarto miocardico: occlusione di un’arteria coronaria
2. Infarto polmonare: ostruzione di una o più arterie dei polmoni
3. Stroke: infarto che colpisce il cervello (causato o da ischemia o emorragia) Poi, possiamo
avere infarti agli arti inferiori, all’intestino o ai reni.

Embolia polmonare e arteriosa


L’embolo è una sostanza presente nel torrente circolatorio, di composizione chimica diversa da quella del
sangue e non mescolabile ad esso.
Gli emboli possono essere costituiti da materiale estraneo penetrato nei vasi o da materiale normalmente
presente nel sangue, che però si trova in un diverso stato fisico.
Esistono emboli:
1. Solidi, che possono essere:
• Frammenti di trombi staccatisi dalla massa trombotica principale principalmente presenti
nelle vene degli arti inferiori
• Parti di tessuto necrotico da lesioni delle pareti vasali
• Cellule viventi, solitamente neoplastiche
• Parassiti del sangue, batteri o funghi
• Corpi estranei, come schegge, aghi o spine
2. Liquidi, in genere costituiti da materiale lipidico non miscibile col sangue. Spesso si tratta di
goccioline di grasso fuoriuscite dalle cellule adipose penetrate in circolo per effetto di traumi (per
esempio, dopo una frattura di un osso lungo, il materiale interno, che è lipidico, può riversarsi nel
torrente circolatorio).
3. Gassosi, che possono formarsi per la presenza di gas, di norma azoto, per una brusca decompressione
o per la penetrazione di aria nel sangue (quello che accade ai sub quando risalgono troppo
velocemente).
Le conseguenze sono date dal calibro della vena occlusa. Nella maggior parte dei casi passa silente ovvero
vengono disciolti dal sistema fibrinolitico. Ma nel caso in cui si ha l’escusione di circa il 60% della rete

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venosa polmonare si può avere la morte, per causa quindi dell’arrivo di un grosso embolo (trombo a
cavaliere) o per sommazione di tanti piccoli emboli dati da frantumazione di un trombo.

Emboli arteriosi
Nella maggior parte di trombi si parla di trombi che si formano a livello cardiaco si possono staccare se
l’individuo è dato da aritmie cardiache. Questi possono arrivare a livello della milza, intestino, retina o
anche a livello degli arti inferiori con causa di una ischemia che dà una gangrena. Gli emboli di Grasso si
può avere per distacco di materiale di placche aterosclerotiche o per origine dal midollo osseo. Gli emboli
solidi lipidici possono anche essere causati per interventi chirurgici ortopedici o per interventi estetici come
la liposuzione. Quelli liquidi nel liquido amniotico per la presenza di una parte solida in soluzione nel
liquido come cellule desquamate o capelli. Quelli gassosi nelle immersioni, infatti coloro che si immergono
vanno incontro ad un aumento della pressione parziale dei gas, i quali entrano in solubilità nel sangue con
maggior facilità. Al momento della risalita, se avviene in maniera graduale, i gasi (in primo luogo l’azoto)
ritorna progressivamente allo stato gassoso. Se la risalita avviene in maniera rapida, questo avviene in
maniera veloce con formazione di bolle che possono occludere arterie e vene. Ma ciò può avvenire anche
durante il parto per ingresso di aria nel circolo venoso. Durante uno pneumotorace, infatti si ha il bloccaggio
dei polmoni. La situazione inversa all’immersione si ha ad alte attitudini dove si ha carenza di ossigeno e
quindi si ha un calo della pressione parziale dell’ossigeno, creando un ipossia.
Ipossia:
 Ipossica, quando c’è poco ossigeno nel sangue arterioso (da altitudine)
 Anemica, mancano di una quantità di emoglobina sufficiente per il trasporto dell’ossigeno necessario
si tessuti
 Ischemica o stagnante, alterazioni vascolari per cui i tessuti non possono ricevere ossigeno in
quantità idonee
 Istotossica, danno cellulare per cui le cellule non possono utilizzare l’ossigeno che ad essere arriva
regolarmente

Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID)


Questa dipende dall’attivazione della reazione a cascata della coagulazione, con formazione, all’interno dei
vasi, di alcuni microtrombi di fibrina. Sappiamo che, normalmente, durante la cascata coagulativa, viene
attivato anche il sistema fibrinolitico, per digerire poi la fibrina in eccesso. In questa patologia, ciò non
accade correttamente. Contemporaneamente alla formazione di questi trombi, l’utilizzo eccessivo dei fattori
coagulativi provoca, in altri porzioni dell’organismo, eventi emorragici.
Quali sono le condizioni in cui possiamo avere la presenza di questa patologia?
1. Situazioni in cui viene attivata la cascata coagulativa, per esempio in:
• Embolia di liquido amniotico aspirato dopo il parto
• Distacco precoce della placenta
• Atonia con emorragia post-partum
• Aborto settico
• Interventi su organi ricchi di trombochinasi
• Emolisi grave per incompatibilità trasfusionali (quando viene trasfuso sangue non
compatibile si può attivare il CID, perché le IgM specifiche nei confronti del gruppo
sanguigno not self provoca l’attivazione del complemento all’interno dei vasi: questo
provoca la partenza di una cascata coagulativa, priva del sistema fibrinolitico)
2. Attivazione della coagulazione tramite mediatori, per esempio:
• Endotossine di batteri Gram- in donne gravide
• Porpora fulminante

Questa unione di eventi (sindrome emorragica e ostruzione microvascolare) provocano una sindrome finale,
chiamate MOF (Multi Organ Failure).
74
APPUNTI PRESI:
Coagulazione intravascolare disseminata (CID) (già presente dopo l’embolia): consiste nella improvvisa e
simultanea formazione a livello del microcircolo di migliaia di micro trombi. A questa massiva
coagulazione si associa per attivazione del sistema fibronilitico e per il consumo della prima parte delle
piastrine e dei fattori della coagulazione ad una spiccata emoraggia. Quindi esistono sia trombosi che
emoraggia. Coagulopatia da consumo. Le condizioni che possono complicarsi con una CID:
 Complicanze ostetriche: queste il distacco precoce di placenta normalmente inserita, ritenzione di
feto morto, aborto asettico, embolie di liquido amniotico, tossiemia.
 Infezioni: sepsi da gram-positivi, meningococchi
 Neoplasia: carcinoma del pancrea
 Esteso danno tissutale: da trauma intensi che compromettono i fibroblasti che liberano fattore
tissutale, ustioni o estesi interventi chirurgici
 Miscilenea: emolisi intravascolare acuta.
Si ha la liberazione di grande quantità di fattore tissutale. Tutti i tessuti fetali (placenta, feto etc.)
sono tessuti ricchi di fattori tissutale. Per quanto riguarda i tumori, alcuni di questi hanno cellule
che sono ricchi di granuli di fattore tissutale. Le infezioni da Gram -, contengono nella loro parete
endotossina, nel momento in cui si ha la lisi, questi si collegano con le proteine LPS con il quale
forma un complesso LPS-LBS che si lega con il recettore del macrofago a livello del CD14. Per
tanto si ha la liberazione dei mediatori dell’infiammazione tra cui anche il fattore tissutale che
porta quindi ad una coagulazione massiva.
La diffusa trombosi nel circo circolo porta ad una occlusione vascolare con la formazione di tralci
di fibrina i quali imbrigliano i globuli rossi i quali quindi non potranno portare ossigeno al tessuto.
Oltre alla formazione del sistema della coagulazione si attiverà anche il sistema della fibrinolisi, la
plasmina che degrada la fibrina i quali prodotti agiscono come anticoagulanti e favoriscono il
sanguinamento. In seguito alla coagulazione si avrà fenomeni che portano alla trombosi e altri
all’emoragia. I primi formano tanti trombi circolanti nel microcircolo con una occlusione
trombotica sugli organi con segni di tipo neurologico, multi focali con delirio e coma, a livello
cutaneo con ischemia focale, a livello renale oliguria, a livello polmonare con sindrome da
scompenso respiratorio acuto. A livello emoraggia o dati dai prodotti di demolizione della fibrina
circolanti insieme al consumo di piastrina e di fattori della coagulazione si avrà la comparsa di
segni della diatesi emorragica: a livello neurologici con emorragia intra cranica, cutanei petecchie
ede micosi.

La CID acuta si accompagna con embolia del liquido amniotico. Si ha la prevalenza della
manifestazione emorragica, il paziente muore in seguito all’emoraggia.
La CID cronica si ha dai tumori con rilascio di fattori tissutale che è graduale e quindi prevalgono
le manifestazioni di tipo trombotico.
Si cura con la somministrazione di eparina, così da risolvere la prima fase che è la coagulazione.
Successivamente si reintegrano le piastrine e fattori della coagulazione

Lo shock
Lo shock è un’insufficienza acuta del circolo periferico, causata da uno squilibrio fra la massa fluida
circolante e la capacità del letto vascolare, con conseguente caduta pressoria. Uno shock può provocare:
1. Diminuzione del ritorno venoso
2. Diminuzione della gittata cardiaca
3. Diminuzione del volume di sangue immesso, al minuto, nel circolo
4. Compromissione del metabolismo cellulare
Quali possono essere le cause dello shock? Possiamo classificarle in più modi:

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1. Cause fisiche, come interventi chirurgiche, traumi o ferite penetranti, ustioni, colpo di calore, gravi
emorragie, ecc. (tutte situazioni in cui cambia notevolmente la massa liquida di sangue circolante)
2. Cause immunoallergiche: shock anafilattico (i mastociti rilasciano istamina a livello sistemico, che
provoca una vasodilatazione, una diminuzione della pressione e conseguente shock)
3. Cause chimiche, in caso di trattamenti con sostanze vasoattive (dilatano i vasi), come acetilcolina,
istamina, adrenalina, ecc.
4. Causa biologiche, come le infezioni batteriche (abbiamo uno shock endotossico o settico, quando i
batteri entrano nel circolo sanguigno e quindi vengono prodotte citochine pro infiammatorie, che
determinano una dilatazione dei vasi).

Lo shock può essere classificato anche su base patogenetica. Possiamo avere:


1. Shock ipovolemico, dovuto alla riduzione della massa sanguigna circolante. Fra le cause abbiamo:
• Diminuzione della massa del sangue circolante
• Diminuzione della massa plasmatica
• Perdita di acqua ed elettroliti (vomito, diarrea, eccessiva diuresi e diminuito apporto di
acqua)
2. Shock vasculogeno, dovuto ad una vasoparalisi o ad un’aumentata permeabilità dei vasi (per
esempio lo shock anafilattico). Fra le cause troviamo:
• Alterazioni vasomotorie (vasoparalisi)
• Aumento della permeabilità capillare, in caso di tossine batteriche, istamina, bradichinina,
serotonina, ecc.
3. Shock cardiogeno, dovuto alla compromissione del volume di sangue pompato al minuto da parte
del cuore. Questo può essere provocato da una qualsiasi anomalia che interferisca con il normale
efflusso anterogrado di sangue emesso dal cuore. Possiamo avere cause estrinseche, come le
trombosi, ed intrinseche, come miocarditi, pericarditi o endocarditi, infarti, difetti del setto
interventricolare o la permanenza del dotto arterioso di Botallo (un foro presente fra i due atri nel
bambino).
In tutti i tipi di shock, distinguiamo 3 fasi:
1. Compenso, così chiamata perché caratterizzata dalla messa in opera di meccanismi atti a compensare
l’ipotensione (l’organismo cerca di trovare dei meccanismi di compensazione). L’organismo, infatti,
aumenta la frequenza cardiaca (favorendo l’aumento della pressione), contrae le arteriole (aumenta la
pressione, ma provoca una diminuzione della perfusione dei vasi, con anossia e stasi), ridistribuisce
la circolazione sanguigna, al fine di mantenere solo la perfusione di organi vitali (cervello e cuore),
aumenta l’ADH e i corticosteroidi, per controllare la ritenzione idrica, così da far aumentare il
volume del sangue (ciò, tuttavia, può provocare acidosi metabolica).
2. Progressione, in cui si osserva la comparsa di lesioni, provocati dallo shock. Si presenta ipotonia,
ipotermia, oliguria, vomito, paralisi degli sfinteri, con perdita di urina e feci. E’ dovuta all’ipossia ed
è caratterizzata da un’ulteriore diminuzione della gittata cardiaca e della funzione renale; abbiamo
anche ipoglicemia e diminuzione della concentrazione di ATP nei tessuti.
3. Irreversibilità, in cui si ha inevitabilmente la morte (exitus). E’ caratterizzata da un’ulteriore
diminuzione della gittata sistolica, che provoca morte per insufficienza ventricolare acuta. In questa
fase, inoltre, abbiamo anche il cosiddetto sludging, ossia un aggregazione dei leucociti e degli
eritrociti, a causa di un aumento della viscosità del sangue. Infine, abbiamo l’attivazione di fenomeni
coagulativi, lesione dei tessuti, coma e morte.

Il diabete
Il diabete è un disordine cronico del metabolismo, caratterizzato da elevati livelli di glucosio plasmatici a
digiuno (iperglicemia), da diuresi abnorme (poliuria), con presenza di glucosio anche nelle urine
(glicosuria). Il diabete è conseguente alla carenza o al mancato utilizzo dell’insulina. L’omeostasi glicemica
dipende da:
1. Adeguata introduzione di glucosio con la dieta

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2. Utilizzazione periferica di questo glucosio assunto con la dieta
3. Formazione epatica di glucosio (glicogeno)
4. Controllo del glucosio dai fattori ormonali Una glicemia fisiologica va da 75 a 110 mg/dL.
Esistono diversi ormoni che regolano la glicemia; fra gli ormoni ipoglicemizzanti troviamo l’insulina e le
somatostatine (IGF-1), mentre fra quelli iperglicemizzanti abbiamo il glucagone, i glucocorticoidi, le
catecolamine, gli ormoni tiroidei, il GH e l’ACTH.
Un aumento della glicemia promuove il rilascio di insulina da parte del pancreas: questa stimola la sintesi di
glicogeno e facilita la captazione di glucosio dal sangue. Se la glicemia diminuisce in maniera consistenza,
allora viene secreto il glucagone, che ha gli effetti opposti all’insulina: stimola la scissione del glicogeno,
aumentando la glicemia.
Il diabete mellito è una malattia cronica che interessa il metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle
proteine. E’ caratterizzato da un’insufficiente secrezione di insulina, che comporta una ridotta utilizzazione
dei carboidrati, con conseguente iperglicemia.
Il diabete mellito può essere:
1. Primitivo o idiopatico, che può essere:
• Di tipo I (insulino-dipendente): l’insulina non viene quasi più prodotta (alterazione delle
cellule β del pancreas)
• Di tipo II (non insulino-dipendente): l’insulina viene prodotta, ma le cellule non sono in
grado di rispondere a questo ormone (le cellule sono resistenti all’insulina).
2. Secondario, derivante per esempio da pancreatiti, tumori, da farmaci o interventi chirurgici che
hanno provocato danni al pancreas.

Tipo I Tipo II
Rischio 0,5% (10 – 20% dei casi) 5 – 6% (80 – 90% dei casi)
Insulina Insulino dipendente Non insulino dipendente
Clinica Insorgenza < 20 anni Insorgenza > 30 anni
Peso normale Obesità
Insulinemia Insulinemia
Anticorpi anti – isole + Anticorpi anti – isole -
Chetoacidosi +++ Chetoacidosi +
Patogenesi Autoimmunità Resistenza all’insulina
Genetica Concordanza gemelli + Concordanza gemelli +++
Correlazione HLA – D Non correlato HLA
Morfologia Cellule ᵦ Cellule ᵦ
Insulite Insulite

La patogenesi A cosa serve l’insulina? E’un ormone molto importante, che ha il compito di legarsi ai
recettori delle cellule, attivando una cascata di trasduzione del segnale, in particolare una tirosin chinasi, che
stimola l’espressione sulla superficie delle cellule, di recettori per il glucosio. In questo modo il glucosio si
legherà ai recettori, sarà internalizzato e utilizzato per metabolismo o altri processi. Alcuni tessuti sono
insulino dipendenti, altri, insulino indipendenti. Il miocardio, il fegato, hanno bisogno di insulina per poter
captare il glucosio. Altri tessuti, come ad esempio, il cervello, sono insulino indipendenti; in questo modo
possono funzionare anche in assenza insulina.
La quantità di glucosio presente nel sangue è quella che da l’input alla secrezione dell’insulina.

Ma come avviene tale secrezione?


L’insulina è già all’interno delle cellule pancreatiche, nel momento in cui serve, viene
immediatamente secreta. Se il glucosio non si abbassa a valori normali c’è un induzione, una sintesi de novo
dell’insulina, che viene rilasciata successivamente. Questo è il meccanismo con cui l’insulina funziona e
agisce sulle cellule. Gli effetti precisi dell’insulina sono:
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1. Trasporto di glucosio e aminoacidi attraverso le membrane cellulari
2. Sintesi del glicogeno nel fegato e nei muscoli scheletrici
3. Conversione glucosio in trigliceridi
4. Sintesi di acidi nucleici
5. Sintesi proteiche

La sua principale funzione metabolica consiste nell’incrementare il trasporto di glucosio entro alcuni tipi di
cellule, quali le fibre muscolari striate scheletriche e cardiache, i fibroblasti e le cellule adipose. Nel
complesso circa i due terzi del peso corporeo totale.
E’ caratteristica del diabete mellito una ridotta tolleranza al glucosio. Questa la si può evidenziare attraverso
l’analisi della glicemia a digiuno e, poi, a tempi successivi, dopo somministrazione di glucosio per via orale
(curva di carico da glucosio).
Nei soggetti normali si osserva un lieve aumento della glicemia, ma viene riportato a livelli normali in circa
1 ora. Nei diabetici, invece, la glicemia aumenta in maniera abnorme, mantenendosi a livelli elevati per
lungo tempo. Questo può dipendere da:
1. Mancanza produzione insulinica
2. Mancata risposta all’insulina delle cellule bersaglio
3. Entrambi i fattori

Patogenesi del diabete mellito di Tipo 1


E’ il risultato di una grave carenza di insulina, che consegue a riduzione della popolazione di cellule β nelle
isole pancreatiche. Si sviluppa, di solito, nell’infanzia. E’ chiamato anche diabete insulinodipendente
perché, in questi pazienti, è necessaria la somministrazione continua di insulina. Questo tipo di diabete ha
alcune predisposizioni genetiche, soprattutto nei geni di HLA-II: si è visto come, in questo diabete, ci sia un
rapporto stretto con l’HLA-II (non sappiamo ancora quale sia il meccanismo esatto che comporti il diabete).
E’ stato scoperto, inoltre, come il diabete di tipo 1, oltre alla predisposizione genetica, sia dato da alcuni
fattori ambientali, come alcune infezioni virali: alcuni virus, infatti, hanno delle proteine simili a quelle
presenti sulle cellule β: il sistema immunitario, quindi, riconosce come not self anche le cellule β del
pancreas (mimetismo molecolare).
Infine, fra i fattori predisponenti al diabete, abbiamo anche l’autoimmunità.
In conclusione, il diabete mellito di tipo I potrebbe costituire la rara complicazione a distanza di infezioni
virali relativamente comuni, condizionata dalle molecole di classe II del complesso maggiore di
istocompatibilità, e ritardata nella sua comparsa dal tempo necessario perché la reazione autoimmune possa
portare alla distruzione estesa di cellule ᵦ.

Patogenesi del diabete di tipo II


Questo compare dopo i 40, generalmente, in età tardiva. Nella cellula periferica normale (come un adipocita
o una cellula muscolare scheletrica), il legame dell’insulina al suo recettore attiva il dominio tirosin
chinasico di quest’ultimo, permettendo al glucosio di entrare nelle cellule. Nei soggetti che invece hanno
questa predisposizione genetica, o che vivono in determinati ambienti, si ha una down - regolation dei
recettori per l’insulina (diminuiscono i recettori per legare l’insulina). La conseguenza è la scarsa presenza
di recettori per il glucosio, e quindi la sua maggiore presenza nel sangue. Possono compartecipare anche
inibitori intracellulari, che agiscono sulla cascata scatenata dal legame tra insulina e recettore.
Il risultato è, quindi, una riduzione di ingresso di glucosio nelle cellule. La risultante iperglicemia in una
persona normale, generalmente, viene controbilanciata da un’aumentata produzione di insulina da parte
delle cellule β. In persone, invece, genericamente dotate di una limitata capacità di risposta delle cellule β
all’iperglicemia, la secrezione di insulina è inadeguata all’aumentato carico di glucosio.

Riassumendo: nel tipo 2 abbiamo la predisposizione genetica forte (non si conoscono ancora i geni, ma
probabilmente sono difetti genici multipli). Sono molto importanti i fattori ambientali, come l’obesità,
determinano la resistenza all’insulina da parte dei tessuti. Tutto ciò porta all’iperglicemia, e al conseguente
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esaurimento delle cellule beta (evento tardivo, causato dalla continua richiesta di insulina). Ben l’80% dei
diabetici di Tipo 2 sono obesi, ciò fa capire l’importanza di questo fattore. Tra le conseguenze si ha anche il
rilascio di amilina, una proteina prodotta dalle cellule beta, assemblata e secreta insieme con l’insulina. Nei
pazienti con diabete di Tipo 2 l’amilina tende ad accumularsi all’esterno delle cellule beta, a ridosso delle
membrane, provocando amiloidosi, soffocando le cellule e uccidendole.

Le complicanze del diabete


Un’alta glicemia può provocare:
1. Microangiopatie (danni a livelli dei piccoli vasi). In questa patologia, per esempio, i prodotti di
glicosilazione del collagene o di altre proteine presenti nei tessuti interstiziali e nelle pareti dei vasi
sanguigni vanno incontro a modificazioni irreversibili e si cominciano ad accumulare in modo
progressivo nella parete vascolare. Il diabete, infatti, come già abbiamo detto, è una delle cause di
possibile aterosclerosi. Si alterano, di conseguenza, le funzioni dei vasi capillari, compresi quelli
renali (nefropatie).
2. Retinopatie (danni a livello della retina). Possono portare alla cecità.
3. Nefropatie (alterazioni a livello del nefrone e dei vasi renali).
4. Neuropatie (alterazioni dei nervi). L’insufficienza renale è al secondo posto come causa di morte nei
diabetici. Si ha in questi casi alterazioni a livello dei glomeruli, dei vasi renali, pielonefriti
(infiammazioni).
5. Aterosclerosi. Vengono colpiti vasi di ogni dimensioni, dall’aorta sino alle più fini arteriole e
capillari. L’aorta e le arterie di grosso e medio calibro vanno incontro ad aterosclerosi rapidamente
ingravescente. Fra le cause, che possono accelerare l’aterosclerosi nei diabetici, troviamo
iperlipidemie, alterazione delle lipoproteine, aumento dell’adesività delle piastrine e, infine, aumento
della pressione arteriosa.

Questi danni derivano dall’iperglicemia, che provoca:


1. Una glicosilazione non enzimatica (il glucosio va a creare delle proteine anomale, molto reattive e
dannose). Il grado di glicosilazione non enzimatica è in rapporto diretto con la concentrazione di
glucosio nel sangue. Per andare a capire quanto tempo è rimasta alta la glicemia in un soggetto,
basterà andare a misurare una di queste proteine alterate, ossia l’Hb. Si esegue, infatti, il test
dell’emoglobina glicata; poiché sappiamo che gli eritrociti vivono massimo 120 giorni, andiamo a
vedere da quanto tempo quest’Hb è alterata. Noi sappiamo esattamente quando è la durata di vita dei
globuli, se quindi misuriamo questa emoglobina, basandosi sui parametri e a seconda di quanto è
glicata, sapremo per quanto tempo questo glucosio è rimasto in circolo.
2. Un’iperglicemia intra-cellulare con disturbi del metabolismo degli alcali poliidrossilici.
L’iperglicemia comporta di per sé un aumento della concentrazione di glucosio intracellulare in quei
tessuti che richiedono la presenza di insulina per il suo trasporto. Il glucosio in eccesso viene
metabolizzato in sorbitolo, un alcool poliidrossilico, e poi a fruttosio, con conseguenze sfavorevoli.
L’accumulo di sorbitolo e di fruttosio comporta un aumento dell’osmolarità intracellulare, che
provoca l’ingresso di acqua nella cellula e infine, un danno cellulare.

I sintomi finali del diabete sono poliuria (urine aumentate), polidipsia (sete aumentata) e polifagia (fame
eccessiva).

Complicanze tardive del diabete


Le alterazioni del pancreas sono variabili e non sempre gravi, mentre sono più importanti le alterazioni
patologiche determinate dalle complicanze sistemiche tardive, dalle quali derivano morbilità e mortalità.
La loro epoca di insorgenza, la gravità e le sedi colpite sono molto variabili, con un controllo rigoroso della
glicemia la loro comparsa può essere tuttavia ritardata.

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Esiti del diabete
I pazienti con diabete di tipo I hanno un maggior rischio di morte rispetto a quello con diabete di tipo II. Le
cause di morte, in ordine di importanza, sono:
1. Infarto miocardico
2. Insufficienza renale
3. Accidenti vascolari cerebrali
4. Miocardiosclerosi
5. Infezioni
Fra le terapie sperimentali, abbiamo un trapianto di cellule β e una terapia genica con inserimento di geni
per l’insulina in cellule epatiche.

Ipossia
Quando diminuisce la percentuale di ossigeno nel sangue, il fisico risponde con dei meccanismi di
compensazione. Questo può essere patologico o cronico. Nel primo il fisico risponde con: aumento del
numero e della profondità degli atti respiratori. Il primo prende il nome di polipnea, il secondo iperpnea.
Un altro meccanismo è dato dall’aumento del numero degli atti cardiaci così che maggiore emoglobina si
presenta a livello alveolare per essere caricata di ossigeno.
Nell’ipossia cronica, si effettuano dei meccanismi di compenso con un adattamento come l’acclimitazione,
presente nelle persone che vivono in montagna. Qui è mediato da un aumento del numero dei globuli rossi,
un aumento di EPO dal rene che stimola la linea midollare a produrre maggiori globuli rossi. Questo però
comporta un aumento della viscosità che comporta un aumento di lavoro da parte del cuore, in particolare il
ventricolo sinistro che diventa ipertrofico. Nelle Ande
Nella parte patologica, si ha anche in caso in cui si ha deficit nei tessuti passando ad una tachipnea con un
aumento della frequenza ma con un lieve respiro. Da qui si può passare ad una dispnea con una colorazione
definita: cianosi, una fame d’aria.

Si possono avere 4 tipi:


 Ipossia Ipossica, in cui manca l’ossigeno a livello alveolare e conseguentemente a livello arterioso.
Come nel tipo di ipossia da altitudine. L’emoglobina qui è normale.
 Ipossia Anemica, l’ossigeno è normale ma vi è carenza di emoglobina
 Ipossia Ischemica o stagnante, alterazioni vascolari per cui i tessuti non possono ricevere ossigeno in
quantità idonee, con una carenza anche di nutrienti per una possibile ostruzione derivante da un
trombo
 Ipossia Istotossica, danno cellulare per cui le cellule non possono utilizzare l’ossigeno che ad esse
arriva regolarmente. Emoglobina, ossigeno e flusso normale ma le cellule non sono in grado di
utilizzare l’ossigeno, magari per un blocco della catena respiratoria (avvelenamento da cianuro).

Ipossia ipossica
Riduzione della pressione parziale di ossigeno nell’aria in montagna o in un luogo in cui vi è molto anedride
carbonica con la formazione di un sistema tampone H2CO3/HCO3- che prende posto sull’emoglobina
occupando i siti di legame per l’ossigeno.

Ipossia istotossica
Alterazioni a carico dell’apparato respiratoria:
 Insufficiente ventilazione alveolare: per malformazioni della gabbia toracia (scoliosi, fratture
multiple delle coste)
 Interferenze con la stimolazione nervosa dei muscoli respiratori (poliomielite, miastenia gravis,
tetano)

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 Aumento della pressione intracranica, che influisce sul centro respiratorio del cervello (meningite,
tumori cerebrali, iperdosaggio di anestetici e marcatori)
 Malattie a carico dei bronchi e dei polmoni (malattie croniche ostruttive, come asma, bronchite)
 Malattie delle membrane ialine nei nenotati, ridotta produzione della sostanza surfactante
 Insufficienza dello scambio gassoso: malattie da riduzione della superficie respiratoria (tumori),
malattie da ispessimento della membrana alveolare (edema, fibrosi)

Ipossia anemica
Condizione in cui l’ossigeno è normale ma vi è carenza di emoglobina. Si ha nelle anemie, diminuzione
quindi dell’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno.

Ipossia stagnante e ipossia ischemica


L’ossigeno è normale e l’emoglobina è normale, non arriva sangue ai tessuti. Si può determinare per cause
generali (scompenso cardiaco) o per un effetto locale (ostruzione da embolo) o ostacoli nel compartimento
interstiziale per cui aumenta la distanza tra il circolo e le cellule.

Ipossia istotossica
E’ dovuta alla presenza di sostanze tossiche, che impediscono l’utilizzo dell’ossigeno da parte delle cellule
(arsenico, cianuro etc.)

L’ischemia è una situazione più grave rispetto all’ipossia in quanto mancano anche nutrienti e aumentano i
cataboliti per ristagno ematico. L’ischemia può essere considerato quindi come un apporto ematico
inadeguato che determinante le degenerazioni cellulari per cui si può avere una situazione:
 reversibile per cui si ha delle alterazioni tali che se viene ripristinato l’ossigeno la cellula ritorna alla
normalità) ma può esservi anche una situazione
 irreversibile per cui se anche viene anche ripristinano l’ossigeno la cellula è morta.

In condizioni di carenza di ossigeno ma anche di nutrienti si avrà una diminuzione dei processi ossidativi a
livello mitocondriale, provocando quindi una diminuzione di ATP che a sua volta altera le pompe di
membrana che sono ATP dipendenti entrando quindi sodio e calcio. L’entrata del primo provoca l’ingresso
di acqua rigonfiando le cellule. Se non vi è stato danno alla membrana siamo in una situazione reversibile.
Si ha anche un blocco della sintesi proteica. Il metabolismo tende a virare in senso anerobico, producendo
acido lattico, diminuendo il pH intracellulare creando una situazione di acidosi provocando la denaturazione
delle proteine enzimatiche e strutturali
Inoltre l’aumento di calcio, aumenta l’attività degli enzimi delle proteasi con una digestione delle proteine di
membrana, endonucleasi, con danno al DNA e fosfolipasi con degradazione fosfolipidi di membrana.

La persistenza dell’ischemia, fa si che si passa ad una situazione irreversibile creando un danno alla
membrana ribosomiale con un rilascio degli enzimi all’interno del citoplasma con un danno cellulare alla
membrana e al nucleo, così che ci si avvia verso una necrosi, una morte cellulare.
Il nucleo diventa inizialmente più piccolo con perdita di materiale genetico, seguito da una frammentazione
e poi una cariolisi ovvero una scomparsa del nucleo stesso.
Ricapitolando: si può avere una situazione reversibile in cui si ha il recupero della cellula, una situazione
inrreversibile in cui si ha la morte cellulare ma anche una situazione in cui una cellula che è stata
danneggiata in maniera reversibile, vada incontro con una morte cellulare quando viene ripristinato il
sangue. Questo perchè si ha la creazione di un legame tra un enzima ed un substrato il quale se viene attivato
dall’arrivo di ossigeno determina la morte della cellula. Con l’arresto della catena di formazione di ATP si
ha la creazione del substrato che è l’Ipoxntina, la quale reagisce con l’enzima Xantina Ossidasi attivato

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dall’ingresso di calcio. Nel momento in cui si ha la riperfusione di ossigeno si ha la reazione tra il substrato
e l’enzima determinando la creazione di radicali dell’ossigeno con un danno alla parete cellulare.

Necrosi e apoptosi
Necrosi è una morte violenta, generalmente interessa gruppi estesi di cellule. E’ conseguente a stimoli
patologici oltre che all’ischemia, anche per trauma, alte temperature e sostenga chimiche (acidi e basi forti).
Generalmente gli eventi irreversibili sono preceduti da eventi reversibili. Il danno che si stabilisce alle
cellule può regredire se viene ripristinato l’afflusso di sangue. Non richiede ATP ma spesso è determinata da
deficit di ATP. Le cellule si rigonfiano per ingresso i H2O. E’ un processo disorganizzato e infine è seguito
da una reazione infiammatoria. Esistono vari tipi di necrosi:

 Necrosi coagulativo: i tessuti appaiono consistenti e pallidi. L’architettura del tessuto è ancora
conservata. Si ha la denaturazione delle proteine con perdita degli enzimi e perdita della funzione
della cellula. Si ha quindi il mantenimento della forma cellulare.
 Necrosi colliquati a, in cui non si ha denaturazione delle proteine per cui per effetto litici degli
enzimi, il tessuto si liquefà con dissoluzione l’area colpita. Il tessuto morto si disintegra e si liquefa,
il fenomeno tipico negli ascessi con raccolta di materiale purulento in cavità neo formate. La ricca
presenza di cellule crea un aumento ipossica, acido, e i granulociti muoiono con liberazione di
enzimi. Anche negli infarti celebrali si verifica questo tipo di necrosi.
 Necrosi caseosa, tipica del processo tubercolare. Consistenza friabile e di colorito biancastro,
combinazione di necrosi coagulativo e liquefattiva. Il tessuto ha perso la sua architettura ma pur
sempre compatto.
 Necrosi fibrinoide, si ritrova a livello ella parete vascolare sui processi immunitaria con deposito di
complessi antigene-anticorpo nelle pareti arterioso. La deposizione di immunocomplessi e fibrina,
fuoriuscita dai vasi, genera masse amore che si colorano in rosa brillante.
 Necrosi steatonecrosi, in condizione di pancreatite acuta nella parte esocrina con liberazione di
enzimi lipasi che digeriscono il tessuto grasso del pancreas e successivamente precipitano sotto
forma di un materiale ceroso.
 Gangrena, deriva dal Latina gangrena, e significa putrefazione dei tessuti. Generalmente viene
indicata per indicare grosse aree di tessuti necrotiche prevalentemente agli arti inferiori. Si può
manifestare sotto forma di stato umida, secca o gassosa.
o Quella secca, si sviluppa nelle parti periferiche, legata ad una condizione ischemica sia per
arteriosclerosi o paziente diabetico. La parte colpita è secca, raggrinzita, bianca. E’ il tipo
meno grave perchè generalmente non vengono contaminati da batteri perchè crescono male in
tessuti disidratati. Esiste una forma che si sviluppa in situazioni fisiologiche come la caduta
del cordone ombelicale per via di un nodo che blocca l’afflusso di sangue e nutrienti.
o Quella umida, prevalgono i processi colliquati i, ossia le cellule morte vengono differite da
parte degli enzimi, con perdita dell’architettura cellulare e trasformazione in una massa
liquida e viscosa. Questo tessuto è un ottimo mezzo di colonizzazione di agenti patogeni. Si
può sviluppare negli arti inferiori e in zone umide come polmoni, intestino. Si può concludere
con una setticemia se i batteri entrano in circolo
o Quella gassosa, il tessuto ischemico è invaso da microrganismi anaerobi che producono gas
come il clostridium perfringers. I batteri si trovano comunemente nell’ambiente, ma possono
penetrare attraverso una ferita aperta nei tessuti. Anche queste molto frequentemente si
risolvono con setticemie.

L’apoptosi, interessa una o poche cellule. È una morte programmata è strettamente controllata attraverso la
quale l’organismo è in grado di mantenere costante il numero delle sue cellule in un organo o tessuti. E’ un
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evento irreversibile una volta iniziata. Richiede energia addifferenza della necrosi. Le cellule si
raggrinziscono per degradazione del citoscheletro. E’ un evento ordinato. Manca la risposta infiammatoria.
Il morbo di Parkinson e Alzhemier sono un esempio di patologie apoptotiche.
Ischemia
LOCALIZZATA
Riduzione del calibro di un vaso sanguigno (stenosi), causato da:
 trombo,
 embolo,
 spasmo,
 Atheroma,
 compressione del vaso,
 vasculite,
 oppure in corrispondenza di una biforcazione si ha la chiusura di un vaso con la sequestrazione del
vaso che viene convogliato nell’altro vaso,
 rallentamento del flusso per una situazione di iperviscosità,

Gli infarti possono essere causati da:


 Ostruzione arteriosa, l’infarto (necrosi che si determina nel tessuto ipodiffuso) è tipo bianco. Si
verifica nei tessuti che hanno una circolazione terminale (termina o milza) o organi compatti come il
rene e il cuore;
 Ostruzione venosa, infarto emorragico, si verificano in organi a doppia circolazione (polmone e
fegato) e organi con struttura lassa (intestino e sistema nervoso)
 Ostruzione capillare, si verifica nella genesi delle piaghe da decubito, il tessuto e quindi il letto
capillare rimane schiacciato sotto il peso del corpo tra una superficie ossea è una superficie rigida
(letto o sedia a rotelle). Le lesioni da ischemia iniziano in profondità a livello del derma e crescono
verso la superficie, per cui quando questa appare a livello dell’epidermide, la lesione è già
estremamente estesa. Il rischio legato è l’infezione facilitata soprattutto, in quelle a livello sacrale,
dal fatto che sono superficie colonizzate da diversi batteri. È sufficiente un tempo di due ore affinchè
vi sia la presenza delle prime ischemie, per cui si deve effettuare un continuo cambiamento di
posizione per evitare l’insorgenza di queste lesioni.

L’intensità delle lesioni da ischemia possono essere condizionate da:


1. Condizioni generali del sangue:
a. Ipossiemia
b. Ipoglicemia
c. Iperviscosità
d. Anemia
2. Tipi anatomici dell’apporto arterioso
a. Se terminale (retina)
b. Se ricco di rami anastomotici compensatori (polmone) questi possono aggirare l’ostruzione
3. Rapidità di sviluppo dell’occlusione
4. Vulnerabilità dei tessuti all’ischemia, l’embolo è molto più pericoloso rispetto ad un trombo in
quanto il secondo rimane attaccato e si accresce mente il primo una volta che si stacca si ferma
quando trova una occlusione
a. > sensibilità: SNC (3-4’), miocardio (20-30’), tubulli renali
b. < sensibilità: fibroblasti (molte ore)

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Queste diverse cause determinano a valle la riduzione del flusso ematico (ischemia) con caduta di pressione
proporzionale alla riduzione stessa. Il gradiente che si crea stimola la dilatazione dei vasi a monte, allo scopo
di mantenere un flusso adeguato in condizioni basali.

GENERALIZZATA
Consiste in una ischemia generalizzata con una ridotta perfuzsione tissutale che si viene a determinare per
una brusca caduta della pressione arteriosa.
PS = gittata cardiaca X resistenza periferica
Resistenza periferica data da: fattori umorali (ormoni vasocostrittori e vasodilatatori) + fattori locali
(autoregolazione – fattori chimici – pH) fattori nervosi
Gittata caratterizzata da: fattori cardiaci (sodio – mineralcorticoidi – atriopeptina) volume sanguigno
(frazione di eiezione – contrattilitià)

La caduta della pressione si può verificare con tre meccanismi:


 Riduzione del volume di sangue, shock ipovolemico. Le cause possono essere:
Da perdite esterne di liquido
o Emorragie
o Vomito, diarrea
o Poliurie da diabete mellito
o Perdite cutanee da ustioni, lesioni essudato e estese
Perdite interne di liquidi
o Fratture
o Ascite
o Ostruzione intestinale, blocco della peristalsi intestinale. Nell’intestino nell’arco delle 24 ore
ci vengono riversati molti litri di secrezioni. Questi non vengono riassorbiti e vengono quindi
sottratti dal circolo ematico.
o Emotorace
o Emooperiotoneo
 Inefficienza della pompa cardiaca, shock cardiogeno, causati da:
o Da infarto miocardico
o Da aritmie gravi
o Da scompenso a bassa gittata
o Embolie polmonari
 Aumento non compensato della capacità del letto basale (vasodilatazione massiva), shock
distributivo, causato da:
o Da farmaci (anestetici, ganglioplegici, barbiturici)
o Da lesione del midollo osseo
o Da ipotensione ortostatica
o Da shock settico

Nell’evoluzione dello shock si riconoscono due fasi:


1. Reversibile, l’organismo mette una serie di meccanismi di compenso che hanno lo scopo di rialzare
la pressione arteriosa. Per effetto dell’abbassamento della pressione arteriosa Si ha una stimolazione
dei barocettori dell’arco aortico e del seno carotideo induce una vasocostrizione reattiva, inoltre si ha
l’aumento della frequenza cardiaca. Questa non avviene a tutti i livelli alla stessa maniera ma
avviene in tessuti meno nobili: cute, muscoli e reni; così da garantire un flusso di sangue al cuore ed
encefalo. Un altro meccanismo di compenso è la risposta neuroendocrina: ormone antidiuretico e

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aldosterone, aumento della quantità di acqua assorbita a livello intestinale e mobilizzazione di acqua
dai tessuti interstiziali. Il paziente nella fase compensatoria dello shock si presenta:
a. Respiro rapido e superficiale, per effetto dell’ipodiffusione dei tessuti e come reazione si ha
l’aumento della FR per cercare di compensare i gas
b. Cute fredda, sudaticcia, pallida o cianotica, per effetto della vasocostrizione;
c. Polso piccolo e veloce, piccolo per effetto dell’abbassamento della pressione e rapido per
l’aumento della FC
d. Bassa pressione sanguigna
e. Oliguria e anuria
f. Aspetto sofferente del paziente che può essere completamente cosciente.
Se non si reintegrano liquidi o rimuovendo la causa ella shock si passa nella fase di irreversibilità, in quanto
i barocettori si deprimono con una vasodilatazione massiva causando un abbassamento della pressione
arteriosa.
2. Irreversibile, tutti i tessiti vanno in sofferenza causando un necrosi generale.
a. Fegato,
b. Reni,
c. Polmone, danno alveolare con ridotta ossigenazione del sangue
d. Cuore, si ha una lesione ischemica con scompenso cardiaco
e. Pancreas, il danno alla componente esogena Si ha la perdita di enzimi e fattori inibente
sull’attività cardiaca
f. Intestino, per effetto dell’ischemia si ha lo sfaldamento della mucosa stessa con perdita di
liquidi, causando anche un shock settico per passaggio dei batteri che passano nel sangue
g. Epatico, Da qui si ha la liberazione di mediatori infiammatori, con una vasodilatazione è un
aumento della permeabilità con un ulteriore perdita di liquidi nel microcircolo. Nei tessuti
danneggiati si ha liberazione di fattori tissutali CID con una coagulazione intravascolare

Nello shock settico manca la parte reversibile, in quanto si manifesta subito la vasodilatazione e si ha il
crollo della pressione. Nelle infezioni da GRAM -, l’esotossina si lega ala recettore sul macrofago, questo
viene attivato, è innestata una infiammazione locale. Ma se l’endotossina si trova nel sangue, si ha una
setticemia, con una attivazione massiva dei monociti con liberazione a livello sistemico di citochine IL-6 e
IL-8, di attivazione umorale e a livello generale si ha una vasodilatazione massiva con un aumento della
permeabilità dei vasi.

Ipertensione arteriosa
Nel 90-95% si ha una ipertensione essenziale dove non si conosce la causa, nella rimanente parte si ha una
causa a carico renale, endocrina, neurologiche e cardiovascolare.
Nella genesi hanno importanza due fattori: genetici e ambientali.
Quelli genetici: si può avere una predisposizione genetica ereditaria con una alterazione delle sequenze
genetiche che riguardano l’omoestasi del sodio con una conseguente ritenzione di acqua e sia alterazioni
delle resistenze periferiche con alterazioni funzionali o anatomiche.

Nella parte ambiente: stress, età, eccessiva presenza di sodio nella dieta, sono le cause principali ambientali
dell’ipertensione.

La sintomatologia generalmente: per molto tempo si ha una ipertensione silente ma normalmente nelle prime
fasi non si ha una sintomatologia chiara con alterazioni acustiche, visive e cefalee ma molto varia. Col
passare degli anni si ha danni importanti come cuore, sistema nervoso centrale e rene. A livello cardiaco, il
ventricolo sinistro va incontro ad una ipertrofia con un aumento del volume dovuto ad un aumento delle
cellule cardiache. Il ventricolo deve compiere un lavoro maggiore e si ingrossa. Ingrossandosi avrà bisogno

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di un maggior apporto di sangue e molto spesso non succede perchè l’ipertensione si manifesta in età
avanzata, età in cui compare l’ateroscleorisi a livello delle coronarie con una riduzione già di per se del
flusso ematico. L’esito saranno quindi ischemiche temporanee, attacchi anginosi.
Lo stesso si può verificare a livello celebrale con rotture di vasi per effetto della pressione alta con
emorragie celebrali.
Lo stesso a livello renale, progressivamente sia ha una degenerazione con perdita della funzionalità renale.

Col passare degli anni si ha un danno irreversibile nei tessuti fondamentali.

Altri sintomi possono essere perdite di sangue dal naso, emicrania,

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