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Alberto Alesina

Francesco Gavazzi

LA CRISI
Può la politica salvare il mondo?

—1—
il Saggiatore

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Si ringraziano Dorian Carloni e Giampaolo Lecce
per l'eccellente aiuto nel reperire i dati.

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Sommario

Introduzione 9
Problemi difficili non hanno soluzioni facili

1.La crisi finanziaria: che cosa è successo 23

2.A cosa serve la finanza 57

3.I vantaggi della globalizzazione 77

4.L'euro non è il diavolo 99

5.Non ci sono miracoli 113

6.Il mondo salvato dalla politica? 133

Introduzione Problemi difficili non hanno soluzioni

—4—
facili

Lo ripeteva spesso Rudiger Dornbusch, uno dei più


grandi economisti del dopoguerra, prematuramente
scomparso: i problemi difficili hanno soluzioni facili.
Peccato siano quasi sempre sbagliate. Lo stiamo spe-
rimentando oggi. Di fronte alla grave crisi finanziaria
che ha travolto l'America e poi l'Europa, si sono subito
fatte largo analisi e soluzioni semplicistiche: il capi-
talismo è finito, lo stato deve tornare a guidare l'eco-
nomia, la finanza va imbrigliata, la globalizzazione fre-
nata. In altre parole, rimettiamo le cose in mano ai po-
litici e affidiamoci alla loro benevolenza, onestà e chia-
roveggenza. Sembra all'improvviso irrilevante che in
molti paesi - e certamente in Italia - i politici spesso
rispondano a pressioni di specifiche lobby e a interessi
economici particolari, ragionino sul breve periodo a
scapito delle future generazioni, in qualche caso siano
perfino corrotti, che il settore pubblico sia spesso inef-
ficiente e sperperi il denaro dei contribuenti, che più

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La crisi

stato significhi anche più tasse. «Restituiamo allo stato


un ruolo egemone perché il capitalismo è finito.» Ecco
una soluzione semplice, peccato che, appunto, sia
sbagliata.
Una delle pochissime modernizzazioni avvenute in
Italia dal dopoguerra a oggi risale agli anni novanta, e
consiste nell'aver reso l'economia autonoma dalla po-
litica. Dopo decenni di intervento pubblico nell'eco-
nomia, oggi Iri, Efim, casse di risparmio e il Ministero
delle partecipazioni statali ci sembrano istituzioni di un
altro secolo. Dall'inizio degli anni novanta imprese e
banche sono state sottratte all'influenza diretta della
politica e lo stato ha affidato la regolazione dei mercati
ad autorità indipendenti, così come avviene in ogni
economia di mercato: Antitrust, Banca d'Italia, Consob,
Autorità per l'energia. Oggi l'autonomia dell'economia
dalla politica è di nuovo in pericolo.
La crisi finanziaria attuale è più grave del previsto. Sui
rischi del mercato immobiliare americano moltissimi
economisti avevano lanciato campanelli d'allarme già nel
2005-2006; per rendersene conto basta sfogliare le
pagine dell'Economist o del Financial Times di quel periodo.
Da tempo economisti e organizzazioni internazionali -
come il Fondo monetario internazionale e la Banca dei
regolamenti di Basilea - avevano individuato nello
scarsissimo risparmio delle famiglie americane e
nell'accumulo di risparmio in Cina e in altri paesi asiatici
un potenziale pericolo per il sistema finanziario globale.
Ogni anno infatti una quantità enorme
La crisi

di risparmio asiatico doveva essere investita negli Stati


Uniti: il 6 per cento del reddito totale americano. E ci si
interrogava sulla possibilità che questi trasferimenti
potessero continuare in modo ordinato. Non è certo la
prima volta nella storia che alcuni paesi risparmino po-
co, altri molto, ovvero che il risparmio si concentri in
una parte del mondo, gli investimenti in un'altra. Come
vedremo, risparmio e investimenti sono parte del
meccanismo di crescita: se tutte le economie fossero
chiuse, il risparmio non potrebbe dirigersi verso le pos-
sibilità di investimento più produttive.
Quando risparmio e investimento sono distanti, il si-
stema finanziario assume un ruolo di fondamentale im-
portanza: deve raccogliere risparmio in un paese e uti-
lizzarlo per finanziare investimenti in un altro. In altri
periodi storici - negli anni cinquanta tra Europa e Stati
Uniti, negli anni ottanta tra Stati Uniti e Giappone -un
grande divario a livello internazionale tra risparmi e
investimenti non ha creato problemi; oggi invece, a
causa di una serie di fattori concomitanti che analizze-
remo, il sistema finanziario non è riuscito a riciclare il
risparmio in modo ordinato.
Di fronte a quello che succede, la domanda che assil-
la l'opinione pubblica è: che cosa accadrà in Italia e nel
mondo? Allo stato attuale le risposte purtroppo posso-
no muoversi solo nel campo del probabile, perché è im-
possibile prevedere le evoluzioni di una situazione tanto
complessa. E probabile che questa crisi venga superata a
prezzo di una recessione americana, forse mondiale, al
massimo di qualche punto di Pil; di una ristrutturazione
(non eliminazione) della finanza; di un aumento del
debito pubblico in Europa e negli Stati Uniti. E anche
molto probabile che nel giro di qualche anno l'economia
americana riprenderà a crescere a gonfie vele grazie a un
sistema finanziario meglio organizzato, dopo aver perso
in tutto tre o quattro punti di Pil. Se si pensa che dai
primi anni ottanta l'economia americana è cresciuta di
quasi il 3,5 per cento all'anno, non è poi un dramma.
Tuttavia un rischio c'è e consiste nel fatto che errori di
politica economica trasformino questa crisi in qualcosa
di paragonabile a quella del 1929. Come vedremo, è un

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Introduzione

rischio remoto ma bisogna mantenere alta la guardia


perché la retorica statalista che circola di questi tempi e
la difesa a oltranza della superiorità della politica
ricordano molto da vicino le logiche che negli anni
trenta portarono il presidente Herbert Hoover a far
degenerare una crisi finanziaria nella Grande
depressione.
La crisi del '29 è spesso invocata oggi come esempio
dei danni che il libero mercato può arrecare all'e-
conomia reale. Ma in realtà, oggi come allora, è vero il
contrario, e cioè che sono gli errori della politica a por-
tare al collasso. Oggi il nazionalismo economico sembra
tornato di moda; sono rinate tendenze protezionistiche,
come spesso accade nei periodi difficili. E una
concezione che va a colpire le funzioni vitali dei mercati
finanziari, ignorando le leggi dell'economia. Sono
soluzioni facili appunto, alcune populiste e in gran parte
sbagliate.
L'obiezione che sorge spontanea è che persino gli
Stati Uniti, patria del libero mercato, stanno naziona-
lizzando e salvando con denaro pubblico banche e isti-
tuti finanziari; in parte è così ma, nonostante la retorica
un po' grossolana utilizzata da Nicolas Sarkozy alle
Nazioni Unite nel settembre 2008, questo non significa
che stiamo assistendo alla fine del capitalismo.
Mentre scriviamo (metà ottobre 2008) non è ancora
del tutto chiara la natura complessiva dell'intervento
pubblico americano; per ora basti dire che sarà tem-
poraneo. Lo stato inizialmente si indebiterà per acqui-
stare azioni di alcune banche in difficoltà e titoli svalu-
tati derivanti dal mercato immobiliare. Superata la crisi li
rivenderà: il contribuente potrebbe anche guadagnarci,
come avvenne in Svezia negli anni novanta in seguito a
un'operazione analoga. Si tratterà di un intervento
temporaneo dello stato, che in un certo senso diverrà
l'«assicuratore» del sistema. Non c'è dubbio che se
avessimo potuto fare a meno di questo intervento
massiccio, ne avremmo giovato tutti. Lo stato interviene
anche perché è in qualche misura corresponsabile del
problema. Infatti, buona parte della responsabilità di
questa crisi ricade sul settore pubblico, su regola-

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La crisi

mentazioni errate che hanno favorito eccessivamente i


prestiti edilizi, per realizzare forse il più ambizioso dei
sogni americani: una casa di proprietà per tutti. Un
obiettivo politico, per sventolare in campagna elettorale
la percentuale di americani proprietari di case. La crisi
americana è dovuta principalmente alla commistione tra
mercato e stato, tra regolatori e regolati. Scagliarsi
contro il mercato e il capitalismo è inutile, oltre che
pericoloso. Crisi altrettanto gravi si sono verificate
anche in paesi che non si possono certo definire «capi-
talisti selvaggi», come la Svezia, che all'inizio degli anni
novanta vide fallire tutte le sue banche.
Un'osservazione sull'Europa. Spesso gli europei si
vantano della loro governance che giudicano migliore di
quella americana. Si compiacciono della loro «economia
sociale di mercato» (che cosa si intenda con questa
espressione non ci è mai stato spiegato) che giudicano
superiore al «capitalismo di stato». Può essere. Questa
governance sarà anche migliore, ma non ha protetto l'Eu-
ropa dalla crisi.

L'Italia e la crisi

La crisi internazionale si somma alle difficoltà specifiche


del nostro paese. L'economia italiana soffre infatti di
due malattie concomitanti ma indipendenti: una crescita
inferiore alla media europea che dura ormai da più di
vent'anni e un periodo di difficoltà, ciclico, dovuto alla
crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune
materie prime. La seconda è una malattia comune a
molti paesi Ocse; la prima è un malessere tutto italiano,
quindi le sue cause vanno ricercate solo ed esclusi-
vamente all'interno del nostro paese. E importante sot-
tolinearlo, perché nel dibattito economico-politico con-
temporaneo spesso le due malattie si confondono, of-
fuscando sia la diagnosi della malattia sia la cura. Il per-
ché è chiaro: è comodo per i politici incolpare specu-
latori americani e produttori cinesi per nascondere le
mancanze della politica economica italiana.
Da tempo, la vulgata che va per la maggiore è questa:

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Introduzione

l'Italia è in crisi a causa della sua esposizione al processo


di globalizzazione dell'economia mondiale e, in
particolare, per l'emergere di nuove potenze industriali
come Cina e India. Inoltre, la crescente sofisticazione
dei mercati finanziari ha causato grande instabilità e ha
contribuito a creare le condizioni per una crisi grave.
L'adozione dell'euro non ha aiutato l'economia italiana,
anzi, ha complicato e ostacolato ulteriormente le
esportazioni. La Banca centrale europea, ossessionata
dal controllo dell'inflazione, ha frenato la crescita dei
paesi europei. Di fronte a questo stato di cose la ri-
sposta è difensiva. Bisogna cioè difendersi dal mercato,
restituendo allo stato la funzione di motore dell'e-
conomia. Il liberismo economico fondato sulla centralità
del mercato ha fallito. Pertanto, le ricette per uscire dalla
crisi sono il protezionismo commerciale e il
nazionalismo economico. Questo significa difendere le
imprese nazionali dalla competizione internazionale
anche a spese dei consumatori e dei contribuenti, e
tener fuori, almeno temporaneamente, i paesi emergenti
dal processo di globalizzazione. Significa la fine delle
privatizzazioni; di più, ristatalizzazione. Lo stato deve
far valere la sua forza politica, anche militare se
necessario, per imporre i propri interessi economici.
Globalizzazione, mercati finanziari, speculatori, pri-
vatizzazioni, l'euro e la Bce sarebbero i «diavoli» re-
sponsabili della crisi. Noi crediamo che siano finti dia-
voli, che questa analisi sia profondamente errata e che
possa avere conseguenze molto pericolose per l'Italia. Se
si procedesse sulla scorta di queste convinzioni, la
situazione dell'economia italiana peggiorerebbe e se le si
applicasse globalmente, nel mondo si scatenerebbero
guerre commerciali; e, come è noto, da lì alle guerre tout
court il passo è breve (per fortuna all'infuori dell'Italia e
della Francia non sono in molti a pensarla così).
L'Italia è ormai da anni il fanalino di coda dei paesi
Ocse sia nei momenti di recessione globale che in quelli
di boom. Ha quindi bisogno di una cura particolare per
le sue specifiche difficoltà, senza scorciatoie né miracoli.
Innanzitutto bisogna lavorare di più, ma è difficile per
un politico sostenerlo senza diventare immediatamente

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La crisi

impopolare; meglio incolpare la Cina. La verità è che


bisogna lavorare meglio, che più persone lavorino e che
aumenti la produttività. In secondo luogo non vanno
adottate misure protezionistiche: il protezionismo si
ritorcerebbe contro le esportazioni, che sono un traino
fondamentale della nostra economia. In terzo luogo il
ritorno dello stato come imprenditore non farebbe certo
aumentare la produttività. Non è sèmpre vero, ma in
linea generale il settore pubblico è meno efficiente di
quello privato. Il motivo è semplice: se l'azienda
appartiene allo stato, la certezza che eventuali perdite
vengano assorbite dai contribuenti dà forza ai sindacati
e non incentiva adeguatamente i manager a
massimizzare l'efficienza e la produttività. E questo è un
mix esplosivo. E ciò che ha fatto crollare l'economia
pianificata sovietica e da noi ha portato al fallimento
dell'Iri.
Il capitalismo di stato in Italia (e nel resto d'Europa)
ha fatto il suo corso. Ha funzionato relativamente bene
negli anni cinquanta e sessanta, in un periodo di
ricostruzione dopo la devastazione bellica in cui le gran-
di imprese operanti in settori tradizionali si limitavano
ad adottare tecnologie importate dall'estero, soprattutto
dagli Usa. E in cui concorrenza e innovazione non
erano cruciali come lo sono ora. Ma dagli anni ottanta in
poi l'Italia e l'Europa sono cresciute solo innovando,
espandendo il settore dei servizi e dell'alta tecnologia (e
il migliore «made in Italy» certamente appartiene all'alta
tecnologia). Le grandi industrie pesanti pubbliche (per
fare un esempio) non servono più. Non si può tornare
indietro: in tutti i paesi Ocse dai due terzi ai tre quarti
dell'economia è concentrato nel settore dei servizi.
Rispetto agli altri paesi l'Italia fa fatica ad abbracciare
questa trasformazione e ciò ha contribuito alla scarsa
crescita del nostro paese negli ultimi due decenni. Le
economie «industrializzate» saranno sempre più paesi
come Messico, Cina, India, Cile; è un dato di fatto che
non si può ignorare, piaccia o meno.
Stando alla concezione «statalista», l'Italia dovrebbe
tornare a poggiare sull'industria, proteggendosi dalla
concorrenza di quei paesi. E impossibile, è una battaglia

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Introduzione

donchisciottesca contro una realtà che non si può


cambiare e ricorda un po' la diatriba tra settore agricolo
e industriale dopo la Rivoluzione industriale in Gran
Bretagna. A quel tempo era in atto un grande processo
di spostamento del baricentro economico verso l'indu-
stria pesante. Un secolo dopo, chi aveva sostenuto la su-
premazia dell'agricoltura tradizionale aveva perso il tre-
no della storia; ben prima di cent'anni succederà lo stes-
so a chi oggi sostiene la supremazia dell'industria tradi-
zionale e si scaglia contro servizi e finanza.
La superiorità della politica sull'economia è un refrain
molto in voga oggi in Italia. L'economia deve sottostare
alla politica e le scelte economiche si devono
conformare alle esigenze politiche. Cosa significhi que-
sto non è ben chiaro. E ovvio che spetta ai rappresen-
tanti politici democraticamente eletti prendere le deci-
sioni per il paese. Ma in realtà con l'espressione «su-
periorità della politica» spesso si intende il ritorno dello
stato al centro del sistema economico; e questo è un
punto nodale su cui non siamo affatto d'accordo, come
avremo modo di spiegare. La politica ha il diritto e il
dovere di fissare le regole, ma come ogni croupier im-
parziale, non deve mai sedersi al tavolo da gioco.
Un altro aspetto di questo nuovo statalismo, basato
sulla «superiorità della politica», è la visione secondo cui
i rapporti di forza tra paesi detterebbero la supremazia
economico-politica in un gioco in gran parte a somma
zero: la ricchezza di un paese a scapito di quella di un al-
tro. Paesi Ocse contro Cina, paesi cristiani contro paesi
di religione diversa, l'italianità di certe aziende contro ac-
quisizioni internazionali. Che cosa c'è di nuovo in que-
sto approccio? Nulla; tutto già visto. Nei periodi di crisi
è tipico ricorrere al desiderio di «protezione» statale, di
fuga dal mercato. La domanda di protezionismo com-
merciale aumenta sempre durante le recessioni, e le ren-
de solo più gravi. L'economia di mercato non è un gioco
a somma zero. L'idea del commercio come lotta tra
nazioni per accaparrarsi le risorse disponibili è tutt'altro
che nuova. E un'idea vecchissima, che risale al mercan-
tilismo pre Adam Smith secondo cui commercio signifi-
cava soggiogare con la forza il concorrente e conquista-

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La crisi

re una fetta della ricchezza del pianeta.


Una visione anacronistica di questo tipo non può che
portare a scelte economiche errate e a un approccio
bellicoso dei rapporti internazionali, anche tra potenze
che dovrebbero essere amiche, con conseguenze
potenzialmente drammatiche. Non a caso la risposta
protezionistica alla crisi del 1929 sfociò nella Seconda
guerra mondiale.
E innegabile che a partire dal secondo dopoguerra il
clima internazionale sia particolarmente teso. Gli esempi
sono numerosi: negli anni cinquanta abbiamo assistito
alla guerra di Corea, alla guerra fredda, alla crisi di Suez
nel 1956. Poi ci sono state le rivolte indipendentiste dei
paesi africani, la guerra d'Algeria, la guerra del Vietnam,
la crisi missilistica di Cuba, la Cina comunista in
conflitto con la Russia sovietica. Nonostante ciò, il
processo di globalizzazione è continuato, anzi, ha
aiutato a trasformare la Cina in un paese a tutti gli effetti
ex comunista e meno minaccioso perché troppo
integrato economicamente con il resto del mondo; ha
contribuito a far crollare il blocco sovietico e a spostare
paesi del centro Europa verso l'Occidente, attirati
proprio dal libero scambio e dal mercato. Commercio e
globalizzazione contribuiscono al mantenimento di
relazioni pacifiche tra i paesi.
La centralità del mercato però non significa che lo
stato non debba giocare alcun ruolo nell'economia. Del
resto, il capitalismo europeo di oggi non è certo quello
spietato della Londra della Rivoluzione industriale. Oggi
lo stato ha un ruolo molto esteso. La pressione fiscale in
Europa sfiora il 50 per cento del Pil e non crediamo ci
sia bisogno di aumentarla. E difficile far crescere il ruolo
dello stato in economia senza far crescere
parallelamente le sue sostanze, ovvero senza aumentare
le imposte.
Lo stato ha compiti e doveri numerosi e importanti.
La domanda di sicurezza economica è sacrosanta ed è
dovere dello stato fornirla con vari meccanismi di assi-
curazione sociale. E dovere dello stato evitare che le
fluttuazioni dell'economia di mercato si trasformino in
tragedie private di chi perde il lavoro o vede fallire la

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Introduzione

propria impresa. E dovere dello stato regolamentare


l'immigrazione così che il mercato del lavoro possa
assorbire in modo adeguato chi arriva dall'estero. È
dovere dello stato combattere l'immigrazione di
clandestini e criminali. E dovere dello stato cercare il
consenso intorno ad alcune misure vantaggiose per la
collettività. E dovere dello stato aiutare entro certi limiti
le categorie che nel breve periodo siano svantaggiate da
riforme che aumentino il benessere generale. E dovere
dello stato accertarsi che il mercato non crei eccessiva
disuguaglianza e correggerla con l'imposizione fiscale,
cercando di minimizzare le distorsioni fiscali (vale a dire:
si tolga pure ai ricchi per dare ai poveri, ma con un
sistema fiscale che non sia punitivo per chi produce
ricchezza). E dovere dello stato garantire che il mercato
funzioni, che le imprese non abusino della loro
posizione nel mercato per tenere lontani concorrenti o
per colludere a danno dei consumatori. E dovere dello
stato fornire un'educazione scolastica adeguata a chi
non se la può permettere. E dovere dello stato evitare
che una crisi finanziaria si trasformi in una profonda
recessione.
Molti economisti hanno sicuramente perso di vista i
doveri dello stato e sono rimasti intrappolati in una
visione troppo semplicistica dell'economia di mercato.
Non c'è dubbio che qualche eccesso della scuola di
Chicago abbia sottovalutato il ruolo dell'intervento
pubblico. Sicuramente molti economisti hanno di-
menticato come la politica economica sia impregnata di
politica tout court e hanno dimenticato che è dovere dello
stato ridurre povertà e disuguaglianza. Ma non si può
rifiutare in toto l'economia liberale di mercato

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La crisi

per correggere qualche eccesso di zelo e rifugiarsi nello


stato «padre padrone».
Vi sono almeno due declinazioni differenti dell'idea
di stato. Una è quella di uno stato che è parte integrante
del sistema produttivo, dell'offerta di beni e servizi, uno
stato cioè che agisce estensivamente nell'economia di
mercato, nazionalizzando e operando come
monopolista in vari settori, come nel caso del trasporto
aereo e ferroviario, o in certi rami dell'energia. L'altra è
quella liberale e socialdemocratica di uno stato che
rimane il più possibile fuori, ma protegge i deboli e
regola con mano leggera («con un colpo di pollice»,
avrebbe detto Talleyrand) i mercati per garantirne la
concorrenza, la trasparenza e le concentrazioni
monopolistiche che danneggiano il consumatore.
Questo in definitiva è ciò di cui si discute oggi: il
ruolo dello stato. C'è chi vuole tornare al capitalismo di
stato e chi crede che voltarsi indietro non sia né pos-
sibile né, tantomeno, auspicabile.

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1. La crisi finanziaria:
che cosa è successo

Di fronte alla crisi finanziaria che ha sconvolto gli Stati


Uniti e poi si è riversata sull'Europa, i messaggi che
vengono trasmessi ai cittadini da politici e organi di
stampa sono sostanzialmente due: stiamo assistendo a
un altro 1929; e questa crisi segna la fine del capitalismo
fondato su liberismo e concorrenza. Entrambi i
messaggi sono sbagliati.

Un altro 1929?

Innanzitutto è errato paragonare la situazione attuale a


quella degli anni trenta. La crisi del 1929 si tramutò in
una tremenda recessione dell'economia reale per una
serie di clamorosi errori di politica economica: nulla
lascia pensare che simili errori vengano ripetuti oggi (o
almeno ce lo auguriamo). La crisi finanziaria attuale avrà
sicuramente conseguenze reali per l'economia, ma nulla
di paragonabile a quello che accadde dopo il 1929,
quando il Pil americano scese del 30 per cento e un
cittadino su quattro perse il posto di lavoro. Anche le
previsioni più pessimistiche sull'economia americana
parlano di qualche trimestre di crescita negativa dell'I o
2 per cento. L'ordine di grandezza è totalmente diverso
da quello del 1929.

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Molti furono gli errori di politica economica che se-
guirono il crac del 1929, da cui bisogna guardarsi anche
oggi. Il primo, e più direttamente collegato al sistema
finanziario, fu compiuto dalla Federal Reserve che,
anziché fornire liquidità alle banche, la tolse. La Fed,
relativamente giovane e inesperta (era stata creata nel
1913, solo quindici anni prima della crisi), scambiò la
causa con l'effetto: poiché vedeva che le banche
avevano smesso di erogare prestiti, pensò che non aves-
sero più bisogno di liquidità. Un grave errore di teoria
economica che la Fed di oggi e la Bce (nonostante la sua
altrettanto giovane età) sono ben lontane dal ripetere.
Oggi le banche centrali hanno fornito abbondante
liquidità alle banche perché potessero continuare le loro
operazioni creditizie: questo non ha risolto la crisi, ma
ha certamente evitato il collasso immediato del sistema
del credito.
Il secondo fu un clamoroso errore dei politici: nel
1930 il presidente Herbert Hoover non pose il veto alla
legge proposta dal deputato Willis C. Hawley e dal
senatore Reed Smoot che, nel vano tentativo di pro-
teggere i produttori americani, introduceva dazi sulle
importazioni e scatenò così una guerra commerciale tra
gli Usa e il resto del mondo, soprattutto l'Europa.
Hoover ignorò una raccolta di firme di ben 1.028
economisti, compresi tutti i più famosi dell'epoca, che
lo scongiuravano di impedire un ritorno al
protezionismo. Industriali come Henry Ford e banchieri
come Thomas Lamont, capo della J.P. Morgan, lo
pregarono di mettere il veto, ma la politica prevalse
sull'economia. Il risultato fu il collasso delle esportazioni
americane con pesanti conseguenze sulla crescita e
sull'occupazione. La guerra commerciale estese la crisi al
resto del mondo, in particolare all'Europa, che adottò
politiche protezionistiche in risposta a quelle
statunitensi.
Proprio per questo adesso può essere molto perico-

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loso appellarsi al «nazionalismo economico», ovvero al-
l'idea che in un momento di crisi lo stato debba pro-
teggere la proprietà nazionale delle aziende indipen-
dentemente dalla loro efficienza: meglio un'azienda di
proprietà italiana anche se inefficiente che un'azienda
italiana posseduta da uno «straniero» ma produttiva. Un
errore gravissimo, sia politico che economico.
Hoover commise un altro errore: adottò una strategia
punitiva contro gli «speculatori» di Wall Street. In-
trodusse regole pesanti che limitavano le operazioni fi-
nanziarie, con il risultato di ostacolare, invece che faci-
litare, la stabilizzazione dei mercati finanziari. Anche og-
gi si respira un'aria simile. Alle critiche - più che legit-
time - verso chi ha contribuito alla crisi dei subprime, si
sommano slogan un po' superficiali su speculatori e
regolamentazione dei mercati finanziari tout court. An-
ziché sfruttare la crisi come un'occasione per capire co-
me migliorare il funzionamento dei mercati, la si utilizza
come scusa per aggredire l'economia di mercato.
Hoover intervenne poi nelle contrattazioni salariali,
impedendo alle imprese di tagliare le retribuzioni. In un
periodo di recessione e di deflazione, cioè di di-
minuzione dei prezzi, molte imprese non riuscirono a
mantenere costanti i salari e fallirono. L'interventismo
nel mercato del lavoro finì per rivelarsi controprodu-
cente: invece di mantenere il potere d'acquisto dei salari
e così sostenere la domanda, la ridusse, aumentando
disoccupazione e miseria.
Infine Hoover non capì che in periodi di recessione è
necessario consentire che il deficit pubblico salga: cercò
al contrario di evitarlo, aumentando in modo
consistente le imposte e dando così un altro duro colpo
all'economia. I paesi che in passato sono stati più
virtuosi oggi hanno lo spazio per far salire il deficit e
dovrebbero consentirlo, come stanno facendo gli Stati
Uniti; quelli come l'Italia, che hanno già un debito
elevato, sono più in difficoltà. Una cosa comunque è

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certa: non è il momento di alzare le tasse; è il momento
di ridurle controllando la spesa.
La crisi del 1929 ci insegna che furono politiche eco-
nomiche errate a trasformare una crisi finanziaria in una
profonda depressione. Oggi si cita spesso Franklin
Delano Roosevelt, il presidente che fece uscire l'A-
merica dalla Grande depressione grazie al programma di
intervento statale noto come New Deal. A questo
proposito vanno però chiariti due punti. Primo, senza
gli errori interventisti di Hoover e il suo protezionismo,
la Grande depressione non ci sarebbe stata. Secondo, le
dimensioni del settore pubblico americano ai tempi di
Roosevelt erano minime rispetto a quelle dello stato
sociale odierno. Prima del New Deal non esisteva
sostanzialmente alcun sistema di sicurezza sociale e, al
di fuori del settore militare, in America lo stato era
pressoché inesistente. Oggi siamo in una situazione ben
diversa, lo stato ha già un ruolo rilevante. Invocare un
maggior intervento statale rifacendosi a Roosevelt
denota scarsa conoscenza della storia.

I consumi degli americani pagati dai cinesi

Da almeno quindici anni gli Stati Uniti spendono più di


quanto non producano. Questo è possibile perché altri
paesi, in primis la Cina, hanno un surplus di risparmio.
Non è una novità e non va cercata qui la radice della
crisi. In qualunque paese del mondo vi sono debitori e
creditori. C'è chi spende più di quanto guadagna
(almeno per un po' di tempo) e chi fa l'opposto. In
un'economia chiusa tutti questi flussi si compensano e il
paese nel suo complesso è in pareggio con il resto del
mondo. Anche in un'economia chiusa ovviamente il
sistema finanziario è al centro di questi trasferimenti di
risparmio, e collega i debitori e i creditori. A maggior
ragione svolge questa funzione quando le economie non

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sono chiuse: alcuni paesi spendono più di quanto
producono e lo fanno indebitandosi nei confronti di
altri paesi che invece risparmiano. Le nazioni che si
indebitano sono quelle che riescono a convincere le
altre a investire nei loro progetti con la , promessa che
ripagheranno i debiti. Trasferire risparmio da un paese
all'altro è sempre stato uno dei motori della crescita
perché fa sì che il risparmio non venga sprecato in
progetti poco redditizi, ma finanzi quelli più interessanti
che non sempre sono localizzati là dove il risparmio si
crea.
E esattamente ciò che è accaduto negli anni recenti
tra Stati Uniti e Cina. I cinesi, grazie alle esportazioni
che crescevano a ritmo vertiginoso, accumulavano ri-
sparmi e li investivano in America e in parte in Europa.
Questo è accaduto perché non avevano sufficienti
opportunità di investimento a casa loro: in Cina, cioè,
nonostante una crescita vorticosa, non vi erano occa-
sioni di investimento sufficientemente ampie e interes-
santi da esaurire il risparmio delle famiglie cinesi.
Non c'è nulla di male nel fatto che alcuni paesi si in-
debitino con altri. Come abbiamo già accennato, la pos-
sibilità di sganciare il risparmio dall'investimento è uno
dei motori della crescita. Ovviamente nessuna persona e
nessun paese si può indebitare all'infinto. Anche un
paese che ha grandi possibilità di investimento prima o
poi esaurisce la propria «scorta». Prima o poi una per-
sona, così come un paese, deve spendere meno e ridurre
i propri debiti. Ecco perché dopo periodi di forte in-
debitamento, un paese deve ridurre i consumi, rallentare
l'investimento e la crescita. In questi frangenti una
svalutazione della moneta, facilitando le esportazioni,
aiuta a ridurre l'accumulo di debiti esteri.
Succede da secoli nella storia di molti paesi. Accadde
negli Stati Uniti negli anni cinquanta e poi ancora negli
anni ottanta. In quel decennio l'America si indebitò,
soprattutto nei confronti di Giappone e Germania. I

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deficit commerciali americani erano un po' più bassi di
quelli degli anni più recenti in rapporto al Pil, ma
l'ordine di grandezza era simile. In quel caso in America
a indebitarsi non furono tanto le famiglie - che
comunque non hanno mai risparmiato molto, almeno
da qualche decennio in qua - quanto soprattutto il
settore pubblico. Erano gli anni in cui la spesa militare
cresceva rapidamente e in cui l'America vinse de-
finitivamente la Guerra fredda. I meno giovani ricor-
deranno che in quel periodo sembrava che i giapponesi
volessero comprare tutta Manhattan. Erano anche i
tempi del grande successo delle esportazioni tedesche.
Come andò a finire? All'inizio degli anni novanta
l'economia americana rallentò un po', il dollaro si
svalutò e gli squilibri si aggiustarono.
Negli ultimi anni stavamo assistendo a un aggiusta-
mento simile. Il dollaro aveva cominciato a svalutarsi
dalla primavera del 2001, il deficit della bilancia com-
merciale americana si stava riducendo, i cinesi avevano
iniziato a consumare un po' di più. Tutto pareva
funzionare come «da libro di testo», l'eccesso di ri-
sparmio cinese si riduceva e diminuiva anche la forbice
tra risparmi e spese negli Stati Uniti. Quindi, visto che la
separazione tra paesi risparmiatori e paesi investitori
non è affatto nuova, non può essere da sola la causa
della crisi. Qualcos'altro deve essere andato storto,
qualcosa si è inceppato. Quello che non ha funzionato,
diversamente dal passato, è il mercato finanziario che a
un certo punto non è più riuscito a riciclare il risparmio
in modo ordinato. O meglio, lo ha fatto, ma gettando le
basi dei disastri finanziari che sono scoppiati in questi
due anni. Per capirlo occorre partire dalle banche e
vedere come sono cambiate le banche americane negli
ultimi trent'anni.

La trasformazione delle banche americane

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Cerchiamo innanzitutto di capire come siamo arrivati
alla crisi dei subprime. Dall'inizio della crisi finanziaria
fino al settembre 2008, le perdite subite dalle banche
americane ammontano a circa 600 miliardi di dollari, il
che equivale a una caduta del 4 per cento dei prezzi
delle azioni quotate a Wall Street. Una caduta della
Borsa del 4 per cento non è particolarmente grave né
rara: nel famoso lunedì nero, il 19 ottobre 1987, Wall
Street cadde del 20,4 per cento, ma il crollo non ebbe
praticamente alcun effetto sull'economia americana.
Anzi, l'anno successivo, la crescita del reddito accelerò,
avvicinandosi al 4 per cento, un punto in più dell'anno
precedente. Perché allora perdite tutto sommato
modeste hanno innescato una crisi tanto grave? Per
capire che cosa abbia amplificato uno shock di
proporzioni contenute occorre fare un passo indietro.
Fino agli anni settanta le banche americane avevano
vita facile. Le banche di investimento detenevano il mo-
nopolio dell'acquisto e della vendita di titoli: commis-
sioni fisse, nessuna concorrenza. Le banche commer-
ciali non potevano muoversi oltre i confini dello stato,
alcune addirittura non potevano aprire più di uno spor-
tello, quindi anche per loro la concorrenza era scarsa:
raccoglievano i depositi dei clienti e facevano prestiti
alle famiglie e alle imprese dello stato. A pagare evi-
dentemente erano i consumatori, famiglie e imprese:
l'assenza di concorrenza rendeva i servizi delle banche
molto costosi. Le banche erano anche fragili non solo a
causa della loro dimensione lillipuziana (tranne qualcuna
di New York): non potendo espandersi al di là di un
singolo stato, erano particolarmente esposte al rischio di
eventuali shock negativi nella regione in cui operavano.
Per esempio, quando a metà anni ottanta il prezzo del
petrolio crollò, in Texas - uno stato la cui economia
vive soprattutto dell'industria petrolifera - ci fu una
recessione. Poiché le banche texane facevano prestiti

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solo a clienti texani, quando questi si trovarono in
difficoltà e cominciarono a non restituire i prestiti, tutte
le casse di risparmio dello stato fallirono.
Negli anni ottanta e novanta il mercato finanziario fu
aperto: l'abrogazione del Glass-Steagall Act nel 1999
fece definitivamente cadere il divieto di spingersi oltre i
confini dello stato e venne meno la separazione fra
banche commerciali e banche di investimento.
L'apertura del mercato fu in parte una scelta politica
dell'amministrazione Reagan, in parte l'inevitabile
risposta ai progressi della tecnologia. Innanzitutto la
riduzione dei costi di comunicazione e la loro crescente
rapidità consentiva alle banche di aggirare le barriere
geografiche. Inoltre lo sviluppo di nuovi strumenti
finanziari consentiva loro di diversificare il rischio senza
bisogno di espandersi al di là della propria regione. La
liberalizzazione ebbe diversi effetti positivi. Il mercato si
concentrò: molte banche minuscole scomparvero e
vennero acquistate da banche che ora potevano
espandersi oltre il loro stato. Più grandi e meno esposte
ai rischi li una particolare regione, le banche divennero
presto più stabili. La liberalizzazione e la tecnologia,
consentendo loro di diversificare il rischio, resero più
solido, non più fragile, il mercato finanziario americano.
Il risultato fu un'accelerazione della crescita, e questo
avvenne per due motivi. Innanzitutto la frequenza e
l'entità delle fluttuazioni dell'economia si attenuarono.
Dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni ottanta
ogni quattro o cinque anni si assisteva a una recessione
in cui il Pil americano scendeva tra l'I e il 2 per cento in
un anno. Allora sembrava normale;
oggi una recessione del genere sarebbe il segno di una
crisi profonda. Studi sull'evoluzione del ciclo econo-
mico americano mostrano che questa maggior stabilità è
anche il risultato di un sistema finanziario che funziona
meglio.

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Inoltre la liberalizzazione dei mercati finanziari è uno
dei fattori che spiega l'aumento della produttività negli
Stati Uniti a cominciare dagli anni novanta. Per esem-
pio, essa consentì a investitori audaci («barbari» li de-
finirono Bryan Burrough e John Helyar in I barbari alle
porte, Sperling & Kupfer 1991) di comprare aziende a
debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi
rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in mo-
do più efficiente. Senza i leveraged buyouts degli anni
ottanta — ovvero operazioni tramite le quali un im-
prenditore si indebita per acquistare un'azienda - i gua-
dagni straordinari di produttività degli anni novanta non
si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita
negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4 per
cento, mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al
2,2 per cento. Si trasformarono anche le banche di
investimento: perduto il monopolio sulla compravendita
di titoli e la comoda rendita delle commissioni fisse,
dovettero inventarsi mestieri nuovi, come finanziare le
aziende che sfruttavano internet. Fenomeni come
Google o Yahoo difficilmente sarebbero nati senza le
banche di investimento e i venture capitalists, che
scommisero su queste aziende quando ancora non fa-
cevano alcun profitto.
Banche fragili corrotte dalla politica

Ciò che ha determinato la crisi del 2008 non è stata la


liberalizzazione del mercato, né la tecnologia, ma una
regolamentazione assente o sbagliata. Le regole, anzi
che essere studiate per rendere più stabili i mercati, a un
certo punto sono passate in mano a politici finanziati, e
quindi influenzati, dalla lobby dell'industria finanziaria.
E la Sec (Securities and Exchange Commission),
l'agenzia alla quale il Congresso aveva assegnato la
responsabilità di vigilare sul mercato - una sorta di
Consob americana - non vigilò. Tutti i settori industriali
fanno pressioni sui politici per ottenere normative fa-

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vorevoli, non vi è nulla di nuovo o di particolare. Lo fa
anche l'industria finanziaria, ma data la sua dimensione
e il suo impatto sull'economia, nel suo caso le relazioni
fra politici e regolatori possono avere effetti dirompenti
sull'intero sistema.
Un esempio chiarissimo dell'influenza
dell'industria finanziaria americana sulla politica è
rappresentato dalle regole che determinano quanto
capitale proprio deve avere una banca per poter
fare alcune operazioni finanziarie. Come abbiamo
visto, quando le banche di investimento persero il
monopolio sulla compravendita di titoli per i loro
clienti, si resero conto che per guadagnare
dovevano cambiare mestiere e che quello più
redditizio era investire in proprio. Continuavano a
vendere servizi ai loro clienti (assistenza alle
aziende nelle operazioni sui mercati finanziari,
assistenza agli stati nelle privatizzazioni e nel
collocamento di titoli pubblici ecc.), ma i profitti
venivano sempre più da quel settore della banca
che si era trasformato in un fondo hedge, cioè che
investiva in proprio.
Questi investimenti sono tanto più redditizi quanto
inferiore è il capitale che deve essere impiegato per far-
l i , cioè tanto più elevata è la leva finanziaria. Se per ac-
quistare titoli non devo usare il capitale della banca, ma
posso semplicemente indebitarmi a brevissimo termine,
guadagnare è facile. Infatti, usare il capitale della banca è
costoso perché gli azionisti pretendono rendimenti ele-
vati; invece indebitarsi a breve termine costa poco, so-
prattutto se la banca centrale, come fece Alan
Greenspan, governatore della Fed per oltre un
decennio, tiene basso il costo del denaro. Se le cose
vanno bene, un guadagno di 100 dollari su un capitale
investito di 1 solo dollaro produce un rendimento
straordinario. Ma quando le cose vanno male, se
l'investimento perde più di 1 dollaro, significa essere nei

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guai perché la banca può non avere abbastanza capitale
per assorbire la perdita. Questo è esattamente ciò che è
successo in America. I rischi anzi erano ancora più alti
perché le banche di investimento, diversamente da
quelle commerciali, non potevano prendere a prestito
liquidità dalla banca centrale: se le cose andavano male
dovevano cavarsela da sole. Per quasi un ventennio, i
mercati sono andati bene, le banche di investimento e i
loro dipendenti hanno guadagnato cifre da capogiro e
nessuna è fallita.
Due leggi proposte all'inizio di questo decennio dal
senatore repubblicano Phil Gramm - che negli anni è
stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6
milioni di dollari di contributi elettorali - furono de-
terminanti nel consentire che le banche ricorressero con
tanta audacia alla leva finanziaria: il Gramm-Leach-
Bliley Act del 1999, che eliminò la separazione fra ban-
che commerciali e banche di investimento, e assegnò
molte responsabilità per la sorveglianza delle banche alla
Sec, e una seconda legge che liberalizzò i prodotti
derivati, consentendo che le banche investissero in
derivati anche se non avevano un capitale sufficiente
per assorbire eventuali perdite. La responsabilità però
non fu solo del senatore Gramm: entrambe le leggi pas-
sarono con il voto favorevole di molti democratici e la
prima fu firmata dal presidente Clinton. Da sei, sette
anni a questa parte, il Comitato di Basilea e il Financial
Stability Forum ripetono che le banche di investimento
sono fragili perché hanno troppo poco capitale in
rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma questi allarmi
sono caduti nel vuoto o sono stati ignorati di proposito.
Con il passare del tempo e con il silenzio della Sec,
l'esempio delle banche si diffuse sul mercato. Altre isti-
tuzioni, come le compagnie di assicurazioni e anche
Fannie Mae e Freddie Mac su cui torneremo, comin-
ciarono a esporsi a grandi rischi con poco capitale, spe-
rando che i prezzi continuassero a salire. Il mercato fi-

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nanziario americano cominciò ad assomigliare a una pi-
ramide rovesciata: un volume incredibile di investimenti
rischiosi si reggeva su un piedistallo di capitale troppo
esiguo perché banche e altre istituzioni potessero so-
pravvivere a una caduta dei prezzi di mercato. Non è
sorprendente quindi che quando il mercato ha smesso
d i crescere si siano dimostrate istituzioni molto fragili;
nel momento in cui il mercato immobiliare è crollato e
i l valore dei mutui in cui avevano investito è sceso,
hanno cominciato a perdere senza avere però capitale
sufficiente per farvi fronte. La responsabilità di tutto
questo, è bene non scordarlo, è di chi ha concesso di
correre rischi così elevati con un capitale tanto scarso.
Perché a un certo punto il mercato ha cambiato di-
rezione, evidenziando la fragilità dei bilanci delle ban-
che? Per capirlo dobbiamo partire da un dato: su uno
stock di circa 26.000 miliardi di dollari di obbligazioni in
circolazione negli Stati Uniti, un po' più della metà, circa
13.000 miliardi, sono mutui immobiliari. Di questi, circa
6.000 sono detenuti da istituzioni che hanno finanziato
questo investimento indebitandosi. Poiché il valore di
un mutuo dipende dal valore della casa che è stata
acquistata grazie ad esso, si capisce perché i prezzi delle
case siano tanto importanti nel mercato finanziario
americano.
Non tutti i mutui sono uguali. Una piccola parte, per
un valore di circa 1.400 miliardi, cioè poco più del 10
per cento, sono stati concessi a famiglie che avevano
una probabilità relativamente elevata di non riuscire a
pagare le rate: si tratta dei famosi mutui subprime.
Questi mutui non sono rimasti nelle banche che li
avevano erogati ma sono stati venduti ad altri inve-
stitori: una metà, per un valore di 600 miliardi, è poi
finita nei bilanci di banche che li hanno acquistati a leva,
cioè indebitandosi. La perdita cui abbiamo accennato
all'inizio è concentrata soprattutto qui.
Risulta quindi chiaro come mai una perdita relati-

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vamente piccola possa aver provocato un danno di que-
ste proporzioni. Se 6.000 miliardi di mutui sono stati
comparati con una leva di 30, il capitale è di soli 200
miliardi, troppo poco per assorbire una perdita di
600 miliardi. Ecco perché tante banche di
investimento sono fallite.

mutui subprime, una scintilla nel fienile

Un professore un po' burlone del Boston College,


un'ottima università del Massachusetts, un giorno
volle capire fino a che punto si era spinto il mercato
dei mutui americani. Egli possedeva una casa che
aveva comprato con i suoi soldi. Per questo era un
cliente particolarmente attraente per chi vendeva
mutui sulla casa anche a persone che, come lui, non
ne avrebbero avuto bisogno. Accendendo un mutuo
sulla sua casa infatti il professore avrebbe potuto
per esempio comprarsi un'auto nuova o andare in
vacanza. Non appena ricevuta la telefonata di un
promotore finanziario che gli offriva un prestito a
fronte del valore della sua casa rispose di essere
molto interessato, ma di temere che la sua casa non
valesse granché. Raccontò infatti di vivere in una
miniera: la casa era confortevole e abbastanza
grande, ma il sole raramente arrivava laggiù, e nei
giorni di pioggia tornare a casa era complicato.
Quante stanze? chiede il promotore. Sei e tre bagni.
Ottimo, risponde il promotore, penso di poterle of-
frirle un prestito di 300.000 dollari a un tasso molto
interessante. Il collega del Boston College, che non
è nuovo a simili imprese e si diverte a registrare
queste telefonate, ringrazia e chiede alcuni giorni
per riflettere sull'interessante offerta. C'è un ultimo
dettaglio, chiede il promotore, dovrei sapere che
lavoro fa e quanto guadagna. Sono un piccolo

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imprenditore, fabbrico cerniere di ottone per le
porte. Gli affari non vanno benissimo, il mese
scorso ho venduto solo due cerniere, ma confido
che le cose migliorino. Nelle settimane successive il
promotore telefonò più volte all'incerto cliente,
dicendo che le condizioni del mutuo forse sa-
rebbero potute migliorare. Il collega lasciò cadere
l'offerta, pago di aver collezionato alcune strabilianti
registrazioni. Se ci fossero ancora dubbi sugli
eccessi del mercato dei mutui americani, questo
esempio documentato e registrato dovrebbe bastare
a fugarli.
Ci sono diverse spiegazioni del perché si sia arrivati a
questi eccessi. Come abbiamo visto, la possibilità per le
banche di diversificare il rischio vendendo i prestiti è
una buona cosa, ma se la banca vende tutti i prestiti, poi
non ha alcun incentivo a selezionare i clienti.
Inoltre se una banca vende un prestito deve venderlo
davvero. Quando è scoppiata la crisi si è scoperto che
molti di questi contratti contenevano una clausola che
obbligava la banca a riacquistare il prestito se le cose
fossero andate male. Cioè molte banche si erano illuse
di essersi protette dal rischio mentre in realtà erano
rimaste esposte. Aumentare il numero di americani
proprietari di casa era anche un obiettivo politico (per
realizzare l'«american dream», come ha spesso ripetuto il
presidente George Bush) e per raggiungerlo le banche
sono state indotte a chiedere anticipi molto bassi.
Durante l'amministrazione Clinton fu anche approvata
una legge che obbligava le banche a destinare una certa
percentuale di prestiti a cittadini poveri e a minoranze
etniche.
Non bisogna però dimenticare un punto importante.
I mutui subprime hanno provocato gravi danni, ma
hanno anche consentito a moltissime famiglie, soprat-
tutto immigrati recenti che prima non avevano accesso
al credito, di acquistare una casa. Comprare una casa

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significa entrare a far parte del tessuto sociale, integrarsi,
e questo non può che essere positivo per una società
come quella americana basata sulla progressiva
assimilazione di ondate di immigrati. Come ben sap-
piamo, anche le società europee stanno affrontando
problematiche relative all'immigrazione. In questo senso
il mercato immobiliare possiede valenze che vanno ben
al di là dell'economia pura e semplice. Essere proprietari
di una casa significa diventare più sensibili al problema
del crimine, dell'ordine e della pulizia del proprio
quartiere, per esempio, significa cioè diventare cittadini
attenti e non rimanere ai margini.
Va detto poi che l'ipotetico inquilino della miniera
non era assolutamente obbligato ad accettare il prestito,
soprattutto a tassi variabili, sapendo che il reddito
derivante dalla vendita di improbabili cerniere di ot-1
tone non sarebbe stato poi così alto. Insomma, la man-
canza di educazione finanziaria ha fatto i suoi danni. Va
anche ricordato che spesso queste case sono state
comprate versando un anticipo bassissimo, talvolta ad-
dirittura senza alcun anticipo: perderle equivale a per-
dere molto poco, come mostra anche il sito
www.youwalkaway.com, in cui si spiega come lasciare
una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo
però si è vissuti in una casa gratis o al più pagando l'af-
fitto alla banca sotto forma di mutuo. Questo non si-
gnifica che non vi siano state molte situazioni dram-
matiche, ma spesso si dimentica che la perdita della casa
azzera un grosso debito con la banca. Il danno psi-
cologico è forte, ma a conti fatti, la perdita economica
non è così grande.
Vale la pena ripeterlo: il vero danno non è stato pro-
vocato dai mutui subprime che, data la loro entità, non
avrebbero dovuto causare una crisi così colossale. Il
problema è stata l'eccessiva leva finanziaria con la quale
sono stati acquistati, ovvero la bassa capitalizzazione
delle banche. La colpa più grave è dei regolatori e. dei

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politici che hanno permesso alle banche di investimento
di operare senza il capitale sufficiente.
II fiasco di Fannie Mae e Freddie Mac

Per sostenere lo sviluppo del mercato immobiliare il


governo americano garantiva la maggior parte dei mutui
attraverso due istituzioni dal nome curioso, Fannie Mae
e Freddie Mac, acronimi delle rispettive sigle. Questa
non è una novità, accade dagli anni trenta ed è una delle
ragioni per cui negli Stati Uniti la proprietà delle case si
è diffusa tanto rapidamente con i benefici sociali di cui
abbiamo parlato.
Se però lo stato si accolla un rischio, deve essere an-
che consapevole degli effetti che questo comporta: la
ragione per cui le banche concedevano prestiti con tanta
facilità non consisteva solo nel poterli vendere sul
mercato dopo poche ore, ma nella convinzione che,
nell'eventualità di una crisi, sarebbero state protette
dalla garanzia dello stato. Evidentemente il governo
degli Stati Uniti riteneva che assumersi questo rischio
fosse giustificato dal beneficio di un mercato immobi-
liare in rapidissima espansione. E fin qui nulla di male.
Purtroppo però furono commessi due errori gravi. Il
primo riguarda il modo in cui le due istituzioni vennero
«privatizzate», cosa che accadde durante l'am-
ministrazione Johnson negli anni sessanta: invece di
controllarle direttamente, lo stato le abbandonò a ma-
nager che si comportarono come se gestissero istitu-
zioni private combinando un mucchio di guai. Innan-
zitutto gestirono il bilancio delle aziende come se queste
fossero fondi hedge, alzando la leva finanziaria fino a
25-30, cioè assumendosi enormi rischi. Poi si ar-
ricchirono con il consenso di buona parte dei politici di
Washington. Le «amicizie» nel Congresso di Fannie Mae
e Freddie Mac infatti erano proverbiali e servivano per
far chiudere un occhio a chi avrebbe dovuto vigilare. Il
secondo errore fu dimenticare che, nell'eventualità di

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una crisi, la garanzia offerta dalle due istituzioni avrebbe
comportato un aumento del debito pubblico.
Un'eventualità che non fu mai presa in considerazione;
il Congresso si illuse che l'entità del debito pubblico
fosse relativamente modesta; questo non lo incentivava
particolarmente a controllare la spesa pubblica.
Da questa vicenda l'Europa può imparare una le-
zione. Il vecchio continente è pieno di istituzioni simili
a Fannie e Freddie: lo sono per esempio le Casse
Depositi e Prestiti presenti in molti paesi, le cui quote di
maggioranza sono di proprietà pubblica ma il cui
bilancio non è consolidato nel bilancio dello stato. Ciò
consente ai governi di usarle per finanziare spese
(soprattutto investimenti in infrastrutture) senza influire
sul bilancio dello stato. Le Casse si finanziano
indebitandosi e costruiscono opere pubbliche. Finché
tutto va bene, non ci sono problemi, ma quando un
investimento va male - per esempio perché si è costruita
un'opera pubblica per accontentare alcuni elettori e
vincere le elezioni - la Cassa perde e la perdita finisce sul
bilancio dello stato proprietario della Cassa.
Alcuni politici europei che considerano il fallimento
di Fannie Mae e Freddie Mac un esempio del «falli-
mento del capitalismo americano», sono gli stessi che
poi propongono di usare le Casse Depositi e Prestiti per
finanziare investimenti in infrastrutture, proprio perché
in tal modo queste spese non peserebbero sul bilancio
dello stato.

Le colpe delle agenzie di rating

Un altro aspetto di questa vicenda, che in ultima analisi


rappresenta una perdita di vista collettiva del rischio
finanziario, riguarda le agenzie di rating.
Alcuni investitori istituzionali, per esempio i fondi

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pensione, per regolamento potevano investire solo in
attività finanziarie con un rating AAA (la tripla A è
espressione della massima qualità creditizia). Im-
maginatevi quindi la pressione sulle agenzie di rating per
essere generose. Questo ha portato a concedere troppi
rating AAA, e di conseguenza gli investitori istituzionali
non si sono più sentiti in dovere di esaminare il rischio
legato a ciò che stavano comprando.
Anche in questo caso, un regolamento dei mercati
finanziari, che sulla carta dovrebbe indurre alla pru-
denza, sortisce l'effetto opposto. Non è facile regolare le
agenzie di rating. Forse senza questi rating gli investitori
avrebbero fatto più attenzione.
Gli stipendi da favola dei banchieri

Negli anni settanta i banchieri ricevevano uno stipendio


fisso e il loro mestiere era considerato piuttosto noioso.
Dopo la liberalizzazione gestire una banca diventò
molto più complicato e per essere sicuri che i banchieri
si impegnassero al meglio, gli azionisti cominciarono a
remunerarli in funzione dei risultati raggiunti. Ma gli
incentivi associati alla remunerazione dei banchieri non
hanno funzionato. E interessante osservare come invece
abbiano funzionato piuttosto bene gli incentivi dei
gestori di fondi hedge, che spesso guadagnano anche
più dei banchieri. La differenza rispetto ai manager delle
banche è che i gestori dei fondi hedge possiedono una
quota rilevante del fondo che gestiscono (per i fondi
che lo dichiarano, non sono tutti, la media del-
l'investimento dei manager è il 16 per cento, una per-
centuale alta, considerando che questi fondi spesso
sono molto grandi). Questo è uno dei motivi per cui,
durante la crisi, i fondi hedge si sono comportati molto
meglio delle banche: i casi di fallimento sono rari.
Invece la retribuzione dei banchieri, essendo legata al
rendimento di breve periodo, e spesso anche al

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rendimento di un particolare dipartimento della banca,
non teneva conto del fatto che i rischi legati agli
investimenti di quel dipartimento si potessero trasferire
sulla banca nel suo complesso.
Le colpe di Greenspan

Dalla metà degli anni novanta in poi, la Federai Reserve


di Alan Greenspan mantenne i tassi di interesse
particolarmente bassi. Per continuare a guadagnare, gli
investitori si spostarono verso strumenti finanziari più
rischiosi proprio perché i rendimenti sui titoli sicuri
erano scesi. L'aumento della domanda di titoli rischiosi
ne ha fatto scendere i rendimenti. Come abbiamo visto
questo è un fattore che ha indotto le banche ad alzare la
leva finanziaria assumendosi più rischi. Greenspan si è
anche sempre opposto a regolare i mutui subprime, in
particolare ha sottovalutato il rischio che comportava
concedere mutui con tasso di interesse variabile - in
pratica mutui su cui non si paga nulla per i primi tre
anni, ma poi le rate salgono vertiginosamente. E ciò,
nonostante un altro membro del consiglio della Fed,
Edward Gramlich, avesse messo in guardia i suoi
colleghi (almeno stando a quanto riportò il Wall Street
Journal'A 9 giugno 2007, prima che scoppiasse la crisi)
contro i rischi che si stavano accumulando nei bilanci
delle banche per effetto della vendita aggressiva di
mutui subprime, e avesse chiesto che la Fed inviasse i
suoi ispettori per controllare i contratti con i quali questi
mutui venivano prima concessi e poi venduti ad altri
investitori sul mercato.
Alcuni politici e commentatori tendono ad avere la
memoria corta. Qualche anno fa Greenspan era de-
scritto come un eroe perché, tenendo così bassi i tassi di
interesse, aveva fatto crescere l'economia americana. A
confronto, dicevano molti politici europei, la Bce era
una sciagura: mantenendo tassi eccessivamente elevati

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strozzava la crescita dell'area euro. I politici che allora
osannavano Greenspan sono gli stessi che oggi
predicano contro gli eccessi del mercato finanziario
americano.

Profitti privati, perdite pubbliche

Per ricapitolare, sono stati compiuti numerosi errori


gravi, dai politici, dai regolatori, dagli operatori
finanziari e anche dai cittadini, alcuni dei quali si sono
indebitati troppo. I guai di oggi li dobbiamo all'insieme
di questi fattori. E allora, è stato un errore salvare
alcune banche private e Fannie e Freddie con il denaro
pubblico?
La domanda è lecita, soprattutto perché di salvataggi
si parla tanto anche in Italia e perché non tutti sono
buoni. Un pilastro dell'economia di mercato è il
principio secondo cui chi sbaglia paga. Manager che
fanno errori - o che semplicemente sono meno abili dei
concorrenti - è giusto che perdano il posto; solo così si
giustificano i loro stipendi stratosferici. E gli azionisti
che hanno investito male è giusto che perdano: la Borsa
non è una gallina dalle uova d'oro. Per le imprese
inefficienti non c'è spazio sul mercato; devono far posto
a chi sa produrre meglio e generare più reddito. E stato
questo darwinismo economico a creare la ricchezza di
cui tutti godiamo, dalla Rivoluzione industriale in poi.
Certo, i fallimenti fanno perdere posti di lavoro e
creano disoccupati: ma lo stato deve difendere i lavo-
ratori, non i posti di lavoro. Ciò che è indispensabile (e
che in Italia non esiste: chissà quando il sindacato si sve-
glierà e si impegnerà in questa battaglia!) è un'efficace
assicurazione contro la disoccupazione, non la prote-
zione di imprese che non riescono più a stare sul mer-
cato. Difendendo i posti anziché i lavoratori si finisce
per creare un problema infinitamente più costoso. Si

— 35 —
preferisce mantenere in vita aziende in perdita, manager
incapaci in un sistema da vecchio capitalismo di stato,
spedendo poi il conto al contribuente.
In un mondo ideale i salvataggi non esisterebbero,
esisterebbero buone assicurazioni pubbliche. Tuttavia
c'è salvataggio e salvataggio. Se fallisce un'impresa che
produce automobili, poco male: i consumatori possono
acquistare una marca diversa, i lavoratori sono protetti
(almeno per un po' di tempo) dall'assicurazione
pubblica e a perderci sono solo manager e azionisti, i
responsabili del fallimento. Ma se un'istituzione fi-
nanziaria fallisse, potrebbe trainare con sé imprese per-
fettamente sane e dar luogo a un credit crunch ovvero a un
crollo dell'offerta di credito. In un caso simile, un
intervento dello stato (e della Banca centrale) è nel-
l'interesse nazionale perché evita che gli effetti del fal-
limento vengano amplificati provocando una reces-
sione. E appunto il rischio di un'amplificazione degli
effetti del fallimento ciò che rende efficiente salvare una
banca, ma non un'impresa automobilistica o una linea
aerea. Ovviamente il rischio è quello di creare incentivi
sbagliati: confidando nei salvataggi, le banche
sviluppano la tendenza ad assumersi troppi rischi. Ecco
perché ai salvataggi non si dovrebbe mai arrivare e se ci
si arriva, significa che qualcosa è andato storto.
Dopo il salvataggio di Fannie e Freddie, e il
fallimento di Lehman Brothers (che ex post è
probabilmente stato un errore non salvare), e visto che
la crisi non accenna ad attenuarsi, anzi si aggrava di
settimana in settimana, il Congresso degli Stati Uniti ha
deciso di affrontare il problema alla radice intervenendo
con un aiuto pubblico alle banche pari al 6 per cento del
prodotto interno lordo. Questa «rete di protezione»
verrà in parte usata per ricapitalizzare le banche, in parte
per togliere dai loro bilanci un po' di mutui e sostituirli
con titoli garantiti dallo stato, in parte per garantire i
prestiti fra banche, un mercato che è scomparso perché

— 36 —
è venuta meno la fiducia di una banca nell'altra. Si pensa
anche di sussidiare in qualche modo le famiglie che si
sono indebitate eccessivamente per comprare una casa,
e lo hanno fatto a tassi variabili, prima molto bassi ma
che poi sono saliti. Interventi di questo tipo sono stati
introdotti in Italia e sicuramente aiuteranno, mentre
negli Stati Uniti sono in discussione. Va ricordato che in
tutti e tre i casi si tratta di interventi temporanei dello
stato. Sia i sussidi alle famiglie indebitate, sia gli acquisti
di titoli, sia la ricapitalizzazione delle banche sarebbero
operazioni che utilizzerebbero denaro pubblico solo per
un certo numero di anni allo scopo di far riprendere il
regolare funzionamento dei mercati finanziari. Parte di
questa spesa di denaro pubblico, se non tutta, potrebbe
essere recuperata quando i mercati si calmeranno.
Al momento (metà ottobre 2008) non è ancora chia-
ro se questo intervento straordinario riuscirà a porre
fine alla crisi. E possibile che ne servano altri. Sono
scelte necessarie ma tristi, giornate nere del capitalismo
americano recente. Ma non si dica che la crisi finanziaria
americana è imputabile all'assenza di regole, cioè a un
eccesso di mercato; questa è un'altra delle favole che ci
raccontano gli «statalisti» europei. E vero il contrario e
lo ripetiamo: le colpe vanno attribuite a regole sbagliate,
a politici influenzati dalle lobby, alle amicizie politiche di
Fannie e Freddie, alle pressioni sulle agenzie di rating e
ai loro errori. Un eccesso di cattiva politica, non un
eccesso di mercato.
Ma è vero anche che regole perfette non esistono e
che crisi cicliche sono una delle caratteristiche del ca-
pitalismo. Il beneficio è una crescita più elevata. La crisi
del 2007-8 costerà sì alcuni punti di Pil, ma è avvenuta
dopo quindici anni di crescita ininterrotta, la più lunga
nella storia degli Stati Uniti d'America. Un solo punto di
crescita in più per un quindicennio significa guadagnare
quasi 20 punti di Pil, più che sufficienti per compensare
le perdite che provocherà questa crisi. E alla fine il

— 37 —
salvataggio delle banche potrebbe anche essere un buon
affare per i contribuenti. In Svezia all'inizio degli anni
novanta tutte le banche fallirono. Lo stato le
nazionalizzò e per salvarle spese una cifra simile: il 6 per
cento del Pil. Ma dopo alcuni anni, quando il governo
rivendette le banche a privati, incassò più
o meno quanto aveva speso.

E, come abbiamo detto, le migliori regole di cui l'Eu-


ropa spesso si vanta quando pone sotto accusa gli Stati
Uniti, non hanno impedito che le banche europee fi-
nissero nei guai. Né va dimenticato che il sistema fi-
nanziario americano negli ultimi quindici anni ha so-
stenuto un compito quasi immane: «riciclare» e gestire
gli enormi flussi finanziari determinati dalla separazione
tra risparmio (accumulato in Cina e altri paesi
emergenti) e investimento finanziario sulla piazza ame-
ricana. Se questo non fosse avvenuto, imprese come
Google non sarebbero mai nate. Inoltre, nel momento
in cui si è verificata la crisi di liquidità che ha colpito il
mercato americano l'accumulo di risparmio asiatico è
servito: i flussi non si sono prosciugati. Allora è stata la
Cina a salvare il sistema finanziario americano? l'orse
sarà questa la conclusione che trarremo quando la crisi
si sarà risolta.
Sbaglia anche chi pensa che sarebbe meglio tornare
indietro, a un sistema finanziario non liberalizzato. Il
vecchio mondo antico non era poi così ideale. Prima
che nascesse il mercato dei prestiti bancari, quando le
banche tenevano in bilancio i prestiti fino a scadenza e
lontano dagli Stati Uniti d'America, le crisi bancarie
sono state frequenti e molto costose: una caduta
(cumulata) del 4 per cento del Pil e un aumento del
deficit pubblico del 6,5 per cento del Pil in Svezia fra il
1991 e il 1994; una caduta del 3,2 per cento del Pil e un
aumento del deficit del 5,4 per cento del Pil negli Stati
Uniti negli anni ottanta, quando fallirono molte vecchie
casse di risparmio; una caduta del 20 per cento del Pil e

— 38 —
un aumento del deficit del 27,7 per cento del Pil in
Giappone fra il 1992 e il 2000. Se ne deduce che le
vecchie banche tradizionali come le conoscevamo fino
alla metà degli anni novanta non erano poi tanto sicure.
Oggi in Italia si tessono le lodi della politica che ha
salvato la finanza «cattiva». Ma quanto è costata in
passato ai contribuenti italiani l'interferenza della
politica nelle «solide vecchie banche»? Un punto di Pil
solo il salvataggio del Banco di Napoli negli anni
novanta, e poi c'è stato il Banco di Sicilia, la Cassa di
Risparmio della Calabria... E un po' presto per
concludere che la vecchia finanza era migliore.

Idee buone e proposte pericolose

Cominciamo da quanto abbiamo scritto nel paragrafo


precedente: la crisi è certamente il risultato di cattive
regole, corrotte da interessi particolari. Ma regole ideali,
capaci di evitare qualunque crisi, non esistono. Esistono
solo nella mente di burocrati che hanno una visione un
po' semplicistica dei mercati. Se esistessero, non
consentirebbero ai mercati di operare, perché ca-
pitalismo significa assumersi rischi; regole che rendono
impossibile, o troppo costoso, assumersi rischi sa-
rebbero la negazione del capitalismo, e potrebbero fun-
zionare solo in un sistema sovietico, che non ha pro-
dotto buoni risultati.
Paradossalmente la crisi in corso è scoppiata mentre i
regolatori sperimentavano nuovi sistemi, Basilea 2 e
regole contabili che obbligano le banche a valutare i ti-
toli che posseggono ai prezzi di mercato (il cosiddetto
«mark-to-market»). Queste regole erano state pensate
per rendere più solide le istituzioni finanziarie, e invece
hanno finito per indebolirle. La prima cosa quindi è
l'umiltà: accettare che regole perfette, capaci di eliminare
le crisi non esistono e che ogni regola, come Basilea 2 e

— 39 —
le nuove regole contabili, può rivelarsi contro-
producente. Fatta questa premessa non scontata (la
maggior parte dei regolatori e molti politici non l'ac-
cetterebbero), vi sono certamente alcune iniziative che
possono migliorare il sistema ed evitare che simili guai si
ripetano.
1. Obbligare le banche a detenere più capitale. Ha
cominciato a farlo lo stato ricapitalizzando le banche;
prima o poi è necessario che allo stato si sostituiscano di
nuovo privati là dove già non è avvenuto. In qualche
modo la trasformazione dell'industria finanziaria inne-
scata dalla crisi lo sta già facendo: la fine delle banche ili
investimento e la loro trasformazione in banche com-
merciali fa sì che alcune operazioni che prima svolge-
vano e oggi non potranno più svolgere, si stiano spo-
stando ai fondi hedge, i quali, pur non essendo regolati,
sono più cauti perché, come abbiamo visto, i gestori ne
possiedono quote rilevanti e sono motivati a fare at-
tenzione.
2. Impedire che la diversificazione arrivi al punto
che la banca perda ogni incentivo a controllare la
qualità dei suoi prestiti. Il motivo per cui esistono le
banche è proprio questo: essere incentivate a
selezionare le imprese cui concedono i prestiti. Se
l'incentivo viene meno, cade la ragione della loro
esistenza: le imprese potrebbero finanziarsi
rivolgendosi direttamente ai singoli risparmiatori.
3. Allineare gli incentivi dei manager (ovvero la
loro remunerazione) ai rischi che fanno assumere
alla banca. Cioè: se faccio assumere un rischio
decennale, la mia remunerazione deve dipendere dai
risultati della banca su un orizzonte decennale, non
dai risultati del prossimo trimestre. Non è facile, ma
si potrebbe pensare a regole fiscali capaci di allineare
rischi e incentivi.
Altre proposte sono semplicemente sbagliate: una X
regolamentazione eccessiva che finisce per impedire al

— 40 —
mercato di funzionare, l'errore in cui cascò Hoover. X
Proibire le vendite di titoli allo scoperto e solo per al-
cune aziende: le vendite allo scoperto sono un modo
per ridurre la possibilità che si creino bolle speculative, e
la proibizione selettiva è un invito alla corruzione, cosa
che sta già accadendo. Limitare per legge lo stipendio
dei manager: così i migliori andranno via o sposteranno
la sede della banca in paesi che non impongono questi
limiti. Chiudere i mercati e quindi impedire che si
formino i prezzi. I prezzi, per quanto volatili,
contengono informazione importante. Ostacolare,
come il presidente della Consob si è affrettato a pro-
porre, le scalate ostili, che sono il mezzo attraverso il
quale il mercato sostituisce manager e azionisti ineffi-
cienti con altri più efficienti. L'elenco delle proposte
pericolose potrebbe essere molto lungo.
Infine, per quanto riguarda l'Europa vi è un aspetto
politico importante. Molte banche europee hanno di-
mensioni enormi rispetto al Pil del loro paese, come per
esempio la banca Svizzera Ubs che ha attività pari a 4
volte il Pil della Svizzera. Quindi interventi di aiuti alle
banche potrebbero non essere alla portata di un singolo
paese. In ottobre l'Europa ha coordinato gli interventi
di salvataggio delle banche e di garanzia dei prestiti fra
banche, e questo è bene. Meglio sarebbe se in futuro
eventuali salvataggi avvenissero attraverso un fondo eu-
ropeo sovranazionale, anziché mediante interventi na-
zionali: questo infatti ridurrebbe il rischio che un singo-
lo salvataggio sia troppo costoso per un singolo paese;
ridurrebbe anche il rischio di interferenze politiche na-
zionali sulle banche ricapitalizzate con denaro pubblico.

u n po' di ottimismo

Come abbiamo detto, le crisi sono una caratteristica


endemica del capitalismo. Ma alla fine i benefici sono

— 41 —
più dei costi: il benessere generato dal capitalismo è
superiore a qualsiasi altro sia stato prodotto da sistemi
diversi fin qui sperimentati. Nella storia degli Stati Uniti
le crisi sono state ricorrenti: negli anni cinquanta, ai
tempi dello Sputnik, la paura di essere superati dall'Urss,
negli anni ottanta dai giapponesi; nel 1975 il Watergate e
la sconfitta in Vietnam; nel 2002 lo scandalo di Enron,
oggi lo smarrimento di un paese preoccupato per
l'economia e per il valore delle proprie case. Ma ogni
volta l'America reagisce, supera la crisi e ricomincia a
crescere, ad attrarre le migliori intelligenze dal resto del
mondo, a creare aziende che cambiano il mondo
(abbiamo già ricordato Google che senza la bolla del
Nasdaq probabilmente non esisterebbe). Ha osservato
l’Economist nel luglio 2008:

Così come il capitalismo americano favorisce il fallimento delle


aziende decotte e la loro pronta sostituzione con imprese nuove, con
altrettanta rapidità reagisce il sistema politico. In Europa i leader
emergono a fatica e durano a lungo; negli Stati Uniti le primarie
consentono a faville sorte quasi dal nulla di trasformarsi in men che
non si dica in coscienza collettiva e talvolta in presidenti.

2. A cosa serve la finanza

La finanza è sotto assedio, accusata non solo di aver


provocato la crisi economica più grave dagli anni trenta,
ma anche di aver spinto alle stelle il prezzo delle materie

— 42 —
prime e in particolare del petrolio, una fiammata durata
peraltro poche settimane.
In parte queste critiche sono giustificate: come ab-
biamo visto, la finanza e chi ha il compito di regolarla
hanno commesso molti errori. Alcune autorità preposte
alla sorveglianza dei mercati sono state «catturate» da
interessi politici o dalle stesse istituzioni sulle quali
dovevano vigilare, troppi operatori hanno assunto rischi
eccessivi, spesso a causa di sistemi di remunerazione di-
storti o per troppo ottimismo. Ma accusare la finanza
con slogan grossolani, predicando con evidente soddi-
sfazione la fine del capitalismo finanziario, se non del
capitalismo tout court, non è solo populista, è anche sba-
gliato e molto pericoloso.
La finanza serve. Innanzitutto consente di trasformare
le buone idee in imprese, posti di lavoro, occasioni di
sviluppo e di crescita. Un tempo le banche finanziavano
solo chi offriva garanzie reali, un giovane con una buo-
na idea ma senza qualche bene al sole rimaneva a spas-
so. Basta visitare i sobborghi di Cambridge in Gran Bre-
tagna o percorrere la strada 128 che circonda Boston,
sede di Harvard e del Mit, o la Silicon Valley sorta
accanto all'università di Stanford per rendersi conto di
come la buona finanza abbia trasformato le idee nate
nei laboratori delle università in brevetti e poi in
imprese. Una delle ragioni per cui in Europa spesso c'è
meno innovazione rispetto al mondo anglosassone è la
presenza di un sistema finanziario fino a poco fa
dominato da banche tradizionali meno adatte a
finanziare le idee.
Una seconda importante funzione della finanza è re-
distribuire il rischio, cioè evitare che il rischio rimanga
concentrato in pochi individui o istituzioni. La finanza
permette anche che ciascuno di noi si esponga al rischio
a seconda delle proprie condizioni e delle proprie
preferenze. Il risultato è che la buona finanza consente
di investire e di crescere di più. Lo dimostrano

— 43 —
numerose ricerche empiriche che rivelano come
l'economia di un paese cresca in relazione allo sviluppo
e al funzionamento del suo sistema finanziario.
Mercati finanziari che funzionano bene non sono un
buon affare solo per i ricchi: aiutano anche i più poveri,
perché sono i poveri le persone più esposte alle
fluttuazioni dell'economia. E la buona finanza stabilizza
l'economia.
Ci rendiamo conto che a questo punto nel lettore
possa nascere qualche perplessità: ciò che è successo in
questi mesi sembrerebbe contraddire quanto detto. Per
questo ci preme chiarire alcuni punti fondamentali:
perché la finanza aiuta i poveri; perché diversificare il
rischio consente di crescere di più; perché la finanza
consente di risolvere il problema politico che si pone
quando un paese vuole evitare che le sue aziende siano
«vendute allo straniero», ma allo stesso tempo non
vuole subire il costo del possibile fallimento di
un'azienda nazionale; perché la «speculazione» non è un
diavolo, ma spesso aiuta proprio a evitare che il mercato
sbandi e si sviluppino bolle speculative; infine perché -
per il buon funzionamento dei mercati finanziari - non
servono solo trasparenza, buone regole, autorità che
non dormono, o peggio, si fanno blandire da coloro sui
quali dovrebbero vigilare, ma serve soprattutto una
conoscenza finanziaria ili base da parte dei cittadini.
Come vedremo, in Italia è scarsissima e, anziché
tuonare contro la finanza, si potrebbe partire da qui.

La finanza aiuta anche ipoveri

Pensate per un momento agli agricoltori nei paesi po-


veri del mondo, in Africa o in India. Questi agricoltori
non riescono a risparmiare: vivono del raccolto del-
l'anno. Se il raccolto va bene, la loro famiglia ha cibo
sufficiente, avanza anche un po' di denaro per far con-

— 44 —
tinuare a studiare i figli, e soprattutto può acquistare le
sementi più adatte per preparare il raccolto dell'anno
successivo. Se il raccolto va male, diventa un problema
arrivare alla fine dell'anno. Ma si aggiunge un'aggra-
vante: poiché il reddito di questi agricoltori è molto in-
certo, cioè fluttua da un anno all'altro, le banche non li
finanziano perché li considerano (giustamente) clienti
pericolosi. E così gli agricoltori raramente riescono ad
acquistare sementi diverse, e se anche vi riuscissero, non
riuscirebbero ad acquistare il fertilizzante, e così a un
cattivo raccolto ne segue spesso uno peggiore, che li
inchioda a una vera e propria «trappola di povertà».
Per risolvere i loro problemi, questi agricoltori avreb-
bero bisogno di tre diversi «prodotti finanziari». In-
nanzitutto un'assicurazione contro le fluttuazioni nella
produzione, dovute a eventi verificabili, come una
pioggia torrenziale o una siccità. Poi un mercato a ter-
mine sul quale vendere al momento della semina una
quantità certa (grazie all'assicurazione) e a un prezzo
certo. A questo punto, conoscendo con sicurezza il red-
dito di cui disporranno al momento del raccolto, pos-
sono presentarsi alla banca locale e chiedere un finan-
ziamento per acquistare la semente che ritengono più
adatta. Questi tre strumenti finanziari (l'assicurazione, il
mercato a termine e la banca) consentono all'agricoltore
di separare il reddito di un anno da quello dell'anno
precedente e quindi di evitare la «trappola della
povertà».
Gli agricoltori ricchi non hanno di questi problemi:
possono contare sempre su un ampio credito, anche se
la produzione e i prezzi sono incerti, perché la loro ric-
chezza è una garanzia sufficiente per la banca che fa lo-
ro credito per acquistare sementi e fertilizzanti. Per gli
agricoltori ricchi assicurazioni e mercati a termine non
sono essenziali.
In India, fino al 1990 i mercati finanziari erano so-
stanzialmente proibiti. La liberalizzazione finanziaria,

— 45 —
iniziata negli anni novanta, è stata uno dei fattori che ha
contribuito alla crescita dell'India negli ultimi dieci,
vent'anni.

benefici della diversificazione del rischio

Per una famiglia comune, utilizzare strumenti finanziari


che le consentano di diversificare il rischio è spesso
mol-lo difficile. Per moltissime famiglie la casa
rappresenta la quasi totalità della ricchezza di cui
dispongono. Pensate a che cosa accade durante una
recessione che colpisce in modo particolare la regione in
cui una famiglia vive, per esempio una crisi del porto di
Genova o dei mercati agricoli a Mantova. In simili
frangenti, non solo il capofamiglia rischia di perdere il
posto di lavoro, ma si riduce anche il valore della sua
casa perché durante una recessione i prezzi delle
abitazioni scendono. Se per superare il momento di
difficoltà, il capofamiglia chiede un prestito alla banca,
questa gli lesinerà il credito, sostenendo che il valore
delle sue garanzie, cioè della sua casa, è sceso. Quindi,
affinché la ricchezza di una famiglia possa funzionare
come un'assicurazione che protegge il reddito durante
una recessione, è necessario che non sia investita in beni
il cui valore scende proprio durante la recessione.
Questo però è esattamente ciò che succede alla casa.
Quando il porto di Genova va male e il valore degli
immobili a Genova scende, i lavoratori del porto
dovrebbero possedere case non a Genova ma, per
esempio, a Milano, dove invece l'economia va bene e il
valore delle case tiene. Una soluzione sarebbe affittare la
casa, anziché acquistarla. Ma non è necessariamente una
buona soluzione. E vero che l'affitto non espone al
rischio di fluttuazioni nel prezzo delle case, ma non
consente neppure di investire in un bene che a lungo
termine spesso si è rivelato un buon investimento.

— 46 —
Inoltre possedere una casa dà una sicurezza alla quale
molte famiglie non sono disposte a rinunciare.
Nonostante il grande sviluppo dei mercati finanziari,
non esistono ancora strumenti che consentano alle
famiglie di diversificare il rischio concentrato nella pro-
pria casa. Il primo tentativo di aprire un mercato che
permetta la diversificazione del rischio immobiliare è
stato fatto da Robert J. Shiller, un economista dell'uni-
versità di Yale, autore di libri di grande successo come
Euforia irrazionale. Analisi dei boom di Borsa (il Mulino
2000). Shiller ha aperto un mercato online che consente
di vendere la propria casa «a termine». Il ricavato può
essere investito, per esempio, in un fondo immobiliare
che possiede pacchetti di abitazioni localizzate in regioni
o paesi diversi. Evidentemente questi mercati devono
essere molto ben regolati: per una famiglia perdere la
casa è molto più grave che perdere un po' dei propri
risparmi investiti in Borsa. Ma il punto rimane:
diversificare il rischio immobiliare consentirebbe di
attenuare il costo di una recessione. Ecco un esempio di
come un contratto finanziario relativamente sofisticato
potrebbe aiutare persone comuni.

Finanza e confini politici

Pensate ora al Cile. La gran parte del reddito nazionale


cileno è legato a una singola attività economica: l'estra-
zione del rame. Non vi è dunque da sorprendersi se in
Cile esiste una fortissima correlazione fra l'andamento
del reddito nazionale e il prezzo del rame: quando il p
rezzo del rame è alto i cileni sono ricchi, ma quando
scende, diminuisce anche il loro reddito. Per stabiliz-
zarlo occorre svincolarlo dalle fluttuazioni del prezzo
del rame. Una soluzione sarebbe vendere una buona
parte delle miniere cilene a stranieri e investire il rica-
vato nell'acquisto di aziende in altre parti del mondo:

— 47 —
imprese elettroniche a Taiwan, o case automobilistiche
tedesche, attività il cui valore non cambia quando il
prezzo del rame oscilla. Ma questa soluzione si scontra
con un potente ostacolo politico, perché il parlamento
cileno si è sempre opposto alla vendita delle proprie mi-
niere di rame a stranieri. Il risultato, anche in questo ca-
so, è che la diversificazione non avviene e i cileni ri-
mangono esposti alle fluttuazioni del prezzo del rame.
E qui che la finanza può venire in soccorso consen-
tendo di aggirare l'ostacolo politico. Per proteggere il
reddito cileno dalle fluttuazioni del prezzo del rame non
è necessario vendere le miniere: basta che il governo
cileno, che le possiede, usi i mercati finanziari
sottoscrivendo un contratto cosiddetto di «swap», cioè
di scambio. Ecco come potrebbe funzionare. Il Cile
continua a possedere le proprie miniere, ma sottoscrive
un contratto, per esempio con grandi fondi pensione
inglesi, che lo libera dal rischio di fluttuazioni nel prezzo
del rame. Ogni anno il Cile paga al fondo pensione un
rendimento che dipende da come va il prezzo del rame;
in cambio riceve un rendimento che dipende, per
esempio, dall'andamento della Borsa di New York. La
proprietà delle miniere non cambia, ma il Cile si è
protetto dalle fluttuazioni nel prezzo del rame.
Contratti simili possono essere usati per diversificare
anche i rischi delle banche, senza venderle. Dieci anni fa
il governo di Lisbona cercò di bloccare l'acquisto da
parte di una banca spagnola, Santander, di una banca
portoghese, Champalimaud. Il governo portoghese
sentenziò che il paese non poteva perdere le proprie
banche, perché gli spagnoli avrebbero raccolto il ri-
sparmio delle famiglie di Lisbona e lo avrebbero im-
piegato per finanziare imprese spagnole. Anche qui la
finanza aiuta: i prodotti derivati consentono infatti a una
banca di diversificare i propri rischi «impacchettando» i
prestiti che ha fatto e vendendoli. Per esempio la banca
di Lisbona avrebbe potuto vendere i prestiti erogati alle

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famiglie portoghesi a investitori finlandesi e con il
ricavato acquistare prestiti erogati da banche finlandesi.
La proprietà nazionale delle banche è salva, ma anche i
benefici della diversificazione (come abbiamo già visto,
la diversificazione non deve arrivare al punto che la
banca portoghese perda ogni incentivo a controllare la
qualità dei suoi prestiti).
Ricapitolando: diversificare il rischio è sempre una
buona cosa, ma la diversificazione spesso si scontra
contro potenti ostacoli politici. E qui che la finanza può
aiutare: consente di diversificare il rischio senza perdere
la proprietà delle risorse nazionali, come il rame cileno,
o delle banche nazionali - se per qualche motivo un
paese non intende venderle. Chi più dovrebbe sostenere
i prodotti finanziari derivati sono proprio quei politici
che non accettano che le aziende della nazione siano
vendute allo straniero.

L’ importanza dell'educazione finanziaria

Abbiamo più volte sottolineato che le cose funzionano


quando in campo c'è la «buona» finanza. I prodotti fi-
nanziari sono spesso complessi e non è facile per le fa-
miglie, oltre che per molte imprese - che pure trarreb-
bero un gran beneficio dalla diversificazione - capire che
cosa acquistano. Una buona regolamentazione deve
innanzitutto imporre trasparenza, ma la trasparenza
serve se gli investitori hanno una solida conoscenza di
base dei principi che regolano gli investimenti.
L'educazione finanziaria è molto scarsa sia in Italia
sia nel resto d'Europa sia negli Stati Uniti. Uno studio di
Tito Boeri e Luigi Zingales rivela che più della metà
degli italiani non conosce la differenza tra un'obbliga-
zione e un'azione. Più della metà crede che sia meno
rischioso investire in un solo titolo invece che in un
fondo comune, e la maggior parte ignora che cosa sia

— 49 —
un tasso di interesse composto. Come evidenzia la ri-
cerca di Annamaria Lusardi, problemi simili esistono
anche negli Stati Uniti e in Danimarca, paese con un
tasso di istruzione elevato. Una maggiore informazione
è fondamentale, e un investimento pubblico in questa
direzione, a cominciare dalle scuole, ma non solo,
sarebbe assolutamente necessario. Infatti, chi è più sog-
getto ai rischi che derivano da una scarsa informazione
sono i meno ricchi, coloro per i quali un cattivo in-
vestimento può essere fatale.
Per capire come muoversi molte volte gli italiani si !
rivolgono alla loro banca; spesso purtroppo i consigli
che ricevono non sono adeguati o, nei casi peggiori,
sono orientati unicamente verso l'interesse della banca.
Non dimentichiamo quando le banche italiane in-
vogliavano ad acquistare titoli Cirio e Parmalat pochi
mesi prima del loro tracollo. Lo stesso è accaduto per i
titoli argentini.

Vietare la speculazione?

Da qualche tempo a questa parte non si parla d'altro che


di «speculatori», ma chi siano e che cosa facciano è
spesso piuttosto oscuro. Chiaramente sono i cattivi:
nell'opinione comune il loro nome ha una decisa con-
notazione negativa. Ma chi è uno speculatore? Il cit-
tadino che compra titoli in Borsa - direttamente o in-
direttamente attraverso un fondo comune - in base alle
sue aspettative sull'andamento della Borsa è uno spe-
culatore? Tutti (o quasi) direbbero di no. Ma allora che
differenza c'è tra il cittadino investitore (il buono) e lo
speculatore (il cattivo)? La domanda non ha una ri-
sposta facile, se non vogliamo accontentarci di slogan
un po' moralistici sulla sete di denaro.
Una categoria particolare di «speculatori cattivi»
comprenderebbe coloro che vendono «allo scoperto»,
cioè senza possedere i titoli che vendono e contando di

— 50 —
acquistarli un minuto prima della consegna a un prezzo
più basso. Vietare le vendite allo scoperto renderebbe i
mercati più instabili, non più stabili. Pensate a ciò che
accade quando gli investitori, come talvolta succede, si
invaghiscono di un'azienda o di un prodotto o di un
paese e cominciano a investire in modo irrazionale,
acquistando azioni di quell'azienda o di quel paese senza
chiedersi - anche quando il prezzo ha raggiunto livelli
insensati - se continuino a riflettere realistiche
prospettive di guadagno. Spesso i soli investitori che
riportano un po' di ragionevolezza in quei mercati sono
proprio i cosiddetti speculatori: vendendo allo scoperto
dimostrano che, a differenza della maggioranza, c'è chi
pensa che quei prezzi folli non dureranno a lungo.
Svolgono quindi un ruolo importante, quello di ridurre
la possibilità che si sviluppino bolle ingiustificate. Se si
proibiscono vendite allo scoperto - come è accaduto
nell'ottobre del 2008 in molti paesi tra cui l'Italia -
nell'illusione che questo serva a stabilizzare i mercati, si
finisce per ottenere l'effetto opposto, cioè introdurre
più volatilità nei prezzi.

L'aumento del prezzo del petrolio: colpa della


speculazione?

Un'altra accusa che si muove alla finanza è di aver spin-


to alle stelle, peraltro solo per qualche settimana, il prez-
zo di molte materie prime. Per comprendere se si tratti
di un'accusa fondata, dobbiamo stabilire che cosa de-
termina il prezzo delle materie prime. Lo faremo con
l'esempio di cui si è più discusso, vale a dire quello del
petrolio.
> Che cosa determina il prezzo del petrolio? Innanzi-
tutto la quantità estratta e cioè le decisioni dei pro-
duttori e in particolare del loro cartello, l'Opec (l'Or-
ganizzazione dei paesi esportatori di petrolio). Certo, se

— 51 —
ci fosse più concorrenza nell'offerta, sarebbe tanto di
guadagnato, ma così non è. Se l'Opec decide di tagliare
la produzione, si crea un eccesso di domanda e il prezzo
sale. La politica dell'Opec è probabilmente ciò che più
condiziona il ciclo del petrolio. Tenendo conto
dell'inflazione, e cioè misurandolo con i prezzi attuali, il
petrolio fino al 1973 costava 20 dollari il barile. Nel
1973, dopo la guerra del Kippur, balzò a 50 dollari e nel
1979 fece un altro salto arrivando a 100 dollari. Da
allora scese senza interruzione: nel 1986 un barile era
tornato a costare 20 dollari e nei vent'anni successivi,
fino al 2005, oscillò tra i 20 e i 30 dollari. Perché negli
anni settanta l'Opec abbia spinto in su i prezzi è
comprensibile: il cambiamento dei rapporti di forza in
Medioriente sfociato nel conflitto tra Israele e i paesi
arabi. Perché poi abbia consentito che per vent'anni
rimanessero tanto bassi rimane (almeno per noi) un
mistero. Ma il punto è che oggi siamo tornati a un
livello in qualche modo normale.
Sulle decisioni dell'Opec influiscono certamente le
stime di quanto petrolio si potrà estrarre nei prossimi
mesi o anni. Fino a poco tempo fa vi era un diffuso ot-
timismo sulla rapidità con la quale la produzione sa-
rebbe potuta aumentare. A 140 dollari il barile diventa
conveniente estrarre anche petrolio che a 70 dollari vie-
ne lasciato sotto terra perché estrarlo è troppo costoso.
Ma aumentare la produzione prende tempo: il petrolio
che diviene via via più conveniente estrarre richiede che
siano scavati nuovi pozzi e allungati oleodotti, talvolta
in zone pericolose. Un esempio sono i giacimenti del
Kazakistan, forse i più ricchi al mondo: la data in cui si
prevede potranno cominciare a produrre viene rinviata
di continuo, non perché non siano convenienti, ma per-
ché metterli in produzione si è rivelato molto più com-
plicato del previsto - a cominciare dalle trattative con il
governo del Kazakistan che a metà strada ha cambiato il
contratto che aveva firmato con le imprese impegnate

— 52 —
nell'estrazione. A 200 dollari il barile diverrebbe con-
veniente anche trivellare il Polo Nord - ammesso che
decidessimo di farlo, e non pensiamo sia una buona idea
- ma di qui al giorno in cui quei pozzi sarebbero attivi
trascorrerebbero molti anni, forse decenni. Poco prima
dell'estate 2008, quando il prezzo salì a 145 dollari, è
successo che i pozzi messicani di Cantarell, uno dei più
grandi giacimenti di greggio al mondo, hanno ridotto
inaspettatamente la produzione del 36 per cento perché
il giacimento, attivo dagli anni settanta, si sta esaurendo
e il governo messicano ha probabilmente deciso di farlo
durare più a lungo, almeno fin quando non entreranno
in produzione altri pozzi. L'aumento improvviso del
prezzo è dunque dipeso anche da una serie di notizie
negative sull'offerta - incluse le preoccupazioni che si
erano diffuse nell'estate 2008 sulla possibilità di una
guerra fra Israele e Iran.
E poi c'è la domanda. Una prova convincente che il
prezzo sia mosso dalla domanda è arrivata nell'agosto
del 2008: non appena sono usciti i primi dati sul-
l'aggravamento della crisi finanziaria e sulle prospettive
negative di crescita mondiale, il prezzo è sceso.
In definitiva, se si vuole comprendere che cosa de-
termini il prezzo del petrolio, è meglio cercare di capire
quello che succederà alla domanda e all'offerta, piut-
tosto che prendersela con la finanza e gli speculatori.
Eppure, non appena il prezzo del petrolio sale, i po-
litici, non solo in Italia, anche nel Congresso degli Stati
Uniti, accusano la speculazione. Ripetono che a muo-
vere il prezzo sono gli speculatori che operano sul mer-
cato a termine, ovvero coloro che acquistano e vendono
contratti che prevedono la consegna di una data
quantità di petrolio fra tre o sei mesi. E sulla base di
questa convinzione propongono leggi che proibiscono
acquisti e vendite su questi mercati.
Non è la prima volta che la politica interviene erro-
neamente per impedire simili operazioni. Nell'estate del

— 53 —
1958 negli Stati Uniti il prezzo delle cipolle salì da 50 a
300 dollari per un sacco di 23 chili. Interrogato da una
commissione del Congresso, Everette Harris, presidente
del Chicago Mercantile Exchange (Cme), disse che
chiudere il mercato a termine per le cipolle era come
rompere il termometro sperando che servisse ad
abbassare la febbre. Non servì a nulla. In agosto il
Congresso varò una legge che proibiva gli scambi a
termine sulle cipolle. Il prezzo rimase elevato. Non solo,
ma la volatilità dei prezzi aumentò, segno che forse i
mercati a termine un ruolo positivo lo svolgono. Il
prezzo scese solo l'anno successivo, quando gli effetti
della gelata, che evidentemente era la ragione degli
straordinari aumenti, scomparvero.
Chi opera sui mercati a termine fa una scommessa,
non influenza né la domanda né l'offerta,di petrolio.
Ogni contratto «future» è costituito da due parti: chi
scommette che il prezzo salirà e chi scommette che
scenderà. Quando, come nell'estate scorsa, il prezzo
saliva, c'erano investitori («lunghi») che prevedevano
che questo trend sarebbe continuato e il prezzo sarebbe
arrivato a 200 dollari; e investitori («corti») che
prevedevano (e hanno avuto ragione) che il prezzo
sarebbe ritornato sotto i 100. I prezzi sul mercato a
termine sono determinati da queste due forze che si
compensano stabilendo il prezzo di equilibrio. Ma
questi speculatori non corrono mai il rischio di dover
ricevere una partita di petrolio, o di doverla
effettivamente consegnare: vendono i contratti prima
della loro scadenza. Quindi non possono avere alcun
effetto sulla domanda né sull'offerta. Pensare che chi
acquista posizioni «lunghe» aumenti la domanda di
petrolio è sbagliato, così come lo è pensare che chi
acquista posizioni «corte» ne faccia salire l'offerta.
Certo, ci potrebbero essere speculatori che influen-
zano la domanda accumulando grandi quantità di pe-
trolio nella speranza che il prezzo salga. Cisterne piene

— 54 —
di petrolio parcheggiate nell'oceano. Ma i dati a di-
sposizione non lo indicano: se mai, nei mesi in cui il
prezzo del petrolio sfiorava i 140 dollari, le scorte di-
minuivano, non aumentavano.
Pensare che la speculazione sui mercati a termine
determini il prezzo delle materie prime è come pensare
che scommettere sui cavalli possa determinare il ri-
sultato della gara. Scommettere sui cavalli è lecito, an-
che se forse sconsigliabile. Chi scommette sui cavalli si
ritiene un profondo conoscitore delle razze, della bra-
vura dei fantini - e proprio per questo motivo solita-
mente perde molti soldi. Ma nessun giocatore è così
matto da pensare che la sua scommessa possa influire
sul risultato della gara, cioè che puntando su Varenne si
possano migliorare le chances che Varenne vinca la
corsa. Eppure è proprio quel che pensa chi ritiene che
la speculazione sul mercato a termine del petrolio sia la
ragione per cui il prezzo è andato alle stelle. Perché
allora è tanto comune incolpare la speculazione?
Una spiegazione si può rintracciare nel fatto che a
muovere i prezzi sui mercati a termine sono gli stessi
fattori che muovono i prezzi correnti: le previsioni circa
la domanda e l'offerta di petrolio. Il fatto che i due
prezzi, quello corrente e quello a termine, si muovano
insieme può trarre in errore: qualcuno interpreta questa
correlazione come se i mercati a termine determinassero
i prezzi correnti. Ma potrebbe anche valere
l'interpretazione opposta. La realtà è che i due prezzi si
muovono insieme perché entrambi reagiscono alle
medesime informazioni: fenomeni reali, come domanda
e offerta, non fenomeni finanziari.
Per verificarlo, alcuni ricercatori della Commodity
Futures Trading Commission hanno effettuato un test
statistico sull'ipotesi che i flussi di investimenti nel mer-
cato a termine del petrolio influenzino il prezzo spot.
Utilizzando dati sulle posizioni giornaliere di operatori
commerciali e finanziari, questi test (test di Gran-ger)

— 55 —
non individuano alcuna relazione di causalità tra flussi e
prezzi. Risultati confermati anche da ricercatori
indipendenti. Perfino il Nobel Paul Krugman, attento
critico del liberismo, si è pronunciato contro l'ipotesi
che il prezzo del petrolio sia stato manipolato da
speculatori invece che da domanda e offerta.
Un'ultima osservazione. Nei mesi scorsi tutte le ma-
terie prime sono aumentate, sia quelle che possono es-
sere scambiate su mercati a termine, sia quelle che non
lo sono. Anzi, in alcuni casi il prezzo di minerali che
non sono trattati al mercato a termine di Chicago, per
esempio ferrocromo e cobalto, è aumentato più del
prezzo del petrolio.
La verità è che molti politici non sanno come fun-
ziona un mercato a termine né come possa essere utile.
Armati della loro ignoranza, cercano di tranquillizzare
gli elettori accusando gli speculatori: è molto più facile
che tentare di ridurre la domanda o, per esempio,
adottare provvedimenti che inducano i cittadini a
consumare meno energia.

Eliminare le «bolle speculative»?

L'opinione comune è che le bolle speculative, cioè au-


menti apparentemente non giustificati di un prezzo,
siano fenomeni da evitare. In generale questo è vero.
Abbiamo visto che se l'obiettivo è eliminarle, chiudere i
mercati a termine e impedire le vendite allo scoperto
non è una buona idea.
Ma è proprio vero che tutte le bolle sono fenomeni
irrazionali da impedire? Non necessariamente. In realtà
alcune possono avere effetti positivi, come già aveva
notato Keynes nel 1931 analizzando la bolla azionaria
che era poi esplosa nel '29: «gli ampi investimenti negli
anni fra il 1925 e il 1929 erano certamente l'effetto di un
eccesso di ottimismo, ma ebbero anche effetti positivi».

— 56 —
Una bolla azionaria può avere effetti positivi per
esempio perché attira, verso le imprese quotate, una
gran quantità di capitali e questo consente loro di
investire, soprattutto in ricerca e sviluppo. Un esempio
recente è la cosiddetta «bolla di internet», che si creò a
partire dalla metà degli anni ottanta e scoppiò nella
primavera del 2001. E vero che esplose perché la
crescita stratosferica dei valori di alcune aziende - anche
di quelle che non avevano mai chiuso un bilancio senza
perdite - era del tutto ingiustificata. Ma fu proprio
l'enorme afflusso di risparmio verso le cosiddette che
consentì a internet di svilupparsi e di cambiare il
mondo. Senza questa bolla, internet si sarebbe
sviluppato molto più lentamente e, anche se molti
investitori persero una parte dei loro risparmi, il mondo
era cambiato in modo ormai irreversibile.

4.I vantaggi della globalizzazione

La globalizzazione, ovvero la forte crescita del com-


mercio internazionale, è stata condannata in due tri-
bunali. Quello dei no global di estrema sinistra, che la
accusa di creare povertà nei paesi in via di sviluppo a
vantaggio dei paesi ricchi. E quello dei no global con-
servatori, cioè di qualche leader europeo come Nicolas
Sarkozy e alcuni politici americani, che la accusa di av-
vantaggiare i paesi in via di sviluppo (Cina in testa a tut-

— 57 —
ti) a scapito dei paesi ricchi. Gli argomenti di cui si av-
valgono i due tribunali sono simmetrici. I primi puntano
il dito contro le condizioni di lavoro nei paesi in via di
sviluppo: «Facciamo lavorare i bambini del Bangladesh,
affinché i nostri possano giocare con palloni a buon
mercato». I secondi giudicano lo stesso fenomeno - cioè
il fatto che la globalizzazione abbassi i prezzi in maniera
opposta: «I beni importati dai paesi in via di sviluppo
costano poco e quindi spiazzano le nostre imprese e
fanno sparire posti di lavoro».
Quando un imputato è accusato di una cosa e del suo
contrario, spesso è innocente.

Che cos'è la globalizzazione

Il termine abusato «globalizzazione» sta perdendo nel


linguaggio comune il suo significato preciso. Comin-
ciamo dunque con il chiarirlo. Per globalizzazione in-
tendiamo l'integrazione economica basata su una pro-
gressiva liberalizzazione del commercio internazionale
di beni e servizi, attività finanziarie, capitale e lavoro. Ci
concentriamo in particolare sul commercio interna-
zionale, forse il cardine della globalizzazione stessa.
Diversamente dagli anni trenta, quando singoli paesi
potevano arbitrariamente imporre dazi e tariffe, oggi
fortunatamente esistono organizzazioni sovranazionali
che hanno il potere di impedire ai singoli paesi di
abbandonare il libero scambio. Una è l'Organizzazione
mondiale del commercio (il Wto, World Trade
Organization). Nel 2003, per esempio, gli Stati Uniti
imposero un dazio sulle importazioni d'acciaio che
colpiva in particolar modo i produttori europei. Il Wto
si oppose e dopo pochi mesi gli Stati Uniti furono
costretti a cancellarlo.
Un'altra organizzazione che difende il commercio

— 58 —
internazionale è l'Unione europea, al cui interno im-
porre dazi e tariffe non è possibile. La punizione sa-
rebbe severissima: l'espulsione dall'Unione. Ma vi sono
modi più subdoli e altrettanto efficaci per proteg-
gere le proprie produzioni a danno dei concorrenti di
altri paesi. Per esempio, salvare dal fallimento o sussi-
diare imprese nazionali poco produttive significa im-
pedire che imprese estere con costi inferiori possano
fornirci servizi più economici e spesso di miglior qualità.
E una strategia che abbiamo visto applicata in molti
settori, da quello industriale a quello bancario a quello
del trasporto aereo. Si chiama protezionismo perché
avvantaggia i produttori nazionali contro quelli esteri a
danno dei consumatori, ma soprattutto, come accadde
negli anni trenta, induce altri paesi a rispondere con mi-
sure analoghe, a svantaggio delle nostre imprese in un
gioco a somma negativa in cui tutti perdono.
Il rischio maggiore di questo periodo di difficoltà
dell'economia mondiale è proprio questo: una risposta
protezionistica, un rimedio peggiore del male.
Per comprendere il dibattito in corso sulla globa-
lizzazione, sono d'aiuto la storia, la teoria economica e
l'analisi della situazione attuale. Cominciamo da quello
che insegna la storia.

La prima globalizzazione e la sua fine

Quella di oggi non è la prima, ma la seconda grande fase


di globalizzazione. La prima cominciò all'inizio del XIX
secolo, dopo che il Congresso di Vienna aveva
ristabilito un equilibrio pacifico nell'Europa post
napoleonica. Innovazioni tecnologiche che abbatterono
i costi di comunicazione fra paesi e continenti diversi,
come l'invenzione del telegrafo e la caduta dei noli ma-
rittimi, furono alcuni dei fattori che innescarono la pri-
ma globalizzazione. L'impatto che l'apertura delle fron-

— 59 —
tiere economiche e una fortissima riduzione dei costi di
trasporto delle merci esercitarono allora è paragonabile a
quello cui abbiamo assistito nella seconda metà del XX
secolo. Un dato per tutti: nel 1870 gli investimenti
internazionali erano il 7 per cento del Pil mondiale,
salirono al 20 per cento nel 1912, valore mai più
raggiunto fino al 1980.
Questa prima globalizzazione contribuì a un balzo
enorme del livello di reddito mondiale, non per nulla
l'inizio del XX secolo è ricordato come la Belle epoque. Tra
il 1820 e il 1913 l'Europa occidentale triplicò il livello di
reddito prò capite, l'America Latina lo raddoppiò e gli
Stati Uniti quasi lo quintuplicarono. E vero che
aumentò anche la disuguaglianza tra paesi ricchi e meno
ricchi, i primi produttori di beni industriali e i secondi
produttori di materie prime. Nello stesso periodo,
infatti, il reddito prò capite africano si stima sia
aumentato «solo» del 50 per cento.
La prima globalizzazione terminò bruscamente poco
dopo la Prima guerra mondiale. Come ogni conflitto, la
guerra prosciugò i canali del commercio internazionale;
il costo di questa decommercializzazione fu enorme per
i paesi belligeranti e si aggiunse al costo della
devastazione bellica. La combinazione di protezionismo
postbellico, errori di politica monetaria e fiscale,
instabilità politica confluirono nella crisi del 1929 che
segnò l'inizio della Grande depressione di cui tanto si
parla oggi (spesso a sproposito, come
abbiamo avuto modo di spiegare). La crisi del '29
non si sarebbe trasformata nella Grande
depressione se i paesi avanzati non si fossero chiusi
nel protezionismo. La famigerata tariffa Smoot-Hawley,
introdotta nel 1930 dagli Stati Uniti, segnò l'inizio di una
chiusura commerciale globale che fece precipitare
l'economia nella sua crisi peggiore dalla nascita del
capitalismo. / La riduzione delle importazioni di un
paese che adottava misure protezionistiche faceva

— 60 —
crollare le espor-: tazioni di un altro, il quale rispondeva
proteggendosi, 1 innescando così un circolo vizioso
catastrofico. La Germania nazista, poi, vedeva
nell'autosufficienza economica - ovvero la versione
estrema del protezionismo -una condizione necessaria
per preparare la propria azione bellica; un esempio del
rapporto fra protezionismo e militarismo, su cui
ritorneremo.

La seconda globalizzazione e i suoi accusatori

Alla fine della Seconda guerra mondiale non era


affatto scontato che il mondo si avviasse verso una
seconda globalizzazione. Anzi. Il blocco sovietico si
chiudeva al resto del mondo, così fece la Cina dopo
la rivoluzione di Mao e l'America Latina scelse negli
anni cinquanta politiche protezionistiche - che poi si
rivelarono fatalmente errate - per difendere industrie
nascenti. Dal punto di vista economico, i paesi
asiatici rimanevano relativamente isolati e poveri.
Solo i paesi industriali occidentali si orientarono pre-
sto verso la liberalizzazione del commercio, riducendo
le tariffe e le altre misure di protezione. Con il Piano
Marshall del 1947, il programma di aiuti per l'Europa,
gli Stati Uniti non solo favorirono il recupero, ma
indussero anche la cooperazione tra le economie
europee evitando di ripetere gli errori del primo
dopoguerra. Dal Trattato di Roma del 1957 in poi, i
paesi dell'Europa occidentale intrapresero un lungo
cammino di cooperazione e apertura economica che è
sfociato oggi in un'Unione europea con ventisette paesi
membri.
I politici che negli anni cinquanta lavorarono per la
creazione delle prime istituzioni europee sovranazio-nali
(in particolare Schuman, Adenauer e De Gaspe-ri)
avevano ben presente l'esperienza degli anni trenta.

— 61 —
Erano convinti che inflazione e crisi del sistema di
libero scambio fossero stati responsabili della crisi delle
democrazie europee e della nascita di regimi autoritari
nel periodo fra le due guerre. Ritenevano quindi che
uno dei compiti principali delle nuove istituzioni
sarebbe stato quello di mantenere aperte le vie del com-
mercio internazionale. Fu una scelta lungimirante che
evitò gli errori del periodo interbellico, dall'atteggia-
mento punitivo verso la Germania alle guerre com-
merciali tra le potenze vincitrici. In un certo senso il
lungo cammino verso la moneta unica fu uno
strumento per favorire l'integrazione economica e,
attraverso la stabilità del cambio, un commercio
internazionale più facile.
Fino agli anni ottanta la globalizzazione è stata un
fenomeno che ha coinvolto solo i paesi industriali, men-
tre la stragrande maggioranza della popolazione mon-
diale ne era esclusa. Da circa vent'anni a questa parte,
invece, i paesi in via di sviluppo hanno fatto il loro in-
gresso nella rete del libero scambio internazionale. La
partecipazione dei paesi più poveri e dei paesi ex co-
munisti (di diritto, come i paesi dell'ex blocco sovietico,
o di fatto, come la Cina) sono stati shock enormi per la
struttura del commercio internazionale e hanno
scatenato reazioni no global.

I tribunali no global

Come in tutti i periodi di grande trasformazione, la


tentazione è quella di vedere nel nuovo una minaccia.
L'avversione al rischio talvolta prevale a svantaggio di
tutti i fattori positivi che il nuovo può riservarci e la
paura offusca la visione delle opportunità che la glo-
balizzazione offre. A questo atteggiamento concorre
anche un fattore demografico: i giovani tendono a es-
sere più aperti al nuovo, non hanno ancora una pro-

— 62 —
fessionalità strutturata, sono pronti a cambiare città,
paese, mestiere, a adattarsi. Chi è meno giovane fa più
fatica. In un paese che invecchia, la globalizzazione è
vista come qualcosa che sovverte l'ordine tradizionale
delle cose e viene accusata di molti mali, sia dai no glo-
bal di sinistra sia da quelli di destra.
Cominciamo dalle accuse del tribunale della sinistra,
secondo cui la globalizzazione sarebbe un male per i
poveri del mondo. Qualche fatto. A parte le centinaia e
centinaia di milioni di cinesi e indiani che la globa-
lizzazione ha fatto uscire dalla povertà e denutrizione,
dal 1990 in poi la povertà si è ridotta praticamente in
tutte le parti del mondo. Oltre all'Asia, anche Africa e
America Latina sono cresciute molto di più in questi
due decenni. Il tasso di crescita in America Latina per
esempio è stato negativo negli anni ottanta, mentre dal
1990 a oggi questa parte del mondo ha raddoppiato la
sua quota di commercio internazionale e il reddito pro
capite si mantiene in crescita di un buon 1,6 punti al-
l'anno, una crescita naturale considerando il rapido au-
mento della popolazione in questa regione. In vent'anni
ciò significa un aumento del livello di reddito pro capite
del 40 per cento circa. Negli anni settanta il Messico era
un paese povero, ma grazie all'apertura al commercio
internazionale e alle liberalizzazioni, è ora un paese
Ocse. Anche l'Africa subsahariana ha avuto una crescita
zero negli anni ottanta, mentre dal 1990 al 2004 il
reddito pro capite è salito e dal 2000 cresce a un ritmo
superiore all'I per cento annuo. Alcuni paesi africani
come la Tanzania e l'Uganda stanno sperimentando
tassi di crescita non lontani da quelli cinesi. Il numero
delle persone che vivono in condizioni di estrema
povertà, cioè con meno di un dollaro al giorno di
reddito, è sceso dal 17 per cento della popolazione
mondiale nel 1970 al 6,7 per cento alla fine del
millennio. Nello stesso periodo la percentuale di
persone che vivono con meno di due dollari al giorno si

— 63 —
è dimezzata.
Certo, tutti desidereremmo che la povertà si ridu-
cesse ancora più in fretta, ma è falso sostenere che la
globalizzazione l'abbia aumentata. E nei casi in cui non
ha funzionato è stato a causa di governi corrotti o in-
competenti, cioè per colpa della politica. Per una de-
scrizione agghiacciante degli errori commessi nelle po-
litiche per lo sviluppo in alcuni paesi, soprattutto afri-
cani, rimandiamo al bel libro di William Easterly, I di-
sastri dell'uomo bianco (Bruno Mondadori 2007).
" Un'altra accusa che i tribunali no global di sinistra
muovono alla globalizzazione è che essa avrebbe au-
mentato il divario tra i ricchi e i poveri del mondo. Ov-
vero: forse i poveri sono diventati un po' meno poveri,
ma i ricchi si sono arricchiti più in fretta. Neanche
questo è vero. In un saggio pubblicato sul prestigioso
Quarterly Journal of Economics, Xavier Sala-i-Martin, della
Columbia University, ha dimostrato che il reddito dei
poveri di tutto il mondo sta crescendo più del reddito
dei ricchi e che la globalizzazione sta riducendo la
disuguaglianza fra i paesi del mondo. In altre parole, se
guardiamo all'umanità nel suo insieme la disuguaglianza
è scesa.
Si dice inoltre che la globalizzazione abbia fatto au-
mentare la disuguaglianza all'interno dei paesi ricchi.

— 64 —
La crisi

Se a livello mondiale la disuguaglianza è diminuita per-


ché molti paesi poveri stanno uscendo dalla povertà,
all'interno di alcuni paesi ricchi aumenta. Che in alcuni
paesi Ocse, Stati Uniti in testa - non sembra il caso
dell'Italia - questo sia vero è fuor di dubbio. Ma quanto
ciò sia dipeso dal commercio internazionale è altamente
dibattuto. La tesi più accreditata è che il commercio
internazionale c'entri relativamente poco, almeno nel
caso degli Stati Uniti. E la conclusione di parecchi studi
sulla disuguaglianza in America, e perfino Paul
Krugman giunge a considerazioni simili nel suo recente
saggio «Trade and Wages, Reconsidered», pubblicato sui
Brookings Papers on Economie Activity (2008). Ci sono altri
fattori che hanno a che fare con l'aumento della
disuguaglianza negli Stati Uniti, come la specializzazione
dell'economia in settori ad alto capitale umano e ad alta
tecnologia e un aumento del differenziale salariale per
chi possiede un'educazione terziaria. Claudia Goldin e
Lawrence Katz nel libro appena pubblicato per
l'università di Harvard, The Race between Education and
Technology, mostrano che negli Usa l'ampliamento del
differenziale salariale fra lavoratori istruiti dipende
soprattutto dal fatto che le scuole non hanno tenuto il
passo con i progressi della tecnologia e hanno confinato
un numero crescente di giovani a lavori non specializzati
e sottopagati. Per ridurre la disuguaglianza occorre
innanzitutto migliorare il sistema scolastico.
Ma allora hanno ragione i no global conservatori se

— 65 —
3. I vantaggi della globalizzazione

condo cui la globalizzazione ha danneggiato i paesi ric-


chi? No, la globalizzazione non è un gioco a somma
zero e i paesi ricchi non hanno perso. Dal 1990 in poi i
paesi Ocse sono cresciuti un po' di più che negli anni
ottanta. Alcuni sono in difficoltà, come Giappone e
Italia, altri sono letteralmente esplosi, come Irlanda e
Spagna che ha recentemente raggiunto l'Italia per red-
dito prò capite crescendo a ritmi molto sostenuti (anche
se ora rallenterà). L'Inghilterra negli anni ottanta aveva
un reddito prò capite simile a quello italiano. Oggi ci ha
di nuovo ampiamente superato. Altre nazioni, come i
paesi nordici, hanno attraversato periodi di crisi (gli anni
novanta) e periodi di crescita sostenuta (la decade più
recente). La Germania ha accresciuto negli ultimi anni la
sua quota di commercio internazionale esportando in
modo competitivo. Considerando la situazione diversa
in cui versano i paesi Ocse, tutti coinvolti nel processo
di globalizzazione, evidentemente chi è in difficoltà,
come l'Italia, lo deve a ben altri motivi. Scambiare la
crescita zero italiana con un declino complessivo dei
paesi Ocse è miope, o peggio, politicamente strategico.
Uno dei ritornelli più sconcertanti che circolano di
questi tempi è che la globalizzazione faccia lievitare i
prezzi e che il modo per ridurli sia il protezionismo.
L'idea stessa di globalizzazione implica al contrario che
ogni contadino del mondo possa acquistare qualsiasi
bene al prezzo più conveniente. Protezionismo com-
merciale significa proibire che gli stranieri vendano agli
italiani i loro prodotti a prezzi più bassi di quelli dei
produttori nazionali. Il protezionismo aumenta i prezzi
dei beni per definizione.
E interessante come, nel dibattito su globalizzazione
e Cina, in Italia si affermi sempre e solo - e spesso a
sproposito - che la Cina sottrae lavoro ai produttori
italiani. Ma nessuno pare accorgersi che i beni prodotti
in Cina costano poco e questo va a vantaggio dei

— 66 —
3. I vantaggi della globalizzazione

consumatori italiani. Christian Broda, economista del-


l'università di Chicago, ha dimostrato che negli Stati
Uniti l'effetto delle importazioni cinesi sui prezzi dei
beni di largo consumo e di qualità relativamente meno
elevata è stato un fattore che ha accresciuto il potere
d'acquisto dei lavoratori con i salari più bassi. Il motivo
è che i beni di qualità inferiore sono aumentati molto
meno (o sono scesi) rispetto a quelli di alta qualità. In
definitiva, se è vero che le importazioni cinesi costano
poco, deve essere vero per definizione che i
consumatori ci guadagnano. Purtroppo in Italia i prezzi
spesso riflettono le distorsioni del sistema distributivo e
il suo nanismo, ma questo non ha nulla a che fare con la
Cina. I prezzi bassissimi di Wal-Mart, il colosso
americano del low cost, ce lo insegnano. E piuttosto
paradossale che in un periodo in cui i prezzi alti sono un
vero problema in Italia, si parli di protezionismo come
rimedio. Ci si deve sempre ricordare che protezionismo
significa prezzi più alti per i consumatori. Vediamo ora
se la globalizzazione, come si dice, danneggia i
produttori.

II diavolo Cina

La Cina è uno dei diavoli più comunemente invocati per


giustificare il declino italiano. Gran parte dei paesi Ocse
importa beni dalla Cina, eppure non vive la crisi che sta
attraversando l'Italia.
La Cina è incolpata di avere costi di manodopera più
bassi dei nostri e questo rende la competizione impos-
sibile, perché è più conveniente produrre direttamente
tutto là. Non è vero. Uno degli insegnamenti fonda-
mentali della teoria del commercio internazionale è il
principio dei vantaggi comparati. Il premio Nobel per
l'economia Paul Samuelson, il più grande economista
vivente, lo ha definito con un pizzico d'ironia uno dei

— 67 —
3. I vantaggi della globalizzazione

pochi teoremi economici che sono veri e non ovvi.


Il principio dei vantaggi comparati implica questo:
supponiamo che vi siano due beni in commercio e che
un paese li possa produrre entrambi a un costo più bas-
so. Il paese che ha costi più bassi avrà interesse a pro-
durre solo il bene in cui il suo vantaggio di competitività
è maggiore e lascerà all'altro la produzione del bene in
cui i suoi vantaggi sono minori. Il motivo è che il primo
paese guadagna di più se si concentra sul bene in cui è
relativamente più efficiente. Quindi i due paesi si
specializzeranno nella produzione di un bene solo e
commerceranno tra loro. In questo modo il reddito dei
due paesi sarà più alto di quanto non lo sarebbe se si
chiudessero, non commerciassero tra loro e
producessero entrambi i beni.
Il medesimo principio vale quando vi sono in com-
mercio migliaia e migliaia di beni. Non solo, ma spesso
due paesi commerciano nello stesso bene: l'Italia
importa automobili tedesche e la Germania importa
automobili italiane. Infatti, per larga parte, il commercio
fra paesi ricchi è di questo tipo, avviene cioè all'interno
dello stesso settore.
Al contrario, i paesi meno sviluppati commerciano
spesso in settori diversi. Nel XIX secolo, per esempio,
durante la prima globalizzazione, i paesi più ricchi
esportavano prodotti industriali mentre i paesi più
poveri materie prime e prodotti agricoli locali. Oggi
questo tipo di specializzazione è in gran parte superato.
Il termine «economia industrializzata», usato per
indicare i sistemi capitalistici più avanzati, è
anacronistico: l'industria rappresenta dal 20 al 30 per
cento del Pil in Europa e Nord America. A parte la
minuscola fetta dell'agricoltura (che sparirebbe quasi del
tutto se non fosse protetta per motivi politici che nulla
hanno a che fare con l'efficienza economica), il resto
sono servizi: finanza, educazione, sanità, comunicazioni,

— 68 —
3. I vantaggi della globalizzazione

consulenza, ricerca, innovazione. I veri paesi


«industrializzati» sono sempre più Cina, India, Corea del
Sud, Messico; vale a dire i paesi emergenti.
Questo significa che se non è possibile competere
con la Cina nell'industria pesante e nel produrre
magliette a basso costo, è altrettanto vero che si può
convivere tranquillamente spostandosi sui servizi,
sull'alta tecnologia, senza contare i beni tipicamente
italiani come il design, la moda, la meccanica di
precisione eccetera. L'Italia, così come gli altri paesi
avanzati, non solo può convivere con i paesi emergenti,
ma può beneficiare del fatto che questi producano beni
industriali tradizionali.
Italia a parte, gli Stati Uniti sono stati i più veloci ad
abbracciare questa trasformazione e a specializzarsi in
altri settori. Il 76 per cento del Pil statunitense infatti è
costituito dai servizi mentre la media europea si aggira
intorno ai due terzi del Pil (l'Italia, con il 64 per cento, è
sotto la media europea). In Europa invece sopravvivono
troppe barriere che difendono interessi nazionali.
L'Europa non ha ancora sviluppato un vero mercato
unico per il settore dei servizi, dalle banche all'i-
struzione, dalla sanità ai trasporti. E questo è uno dei
punti più importanti che vanno affrontati da Bruxelles.
Infine chiudersi alla Cina, magari escludendola dal
Wto, come qualcuno mormora, significa provocarne la
reazione di chiusura verso di noi. I nostri produttori
perderebbero un mercato enorme: più di un miliardo di
potenziali consumatori dei nostri beni. Per il momento i
cinesi stanno ancora risparmiando una grandissima
parte dei loro redditi, ma presto cominceranno a con-
sumare. E fondamentale per la nostra economia essere
pronti a sfruttare questa opportunità storica.

— 69 —
3. I vantaggi della globalizzazione

Proteggere i lavoratori non i posti di lavoro

— 70 —
3. I vantaggi della globalizzazione

Tutto ciò non significa che in questi anni il processo di


trasformazione dei flussi del commercio internazionale
non abbia creato difficoltà e non induca la gente a
chiedere - giustamente - protezione. Per esempio il
settore dei servizi più avanzati è ad alto capitale umano,
quindi la trasformazione delle economie in questa
direzione implica due cose. Una è il cambiamento della
struttura organizzativa delle imprese: spariscono le tute
blu delle catene di montaggio e aumentano una serie di
lavori ad alto capitale umano diversificato, che deve
essere pronto a adattarsi a esigenze di mercato in
evoluzione e a tipi di lavoro sempre diversi. Secondo,
aumentano le differenze salariali, cioè crescono le re-
tribuzioni relative del capitale umano; in altre parole, il
reddito relativo di chi ha un'istruzione terziaria aumenta
rispetto a quello di chi non ce l'ha. Scompaiono
l'operaio specializzato in tuta blu e la segretaria, sostituiti
da macchine i primi (se la fabbrica non chiude) e da
computer le seconde. Aumentano gli stock broker, gli
scienziati impegnati in ricerca e sviluppo, ma anche i
lavoratori a bassa qualifica, i camerieri nei ristoranti usati
dagli stock broker, i pony express per velocizzare gli
scambi, i trasportatori a domicilio di merci acquistate via
internet. Le disparità salariali infatti sono cresciute
molto negli ultimi due decenni negli Stati Uniti proprio
perché il capitale umano è pagato relativamente sempre
di più (e questo, al di là dei supersti-pendi dei manager,
spesso dovuti a un sistema di incentivi sbagliati di
governance).
I paesi europei occidentali nutrono una profonda
avversione verso ogni aumento della disuguaglianza;

— 71 —
La crisi

— 72 —
3. I vantaggi della globalizzazione

ma se l'obiettivo è ridurla, la strada del protezionismo


commerciale non è quella giusta. Meglio lasciare che le
retribuzioni e i prezzi siano decisi dal mercato in fun-
zione delle sue esigenze organizzative di efficienza. Poi,
con l'intervento fiscale si può evitare la caduta relativa
dei redditi dei meno abbienti. Si possono anche in-
traprendere decise politiche redistributive con il sistema
fiscale, mantenendo i mercati liberi. I paesi nordici per
esempio hanno mercati molto liberi sia nei confronti
della concorrenza domestica sia internazionale e hanno
abbracciato in pieno la globalizzazione, ma possiedono
sistemi di redistribuzione molto efficaci.
L'Italia invece, come ben sappiamo, ha un sistema di
sicurezza sociale costoso e inefficace. Lo hanno scritto in
tanti, cominciando dall'ottimo rapporto della
Commissione Onofri su previdenza, sanità e assistenza
del 1997. Lo hanno ripetuto numerosi economisti come
Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro saggio Meno
pensioni, più welfare (il Mulino 2002); ne abbiamo parlato
anche noi in Goodbye Europa e nel Liberismo è di sinistra.
Ne ha parlato il ministro Renato Brunetta nel suo libro
con Giuliano Cazzola, Riformare il welfare è possibile
(Ideazione 2003). Non è il caso quindi di ripetere queste
argomentazioni. Vale solo la pena ricordare che
l'inefficienza del sistema di welfare italia^ no non
favorisce la dinamica di riaggiustamento settoriale
ovvero rende difficile spostare forza lavoro eia un
settore all'altro dell'economia a seconda delle op-
portunità offerte dalla globalizzazione. E difficile ac-
cettare che un settore in declino a causa della compe-
tizione estera debba sparire perché non esistono sussidi
alla disoccupazione ben congegnati per favorire il
passaggio del lavoratore da un'impresa a un'altra. O
perché una miriade di costi burocratici e lacci e lacciuoli
impediscono agli imprenditori di chiudere e aprire nuove
imprese. O perché la scuola o l'università in declino non
formano capitale umano adeguato.

— 73 —
3. I vantaggi della globalizzazione

E chiaro che non si può chiedere a un lavoratore che


ha visto sparire il suo posto di lavoro in fabbrica di di-
ventare un assistente informatico. In questi casi sarebbe
più sano introdurre sussidi alla disoccupazione e pen-
sionamenti anticipati invece di tenere in vita imprese e
settori non competitivi che vanno protetti, con costi
altissimi per fisco e consumatori. Occorre proteggere i
lavoratori, non i posti di lavoro.
Ma allora perché il diavolo Cina fa così comodo ad
alcuni dei nostri politici? Perché è molto più facile sca-
ricare le colpe all'esterno che darsi da fare per ricostruire
un sistema sociale che non protegge chi ne ha davvero
bisogno, per riformare sul serio scuola e università e per
ridurre il peso dello stato sia in termini fiscali che di costi
burocratici.

Protezionismo uguale guerra

Protezionismo e bellicosità sono sempre andati di pari


passo. Nella fase mercantilistica del commercio in-
ternazionale, diciamo dal 1550 all'inizio della prima vera
globalizzazione, il commercio era visto come un gioco a
somma zero in cui le potenze europee cercavano di
accaparrarsi il monopolio di certe rotte commerciali.
Spesso lo fecero con compagnie nazionali, come la
Compagnia delle Indie, che divennero una testa di ponte
per la costruzione di veri e propri imperi. Non sorprende
quindi che in quel periodo la bellicosità indotta da
conflitti commerciali fosse molto alta.
Il consolidamento e le espansioni di imperi coloniali
culminò alla fine del XIX secolo, durante un'altra fase di
ritorno al protezionismo. Allora gli imperi erano un
modo per garantire il commercio al loro interno (ov-
viamente a vantaggio dei colonizzatori). Quando allo
scambio pacifico si sostituisce la chiusura, la protezione
del proprio monopolio su certe rotte commerciali, o,

— 74 —
3. I vantaggi della globalizzazione

ancora, si limitano le importazioni, la storia insegna che


presto ci sarà una guerra. D'altro lato, le guerre spesso
implicano la chiusura di alcuni canali di scambio e una
tendenza all'autarchia. Al contrario, paesi che
commerciano liberamente e che traggono vantaggio dalla
cooperazione economica non hanno alcun interesse a
entrare in conflitto.
Non a caso, una delle ragioni principali che portarono
alla costituzione di istituzioni comunitarie europee di
cooperazione economica fu, almeno inizialmente, il
mantenimento della pace tra paesi che fino a pochi anni
prima erano belligeranti. Gli accordi commerciali del
1957 tra Germania ed ex alleati non furono un fatto
scontato. Essi sono un esempio di come il commercio
sia spesso un antidoto contro la guerra. Quando le
economie di due paesi sono interdipendenti, i costi di un
conflitto salgono e la probabilità di scontri scende.
Anche i sondaggi di opinione rilevano che prote-
zionismo economico, nazionalismo e xenofobia vanno
di pari passo. Un recente lavoro di ricerca di Kevin H.
O'Rourke e Richard Sinnott, mostra che chi è favorevole
al protezionismo tende a essere nazionalista (anche in
senso aggressivo), sciovinista e prova avversione verso
gli stranieri. Una correlazione di fattori che si riscontra in
tutti i numerosi paesi esaminati in questo studio. E un
risultato importante perché rivela che, al di là degli
interessi economici di questo o quel settore
dell'economia, le tendenze protezionistiche possiedono
forti componenti culturali che nulla hanno a che fare con
l'economia. Schematizzando, questi sondaggi sembrano
dirci che esistono due tipi di persone: chi vuole chiudersi
nella sua identità nazionale e vede il resto del mondo co-
me un potenziale nemico e chi si sente un cittadino del
mondo, aperto allo scambio sia economico sia culturale.
La storia del capitalismo e dell'umanità nel suo
complesso ci insegna che quando il secondo tipo di
atteggiamento prevale, nel mondo ci sono meno guerre e

— 75 —
3. I vantaggi della globalizzazione

l'economia prospera. Pace e prosperità, come si suol


dire.
Globalizzazione e cultura nazionale

Un'obiezione più sottile vuole che la globalizzazione


distrugga la cultura locale in favore di una cultura glo-
balizzata. Non è vero: una cultura accresce il proprio
valore soprattutto attraverso il confronto con culture
diverse; non chiudendosi in se stessa, ma aprendosi.
Non è questo il luogo per affrontare il discorso del-
l'immigrazione dai paesi più poveri in Europa; lo ab-
biamo fatto in Goodbye Europa. Ma cavalcare il problema
dell'immigrazione clandestina per screditare
l'integrazione finanziaria, il libero commercio interna-
zionale e per invocare l'espulsione della Cina dal Wto è
pura e pericolosa demagogia.
In realtà la globalizzazione finanziaria e commerciale
potrebbe potenziare le culture locali, anziché eliminarle.
Un paese autarchico deve produrre tutto ciò che gli
serve, comprese merci che sono aliene dalle sue
tradizioni e dalle sue risorse fisiche, umane e geografiche.
E proprio grazie al libero scambio che un paese può
specializzarsi nei settori più vicini alla propria cultura. Se
l'Italia può importare acciaio dall'estero, si può
specializzare nella moda, nel design, nel turismo, in certe
nicchie di alta tecnologia, nei servizi e in tutte quelle
attività che rendono particolarmente attraente il nostro
paese o che più sono radicate nella nostra storia e nella
nostra cultura. Una tariffa sull'acciaio ci costringerebbe a
produrlo da noi, magari distruggendo chilometri e
chilometri di magnifiche coste che potremmo utilizzare
per il turismo (e per noi stessi). Nel capitolo sulla finanza
abbiamo fatto esempi analoghi: la presenza di certi
contratti finanziari relativamente sofisticati permette di
mantenere la proprietà nazionale di alcune attività
economiche, attraverso una vitale diversificazione del
rischio.

— 76 —
3. I vantaggi della globalizzazione

Infine, un regime di libero scambio può in un certo


senso limitare il fenomeno migratorio. Un ritorno al
protezionismo che danneggiasse il commercio dei paesi
poveri ne aggraverebbe ulteriormente le condizioni e
spingerebbe la gente a emigrare, molto più di quanto
accada ora. In qualche misura, il libero commercio dei
beni sostituisce lo spostamento delle persone.
C'è una linea sottile che separa la sacrosanta difesa
della propria cultura dal nazionalismo, dal protezionismo
e da un atteggiamento aggressivo e violento verso il resto
del mondo. E estremamente importante continuare a
camminare dalla parte giusta di questa linea, anche
quando qualcuno ha scelto la parte sbagliata.

— 77 —
La crisi

4. L'euro non è il diavolo

L'euro è entrato in circolazione il primo gennaio 2002. Il


periodo che intercorre da quella data a oggi non è stato
positivo per l'economia italiana e per questo la moneta
unica è ritenuta da molti uno dei maggiori responsabili
del declino del nostro paese. Non è così.
Il declino relativo dell'Italia rispetto ad altri paesi
Ocse è iniziato ben prima del 2002 e non è imputabile
alla moneta unica. La caduta della produttività, una
riforma solo parziale del mercato del lavoro, una pres-
sione fiscale e una spesa pubblica a livelli quasi «svedesi»
- senza però servizi di qualità «svedese» -, l'i: nefficienza
dell'amministrazione pubblica e della giustizia civile,
scuole gestite nell'interesse degli insegnanti più che degli
alunni e la scarsa concorrenza nei mercati dei servizi e
delle professioni sono i veri responsabili della situazione
in cui siamo oggi. L'euro ha solo evidenziato problemi
che esistevano già, lo dimostrano altri paesi che hanno
adottato la moneta unica e che, a differenza del nostro,
sono cresciuti a tassi sostenuti. È il caso per esempio
dell'Irlanda, della Finlandia e della Spagna (almeno
finora). La Germania ha tenuto bene mentre il
Portogallo, come l'Italia, è in difficoltà.
L'adozione della moneta unica ha sicuramente com-
portato costi oltre che benefici, ma incolpare l'euro del
declino italiano di questo decennio è un errore. L'euro è

— 78 —
un altro di quei finti diavoli, come la Cina, dietro cui si
nascondono i veri problemi che non siamo capaci di
risolvere.
Le principali accuse al «diavolo euro» sono tre. Pri-
mo: la sua adozione ha generato un'aumento dei prezzi
di tutti i beni di consumo; secondo: l'adozione dell'euro
" non permette svalutazioni della moneta nazionale per
favorire le esportazioni; terzo: la Banca centrale europea
ha seguito una "politica monetaria restrittiva preoccu-
pandosi solo dell'inflazione e strozzando la crescita.
Ai lettori non dovrebbe sfuggire che queste tre ac-
cuse, spesso snocciolate una accanto all'altra nei discorsi
di certa politica e certa stampa, in realtà si con-
traddicono. Le prime due sottintendono in qualche
modo che l'inflazione è troppo alta. La terza invece, che
è troppo bassa. Esaminiamole.

Il carovita non è colpa dell'euro

Vi sono due aspetti legati ma distinti che generano nel-


l'opinione pubblica la percezione che l'euro influenzi i
prezzi. Il primo riguarda il rincaro generale del costo
della vita che si è registrato non appena la moneta unica
è stata introdotta; al momento della conversione cioè, i
commercianti avrebbero alzato una tantum i prezzi ap-
profittando della «confusione» del cambio di moneta.
Un secondo aspetto invece riguarda la percezione del-
l'andamento dell'inflazione. Dal 2002, l'inflazione per-
cepita dai consumatori è più alta di quella misurata dalle
statistiche ufficiali. L'inflazione percepita è importante
perché influenza le richieste salariali dei lavoratori e dei
sindacati che li rappresentano, gli aggiustamenti delle
pensioni e così via. Quindi una differenza tra inflazione
percepita e inflazione reale ha un impatto economico
significativo.

— 79 —
La crisi

Cominciamo dal primo punto, ovvero l'aumento dei


prezzi una tantum che si sarebbe registrato nel passaggio
dalla lira all'euro. Nell'inverno 2002 le statistiche ufficiali
non hanno registrato alcun balzo dell'indice aggregato
dei prezzi al consumo. I cittadini però lo hanno
avvertito, in Italia così come in molti altri paesi che
hanno adottato l'euro, per esempio la Germania. Com'è
possibile? C'è addirittura chi ha accusato l'Istat di
mentire, un'ipotesi da scartare. L’istat ha seri problemi
di efficienza, ma i controlli internazionali non
permetterebbero di falsificare i dati delle statistiche
nazionali anche ammesso che l'Istat lo volesse fare. Ma
allora che cosa è successo?
Occorre prima di tutto ricordare che l'inflazione si
misura sull'aggregato di un ampio campione di prezzi al
consumo: più precisamente, il tasso di inflazione è una
media dell'aumento dei prezzi di un paniere di beni. Una
spiegazione plausibile è che la percezione della maggior
parte dei consumatori sia stata influenzata non dalla
media dei prezzi, ma dai prezzi dei beni che acquistiamo
più spesso: giornale, caffè al bar, spesa nel negozio sotto
casa. In effetti ristoranti, bar, generi alimentari e servizi
bancari sono le categorie che con l'introduzione
dell'euro hanno subito i maggiori rincari. Un'indagine
campionaria della Banca d'Italia, svolta da Eugenio
Gaiotti e Francesco Lippi su 2.500 esercizi (bar e
ristoranti), mostra che nel periodo dal 1998 al 2004 i
prezzi di queste categorie sono saliti, e di tanto: molto
più dell'inflazione media. Tuttavia, osservando con
attenzione la tempistica degli aumenti, si vede che solo
una parte si può attribuire al cambio della moneta. Con
ciò non vogliamo dire che parecchi commercianti al
dettaglio non abbiano approfittato dell'introduzione
dell'euro per aumentare i prezzi. Sicuramente è
accaduto, ma la dimensione macroeconomica di questo
fenomeno, cioè se si considera l'insieme di tutti i prezzi,

— 80 —
sembra limitata. Va anche aggiunto che probabilmente
ne hanno approfittato più i piccoli negozi che i grandi
centri commerciali. Sul nanismo del nostro sistema
distributivo torneremo più avanti.
Inoltre, i prezzi di altri prodotti, soprattutto beni du-
revoli - automobili, elettrodomestici, computer, telefo-
nia - sono aumentati molto meno o per nulla. Infatti va
anche considerato l'aumento della qualità di questi beni.
Un apparecchio telefonico che oggi costa 100 euro ha
molte più funzioni di uno che costava la medesima cifra
cinque anni fa. Lo stesso vale per un'automobile
«media»: la qualità e la sicurezza delle automobili sono
aumentate notevolmente rispetto al passato.
Un secondo studio, sempre della Banca d'Italia, sug-
gerisce un altro motivo per cui i consumatori hanno so-
pravvalutato l'impatto dell'euro sui prezzi: la cattiva
memoria. Tre ricercatori della Banca d'Italia Vincenzo
Cestari, Paolo Del Giovane e Clelia Rossi-Arnaud, han-
no intervistato un campione statisticamente significativo
di italiani chiedendo loro se ricordassero il prezzo di un
biglietto del cinema prima e dopo l'introduzione
dell'euro. I risultati sono molto interessanti: gli intervi-
stati rispondono che i prezzi dei cinema nel 2001, cioè
appena prima dell'euro, erano molto più bassi di quelli
reali. Più del 50 per cento ricorda un costo inferiore del
30 o 40 per cento: 9.000 lire per un cinema di prima
visione invece che 13.000.
Veniamo ora al problema della differenza tra l'in-
flazione percepita dagli italiani negli ultimi anni e quella
misurata dalle statistiche ufficiali. Un'altra indagine della
Banca d'Italia (condotta da Paolo Del Giovane, Silvia
Fabiani e Roberto Sabbatini) dimostra che nel 2006,
anno relativamente tranquillo sul fronte inflazionistico
(il tasso medio fu intorno al 2 per cento), gli italiani
percepivano un'inflazione molto superiore a quella reale.
La discrepanza era più evidente nel caso di famiglie

— 81 —
La crisi

meno abbienti. Il motivo è simile a quello esaminato


sopra: ciò che aumenta di più sono i beni che i
consumatori acquistano più frequentemente, come i
generi alimentari. Questo studio rivela infatti come
l'inflazione percepita dalle donne fosse molto più alta di
quella percepita dagli uomini: le donne fanno la spesa
più spesso, mentre gli uomini acquistano beni durevoli,
per esempio automobili, che in proporzione sono
aumentate molto meno.
Inoltre i cittadini sono tanto più preoccupati del-
l'inflazione quanto meno i loro stipendi tengono il passo
dei prezzi. Un esempio: se i prezzi aumentano del 5 per
cento, mentre salari e stipendi sono fermi, il tenore di
vita scende. Per comprendere le distorsioni nella
percezione dell'inflazione, va quindi valutato anche
l'andamento dei redditi e il loro recente ristagno. I con-
sumatori intervistati rispondono che l'inflazione è alta
perché confrontano l'andamento dei prezzi con i loro
redditi. Se in passato prezzi e stipendi aumentavano allo
stesso ritmo, diciamo il 5 per cento ciascuno, le famiglie
non erano in allarme, perché il loro tenore di vita
rimaneva immutato. Se ora invece i prezzi continuano a
crescere del 5 per cento ma salari e stipendi restano
fermi, le famiglie percepiscono un'inflazione elevata:
non perché lo sia - i prezzi continuano a crescere allo
stesso ritmo - ma perché il potere d'acquisto degli
italiani è sceso del 5 per cento. Purtroppo, come
vedremo meglio, di fronte a questa situazione non vi
sono scorciatoie: i redditi aumentano se si lavora più
ore, o se più persone lavorano, o se la produttività sale.
Vedremo anche come riduzioni in questo senso delle
tasse e delle spese correnti possano aiutare.
Ma allora perché nel mondo, non solo in Italia, ener-
gia e generi alimentari sono aumentati tanto? La risposta
va cercata nella crescita della domanda mondiale,
soprattutto da parte di paesi che fino a poco tem: po fa

— 82 —
erano molto poveri e quindi consumavano poco,. Il
fatto che centinaia di milioni di cinesi, indiani e su-
damericani siano usciti dalla povertà ha un impatto
enorme sulla domanda. Vogliamo impedire ai cinesi di
mangiare per tener bassi nei nostri negozi i prezzi del
riso e della pasta? Non è possibile, oltre che immorale.
L'euro non c'entra. Semmai il rafforzamento dell'euro
sul dollaro - passato da 85 centesimi di euro per dollaro
nel giugno 2001 a quasi 1,6 nell'estate del 2008 - ci ha
aiutato. Mentre il prezzo in dollari del petrolio saliva da
50 a 145 dollari per barile (tra il 2004 e il 2008), l'euro si
rivalutava sul dollaro del 40 per cento, quindi il prezzo
in euro del petrolio saliva molto meno che in dollari. Il
prezzo del petrolio è poi nuovamente sceso a 100 dollari
al barile.
Per quanto riguarda i prezzi dei beni agricoli, invece,
succederà che con il passare del tempo l'offerta reagirà
all'aumento della domanda mondiale, ponendo un freno
all'inflazione di questi beni. Se poi l'Unione europea, gli
Stati Uniti e gli altri paesi Ocse smettessero di
proteggere i loro agricoltori scaricandone i costi sui
consumatori, i cittadini ne trarrebbero un gran benefido.
Politiche protezionistiche che avvantaggiano gli
agricoltori dei paesi Ocse tengono alti i prezzi dei generi
alimentari e impediscono la concorrenza dei paesi
poveri che li abbasserebbero. Questo è stato il punto di
maggiore scontro nei negoziati del Doha Round per la
liberalizzazione del commercio mondiale, che si sono
svolti a Ginevra nell'estate del 2008.1 paesi agricoli più
poveri chiedevano ai paesi ricchi di aprire le frontiere ai
loro prodotti. E poiché questi rifiutavano, per ripicca i
paesi poveri si sono opposti alla richiesta di ridurre le
tariffe che essi impongono sull'importazione di prodotti
industriali dai paesi ricchi. Un classico esempio in cui a
perderci sono i cittadini, sia dei paesi ricchi sia di quelli
poveri.

— 83 —
La crisi

Se si vogliono proteggere le campagne europee, bi-


sogna farlo in modo trasparente, approvando in Par-
lamento una legge che devolva parte del gettito fiscale a
finanziare sussidi agli agricoltori, come faceva la Gran
Bretagna prima di entrare nell'Ue. Non in modo
surrettizio, facendo pagare la protezione ai consumatori
attraverso prezzi più elevati, sperando che non se ne
accorgano, e magari dando la colpa all'euro.
La cosa sconcertante è che chi tuona contro i costi
della spesa sia poi favorevole al protezionismo. Un ri-
tornello ricorrente è quello secondo cui costa di più fare
la spesa che volare a Londra; la colpa sarebbe di
liberalizzazioni e globalizzazione. E vero il contrario: se
non ci fosse stata la liberalizzazione del settore aereo,
andare a Londra costerebbe il triplo e fare la spesa
costerebbe uguale; se ci fossero meno dazi sull'a-
gricoltura, fare la spesa costerebbe di meno.
L'economia italiana però non soffre solo di prote-
zionismo; un altro grave problema è l'eccessiva rego-
lamentazione. Per esempio, mettendo freni e paletti alla
distribuzione, si contribuisce al nanismo del settore
commerciale; lo scarso sviluppo di centri commerciali a
basso prezzo - i «discount» come Wal-Mart negli Stati
Uniti per intenderci - è solo un esempio. Il nanismo del
nostro sistema distributivo impedisce che economie di
scala in questo settore riducano i prezzi. E molto più
economico per un grande supermercato vendere grandi
quantità di merci per unità di prodotto di quanto non lo
sia per un piccolo negozietto sotto casa. In Italia di
negozietti sotto casa ce ne sono troppi, molto più che in
Francia o in Spagna, paesi che, come il nostro, non
hanno certo tradito la loro tradizione. Da noi le attività
commerciali al dettaglio con meno di nove dipendenti
sono più del doppio che in Francia, nonostante anche la
Francia si distingua per la forte regolamentazione di
questo settore. Invece, sempre rispetto alla Francia, le

— 84 —
nostre attività commerciali con più di 250 dipendenti
sono meno della metà. Anche rispetto alla Spagna, le
dimensioni del nostro commercio al dettaglio sono in
media molto inferiori. Il confronto con paesi
anglosassoni è ancora più sbilanciato: le attività
commerciali italiane con più di 250 dipendenti sono
poco più di un quarto rispetto alla Gran Bretagna.

Non si cresce a colpi di svalutazione

L'Italia, come del resto gli altri paesi dell'area euro, non
può più svalutare la propria moneta per dar fiato alle
esportazioni. Questo non è un male. Un paese alla lunga
non può crescere a colpi di svalutazioni competitive,
che per l'economia rappresentano solo una droga tem-
poranea. Svalutazioni della moneta renderebbero le no-
stre esportazioni più a buon mercato per gli acquirenti
stranieri e quindi stimolerebbero la domanda estera di
beni nazionali. Tuttavia farebbero anche aumentare i
prezzi dei beni importati in Italia in moneta nazionale e
ciò finirebbe per riflettersi in un aumento dell'inflazione
domestica. In altre parole, prima dell'introduzione
dell'euro, una svalutazione della lira rendeva per un cer-
to periodo le esportazioni italiane più competitive. Poi
però l'inflazione aumentava perché i prezzi in lire di tutti
i beni importati crescevano. E cosi, dopo una tempo-
ranea spinta alle esportazioni dovuta alla svalutazione, il
paese finiva con un'inflazione più elevata, in un circolo
vizioso senza fine. Non solo, ma dato che l'Italia faceva
e fa parte di una Comunità economica europea,
svalutazioni competitive erano considerate sempre più
dannose per gli altri paesi membri, perché favorivano le
esportazioni italiane a danno di quelle, per esempio,
francesi. E stato proprio per evitare questi giochi a som-
ma negativa che l'Europa si è prima mossa verso un si-
stema di cambi fissi, e poi ha adottato una moneta uni-

— 85 —
La crisi

ca. E infatti, nella primavera del 1995, quando la lira si


svalutò, la Francia chiese alla Commissione europea di
giudicare se la svalutazione costituisse un caso di viola-
zione delle regole della concorrenza tale da giustificare
un intervento di Bruxelles.
Inoltre, all'interno di questo sistema, alcuni settori
obsoleti dell'economia rimanevano a galla grazie a que-
ste iniezioni di «droga svalutativa» che ritardavano le
ristrutturazioni settoriali dell'economia italiana. Uno
studio recente, condotto da Matteo Bugamelli, Fabiano
Schivardi e Roberta Zizza ha mostrato che proprio i
settori che in passato avevano tratto maggiori vantaggi
dalle svalutazioni sono quelli che dopo l'ingresso
nell'Unione monetaria si sono maggiormente ri-
strutturati aumentando la loro produttività. Inoltre,
l'introduzione dell'euro ha spostato le risorse verso set-
tori dove è più importante il capitale umano.
Concentriamoci ora sui pericoli che l'inflazione pro-
vocata da svalutazioni competitive porta con sé; sono
rischi che non scompaiono nemmeno dopo la dimi-
nuzione dell'inflazione. Fino alla metà degli anni ottanta,
l'Italia è stata un paese ad alta inflazione. Del resto,
prima dell'ingresso nell'euro, l'Italia aveva tassi di
interesse molto alti sul suo debito pubblico proprio per
il timore di una svalutazione della lira. A metà degli anni
novanta, il costo degli interessi sul debito era circa il 10
per cento del Pil. Non appena l'Italia entrò a far parte
dell'area della moneta unica i tassi sul debito pubblico
scesero al livello di quelli tedeschi. Quindi il nostro
deficit si dimezzò, senza che fosse stata tagliata una sola
spesa o che fossero aumentate in modo significativo le
imposte.
Ma come spesso avviene, i benefici di una scelta (in
questo caso la scelta di entrare nell'Unione monetaria)
non sono gratuiti: comportano costi, o meglio, l'adat-
tamento a una situazione economica e istituzionale di-

— 86 —
versa. In particolare, non poter svalutare la moneta po-
ne vincoli precisi all'andamento di prezzi e salari. Se es-
so non è in linea con la scelta di abbandonare le svalu-
tazioni, le conseguenze per l'economia sono gravi. Con
l'euro diventa quindi particolarmente importante legare
l'andamento dei salari reali all'aumento della pro-
duttività.
Aumentare la produttività significa lavorare meglio,
investire di più, accrescere la flessibilità della forza la-
voro, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori
di fare il loro lavoro, migliorare i servizi e il sistema
giudiziario. Sono tutte cose difficili e impegnative.
Quando manca il coraggio o la forza politica per farle, la
cosa più semplice è creare fantasmi. E i fantasmi forse
sono utili per giustificare i governi in carica, ma non
risolvono i problemi: li buttano sulle spalle del governo
successivo, moltiplicati.

Il capro espiatorio: la Banca centrale europea

Oltre che contro l'euro, i governi europei, incapaci di


affrontare i veri problemi, si scagliano spesso contro le
scelte della Bce. Nel 2002 la accusavano di non fare ab-
bastanza per rafforzare l'euro, allora deprezzato fino a
85 centesimi di dollaro. Quando poi, nell'estate del2008
ha sfiorato 1,6 dollari, la accusavano dell'opposto, ov-
vero di non far nulla per evitare la sua eccessiva valu-
tazione. La critica più frequente rivolta alla Bce, almeno
fino a poco tempo fa, era di essere più concentrata a
tenere a bada l'inflazione che a favorire la crescita. La
politica relativamente cauta della Bce sui tassi andava
nella direzione contraria rispetto a quella della Fed, che
ha tenuto i tassi molto bassi troppo a lungo. E mentre i
politici criticavano la Bce perché manteneva i tassi di
interesse troppo alti, molti economisti la difendevano.

— 87 —
La crisi

Nel 2001 per esempio, in un momento di particolare


fervore politico contro la Bce, pubblicammo un articolo
sul Corriere della Sera (23 aprile) intitolato «E se
Greenspan avesse torto?», in cui suggerivamo che i tassi
americani erano troppo bassi e che la Bce faceva bene a
tenerli più alti. E curioso osservare come alcuni di
coloro che criticavano la politica «eccessivamente re-
strittiva» della Bce e auspicavano che Francoforte se-
guisse l'esempio di Greenspan, siano gli stessi che oggi
puntano il dito contro la crisi finanziaria americana,
dimenticando che proprio Greenspan ha avuto un ruolo
non marginale nel gettarne le basi.
Avere una Banca centrale europea anziché tante ban-
che centrali nazionali, come prima dell'euro, comporta
un costo. La politica monetaria della Bce deve guardare
all'area dell'euro nel suo complesso e non a quella del
singolo paese. Entrando nell'euro, l'Italia ha legato la sua
politica monetaria a quella di altri undici paesi (oggi
quindici), nessuno dei quali può chiedere la politica che
preferisce perché la Bce deve considerare le esigenze
medie di tutta l'area. Ma non è un costo poi così alto,
perché i cicli economici dei paesi europei, almeno dei
maggiori, non sono tanto dissimili. E si può concludere
che il costo derivante dall'inevitabile uniformità della
politica monetaria non è superiore ai benefici, almeno
nel caso dell'Italia.
Ma allora perché la Bce è uno dei diavoli spesso ac-
cusati dei mali dell'euro e dell'Italia in particolare? Bia-
simare la Bce fa guadagnare voti ed evita di assumersi la
responsabilità dei fallimenti della politica interna. Lo
hanno fatto vari politici italiani, francesi, spagnoli. La
reazione della Bce è stata, comprensibilmente, quella di
chiudersi a riccio e rifiutare il dialogo con i politici. E
più i politici insistono meno la Bce ascolta.
In generale, da parte della Bce rivendicare la propria
indipendenza è giusto. Il problema è che spesso non è

— 88 —
stata capace di comunicare con chiarezza le sue scelte.
Ripete in continuazione che l'obiettivo principale è la
stabilità dei prezzi, ma si dimentica di dire che questo
significa tenere la domanda al livello della crescita
potenziale di produttività dell'economia. Ogni tanto
dovrebbe ricorrere all'arte retorica e ricordare che il suo
obiettivo è proprio sorvegliare la crescita europea,
almeno indirettamente, attraverso l'andamento
dell'inflazione.

5. Non ci sono miracoli

Gli italiani, o almeno una buona parte, si sentono più


poveri oggi di un decennio o due or sono. È davvero
così? Bisogna rispondere con precisione a questa do-
manda per evitare di cadere da un lato nel catastrofismo
che impera sulla stampa, dall'altro nella retorica del «in
qualche modo ce la caveremo».
Il reddito medio prò capite degli italiani non è sceso
nell'ultimo decennio, ma è cresciuto meno rispetto a
quello di quasi tutti gli altri paesi Ocse. Quindi, in
termini relativi, oggi l'italiano medio è più povero. Un
decennio o due di crescita modesta si avvertono. Tutti
noi siamo abituati al fatto che il nostro reddito aumenti
col passare del tempo; i consumi che fino a ieri ci
appagavano, oggi ci paiono insufficienti. Gli psicologi
dicono che la felicità è spesso legata non solo al reddito

— 89 —
La crisi

in sé, ma al reddito relativo rispetto a quello altrui e


rispetto al nostro di ieri. Vent'anni fa, sembrava normale
avere un solo telefono nel corridoio di casa, attendere
sei mesi per l'installazione e magari dividerlo con
l'inquilino del piano di sotto con il «duplex». Pensate a
come ci sentiremmo oggi avendo a disposizione un
unico telefono fisso, o a una vita senza internet e senza
computer. O ricordate quando viaggiare in aereo era un
lusso per pochi, mentre oggi qualsiasi ragazzo può
raggiungere le mete più disparate con le compagnie loto
cosi.
Detto questo, è sicuramente vero che l'economia ita-
liana è in difficoltà e per la prima volta da anni molte fa-
miglie della classe media fanno fatica ad arrivare a fine
mese. Tuttavia, predicare miracoli non aiuta. In Italia
circolano false ricette per sanare le difficoltà. Tutte han-
no in comune qualche deus ex machina che risolva la si-
tuazione, come il protezionismo, mettere fuori legge gli
speculatori, riduzioni fiscali e aumenti di spesa, un ruolo
esteso dello stato nel dirigere il sistema produttivo.
Misure che, stando a chi le propone, non costerebbero
nulla ai cittadini e salverebbero l'economia. Sono ricette
false e populiste secondo le quali, senza colpo ferire,
ovvero senza che aumentino le ore lavorate e la pro-
duttività, senza posticipare l'età della pensione, senza
premiare i migliori e penalizzare i peggiori, si possa pro-
durre più reddito. Nel breve periodo queste ricette pos-
sono anche portare qualche voto, ma nel medio e lungo
termine non premiano, perché non fanno che peg-
giorare lo stato della nostra economia.
Vediamo ora di affrontare per sommi capi alcuni no-
di fondamentali che ci consentono di comprendere
perché le ricette che circolano non possono funzionare.
Per un'analisi più dettagliata, rimandiamo il lettore al
nostro libro Goodbye Europa.

— 90 —
Gli italiani sono più ricchi o più poveri che in
passato?

In Italia il reddito medio prò capite annuo in termini


reali (cioè depurato dall'inflazione) era di 3.500 euro nel
1950, 9.700 nel 1970, 13.100 nel 1980, 16.313 nel 1990 e
19.800 nel 2006 (Fonte: Madison). Ma in termini relativi,
rispetto ad altri paesi, il quadro che ne esce è un po'
diverso. Il reddito prò capite italiano era pari a circa il 40
per cento di quello americano nel 1950, 72 per cento nel
1970, quasi 80 nel 1990 e meno di 70 il dato più recente.
Irlanda e Spagna, che negli anni settanta erano due paesi
molto più poveri dell'Italia, ci hanno superato, la prima
di gran lunga, con un reddito prò capite di circa 27.000
euro in termini reali, mentre con la seconda è un testa a
testa. La Gran Bretagna, che avevamo raggiunto, negli
anni ottanta ci ha di nuovo ampiamente superato. La
Grecia si sta avvicinando al nostro livello di Pil prò
capite. Ora siamo sotto la media dei paesi dell'area euro.
Quindi il reddito medio italiano è continuato a salire,
ma, a partire da circa la metà degli anni ottanta, il nostro
paese ha smesso di recuperare rispetto ad altri paesi
Ocse e ha perso posizione in termini relativi. E
importante sottolineare che questo trend data ormai
quasi vent'anni. E quindi ben precedente ai fenomeni di
globalizzazione iniziati dalla metà degli anni novanta in
poi. Senza contare che ovviamente Cina e globaliz-
zazione esistono anche per tutti quei paesi Ocse che
stanno crescendo più dell'Italia - ovvero quasi tutti.
Sappiamo bene che in Italia vi è una notevole dose di
economia sommersa, probabilmente più estesa che in
altri paesi europei. Per ovvi motivi è difficile misurarla,
ma stime del 10-15 per cento del Pil non sembrano
eccessive, secondo dati Istat. Quindi in un certo senso
gli italiani sono un po' più ricchi di quanto non stimino
le statistiche ufficiali. Se però l'economia sommersa può

— 91 —
La crisi

alzare il livello medio del Pil effettivo, non può certo


spiegarne l'andamento nel tempo, ovvero il relativo
declino degli ultimi due decenni. Ciò accadrebbe se
l'economia sommersa fosse aumentata nel tempo e
quindi compensasse la perdita relativa dell'economia
misurata dalle statistiche. Non pare questo il caso, anzi,
dati i recenti sforzi di recupero dell'evasione fiscale è
possibile che l'economia sommersa si sia ridotta. Se così
fosse, le statistiche ufficiali sottostimerebbero un po' la
perdita di reddito totale. Questo significa che la perdita
di reddito, relativamente ad altri paesi Ocse, è reale.
Naturalmente il reddito medio non è rappresentativo
del reddito dei cittadini di un paese; ci ricordiamo bene
l'aneddoto di Trilussa sulla media: un pollo a testa
significa che una persona ne mangia due e un'altra salta
il pasto. L'altro aspetto cruciale è quindi la distribuzione
del reddito. Un aumento della disuguaglianza può
aumentare la povertà e l'insoddisfazione della mag-
gioranza anche se il reddito medio cresce. E infatti la
disuguaglianza è aumentata in molti paesi, soprattutto
negli Stati Uniti nell'ultimo decennio, ma non nel no-
stro, come dimostrano vari studi della Banca d'Italia e,
in particolare le elaborazioni di Andrea Brandolini. La
disuguaglianza in Italia rispetto ad altri paesi Ocse era ed
è rimasta relativamente alta, ragione di più per cui una
riforma seria del welfare è improrogabile.
Di recente poi in Italia si è aperta una battaglia feroce
tra Cgil e Confindustria sull'andamento dei salari. La
Cgil sostiene che i salari reali siano stagnanti dal 1993 e
in discesa dal 2000, mentre i profitti salgono; Confin-
dustria sostiene invece che i salari reali siano aumentati
seppur di poco e comunque più della produttività. Chi
ha ragione e come è possibile sostenere a suon di
statistiche due realtà così diverse fra loro? Ce lo hanno
spiegato bene tre economisti del lavoro, Valentina
Adorno, Andrea Ichino e Giovanni Pica in uno studio

— 92 —
di prossima pubblicazione. Oltre ad attribuire la
responsabilità all'Istat per la confusione dei dati, i tre
economisti sostengono che la situazione non è buona né
dal punto di vista dei salari né dei profitti, cosa non
sorprendente, visto che il paese non cresce. E
concludono:

il declino non ha colpito tutti in egual misura. Da un


lato le grandi imprese, che sono soprattutto grandi
imprese di servizi che operano in mercati protetti,
sembrano aver accresciuto i loro margini di profìtto,
invece nel settore manifatturiero i profìtti sono
diminuiti. D'altra parte, i lavoratori sia uomini che
donne, e soprattutto quelli con lavori a tempo pieno,
a partire dai primi anni 2000 hanno recuperato parte
del potere d'acquisto perso negli anni novanta con
una crescita salariale che, per quanto modesta, è stata
superiore alla crescita della produttività del lavoro.
Per gli stranieri invece è stato un bagno di sangue.

Il loro suggerimento a Confindustria e sindacati è molto


saggio. Scrivono: «E bene che la tavola della con-
trattazione si focalizzi prima di tutto sul perché la di-
mensione della torta si riduce, lasciando per quanto
possibile a dopo il problema della sua spartizione. Al-
trimenti. .. rimarrà ben poco da spartire».

Perché l'Italia ha smesso di crescere

L'Italia, così come il resto dell'Europa occidentale, ha


sperimentato un vero e proprio miracolo economico nei
primi trent'anni dopo la fine della Seconda guerra
mondiale. Ma da un paio di decenni a questa parte, il
meccanismo si è inceppato. In Goodbye Europa spie-
gavamo questo arresto con due motivazioni:

— 93 —
La crisi

La prima punta il dito sulla politica, la seconda sugli


effetti delle innovazioni tecnologiche. Cominciamo
con la politica. Negli anni cinquanta e sessanta gli
europei lavoravano moltissimo [...]. Alla fine degli
anni sessanta il loro sforzo fu premiato, e poterono
così permettersi di cominciare a pensare alla qualità
della loro vita. Ma la fine degli anni sessanta fu anche
un'epoca di turbolenza politica. Dalle università alle
fabbriche, gli europei cominciarono a chiedere meno
lavoro per gli stessi salari, una legislazione che
impedisse i licenziamenti, un'istruzione e
un'assistenza sanitaria gratuite per tutti, pensioni più
generose e anticipate, l'abolizione della meritocrazia
nello studio. I governi concessero tutto quello che la
gente chiedeva. L'economia dei paesi europei era
cresciuta rapidamente e sembrava che ci fossero
risorse sufficienti per soddisfare tutte le ri-
vendicazioni. Poi venne la crisi del petrolio e allo
stesso tempo, almeno in alcuni paesi europei come la
Germania e l'Italia, la lotta politica si fece aspra. Per
evitare che gli studenti e gli operai cedessero alle
lusinghe dell'estrema sinistra i governi continuarono a
concedere loro ciò che chiedevano anche quando fu
chiaro che non c'erano più le risorse. Negli anni
sessanta si pagò il welfare state con l'inflazione, negli
anni ottanta con il debito pubblico.
Da quegli anni l'Europa ha ereditato un'ampia spesa
pubblica e le tasse elevate che sono necessarie per
finanziarla. [...] L'incremento delle aliquote fiscali che ne
è conseguito è uno dei fattori che hanno rallentato la
crescita economica.
Se l'Europa avesse continuato a crescere allo stesso rit-
mo degli anni cinquanta e sessanta, le richieste degli anni
settanta sarebbero potute essere accolte senza eccessivi
aumenti di tasse.
Ma [negli anni settanta] il motore che fino a quel mo-
mento aveva sostenuto la crescita economica si
fermò, ed è qui che entra in gioco la tecnologia.
Come sostengono Daron Acemoglu, Philippe
Aghion e Fabrizio Zilibotti in un loro saggio, la

— 94 —
crescita europea degli anni sessanta [...] fu generata in
gran parte da una rincorsa tecnologica. Gli europei
erano partiti, dopo la Seconda guerra mondiale, con
un ampio ritardo tecnologico: l'imitazione delle
migliori tecnologie americane era quindi sufficiente a
garantire una crescita rapida. L'imitazione funziona
bene con aziende grandi e consolidate, un sistema
finanziario incentrato sulle banche, relazioni a lungo
termine, basso avvicendamento manageriale e un
forte intervento dello stato nell'economia. In Europa,
negli anni sessanta, la politica industriale funzionava.
[...] Ma più tardi, quando l'Europa si è avvicinata alla
frontiera tecnologica e per continuare a crescere non
bastava più copiare, occorreva saper innovare, ci sia-
mo trovati impreparati. Le stesse istituzioni che erano
state responsabili del successo degli anni sessanta,
dopo i settanta divennero un ostacolo per la crescita.
Invece di accelerare la distruzione delle vecchie
aziende e favorire la creazione di imprese nuove e
innovative, gli europei continuarono a proteggere
quelle esistenti e a sognare una politica industriale
dirigista.

Accanto a fenomeni più generali, vi sono poi fattori più


specificamente italiani che hanno frenato il boom eco-
nomico e hanno fatto stagnare l'economia. Il principale
è la scarsa partecipazione alla forza lavoro di tre im-
portanti gruppi: i giovani, i cosiddetti «anziani» - le
persone cioè dai cinquant'anni in su - e le donne. L'u-
nica categoria di italiani che lavora quanto altri europei e
americani sono gli uomini tra i trenta e i cinquant'anni.
Qualche dato: la partecipazione alla forza lavoro per le
persone tra 15 e 64 anni è di circa il 63 per cento in
Italia contro il 74 per cento della media del G7. La
partecipazione degli anziani dai 55 ai 64 anni è pari al 35
per cento in Italia contro il 59 per cento del G7, un dato
davvero impressionante. La partecipazione femminile è
pari al 50 per cento in Italia contro il 66 per cento del
G7. La partecipazione giovanile, dai 15 ai 24 anni, è pari

— 95 —
La crisi

al 31 per cento in Italia contro il 53 per cento del G7,


nonostante di studenti universitari ve ne siano meno in
Italia che nel G7. Risultato: lavoriamo in troppo pochi e
la percentuale sempre maggiore di persone che non
lavorano viene mantenuta da altri: o direttamente, dalla
famiglia, o indirettamente, dallo stato. Molte (troppe)
famiglie italiane sono composte da un genitore,
generalmente il padre, in pensione a sessant'anni o
meno, da una madre casalinga e due figli tra i venti e
trent'anni non ancora inseriti nella forza lavoro.
Si è scritto molto sulle ragioni di questo fenomeno, e
non è il caso qui di ribadirle. Basti dire che, per quanto
riguarda gli anziani, sciagurate politiche pensionistiche
introdotte dagli anni settanta in poi hanno costituito una
categoria di persone che trascorre trent'anni o più della
propria vita in pensione, cioè fuori dalla forza lavoro; un
fascia finanziata da una popolazione lavorativa sempre
più ridotta rispetto alla popolazione totale.
Per quanto riguarda i giovani, invece, le rigidità del
mercato del lavoro - in cui i più tutelati (dai sindacati)
sono i lavoratori con più anni di anzianità - hanno per
molto tempo impedito loro un facile ingresso. Varie
riforme recenti, in parte incomplete, hanno poi generato
un esercito di precari.
Un discorso un po' diverso va fatto per le donne. Per
una serie di motivi anche culturali, l'Italia ha una bassa
partecipazione femminile alla forza lavoro, soprattutto
al Sud; anche il Nord però è al di sotto della media
europea. Il lavoro delle casalinghe non è misurato dalle
statistiche, ma sicuramente i loro servizi sono
fondamentali: la preparazione dei pasti, la pulizia della
casa, la cura di bambini e anziani. Il reddito misurato
non ne tiene conto. Facciamo un esempio. Supponiamo
che una signora svedese A (scegliamo la Svezia perché lì
la partecipazione alla forza lavoro femminile è altissima)
faccia la baby sitter per la signora B la quale fa la baby

— 96 —
sitter per la signora A. Il reddito percepito per le due
signore entra nel conteggio del reddito nazionale.
Supponiamo invece che in Italia le signore C e D
accudiscano i propri bambini a casa propria. I loro
servizi non entrano nel conteggio del reddito nazionale
ma in pratica in Italia e in Svezia i bambini vengono
accuditi.
Che cosa significa questo? Due cose: primo, che in un
certo senso gli italiani sono un po' più ricchi di quanto
misurino le statistiche perché non devono comprare dal
mercato i servizi delle casalinghe, che non vengono mai
calcolati, non solo dalle statistiche, ma spesso anche da
mariti poco riconoscenti. Secondo, è che servizi migliori
o incentivi al lavoro femminile potrebbero accrescere
l'efficienza del sistema e il reddito complessivo. Per
esempio, se una madre accudisce cinque bambini e le
altre quattro madri lavorano, il reddito complessivo
aumenta, perché le cinque madri nel loro complesso
sono più produttive che se ognuna accudisse un solo
bambino. Ovviamente lo stesso discorso vale per altri
servizi domestici come le pulizie, la cura degli anziani
eccetera.
L'altro fattore che ha rallentato la crescita italiana è il
crollo della produttività oraria. Da metà degli anni
novanta in poi la produttività del lavoro in Italia è cre-
sciuta pochissimo, molto meno della media europea.
Cosa determini l'andamento della produttività in un'e-
conomia è una delle questioni più importanti e dibattute
dagli studiosi del settore. Un'analisi approfondita di
questa domanda richiederebbe un lungo trattato. Ma
una cosa è certa: non ci sono miracoli. Un fattore
determinante è la qualità della mano d'opera e del
capitale umano ed è per questo che scuola e università
sono tanto importanti, e tanto più in un periodo, come
l'ultimo decennio, ricco di innovazioni tecnologiche.
Una maggiore flessibilità nell'utilizzo della manodopera

— 97 —
La crisi

facilita l'efficienza, e ne consegue che certe rigidità


imposte dai sindacati non aiutano. L'efficienza si ottiene
quando i migliori sono premiati, sia nel settore privato
sia in quello pubblico, sia nella scuola che nell'università.
E necessario pertanto reintrodurre subito il criterio
meritocratico, come spiega bene Roger Abravanel nel
suo recente libro Meritocrazia. Quattro proposte concrete per
valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più
giusto (Garzanti 2008). Inoltre, ricerca e innovazione
aprono a nuove fonti di efficienza; ecco perché gli
imprenditori devono intraprendere questa strada e non
sfruttare rendite di posizione offerte dal settore
pubblico o semipubblico. Maggiori privatizzazioni e
maggiore concorrenza, quindi. Lo stato serve, eccome;
ma non per produrre quei beni e quei servizi che i
privati possono fornire meglio, bensì per offrire servizi
che il mercato non può produrre, o non altrettanto bene
(giustizia e sicurezza per esempio), servizi che
funzionino e che costino meno in termini di tasse, come
per esempio un sistema giudiziario che non richieda
anni e anni per risolvere una causa.
Nulla di tutto ciò è semplice da realizzare. E vero che
nascondere la gravità della malattia può aiutare psi-
cologicamente un malato terminale. Ma se l'Italia non è
un malato terminale (e noi pensiamo non lo sia), allora
una cura efficace deve partire dalla consapevolezza della
gravità della sua situazione. Dare l'aspirina a un
depresso non serve a nulla, anzi, ritarda l'inizio della
vera cura. Le ricette no global e antimercato che si
respirano oggi in Italia, sono come l'aspirina a un de-
presso.

Le vere ricette per aumentare produttività ed efficienza

Ma allora quali sono le vere ricette? Partiamo con il la-

— 98 —
voro femminile. Di tanto in tanto, soprattutto in cam-
pagna elettorale e nella giornata dell'8 marzo, torna a
spirare una ventata di interesse su questo argomento che
subito svanisce nel nulla. Andrea Ichino e uno di noi
(Alesina) hanno proposto una politica molto semplice
che favorirebbe l'occupazione femminile: ridurre le imi,
poste sul reddito delle donne,. Costerebbe relativamente
poco al fisco: molti studi dimostrano che la risposta
dell'occupazione femminile, e quindi della base impo-
nibile, compenserebbe gran parte della caduta di gettito
dovuta alla riduzione delle aliquote. Sarebbe una politica
flessibile che aumenterebbe il reddito delle famiglie, che
faciliterebbe il lavoro femminile stesso, dalla cura dei
bambini a quella degli anziani eccetera. Dando più
reddito disponibile alle famiglie, starebbe poi a loro
decidere come meglio spenderlo. E questa è una politica
più sensata rispetto a quella generalmente proposta di
aumentare le tasse per costruire più asili nido pubblici,
che servono sì a madri con figli piccoli ma non, per
esempio, a lavoratrici con altri problemi domestici
(come i genitori anziani). Alesina e Ichino hanno illu-
strato in dettaglio i meriti di questa proposta in una serie
di articoli sul Sole 24 Ore della scorsa primavera.
Va poi ricordato che una maggiore partecipazione
delle donne al mercato del lavoro non comporta un calo
della natalità. Nulla conferma questa tesi nei paesi Ocse,
e del resto l'Italia ne è la prova. Abbiamo una delle
natalità più basse e la più bassa partecipazione delle
donne alla forza lavoro. La Svezia, con una par-
tecipazione femminile al lavoro del 90 per cento o quasi,
ha una natalità più alta della nostra. Negli Stati Uniti,
anche in assenza dei servizi pubblici gratuiti che ca-
ratterizzano la Svezia (ma con tasse ben inferiori), le
donne lavorano quasi al 70 per cento e hanno una na-
talità ben più alta della nostra. Tutti gli studi statistici
che conosciamo non mostrano alcuna correlazione tra

— 99 —
La crisi

natalità e partecipazione alla forza lavoro femminile nei


paesi Ocse. E vi è un motivo ovvio: se da un lato la
partecipazione al lavoro riduce il tempo della donna per
la famiglia, dall'altro aumenta il reddito, cosicché certe
funzioni svolte dalle casalinghe possono essere
acquistate sul mercato.
Passiamo a considerare il problema degli «over cin-
quanta», fuori dalla forza lavoro. L'unica ricetta indi-
spensabile è un aumento dell'età pensionabile che riduca
il peso fiscale delle pensioni. Se si andasse in pensione
più tardi, si potrebbero abbassare le aliquote per chi
lavora proprio perché il peso delle pensioni sul fisco si
ridurrebbe. Questo consentirebbe di ridurre la
differenza fra il costo del lavoro per le imprese e il red-
dito netto percepito dalle famiglie dopo le tasse, il fa-
moso «cuneo fiscale», favorendo l'occupazione e la
produzione di reddito. Tutti i paesi Ocse si stanno muo-
vendo in questa direzione. Le lunghissime discussioni
sullo «scalone» che hanno bloccato per mesi il prece-
dente governo sono invece un esempio della lentezza
con cui stiamo procedendo in Italia.
E i giovani? Innanzitutto nelle nostre università ci
sono troppi studenti fuori corso. Anche per questo, il
costo delle rette andrebbe caricato più sugli utenti che
sui contribuenti. Ciò creerebbe gli incentivi giusti in due
sensi: primo, renderebbe costoso per chi è fuori corso
«parcheggiarsi» all'università; secondo, gli studenti,
dovendo pagare di tasca propria, richiederebbero un
servizio migliore. Rimandiamo al libro di Roberto
Perotti, L'università truccata (Einaudi 2008), per una
spietata analisi del fallimento dell'università italiana.
Vi sono poi i cosiddetti precari. Sappiamo ormai fin
troppo bene dove nasca questa piaga e ne abbiamo par-
lato più diffusamente nel nostro libro II liberismo è di
sinistra. Il problema dei precari è legato a riforme del
mercato del lavoro - le riforme Treu e Biagi - che hanno

— 100 —
creato un mercato dicotomico: da un lato i precari, che
vengono impiegati con contratti temporanei e con
scarsissime garanzie, e dall'altro i lavoratori del mercato
tradizionale, praticamente illicenziabili. L'incentivo per
gli imprenditori, compreso il settore pubblico, è chiaro:
assumere a rotazione precari da non far entrare nel
mercato più rigido. La conseguenza è che gli
imprenditori non sono in alcun modo incentivati a
investire nella formazione della manodopera con effetti
negativi sulla produttività, per non contare la fru-
strazione e la demotivazione dei precari. L'unica solu-
zione è quella di creare un mercato del lavoro unico.
Come abbiamo spiegato, ci vuole un mercato meno di-
cotomico e con adeguate garanzie per tutti, ma senza le
rigidità di quello attuale. Dare un posto fisso a tutti i
precari è un altro falso miracolo. Farebbe regredire il
mercato del lavoro italiano agli anni ottanta, quando la
disoccupazione superava di molto il 10 per cento,
mentre oggi è intorno al 6. Non è certo quello che
vogliamo.

Il settore pubblico serve

Il settore pubblico, finanziato dal fisco, ha tre funzioni:


la produzione di beni e servizi pubblici non producibili
dai privati; la redistribuzione dai più ricchi ai meno
ricchi; e l'assicurazione contro eventi negativi, tipo
malattia o disoccupazione. Lo stato italiano fa male tutte
e tre le cose e ciò si manifesta in sprechi e perdite di
reddito disponibile per il cittadino medio.
L'inefficienza di gran parte dei nostri servizi pubblici
(non di tutti intendiamoci) è nota. Non è il caso qui di
insistere su questo punto. Ma vale la pena sottolineare
che perdite di tempo del cittadino, ritardi, code, rinvìi
sono riduzioni nette di produttività del sistema

— 101 —
La crisi

economico e quindi di Prodotto interno lordo. Si pensi


solo alla lentezza e al malfunzionamento della giustizia
civile: essa costituisce non solo un costo enorme in
termini di perdita di produttività, ma anche, come ab-
biamo spiegato nel Liberismo è di sinistra, una vera e
propria barriera all'ingresso nel mercato di aziende gio-
vani, dinamiche, che però non si sono ancora costruite
una reputazione. Non sono parole vuote: per le imprese,
le perdite dovute a un sistema giudiziario che non
funziona si traducono nell'impossibilità di pagare
stipendi più alti, distribuire dividendi o investire di più.
Anche il sistema redistributivo è molto inefficiente:,
per data pressione fiscale, il welfare italiano muove re-
lativamente poche risorse dai ricchi ai poveri. Le co-
siddette spese redistributive si disperdono in una serie di
rigagnoli che finiscono per pesare sul contribuente
medio e non aiutare i veri poveri. Se si aggiunge il
fenomeno dell'evasione fiscale, il quadro che ne esce è
davvero deprimente. Chi invece le imposte le paga ha
aliquote relativamente alte che però non aiutano a
sufficienza i meno abbienti.
Per risanare questa situazione va messa a punto una
riforma dello stato sociale di ampio respiro che sposti
risorse dalle pensioni di chi non è povero ai veri poveri.
Molte indicazioni le aveva già fornite la commissione
Onofri voluta nel 1997 da Romano Prodi per riformare
lo stato sociale. La commissione aveva giustamente
individuato l'inadeguatezza del nostro sistema di welfare
nell'eccessivo sbilanciamento verso le pensioni. Poco o
nulla è stato fatto per seguire quei consigli. Oggi quello
delle pensioni sembra un capitolo chiuso (sia dalla
maggioranza che dall'opposizione); sul fronte lavoro ci
si ostina a intervenire marginalmente sulla situazione dei
precari senza affrontare il problema vero, vale a dire le
dicotomie del mercato.
Anche il sistema di assicurazione sociale è insuffi-

— 102 —
ciente. A differenza di quasi tutti i paesi Ocse, in Italia
non c'è un sistema ben congegnato di sussidi alla
disoccupazione. I sindacati preferiscono gestire caso per
caso la cassa integrazione, e spesso solo per le grandi
aziende (vedi il caso Alitalia). Perché? Evidentemente
per rendersi indispensabili e per esser sempre presenti a
tutti i tavoli di contrattazione, invece che affidarsi a
meccanismi automatici e più equi. Tutto ciò fra l'altro
rende difficile e socialmente costosa la riallocazione
della manodopera in settori e imprese. Manca infatti una
rete di protezione per il periodo di disoccupazione che
intercorre tra un lavoro e un altro. Un mondo che
cambia richiede aggiustamenti nella struttura produttiva.
I paesi nordici, Danimarca in testa, hanno dato una
lezione a tutti su come far convivere sistemi di sicurezza
sociale generosi e libertà dei mercati in un sistema
globale.
Lo stato è importante, ma in Italia non facilita la crescita
del paese, anzi, la ostacola. Sappiamo tutti come le
imposte riducano (per chi le paga) il proprio reddito
disponibile. Ma ciò sarebbe un costo sopportabile, anzi
produttivo, se il settore pubblico assolvesse con
efficienza alle tre funzioni cui abbiamo accennato. In-
vece in Italia spesso il peso è «doppio» perché, oltre alle
imposte, si aggiunge un settore pubblico
malfunzionante.

— 103 —
La crisi

— 104 —
6. Il mondo salvato dalla politica?

Uno degli argomenti in voga oggi in Italia è la supe-


riorità della politica sull'economia. Ma che cosa significa
esattamente? E evidente che le scelte politiche, anche in
campo economico, competono ai rappresentanti
democraticamente eletti: questo non è in discussione.
Ma se significa che i politici debbano prendere decisioni
senza alcun controllo istituzionale (quello che gli
anglosassoni chiamano checks and balances), o ignorando i
suggerimenti dei «tecnici», diventa molto pericoloso. Se
significa un ritorno massiccio dello stato nell'economia
per regolare, imbrigliare i mercati e per ricreare imprese
pubbliche in svariati settori, allora ha un nome, si
chiama «statalismo antiliberista», e dei suoi mali abbiamo
parlato sin qui. Non è forse un certo tipo di politica che
ci ha portato a crescere meno di quasi tutti i paesi Ocse?
Non è la politica che ci ha portato ad avere uno stato
inefficiente, che non riduce la disuguaglianza? Non è la
politica che non riesce a svincolarsi da interessi
particolaristici?
Il dialogo tra politici ed economisti non è mai stato
dei più facili. Quando però queste due categorie smet-
tono di capirsi, significa che qualcosa di molto serio non
va. E un segnale d'allarme, che richiede da entrambe le
parti più disponibilità nell'ascoltare le ragioni contrarie.

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E l'allarme che avvertiamo oggi in Italia. La grave crisi
finanziaria in corso potrebbe essere un'ottima occasione
per riflettere e cercare di capire come evitare che eventi
simili si ripetano. Non è il momento di slogan.
Che il nostro paese sia in un momento critico della
sua storia recente è fuori discussione. La combinazione
di molti anni di crescita quasi zero e di una fase ciclica
negativa rende la situazione particolarmente pericolosa.
Il precedente governo Prodi, debole numericamente e
condizionato da una sinistra massimalista e non
lungimirante, non è riuscito a fare molto, se non alzare
le tasse e liberalizzare - con troppa cautela - alcuni
settori commerciali. L'attuale governo di centrodestra ha
ereditato una situazione fiscale migliore e si avvale di
una solida maggioranza. Tuttavia, molti economisti di
tradizione liberale sono preoccupati per l'impostazione
della sua politica economica che pare orientata verso
una direzione statalista.
Il cortocircuito tra politici ed economisti è a doppio
binario: gli economisti rimproverano i politici di perdere
di vista i vincoli di bilancio e di altro genere
che devono limitare l'azione di governo. O di non per-
seguire obiettivi a lungo termine, intenti a favorire que-
sta o quella lobby utile a spostare voti; o di non sapersi
opporre ai burocrati di carriera che hanno accumulato
un enorme potere nei corridoi ministeriali e si op-
pongono a ogni cambiamento.
I politici rimproverano agli economisti di non tener
conto delle difficoltà che si incontrano quando si tenta
di realizzare le riforme che gli economisti propongono.
Secondo i politici, gli economisti predicano teorie
irrealizzabili, o per lo meno, non spiegano come at-
tivarle nella pratica. In parte questo è vero. Talvolta gli
economisti non considerano la necessità che certe rifor-
me incontrino un consenso di massa. Altre volte man-

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cano di fantasia, non si rendono conto che un obiettivo
politico in un determinato momento può necessitare di
politiche economiche distorte; non vedono cioè che
qualche volta il fine può anche giustificare i mezzi.
L'accusa comune che oggi viene rivolta agli econo-
misti, soprattutto a quelli liberisti, è di non aver capito
che il mercato finanziario americano stava per crollare,
addirittura di essersi opposti a qualunque regola lo
facesse funzionare meglio. Abbiamo visto come in realtà
la colpa della crisi sia in gran parte della politica e non
della mancanza di regole. Inoltre, se è vero che ora il
mercato finanziario è in grave difficoltà, è anche vero
che per un ventennio ha contribuito in modo
determinante alla crescita dell'economia americana. Non
è neppure vero che gli economisti non avessero lanciato
segnali di allarme. Basta leggere il Financial Times o
YEconomist degli ultimi anni, per non parlare dei
documenti del Fondo monetario o della Banca dei
regolamenti internazionali di Basilea. L'eccessivo
indebitamento delle famiglie americane e l'andamento
del mercato immobiliare erano da molti indicati come
fattori ad alto rischio. Tanto per fare qualche esempio,
Robert Shiller di Yale ha pubblicato diversi articoli e
libri sull'esuberanza dei mercati finanziari che qualche
volta diventa eccessiva. Kenneth Ro-goff di Harvard
aveva spesso indicato nell'indebitamento estero
americano un fattore di rischio. Tutti sapevano che il
cumulo di risparmi in certe parti del mondo (Asia),
reinvestito in altre parti del mondo (mercati americani
ed europei), stava creando forti tensioni su questi
mercati. Senza parlare di Nouriel Roubini, della New
York University, che da tempo mandava segnali di
grande pessimismo sulla finanza.
Ma non è la prima volta che gli allarmi degli econo-
misti vengono ignorati dalla politica. Sono tanti gli
esempi di rotta di collisione fra politici ed economisti.

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Uno, famoso, risale al periodo interbellico ma ha molte
risonanze attuali, perché ha a che fare con il rapporto fra
potenza militare e relazioni commerciali. In quel caso la
diatriba vide nientemeno che il grande economista John
Maynard Keynes scontrarsi con molti politici dei paesi
che avevano vinto la Grande guerra, soprattutto
francesi. L'argomento di discussione erano le riparazioni
belliche tedesche. I francesi volevano far valere la forza
politica dei vincitori e imporre sanzioni severissime alla
Germania. Se fossero state pagate interamente o anche
solo in buona parte, avrebbero messo in ginocchio
l'economia di quel paese. I tedeschi ritardarono i
pagamenti appellandosi (con buone ragioni) alla loro
assurdità. Per tutta risposta i francesi nel 1923 oc-
cuparono una regione industrializzata, la Ruhr, e ten-
tarono di isolare commercialmente ed economicamente
la Germania. Il risultato lo conosciamo: il tracollo
economico tedesco, l'iperinflazione, e il collasso della
democrazia di Weimar. Tutto ciò sfociò nel nazismo
isolazionista, nell'odio tedesco verso le potenze vincitrici
della Prima guerra mondiale e nella Seconda guerra
mondiale.
Nella sua lungimiranza, Keynes aveva capito che la
soluzione migliore non era la forza delle armi ma la for-
za dell'economia. Proponeva quindi di reinserire la
Germania nella rete delle relazioni economiche pacifiche
tra le potenze dell'epoca. Aveva intuito che umiliare un
paese non poteva che portare alla catastrofe e sapeva
che la comunanza di interessi economici basati sul
commercio rende le guerre più costose e quindi meno
probabili. Keynes perse questa battaglia e quando al
commercio si sostituì la forza bruta, il risultato fu una
guerra devastante.
Passiamo a esempi più recenti. Negli anni ottanta
l'America Latina stava attraversando un periodo difficile,
risultato, tra l'altro, delle politiche protezionistiche dei

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decenni precedenti. I deficit pubblici erano in aumento,
l'inflazione cresceva. Era chiaro che l'unica soluzione era
riprendere il controllo della finanza pubblica e
controllare l'offerta di moneta, che veniva stampata a
rotta di collo per coprire i deficit. L'indecisione e
l'incapacità politica di agire furono responsabili di una
serie di iperinflazioni disastrose. Alcuni politici, in testa
a tutti il peruviano Alan Garcia, seguirono politiche
eterodosse, divergenti da quelle sostenute dagli
economisti. Invece di una buona dose di rigore fiscale,
adottarono controlli amministrativi sui prezzi, na-
zionalizzazioni, interventi pubblici estesi in questo o
quel settore, ignorando la prescrizione degli economisti
(almeno quelli seri) di smettere di stampare moneta, che
come unico risultato aveva quello di scatenare
l'inflazione. Ne derivò un periodo di iperinflazioni, se-
guite da fortissime recessioni. Anche in questo caso,
paradossalmente, i politici si descrivevano come di-
fensori dei poveri, sebbene l'iperinflazione (per non
parlare delle recessioni) non fece che peggiorare le con-
dizioni dei più deboli, aumentando povertà e disu-
guaglianza. Mentre i poveri venivano pagati con moneta
nazionale che valeva sempre meno, i ricchi esportavano
capitali. L'America Latina uscì da anni di disastrose
politiche populiste con una distribuzione del reddito
ancora più disuguale. Anche in quel caso furono due
economisti, Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards a
mettere in guardia contro i danni di una politica
economica guidata dal populismo.
Naturalmente gli economisti non hanno sempre ragione
e qualche volta commettono errori di valutazione e di
visione globale. Per restare in Sudamerica, per esempio,
hanno sottovalutato la difficoltà con cui economie di
mercato si sarebbero imposte all'opinione pubblica.
Dopo i forti disequilibri macroeconomici degli anni
ottanta, molti paesi sudamericani hanno seguito

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politiche di liberalizzazione dei mercati con notevole
successo, ma in qualche caso vi è stata una reazione
antimercato non prevista. La corruzione, la commistione
tra politica, ricchi rentiers e capitalisti era vista con grande
antipatia dalla maggioranza dei cittadini. Il liberismo
sembrava una scusa a vantaggio di pochi per arricchirsi
con mezzi più o meno leciti. Inoltre, le riforme per
migliorare i sistemi di sicurezza sociale sono state
troppo lente. In questo caso gli economisti hanno
sottovalutato l'importanza di alcuni fattori politici e della
transizione necessaria per arrivare a un'economia di
mercato funzionante. E non è un errore da poco. Il con-
senso politico è fondamentale per cementare alcune
riforme e se viene meno, è a rischio il loro futuro.
Anche in Italia ci sono stati momenti di grande di-
saccordo tra politici ed economisti. Nella sua casa di
Belmont, nel Massachusetts, il 26 gennaio 1975 Franco
Modigliani leggeva una copia del Corriere della Sera. Si
soffermò su un breve articolo in cui si descriveva
l'accordo tra Confindustria e sindacati sulla nuova scala
mobile: «Importante accordo Confindustria-Sindacati
apre nuove prospettive al rilancio produttivo» era il
titolo. Era l'accordo che aumentava i salari non
proporzionaimente all'inflazione ma di un tanto fisso
per ogni punto di inflazione. L'effetto sulla spirale dei
salari e sulla loro compressione sarebbe dovuto risultare
evidente a chiunque. Nessuno, o quasi, in Italia vi aveva
fatto caso. «Il silenzio dei miei colleghi italiani
sull'accordo e soprattutto sulle conseguenze della
contingenza unificata, mi stupisce veramente» scriverà
Modigliani a Paolo Baffi, governatore della Banca
d'Italia, un mese dopo. Economisti e imprenditori
impiegarono molto tempo a rendersi conto degli effetti
di quell'accordo, e solo grazie a un Modigliani
esterrefatto, che non smise mai di scrivere, ribattere, fare
conti ed esempi. Ma ormai il danno era fatto e l'Italia

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impiegò un decennio per rimediare. Quello è l'esempio
di un accordo dettato da esigenze politiche - tenere
insieme Confindustria, sindacati e governo - che diede
un colpo gravissimo all'economia italiana. Quando
queste tre parti si siedono a un tavolo, quasi sempre i
contribuenti sono chiamati a saldare il conto.
Anche sulle pensioni Modigliani fu lungimirante.
Scriveva a metà anni novanta: «L'Italia eroga pensioni
assai maggiori di quelle giustificate dai contributi pagati.
La differenza è saldata dallo stato e ciò ha contribuito al
grande deficit e al suo aumento nel tempo». Sarebbe
dovuto saltare agli occhi che la politica pensionistica
degli anni settanta e ottanta aveva innescato una bomba
a orologeria. E questo è un altro esempio in cui la
politica prevarica sulle leggi basilari dell'economia, anzi,
sulle leggi basilari dell'aritmetica! I politiri fecero finta di
non accorgersene e poi, quando la situazione era
compromessa, si mossero con troppa cautela, ignorando
l'esortazione degli economisti a intervenire con più
decisione.
Anche in Italia vi sono state occasioni in cui gli eco-
nomisti hanno sbagliato. Alla fine degli anni settanta,
per esempio, si opposero all'ingresso nello Sme. Perché
lo fecero? Per due motivi. Il primo fu un errore di teoria
economica. Non capirono che continuare a sostenere le
esportazioni a colpi di svalutazione non avrebbe portato
lontano. Erano rimasti ancorati a una impostazione
keynesiana molto «scolastica», si illudevano che una
politica monetaria e fiscale aggressiva potesse correggere
i cicli economici. Inoltre, non capirono che doveva
finire la dipendenza della Banca d'Italia dalle esigenze
del finanziamento del deficit pubblico, un altro focolaio
d'inflazione. Il secondo errore fu ancora più grave. Non
capirono che entrare nello Sme era un modo per
ancorare politicamente l'Italia al resto d'Europa. Se non
fosse accaduto, probabilmente l'Italia sarebbe precipitata

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in una spirale di inflazione e svalutazione che l'avrebbe
resa un paese di secondo ordine. Ecco un caso in cui
precise esigenze politiche devono condizionare le scelte
economiche. Per fortuna i politici (almeno i più
lungimiranti) in questa occasione non li ascoltarono.
Questi esempi ci dicono che spesso quando il dialogo
tra politici ed economisti è difficile e teso, si sta
attraversando una fase delicata, in cui sono in campo
questioni cruciali. A noi pare che un momento simile si
stia riproponendo oggi in Italia. La supremazia della
politica viene invocata contro il mercato che gli
economisti invece difendono. Questo non è il momento
di slogan contro il capitalismo, la finanza e il mercato.
Questo è il momento di capire che cosa non ha
funzionato, e che cosa si può fare innanzitutto per
evitare errori che potrebbero rendere questa crisi ancor
più grave. Senza perdere di vista che il capitalismo può
produrre crisi gravi, ma rimane il sistema economico
migliore che il genere umano sia stato in grado di creare.

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La crisi

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