Durante la gli anni Settanta si determinò una nuova crisi economica, nella quale le variabili di crisi (fallimenti di imprese o banche, disoccupazione, ecc.) non sembrarono avere lo stesso andamento drammatico caratteristico della crisi del 1929. In particolare, quella degli anni ’70 presentò le sembianze di un enorme gigante, soprattutto perché per il lungo periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primi anni Settanta non si era avuta nessuna crisi, ma anzi un vero e proprio miracolo economico, che già verso la fine degli anni Sessanta non sembrava più presentare forti spinte propulsive e che porterà ad un modello congiunturale a cui gli economisti affideranno il nome di staglaflazione1. Comunque, la crisi degli anni 70 fu molto lunga ed ebbe come risultato un nuovo panorama economico internazionale molto diverso rispetto a quello degli anni Cinquanta- Sessanta. È interessante capire quali siano gli elementi strutturali che concorrono a creare tali crisi e qual fu la risposta alla crisi nel corso di questi anni. In genere, quando si parla degli anni Settanta si indica innanzitutto il periodo in cui il sistema di Bretton- Woods esaurisce le sue spinte (sebbene non finisca), ovvero tutte le istituzioni da esso fondate non furono più in grado di assolvere ai ruoli che ad esse originariamente erano state attribuite. Comunque, da un punto di vista prettamente fenomenologico, la crisi degli anni Settanta fu preceduta da un quinquennio in cui le condizioni economico-sociali internazionali iniziarono ad irrigidirsi per una serie di eventi, di cui tre furono i principali fautori dell’inversione del ciclo economico: a) la guerra del Vietnam (1955- 1975); b) il conseguente forte aumento della spesa pubblica statunitense; c) il relativo forte aumento del debito pubblico statunitense. Tutti e tre gli elementi, tra loro strettamente interconnessi, avvennero su uno scenario non-europeo, vista e considerata la ormai consolidata leadership statunitense inaugurata a Bretton- Woods. Tuttavia, la leadership poteva essere tale solo se il gendarme del sistema internazionale si fosse mantenuto in salute. In particolare, fino alla metà degli anni Sessanta il bilancio statunitense presentava un’ottima salute nonostante la sua condizione di deficit strutturale, registrato in virtù ruolo da fornitore internazionale di moneta forte, l’unica che potesse essere convertita direttamente in oro, e non per questioni interne al paese; era dunque evidente che agli Stati Uniti fosse riconosciuto il diritto di derogare dal virtuosismo finanziario così da sostenere il flusso di scambio internazionale. Ma, come detto, il sistema aveva salute solo nel momento in cui il deficit si fosse registrato in funzione del ruolo internazionale degli 1 Più specificamente, per stagflazione si intende un processo contemporaneo di stagnazione ed inflazione economica, ovvero si indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti nello stesso mercato sia un aumento generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica). Stati Uniti nell’economia globale; nel momento in cui, al contrario, il deficit fosse stato frutto di un’interferenza degli affari interni del paese, allora la forza degli Stati Uniti avrebbe iniziato a vacillare: è proprio questo che avvenne a partire dall’inizio della guerra del Vietnam e il sempre maggiore impegno svolto in tale conflitto da parte del popolo statunitense, soprattutto sul piano bellico, che ebbe naturalmente ricadute sul bilancio nazionale. Ma gli Stati Uniti stessi non erano stati accorti nel decidere di entrare nel conflitto, visto e considerato come, anzi, essi credevano potesse essere un conflitto risolvibile in breve tempo e con molta facilità, cioè una sorta di guerra-lampo. La realtà dei fatti fu molto diversa dalle aspettative: la guerra richiese un impegno ed un investimento sempre più massiccio e che potessero far fronte alle guerriglie prontamente scatenate dai vietnamiti. Le spese belliche, pertanto, aumentarono drasticamente, al punto che venne anche chiesto alla Federal Reserve di sostenere una maggiore emissione di dollari proprio sostenere le spese di guerra, cosa che però scatenò un grande debito pubblico. Ma tale debito può essere interpretato come un chiaro segno di una subentrante debolezza negli Stati Uniti sul versante economico internazionale, anche per via di due motivi centrali: 1) innanzitutto, discostandosi dai principi virtuosi della stabilità finanziaria per via dell’emissione sempre più massiccia di dollari, ovviamente si aprì un processo inflattivo (la moneta perde valore per la prima volta dopo quasi quindici anni, tant’è che l’inflazione era quasi divenuta un ricordo del primo Novecento); 2) naturalmente, una spirale inflazionista non poteva che causare forti scompigli sociali, provenienti soprattutto dai percettori di reddito fisso, che videro decurtare i loro redditi reali, e dal resto della popolazione, la quale chiese salari maggiori in un panorama nel quale aumentare i salari avrebbe solo causato un ulteriore aumento dell’inflazione. La situazione statunitense determinò un grave contraccolpo sul sistema finanziario internazionale, visto che molti paesi, comprendendo che il dollaro fosse gravo di problemi interni, iniziarono a speculare sulla moneta statunitense, cosa che però la fece ulteriormente indebolire. Tra l’altro, va da sé che una moneta forte non può essere assolutamente vittima di speculazione, pena la sua intrinseca forza di moneta da utilizzare nei pagamenti internazionali. Ma l’emissione sconsiderata di moneta e la conseguente spirale inflazionista proseguirono fino a che non si ebbe il primo effetto della crisi degli anni Settanta: il 15 agosto 1971, il presidente Nixon dichiarò al mondo che il dollaro non fosse più la moneta forte, ovvero non era più garanzia della stabilità delle monete nazionali degli altri paesi. Insomma, la Dichiarazione di inconvertibilità, il sistema di cambi fissi venne disgregato, così che le singole nazioni non avrebbero più potuto cambiare la propria moneta in dollaro e poi in oro: in altre parole, se prima del 1971 un paese aderente al sistema internazionale aveva poco oro, poteva comunque assicurare la propria ricchezza sulla base dei dollari posseduti; al contrario, dopo la Dichiarazione, ciò non era più possibile. Da un sistema dei cambi fissi si giunge, dunque, ad un sistema di cambi flessibili (o fluttuai). Un tale provvedimento, ovviamente, non poteva che infiggere su tutto il sistema monetario internazionale, con paesi che di fatto tentarono di trovare delle soluzioni regionali, come il caso, in Europa, della creazione del cosiddetto “Serpente monetario europeo” (versione informale di Sistema monetario europeo, Sme), che tuttavia non fece che creare ulteriori scompigli delle singole monete europee coinvolte. Cambiando il sistema monetario internazionale, il Fmi non ebbe praticamente più alcun ruolo da svolgere: non a caso, è stato spesso detto che la crisi degli anni Settanta fu la tomba del sistema di Bretton-Woods, giacché tutte istituzioni da esso create crollarono o smisero di avere funzioni. Ma si è spesso discusso circa il se la negazione del dollaro quale riferimento degli scambi internazionali nel corso degli anni Settanta avesse in qualche modo determinato l’intensità della crisi degli anni Settanta stessa: in effetti, se ciò non fosse successo, molto probabilmente la crisi avrebbe avuto una minore intensità, visto il fatto che il dollaro in sé si sarebbe ripreso con la fine della guerra del Vietnam. Ma il 1971 fu solo l’inizio di una vera e propria escalation. Nel 1972 venne pubblicato il rapporto del Club di Roma (organizzazione non governativa dei capi di Stato ed intellettuali di tutti e cinque i continenti), che, per la prima volta dopo i gloriosi traguardi degli anni Cinquanta-Sessanta, si presenta molto preoccupato su diversi versanti, come ad esempio quello ambientale (per esempio vi era la preoccupazione della scarsità di risorse), a fronte dei quali si attestò che i tassi di sviluppo dei paesi iniziarono ad essere decrescenti. Ma tale rapporto, che ebbe un impatto fortissimo sulla cultura del tempo, fu strettamente legato ad degli elementi (o cause) congiunturali: gli shock petroliferi, di cui il primo del 1973, seguito da uno nel 1978. Gli shock petroliferi causarono la crisi e la successiva fine della produzione fordista, di massa e standardizzata. In particolare, il modello fordista era un modello poco in grado di risparmiare, soprattutto in termini energetici e, quindi, della materia prima per l’energia, ovvero il petrolio. A partire dagli anni Venti, i paesi produttori del petrolio, ovvero i paesi colonizzati, avevano ceduto le royalities per l’estrazione e la commercializzazione del petrolio alle cosiddette “7 sorelle”, ovvero le imprese multinazionali più famose del secolo. Con l’avvio del processo di decolonizzazione, i paesi produttori, come la Libia e l’Egitto, iniziarono proprio a mettere in discussione la legittimità di tale cessione, anche perché, da essa, tali paesi non profittavano nulla, sebbene il petrolio fosse una risorsa rarissima e preziosa. Grazie a tale cessione, tra l’altro, il petrolio aveva un costo irrisorio nei paesi industriali, pari a 3$/gal2. 2 Dollari a gallone. Il 1973 segnò dunque la rottura degli equilibri avutisi fino a quel momento. Innanzitutto, va ricordato che pochi anni prima si costituì l’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, comprendendo tutti paesi arabi ad eccezione del Venezuela, che rivendicò la gestione dell’intero ciclo, dall’estrazione alla vendita, del petrolio. Di per sé, tuttavia, questa non era una causa sufficiente a determinare una crisi da sovrapprezzo del petrolio. Fondamentale, infatti, fu anche un elemento geopolitico: la prima guerra arabo-israeliana, scoppiata proprio nel 1973. In essa, i paesi occidentali si schierarono a favore di Israele, così che gli arabi, per risposta e anche per dissuadere gli interventi occidentali nei loro confronti, aumentarono il prezzo del petrolio, che nel 1973 arrivò al costo di 12 $/gal. Da tale aumento del prezzo del petrolio le imprese subirono una vera e propria onda d’urto concentrica, giacché all’aumento del costo dell’energia si aggiunse l’aumento del costo del lavoro, sicché le sommosse sociali pretendevano salari maggiori. Insomma, le principali voci di uscita del bilancio di un paese, ovvero lavoro ed energia, iniziarono ad avere un costo esponenziale, rendendo l’attività modulata sul sistema fordista poco appetitosa. Ma la causa congiunturale dello shock petrolifero ebbe un effetto enorme non solo sui privati, per cui il costo del greggio divenne insostenibile, ma addirittura giunse a sconquassare i bilanci pubblici di molti paesi che facevano del petrolio la loro maggiore fonte di energia. A tal proposito si inventarono strumenti che potessero ridurre il consumo di petrolio, come le “domeniche ecologiche”, così come si ridusse la fascia oraria in cui si consentiva l’utilizzo dei termosifoni, ecc. Una domanda affermatasi nel tempo riguarda il se fosse stato solo questo elemento congiunturale ad aver determinato l’intensità della crisi degli anni Settanta, o se vi fosse stata di fondo anche una causa strutturale. Oggi si è propensi a credere che lo shock petrolifero altro non sia stato che solo un detonatore di una crisi che già covava nella società degli anni precedenti, e che si annidava soprattutto dei diversi modelli di consumo dei paesi occidentali: si era, infatti, creato un corto circuito del sistema fordista. Quest’ultimo creava una produzione molto indistinta, cioè creava “lo stesso prodotto per tutti”; ciò, però, andava a scontrarsi con i criteri di ascesa sociale che si stavano determinando in quegli anni (nascita del ceto medio), per cui una persona con più soldi voleva avere prodotti più belli e migliori rispetto a chi aveva meno benessere economico. E il modello fordista, per le sue intime caratteristiche, non era in grado di assorbire questa flessibilità riorientando la propria produzione, essendo esso un modello rigido basato su un modello di produzione che era sì scientifico, cioè studiato accuratamente, ma che restava fisso (ad esempio, per cambiare il modello dello sportello di una macchina 600, si era dovuta fermare la produzione dello stabilimento per tre giorni interi). Insomma, la propensione al consumo si andò fortemente diversificando, ma il fordismo non riuscì più a stare al passo. L’elemento che traccia l’iconografia della crisi degli anni Settanta, infatti, è proprio quella dei grandi impianti fordisti che chiudono, vengono smantellati: la grande fabbrica fordista diviene quindi una mera “cattedrale nel deserto”. All’orizzonte, tuttavia, si intravedeva un nuovo modello di sviluppo, fondato, al contrario del fordismo, sul concetto di flessibilità. Per capire quali nuovi sistemi di produzione si affacciavano sul panorama internazionale, vanno precisate determinate caratteristiche del sistema precedente. In particolare, il modello fordista imponeva la legge secondo cui l’offerta produce la propria domanda; ma, se la domanda si diversifica in maniera rapidissima, la legge non regge più. Inoltre, nel fordismo si erano internalizzati tutti gli aspetti del sistema produttivo, dal rifornimento alla vendita, rendendo l’impresa enorme ma allo stesso tempo incapace di affrontare il cambiamento. Ciò che andava fatto, pertanto, era il disintegrare il concetto di produzione fordista e lavorare su una logica di esternizzazione, secondo cui parte del processo produttivo era demandata ad esterni, così da diminuire i costi, aumentare il lavoro e così via. Uno dei modelli che si affermò particolarmente con la crisi del fordismo fu il sistema distrettuale, fervente soprattutto in Italia: un distretto industriale è un sistema di piccolissime imprese strettamente legate capaci di rispondere alla rapida variazione della domanda, puntando su qualità piuttosto che sulla quantità. Ma il più grande nemico del fordismo fu il toyotismo, fondato sulla legge del risparmio, secondo la quale è la domanda a determinare la configurazione dell’offerta; chi riesce adeguarsi il più rapidamente possibile a tale mutare della domanda, diviene un vincente. Ricapitolando, il sistema fordista, fino ad allora vincente, nel corso degli anni Settanta dovette fronteggiare vari nemici: a) costo petrolio; b) instabilità finanziaria; c) fine del modello di sviluppo basato sulla compressione del costo del lavoro; d) adeguamento del salario al costo della vita, a seguito delle nuove “scale mobili sociale”, ottenute grazie alle battaglie dei sindacati, che per un periodo si sovrapposero anche ai moti studenteschi, e rappresentati legalmente da documenti ufficiali (Statuto dei lavoratori, in Italia, nel 1970). Importante è il riflettere che, durante la crisi degli anni ’70, per la prima volta nella storia si era completamente annullata la legge dello scambio ineguale perché, per via dello shock petrolifero, il paese produttore della materia prima (petrolio) si trovava in un’inedita posizione di controllo sui paesi produttori di manufatti, oltre al fatto che è in grado di produrre, in questi, degli effetti enormemente pesanti. E il secondo shock petrolifero, nel 1979, fu ancora una volta legato alla situazione geopolitica dei paesi arabi, causando un aumento ulteriore del prezzo del petrolio (che quell’anno toccò il picco di 33 $/gal). Una delle domande centrali dei paesi produttori, pertanto, fu il come si dovesse muovere la politica nei confronti di tale crisi, la stessa politica che all’indomani della Seconda guerra mondiale aveva dato una tale risposta vincente da causare il miracolo economico. Ciò che si scelse di fare fu l’adottare il modello opposto al keynesianesimo, ovvero il neoliberismo, che scaturì un nuovo periodo di globalizzazione, ovvero la cosiddetta globalizzazione scatenata (in contrasto alla mitigata, dover per mitigata si intende che essa era sapientemente gestita dalla politica).