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CAPITOLO 1: MERCI E CAPITALI

LA CRISI DEL 1973


Le economie occidentali attraversarono quella che è chiamata “l’età d’oro” fra il 1945 e il 1973, finiti i due
conflitti mondiali l’economia dei Paesi più sviluppati si riprese grazie agli accordi di Bretton Woods, i quali
stabilirono un sistema monetario internazionale basato sulla convertibilità a tasso fisso del dollaro in oro.
Con questo sistema internazionale, il valore delle esportazioni si moltiplicò di sette volte. A porre fine a
quest’età d’oro per le economie occidentali, fu la crisi petrolifera del 1973. Questa crisi fu causata da un
conflitto da un aumento dei prezzi del petrolio, tale aumento fu dovuto a un conflitto fra i Paesi che facevano
parte dell’OPEC (l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) e quelli filoisraeliani.
Per fare un torto ai Paesi filoisraeliani, l’OPEC decise di aumentare i prezzi del petrolio di quattro volte.
Questa manovra però causò delle grosse conseguenze nei Paesi occidentali che erano i maggiori consumatori
del petrolio. In questo modo aumentando il costo, i costi di produzione aumentarono causando così un
aumento dei prezzi dal 13% fino al 20% in più, tale aumento a sua volta causò un’inflazione e fu così che
l’età dell’oro terminò per i Paesi Occidentali. Inoltre, intorno al 1970 per la prima volta nella storia oltre al
deficit della bilancia dei pagamenti (causata dei petrodollari e dagli eurodollari) si aggiunse quello della
bilancia commerciale: gli USA importavano di più di quanto esportassero. A fronte di questa situazione nel
1971, gli USA, alle prese anche con la guerra del Vietnam posero fine alla conversione del dollaro in oro,
svalutarono la moneta e adottarono politiche protezionistiche. Nel corso dei decenni successivi la Finanza
giocò un ruolo fondamentale nelle economie, addirittura in America nel 2007 il valore della finanza
rappresentava il 442% del Pil. Il denaro che circolava era denaro che “non era reale” e infatti non produceva
posti di lavoro. Attenzione però non bisogna vedere in modo negativo la finanza che servirebbe a
convogliare i risparmi dove servono, fu però la trasformazione del sistema bancario a rendere la finanza
“come un mostro”. In questi anni crebbe molto anche il debito pubblico dei Paesi più sviluppati a causa delle
politiche di Welfare State che causano la spesa statale.
DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (L’AFFERMAZIONE DEI NICS)
Negli anni Sessanta si affermarono i primi Paesi detti Nics (paesi di nuova industrializzazione), Paesi
arretrati da un punto di vista economico, ma che grazie alla locomotiva giapponese che decise di investire
proprio su questi Paesi, uscirono da uno stato di povertà e iniziarono a crescere da un punto di vista
economico. Tra il 1973 e il 1990 il loro PIL aumentò del 5/6%, in questo modo il baricentro produttivo del
mondo si iniziò a spostare verso oriente. Dal 1973 al 2016 il Pil mondiale aumentò di quattro volte, tuttavia,
la quota del Giappone e dell’Europa diminuì dal 59% al 37%, mentre quella del resto dell’Asia aumentava
dal 13% al 48%, anche grazie alla spinta della Cina che passò dal 3% al 27%. La deindustrializzazione dei
Paesi più ricchi fu fronteggiata da uno sviluppo del settore terziario che nel 2010 occupava addirittura il 70%
della forza lavoro di questi stati. Al centro del terzo settore vi era sicuramente il processo di innovazione
tecnologica, il quale per altro faceva diminuire il lavoro umano in termini di quantità.
La globalizzazione è un processo irreversibile, ma che può sicuramente essere controllato e che deve esserlo,
perché tale processo presenta delle conseguenze positive ma anche negative, come lo sfruttamento dei Paesi
più poveri. Per queste ragioni nel 1975 venne convocato il primo G6, un incontro fra i capi delle sei maggiori
potenze economiche. È evidente che con l’avanzare della globalizzazione i Paesi sono costretti a collaborare
fra loro per la ricerca delle migliori soluzioni, basti pensare che dal G6 del 1975 ad oggi questa tradizione ha
continuato ad esistere e anzi oggi parliamo addirittura di G20, il processo di globalizzazione ha portato alla
ribalta altre Nazioni che iniziano a giocare un ruolo fondamentale nell’economia del mondo intero
SPETTRI NEOLIBERISTI E CRISI REALI
La Cina del 1978 fu caratterizzata dalla politica delle “quattro modernizzazioni”, una politica promossa da
Deng Xiaoping che interessava: agricoltura, industria, scienza e difesa. Alla base di questa rivoluzione vi era
un’apertura al mercato, pur conservando il sistema monopartitico, la Cina apri un’economia in cui il profitto
individuale tornava ad essere il centro di tutto, allontanandosi dalle idee comuniste che avevano
caratterizzato la storia del Paese, è l’inizio di una Rivoluzione che catapulterà l’economia cinese fra le grandi
del mondo. I risultati furono subito visibili, in meno di 10 anni 250 milioni di contadini uscirono da uno stato
di povertà.
Tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, si affermarono in Inghilterra Margaret Thatcher e negli Usa
Ronald Regan, i quali attuarono un’idea economica basata su una diminuzione delle tasse verso i redditi
medio-alti, nella speranza che quei soldi si sarebbero tradotti in investimenti, creando occupazione e
favorendo la crescita economica. In realtà i maggiori profitti concessi ai ricchi mediante gli sgravi fiscali,
scelsero la via della speculazione, e vi fu un ritorno all’aumento della diseguaglianza fra i redditi. Questo
processo portò a un rialzo della Borsa tra i più duraturi della storia, fino a quando nel 1987 crollò
improvvisamente, questa fu la prima di una lunga serie di crisi che, negli Stati uniti e altrove mostrano la
volatilità del capitale finanziario. Molti analisti sostennero che la crisi del 1987 segnava un cambio di
primato dagli Usa al Giappone. Il modello economico giapponese era basato su un sistema di produzione
snella, grazie alle esternalizzazioni delle mansioni non essenziali delle linee produttive, si cominciò a parlare
di “modello giapponese” di capitalismo, il quale permise una crescita del Pil dal 7,7% al 13%, in questo
modo prima il Giappone e in seguito i Nics iniziarono un mutamento radicale degli equilibri del commercio
mondiale. Alla fine degli anni Novanta, 62 delle 200 maggiori compagnie erano Giapponesi e solo 53 invece
erano americane, sembrava ormai scontato il cambio di primato mondiale economico dagli Stati uniti al
Giappone, tuttavia poco prima del 2000, il Giappone andò incontro a una lunga crisi che fece aumentare il
tasso di disoccupazione fino al 5%. La crisi giapponese non fu l’unica del decennio fra gli anni Novanta e il
nuovo millennio, ad esempio, c’è stata la crisi del Sistema monetario europeo, la crisi della moneta in
Messico dopo l’entrata nel Nafta (salvato dagli interventi degli Usa), la crisi Thailandese causata da un
sistema finanziario fragile e con assenza di controlli. Anche gli Usa dovettero fronteggiare una crisi
finanziaria dovuta, alla nascita delle società dette “Dot.com” (chiamate così per la loro natura legata ad
internet) le quali furono caratterizzate da un “boom and bust”, che sarebbe una ascesa e un crollo improvviso
dell’indice in borsa. Nel 2000 molte società “dot.com” fallirono perché non erano in grado di restituire i
capitali che gli erano stati prestati. Questo era un primo sintomo della disconnessione fra l’atto della finanza
e l’economia reale. Nel 2002 fu la volta dell’Argentina, la quale fu colpita dal fallimento di diverse banche e
da gravi disordini in tutto il Paese. Tutta l’America Latina era appena uscita da un periodo di dittature, per
seguire un processo di democratizzazione e di globalizzazione anche grazie al sostegno del Fondo
internazionale monetario, tuttavia all’interno di questi Paesi il tasso di povertà rimaneva altissimo così come
le diseguaglianze sociali ed economiche, sostanzialmente con questo processo di globalizzazione si
arricchirono solo pochi mentre il resto della popolazione restava povero.
Con il nuovo millennio si andava affermando una nuova super potenza: la Cina. Nel 2007 il flusso di
investimenti cinesi all’estero nelle società pubbliche e private, era inferiore solo a quello degli USA e del
Giappone. L’economia stava cambiando volto, il processo produttivo era caratterizzato da prodotti intermedi
che nel 2012 rappresentavano i due terzi del commercio, i prodotti intermedi sono sostanzialmente pezzi di
una merce finale, ad esempio l’iPhone che è assemblato in Cina e composto da prodotti intermedi derivanti
da 13 diversi Paesi.
Importante anche sottolineare come i Nics e in particolare la Cina rappresentino il nuovo modello di
capitalismo senza democrazia, nel quale vi è una contraddizione tra sviluppo e libertà. Il dinamismo
economico cinese si accompagnò al permanere di una politica autoritaria, culminata nel 1989 nella
sanguinosa repressione di piazza Tienanmen.
LA CRISI DEL 2008
Nel 2008 quello che sembrava un processo irreversibile si arrestò improvvisamente, il Pil mondiale che fino
a quell’anno si era moltiplicati di 6 volte, scese del 20% durante questa crisi. La crisi del 2008 fu devastante
quanto quelle del 1929, questa volta però non fu il crollo dalla Borsa il primo segnale della crisi, ma fu il
fallimento delle più importanti società finanziarie americane, la prima a fallire fu la Lehman Brothers che
denunciò un debito di 600 miliardi di dollari. Ovviamente il panico si sparse in tutto il mercato finanziario,
perché quel crack era l’indicatore che qualcosa non andava, infatti la Lehman fu solo la prima società a
fallire, ma il mercato finanziario in quegli anni era sempre più complesso i prestiti venivano forniti a quasi
tutti (anche a chi non dava particolari garanzie) poi il rischio veniva suddiviso e ridistribuito attraverso un
mercato parallelo, così il rapporto diretto fra il creditore e debitore si smarriva in un sistema di mediazioni
finanziarie sempre più complesse, rendendo impossibile stabilire il reale ammontare dei debiti e dei crediti.
In questo modo il mercato dei mutui ipotecari sulle case, chiamati subprime (seconda scelta) perché erogati a
singoli cittadini considerati a rischio per la loro situazione precaria lavorativa e patrimoniale, salirono dal 5%
al 20%. Questi subprime vennero concessi perché si era convinti che la crescita costante del prezzo delle
case avrebbe comunque garantito il ritorno di denaro. Nel 2006 però i prezzi delle case iniziarono a
diminuire, le società finanziarie si accorsero che il valore delle case non copriva più i prestiti, le società
finanziarie e le banche iniziarono a far valere i propri crediti sul mercato dei derivati. Anche i debitori però
erano ricorsi allo stesso mercato, contraendo ulteriori debiti. Scoppiò il panico e nessuno concedeva più
prestiti o finanziamenti dando luogo a una generale perdita di fiducia e una conseguente recessione
economica reale, che si trasformò in disoccupazione. Solo a questo punto i titoli azionari della borsa di Wall
Street crollarono in misura maggiore che nel 1929.
Il presidente Obama per evitare la chiusura delle società finanziarie utilizzò i fondi della Banca centrale,
facendo passare il debito federale dal 39% al 72% ma tenendo la disoccupazione sotto il 10%, nel 2010 in
America venne approvato il dodd- Franck act una riforma che aveva però il limite di essere applicabile solo
negli USA. La caratteristica particolare di questa crisi è che fu transnazionale e si diffuse rapidamente anche
in Europa, dove la gestione fu assai più complessa a causa dei poteri limitati della Banca centrale europea,
ciò aumentò la sfiducia fra i Paesi membri scavando un fossato fra i Paesi creditori e debitori. Ovviamente
anche la Cina fu influenzata da questa crisi mondiale, in quanto molti Paesi orientali, dopo la crisi del 1997
decisero di acquistare buoni del tesoro statunitensi come “bene rifugio” più stabile e rassicurante, ma anche
come chiave di accesso al mercato americano. La Cina utilizzò i propri capitali per sanare il deficit degli
Stati Uniti, per evitare la svalutazione del dollaro. Anche la Cina però fra il 2000 e il 2014 vide aumentare il
suo debito pubblico dal 23 al 55%. I destini delle due super potenze si intrecciarono in questo periodo storico
con degli esiti tutti da scoprire, dopo la crisi del 2008 i Pil delle Nazioni iniziarono a crescere meno rispetto a
prima e alcuni studiosi sostennero che con gli anni ’70 si era chiuso un ciclo secolare di innovazioni
“pesanti”. Era chiaro che in Occidente la finanza produceva scarse ricadute in termini di crescita e benessere,
aumentando anzi la diseguaglianza dei redditi, tutto ciò fu anche dovuto alla semplicità degli spostamenti del
capitale grazie alle tecnologie informatiche.
I LIMITI DELLO SVILUPPO E IL RAPPORTO CON L’AMBIENTE
L’aumento dei beni prodotti era basato su energie non rinnovabili e tutto ciò ebbe un forte impatto su quello
che è l’ecosistema, ad aggravare la situazione vi fu anche un rilevante aumento demografico. La questione fu
affrontata per la prima volta nel 1970 con il primo Earth Day, che era stato istituito per denunciare i rischi
dell’inquinamento ambientale, in seguito nel 1972 vi fu un celebre rapporto, sui Limiti dello Sviluppo, il
quale prevedeva l’esaurimento delle risorse naturali entro il 2050. Anche il ruolo dell’energia è uno degli
argomenti principali dell’ambito ambientalistico, infatti l’energia non rinnovabile permette di produrre in
modo più rapido ma causa anche gas nocivi, che vanno ad incidere su quello che gli scienziati chiamano
“effetto serra”, il quale ostacola il riflusso delle radiazioni solari e determina un riscaldamento globale, che a
sua volta causa problemi come siccità e catastrofi naturali. Come prova di questa tesi, la temperatura globale
tra il 1880 e il 1940 è aumentata di solo mezzo grado celsius (da 13.5 a 14), mentre dagli anni settanta ad
oggi la temperatura media è aumentata di un grado celsius (da 14 a 15). All’innalzamento della temperatura
media globale, ha contribuito soprattutto la deforestazione, dell’America centrale e dell’Asia tropicale (in un
decennio sono stati eliminati più di 2 milioni di km quadrati di foresta corrispondenti a un decimo del
patrimonio originario). La globalizzazione ha sicuramente accentuato questa situazione, con l’aumento della
motorizzazione privata e soprattutto non erano più solo i Paesi più sviluppati a causare inquinamento ma
anche gli altri Paesi in via di sviluppo.
Ovviamente tutto ciò sollecitò a cercare nuove forme di energia come quella nucleare, eolica e solare, anche
in questo caso però le catastrofi non sono mancate, come quella del 1986 di Cernobyl. I rischi dovuti alle
centrali nucleari convinsero molti Paesi a non adottare tale sistema, mentre le energie rinnovabili rimangono
ancora minoritarie rispetto all’uso del petrolio, il quale copre il 44% dei consumi energetici, seguito dal
carbone e dal gas naturale. Con gli accordi di Montreal e di Rio tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli
anni Novanta, si fece strada una preoccupazione comune per la salvaguardia dell’ambiente e per ridurre
l’effetto serra. Nel 1997 il protocollo di Kyoto impegnò per la prima volta i Paesi firmatari a ridurre del 5%
l’emissione di diossido di carbonio entro il 2012. In un secondo accordo a Parigi firmarono anche gli Stati
Uniti che erano i grandi assenti del protocollo di Kyoto. Tuttavia, nel 2017 il neoeletto presidente, Donald
Trump ha ritirato gli Stati uniti dagli accordi di Parigi, in nome di un nazionalismo industriale.

CAPITOLO 2: POPOLI IN MOVIMENTO


LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA
Nell’anno 1 gli uomini sulla terra erano circa 250 milioni, e ci vollero 17 secoli per fare in modo che tale
cifra si triplicasse, per trovarci nel 1750 con 750 milioni di abitanti. Dal 1750 ad oggi, tuttavia, l’aumento
demografico ha portato il mondo ad essere popolato da 7.5 miliardi di persone, un aumento spaventoso che è
avvenuto negli ultimi tre secoli. Questa crescita è dovuta soprattutto allo sviluppo economico, ovviamente
non in tutto il mondo i dati sulla natalità sono uguali, per esempio negli ultimi anni il tasso di incremento
demografico europeo è sicuramente più basso rispetto al dato asiatico. Questa differenza fra le varie parti del
mondo dipende dal fenomeno della transizione demografica, si tratta in sostanza del passaggio da un sistema
caratterizzato da alta natalità e alta mortalità e breve durata della vita a uno di segno opposto. La transizione
inizia con un calo della mortalità a cui segue un declino della natalità, questo processo si verificò per la
prima volta in Europa nel 1700 con le Rivoluzione industriali per concludersi intorno al 1960, negli altri
continenti questo fenomeno si diffuse in tempi più recenti.
Dopo i due conflitti mondiali, la differenza fra natalità e mortalità era ai suoi massimi livelli, questo perché si
diffusero antibiotici, vaccini, ecc. diminuendo il tasso di mortalità, ma con il tasso di natalità che ancora
restava invariato, questo determinò un aumento della popolazione incredibile. Il picco di questo fenomeno si
verificò intorno alla metà degli anni ’50 per poi iniziare a scendere in modo graduale. Altro elemento da
tenere in considerazione è l’invecchiamento della popolazione nei Paesi maggiormente sviluppati, i quali
sono popolati più da persone sopra i 40 anni che da persone sotto. Ovviamente l’aumento demografico è un
fattore da tenere sotto controllo perché potrebbe rappresentare un problema come nel caso della Cina e
dell’India che da sole, nel 2015, avevano 2,7 miliardi di abitanti, quindi più di un terzo della popolazione
mondiale, in media le donne cinesi e indiane negli anni ’50 partorivano 6 figli, oggi questo dato si è
abbassato fino a due, questo a fronte di politiche di contenimento della fecondità adottate nei due Paesi. Nei
Paesi maggiormente sviluppati invece la natalità si è ridotta notevolmente e l’invecchiamento della
popolazione ha diminuito sensibilmente la popolazione in età lavorativa causando problemi al sistema di
Welfare State in particolare al settore pensionistico e sanitario.
URBANIZZAZIONE, SLUMS E ECONOMIA INFORMALE
Nel 2007 per la prima volta nella storia il numero globale degli abitanti delle città era superiore rispetto a
quello della popolazione rurale, questo processo fu possibile solo grazie al balzo della produttività
determinato dalla Rivoluzione agraria e industriale del XVIII secolo, da questo momento in poi le città non
hanno mai smesso di crescere, negli ultimi 30 anni in particolare, in Africa e in Sud America.
L’urbanizzazione del “Terzo mondo” era vista come una cosa positiva, imitando quello che era stato il
processo dei Paesi maggiormente sviluppati, tuttavia questa urbanizzazione non fu accompagnata da una
crescita industriale che quindi determinò la creazione degli slums (anche chiamati Favela, Bidonville o
shantytown a seconda dei contesti), sostanzialmente dei quartieri/sobborghi di popolazione povera, dove
anche il “lavoro informale” quindi non riconosciuto dalla legge, si sviluppa in maniera dirompente
aumentando ancor di più il degrado di questi quartieri. L’attenzione su questa questione fu causata dalle
rivolte del sobborgo di Soweto in sud Africa del 1976. I problemi legati a questi quartieri sono simili in tutte
le parti del globo in cui si sono sviluppate e sono: l’aumento del lavoro informale, il basso tasso di
scolarizzazione, la mancanza d’acqua e di sanità. Negli anni ’80 si provò a eliminare questi quartieri, ma con
scarsi risultati perché tendevano sempre a riformarsi, allora le agenzie internazionali, decisero di utilizzare
un approccio differente, iniziarono ad attuare dei micro-interventi soprattutto sul piano del credito finanziario
finalizzati alla crescita delle attività informali, fino alla trasformazione in attività formali. Grazie a questi
interventi il numero degli abitanti degli slums aumentò da 689 a 872 tra il 1990 e il 2014, ma in realtà questo
dato (in relazione all’aumento della popolazione) rappresenta una diminuzione dal 49 a 30%. L’unico
continente nel quale la maggioranza della popolazione vive negli slums è l’Africa.
Tuttavia, solo in parte slums ed economia informale sono correlati con la povertà, infatti la maggioranza dei
poveri continua a risiedere nelle zone rurali, ma l’allarme per un’urbanizzazione senza industrializzazione ha
rafforzato i motivi per un ritorno all’agricoltura, tale processo è anche finalizzato alla prevenzione e allo
sgonfiamento della bolla urbana.
MIGRANTI DI IERI E DI OGGI
La migrazione è sempre stata una caratteristica del genere umano, muoversi infatti è sempre stato necessario
soprattutto per quelle popolazioni nomadi che vivevano di agricoltura e allevamento. Nel corso della storia
l’eurocentrismo ha in un certo senso nascosto le grandi migrazioni che avvenivano nel mondo. Tra le più
importanti ricordiamo ad esempio la migrazione tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 verso l’America tra il
1846 e il 1914, 46 milioni di persone attraversarono l’Atlantico. Nell’ultimo secolo il migrant stock globale è
cresciuto di quasi sette volte passando da 35 milioni di migranti a 250 milioni nel 2015, la percentuale in
relazione alla popolazione mondiale è aumentata dal 2% al 2,7% (senza contare i migranti dopo la
disgregazione dell’Urss, circa 27 milioni). La maggioranza di coloro che erano migrati verso l’America era
di origini europea, ciò significa che una parte consistente dei migranti fra l’800 e il 900 non si sia mossa da
Paesi in via di sviluppo verso paesi sviluppati. Oggi le destinazioni dei migranti sono ben diverse, le mete
più ambite sono l’Europa e l’Asia, ma gli Stati Uniti rimangono il massimo attrattore di immigranti. Negli
ultimi 10 anni sembra che il flusso migratorio si sia ridotto rispetto al primo decennio del nuovo millennio,
tuttavia questa di munizione nei dati è probabilmente causata dal numero crescente di clandestini dovuti alle
leggi di contrasto all’immigrazione vigenti in molti Paesi.
COSTANTI STORICHE DELLE MIGRAZIONI
Un nuovo fenomeno collegato alle nuove migrazioni è quello dei cluster (prima costante), sostanzialmente
sono quartieri dove vivono persone immigrate dallo stesso Paese, come ad esempio China town a Milano,
ovviamente i cluster non favoriscono quello che è il processo di integrazione fra i popoli e può incentivare
disordini. La seconda costante è costituita dal fatto che per le minoranze significative le migrazioni
rimangono temporanee. La terza costante riguarda le rimesse, cioè i soldi mandati a casa dai migranti.
Un aspetto nuovo invece nelle migrazioni moderne è il numero delle donne, oggi quasi la metà dei migranti è
di sesso femminile mentre all’inizio del 1900 le donne erano circa ¼ rispetto agli uomini, addirittura fra
quelli asiatici erano solo 1/10. Questo fenomeno è sicuramente dovuto all’emancipazione femminile da un
lato, dall’altro, però, in molti Paesi africani, la scelta migratoria delle donne è condizionata da organizzazioni
criminali.
Cento anni fa la migrazione era favorita dai governi dei paesi più sviluppati, bisognosi di forza lavoro, oggi
invece viaggi di fortuna e ingrassi illegali sono spesso offerti da delinquenti, il traffico di esseri umani ha un
valore che varia dai 3 ai 6 miliardi di euro. Diverse sanatorie sono state realizzate intorno agli anni ’80 per
regolarizzare i migranti che arrivavano in America, tuttavia molti entrano con visti legali a tempo, ma poi
rimangono per un tempo superiore rispetto a quello previsto diventando quindi dei clandestini semplicemente
entrati regolarmente, questo fenomeno è chiamato overstayers. Le migrazioni hanno anche aspetti positivi
come quello di bilanciare l’invecchiamento dei Paesi più ricchi nel breve periodo, e di occupare fasce
secondarie del mercato che se no rimarrebbero senza impiegati, perché ritenuti lavori troppo stancanti e
faticosi per i cittadini dei Paesi più avanzati.
NUOVE GUERRE E RIFUGIATI
Un altro aspetto che differenzia le migrazioni degli ultimi decenni da quelle dell’800/900 è il mutamento
delle guerre, in particolare dal 1945 in poi. Si stima che oggi i profughi di guerre siano stimati sul 10% del
numero di migranti totali. Questo fenomeno è anche dovuto all’aumento delle guerre civili in tutto il mondo,
inoltre le vittime civili nelle guerre recenti si aggirano sul 70% del totale, ed è proprio per questo che il
numero di civili che scappano dalle guerre è aumentato in modo rilevante. La maggior parte delle guerre
civili degli ultimi anni erano dislocate tra Medio Oriente, Africa e Asia.
Il numero di guerre, tuttavia, è triplicato fra gli anni ’60 e gli anni ’90, mentre negli ultimi 15 anni è
diminuito notevolmente e di conseguenza anche le vittime sono diminuite. Le statistiche dei rifugiati
comprendo anche altre figure, tra le quali gli Idps (Internally displaced person) individui costretti ad
abbandonare le loro case a causa di guerre, violazioni dei diritti umani o disastri ambientali, ma senza
superare i confini dei Paesi di appartenenza. Escluse quelle dovute a cause ambientali, le Idps hanno oscillato
fra i 4 e 6 milioni fino al 2005 e in seguito sono cresciute fino a superare i 37 milioni nel 2015. Alla fine del
2015 i maggiori produttori di profughi erano i conflitti civili che dilaniavano la Siria, l’Afghanistan e la
Somalia.
La prima grande crisi umanitaria sul quale si accesero i riflettori del mondo, fu nel 1968 con la guerra del
Biafra (regione nigeriana). Mentre le prime legislazioni restrittive anti-migratorie risalgono al 1973,
conseguenti a quella che fu la crisi petrolifera, tale normativa tuttavia apri spazio alle organizzazioni
criminali che gestiscono il traffico di vite umane. Per contrastare questo fenomeno occorrerebbe una
mediazione transnazionale, diventa però difficile una mediazione di questo genere prima di tutto per gli
egoismi nazionali e in secondo luogo a causa di quelli che sono gli “Stati falliti” come, ad esempio, la Siria o
la Libia. Un ultimo aspetto da sottolineare è che oggi i migranti non rappresentano dei “barbari” che
vogliono conquistare il nostro territorio, ma di persone che sono in cerca di un futuro migliore, i Paesi
potrebbero accordarsi, quindi basta avere il reale intento di farlo.

CAPITOLO 3: UOMINI, DONNE, COMUNICAZIONE


LA BABY BOOM GENERATION E I MOVIMENTI DEL ‘68
Il 1968 segna un punto di svolta per il Novecento, in quanto iniziarono una serie di mobilitazioni
studentesche che, per la prima volta nella storia, assunsero un’estensione globale, l’estensione transnazionale
di questi movimenti fu possibile grazie allo sviluppo dei media. Le immagini dei cortei studenteschi
rimbalzavano in ogni angolo della Terra, tuttavia la comunicazione è una condizione necessaria ma non
sufficiente per la trasformazione globale, è quindi vero che i media favorirono lo sviluppo di questi
movimenti ma non furono di certo i media a provocare le rivolte, le quali nacquero sempre per motivi locali
quasi sempre circoscritti nell’ambito universitario. Sostanzialmente dall’America, all’Asia e dall’Europa fino
all’Oceania gli studenti protestavano per quelli che secondo loro erano i problemi delle loro rispettive
Nazioni. Una seconda ipotesi per spiegare il contagio globale è il concetto di Baby Boom Generation.
Intorno al 1968 arrivò alla maggiore età un numero di teenager davvero rilevante, ciò fu dovuto, come
abbiamo visto, a quell’aumento di natalità del dopoguerra. Questa generazione si scontrò con una società
molto più anziana e tradizionalista. Molti studiosi ritennero invece che ad accumunare gli studenti cinesi,
europei o africani, fu il semplice fatto di essere di più. In realtà questa teoria venne poi screditata dai dati,
infatti è vero che vi fu un baby boom ma nei Paesi Europei questo fenomeno durò ben pochi anni. Un altro
fattore che fu sicuramente essenziale per lo sviluppo dei movimenti del ’68 fu l’aumento del numero di
persone che frequentavano l’università, ovviamente nei Paesi maggiormente sviluppati l’università diventò
tendenzialmente di massa aprendosi per la prima volta anche alla piccola borghesia, mentre nei Paesi delle ex
colonie l’università era accessibile solo ai benestanti e quindi a un numero limitato di studenti, ma
sicuramente in forte crescita, basti pensare che nell’università del Cairo tra il 1961 e il 1972 il numero di
studenti quintuplicò. Nel corso del 1960 il numero di studenti neri all’interno delle università americane
passò da 3000 a 98000, questo perché l’istruzione superiore era anche uno strumento di ascesa sociale
utilizzato dal basso per aprire nuove prospettive occupazionali, seguendo il modello americano anche
l’Europa cercò di rendere l’università accessibile anche ai ceti meno ricchi.
CAMBIANO LE FAMIGLIE
A questa ondata di iscrizioni nelle università di tutto il modo, vi furono delle grandi conseguenze, la prima è
che molti Stati del mondo decisero di abbassare l’età di voto a 18 anni, in occidente la scelta per l’università
pose fine alla transizione demografica. L’istruzione negli anni ’60 diventò una prerogativa, basti pensare che
gli Stati Uniti inserirono l’istruzione come una condizione per gli aiuti economici che fornirono ai Paesi
emergenti, un altro esempio è che tra il 1948 e il 1960 le spese statali coreane per l’istruzione passarono dal 8
al 15% della spesa pubblica. Tuttavia, bisogna considerare che per ogni rivoluzione epocale c’è bisogno di
tempo, infatti i sogni di un’istruzione superiore della generazione del ’68 si scontra con un realtà che non è
delle migliori, mancano le strutture e l’organizzazione scolastica, in India per esempio solo 1/5 degli studenti
poteva dormire negli alloggi universitari, oppure in Brasile, Polonia e Ungheria la metà degli studenti non
aveva il posto fisico in cui poter seguire le lezioni. In questo clima ovviamente i malumori aumentavano e fu
proprio questa situazione, che di fatto rovinava i sogni della nuova generazione, a far scattare la scintilla per
tutti quei moti di protesta che caratterizzarono il 1968.
Gli anni ’60 segnarono un’altra grande rivoluzione che fu quella sessuale, rappresentano l’unica finestra
temporale assente da malattie sessualmente trasmissibili, visto che l’Aids arriverà negli anni ’80. Nel 1960
viene inventata, in America, la prima pillola anticoncezionale, una svolta epocale nell’ambito della
sessualità, infatti riscosse grande successo, fu così che si aprì una fase di globalizzazione dei comportamenti
riproduttivi. Non bisogna pensare che sia stato un processo del tutto naturale, sono gli Stati stessi che spesso
sono intervenuti per aumentare l’uso degli anticoncezionali e che attuarono politiche attive per la
pianificazione familiare, come il caso limite del governo cinese, dove tra il 1979 e il 2013 è stato vietato di
avere più di un figlio. Il processo di evoluzione non fu immediato in ambito sessuale, o meglio il ’68
rappresentò semplicemente il punto di arrivo di una mutazione che era già iniziata. Furono condotti diversi
sondaggi per paragonare l’opinione delle giovani donne rispetto all’opinione delle madri, queste ultime si
dimostravano più tradizionaliste e la maggior parte di esse non poneva come condizione per un buon
matrimonio, una soddisfacente vita sessuale, un dato in contrasto con quello delle figlie che per il 90%
sostenevano che fosse di vitale importanza avere una vita sessuale soddisfacente per la riuscita di un buon
matrimonio. Un altro dato interessante riguarda invece un sondaggio americano che faceva notare come tra il
1969 e il 1973 la percentuale di colore che nei sondaggi di opinione disapprovavano i rapporti sessuali
prematrimoniali scese dal 68 al 48%.
LE DONNE
Anche per quanto riguarda i diritti politici, civili e sociali delle donne gli anni ’60 e ’70 furono un momento
di svolta e di grande rilievo. Questo processo era iniziato al termine dei due conflitti mondiale, il ruolo delle
donne all’interno delle due Grandi Guerre fu essenziale, infatti furono loro ad inserirsi per la prima volta
nella storia, nel mondo del lavoro per sostituire i propri mariti richiamati al fronte. Fino alla Grande Guerra i
paesi in cui le donne avevano accesso al voto erano soltanto la Nuova Zelanda, l’Australia, la Finlandia e la
Novergia. Un primo aumento vi fu dopo il primo conflitto, ma la svolta decisiva si verificò dal 1945 alla fine
degli anni ’70, quando le donne ottennero il diritto di voto in ben 103 stati. Tra il 1950 e il 1970 il ruolo
femminile nel mondo del lavoro diventò sempre più importante l’occupazione femmine soprattutto negli
impieghi qualificati passò dal 25 al 40% negli Usa, dati simili si riscontrarono anche nei Paesi europei più
sviluppati, inoltre anche il numero di donne iscritte in università dal 15/30% del 1950 al 50% degli anni ’80.
Fu in questo contesto che negli anni ’70 si sviluppò un’ondata di movimenti femministi, avevano una portata
transnazionale e rivendicavano l’uguaglianza fra uomo e donna, puntando su un modello di società che
valorizzasse le specificità degli uni e degli altri. Sempre in questo periodo un contributo decisivo
all’affermazione dei diritti delle donne venne dalle Nazioni Unite, che nel 1975 proclamarono il primo
decennio della donna 1975- 1985. Due conferenze svoltesi a Vienna nel 1993 e a Pechino nel 1995
permisero alle Nazione Unite di inserire all’interno dei diritti umani, i diritti delle donne e l’uguaglianza fra i
generi. Inoltre, si riconobbero i concetti di violenza contro le donne, abusi e violenze fuori e dentro la
famiglia, in di modo da tutelare, maggiormente le donne.
Nell’analizzare i dati che mettono a confronto a livello globale l’uomo e la donna bisogna sempre tenere in
considerazione che vi è un nesso significativo tra sviluppo economico ed emancipazione femminile, un altro
fattore che può incidere è sicuramente l’aspetto culturale, basti pensare che nei Paesi scandinavi le donne
elette all’interno del Parlamento rappresentano il 40% del totale mentre negli Stati arabi rappresentano solo il
18% (fino al 2000 era addirittura solo il 4%), questo è dovuto anche ad una cultura araba nel quale il ruolo
delle donne è considerato “secondario” rispetto alla figura femminile. (altro esempio nei Paesi arabi le donne
scolarizzate sono il 35% contro il 48% degli uomini).
Purtroppo, ancora oggi assistiamo a una differenza salariale all’interno del mondo del lavoro fra uomo e
donna, ma il fatto che circa la metà dei migranti mondiale siano donne ci fa capire che la condizione
femminile è cambiata radicalmente rispetto a un secolo fa, e questa mutazione è destinata a continuare in
questo secolo. Al tempo stesso le donne sono divenute agenti della globalizzazione culturale, basti pensare
alle donne turche emigrate in Germania che sviluppano punti di vista personali antitradizionali su problemi
della vita quotidiana e quando tornano nel loro Paese d’origine, senza rinnegare la loro cultura, aprono
importanti conflitti nella loro comunità d’origine. Le donne divengono quindi agenti di un processo di
ibridazione culturale che può trasformare la percezione reciproca dell’Occidente e dell’Islam.
VECCHI E NUOVI MEDIA
All’inizio della loro storia i media erano diffusi in modo non uniforme, infatti in America, per esempio, le
radio per abitante avevano una media di 2, mentre in Europa le radio per abitante erano 0,5, intorno agli anni
Settanta. Per chiarire la situazione mondiale dei media Macbride fece, per conto dell’Unesco, un rapporto
sulla situazione dei media nel mondo. Il rapporto però fece scalpore perché denunciò con forza lo squilibrio
globale tra un Nord del mondo che produceva informazione e un Sud del mondo che la subiva. Come è
sempre avvenuto nel corso della storia dei media, radio e televisione non avevano ucciso i media precedenti,
costituito dalla carta stampata, la quale conobbe una prima fase di stasi e poi un declino, ma solo nei Paesi
occidentali, mentre tra il 1950 e il 1975 nel resto del mondo la produzione di quotidiani continuò ad
aumentare. Bisogna però ricordare che vi furono foto pubblicate sui giornali che cambiarono la storia. Gli
anni ’70 furono un periodo in cui agli occhi dell’opinione pubblica il prestigio dei media era superiore a
quello delle istituzioni: la loro indipendenza e capacità di controllo veniva valutata come requisito
indispensabile della democrazia. Furono anche il periodo in cui i media così come la società civile, entravano
in un periodo di innovazione tecnologica che ancora oggi stiamo vivendo.
Nelle redazioni apparvero i primi videoterminali sui quali i giornalisti scrivevano i propri articoli,
trasmettendoli direttamente al laboratorio di fotocomposizione. Nel 1975 venne messo in commercio negli
Stati Uniti al prezzo di 400 dollari il primo personal computer denominato Altair 8800, che si diffuse nelle
comunità giovanili, della baby boom generation (come Steve Jobs) ed il libero accesso alle innovazioni
permise la diffusione di altri modelli di computer a partire dagli Stati Uniti dove già nel 1990 erano già 21
ogni 100 abitanti. Il secondo passo importante fu l’invenzione di internet, le sue origini risalgono al 1969, la
prima rete si chiamava ARPANET. Lo sviluppo di queste reti è iniziato negli USA che si erano sempre posti
il problema di un sistema di comunicazione in grado di sopravvivere a un attacco nucleare, la rete
ARPANET era quindi una rete interattiva, che a differenza del telefono poteva comunicare allo stesso tempo
con un gran numero di persone. Con il tempo venne perfezionata fino a quando non venne dismessa, per
lasciare spazio, nel 1990, alla rete Internet che era già una realtà. Nello stesso anno venne creato a Ginevra il
World Wide Web: un sistema particolare di user friendly per l’accesso alla rete e il suo uso da parte degli
utenti, contribuì al vero e proprio boom, che internet ebbe negli anni ’90. Nel 1994 iniziarono ad apparire i
siti dedicati all’e-commerce, lo sviluppo dei computer e della rete ebbe una crescita esponenziale, basti
pensare che negli anni ’80 i computer collegati in permanenza alla rete erano solo 213 e oggi sono più di un
miliardo. Come ogni rivoluzione anche quella dei computer ha i suoi lati positivi e negativi, oltre ad esser
utilizzata per svolgere operazioni finanziarie e commerciali, ha modificato il modo di relazionare delle
persone, inoltre sta pian piano inglobando la stampa, la radio e la televisione, questo perché internet permette
la comunicazione anche fra i singoli cittadini ed è uno strumento quindi individuale che permette di
socializzare con altri. Ovviamente Internet è uno strumento potentissimo, quindi, deve essere usato con
cautela dato che i rischi informatici sono sempre dietro l’angolo, come attacchi virus, oppure per quanto
riguarda l’informazione, negli ultimi 15 anni si è sviluppato il concetto di fake news.

CAPITOLO 4: LA LUNGA FINE DELLA GUERRA FREDDA


UNA TERZA ONDATA DI DEMOCRAZIA?
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad un aumento degli Stati, passati da 62 nel 1913 a 195 nel 2015.
Questo processo ebbe inizio al termine delle Guerre Mondiali con lo scioglimento degli imperi ottomani,
austroungarici, dell’Urss e della Jugoslavia. Queste disgregazioni fecero nascere nuovi Stati. Questi ultimi
cento anni sono quindi caratterizzati dalla diffusione del moderno Stato-Nazione, il quale ha la caratteristica
del monopolio della violenza legittima. Ovviamente con l’aumentare degli Stati anche il numero di
organismi sovranazionali aumentò, questi organismi hanno acquistato maggiori margini di sovranità,
sovrapponendosi agli Stati-nazione e condizionandoli più che in passato.
Un altro fattore che condizionerà la sovranità degli stati-nazioni è che le grandi imprese sono divenute
transazionali, e occupano più di un terzo del Pil mondiale, non solo le persone, ma anche le merci e i capitali
tendevano sempre di più a travalicare i confini nazionali, mettendo in crisi la capacità impositiva fiscale degli
Stati che è la base materiale della loro esistenza. Un altro aspetto da considerare nell’avanzata degli Stati-
nazione è se con la diffusione di essi, vi si stata anche una diffusione della Democrazia, la quale toccò il suo
livello minimo nel 1940, ma l’esito dei conflitti mondiali invertì questa tendenza, ma per altri 30 anni gli
Stati autoritari continuarono a crescere e un terzo della popolazione mondiale viveva sotto i regimi
comunisti. Nel Paesi mussulmani invece si sviluppò il concetto di stato islamico fondato quindi su precetti
del Corano. Dopo la crisi del Petrolio del 1973, gli unici Paesi ad essersi arricchiti furono quelli del Golfo
Persico e l’Arabia saudita che erano grandi esportatori, i quali utilizzarono questo grandissimo afflusso di
denaro anche per la diffusione del Wahhabismo, un movimento nato nel 1700 che voleva ripristinare
l’intransigenza originaria della dottrina coranica. Ebbe quindi inizio un’era islamista che conobbe una
folgorante espansione negli anni ’80 e solo nel decennio successivo entrò in una fase di declino dovuto anche
a gravi contraddizioni emerse.
Dal 1973 crebbe una tendenza di intellettuali e movimenti volti a ripristinare il rigore e l’intransigenza della
dottrina coranica, strada simile fu seguita dagli sciiti che favorirono l’autorità dell’ayatollah, l’esempio più
lampante è la rivolta per la creazione di una repubblica islamica, in Iran nel 1979. Nello stesso periodo gli
imam (le guide religiose) si trasformarono in capi delle comunità locali. Bisogna sempre tenere in
considerazione che nel mondo islamico la religione definisce la convivenza civile, le regole del Corano
condizionano l’azione dei potenti. Secondo Bernard Lewis, che però ignora la storia assai diversa di Paesi
islamici come l’Indonesia (Repubblica democratica) e la Malesia, proprio la mancata separazione fra Stato e
religione è all’origine di un deficit democratico del mondo mussulmano. Spesso però i movimenti islamici,
hanno lottato, prima contro la dominazione coloniale e successivamente contro i regimi militari corrotti, che
occupavano quindi un ruolo di oppositori.
IL DECLINO DELL’UNIONE SOVIETICA
A metà degli anni ’70, tra la sconfitta statunitense nel Vietnam e l’impeachment del presidente Nixon per il
caso Watergate, il Cremlino accarezzò l’idea di una seconda Guerra Fredda. Questa idea fu possibile grazie a
un conflitto al vertice del potere russo, dove la leadership di Breznev (il segretario russo) era in forte declino,
mentre l’ala più aggressiva e ideologica del Cremlino agiva su una presunzione di forza dovuta all’aumento
dei prezzi del petrolio e al fatto che fosse la Russia a fornire il petrolio agli Stati uniti, inoltre a partire dal
1975 il numero di “euromissili” venne aumentato notevolmente, era quindi l’inizio di una seconda guerra
fredda. Ciascuno dei diversi terreni di sfida con l’occidente scelti dalla Russia si risolse con una secca
sconfitta, in particolare la più distruttiva fu la guerra in Afganistan, nel 1988 infatti Mosca fu costretta a
ritirarsi, lasciando 15.000 morti e abbandonando il Paese a una guerra civile. Inoltre la sfida con l’America
era un sconfitta già scritta, la Russia anche al suo interno aveva diversi problemi, nel 1980 importava un
terzo dei macchinari industriali dalla Germania, e la sua produzione nel settore dei macchinari era il 55% di
quella degli USA, sul piano agricolo gli Stati uniti producevano 10 volte di più di quello che produceva
l’Unione Sovietica, mentre il Pil pro capite non superava 1/3 di quello Statunitense. Perciò tutte le spese
militari che erano pari a quelle degli stati uniti pesavano molto di più sul bilancio, a ciò si aggiunse
l’arretratezza delle tecnologie e per questo vi erano ancora alti livelli di sfruttamento e nocività del lavoro. In
Polonia iniziarono dei movimenti dei lavoratori, che portarono insieme anche all’elezione del Papa Karol
Wojtyla, e alla sconfitta Russa in Afganistan, alla ritirata della Russia dalla Polonia. In questo clima di
grande difficoltà in Russia salì al potere Gorbacev, il quale capì che vi era la necessità di un ritorno
all’ideologia leninista e alla fiducia di una mobilitazione dal basso.
La figura di Gorbacev fu di fondamentale importanza per la fine del comunismo sovietico. La fine del
movimento sovietico seguì un movimento a pendolo che si originò nel cuore dell’Urss con il ripudio da parte
di Gorbacev della dottrina di Breznev (la sovranità limitata dei Paesi del patto di Varsavia), si tradusse
nell’incapacità riformatrice e nell’implosione dell’Est europeo nel 1989, per poi tornare verso oriente sotto
forma di spinta dissolutiva dell’impero sovietico. Il governo cinese seguiva con grande attenzione le
dinamiche sovietiche, ma scelse una strada opposta, infatti quando vi fu la rivolta di Tienanmen il governo
cinese non esitò ad utilizzare la forza per placare le proteste, mentre la ferma opposizione di Gorbacev
all’uso della violenza impedì che la stessa strada venisse seguita nell’Europa orientale. La natura non
violenta dei movimenti rivoluzionari del 1989 portò al collasso verticale di istituzioni incapaci di reagire. Il
contagio rivoluzionario si trasmise in tempo reale a tutti i Paesi del blocco sovietico e pian piano gli Stati
iniziarono a distaccarsi. Iniziò la Polonia, poi fu la volta dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, ma il
passaggio fondamentale fu nel novembre del 1989 dove crollò il muro di Berlino, ma l’attenzione di Mosca
in quel momento era più incentrata sugli avvenimenti interni con l’elezione di El’cin (presidente russo dal
1991 al 1999), che di fatto portò nel 1991 al crollo formale dell’Unione sovietica.
“FATTORE UMANO” E LA GLOBALIZZAZIONE
Nessuno studioso aveva previsto la fine del comunismo, o un possibile sviluppo democratico nell’Europa
orientale in quanto la presenza sovietica risultava un ostacolo insormontabile, tuttavia al fondo di questo
errore di prospettiva stava la non comprensione dei processi di globalizzazione. All’origine della fine dei
regimi comunisti vi furono tutti quei processi economici-finanziari, come la dipendenza dell’Urss e
dell’Europa Orientale da merci, tecnologie e capitali occidentali, ma anche quelli culturali, tra i quali la
scelta di non violenza di Gorbacev.
Tradizionalmente la storia della guerra fredda è stata invece considerata alla luce di due approcci
fondamentali. Il primo è quello “essenzialista”, che va interpretato come lo sconto di essenze
“inconciliabili”: democrazia e comunismo, concepiti come sistemi concettuali monolitici. Il secondo
approccio alla storia della guerra fredda è quello “realista” che disdegna essenze poco reali per analizzare le
relazioni internazionali alla luce dei rapporti di forza fra gli Stati nazionali. La crisi dell’Urss secondo questa
scuola di pensiero è il risultato della pressione esercitata da Regan negli anni ’80 con le guerre stellari che
portarono il Cremlino a spendere a tal punto da rompere gli equilibri del bilancio sovietico e mettendo a
nudo la loro irrimediabile inferiorità e incapacità competitiva e in parte anche questo è vero. Tuttavia, ciò che
realmente causò un crollo così rapido dell’Urss fu il “fattore umano” cioè la decisione di Gorbacev di non
utilizzare la violenza, perché in realtà l’Urss aveva ancora un importantissimo esercito, ma la scelta umana
fece crollare sotto le rivolte pacifiche l’intero sistema dell’Urss, il quale probabilmente sarebbe crollato lo
stesso ma in maniera meno rapida. Sostanzialmente “l’uomo che cancellò il comunismo (ha scritto il
generale sovietico, Dmitri Wolkogonov) era uno che al comunismo credeva” cioè Gorbacev.
La fine dei regimi comunisti in Europa e in Asia centrale non fu quindi l’esito di un destino già scritto, né
unicamente il frutto di rapporti di forza con l’Occidente; fu un prodotto dei processi di globalizzazione
avviatisi almeno vent’anni prima.
ALTRI COMUNISMI
Il leader cubano Fidel Castro non era di origini comuniste, ma la sua rivoluzione era stata rivolta contro un
dittatore legato agli USA, che usava l’isola come una sua oasi di svago e di piacere, tuttavia in quel periodo
vi era un forte bipolarismo mondiale che spinse Cuba sotto l’ombrello protettivo dell’Urss. Negli anni ’80
Cuba dovette affrontare una grave crisi dovuta al crollo del prezzo dello zucchero e all’embargo al quale dal
1992 gli USA sottoposero le merci esportate dall’isola. Tuttavia, Cuba continuò a garantire ai suoi cittadini
un buon Welfare State, e le entrate principali derivano dal turismo, l’economia in quel periodo venne
liberalizzata.
In Cina invece le due figure più importanti erano Mao Zedong e Deng Xiaoping. Tra gli anni ’50 e ’60 la
Cina attraversò un crisi agricola senza precedenti, le vittime per denutrizione e malattie furono oltre 40
milioni. Tra Mao e il più prudente segretario del partito Deng Xiaoping si aprì allora un dissidio sui tempi e
sui modi della collettivizzazione, che vide prevalere nettamente il primo. Mao radicalizzò ancor di più la sua
politica: sul piano internazionale ponendo fine all’alleanza con l’Urss e rilanciando la lotta all’imperialismo
delle due superpotenze; sul piano interno lanciò la Rivoluzione culturale, Deng Xiaoping venne esiliato e
l’interno Paese precipitò nel caos; si stima che le vittime della Rivoluzione culturale siano ammontate
intorno al mezzo milione. Fu sostanzialmente un secondo fallimento che avvenne tra gli anni ’60 e ’70.
Questo clamoroso fallimento portò Mao a cambiare strategia, calmò tutti quelli che erano i moti rivoluzionari
e trasformò la Cina in un Paese diplomatico, aprendo addirittura le porte a dei cittadini statunitensi a Pechino
per la prima volta dal 1949. Nel 1976 la morte di Mao Zedong e del primo ministro aprirono a una
drammatica lotta per la successione, che si concluse nel 1978 con la nomina di Deng Xiaoping, che lo stesso
Mao aveva richiamato a Pechino, dopo averlo esiliato. Deng aprì una lunga fase di Rivoluzioni che
riuscirono a far uscire la Cina da una situazione molto difficile, la prima riforma riguardava l’Agricoltura
attraverso la liberalizzazione di prezzi e mercati (lasciando più spazio agli agricoltori), negli anni ’80, 250
milioni di cinesi uscirono da una condizione di povertà. Una seconda rivoluzione riguardava l’apertura ai
capitali stranieri nelle zone speciali della costa orientale prese piede alla metà degli anni ’90 e si tradusse in
potenti incentivi agli investimenti delle compagnie multinazionali, che potevano così usufruire di consistenti
vantaggi fiscali e sottrarsi ai vincoli imposti in patria, in questo modo anche molte persone si spostarono
dalle zone rurali per venire a lavorare in città alla ricerca di lavori urbani. Bisogna sempre ricordare però che
ci troviamo in un regime comunista, nel 1989 incoraggiati dall’esempio di Gorvacev, gli studenti
protestarono nella piazza di Tiananmen a Pechino, per ottenere maggiori libertà, il regime però rispose con
estrema durezza nella notte fra il 3 e il 4 giugno i carri armati occuparono la piazza seminando morti e feriti.
Il segnale fu chiaro: il comunismo cinese era pronto ad accordare un’ampia e anche caotica libertà di
movimento sul piano economico, senza però rinunciare a un ferreo controllo del partito-Stato sulla politica.
Recuperata la sovranità su Hong Kong nel 1997, l’economia cinese proseguì la sua corsa all’incremento,
seguendo un modello di crescita trainato dalle esportazioni. Ma la crisi del 2008 colpì duramente questo
sistema, Pechino si trovò costretta ad affrontare due problematiche, la prima era il protezionismo che gli stati
esteri (in primis gli Stati uniti di Trump) stavano mettendo in atto, la seconda problematica riguardava
l’espansione della domanda interna, spostando il baricentro dell’economia dagli investimenti ai consumi
privati.
La globalizzazione, quindi, aiuta quello che è il processo di democratizzazione, dove essa non è ancora
presente, anche la libertà diventa un fattore importante che inizia a farsi spazio anche in quei Paesi
caratterizzati da regimi, come la Cina che quanto meno ha concesso una libertà economica maggiore negli
ultimi anni.

CAPITOLO 4: LA LUNGA FINE DELLA GUERRA FREDDA


IL DOPO GUERRA FREDDA
Fino al 1989 il mondo era caratterizzato da un bipolarismo e ogni argomento era motivo di contrasto fra
l’America e la Russia, dalla caduta del muro di Berlino le cose cambiarono quel bipolarismo scomparve per
lasciare spazio alla nascita di diversi stati. In questo modo aumentò anche l’attivismo degli stati non più
condizionato da gli equilibri bipolari e volto a perseguire, con spregiudicata autonomia, obiettivi meramente
regionali e nazionalisti. La nuova fase di instabilità, dopo la fine della Guerra Fredda, contagiò
immediatamente il Medio Oriente. Il dittatore iracheno Saddam Hussein fu il primo ad approfittare del
collasso dell’Urss, nel 1990 Saddam decise di invadere il Kuwait, tuttavia subì una sconfitta viste che le
forze dell’ONU intervennero con dei bombardamenti per farlo ritirare e riuscirono nel loro intento, ma
Saddam ne uscì comunque indenne, ucciderlo avrebbe significato lasciare il controllo dell’Iran alla
minoranza sciita. La guerra del Golfo del 1990/1991 contro l’Iran, restituì dignità al ruolo dell’ONU e negli
Stati Uniti vide convergere due opposte correnti politiche, la prima unilateralista riconducibile alla destra
repubblicana (convinti che quella vittoria segnasse l’inizio del secolo americano all’insegna del ruolo di
guida da parte degli Stati Uniti), la seconda più vicina alla sinistra democratica (visione che puntava molto
sulla collaborazione fra gli Stati). Comunque sia, l’America era la prima potenza militare al mondo ed era la
prima volta nella storia che vi era un’egemonia così forte, basti pensare che l’America spende 280 miliardi in
spese militari contro i 57 della Russia che rappresenta la seconda potenza militare. Nell’America del post-
Guerra fredda nonostante la vittoria, Bush non fu rieletto, questo perché vi era negli USA ancora un basso
livello di Welfare State e un tasso di diseguaglianza tra i redditi molto alto. Questo favorì quindi la vittoria
del Democratico Bill Clinton che abbassò il livello di disoccupazione sotto il 5%.
Gli anni ’90 non furono semplici per la Russia, guidata da El ’Cin, la liberalizzazione dei prezzi e
l’inflazione spinse un quarto della popolazione russa sotto il livello di povertà, la Russia fu uno dei pochi
Paesi al mondo nel quale il livello di scolarizzazione peggiorò negli anni ’90. Nel 1990 l’Urss si collocava al
31esimo posto dell’indice di sviluppo umano, nel 1998 la Russia era solo al 62esimo posto. Nel 2000 le cose
iniziarono a cambiare con l’elezione di un ex ufficiale dei servizi segreti sovietici, Vladimir Putin. La Russia
di Putin era un connubio fra Stato e partito nel quale le opposizioni avevano poca voce in capitolo, come nei
precedenti regimi comunisti, distanziandosi quindi dalla storia russa dai Paesi democratici. In politica estera
invece rilanciò un nazionalismo, e basò l’economia su quelle che sono le risorse naturali della Russia quindi
gas e petrolio, rimaneva arretrato il settore industriale, ma il Pil pro capite passo dal 20% di quello degli Stati
Uniti al 40% un record storico anche rispetto alla storia dell’Urss, la Russia passò dal 62esimo posto per
indice di sviluppo umano al 50esimo nel 2014, un’evoluzione sicuramente significativa.
ISLAMISMI E NAZIONALISMI
Dopo la guerra del Kippur i movimenti islamisti più forti si erano sviluppati in Malesia, nel Pakistan, nel
Sudan e in Egitto, l’unico vero stato islamico rimase comunque l’Iran. Un altro aspetto da tenere in
considerazione è l’islamizzazione del conflitto del Libano che si estese alla Palestina.
La terra contesa fra israeliani e palestinesi è stata teatro di tensioni e violenze fra arabi ed ebrei fin dai tempi
del mandato britannico, che nel 1917 mise fine a 400 anni di dominio ottomano. Con la dichiarazione di
Balfour il governo di Londra dichiarò allora di appoggiare una “patria nazionale ebraica in Palestina”,
sostenendo gli ideali sionisti di Theodor Herzl. La dichiarazione diede un’ulteriore spinta ad un movimento
di immigrazione in Palestina già in atto fra gli ebrei della diaspora, frutto della dispersione del popolo
ebraico avvenuta durante i regni di Babilonia e sotto l’Impero Romano. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e
lo stermino di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti, l’Assemblea generale dell’ONU approvò un piano di
partizione della Palestina, con la costituzione di uno stato ebraico e un altro arabo. Da qui prese vita quello
che oggi conosciamo come conflitto israelo-palestinese. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 il controllo
di Gaza fu assegnato dall’armistizio del 1949 all’Egitto, che lo mantenne - tranne una parentesi durante la
crisi di Suez del 1956 - fino alla successiva Guerra dei sei giorni del 1967, quando questo territorio venne
militarmente occupato da Israele. L’occupazione israeliana durò fino al 2005, quando il primo ministro Ariel
Sharon decise il ritiro delle forze di Tel Aviv dalla Striscia. Nel 2006 Hamas - organizzazione politica,
sociale e militare palestinese vicina alla Fratellanza Musulmana, considerata “terroristica” da Israele e Stati
Uniti - vinse le elezioni politiche in Palestina. Fu formato inizialmente un governo di unità nazionale con
Fatah, il partito storicamente al potere in Palestina, ma violenti scontri tra le due fazioni fecero rapidamente
collassare l’esecutivo. Nel 2007 Hamas prese il potere a Gaza, mentre Fatah in Cisgiordania (il territorio più
vasto, 5.650 km quadrati, controllato almeno in parte dalle autorità palestinesi), e da allora la situazione
politica palestinese non si è più sbloccata.
In Algeria l’islamismo politico crebbe nell’emarginazione delle periferie e nella miseria delle campagne, il
Paese era tra i peggiori per l’indice di sviluppo umano, con delle differenze di reddito tra i più ricchi e i più
poveri spaventose, questa situazione portò a duri scontri e violenze che costrinsero il Fln (il fronte di
liberazione nazionale) a introdurre sul modello dell’Urss, un pluralismo partitico, nel 1989. Nel 1992 il
Fronte islamico vinse largamente le elezioni, ma per tutta risposta il Fln invalidò le elezioni, bloccando il
processo di democratizzazione. Gli anni seguenti furono caratterizzati da massacri da parte degli islamisti e
dal Fln, che iniziarono una sorta di guerra civile, che finì solo nel 2005 con l’amnistia del nuovo presidente
Bouteflika, nel 2011 venne abrogato lo Stato di assedio. La breve parentesi democratica degli anni ’80 in
Algeria rimase quindi incompiuta e la situazione non è migliorata molto negli ultimi anni.
Anche in Turchia venne eletto nel 2003 un partito islamico sotto la guida di Erdogan, come successo in
Algeria anche questo partito raccolse sostanzialmente lo scontento popolare contro l’establishment politico e
militare, erede della tradizione di nazionalismo laico risalente ad Ataturk. Il governo di Erdogan si distinse
per il crescente autoritarismo interno e una severa repressione dell’autonomismo curdo, che ne divennero i
tratti di fondo e congelarono le trattative avviate per l’ingresso del Paese nell’UE.
La tendenza alla ripresa delle identità religiose oltrepassò i confini dell’Islam. Per esempio, l’India fino agli
anni ’90 si era mossa su un modello di economia stabilizzata, su una politica di equilibrio tra caste e
confessioni religiose perseguite dal tempo di Gandhi. Fino al 1991 però l’india era sottoposta alle condizioni
limitative del Fondo monetario internazionale, in quanto il debito Indiano era il terzo del mondo. Queste
condizioni, tuttavia, non era accettate dal partito del popolo indiano (che era un partito religioso induista).
Questo partito riuscì a vincere le elezioni del 1998 iniziando un processo di rilancio dell’energia nucleare,
una lotta alla corruzione e un rilancio generale dell’economia. Pur essendo un governo nazionalista, non pose
fine alla cauta apertura dell’India alla globalizzazione mondiale, iniziò così un periodo di grande crescita
economica per l’India, che non era ai livelli della Cina. La crisi del 2008 però colpi in maniera minore
l’India, che infatti continuò a crescere economicamente, infatti la forza dell’India è che esportava non
manifatture, ma soprattutto servizi avanzati (telecomunicazioni e software), inoltre sulla crescita del Paese
influì molto un buon sistema universitario. Tra i risvolti maggiormente positivi dell’Hindu Equilibrium vi era
una minore ineguaglianza fra i cittadini. Inoltre, il numero di persone sotto la soglia di povertà tra il 1984 e il
2010 si abbassò da 400milioni a 150milioni.
NUOVE GUERRE
Adesso abbiamo visto alcuni esempi in cui la religione è tornata ad influire sull’ambito politico, tuttavia per
quanto riguarda l’islam ad agire da catalizzatore è stato l’Afghanistan. Nel 1994 infatti il gruppo pashtun dei
taleban (studenti di religione) riuscì a conquistare la capitale Kabul, instaurando un regime islamista con una
rigida applicazione della Sharia. Nella regione orientale del Paese invece, al confine con il Pakistan,
risiedeva Osama bin Laden, figlio di una ricca famiglia, il quale si era distinto nella lotta antisovietica. Bin
Laden fondò un’organizzazione il cui scopo era di imporre agli USA una disfatta come quella dell’Urss. Alla
sua rete organizzativa (Al Qaeda) vennero attribuiti molti attentati terroristici. Infatti, in questo periodo
assistiamo a un nuovo tipo di conflitti, che sono le “guerre asimmetriche”, conflitti con una forte differenza
fra le forze in campo giocati con delle armi non tradizionali, come: virus informatici per attaccare le reti
nemiche o speculazioni finanziarie oppure ancora batteri e tossine per seminare il panico nella popolazione.
Già nella guerra dei Balcani una studiosa inglese iniziò a notare quattro fondamentali differenze fra le guerre
attuali e quelle passate: il primo è che i nuovi conflitti sono originati dal crollo di uno Stato, la seconda
differenza è il mancato esercizio del monopolio della violenza da parte dello Stato con un conseguente
avvento di bande paramilitari, la terza è che queste bande sono interessate alla conquista di una ristretta
porzione di territorio e la quarta è che l’obiettivo di queste bande paramilitari non è la pace, ma il
mantenimento di uno stato di guerra ad oltranza che permetta loro l’esercizio del terrore più a lungo
possibile. Un’altra caratteristica analizzando i dati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale è che a
dominare la scena dei conflitti sono le “guerre internal” quindi guerre civili ed etniche che non sono mai
scese sotto il 50% del totale e che dal 1975 hanno quasi sempre superato il 90% del totale. Inoltre, l’86%
delle guerre attuali è situata fra Africa, Medio Oriente e Asia, e l’incapacità di perseguire politiche inclusive
e paritarie mostrata dalle istituzioni postcoloniali è stato spesso uno dei motivi del perpetuarsi delle nuove
guerre nel tempo. Un ultimo aspetto da analizzare è che ovviamente il numero di vittime civili con la
diffusione di queste guerre asimmetriche è arrivato a toccare punte del 80% del totale.
Un ruolo fondamentale per arginare i danni è stato svolto dalle missioni di peacekeeping inviate dall’ONU
con truppe fornite dai Paesi membri per mantenere una sorta di pace e soccorrere i civili rimasti coinvolti nei
conflitti. Spesso però gli interventi dell’ONU si dimostrano davvero complicati da attuare, per esempio in
Somalia nel 1991 un colpo di Stato militare rovesciò il governo, ma il Paese rimase in mano a diversi capi
militari che combattevano fra loro, così l’ONU decise di intervenire, nel 1993 furono mandate delle truppe
che tuttavia si dovettero ritirare dopo aver lasciato sul campo 20 militari americani. Vi furono delle lunghe
mediazioni, le truppe dell’ONU attraverso anche a un governo in esilio riuscirono a sconfiggere le truppe
islamiste e a conquistare la capitale Mogadiscio, fino a quando nel 2012 si formò un governo federale dopo
lunghe pressioni da parte dell’ONU. Un intervento quindi durato diversi anni e molto complicato, ma questo
era solo un esempio delle molte guerre civili che vi erano nel mondo, tra le principali ricordiamo quella del
Rwanda e del Burundi. Per quanto siano più caotiche e ingovernabili delle vecchie, anche le nuove guerre
possono essere sconfitte dalla ricostruzione di un’autorità statale che, nei metodi di esercizio della forza e nei
rapporti con le popolazioni civili, sappia distinguersi radicalmente dai metodi usati dalle bande ribelli.
I TERRORISMI
Dal 2001 in poi lo studio del fenomeno del terrorismo aumentò, è così divenuta prassi comune distinguere
fra quattro fasi e tipologie del fenomeno: quella anarchica dell’Europa della fine dell’800, quella
anticoloniale nell’Africa e nell’Asia degli anni Venti del Novecento, quella guerrigliero politica diffusa in
America Latina, in Europa e nel Medio Oriente negli anni ‘60/70 e infine quella globale a carattere religioso
a cavallo della fine del secolo. Le cause di questi attenti possono essere diverse da quelle politiche a quelle
religiose fino a quelle nazionalistiche. Gli attentati dell’11 settembre 2001 rappresentano un salto di quantità,
ma non di qualità degli attenti, l’errore fondamentale fu quello di considerare questo attentato come una
dichiarazione di guerra e non come un semplice attentato da parte di Bin Laden. Il risultato fu un’offensiva
militare (vecchio stile) da parte degli USA contro l’Afganistan, gli americani bombardarono pesantemente
fino a quanto i Taleban non si ritirarono, ma il tentativo di portare un modello democratico in una realtà
come quella afgana si dimostrò davvero complicato, che si scontrò contro una tradizione fondata su clan
familiari guidati da anziani a cui era estraneo il concetto di democrazia e di Stato. Nel 2011 le forze speciali
riuscirono a catturare Osama bin Laden, ma l’Afganistan rimase ben lontano dalla pace. La guerra in
Afganistan non fu l’unico errore del Governo Bush che nel 2003 infatti iniziò una lotta contro l’Iraq
sostenendo che Saddam Hussein era alleato di Osama bin Laden e aveva inoltre armi di distruzione di massa.
L’ONU non appoggiò militarmente le forze angloamericane che si mossero ugualmente e conquistarono
Baghdad, quel facile successo si spiega con il ritiro in clandestinità dei reparti rimasti fedeli a Saddam, che
negli anni successivi furono protagonisti di una crescente e sanguinosa resistenza terroristica.
Nonostante le prime elezioni libere della storia irachena tenute nel 2005 e l’uccisione di Saddam Hussein nel
2006 gli attacchi terroristici continuarono, tale resistenza che aveva anche legami con Al Qaeda si trasformò
in una nuova guerra. Altro evento storico fu nel 2013 quando l’Arabia Saudita, che era da sempre un alleato
contro il terrorismo per gli Stati Uniti, rinunciò al suo seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU,
affermando di non fidarsi più degli Stati Uniti, questa mancanza di fiducia era una conseguenza
dell’inclinazione dei rapporti dovuta alle origini saudite degli attentatori del 2001, che fecero diffidare
dall’alleanza dell’Arabia. Nel 2014 un nuovo soggetto autoproclamatosi come Stato Islamico, conquistò una
larga area dell’Iraq settentrionale, sconfiggendo più volte l’esercito iracheno, è insomma possibile che dietro
l’Isis (Islamic State of Iraq and Syria) vi fosse il segreto appoggio dell’Arabia Saudita. Tra il 2014 e il 2016
l’area controllata dall’Isis si estese in Iraq e Syria, ma anche grazie ai raid aerei di USA, Francia e Russia
venne infine riducendosi. Gli attentati comunque non si arrestarono, ma erano diventati semplici attacchi
isolati e sconnessi, senza un reale progetto.
Ma il mondo islamico non era solo terrorismo, con un meccanismo di contagio simile a quello dell’Europa
orientale del 1989, nel 2011 si sviluppò un ciclo di agitazioni sociali in Tunisia, Egitto, Yemen e Syria, che i
media occidentali definirono come “primavere arabe”.
Le proteste hanno colpito non solo paesi arabi, ma anche alcuni Stati non arabi, come nel caso della
Repubblica Islamica dell'Iran, che ha in un certo senso anticipato la primavera araba con le proteste post-
elettorali del 2009-2010; i due casi hanno in comune l'uso di tecniche di resistenza civile, come scioperi,
manifestazioni, marce e cortei e talvolta anche atti estremi come suicidi, divenuti noti tra i media come
autoimmolazioni, e l'autolesionismo. Anche l'utilizzo di social network come Facebook e Twitter per
organizzare, comunicare e divulgare determinati eventi è stato molto diffuso, a dispetto dei tentativi di
repressione statale. La Primavera araba ha avuto lo scopo di portare o riportare le tradizioni del mondo arabo
al potere. I fattori che hanno portato alle proteste iniziali sono numerosi e comprendono la corruzione,
l'assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e la mancanza di interesse per le condizioni di
vita, molto dure, che in molti casi sfiorano la povertà estrema.
Più che essere uno scontro di civiltà tra Islam e Occidente, l’11 settembre aprì una fase di prolungati conflitti
nel mondo mussulmano, dovuta all’esaurirsi del ciclo dei regimi militari laici nati dopo la decolonizzazione
rivelatisi incapaci di garantire benessere e libertà. La transizione di questo mondo alla democrazia risultava
un processo assai complicato, era difficile in particolare immaginare un processo di separazione fra Chiesa e
Stato simile a quello verificatosi in Occidente.
L’EUROPA
All’inizio degli anni ’90 il processo di creazione dell’Unione Europea ebbe una notevole accelerata, con gli
accordi di Maastricht del 1992 era prevista l’entrata in vigore di una moneta unica che fu poi adottata da tutti
i paesi dell’UE nel 2002 ad eccezione della Gran Bretagna che mantenne la sterlina al posto dell’euro che
adottava tutta l’Europa. L’adozione dell’euro semplificò i rapporti fra gli Stati agevolando i commerci, i
quali furono anche aiutati dalla rimozione delle dogane e dalla libera circolazione delle persone all’interno
dell’Europa. I cittadini europei erano anche abituati al concetto di istituzioni europee, ma le guerre degli
ultimi 10 anni in particolare quella ucraina del 2014, misero in evidenza la ridotta capacità di manovra
dell’Europa unita rispetto agli Stati Uniti, anche su un piano meramente militare. Nel 2005 il progetto di una
Costituzione Europea fallì, allora per rimediare al problema si diede, almeno sulla carta, più peso agli
organismi comunitari. Ma la crisi finanziaria del 2008 mise in crisi la stabilità europea, questo perché
innanzitutto, l’Unione Europea ci mise molto tempo a riprendersi economicamente e poi perché emerse una
frattura interna nell’Europa tra Paesi a basso debito pubblico come la Germania e l’Olanda e Paesi
contraddistinti da una situazione opposta, quali Spagna, Italia e Grecia. Questa distinzione aveva origini di
circa 30 anni prima, la Germania del democristiano Kohl aveva conquistato la leadership europea attraverso
un piano economico basato sulla rigida difesa del Marco contro l’inflazione, che era stata possibile da
sacrifici gravati sui lavoratori precari immigrati. La leadership della Germania in Europa è sempre stata
indiscussa, solo la Gran Bretagna del 1997 con Tony Blair riuscì a competere per un periodo con tale
leadership, in quanto il piano economico basato su rigore di spesa e protezione sociale, ebbe effetti molto
positivi ed immediati, l’occupazione riprese a crescere. A segnare il destino politico di Blair fu il
coinvolgimento attivo nella guerra in Iraq. Infatti, nel 2011 i conservatori tornarono al potere con David
Cameron, che però impose e perse nel 2016 un referendum per rimanere all’interno dell’UE. La Brexit
rappresenta il primo importante successo delle forze antiglobali. In questo periodo furono molti i partiti che
erano critici verso il processo di globalizzazione e che fanno leva sull’incapacità dei governi attuali di gestire
tale processo, a dimostrazione della forza di questi partiti, perfino in America nel 2016 vinse Donald Trump,
un politico completamente contrario al concetto di globalizzazione.

CAPITOLO 6: SCENARI
L’INEGUAGLIANZA E LA GLOBALIZZAZIONE
Oggi per calcolare i livelli di ineguaglianza e di povertà ci avvaliamo di alcuni metodi e mezzi di calcolo. La
prima distinzione è tra ineguaglianza Within e Between countries: tra ricchi e poveri di una stessa nazione e
tra i redditi pro capite dei diversi Paesi. La prima è misurata su quelli che sono i bilanci domestici, mentre
l’ineguaglianza fra le Nazioni è invece misurata dalla differenza fra Pil pro capite dei bilanci nazionali
(questo è solo uno dei metodi di calcolo ma ci sono molti altri metodi che possono essere utilizzati). Questo
primo concetto di ineguaglianza indica quanto un cittadino medio di un Paese sia più ricco di quello di un
altro Paese. L’indice Gini, infine, ci dice (che va da 0 a 1) se e quanto l’ineguaglianza between countries sia
aumentata o diminuita. Ovviamente nell’effettuare questi calcoli bisogna tenere in considerazione diversi
elementi, per rendere il più reali possibili i dati che si ottengono.
Da questi studi abbiamo ottenuto dei risultati certi, il primo è che le trasformazioni industriali del 1800
invertirono il rapporto tra ineguaglianza within e between countries. Mentre la prima aumentava di poco, la
seconda diventava enorme, accentuata dallo scambio ineguale imposto dagli imperi coloniali. Un secondo
elemento è che nel 1900 con la nascita del Welfare State l’ineguaglianza interna ai singoli Paesi è stata
contenuta. Un terzo elemento è che con la decolonizzazione, molti Paesi più poveri iniziarono a crescere in
maniera esponenziale ad un ritmo mai visti nel corso della storia, inoltre per la prima volta dalla Rivoluzione
industriale assistiamo a un rallentamento della crescita demografica, molti stati infatti per favorire la crescita
economica hanno imposto dei controlli demografici o dei controlli sulle nascite, come l’esempio della Cina.
L’unica eccezione a questo sviluppo era l’Africa sub sahariana che continuava ad avere tassi di natalità
altissimi, e uno sviluppo quasi inesistente.
La globalizzazione è quindi una condizione necessaria per lo sviluppo di tutti i Paesi del mondo, e di una
convergenza di tutte le Nazioni ad un livello simile di benessere, tuttavia non è condizione sufficiente. Basti
guardare l’esempio dei Paesi asiatici come India e Cina, la loro crescita è dovuta sicuramente, in parte,
all’apertura dei loro mercati, ma ciò che ha davvero permesso la loro crescita è la maggiore uguaglianza
sociale e la precoce scolarizzazione. La Riforma agraria e la scolarizzazione di massa spiegano la crescita
economica rapida che ha caratterizzato l’economia dei Paesi in via di sviluppo, la loro crescita è stata molto
più rapida di quella avvenuta durante la Rivoluzione industriale dell’Inghilterra questo perché, la
Rivoluzione inglese si basava su delle forti ineguaglianze, che non permisero uno sviluppo rapido come
quello dei Paesi in via di sviluppo attuali. A conferma di questo dato possiamo citare l’esempio dell’America
Latina nella quale la forte diseguaglianza interna sfavorisce la domanda interna creando così un freno alla
crescita economica. A sfavorire la crescita dall’Africa invece è il basso prodotto lordo, correlato al basso
valore aggiunto del settore agricolo, inoltre a differenza dell’Asia, nella quale il Giappone ha rappresentato la
Nazione conduttrice, che grazie alla sua domanda alta riuscì a far crescere le nazioni che aveva in torno,
sostanzialmente è stato il Paese trainante dell’Asia per la crescita economica, in Africa manca
completamente un Paese che attraverso la sua domanda permetta alle altre nazioni di produrre e crescere
economicamente.
INEGUAGLIANZA E POVERTÀ
Fino a qualche decennio fa la diseguaglianza era vista in maniera positiva dagli stati più sviluppati, questo a
causa di uno studio realizzato da Simon Kuznets il quale analizzò tra loro i trend secolari di Gran Bretagna,
Germania e Stati uniti, ricavandone un modello a forma di U rovesciata. In tutti e tre i Paesi l’ineguaglianza
aumentava nel corso del processo di industrializzazione fino a toccare il proprio apice quando il settore
manifatturiero superava quello agricolo, per poi ridiscendere con la diffusione dei consumi. Tuttavia, il
modello venne messo in dubbio da due fenomeni che caratterizzano il mondo recente e che mettono in luce
delle incongruenze con la teoria di Kurnets, il primo fenomeno è la ripresa dell’ineguaglianza negli USA
degli anni ’80, il secondo fenomeno è la diffusione dell’uguaglianza in Asia che ha condotto quel continente
a una crescita mai vista prima.
I livelli di ineguaglianza che sono iniziati a rialzarsi negli anni ’80, furono dovuti, al mutamento del mondo
del lavoro nel quale erano sempre più importanti le differenze retributive fra i lavori specializzati e non
specializzati, addirittura la tecnologia sta pian piano eliminando quelli che sono i lavori non qualificati
aumentando questa differenza. Negli anni 2000 qualcosa però è cambiato, secondo quello che abbiamo detto
fin ora l’ineguaglianza con la specializzazione del lavoro sarebbe dovuta aumentare, invece con il nuovo
millennio i tassi di diseguaglianza ripresero ad abbassarsi e un ruolo determinante in questo cambiamento è
stato giocato dalla Cina. Tra il 1990 e il 2012 800 milioni di persone uscirono da uno stato di povertà e
questo dato pesò notevolmente sul calcolo mondiale dei tassi di diseguaglianza, in generale nell’ultimo
ventennio la diminuzione dei poveri in Cina e in India ha spostato il baricentro di povertà mondiale verso
l’Africa. A conferma di questa affermazione vi sono gli studi realizzati dalle Nazioni Unite che dimostrano
come, l’Africa sia l’unico continente nel quale il numero delle persone in stato di povertà è aumentato in
cifre assolute di 51 milioni. Alcuni studi sulla povertà sono stati realizzati anche dalla banca centrale, da tali
studi è emerso che le condizioni dei poveri della Terra presentano dei tratti comuni: vivono tutti con circa 1,9
dollari al giorno, posseggono 2-3 ettari di terreno da coltivare (in nero) che sono essenziali per la
sopravvivenza i quali però potrebbero essergli portati via da compagnie che acquistano il terreno in modo
regolare, i veri poveri quindi non sono i migranti che in realtà già solo per affrontare il viaggio hanno più
possibilità economiche, ma i veri poveri sono i contadini e gli abitanti degli slums, che si ingegnano per
migliorare la loro vita. Non bisogna tuttavia pensare che i poveri esistano solo in Africa o in alcune parti
dell’Asia, i poveri sono presenti anche nei Paesi più sviluppati.
LA LOTTA AL SOTTOSVILUPPO
Nel 1980 il Paese più povero al mondo era l’Etiopia martoriata dalle carestie e dalle guerre civili, nel 2014 il
suo posto venne occupato dalla Repubblica centrafricana, il cui reddito era 91 volte inferiore a quello degli
USA. Con la globalizzazione assistiamo a una convergenza dei redditi, ma era chiaro che l’Africa faceva
fatica ad inserirsi economicamente sul piano mondiale, basti pensare che dei 42 Paesi classificati dall’ONU a
“basso sviluppo umano” ben 36 erano africani. A penalizzare il continente sono in primo luogo le condizioni
climatiche e i fattori geografici che non facilitano lo sviluppo, basti pensare anche solo alla carenza d’acqua
del continente africano, un aspetto che non può che penalizzare, inoltre nel corso degli anni l’Africa è stata
colpita da diverse epidemie che hanno messo in ginocchio l’economia di alcuni Paesi, come visto
nell’esempio precedente con l’Etiopia. Ma a distinguere in negativo il continente africano è stata soprattutto
la cattiva qualità della vita politica. La fragilità degli Stati africani ha origini antiche, a partire dalla
spartizione delle terre dei coloni che tracciarono i confini delle nazioni a tavolino, senza tenere conto delle
reali differenze etniche, linguistiche e di religione, tali confini vennero mantenuti anche nel momento
dell’indipendenza di questi Stati. Già dagli anni ’60 inoltre vi furono una sequenza di colpi di Stato e guerre
civili che non facilitarono gli investimenti dei Paesi esteri, è solo negli anni ’90 che la terza ondata di
democrazia ha contagiato almeno in parte l’Africa. Molti stati africani tentarono la strada di
un’industrializzazione accelerata, togliendo risorse alle popolazioni rurali, in questo modo però ne derivò un
conflitto tra campagne e città, A queste lotte si sovrapposero spesso anche divisioni etniche che potevano
trasformarsi in fretta in delle guerre vere e proprie.
A peggiorare ulteriormente l’economia dell’Africa fu la scoperta dei fertilizzanti nei Paesi maggiormente
sviluppati, i quali iniziarono una sorta di “Rivoluzione verde”, che causò una sovrapproduzione e quindi un
abbassamento dei prezzi dei beni agricoli, così facendo però l’economia africana che era basata sull’attività
agricola e l’esportazione delle materie primi entrò in crisi ancor di più peggiorando le condizioni di vita degli
agricoltori. Le classi dirigenti dei Paesi poveri, per rialzare l’economia si trovarono davanti a un dilemma:
accettare i massicci prestiti esteri e curvare la produzione agricola a favore delle esportazioni, o sviluppare
l’agricoltura di base alla domanda interna? Ma in realtà questa seconda ipotesi era di difficile attuazione
perché i servizi essenziali come la scuola e la sanità non potevano aspettare i tempi di una crescita equilibrata
del settore agricolo con un rispetto dell’ambiente. Fu così che praticamente tutti gli Stati accettarono i
prestiti, con gravi conseguenze, che furono dovute al rialzo dei tassi di interesse statunitensi alla fine degli
anni ’70 che fecero decollare i debiti di questi paesi poveri alle stelle. Fu solo grazie a un vasto movimento di
opinione pubblica a favore della cancellazione di questi debiti che nel 1996 il Fondo monetario iniziò un
processo di rinegoziazione e allungamento temporale dei pagamenti che nel 2013 riuscì a ridurre gli interessi
da pagare all’8% del valore delle esportazioni.
UN EQUILIBRIO INSTABILE
L’equilibrio mondiale era un processo molto complesso e che è sempre altamente instabile. Per esempio, gli
Usa erano di fatto usciti sconfitti dalle ultime tre guerre intraprese (Vietnam, Afganistan e Iraq) e parevano
rinunciare al loro ruolo di guida globale, la Cina che era la candidata numero 1 per prendere il posto degli
Stati Uniti faticava a proiettarsi nel ruolo di Nazione leader, la Russia invece perseguiva una politica estera
che la allontanava dai Paesi dell’Europa, anche se il 75% della popolazione viveva nella parte della Russia
più vicina all’Europa.
La vicenda della globalizzazione di fine Ottocento fu un precedente storico importante, infatti i flussi di
persone, di merci e di informazioni, per quanto siano un processo naturale posso essere arginati dalla politica
ed è quello che avvenne del primo decennio del XX secolo. Esistono oggi dei segnali non sottovalutabili di
una possibile deglobalizzazione nel prossimo futuro. Alle legislazioni nazionali restrittive dei flussi migratori
si aggiungono le minacce di chiusure protezionistiche da parte della nuova presidenza degli Stati Uniti, il
complicato trapasso dell’economia cinese da uno sviluppo trainato dalle esportazioni a uno fondato sulla
domanda interna e le incognite che gravano sul processo di integrazione europea. L’equilibrio mondiale
come possiamo notare c’è ma è fragile e presenta dei punti di incertezza, a partire dalla posizione americana,
che è la Nazione leader a tutti gli effetti dal 1945 ad oggi, ma la sua leadership ad oggi sembra più incerta e
meno spregiudicata all’uso della forza rispetto al tempo della guerra fredda e portatrice di una egemonia
culturale difficile da diffondere, tra il rispetto dei diritti umani e la prosperità consumistica. La Cina invece
ha rinunciato al sogno di una rivoluzione mondiale ed esercita un ruolo diplomatico cresciuto assieme alla
sua potenza economica. Nel giro di qualche anno il Pil cinese supererà quello Statunitense, ma la sua politica
estera appare ancora oscillante e incapace di rappresentare una nazione leader, come quella cinese. La terza
potenza a giocare un ruolo fondamentale negli equilibri mondiali è la Russia di Putin, il quale sembra
inseguire un disegno più organico e coerente con la politica estera, paradossalmente frutto di una economia
domestica più delle altre dipendenti dall’estero per le esportazioni di Gas e petrolio e per l’importazione di
tecnologie.
Tratti comuni di queste diverse politiche nazionali sono: la rinuncia a qualsiasi progetto di ordine globale e il
focalizzarsi su obiettivi a breve termine e a dimensione regionale. L’ordine nazionale si trova così davanti a
un paradosso: la sua prosperità dipende dal successo della globalizzazione, ma tale fenomeno produce una
reazione politica che spesso agisce contro le sue aspirazioni.
Vedi pagina 186 e 187 per le conclusioni finali dell’autore e le prospettive future possibili.
IL CASO ITALIANO
Nel ’68 iniziò in Italia come nel resto del mondo una grande Rivoluzione sociale, dovuta a un cambio di
mentalità tra i giovani rispetto alla generazione dei propri genitori. Per fare alcuni esempi gli italiani che
andavano a messa scesero del 62% al 32%, i matrimoni diminuirono e l’età si alzava dei futuri sposi, altro
tasso importante da notare è la diminuzione del tasso di natalità.
Gli anni ’70 invece furono caratterizzati da una situazione politica incerta e dalla figura delle Brigate rosse,
un gruppo clandestino armato che voleva instaurare una rivoluzione in Italia attraverso l’uso della violenza.
Tuttavia, le forze politiche si coalizzarono grazie al progetto di Enrico Berlinguer leader del partito
comunista, che nel 1973 propose un’alleanza fra i partiti italiani per combattere il terrorismo. Il suo progetto
sembrava realizzarsi con le elezioni del 1976 che videro sorgere una sorta di bipolarismo partitico, (con la
Dc e Pci) che avrebbero dovuto collaborare, ma che in realtà alla fine non riuscirono mai ad accordarsi. Ma
gli anni ’70 sono caratterizzati anche dalla crisi economica del 1973 che l’Italia guidata dai democristiani
affrontò indebitandosi sempre di più, una tendenza che non riuscì ad essere invertita nemmeno dai governi
successivi, la disoccupazione salì dal 6% al 10% e con l’emissione di Bot il debito non poteva che aumentare
sempre di più. Ad aggravare la situazione, l’Italia era l’unico Paese europeo privo di alternanza al governo e
questo facilitava la corruzione e molti furono gli scandali che fecero parlare del Bel Paese per questo
fenomeno. Negli anni ’80 invece iniziò quella che i sociologi chiamano “terza Italia” un periodo
caratterizzato da grandi innovazioni e dallo sviluppo delle piccole e medie imprese, questo periodo permise
la crescita del Pil italiano. Ad aiutare lo sviluppo di queste piccole imprese era la sfiducia che i cittadini
avevano verso il governo e che li spingeva a mettersi in proprio, inoltre in quel periodo aumentarono
notevolmente gli studi riguardanti le ricerca di mercato che aiutavano i piccoli e medi imprenditori a capire
come, cosa e quanto produrre. Nella terza Italia “era come se gli italiani avessero deciso di farsi da sé, senza
più preoccuparsi dell’Italia” non a caso dal 1987 la partecipazione elettorale prese a calare e fino ad oggi
quel trend non si è mai arrestato.
Il lavoro è un elemento fondamentale del nostro Paese non a caso l’Art. 1 della Costituzione fonda la
Repubblica democratica italiana sul lavoro, tuttavia in Italia nell’ultimo periodo assistiamo a tassi di
disoccupazione soprattutto fra i giovani e le donne molto più elevati rispetto al resto d’Europa, a definire
questa situazione è la forte tutela dei lavoratori e l’età media elevata nel quale i lavoratori italiani vanno in
pensione, così facendo i posti per i giovani vengono meno e con la crisi del 2008 questo dato si è aggravato
sempre di più arrivando a un tasso di disoccupazione giovanile del 36% contro il 6.5% della Germania.
Dopo la caduta del muro di Berlino la situazione politica era complessa, diversi scandali colpirono l’Italia, i
reati di corruzione fecero ritirare diversi partiti, Craxi fu costretto a rifugiarsi in Tunisia e il leader
democratico Andreotti venne incriminato per collusione con la mafia ( nel 1999 venne poi assolto). In questo
clima emerse la figura di un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi che con il suo partito raccolse i voti
che erano di Pci e di Dc ottenendo una maggioranza elettorale che gli permise di diventare premier.
Negli ultimi 20 anni si sono susseguiti governi di destra e di sinistra ma mai nessuno di essi è riuscito a far
diminuire il debito pubblico italiano. In questo periodo poi c’è da tenere in considerazione l’importante
svolta rappresentata dall’ingresso della moneta unica europea. I problemi italiani legati al sistema
giudiziario, alla corruzione, alla disoccupazione e molti altri sono ancora oggi dei problemi del tutto attuali e
di difficile risoluzione.

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