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STORIA

il crollo delle certezze

La crisi del ‘29


La conclusione della Prima guerra mondiale aveva decretato come gli Stati Uniti
fossero ormai la principale potenza mondiale. L'economia aveva tratto
giovamento dai crediti concessi alle altre nazioni e l'industria statunitense aveva
trovato nel mercato europeo una formidabile cassa di espansione.
Il fatto che gli Stati Uniti fossero il paese più ricco e con l'economia più poderosa
non significava che gli americani fossero interessati a imporre la loro
egemonia politica sul mondo. Al contrario, negli anni Venti andò affermandosi
nel paese una visione politica isolazionista: Washington finì per disinteressarsi
progressivamente delle controversie dei paesi europei, concentrandosi
esclusivamente sullo sviluppo dell'economia nazionale. Fu così che gli anni Venti
furono per gli Stati Uniti un'epoca di prosperità e di ottimismo, sebbene non per
tutti, e furono per questo definiti "anni ruggenti" (Roaring Twenties). In quel
decennio il primato statunitense si affermò su tanti fronti: nasceva il mito di
Hollywood, destinata a diventare la capitale mondiale del cinema, mentre i balli e
le mode americane si diffondevano ovunque, le città americane si popolarono di
grattacieli, realizzando quello che sarebbe divenuto il nuovo modello di città.
Ma il modello americano consisteva anche e soprattutto nella diffusione di
tecnologie più moderne e a buon mercato, come l'automobile e gli
elettrodomestici, che nel periodo fra le due guerre divennero sempre più comuni
tra le famiglie statunitensi. La diffusione dei consumi di beni secondari contribuì
ad aumentare il consenso nei confronti della politica repubblicana. Fu in questi
anni che nacque l'American way of life, uno stile di vita basato su comfort e "lussi"
alla portata della classe media. Imprese come il primo volo senza scalo attraverso
l'Oceano Atlantico nel 1927, divennero il simbolo del primato tecnologico degli
Stati Uniti. Per questo decennio si parla anche di "età del jazz, prodotto della
cultura afroamericana, cioè di un mondo ai margini della società ricca e felice con
cui venivano identificati gli Stati Uniti.
La crescita economica degli anni Venti fu sostenuta da un formidabile sviluppo
del mercato borsistico. A partire dal 1927 era aumentato sempre più il numero dei
cittadini che avevano deciso d'investire in borsa i propri risparmi. Sempre più
persone si arricchivano attraverso l'acquisto di azioni societarie molto redditizie e
la Borsa di New York era alla guida di questa crescita apparentemente
inarrestabile. La prassi era quella di comprare azioni di borsa in attesa di un rialzo
del loro prezzo e si trovava sempre qualcuno a cui vendere a un prezzo
maggiore rispetto a quello iniziale. Addirittura, per consentire a tutti di comprare
azioni, erano stati organizzati metodi di finanziamento che permettevano di

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acquistare i titoli senza pagarne il prezzo per intero (il pagamento sarebbe
avvenuto in un secondo momento, una volta venduto il titolo a un prezzo più
elevato). Fu così che si diffuse tra gli statunitensi una vera e propria febbre
speculativa.
I primi segnali di crisi ebbero inizio con la sovrapproduzione: il sistema che aveva
preso piede negli Stati Uniti prevedeva un mercato in costante espansione, in cui
le merci, prodotte su larga scala e a basso prezzo, potessero trovare un ampio
numero di acquirenti. Nella seconda metà degli anni Venti, invece, i potenziali
compratori non erano aumentati. Gli stessi problemi del settore industriale
attanagliavano quello agricolo, dove la sovrapproduzione di alcuni prodotti aveva
causato un crollo dei prezzi.
Tutti questi segnali si manifestarono sotto forma di una crisi senza precedenti
verso la fine degli anni Venti. Le prime avvisaglie si ebbero nel 1928.
A partire dai primi di settembre del 1929, per alcune settimane, le vendite dei
pacchetti azionari si intensificarono, con il conseguente abbassamento del loro
valore. Si innescò quindi una reazione a catena: il timore di ulteriori cali spinse
altri investitori a liberarsi delle proprie azioni a ogni costo, e i venditori trovarono
solo acquirenti disposti a comprarle a prezzi bassissimi.
Il risultato fu il crollo del valore dei titoli azionari alla Borsa di New York, avvenuto
il 24 ottobre del 1929. Nel cosiddetto "giovedì nero" si verificò una vera e propria
corsa alle vendite. Seguirono giornate di panico, in cui gli investitori cercarono di
cedere le proprie azioni a qualsiasi prezzo.
La svalutazione delle azioni causata dalle vendite massicce provocò la distruzione
repentina d'interi patrimoni. La situazione colpi in modo particolare la
media borghesia - e solo in misura minore i grandi capitalisti.
Il crollo della Borsa di New York ebbe effetti su scala mondiale e provocò una
grave crisi economica, conosciuta come Grande depressione. Le economie
europee infatti persero in breve tempo sia gli investimenti provenienti da
oltreoceano sia la possibilità di piazzare i propri prodotti sul mercato
statunitense. Rimaste senza finanziamenti, moltissime imprese fallirono, negli
Stati Uniti come in Europa. Ovunque la disoccupazione salì rapidamente, chi
invece aveva la fortuna di riuscire a conservare il posto di lavoro si vedeva ridurre
lo stipendio. Anche il sistema bancario fu duramente colpito: molti istituti di
credito dovettero dichiarare bancarotta.
Gli effetti negativi della crisi del 1929 si fecero sentire per parecchi anni. A uscirne
per primi furono quei paesi in cui il governo seppe intervenire in maniera
risoluta in campo economico. Ciò avvenne ad esempio nella Germania di Hitler,
che tuttavia ottenne questo risultato con metodi dittatoriali e senza rispettare
quei diritti fondamentali dei lavoratori previsti invece in un regime democratico.
Fra i pochi paesi a non essere toccati dalla crisi vi fu l'Unione Sovietica, impegnata
in quegli anni a sviluppare l’industria attraverso i piani quinquennali.

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Le cose cambiarono con l'elezione, nel 1932, del presidente Roosevelt che affrontò
la crisi attraverso l'aumento della spesa pubblica e l'intervento attivo dello Stato
nell'economia. I provvedimenti finalizzati alla ripresa economica del paese
presero il nome di New Deal. Fino ad allora il mercato degli Stati Uniti non era
stato sottoposto a nessun vincolo, e Roosevelt decise di mettere fine a questa
situazione attuando una regolamentazione dell'attività economica e finanziaria
in modo da evitare una seconda crisi in futuro. Il New Deal si concretizzò in
quattro provvedimenti:
1) vennero stanziati fondi per sostenere i lavori pubblici, furono erogati aiuti
statali ai cittadini più poveri e vennero concesse ai lavoratori garanzie come il
salario minimo, la riduzione delle ore lavorative e la tutela del lavoro minorile
2) vennero introdotte regole per evitare sovrapproduzione ed eccedenze agricole,
e impegnò lo Stato nell'acquisto (e nella redistribuzione) del surplus
3) vennero sfruttate al meglio le risorse idroelettriche del fiume Tennessee con il
fine di garantire energia a costi vantaggiosi.
4) la Banca federale divenne una vera e propria Banca centrale
Almeno in parte, il New Deal sortì i risultati desiderati, facendo riprendere
fiato all'economia: seppure lentamente, la fase di depressione economica
cominciò a esaurirsi; va detto, però, che solo con l'enorme sforzo produttivo
richiesto dalla Seconda guerra mondiale l'economia statunitense sarebbe uscita
definitivamente dalla crisi.

figure femminili

Donne e Prima Guerra Mondiale


La guerra determinò anche cambiamenti positivi. Fra questi, vi fu l'accelerazione
del processo di emancipazione femminile. Durante il conflitto le donne avevano
svolto una serie di funzioni indispensabili affinché l'economia e la società civile
non si fermassero, ricoprendo inoltre ruoli considerati sino a quel momento di
appannaggio esclusivo degli uomini.
Le donne svolsero non soltanto comuni attività lavorative, ma anche mansioni
più delicate, come l'assistenza ai feriti. In tutti i paesi belligeranti, furono infatti
costituite associazioni volontarie di soccorso formate principalmente da donne
aristocratiche o appartenenti all'alta borghesia, che operavano insieme alla Croce
Rossa al fronte e nelle retrovie, sui treni e negli ospedali. In alcuni paesi, accanto
alle infermiere e al personale ausiliario, comparvero anche i primi medici di
sesso femminile. Alcune donne furono utilizzate persino in attività ad alto rischio
come lo spionaggio.
L'impegno femminile a tutto campo ebbe delle fondamentali ripercussioni. In
primo luogo consentì alle donne di uscire dalle mura domestiche e operare
all'interno di una cerchia sociale più vasta rispetto a quella ristretta e vincolante

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della famiglia. In secondo luogo l'idea dell'inferiorità e incapacità naturali della
donna subì un duro colpo e non poté mai più essere affermata con tanta
sicurezza come veniva fatto prima della guerra.
L'immagine tradizionale femminile, insomma, entrò in crisi. Non fu più possibile
rappresentare le donne come madri, mogli e figlie necessariamente subordinate
alla volontà dei capifamiglia; nello stesso tempo, il ruolo dominante del maschio
venne a poco a poco scalzato dall'avanzamento della figura femminile.
Durante la guerra, gli uomini avevano espresso opinioni differenti sul ruolo attivo
svolto dalle donne: se qualcuno pensava che fosse un fatto non solo normale, ma
anche(giusto, erano molto più numerosi coloro che consideravano
l'emancipazione femminile un fenomeno allarmante o accettabile solo perché
dettato dalle necessità belliche.
Quasi tutti ritenevano che, una volta terminato il conflitto, la situazione sarebbe
dovuta ritornare come prima e le donne avrebbero dovuto ricominciare a
svolgere ruoli "esclusivamente femminili'. Una volta tornati nelle proprie case,
molti soldati trovarono invece una situazione profondamente mutata. L'aver
raggiunto una piena indipendenza economica e l'aver acquisito la
consapevolezza delle proprie capacità, indusse un numero sempre crescente di
donne a rifiutare di obbedire passivamente alle regole della società maschilista e
a lottare per una maggiore considerazione e autonomia.

Donne e Fascismo
Nell'Italia fascista al mondo femminile era riservato un ruolo molto marginale. La
donna era anzitutto madre e moglie: non a caso una delle "parole d'ordine" scritte
sulle pareti delle sedi dei fasci femminili era «Voi dovete essere le custodi dei
focolari». Questa visione limitante fu ulteriormente accentuata dall'introduzione
di una legge che vietava alle donne di accedere a tutte le carriere più prestigiose,
dalla magistratura all'insegnamento universitario.
Del resto la patria aveva bisogno di figli e Mussolini aveva inserito la battaglia
per la crescita demografica tra le priorità del paese: solo consacrandosi alla
maternità e generando molti bambini le donne potevano dimostrarsi patriottiche
e contribuire al glorioso futuro che attendeva l'Italia. Coerentemente con questa
visione, nel 1926 l'aborto era stato messo fuori legge perché considerato un
crimine contro lo Stato.
Il duce si rivolgeva alle donne nei discorsi e nelle visite ufficiali, prometteva
loro aiuti economici, attenzione e disponibilità da parte dello Stato. I mezzi
stanziati a sostegno della maternità tramite l'Opera Nazionale Maternità e
Infanzia erano in realtà scarsi, ma la propaganda ebbe una grandissima efficacia
persuasiva: alle "madri prolifiche" venivano concessi premi in denaro e
onorificenze, consegnati direttamente dal duce.
A dispetto della propaganda fascista che le voleva "angeli del focolare", le donne

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continuarono a essere impegnate dalle industrie e dal settore terziario. Per gli
imprenditori, assumere una donna era economico e vantaggioso: per effetto di
una legge del 1927, le lavoratrici erano pagate la metà rispetto ai loro colleghi
maschi e questo costituiva per gli imprenditori un grosso incentivo ad assumerle.

Prima ondata (suffragette)


Il diritto di voto all’inizio del Novecento continuava a non contemplare la
popolazione femminile. Per questo motivo in quegli anni le donne fecero sentire
in modo sempre più forte la loro voce. Non era la prima volta che ciò avveniva: già
nella Francia rivoluzionaria del Settecento era stata avanzata la richiesta di parità
fra uomo e donna, e il pensatore John Stuart Mill, verso la metà dell'Ottocento
aveva sottolineato l'ingiusta mancanza di diritti delle donne, escluse da
numerose professioni e sottomesse all'uomo,
Tra Ottocento e Novecento, si poté assistere tuttavia alla presa di coscienza da
parte di un numero crescente di donne della propria condizione: si costituirono
così - soprattutto nel mondo anglosassone - movimenti femminili guidati da
precisi obiettivi. Le richieste avanzate non erano però sempre le stesse poiché
variavano a seconda della provenienza sociale. Le donne borghesi rivendicavano
il diritto di laurearsi e svolgere mestieri come quello di avvocato, medico,
insegnante di scuola superiore. Le operaie invece chiedevano che nelle fabbriche
venisse stabilita la parità salariale.
Per quanto riguarda invece la lotta per il suffragio, il movimento suffragista fu
particolarmente attivo in Gran Bretagna grazie all'azione della Women's Social
and Political Union, nata nel 1903 e guidata da Emmeline Pankhurst. Le
suffragette, come erano chiamate con un certo disprezzo le donne che ne
facevano parte, si distinguevano per la combattività e per la loro capacità di far
discutere l'opinione pubblica: oltre a tenere comizi in piazza, facevano scioperi
della fame e arrivavano a incatenarsi ai lampioni per non essere arrestate dalla
polizia durante le manifestazioni.
Di fronte allo sviluppo dei movimenti femministi, la resistenza fu forte. Molti
pensavano che il ruolo naturale della donna fosse quello assegnatole
tradizionalmente dagli uomini, ossia di madre e di moglie confinata tra le mura
domestiche.
Tuttavia per l'estensione del diritto di voto alle donne fu necessario aspettare la
fine della Prima guerra mondiale o addirittura - come nel caso dell'Italia - quella
della Seconda, più precisamente con il Referendum costituzionale del 2 giugno
1946, nel quale le donne italiane votarono per la prima volta.

Seconda ondata (femminismo ‘68)


La contestazione della società tradizionale propagandata dai moti del ‘68 investì
anche il ruolo della donna, dando vita a quella che viene definita la "seconda
ondata" femminista: la "prima ondata" fu infatti quella del movimento delle

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suffragette, che tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo vide le donne in lotta per
ottenere i diritti politici (per prima cosa il diritto di voto) e civili.
A partire dagli anni Sessanta, il nuovo movimento femminista si batté per
sovvertire il modello patriarcale di famiglia, in cui le donne erano relegate a un
ruolo subalterno rispetto agli uomini. Nelle società occidentali l'emancipazione
femminile infatti si era realizzata solo parzialmente perché, nonostante il
principio di uguaglianza fosse sancito dalle carte costituzionali, le donne
continuavano a essere escluse dalle strutture di potere, ad avere retribuzioni più
basse in ambito lavorativo, a subire la supremazia maschile a ogni livello.
La nascita di questo nuovo movimento di contestazione fu favorito da tanti
fattori, fra cui l'aumento dell'istruzione femminile con la scolarizzazione di
massa e una socialità più intensa, soprattutto nei grandi centri urbani, che
forniva maggiori occasioni d'incontro e di confronto.
Nel 1963, nel saggio La mistica della femminilità, Betty Friedan formulò una
critica articolata della società maschilista: l'autrice denunciava il malessere e la
frustrazione delle casalinghe negli Stati Uniti, educate a dipendere
economicamente dagli uomini e a rinunciare allo studio e al lavoro per rivestire
come unico ruolo quello di mogli e madri. La denuncia della Friedan faceva
riferimento solo a una porzione della società femminile americana, quella
"bianca" e benestante.
All'interno dei movimenti di protesta universitari furono creati collettivi
femministi, luoghi di aggregazione attraverso cui le donne lottavano contro la
subordinazione e lo sfruttamento da parte degli uomini.
Nel corso degli anni Settanta il movimento femminista divenne più ampio, ma
aumentarono le divisioni al suo interno; inoltre il dibattito si estese alle donne
che appartenevano a minoranze o settori della società già oggetto di
discriminazione o non emancipati, come ad esempio le afroamericane, e che
vivevano dunque in una doppia condizione di subalternità.

guerra

Prima Guerra Mondiale


Sul libro pag. 118

Seconda Guerra Mondiale


Sul libro pag. 386

Guerra Fredda
Sul libro pag. 468

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rapporto intellettuali e potere

D’Annunzio
Nell'immediato dopoguerra le piazze si riempirono di reduci e nazionalisti,
insoddisfatti delle condizioni di pace firmate dai governanti italiani.
L'esito della guerra aveva portato all'Italia indiscutibili vantaggi, anzitutto
l'inclusione all'interno del proprio territorio di Trieste e del Trentino Alto Adige.
Tuttavia, a molti questi risultati apparvero inferiori rispetto alle aspettative del
paese: la vittoria italiana fu considerata per questo una "vittoria mutilata", come
la definì il poeta Gabriele D'Annunzio nel 1918 dalle colonne del «Corriere della
Sera» in un articolo intitolato “Vittoria nostra, non sarai mutilata”.
Se da un lato all'Italia non vennero concesse l'Istria e la Dalmazia, promesse in
base al patto di Londra, dall'altro i nazionalisti reclamavano l'annessione all'Italia,
oltre che di quelle due regioni, anche della città di Fiume.
Le due questioni erano differenti. Il problema dell'Istria e della Dalmazia
nasceva dall'esito imprevisto del conflitto. Nel 1915, quando fu sottoscritto il
patto di Londra, si pensava che l'Impero austro-ungarico sarebbe rimasto in vita
anche dopo la guerra; il suo crollo portò invece alla nascita del nuovo Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, che ambiva naturalmente a quelle due regioni in quanto
abitate prevalentemente da popolazioni slavofone.
Il problema di Fiume era invece diverso. Fiume non era mai stata promessa
all'Italia. Tuttavia era popolata in prevalenza da italiani (nell'entroterra la
popolazione era slava) e per questo l'Italia desiderava includerla nel proprio
territorio.
La situazione mutò inaspettatamente il 12 settembre del 1919, quando
D'Annunzio, alla testa di un gruppo di militari in servizio o da poco congedati,
occupò la città di Fiume, la dichiarò annessa all'Italia e vi insediò il governo
provvisorio del Carnaro. Nel paese c'era chi sosteneva l'impresa, ma anche chi la
giudicava un oltraggio alle istituzioni e un'aperta ribellione dell'esercito. Lo Stato
italiano, considerando la grande popolarità del poeta e della causa fiumana, reagì
con cautela senza far ricorso alla forza e tentando la strada diplomatica; in questo
modo però finì per mostrare una sostanziale debolezza nei confronti della destra
nazionalista e militarista. Solo il 12 novembre del 1920, i governi italiano e quello
del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni trovarono un accordo e firmarono il trattato
di Rapallo, che pose fine alla questione fiumana: in base all'accordo all’Italia
sarebbe andata 'Istria, mentre il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni avrebbe
ottenuto la Dalmazia. Fu inoltre deciso che Fiume rimanesse una città-stato
indipendente.
Poiché D'Annunzio si ostinava a non riconoscere il trattato, alla fine di dicembre il
governo italiano - passato nel frattempo nelle mani di Giolitti - lo costrinse a
sgomberare intervenendo con le armi e nel dicembre 1920 (il "Natale di sangue",
come lo definì D'Annunzio), le truppe dell'esercito regolare italiano si scontrarono

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con i legionari guidati da D'Annunzio. L'intervento armato pose fine alla
Reggenza del Carnaro, ma acuì la crisi politica italiana. Nonostante l'insuccesso,
l'impresa fiumana aveva dimostrato il malessere che regnava nell'esercito,
pronto a disobbedire apertamente al disprezzato governo parlamentare, e la
facilità con cui in Italia si potevano compiere impunemente atti illegali.

Benedetto Croce
In epoca fascista, mentre in tutta Italia imperversava una feroce repressione nei
confronti di tutti coloro che si dimostravano contrari al regime, desta curiosità il
caso del filosofo liberale Benedetto Croce, la cui opposizione al regime venne
tollerata. Croce era una personalità di spicco nella cultura italiana ma anche
europea, e per questo difficilmente attaccabile da parte di Mussolini.
Sulla sua rivista “La Croce” dichiarò che il Fascismo non era altro che una
parentesi infausta della storia italiana e, inoltre, nel 1925 ebbe il coraggio di
pubblicare il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti, in opposizione al Manifesto
degli Intellettuali Fascisti pubblicato poco prima da Giovanni Gentile,
intellettuale fascista. Nel suo Manifesto, croce difendeva la concezione di una
cultura indipendente dal potere politico nel nome della libertà e della
democrazia.

progresso

Età giolittiana
Tra il 1903 e il 1914 Giolitti approvò una serie di riforme volte allo sviluppo e al
progresso dello Stato italiano.
- le leggi per il Mezzogiorno, volte allo sviluppo e alla modernizzazione del Sud,
che tuttavia non ebbero successo in quanto Giolitti si appoggiava sui latifondisti
per ottenere voti in meridione e sarebbe quindi stato controproducente abbattere
il sistema latifondista; è proprio in questo periodo, con lo sviluppo dell’industria,
che il divario tra Nord e Sud si accentua ancora di più
- la nazionalizzazione delle ferrovie e la conseguente nascita delle Ferrovie dello
Stato nel 1905
- approvazione nel 1912 del suffragio universale maschile.
A tali progressi bisogna aggiungere anche i risultati raggiunti sul piano
industriale con il decollo del 1896. Tale processo trasformò l’Italia in un Paese
parzialmente industrializzato (non ancora in grado di competere con le altre
potenze europee).
L'Italia era un paese povero di materie prime e solo con difficoltà avrebbe potuto
conoscere uno sviluppo di tipo industriale. A molti l'idea di avviare un processo di
questo tipo in un paese prevalentemente agricolo come l'Italia appariva destinata
all'insuccesso.

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- Un primo fattore da considerare è l'intervento dello Stato. Nell'età giolittiana lo
Stato fu il principale committente delle industrie siderurgiche e meccaniche:
intervenne per portare a termine la costruzione della rete ferroviaria, per
potenziare i trasporti terrestri e marittimi, e anche per rafforzare la flotta da
guerra. A ciò si aggiunse il protezionismo doganale: i dazi imposti avevano
permesso alle industrie italiane - soprattutto quelle del settore siderurgico - di
vendere i loro prodotti a prezzi abbastanza alti senza temere la concorrenza
straniera.
- Accanto all'intervento statale deve essere considerato un secondo fattore, e
cioè il riordino del sistema bancario italiano. Anzitutto fu fondata la Banca
d'Italia, che svolse un ruolo di controllo e di coordinamento dell'intero sistema.
Inoltre furono create le cosiddette "banche miste", ovvero istituti bancari che
svolgevano contemporaneamente la funzione del credito ordinario e quella
del finanziamento delle imprese.
- Complessivamente furono rafforzati soprattutto tre settori: quello siderurgico,
quello meccanico e quello elettrico. La siderurgia si sviluppò intorno a poli
industriali e cantieri navali disseminati soprattutto lungo la costa ligure. Fu
decisiva la nascita dell'Ilva.
Lo sviluppo della siderurgia era destinato ad avere conseguenze importanti
sull'industria meccanica, che si fondava anche sulla lavorazione di pezzi d'acciaio.
Al contrario di quello siderurgico, il comparto meccanico aveva subito
pesantemente la concorrenza delle industrie straniere. Ciononostante, il settore
automobilistico, vide la nascita nel 1899 dell'industria torinese FIAT.
Anche l'industria elettrica conobbe un grande sviluppo. In particolare, l'industria
idroelettrica permise all'Italia di ridurre la dipendenza del paese dal
carbone, materia prima di cui era povera. L’industria elettrica milanese Edison,
fondata nel 1883, si impose rapidamente sul mercato e, ottenendo il controllo
sulle società più piccole, giunse a creare un vero e proprio impero.
Il processo d'industrializzazione avviato in Italia non fu però riducibile ai soli
settori siderurgico, meccanico ed elettrico; negli stessi anni, altri comparti
industriali ricevettero un impulso considerevole. Tra questi, quello dell'industria
chimica: a essere sviluppata, in questo caso, fu soprattutto la lavorazione della
gomma a opera della società Pirelli di Milano.

Prima Guerra Mondiale


Combattuta fra grandi potenze industriali, la guerra ebbe l'effetto di accelerare lo
sviluppo di nuove tecnologie, data l'enorme quantità di denaro che ogni governo
spendeva per migliorare l'equipaggiamento del proprio esercito.
Il camion, il telefono, la radio, la motocicletta, l'automobile e l'aeroplano erano
stati tutti inventati prima della guerra, ma a partire dal 1914 il loro impiego al
fronte li trasformò in strumenti bellici. Quattro anni dopo erano mezzi

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pienamente sviluppati e dopo la fine della guerra continuarono a essere
largamente presenti nella vita civile.
Le armi, naturalmente, conobbero lo sviluppo più significativo. Il carro armato
venne inventato dai britannici e impiegato con successo nelle fasi finali del
conflitto. Un ruolo non trascurabile ebbe anche il sommergibile, utilizzato dai
tedeschi, oltre che contro le navi da guerra, per affondare le navi mercantili che
rifornivano di materie prime e viveri i paesi nemici.
La guerra fu caratterizzata soprattutto dall'uso di mezzi di distruzione di massa,
prodotti nelle fabbriche in grandi quantità. La mitragliatrice provocò enormi
perdite, ma la principale causa di morte fu l'artiglieria, in grado di superare
persino le linee nemiche: ogni offensiva era infatti preceduta da un
bombardamento condotto da migliaia di cannoni, e a cui era difficile
sopravvivere.
L'arma più disumana sperimentata sui campi di battaglia furono però i gas. Era
anche questo un frutto dei grandi progressi compiuti prima della guerra
dall'industria chimica. Furono i tedeschi a usare per primi, nuvole di gas che,
spinte dal vento verso le linee nemiche, o sprigionate da speciali proiettili di
artiglieria, soffocavano, ustionavano o accecavano le vittime.
Tutti gli altri eserciti si affrettarono a imitarli e la maschera antigas divenne da
allora un accessorio indispensabile a ogni soldato.
Anche per questo, i gas non produssero mai grandi vittorie e il loro effetto fu solo
quello di rendere la guerra ancora più cruenta. L'impressione provocata dagli
effetti di queste armi fu tale che, dopo la guerra, tutti i paesi si impegnarono a non
usarle mai più.

Guerra Fredda
La Guerra Fredda non sfociò mai in una guerra aperta perché la corsa agli
armamenti nucleari aveva creato un equilibrio del terrore: Usa e URSS avevano
bisogno di rafforzarsi continuamente, in modo da tenere il passo della
superpotenza avversaria e inibire ogni tentazione di attacco. Nel corso degli anni,
questa competizione assunse una nuova forma, indirizzandosi in un'accanita
contesa per la conquista dello spazio: a partire dalla fine degli anni Cinquanta e
poi per tutto il decennio successivo, Stati Uniti e Unione Sovietica impiegarono
sempre più risorse nella ricerca di conoscenze scientifiche necessarie alle
esplorazioni spaziali.
La costruzione di mezzi di navigazione spaziale sempre più sofisticati implicava
automaticamente una maggior capacità bellica, perché presupponeva un
considerevole progresso nella tecnica missilistica: servivano infatti razzi sempre
più potenti per lanciare i satelliti nello spazio. Per Usa e URSS ogni mezzo era
adatto a dimostrare la superiorità del proprio modello su quello avversario e
niente più delle conquiste spaziali poteva esserne una prova agli occhi
dell'opinione pubblica.

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I primi importanti risultati furono ottenuti dai sovietici che lanciarono in orbita il
satellite Sputnik 1 e successivamente nel 1961 l'astronauta sovietico Gagarin fu il
primo uomo a compiere un giro attorno alla Terra.
Gli Usa, nella logica della Guerra Fredda, risposero ai successi sovietici
intensificando il proprio impegno nelle esplorazioni spaziali e investendo ingenti
risorse. Fu così che nel 1969 gli Stati Uniti, con la navicella Apollo 11, inviarono per
primi degli uomini sulla Luna. Neil Armstrong fu il primo a mettere piede sulla
superficie lunare, pronunciando parole destinate a rimanere nella storia: «Un
piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l'umanità». Per gli Usa fu un
successo indiscutibile.

informazione, comunicazione e propaganda

Propaganda durante i regimi totalitari - Italia e propaganda fascista

Propaganda durante i regimi totalitari - Germania e propaganda nazista

Propaganda durante i regimi totalitari - URSS e propaganda stalinista

natura desolata

natura idilliaca

memoria

lavoro e lavoratori

scoperta dell’inconscio e crisi dell’io

realtà e apparenza

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tempo

sogno

bellezza

follia

alienazione

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