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Storia economica (Lezione 22-05)

Crisi anni 70: cause ed effetti


Durante la gli anni Settanta si determinò una nuova crisi economica, nella quale le
variabili di crisi (fallimenti di imprese o banche, disoccupazione, ecc.) non
sembrarono avere lo stesso andamento drammatico caratteristico della crisi del
1929. In particolare, quella degli anni ’70 presentò le sembianze di un enorme
gigante, soprattutto perché per il lungo periodo che va dalla fine della Seconda
guerra mondiale ai primi anni Settanta non si era avuta nessuna crisi, ma anzi un
vero e proprio miracolo economico, che già verso la fine degli anni Sessanta non
sembrava più presentare forti spinte propulsive e che porterà ad un modello
congiunturale a cui gli economisti affideranno il nome di staglaflazione1. Comunque,
la crisi degli anni 70 fu molto lunga ed ebbe come risultato un nuovo panorama
economico internazionale molto diverso rispetto a quello degli anni Cinquanta-
Sessanta.
È interessante capire quali siano gli elementi strutturali che concorrono a creare
tali crisi e qual fu la risposta alla crisi nel corso di questi anni. In genere, quando si
parla degli anni Settanta si indica innanzitutto il periodo in cui il sistema di Bretton-
Woods esaurisce le sue spinte (sebbene non finisca), ovvero tutte le istituzioni da
esso fondate non furono più in grado di assolvere ai ruoli che ad esse
originariamente erano state attribuite.
Comunque, da un punto di vista prettamente fenomenologico, la crisi degli anni
Settanta fu preceduta da un quinquennio in cui le condizioni economico-sociali
internazionali iniziarono ad irrigidirsi per una serie di eventi, di cui tre furono i
principali fautori dell’inversione del ciclo economico: a) la guerra del Vietnam (1955-
1975); b) il conseguente forte aumento della spesa pubblica statunitense; c) il
relativo forte aumento del debito pubblico statunitense. Tutti e tre gli elementi, tra
loro strettamente interconnessi, avvennero su uno scenario non-europeo, vista e
considerata la ormai consolidata leadership statunitense inaugurata a Bretton-
Woods.
Tuttavia, la leadership poteva essere tale solo se il gendarme del sistema
internazionale si fosse mantenuto in salute. In particolare, fino alla metà degli anni
Sessanta il bilancio statunitense presentava un’ottima salute nonostante la sua
condizione di deficit strutturale, registrato in virtù ruolo da fornitore internazionale
di moneta forte, l’unica che potesse essere convertita direttamente in oro, e non per
questioni interne al paese; era dunque evidente che agli Stati Uniti fosse
riconosciuto il diritto di derogare dal virtuosismo finanziario così da sostenere il
flusso di scambio internazionale. Ma, come detto, il sistema aveva salute solo nel
momento in cui il deficit si fosse registrato in funzione del ruolo internazionale degli
1
Più specificamente, per stagflazione si intende un processo contemporaneo di stagnazione ed inflazione economica,
ovvero si indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti nello stesso  mercato sia un aumento
generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica).
Stati Uniti nell’economia globale; nel momento in cui, al contrario, il deficit fosse
stato frutto di un’interferenza degli affari interni del paese, allora la forza degli Stati
Uniti avrebbe iniziato a vacillare: è proprio questo che avvenne a partire dall’inizio
della guerra del Vietnam e il sempre maggiore impegno svolto in tale conflitto da
parte del popolo statunitense, soprattutto sul piano bellico, che ebbe naturalmente
ricadute sul bilancio nazionale.
Ma gli Stati Uniti stessi non erano stati accorti nel decidere di entrare nel conflitto,
visto e considerato come, anzi, essi credevano potesse essere un conflitto risolvibile
in breve tempo e con molta facilità, cioè una sorta di guerra-lampo. La realtà dei fatti
fu molto diversa dalle aspettative: la guerra richiese un impegno ed un investimento
sempre più massiccio e che potessero far fronte alle guerriglie prontamente
scatenate dai vietnamiti. Le spese belliche, pertanto, aumentarono drasticamente, al
punto che venne anche chiesto alla Federal Reserve di sostenere una maggiore
emissione di dollari proprio sostenere le spese di guerra, cosa che però scatenò un
grande debito pubblico. Ma tale debito può essere interpretato come un chiaro
segno di una subentrante debolezza negli Stati Uniti sul versante economico
internazionale, anche per via di due motivi centrali:
1) innanzitutto, discostandosi dai principi virtuosi della stabilità finanziaria per
via dell’emissione sempre più massiccia di dollari, ovviamente si aprì un
processo inflattivo (la moneta perde valore per la prima volta dopo quasi
quindici anni, tant’è che l’inflazione era quasi divenuta un ricordo del primo
Novecento);
2) naturalmente, una spirale inflazionista non poteva che causare forti scompigli
sociali, provenienti soprattutto dai percettori di reddito fisso, che videro
decurtare i loro redditi reali, e dal resto della popolazione, la quale chiese
salari maggiori in un panorama nel quale aumentare i salari avrebbe solo
causato un ulteriore aumento dell’inflazione.
La situazione statunitense determinò un grave contraccolpo sul sistema finanziario
internazionale, visto che molti paesi, comprendendo che il dollaro fosse gravo di
problemi interni, iniziarono a speculare sulla moneta statunitense, cosa che però la
fece ulteriormente indebolire. Tra l’altro, va da sé che una moneta forte non può
essere assolutamente vittima di speculazione, pena la sua intrinseca forza di moneta
da utilizzare nei pagamenti internazionali.
Ma l’emissione sconsiderata di moneta e la conseguente spirale inflazionista
proseguirono fino a che non si ebbe il primo effetto della crisi degli anni Settanta: il
15 agosto 1971, il presidente Nixon dichiarò al mondo che il dollaro non fosse più la
moneta forte, ovvero non era più garanzia della stabilità delle monete nazionali degli
altri paesi. Insomma, la Dichiarazione di inconvertibilità, il sistema di cambi fissi
venne disgregato, così che le singole nazioni non avrebbero più potuto cambiare la
propria moneta in dollaro e poi in oro: in altre parole, se prima del 1971 un paese
aderente al sistema internazionale aveva poco oro, poteva comunque assicurare la
propria ricchezza sulla base dei dollari posseduti; al contrario, dopo la Dichiarazione,
ciò non era più possibile. Da un sistema dei cambi fissi si giunge, dunque, ad un
sistema di cambi flessibili (o fluttuai).
Un tale provvedimento, ovviamente, non poteva che infiggere su tutto il sistema
monetario internazionale, con paesi che di fatto tentarono di trovare delle soluzioni
regionali, come il caso, in Europa, della creazione del cosiddetto “Serpente
monetario europeo” (versione informale di Sistema monetario europeo, Sme), che
tuttavia non fece che creare ulteriori scompigli delle singole monete europee
coinvolte.
Cambiando il sistema monetario internazionale, il Fmi non ebbe praticamente più
alcun ruolo da svolgere: non a caso, è stato spesso detto che la crisi degli anni
Settanta fu la tomba del sistema di Bretton-Woods, giacché tutte istituzioni da esso
create crollarono o smisero di avere funzioni. Ma si è spesso discusso circa il se la
negazione del dollaro quale riferimento degli scambi internazionali nel corso degli
anni Settanta avesse in qualche modo determinato l’intensità della crisi degli anni
Settanta stessa: in effetti, se ciò non fosse successo, molto probabilmente la crisi
avrebbe avuto una minore intensità, visto il fatto che il dollaro in sé si sarebbe
ripreso con la fine della guerra del Vietnam.
Ma il 1971 fu solo l’inizio di una vera e propria escalation. Nel 1972 venne
pubblicato il rapporto del Club di Roma (organizzazione non governativa dei capi di
Stato ed intellettuali di tutti e cinque i continenti), che, per la prima volta dopo i
gloriosi traguardi degli anni Cinquanta-Sessanta, si presenta molto preoccupato su
diversi versanti, come ad esempio quello ambientale (per esempio vi era la
preoccupazione della scarsità di risorse), a fronte dei quali si attestò che i tassi di
sviluppo dei paesi iniziarono ad essere decrescenti. Ma tale rapporto, che ebbe un
impatto fortissimo sulla cultura del tempo, fu strettamente legato ad degli elementi
(o cause) congiunturali: gli shock petroliferi, di cui il primo del 1973, seguito da uno
nel 1978.
Gli shock petroliferi causarono la crisi e la successiva fine della produzione fordista,
di massa e standardizzata. In particolare, il modello fordista era un modello poco in
grado di risparmiare, soprattutto in termini energetici e, quindi, della materia prima
per l’energia, ovvero il petrolio. A partire dagli anni Venti, i paesi produttori del
petrolio, ovvero i paesi colonizzati, avevano ceduto le royalities per l’estrazione e la
commercializzazione del petrolio alle cosiddette “7 sorelle”, ovvero le imprese
multinazionali più famose del secolo. Con l’avvio del processo di decolonizzazione, i
paesi produttori, come la Libia e l’Egitto, iniziarono proprio a mettere in discussione
la legittimità di tale cessione, anche perché, da essa, tali paesi non profittavano
nulla, sebbene il petrolio fosse una risorsa rarissima e preziosa. Grazie a tale
cessione, tra l’altro, il petrolio aveva un costo irrisorio nei paesi industriali, pari a
3$/gal2.
2
Dollari a gallone.
Il 1973 segnò dunque la rottura degli equilibri avutisi fino a quel momento.
Innanzitutto, va ricordato che pochi anni prima si costituì l’Opec, l’Organizzazione dei
Paesi esportatori di petrolio, comprendendo tutti paesi arabi ad eccezione del
Venezuela, che rivendicò la gestione dell’intero ciclo, dall’estrazione alla vendita, del
petrolio. Di per sé, tuttavia, questa non era una causa sufficiente a determinare una
crisi da sovrapprezzo del petrolio. Fondamentale, infatti, fu anche un elemento
geopolitico: la prima guerra arabo-israeliana, scoppiata proprio nel 1973. In essa, i
paesi occidentali si schierarono a favore di Israele, così che gli arabi, per risposta e
anche per dissuadere gli interventi occidentali nei loro confronti, aumentarono il
prezzo del petrolio, che nel 1973 arrivò al costo di 12 $/gal.
Da tale aumento del prezzo del petrolio le imprese subirono una vera e propria
onda d’urto concentrica, giacché all’aumento del costo dell’energia si aggiunse
l’aumento del costo del lavoro, sicché le sommosse sociali pretendevano salari
maggiori. Insomma, le principali voci di uscita del bilancio di un paese, ovvero lavoro
ed energia, iniziarono ad avere un costo esponenziale, rendendo l’attività modulata
sul sistema fordista poco appetitosa. Ma la causa congiunturale dello shock
petrolifero ebbe un effetto enorme non solo sui privati, per cui il costo del greggio
divenne insostenibile, ma addirittura giunse a sconquassare i bilanci pubblici di molti
paesi che facevano del petrolio la loro maggiore fonte di energia. A tal proposito si
inventarono strumenti che potessero ridurre il consumo di petrolio, come le
“domeniche ecologiche”, così come si ridusse la fascia oraria in cui si consentiva
l’utilizzo dei termosifoni, ecc.
Una domanda affermatasi nel tempo riguarda il se fosse stato solo questo
elemento congiunturale ad aver determinato l’intensità della crisi degli anni
Settanta, o se vi fosse stata di fondo anche una causa strutturale. Oggi si è propensi a
credere che lo shock petrolifero altro non sia stato che solo un detonatore di una
crisi che già covava nella società degli anni precedenti, e che si annidava soprattutto
dei diversi modelli di consumo dei paesi occidentali: si era, infatti, creato un corto
circuito del sistema fordista. Quest’ultimo creava una produzione molto indistinta,
cioè creava “lo stesso prodotto per tutti”; ciò, però, andava a scontrarsi con i criteri
di ascesa sociale che si stavano determinando in quegli anni (nascita del ceto
medio), per cui una persona con più soldi voleva avere prodotti più belli e migliori
rispetto a chi aveva meno benessere economico. E il modello fordista, per le sue
intime caratteristiche, non era in grado di assorbire questa flessibilità riorientando la
propria produzione, essendo esso un modello rigido basato su un modello di
produzione che era sì scientifico, cioè studiato accuratamente, ma che restava fisso
(ad esempio, per cambiare il modello dello sportello di una macchina 600, si era
dovuta fermare la produzione dello stabilimento per tre giorni interi).
Insomma, la propensione al consumo si andò fortemente diversificando, ma il
fordismo non riuscì più a stare al passo. L’elemento che traccia l’iconografia della
crisi degli anni Settanta, infatti, è proprio quella dei grandi impianti fordisti che
chiudono, vengono smantellati: la grande fabbrica fordista diviene quindi una mera
“cattedrale nel deserto”.
All’orizzonte, tuttavia, si intravedeva un nuovo modello di sviluppo, fondato, al
contrario del fordismo, sul concetto di flessibilità. Per capire quali nuovi sistemi di
produzione si affacciavano sul panorama internazionale, vanno precisate
determinate caratteristiche del sistema precedente. In particolare, il modello fordista
imponeva la legge secondo cui l’offerta produce la propria domanda; ma, se la
domanda si diversifica in maniera rapidissima, la legge non regge più. Inoltre, nel
fordismo si erano internalizzati tutti gli aspetti del sistema produttivo, dal
rifornimento alla vendita, rendendo l’impresa enorme ma allo stesso tempo
incapace di affrontare il cambiamento. Ciò che andava fatto, pertanto, era il
disintegrare il concetto di produzione fordista e lavorare su una logica di
esternizzazione, secondo cui parte del processo produttivo era demandata ad
esterni, così da diminuire i costi, aumentare il lavoro e così via.
Uno dei modelli che si affermò particolarmente con la crisi del fordismo fu il
sistema distrettuale, fervente soprattutto in Italia: un distretto industriale è un
sistema di piccolissime imprese strettamente legate capaci di rispondere alla rapida
variazione della domanda, puntando su qualità piuttosto che sulla quantità.
Ma il più grande nemico del fordismo fu il toyotismo, fondato sulla legge del
risparmio, secondo la quale è la domanda a determinare la configurazione
dell’offerta; chi riesce adeguarsi il più rapidamente possibile a tale mutare della
domanda, diviene un vincente.
Ricapitolando, il sistema fordista, fino ad allora vincente, nel corso degli anni
Settanta dovette fronteggiare vari nemici:
a) costo petrolio;
b) instabilità finanziaria;
c) fine del modello di sviluppo basato sulla compressione del costo del lavoro;
d) adeguamento del salario al costo della vita, a seguito delle nuove “scale mobili
sociale”, ottenute grazie alle battaglie dei sindacati, che per un periodo si
sovrapposero anche ai moti studenteschi, e rappresentati legalmente da
documenti ufficiali (Statuto dei lavoratori, in Italia, nel 1970).
Importante è il riflettere che, durante la crisi degli anni ’70, per la prima volta nella
storia si era completamente annullata la legge dello scambio ineguale perché, per
via dello shock petrolifero, il paese produttore della materia prima (petrolio) si
trovava in un’inedita posizione di controllo sui paesi produttori di manufatti, oltre al
fatto che è in grado di produrre, in questi, degli effetti enormemente pesanti. E il
secondo shock petrolifero, nel 1979, fu ancora una volta legato alla situazione
geopolitica dei paesi arabi, causando un aumento ulteriore del prezzo del petrolio
(che quell’anno toccò il picco di 33 $/gal).
Una delle domande centrali dei paesi produttori, pertanto, fu il come si dovesse
muovere la politica nei confronti di tale crisi, la stessa politica che all’indomani della
Seconda guerra mondiale aveva dato una tale risposta vincente da causare il
miracolo economico. Ciò che si scelse di fare fu l’adottare il modello opposto al
keynesianesimo, ovvero il neoliberismo, che scaturì un nuovo periodo di
globalizzazione, ovvero la cosiddetta globalizzazione scatenata (in contrasto alla
mitigata, dover per mitigata si intende che essa era sapientemente gestita dalla
politica).

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