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Francesco Gavazzi
LA CRISI
Può la politica salvare il mondo?
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il Saggiatore
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Si ringraziano Dorian Carloni e Giampaolo Lecce
per l'eccellente aiuto nel reperire i dati.
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Sommario
Introduzione 9
Problemi difficili non hanno soluzioni facili
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facili
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La crisi
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Introduzione
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La crisi
L'Italia e la crisi
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Introduzione
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La crisi
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Introduzione
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La crisi
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Introduzione
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La crisi
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1. La crisi finanziaria:
che cosa è successo
Un altro 1929?
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Molti furono gli errori di politica economica che se-
guirono il crac del 1929, da cui bisogna guardarsi anche
oggi. Il primo, e più direttamente collegato al sistema
finanziario, fu compiuto dalla Federal Reserve che,
anziché fornire liquidità alle banche, la tolse. La Fed,
relativamente giovane e inesperta (era stata creata nel
1913, solo quindici anni prima della crisi), scambiò la
causa con l'effetto: poiché vedeva che le banche
avevano smesso di erogare prestiti, pensò che non aves-
sero più bisogno di liquidità. Un grave errore di teoria
economica che la Fed di oggi e la Bce (nonostante la sua
altrettanto giovane età) sono ben lontane dal ripetere.
Oggi le banche centrali hanno fornito abbondante
liquidità alle banche perché potessero continuare le loro
operazioni creditizie: questo non ha risolto la crisi, ma
ha certamente evitato il collasso immediato del sistema
del credito.
Il secondo fu un clamoroso errore dei politici: nel
1930 il presidente Herbert Hoover non pose il veto alla
legge proposta dal deputato Willis C. Hawley e dal
senatore Reed Smoot che, nel vano tentativo di pro-
teggere i produttori americani, introduceva dazi sulle
importazioni e scatenò così una guerra commerciale tra
gli Usa e il resto del mondo, soprattutto l'Europa.
Hoover ignorò una raccolta di firme di ben 1.028
economisti, compresi tutti i più famosi dell'epoca, che
lo scongiuravano di impedire un ritorno al
protezionismo. Industriali come Henry Ford e banchieri
come Thomas Lamont, capo della J.P. Morgan, lo
pregarono di mettere il veto, ma la politica prevalse
sull'economia. Il risultato fu il collasso delle esportazioni
americane con pesanti conseguenze sulla crescita e
sull'occupazione. La guerra commerciale estese la crisi al
resto del mondo, in particolare all'Europa, che adottò
politiche protezionistiche in risposta a quelle
statunitensi.
Proprio per questo adesso può essere molto perico-
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loso appellarsi al «nazionalismo economico», ovvero al-
l'idea che in un momento di crisi lo stato debba pro-
teggere la proprietà nazionale delle aziende indipen-
dentemente dalla loro efficienza: meglio un'azienda di
proprietà italiana anche se inefficiente che un'azienda
italiana posseduta da uno «straniero» ma produttiva. Un
errore gravissimo, sia politico che economico.
Hoover commise un altro errore: adottò una strategia
punitiva contro gli «speculatori» di Wall Street. In-
trodusse regole pesanti che limitavano le operazioni fi-
nanziarie, con il risultato di ostacolare, invece che faci-
litare, la stabilizzazione dei mercati finanziari. Anche og-
gi si respira un'aria simile. Alle critiche - più che legit-
time - verso chi ha contribuito alla crisi dei subprime, si
sommano slogan un po' superficiali su speculatori e
regolamentazione dei mercati finanziari tout court. An-
ziché sfruttare la crisi come un'occasione per capire co-
me migliorare il funzionamento dei mercati, la si utilizza
come scusa per aggredire l'economia di mercato.
Hoover intervenne poi nelle contrattazioni salariali,
impedendo alle imprese di tagliare le retribuzioni. In un
periodo di recessione e di deflazione, cioè di di-
minuzione dei prezzi, molte imprese non riuscirono a
mantenere costanti i salari e fallirono. L'interventismo
nel mercato del lavoro finì per rivelarsi controprodu-
cente: invece di mantenere il potere d'acquisto dei salari
e così sostenere la domanda, la ridusse, aumentando
disoccupazione e miseria.
Infine Hoover non capì che in periodi di recessione è
necessario consentire che il deficit pubblico salga: cercò
al contrario di evitarlo, aumentando in modo
consistente le imposte e dando così un altro duro colpo
all'economia. I paesi che in passato sono stati più
virtuosi oggi hanno lo spazio per far salire il deficit e
dovrebbero consentirlo, come stanno facendo gli Stati
Uniti; quelli come l'Italia, che hanno già un debito
elevato, sono più in difficoltà. Una cosa comunque è
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certa: non è il momento di alzare le tasse; è il momento
di ridurle controllando la spesa.
La crisi del 1929 ci insegna che furono politiche eco-
nomiche errate a trasformare una crisi finanziaria in una
profonda depressione. Oggi si cita spesso Franklin
Delano Roosevelt, il presidente che fece uscire l'A-
merica dalla Grande depressione grazie al programma di
intervento statale noto come New Deal. A questo
proposito vanno però chiariti due punti. Primo, senza
gli errori interventisti di Hoover e il suo protezionismo,
la Grande depressione non ci sarebbe stata. Secondo, le
dimensioni del settore pubblico americano ai tempi di
Roosevelt erano minime rispetto a quelle dello stato
sociale odierno. Prima del New Deal non esisteva
sostanzialmente alcun sistema di sicurezza sociale e, al
di fuori del settore militare, in America lo stato era
pressoché inesistente. Oggi siamo in una situazione ben
diversa, lo stato ha già un ruolo rilevante. Invocare un
maggior intervento statale rifacendosi a Roosevelt
denota scarsa conoscenza della storia.
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sono chiuse: alcuni paesi spendono più di quanto
producono e lo fanno indebitandosi nei confronti di
altri paesi che invece risparmiano. Le nazioni che si
indebitano sono quelle che riescono a convincere le
altre a investire nei loro progetti con la , promessa che
ripagheranno i debiti. Trasferire risparmio da un paese
all'altro è sempre stato uno dei motori della crescita
perché fa sì che il risparmio non venga sprecato in
progetti poco redditizi, ma finanzi quelli più interessanti
che non sempre sono localizzati là dove il risparmio si
crea.
E esattamente ciò che è accaduto negli anni recenti
tra Stati Uniti e Cina. I cinesi, grazie alle esportazioni
che crescevano a ritmo vertiginoso, accumulavano ri-
sparmi e li investivano in America e in parte in Europa.
Questo è accaduto perché non avevano sufficienti
opportunità di investimento a casa loro: in Cina, cioè,
nonostante una crescita vorticosa, non vi erano occa-
sioni di investimento sufficientemente ampie e interes-
santi da esaurire il risparmio delle famiglie cinesi.
Non c'è nulla di male nel fatto che alcuni paesi si in-
debitino con altri. Come abbiamo già accennato, la pos-
sibilità di sganciare il risparmio dall'investimento è uno
dei motori della crescita. Ovviamente nessuna persona e
nessun paese si può indebitare all'infinto. Anche un
paese che ha grandi possibilità di investimento prima o
poi esaurisce la propria «scorta». Prima o poi una per-
sona, così come un paese, deve spendere meno e ridurre
i propri debiti. Ecco perché dopo periodi di forte in-
debitamento, un paese deve ridurre i consumi, rallentare
l'investimento e la crescita. In questi frangenti una
svalutazione della moneta, facilitando le esportazioni,
aiuta a ridurre l'accumulo di debiti esteri.
Succede da secoli nella storia di molti paesi. Accadde
negli Stati Uniti negli anni cinquanta e poi ancora negli
anni ottanta. In quel decennio l'America si indebitò,
soprattutto nei confronti di Giappone e Germania. I
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deficit commerciali americani erano un po' più bassi di
quelli degli anni più recenti in rapporto al Pil, ma
l'ordine di grandezza era simile. In quel caso in America
a indebitarsi non furono tanto le famiglie - che
comunque non hanno mai risparmiato molto, almeno
da qualche decennio in qua - quanto soprattutto il
settore pubblico. Erano gli anni in cui la spesa militare
cresceva rapidamente e in cui l'America vinse de-
finitivamente la Guerra fredda. I meno giovani ricor-
deranno che in quel periodo sembrava che i giapponesi
volessero comprare tutta Manhattan. Erano anche i
tempi del grande successo delle esportazioni tedesche.
Come andò a finire? All'inizio degli anni novanta
l'economia americana rallentò un po', il dollaro si
svalutò e gli squilibri si aggiustarono.
Negli ultimi anni stavamo assistendo a un aggiusta-
mento simile. Il dollaro aveva cominciato a svalutarsi
dalla primavera del 2001, il deficit della bilancia com-
merciale americana si stava riducendo, i cinesi avevano
iniziato a consumare un po' di più. Tutto pareva
funzionare come «da libro di testo», l'eccesso di ri-
sparmio cinese si riduceva e diminuiva anche la forbice
tra risparmi e spese negli Stati Uniti. Quindi, visto che la
separazione tra paesi risparmiatori e paesi investitori
non è affatto nuova, non può essere da sola la causa
della crisi. Qualcos'altro deve essere andato storto,
qualcosa si è inceppato. Quello che non ha funzionato,
diversamente dal passato, è il mercato finanziario che a
un certo punto non è più riuscito a riciclare il risparmio
in modo ordinato. O meglio, lo ha fatto, ma gettando le
basi dei disastri finanziari che sono scoppiati in questi
due anni. Per capirlo occorre partire dalle banche e
vedere come sono cambiate le banche americane negli
ultimi trent'anni.
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Cerchiamo innanzitutto di capire come siamo arrivati
alla crisi dei subprime. Dall'inizio della crisi finanziaria
fino al settembre 2008, le perdite subite dalle banche
americane ammontano a circa 600 miliardi di dollari, il
che equivale a una caduta del 4 per cento dei prezzi
delle azioni quotate a Wall Street. Una caduta della
Borsa del 4 per cento non è particolarmente grave né
rara: nel famoso lunedì nero, il 19 ottobre 1987, Wall
Street cadde del 20,4 per cento, ma il crollo non ebbe
praticamente alcun effetto sull'economia americana.
Anzi, l'anno successivo, la crescita del reddito accelerò,
avvicinandosi al 4 per cento, un punto in più dell'anno
precedente. Perché allora perdite tutto sommato
modeste hanno innescato una crisi tanto grave? Per
capire che cosa abbia amplificato uno shock di
proporzioni contenute occorre fare un passo indietro.
Fino agli anni settanta le banche americane avevano
vita facile. Le banche di investimento detenevano il mo-
nopolio dell'acquisto e della vendita di titoli: commis-
sioni fisse, nessuna concorrenza. Le banche commer-
ciali non potevano muoversi oltre i confini dello stato,
alcune addirittura non potevano aprire più di uno spor-
tello, quindi anche per loro la concorrenza era scarsa:
raccoglievano i depositi dei clienti e facevano prestiti
alle famiglie e alle imprese dello stato. A pagare evi-
dentemente erano i consumatori, famiglie e imprese:
l'assenza di concorrenza rendeva i servizi delle banche
molto costosi. Le banche erano anche fragili non solo a
causa della loro dimensione lillipuziana (tranne qualcuna
di New York): non potendo espandersi al di là di un
singolo stato, erano particolarmente esposte al rischio di
eventuali shock negativi nella regione in cui operavano.
Per esempio, quando a metà anni ottanta il prezzo del
petrolio crollò, in Texas - uno stato la cui economia
vive soprattutto dell'industria petrolifera - ci fu una
recessione. Poiché le banche texane facevano prestiti
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solo a clienti texani, quando questi si trovarono in
difficoltà e cominciarono a non restituire i prestiti, tutte
le casse di risparmio dello stato fallirono.
Negli anni ottanta e novanta il mercato finanziario fu
aperto: l'abrogazione del Glass-Steagall Act nel 1999
fece definitivamente cadere il divieto di spingersi oltre i
confini dello stato e venne meno la separazione fra
banche commerciali e banche di investimento.
L'apertura del mercato fu in parte una scelta politica
dell'amministrazione Reagan, in parte l'inevitabile
risposta ai progressi della tecnologia. Innanzitutto la
riduzione dei costi di comunicazione e la loro crescente
rapidità consentiva alle banche di aggirare le barriere
geografiche. Inoltre lo sviluppo di nuovi strumenti
finanziari consentiva loro di diversificare il rischio senza
bisogno di espandersi al di là della propria regione. La
liberalizzazione ebbe diversi effetti positivi. Il mercato si
concentrò: molte banche minuscole scomparvero e
vennero acquistate da banche che ora potevano
espandersi oltre il loro stato. Più grandi e meno esposte
ai rischi li una particolare regione, le banche divennero
presto più stabili. La liberalizzazione e la tecnologia,
consentendo loro di diversificare il rischio, resero più
solido, non più fragile, il mercato finanziario americano.
Il risultato fu un'accelerazione della crescita, e questo
avvenne per due motivi. Innanzitutto la frequenza e
l'entità delle fluttuazioni dell'economia si attenuarono.
Dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni ottanta
ogni quattro o cinque anni si assisteva a una recessione
in cui il Pil americano scendeva tra l'I e il 2 per cento in
un anno. Allora sembrava normale;
oggi una recessione del genere sarebbe il segno di una
crisi profonda. Studi sull'evoluzione del ciclo econo-
mico americano mostrano che questa maggior stabilità è
anche il risultato di un sistema finanziario che funziona
meglio.
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Inoltre la liberalizzazione dei mercati finanziari è uno
dei fattori che spiega l'aumento della produttività negli
Stati Uniti a cominciare dagli anni novanta. Per esem-
pio, essa consentì a investitori audaci («barbari» li de-
finirono Bryan Burrough e John Helyar in I barbari alle
porte, Sperling & Kupfer 1991) di comprare aziende a
debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi
rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in mo-
do più efficiente. Senza i leveraged buyouts degli anni
ottanta — ovvero operazioni tramite le quali un im-
prenditore si indebita per acquistare un'azienda - i gua-
dagni straordinari di produttività degli anni novanta non
si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita
negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4 per
cento, mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al
2,2 per cento. Si trasformarono anche le banche di
investimento: perduto il monopolio sulla compravendita
di titoli e la comoda rendita delle commissioni fisse,
dovettero inventarsi mestieri nuovi, come finanziare le
aziende che sfruttavano internet. Fenomeni come
Google o Yahoo difficilmente sarebbero nati senza le
banche di investimento e i venture capitalists, che
scommisero su queste aziende quando ancora non fa-
cevano alcun profitto.
Banche fragili corrotte dalla politica
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vorevoli, non vi è nulla di nuovo o di particolare. Lo fa
anche l'industria finanziaria, ma data la sua dimensione
e il suo impatto sull'economia, nel suo caso le relazioni
fra politici e regolatori possono avere effetti dirompenti
sull'intero sistema.
Un esempio chiarissimo dell'influenza
dell'industria finanziaria americana sulla politica è
rappresentato dalle regole che determinano quanto
capitale proprio deve avere una banca per poter
fare alcune operazioni finanziarie. Come abbiamo
visto, quando le banche di investimento persero il
monopolio sulla compravendita di titoli per i loro
clienti, si resero conto che per guadagnare
dovevano cambiare mestiere e che quello più
redditizio era investire in proprio. Continuavano a
vendere servizi ai loro clienti (assistenza alle
aziende nelle operazioni sui mercati finanziari,
assistenza agli stati nelle privatizzazioni e nel
collocamento di titoli pubblici ecc.), ma i profitti
venivano sempre più da quel settore della banca
che si era trasformato in un fondo hedge, cioè che
investiva in proprio.
Questi investimenti sono tanto più redditizi quanto
inferiore è il capitale che deve essere impiegato per far-
l i , cioè tanto più elevata è la leva finanziaria. Se per ac-
quistare titoli non devo usare il capitale della banca, ma
posso semplicemente indebitarmi a brevissimo termine,
guadagnare è facile. Infatti, usare il capitale della banca è
costoso perché gli azionisti pretendono rendimenti ele-
vati; invece indebitarsi a breve termine costa poco, so-
prattutto se la banca centrale, come fece Alan
Greenspan, governatore della Fed per oltre un
decennio, tiene basso il costo del denaro. Se le cose
vanno bene, un guadagno di 100 dollari su un capitale
investito di 1 solo dollaro produce un rendimento
straordinario. Ma quando le cose vanno male, se
l'investimento perde più di 1 dollaro, significa essere nei
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guai perché la banca può non avere abbastanza capitale
per assorbire la perdita. Questo è esattamente ciò che è
successo in America. I rischi anzi erano ancora più alti
perché le banche di investimento, diversamente da
quelle commerciali, non potevano prendere a prestito
liquidità dalla banca centrale: se le cose andavano male
dovevano cavarsela da sole. Per quasi un ventennio, i
mercati sono andati bene, le banche di investimento e i
loro dipendenti hanno guadagnato cifre da capogiro e
nessuna è fallita.
Due leggi proposte all'inizio di questo decennio dal
senatore repubblicano Phil Gramm - che negli anni è
stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6
milioni di dollari di contributi elettorali - furono de-
terminanti nel consentire che le banche ricorressero con
tanta audacia alla leva finanziaria: il Gramm-Leach-
Bliley Act del 1999, che eliminò la separazione fra ban-
che commerciali e banche di investimento, e assegnò
molte responsabilità per la sorveglianza delle banche alla
Sec, e una seconda legge che liberalizzò i prodotti
derivati, consentendo che le banche investissero in
derivati anche se non avevano un capitale sufficiente
per assorbire eventuali perdite. La responsabilità però
non fu solo del senatore Gramm: entrambe le leggi pas-
sarono con il voto favorevole di molti democratici e la
prima fu firmata dal presidente Clinton. Da sei, sette
anni a questa parte, il Comitato di Basilea e il Financial
Stability Forum ripetono che le banche di investimento
sono fragili perché hanno troppo poco capitale in
rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma questi allarmi
sono caduti nel vuoto o sono stati ignorati di proposito.
Con il passare del tempo e con il silenzio della Sec,
l'esempio delle banche si diffuse sul mercato. Altre isti-
tuzioni, come le compagnie di assicurazioni e anche
Fannie Mae e Freddie Mac su cui torneremo, comin-
ciarono a esporsi a grandi rischi con poco capitale, spe-
rando che i prezzi continuassero a salire. Il mercato fi-
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nanziario americano cominciò ad assomigliare a una pi-
ramide rovesciata: un volume incredibile di investimenti
rischiosi si reggeva su un piedistallo di capitale troppo
esiguo perché banche e altre istituzioni potessero so-
pravvivere a una caduta dei prezzi di mercato. Non è
sorprendente quindi che quando il mercato ha smesso
d i crescere si siano dimostrate istituzioni molto fragili;
nel momento in cui il mercato immobiliare è crollato e
i l valore dei mutui in cui avevano investito è sceso,
hanno cominciato a perdere senza avere però capitale
sufficiente per farvi fronte. La responsabilità di tutto
questo, è bene non scordarlo, è di chi ha concesso di
correre rischi così elevati con un capitale tanto scarso.
Perché a un certo punto il mercato ha cambiato di-
rezione, evidenziando la fragilità dei bilanci delle ban-
che? Per capirlo dobbiamo partire da un dato: su uno
stock di circa 26.000 miliardi di dollari di obbligazioni in
circolazione negli Stati Uniti, un po' più della metà, circa
13.000 miliardi, sono mutui immobiliari. Di questi, circa
6.000 sono detenuti da istituzioni che hanno finanziato
questo investimento indebitandosi. Poiché il valore di
un mutuo dipende dal valore della casa che è stata
acquistata grazie ad esso, si capisce perché i prezzi delle
case siano tanto importanti nel mercato finanziario
americano.
Non tutti i mutui sono uguali. Una piccola parte, per
un valore di circa 1.400 miliardi, cioè poco più del 10
per cento, sono stati concessi a famiglie che avevano
una probabilità relativamente elevata di non riuscire a
pagare le rate: si tratta dei famosi mutui subprime.
Questi mutui non sono rimasti nelle banche che li
avevano erogati ma sono stati venduti ad altri inve-
stitori: una metà, per un valore di 600 miliardi, è poi
finita nei bilanci di banche che li hanno acquistati a leva,
cioè indebitandosi. La perdita cui abbiamo accennato
all'inizio è concentrata soprattutto qui.
Risulta quindi chiaro come mai una perdita relati-
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vamente piccola possa aver provocato un danno di que-
ste proporzioni. Se 6.000 miliardi di mutui sono stati
comparati con una leva di 30, il capitale è di soli 200
miliardi, troppo poco per assorbire una perdita di
600 miliardi. Ecco perché tante banche di
investimento sono fallite.
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imprenditore, fabbrico cerniere di ottone per le
porte. Gli affari non vanno benissimo, il mese
scorso ho venduto solo due cerniere, ma confido
che le cose migliorino. Nelle settimane successive il
promotore telefonò più volte all'incerto cliente,
dicendo che le condizioni del mutuo forse sa-
rebbero potute migliorare. Il collega lasciò cadere
l'offerta, pago di aver collezionato alcune strabilianti
registrazioni. Se ci fossero ancora dubbi sugli
eccessi del mercato dei mutui americani, questo
esempio documentato e registrato dovrebbe bastare
a fugarli.
Ci sono diverse spiegazioni del perché si sia arrivati a
questi eccessi. Come abbiamo visto, la possibilità per le
banche di diversificare il rischio vendendo i prestiti è
una buona cosa, ma se la banca vende tutti i prestiti, poi
non ha alcun incentivo a selezionare i clienti.
Inoltre se una banca vende un prestito deve venderlo
davvero. Quando è scoppiata la crisi si è scoperto che
molti di questi contratti contenevano una clausola che
obbligava la banca a riacquistare il prestito se le cose
fossero andate male. Cioè molte banche si erano illuse
di essersi protette dal rischio mentre in realtà erano
rimaste esposte. Aumentare il numero di americani
proprietari di casa era anche un obiettivo politico (per
realizzare l'«american dream», come ha spesso ripetuto il
presidente George Bush) e per raggiungerlo le banche
sono state indotte a chiedere anticipi molto bassi.
Durante l'amministrazione Clinton fu anche approvata
una legge che obbligava le banche a destinare una certa
percentuale di prestiti a cittadini poveri e a minoranze
etniche.
Non bisogna però dimenticare un punto importante.
I mutui subprime hanno provocato gravi danni, ma
hanno anche consentito a moltissime famiglie, soprat-
tutto immigrati recenti che prima non avevano accesso
al credito, di acquistare una casa. Comprare una casa
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significa entrare a far parte del tessuto sociale, integrarsi,
e questo non può che essere positivo per una società
come quella americana basata sulla progressiva
assimilazione di ondate di immigrati. Come ben sap-
piamo, anche le società europee stanno affrontando
problematiche relative all'immigrazione. In questo senso
il mercato immobiliare possiede valenze che vanno ben
al di là dell'economia pura e semplice. Essere proprietari
di una casa significa diventare più sensibili al problema
del crimine, dell'ordine e della pulizia del proprio
quartiere, per esempio, significa cioè diventare cittadini
attenti e non rimanere ai margini.
Va detto poi che l'ipotetico inquilino della miniera
non era assolutamente obbligato ad accettare il prestito,
soprattutto a tassi variabili, sapendo che il reddito
derivante dalla vendita di improbabili cerniere di ot-1
tone non sarebbe stato poi così alto. Insomma, la man-
canza di educazione finanziaria ha fatto i suoi danni. Va
anche ricordato che spesso queste case sono state
comprate versando un anticipo bassissimo, talvolta ad-
dirittura senza alcun anticipo: perderle equivale a per-
dere molto poco, come mostra anche il sito
www.youwalkaway.com, in cui si spiega come lasciare
una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo
però si è vissuti in una casa gratis o al più pagando l'af-
fitto alla banca sotto forma di mutuo. Questo non si-
gnifica che non vi siano state molte situazioni dram-
matiche, ma spesso si dimentica che la perdita della casa
azzera un grosso debito con la banca. Il danno psi-
cologico è forte, ma a conti fatti, la perdita economica
non è così grande.
Vale la pena ripeterlo: il vero danno non è stato pro-
vocato dai mutui subprime che, data la loro entità, non
avrebbero dovuto causare una crisi così colossale. Il
problema è stata l'eccessiva leva finanziaria con la quale
sono stati acquistati, ovvero la bassa capitalizzazione
delle banche. La colpa più grave è dei regolatori e. dei
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politici che hanno permesso alle banche di investimento
di operare senza il capitale sufficiente.
II fiasco di Fannie Mae e Freddie Mac
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una crisi, la garanzia offerta dalle due istituzioni avrebbe
comportato un aumento del debito pubblico.
Un'eventualità che non fu mai presa in considerazione;
il Congresso si illuse che l'entità del debito pubblico
fosse relativamente modesta; questo non lo incentivava
particolarmente a controllare la spesa pubblica.
Da questa vicenda l'Europa può imparare una le-
zione. Il vecchio continente è pieno di istituzioni simili
a Fannie e Freddie: lo sono per esempio le Casse
Depositi e Prestiti presenti in molti paesi, le cui quote di
maggioranza sono di proprietà pubblica ma il cui
bilancio non è consolidato nel bilancio dello stato. Ciò
consente ai governi di usarle per finanziare spese
(soprattutto investimenti in infrastrutture) senza influire
sul bilancio dello stato. Le Casse si finanziano
indebitandosi e costruiscono opere pubbliche. Finché
tutto va bene, non ci sono problemi, ma quando un
investimento va male - per esempio perché si è costruita
un'opera pubblica per accontentare alcuni elettori e
vincere le elezioni - la Cassa perde e la perdita finisce sul
bilancio dello stato proprietario della Cassa.
Alcuni politici europei che considerano il fallimento
di Fannie Mae e Freddie Mac un esempio del «falli-
mento del capitalismo americano», sono gli stessi che
poi propongono di usare le Casse Depositi e Prestiti per
finanziare investimenti in infrastrutture, proprio perché
in tal modo queste spese non peserebbero sul bilancio
dello stato.
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pensione, per regolamento potevano investire solo in
attività finanziarie con un rating AAA (la tripla A è
espressione della massima qualità creditizia). Im-
maginatevi quindi la pressione sulle agenzie di rating per
essere generose. Questo ha portato a concedere troppi
rating AAA, e di conseguenza gli investitori istituzionali
non si sono più sentiti in dovere di esaminare il rischio
legato a ciò che stavano comprando.
Anche in questo caso, un regolamento dei mercati
finanziari, che sulla carta dovrebbe indurre alla pru-
denza, sortisce l'effetto opposto. Non è facile regolare le
agenzie di rating. Forse senza questi rating gli investitori
avrebbero fatto più attenzione.
Gli stipendi da favola dei banchieri
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rendimento di un particolare dipartimento della banca,
non teneva conto del fatto che i rischi legati agli
investimenti di quel dipartimento si potessero trasferire
sulla banca nel suo complesso.
Le colpe di Greenspan
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strozzava la crescita dell'area euro. I politici che allora
osannavano Greenspan sono gli stessi che oggi
predicano contro gli eccessi del mercato finanziario
americano.
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preferisce mantenere in vita aziende in perdita, manager
incapaci in un sistema da vecchio capitalismo di stato,
spedendo poi il conto al contribuente.
In un mondo ideale i salvataggi non esisterebbero,
esisterebbero buone assicurazioni pubbliche. Tuttavia
c'è salvataggio e salvataggio. Se fallisce un'impresa che
produce automobili, poco male: i consumatori possono
acquistare una marca diversa, i lavoratori sono protetti
(almeno per un po' di tempo) dall'assicurazione
pubblica e a perderci sono solo manager e azionisti, i
responsabili del fallimento. Ma se un'istituzione fi-
nanziaria fallisse, potrebbe trainare con sé imprese per-
fettamente sane e dar luogo a un credit crunch ovvero a un
crollo dell'offerta di credito. In un caso simile, un
intervento dello stato (e della Banca centrale) è nel-
l'interesse nazionale perché evita che gli effetti del fal-
limento vengano amplificati provocando una reces-
sione. E appunto il rischio di un'amplificazione degli
effetti del fallimento ciò che rende efficiente salvare una
banca, ma non un'impresa automobilistica o una linea
aerea. Ovviamente il rischio è quello di creare incentivi
sbagliati: confidando nei salvataggi, le banche
sviluppano la tendenza ad assumersi troppi rischi. Ecco
perché ai salvataggi non si dovrebbe mai arrivare e se ci
si arriva, significa che qualcosa è andato storto.
Dopo il salvataggio di Fannie e Freddie, e il
fallimento di Lehman Brothers (che ex post è
probabilmente stato un errore non salvare), e visto che
la crisi non accenna ad attenuarsi, anzi si aggrava di
settimana in settimana, il Congresso degli Stati Uniti ha
deciso di affrontare il problema alla radice intervenendo
con un aiuto pubblico alle banche pari al 6 per cento del
prodotto interno lordo. Questa «rete di protezione»
verrà in parte usata per ricapitalizzare le banche, in parte
per togliere dai loro bilanci un po' di mutui e sostituirli
con titoli garantiti dallo stato, in parte per garantire i
prestiti fra banche, un mercato che è scomparso perché
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è venuta meno la fiducia di una banca nell'altra. Si pensa
anche di sussidiare in qualche modo le famiglie che si
sono indebitate eccessivamente per comprare una casa,
e lo hanno fatto a tassi variabili, prima molto bassi ma
che poi sono saliti. Interventi di questo tipo sono stati
introdotti in Italia e sicuramente aiuteranno, mentre
negli Stati Uniti sono in discussione. Va ricordato che in
tutti e tre i casi si tratta di interventi temporanei dello
stato. Sia i sussidi alle famiglie indebitate, sia gli acquisti
di titoli, sia la ricapitalizzazione delle banche sarebbero
operazioni che utilizzerebbero denaro pubblico solo per
un certo numero di anni allo scopo di far riprendere il
regolare funzionamento dei mercati finanziari. Parte di
questa spesa di denaro pubblico, se non tutta, potrebbe
essere recuperata quando i mercati si calmeranno.
Al momento (metà ottobre 2008) non è ancora chia-
ro se questo intervento straordinario riuscirà a porre
fine alla crisi. E possibile che ne servano altri. Sono
scelte necessarie ma tristi, giornate nere del capitalismo
americano recente. Ma non si dica che la crisi finanziaria
americana è imputabile all'assenza di regole, cioè a un
eccesso di mercato; questa è un'altra delle favole che ci
raccontano gli «statalisti» europei. E vero il contrario e
lo ripetiamo: le colpe vanno attribuite a regole sbagliate,
a politici influenzati dalle lobby, alle amicizie politiche di
Fannie e Freddie, alle pressioni sulle agenzie di rating e
ai loro errori. Un eccesso di cattiva politica, non un
eccesso di mercato.
Ma è vero anche che regole perfette non esistono e
che crisi cicliche sono una delle caratteristiche del ca-
pitalismo. Il beneficio è una crescita più elevata. La crisi
del 2007-8 costerà sì alcuni punti di Pil, ma è avvenuta
dopo quindici anni di crescita ininterrotta, la più lunga
nella storia degli Stati Uniti d'America. Un solo punto di
crescita in più per un quindicennio significa guadagnare
quasi 20 punti di Pil, più che sufficienti per compensare
le perdite che provocherà questa crisi. E alla fine il
— 37 —
salvataggio delle banche potrebbe anche essere un buon
affare per i contribuenti. In Svezia all'inizio degli anni
novanta tutte le banche fallirono. Lo stato le
nazionalizzò e per salvarle spese una cifra simile: il 6 per
cento del Pil. Ma dopo alcuni anni, quando il governo
rivendette le banche a privati, incassò più
o meno quanto aveva speso.
— 38 —
un aumento del deficit del 27,7 per cento del Pil in
Giappone fra il 1992 e il 2000. Se ne deduce che le
vecchie banche tradizionali come le conoscevamo fino
alla metà degli anni novanta non erano poi tanto sicure.
Oggi in Italia si tessono le lodi della politica che ha
salvato la finanza «cattiva». Ma quanto è costata in
passato ai contribuenti italiani l'interferenza della
politica nelle «solide vecchie banche»? Un punto di Pil
solo il salvataggio del Banco di Napoli negli anni
novanta, e poi c'è stato il Banco di Sicilia, la Cassa di
Risparmio della Calabria... E un po' presto per
concludere che la vecchia finanza era migliore.
— 39 —
le nuove regole contabili, può rivelarsi contro-
producente. Fatta questa premessa non scontata (la
maggior parte dei regolatori e molti politici non l'ac-
cetterebbero), vi sono certamente alcune iniziative che
possono migliorare il sistema ed evitare che simili guai si
ripetano.
1. Obbligare le banche a detenere più capitale. Ha
cominciato a farlo lo stato ricapitalizzando le banche;
prima o poi è necessario che allo stato si sostituiscano di
nuovo privati là dove già non è avvenuto. In qualche
modo la trasformazione dell'industria finanziaria inne-
scata dalla crisi lo sta già facendo: la fine delle banche ili
investimento e la loro trasformazione in banche com-
merciali fa sì che alcune operazioni che prima svolge-
vano e oggi non potranno più svolgere, si stiano spo-
stando ai fondi hedge, i quali, pur non essendo regolati,
sono più cauti perché, come abbiamo visto, i gestori ne
possiedono quote rilevanti e sono motivati a fare at-
tenzione.
2. Impedire che la diversificazione arrivi al punto
che la banca perda ogni incentivo a controllare la
qualità dei suoi prestiti. Il motivo per cui esistono le
banche è proprio questo: essere incentivate a
selezionare le imprese cui concedono i prestiti. Se
l'incentivo viene meno, cade la ragione della loro
esistenza: le imprese potrebbero finanziarsi
rivolgendosi direttamente ai singoli risparmiatori.
3. Allineare gli incentivi dei manager (ovvero la
loro remunerazione) ai rischi che fanno assumere
alla banca. Cioè: se faccio assumere un rischio
decennale, la mia remunerazione deve dipendere dai
risultati della banca su un orizzonte decennale, non
dai risultati del prossimo trimestre. Non è facile, ma
si potrebbe pensare a regole fiscali capaci di allineare
rischi e incentivi.
Altre proposte sono semplicemente sbagliate: una X
regolamentazione eccessiva che finisce per impedire al
— 40 —
mercato di funzionare, l'errore in cui cascò Hoover. X
Proibire le vendite di titoli allo scoperto e solo per al-
cune aziende: le vendite allo scoperto sono un modo
per ridurre la possibilità che si creino bolle speculative, e
la proibizione selettiva è un invito alla corruzione, cosa
che sta già accadendo. Limitare per legge lo stipendio
dei manager: così i migliori andranno via o sposteranno
la sede della banca in paesi che non impongono questi
limiti. Chiudere i mercati e quindi impedire che si
formino i prezzi. I prezzi, per quanto volatili,
contengono informazione importante. Ostacolare,
come il presidente della Consob si è affrettato a pro-
porre, le scalate ostili, che sono il mezzo attraverso il
quale il mercato sostituisce manager e azionisti ineffi-
cienti con altri più efficienti. L'elenco delle proposte
pericolose potrebbe essere molto lungo.
Infine, per quanto riguarda l'Europa vi è un aspetto
politico importante. Molte banche europee hanno di-
mensioni enormi rispetto al Pil del loro paese, come per
esempio la banca Svizzera Ubs che ha attività pari a 4
volte il Pil della Svizzera. Quindi interventi di aiuti alle
banche potrebbero non essere alla portata di un singolo
paese. In ottobre l'Europa ha coordinato gli interventi
di salvataggio delle banche e di garanzia dei prestiti fra
banche, e questo è bene. Meglio sarebbe se in futuro
eventuali salvataggi avvenissero attraverso un fondo eu-
ropeo sovranazionale, anziché mediante interventi na-
zionali: questo infatti ridurrebbe il rischio che un singo-
lo salvataggio sia troppo costoso per un singolo paese;
ridurrebbe anche il rischio di interferenze politiche na-
zionali sulle banche ricapitalizzate con denaro pubblico.
u n po' di ottimismo
— 41 —
più dei costi: il benessere generato dal capitalismo è
superiore a qualsiasi altro sia stato prodotto da sistemi
diversi fin qui sperimentati. Nella storia degli Stati Uniti
le crisi sono state ricorrenti: negli anni cinquanta, ai
tempi dello Sputnik, la paura di essere superati dall'Urss,
negli anni ottanta dai giapponesi; nel 1975 il Watergate e
la sconfitta in Vietnam; nel 2002 lo scandalo di Enron,
oggi lo smarrimento di un paese preoccupato per
l'economia e per il valore delle proprie case. Ma ogni
volta l'America reagisce, supera la crisi e ricomincia a
crescere, ad attrarre le migliori intelligenze dal resto del
mondo, a creare aziende che cambiano il mondo
(abbiamo già ricordato Google che senza la bolla del
Nasdaq probabilmente non esisterebbe). Ha osservato
l’Economist nel luglio 2008:
— 42 —
prime e in particolare del petrolio, una fiammata durata
peraltro poche settimane.
In parte queste critiche sono giustificate: come ab-
biamo visto, la finanza e chi ha il compito di regolarla
hanno commesso molti errori. Alcune autorità preposte
alla sorveglianza dei mercati sono state «catturate» da
interessi politici o dalle stesse istituzioni sulle quali
dovevano vigilare, troppi operatori hanno assunto rischi
eccessivi, spesso a causa di sistemi di remunerazione di-
storti o per troppo ottimismo. Ma accusare la finanza
con slogan grossolani, predicando con evidente soddi-
sfazione la fine del capitalismo finanziario, se non del
capitalismo tout court, non è solo populista, è anche sba-
gliato e molto pericoloso.
La finanza serve. Innanzitutto consente di trasformare
le buone idee in imprese, posti di lavoro, occasioni di
sviluppo e di crescita. Un tempo le banche finanziavano
solo chi offriva garanzie reali, un giovane con una buo-
na idea ma senza qualche bene al sole rimaneva a spas-
so. Basta visitare i sobborghi di Cambridge in Gran Bre-
tagna o percorrere la strada 128 che circonda Boston,
sede di Harvard e del Mit, o la Silicon Valley sorta
accanto all'università di Stanford per rendersi conto di
come la buona finanza abbia trasformato le idee nate
nei laboratori delle università in brevetti e poi in
imprese. Una delle ragioni per cui in Europa spesso c'è
meno innovazione rispetto al mondo anglosassone è la
presenza di un sistema finanziario fino a poco fa
dominato da banche tradizionali meno adatte a
finanziare le idee.
Una seconda importante funzione della finanza è re-
distribuire il rischio, cioè evitare che il rischio rimanga
concentrato in pochi individui o istituzioni. La finanza
permette anche che ciascuno di noi si esponga al rischio
a seconda delle proprie condizioni e delle proprie
preferenze. Il risultato è che la buona finanza consente
di investire e di crescere di più. Lo dimostrano
— 43 —
numerose ricerche empiriche che rivelano come
l'economia di un paese cresca in relazione allo sviluppo
e al funzionamento del suo sistema finanziario.
Mercati finanziari che funzionano bene non sono un
buon affare solo per i ricchi: aiutano anche i più poveri,
perché sono i poveri le persone più esposte alle
fluttuazioni dell'economia. E la buona finanza stabilizza
l'economia.
Ci rendiamo conto che a questo punto nel lettore
possa nascere qualche perplessità: ciò che è successo in
questi mesi sembrerebbe contraddire quanto detto. Per
questo ci preme chiarire alcuni punti fondamentali:
perché la finanza aiuta i poveri; perché diversificare il
rischio consente di crescere di più; perché la finanza
consente di risolvere il problema politico che si pone
quando un paese vuole evitare che le sue aziende siano
«vendute allo straniero», ma allo stesso tempo non
vuole subire il costo del possibile fallimento di
un'azienda nazionale; perché la «speculazione» non è un
diavolo, ma spesso aiuta proprio a evitare che il mercato
sbandi e si sviluppino bolle speculative; infine perché -
per il buon funzionamento dei mercati finanziari - non
servono solo trasparenza, buone regole, autorità che
non dormono, o peggio, si fanno blandire da coloro sui
quali dovrebbero vigilare, ma serve soprattutto una
conoscenza finanziaria ili base da parte dei cittadini.
Come vedremo, in Italia è scarsissima e, anziché
tuonare contro la finanza, si potrebbe partire da qui.
— 44 —
tinuare a studiare i figli, e soprattutto può acquistare le
sementi più adatte per preparare il raccolto dell'anno
successivo. Se il raccolto va male, diventa un problema
arrivare alla fine dell'anno. Ma si aggiunge un'aggra-
vante: poiché il reddito di questi agricoltori è molto in-
certo, cioè fluttua da un anno all'altro, le banche non li
finanziano perché li considerano (giustamente) clienti
pericolosi. E così gli agricoltori raramente riescono ad
acquistare sementi diverse, e se anche vi riuscissero, non
riuscirebbero ad acquistare il fertilizzante, e così a un
cattivo raccolto ne segue spesso uno peggiore, che li
inchioda a una vera e propria «trappola di povertà».
Per risolvere i loro problemi, questi agricoltori avreb-
bero bisogno di tre diversi «prodotti finanziari». In-
nanzitutto un'assicurazione contro le fluttuazioni nella
produzione, dovute a eventi verificabili, come una
pioggia torrenziale o una siccità. Poi un mercato a ter-
mine sul quale vendere al momento della semina una
quantità certa (grazie all'assicurazione) e a un prezzo
certo. A questo punto, conoscendo con sicurezza il red-
dito di cui disporranno al momento del raccolto, pos-
sono presentarsi alla banca locale e chiedere un finan-
ziamento per acquistare la semente che ritengono più
adatta. Questi tre strumenti finanziari (l'assicurazione, il
mercato a termine e la banca) consentono all'agricoltore
di separare il reddito di un anno da quello dell'anno
precedente e quindi di evitare la «trappola della
povertà».
Gli agricoltori ricchi non hanno di questi problemi:
possono contare sempre su un ampio credito, anche se
la produzione e i prezzi sono incerti, perché la loro ric-
chezza è una garanzia sufficiente per la banca che fa lo-
ro credito per acquistare sementi e fertilizzanti. Per gli
agricoltori ricchi assicurazioni e mercati a termine non
sono essenziali.
In India, fino al 1990 i mercati finanziari erano so-
stanzialmente proibiti. La liberalizzazione finanziaria,
— 45 —
iniziata negli anni novanta, è stata uno dei fattori che ha
contribuito alla crescita dell'India negli ultimi dieci,
vent'anni.
— 46 —
Inoltre possedere una casa dà una sicurezza alla quale
molte famiglie non sono disposte a rinunciare.
Nonostante il grande sviluppo dei mercati finanziari,
non esistono ancora strumenti che consentano alle
famiglie di diversificare il rischio concentrato nella pro-
pria casa. Il primo tentativo di aprire un mercato che
permetta la diversificazione del rischio immobiliare è
stato fatto da Robert J. Shiller, un economista dell'uni-
versità di Yale, autore di libri di grande successo come
Euforia irrazionale. Analisi dei boom di Borsa (il Mulino
2000). Shiller ha aperto un mercato online che consente
di vendere la propria casa «a termine». Il ricavato può
essere investito, per esempio, in un fondo immobiliare
che possiede pacchetti di abitazioni localizzate in regioni
o paesi diversi. Evidentemente questi mercati devono
essere molto ben regolati: per una famiglia perdere la
casa è molto più grave che perdere un po' dei propri
risparmi investiti in Borsa. Ma il punto rimane:
diversificare il rischio immobiliare consentirebbe di
attenuare il costo di una recessione. Ecco un esempio di
come un contratto finanziario relativamente sofisticato
potrebbe aiutare persone comuni.
— 47 —
imprese elettroniche a Taiwan, o case automobilistiche
tedesche, attività il cui valore non cambia quando il
prezzo del rame oscilla. Ma questa soluzione si scontra
con un potente ostacolo politico, perché il parlamento
cileno si è sempre opposto alla vendita delle proprie mi-
niere di rame a stranieri. Il risultato, anche in questo ca-
so, è che la diversificazione non avviene e i cileni ri-
mangono esposti alle fluttuazioni del prezzo del rame.
E qui che la finanza può venire in soccorso consen-
tendo di aggirare l'ostacolo politico. Per proteggere il
reddito cileno dalle fluttuazioni del prezzo del rame non
è necessario vendere le miniere: basta che il governo
cileno, che le possiede, usi i mercati finanziari
sottoscrivendo un contratto cosiddetto di «swap», cioè
di scambio. Ecco come potrebbe funzionare. Il Cile
continua a possedere le proprie miniere, ma sottoscrive
un contratto, per esempio con grandi fondi pensione
inglesi, che lo libera dal rischio di fluttuazioni nel prezzo
del rame. Ogni anno il Cile paga al fondo pensione un
rendimento che dipende da come va il prezzo del rame;
in cambio riceve un rendimento che dipende, per
esempio, dall'andamento della Borsa di New York. La
proprietà delle miniere non cambia, ma il Cile si è
protetto dalle fluttuazioni nel prezzo del rame.
Contratti simili possono essere usati per diversificare
anche i rischi delle banche, senza venderle. Dieci anni fa
il governo di Lisbona cercò di bloccare l'acquisto da
parte di una banca spagnola, Santander, di una banca
portoghese, Champalimaud. Il governo portoghese
sentenziò che il paese non poteva perdere le proprie
banche, perché gli spagnoli avrebbero raccolto il ri-
sparmio delle famiglie di Lisbona e lo avrebbero im-
piegato per finanziare imprese spagnole. Anche qui la
finanza aiuta: i prodotti derivati consentono infatti a una
banca di diversificare i propri rischi «impacchettando» i
prestiti che ha fatto e vendendoli. Per esempio la banca
di Lisbona avrebbe potuto vendere i prestiti erogati alle
— 48 —
famiglie portoghesi a investitori finlandesi e con il
ricavato acquistare prestiti erogati da banche finlandesi.
La proprietà nazionale delle banche è salva, ma anche i
benefici della diversificazione (come abbiamo già visto,
la diversificazione non deve arrivare al punto che la
banca portoghese perda ogni incentivo a controllare la
qualità dei suoi prestiti).
Ricapitolando: diversificare il rischio è sempre una
buona cosa, ma la diversificazione spesso si scontra
contro potenti ostacoli politici. E qui che la finanza può
aiutare: consente di diversificare il rischio senza perdere
la proprietà delle risorse nazionali, come il rame cileno,
o delle banche nazionali - se per qualche motivo un
paese non intende venderle. Chi più dovrebbe sostenere
i prodotti finanziari derivati sono proprio quei politici
che non accettano che le aziende della nazione siano
vendute allo straniero.
— 49 —
un tasso di interesse composto. Come evidenzia la ri-
cerca di Annamaria Lusardi, problemi simili esistono
anche negli Stati Uniti e in Danimarca, paese con un
tasso di istruzione elevato. Una maggiore informazione
è fondamentale, e un investimento pubblico in questa
direzione, a cominciare dalle scuole, ma non solo,
sarebbe assolutamente necessario. Infatti, chi è più sog-
getto ai rischi che derivano da una scarsa informazione
sono i meno ricchi, coloro per i quali un cattivo in-
vestimento può essere fatale.
Per capire come muoversi molte volte gli italiani si !
rivolgono alla loro banca; spesso purtroppo i consigli
che ricevono non sono adeguati o, nei casi peggiori,
sono orientati unicamente verso l'interesse della banca.
Non dimentichiamo quando le banche italiane in-
vogliavano ad acquistare titoli Cirio e Parmalat pochi
mesi prima del loro tracollo. Lo stesso è accaduto per i
titoli argentini.
Vietare la speculazione?
— 50 —
acquistarli un minuto prima della consegna a un prezzo
più basso. Vietare le vendite allo scoperto renderebbe i
mercati più instabili, non più stabili. Pensate a ciò che
accade quando gli investitori, come talvolta succede, si
invaghiscono di un'azienda o di un prodotto o di un
paese e cominciano a investire in modo irrazionale,
acquistando azioni di quell'azienda o di quel paese senza
chiedersi - anche quando il prezzo ha raggiunto livelli
insensati - se continuino a riflettere realistiche
prospettive di guadagno. Spesso i soli investitori che
riportano un po' di ragionevolezza in quei mercati sono
proprio i cosiddetti speculatori: vendendo allo scoperto
dimostrano che, a differenza della maggioranza, c'è chi
pensa che quei prezzi folli non dureranno a lungo.
Svolgono quindi un ruolo importante, quello di ridurre
la possibilità che si sviluppino bolle ingiustificate. Se si
proibiscono vendite allo scoperto - come è accaduto
nell'ottobre del 2008 in molti paesi tra cui l'Italia -
nell'illusione che questo serva a stabilizzare i mercati, si
finisce per ottenere l'effetto opposto, cioè introdurre
più volatilità nei prezzi.
— 51 —
ci fosse più concorrenza nell'offerta, sarebbe tanto di
guadagnato, ma così non è. Se l'Opec decide di tagliare
la produzione, si crea un eccesso di domanda e il prezzo
sale. La politica dell'Opec è probabilmente ciò che più
condiziona il ciclo del petrolio. Tenendo conto
dell'inflazione, e cioè misurandolo con i prezzi attuali, il
petrolio fino al 1973 costava 20 dollari il barile. Nel
1973, dopo la guerra del Kippur, balzò a 50 dollari e nel
1979 fece un altro salto arrivando a 100 dollari. Da
allora scese senza interruzione: nel 1986 un barile era
tornato a costare 20 dollari e nei vent'anni successivi,
fino al 2005, oscillò tra i 20 e i 30 dollari. Perché negli
anni settanta l'Opec abbia spinto in su i prezzi è
comprensibile: il cambiamento dei rapporti di forza in
Medioriente sfociato nel conflitto tra Israele e i paesi
arabi. Perché poi abbia consentito che per vent'anni
rimanessero tanto bassi rimane (almeno per noi) un
mistero. Ma il punto è che oggi siamo tornati a un
livello in qualche modo normale.
Sulle decisioni dell'Opec influiscono certamente le
stime di quanto petrolio si potrà estrarre nei prossimi
mesi o anni. Fino a poco tempo fa vi era un diffuso ot-
timismo sulla rapidità con la quale la produzione sa-
rebbe potuta aumentare. A 140 dollari il barile diventa
conveniente estrarre anche petrolio che a 70 dollari vie-
ne lasciato sotto terra perché estrarlo è troppo costoso.
Ma aumentare la produzione prende tempo: il petrolio
che diviene via via più conveniente estrarre richiede che
siano scavati nuovi pozzi e allungati oleodotti, talvolta
in zone pericolose. Un esempio sono i giacimenti del
Kazakistan, forse i più ricchi al mondo: la data in cui si
prevede potranno cominciare a produrre viene rinviata
di continuo, non perché non siano convenienti, ma per-
ché metterli in produzione si è rivelato molto più com-
plicato del previsto - a cominciare dalle trattative con il
governo del Kazakistan che a metà strada ha cambiato il
contratto che aveva firmato con le imprese impegnate
— 52 —
nell'estrazione. A 200 dollari il barile diverrebbe con-
veniente anche trivellare il Polo Nord - ammesso che
decidessimo di farlo, e non pensiamo sia una buona idea
- ma di qui al giorno in cui quei pozzi sarebbero attivi
trascorrerebbero molti anni, forse decenni. Poco prima
dell'estate 2008, quando il prezzo salì a 145 dollari, è
successo che i pozzi messicani di Cantarell, uno dei più
grandi giacimenti di greggio al mondo, hanno ridotto
inaspettatamente la produzione del 36 per cento perché
il giacimento, attivo dagli anni settanta, si sta esaurendo
e il governo messicano ha probabilmente deciso di farlo
durare più a lungo, almeno fin quando non entreranno
in produzione altri pozzi. L'aumento improvviso del
prezzo è dunque dipeso anche da una serie di notizie
negative sull'offerta - incluse le preoccupazioni che si
erano diffuse nell'estate 2008 sulla possibilità di una
guerra fra Israele e Iran.
E poi c'è la domanda. Una prova convincente che il
prezzo sia mosso dalla domanda è arrivata nell'agosto
del 2008: non appena sono usciti i primi dati sul-
l'aggravamento della crisi finanziaria e sulle prospettive
negative di crescita mondiale, il prezzo è sceso.
In definitiva, se si vuole comprendere che cosa de-
termini il prezzo del petrolio, è meglio cercare di capire
quello che succederà alla domanda e all'offerta, piut-
tosto che prendersela con la finanza e gli speculatori.
Eppure, non appena il prezzo del petrolio sale, i po-
litici, non solo in Italia, anche nel Congresso degli Stati
Uniti, accusano la speculazione. Ripetono che a muo-
vere il prezzo sono gli speculatori che operano sul mer-
cato a termine, ovvero coloro che acquistano e vendono
contratti che prevedono la consegna di una data
quantità di petrolio fra tre o sei mesi. E sulla base di
questa convinzione propongono leggi che proibiscono
acquisti e vendite su questi mercati.
Non è la prima volta che la politica interviene erro-
neamente per impedire simili operazioni. Nell'estate del
— 53 —
1958 negli Stati Uniti il prezzo delle cipolle salì da 50 a
300 dollari per un sacco di 23 chili. Interrogato da una
commissione del Congresso, Everette Harris, presidente
del Chicago Mercantile Exchange (Cme), disse che
chiudere il mercato a termine per le cipolle era come
rompere il termometro sperando che servisse ad
abbassare la febbre. Non servì a nulla. In agosto il
Congresso varò una legge che proibiva gli scambi a
termine sulle cipolle. Il prezzo rimase elevato. Non solo,
ma la volatilità dei prezzi aumentò, segno che forse i
mercati a termine un ruolo positivo lo svolgono. Il
prezzo scese solo l'anno successivo, quando gli effetti
della gelata, che evidentemente era la ragione degli
straordinari aumenti, scomparvero.
Chi opera sui mercati a termine fa una scommessa,
non influenza né la domanda né l'offerta,di petrolio.
Ogni contratto «future» è costituito da due parti: chi
scommette che il prezzo salirà e chi scommette che
scenderà. Quando, come nell'estate scorsa, il prezzo
saliva, c'erano investitori («lunghi») che prevedevano
che questo trend sarebbe continuato e il prezzo sarebbe
arrivato a 200 dollari; e investitori («corti») che
prevedevano (e hanno avuto ragione) che il prezzo
sarebbe ritornato sotto i 100. I prezzi sul mercato a
termine sono determinati da queste due forze che si
compensano stabilendo il prezzo di equilibrio. Ma
questi speculatori non corrono mai il rischio di dover
ricevere una partita di petrolio, o di doverla
effettivamente consegnare: vendono i contratti prima
della loro scadenza. Quindi non possono avere alcun
effetto sulla domanda né sull'offerta. Pensare che chi
acquista posizioni «lunghe» aumenti la domanda di
petrolio è sbagliato, così come lo è pensare che chi
acquista posizioni «corte» ne faccia salire l'offerta.
Certo, ci potrebbero essere speculatori che influen-
zano la domanda accumulando grandi quantità di pe-
trolio nella speranza che il prezzo salga. Cisterne piene
— 54 —
di petrolio parcheggiate nell'oceano. Ma i dati a di-
sposizione non lo indicano: se mai, nei mesi in cui il
prezzo del petrolio sfiorava i 140 dollari, le scorte di-
minuivano, non aumentavano.
Pensare che la speculazione sui mercati a termine
determini il prezzo delle materie prime è come pensare
che scommettere sui cavalli possa determinare il ri-
sultato della gara. Scommettere sui cavalli è lecito, an-
che se forse sconsigliabile. Chi scommette sui cavalli si
ritiene un profondo conoscitore delle razze, della bra-
vura dei fantini - e proprio per questo motivo solita-
mente perde molti soldi. Ma nessun giocatore è così
matto da pensare che la sua scommessa possa influire
sul risultato della gara, cioè che puntando su Varenne si
possano migliorare le chances che Varenne vinca la
corsa. Eppure è proprio quel che pensa chi ritiene che
la speculazione sul mercato a termine del petrolio sia la
ragione per cui il prezzo è andato alle stelle. Perché
allora è tanto comune incolpare la speculazione?
Una spiegazione si può rintracciare nel fatto che a
muovere i prezzi sui mercati a termine sono gli stessi
fattori che muovono i prezzi correnti: le previsioni circa
la domanda e l'offerta di petrolio. Il fatto che i due
prezzi, quello corrente e quello a termine, si muovano
insieme può trarre in errore: qualcuno interpreta questa
correlazione come se i mercati a termine determinassero
i prezzi correnti. Ma potrebbe anche valere
l'interpretazione opposta. La realtà è che i due prezzi si
muovono insieme perché entrambi reagiscono alle
medesime informazioni: fenomeni reali, come domanda
e offerta, non fenomeni finanziari.
Per verificarlo, alcuni ricercatori della Commodity
Futures Trading Commission hanno effettuato un test
statistico sull'ipotesi che i flussi di investimenti nel mer-
cato a termine del petrolio influenzino il prezzo spot.
Utilizzando dati sulle posizioni giornaliere di operatori
commerciali e finanziari, questi test (test di Gran-ger)
— 55 —
non individuano alcuna relazione di causalità tra flussi e
prezzi. Risultati confermati anche da ricercatori
indipendenti. Perfino il Nobel Paul Krugman, attento
critico del liberismo, si è pronunciato contro l'ipotesi
che il prezzo del petrolio sia stato manipolato da
speculatori invece che da domanda e offerta.
Un'ultima osservazione. Nei mesi scorsi tutte le ma-
terie prime sono aumentate, sia quelle che possono es-
sere scambiate su mercati a termine, sia quelle che non
lo sono. Anzi, in alcuni casi il prezzo di minerali che
non sono trattati al mercato a termine di Chicago, per
esempio ferrocromo e cobalto, è aumentato più del
prezzo del petrolio.
La verità è che molti politici non sanno come fun-
ziona un mercato a termine né come possa essere utile.
Armati della loro ignoranza, cercano di tranquillizzare
gli elettori accusando gli speculatori: è molto più facile
che tentare di ridurre la domanda o, per esempio,
adottare provvedimenti che inducano i cittadini a
consumare meno energia.
— 56 —
Una bolla azionaria può avere effetti positivi per
esempio perché attira, verso le imprese quotate, una
gran quantità di capitali e questo consente loro di
investire, soprattutto in ricerca e sviluppo. Un esempio
recente è la cosiddetta «bolla di internet», che si creò a
partire dalla metà degli anni ottanta e scoppiò nella
primavera del 2001. E vero che esplose perché la
crescita stratosferica dei valori di alcune aziende - anche
di quelle che non avevano mai chiuso un bilancio senza
perdite - era del tutto ingiustificata. Ma fu proprio
l'enorme afflusso di risparmio verso le cosiddette che
consentì a internet di svilupparsi e di cambiare il
mondo. Senza questa bolla, internet si sarebbe
sviluppato molto più lentamente e, anche se molti
investitori persero una parte dei loro risparmi, il mondo
era cambiato in modo ormai irreversibile.
— 57 —
ti) a scapito dei paesi ricchi. Gli argomenti di cui si av-
valgono i due tribunali sono simmetrici. I primi puntano
il dito contro le condizioni di lavoro nei paesi in via di
sviluppo: «Facciamo lavorare i bambini del Bangladesh,
affinché i nostri possano giocare con palloni a buon
mercato». I secondi giudicano lo stesso fenomeno - cioè
il fatto che la globalizzazione abbassi i prezzi in maniera
opposta: «I beni importati dai paesi in via di sviluppo
costano poco e quindi spiazzano le nostre imprese e
fanno sparire posti di lavoro».
Quando un imputato è accusato di una cosa e del suo
contrario, spesso è innocente.
— 58 —
internazionale è l'Unione europea, al cui interno im-
porre dazi e tariffe non è possibile. La punizione sa-
rebbe severissima: l'espulsione dall'Unione. Ma vi sono
modi più subdoli e altrettanto efficaci per proteg-
gere le proprie produzioni a danno dei concorrenti di
altri paesi. Per esempio, salvare dal fallimento o sussi-
diare imprese nazionali poco produttive significa im-
pedire che imprese estere con costi inferiori possano
fornirci servizi più economici e spesso di miglior qualità.
E una strategia che abbiamo visto applicata in molti
settori, da quello industriale a quello bancario a quello
del trasporto aereo. Si chiama protezionismo perché
avvantaggia i produttori nazionali contro quelli esteri a
danno dei consumatori, ma soprattutto, come accadde
negli anni trenta, induce altri paesi a rispondere con mi-
sure analoghe, a svantaggio delle nostre imprese in un
gioco a somma negativa in cui tutti perdono.
Il rischio maggiore di questo periodo di difficoltà
dell'economia mondiale è proprio questo: una risposta
protezionistica, un rimedio peggiore del male.
Per comprendere il dibattito in corso sulla globa-
lizzazione, sono d'aiuto la storia, la teoria economica e
l'analisi della situazione attuale. Cominciamo da quello
che insegna la storia.
— 59 —
tiere economiche e una fortissima riduzione dei costi di
trasporto delle merci esercitarono allora è paragonabile a
quello cui abbiamo assistito nella seconda metà del XX
secolo. Un dato per tutti: nel 1870 gli investimenti
internazionali erano il 7 per cento del Pil mondiale,
salirono al 20 per cento nel 1912, valore mai più
raggiunto fino al 1980.
Questa prima globalizzazione contribuì a un balzo
enorme del livello di reddito mondiale, non per nulla
l'inizio del XX secolo è ricordato come la Belle epoque. Tra
il 1820 e il 1913 l'Europa occidentale triplicò il livello di
reddito prò capite, l'America Latina lo raddoppiò e gli
Stati Uniti quasi lo quintuplicarono. E vero che
aumentò anche la disuguaglianza tra paesi ricchi e meno
ricchi, i primi produttori di beni industriali e i secondi
produttori di materie prime. Nello stesso periodo,
infatti, il reddito prò capite africano si stima sia
aumentato «solo» del 50 per cento.
La prima globalizzazione terminò bruscamente poco
dopo la Prima guerra mondiale. Come ogni conflitto, la
guerra prosciugò i canali del commercio internazionale;
il costo di questa decommercializzazione fu enorme per
i paesi belligeranti e si aggiunse al costo della
devastazione bellica. La combinazione di protezionismo
postbellico, errori di politica monetaria e fiscale,
instabilità politica confluirono nella crisi del 1929 che
segnò l'inizio della Grande depressione di cui tanto si
parla oggi (spesso a sproposito, come
abbiamo avuto modo di spiegare). La crisi del '29
non si sarebbe trasformata nella Grande
depressione se i paesi avanzati non si fossero chiusi
nel protezionismo. La famigerata tariffa Smoot-Hawley,
introdotta nel 1930 dagli Stati Uniti, segnò l'inizio di una
chiusura commerciale globale che fece precipitare
l'economia nella sua crisi peggiore dalla nascita del
capitalismo. / La riduzione delle importazioni di un
paese che adottava misure protezionistiche faceva
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crollare le espor-: tazioni di un altro, il quale rispondeva
proteggendosi, 1 innescando così un circolo vizioso
catastrofico. La Germania nazista, poi, vedeva
nell'autosufficienza economica - ovvero la versione
estrema del protezionismo -una condizione necessaria
per preparare la propria azione bellica; un esempio del
rapporto fra protezionismo e militarismo, su cui
ritorneremo.
— 61 —
Erano convinti che inflazione e crisi del sistema di
libero scambio fossero stati responsabili della crisi delle
democrazie europee e della nascita di regimi autoritari
nel periodo fra le due guerre. Ritenevano quindi che
uno dei compiti principali delle nuove istituzioni
sarebbe stato quello di mantenere aperte le vie del com-
mercio internazionale. Fu una scelta lungimirante che
evitò gli errori del periodo interbellico, dall'atteggia-
mento punitivo verso la Germania alle guerre com-
merciali tra le potenze vincitrici. In un certo senso il
lungo cammino verso la moneta unica fu uno
strumento per favorire l'integrazione economica e,
attraverso la stabilità del cambio, un commercio
internazionale più facile.
Fino agli anni ottanta la globalizzazione è stata un
fenomeno che ha coinvolto solo i paesi industriali, men-
tre la stragrande maggioranza della popolazione mon-
diale ne era esclusa. Da circa vent'anni a questa parte,
invece, i paesi in via di sviluppo hanno fatto il loro in-
gresso nella rete del libero scambio internazionale. La
partecipazione dei paesi più poveri e dei paesi ex co-
munisti (di diritto, come i paesi dell'ex blocco sovietico,
o di fatto, come la Cina) sono stati shock enormi per la
struttura del commercio internazionale e hanno
scatenato reazioni no global.
I tribunali no global
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fessionalità strutturata, sono pronti a cambiare città,
paese, mestiere, a adattarsi. Chi è meno giovane fa più
fatica. In un paese che invecchia, la globalizzazione è
vista come qualcosa che sovverte l'ordine tradizionale
delle cose e viene accusata di molti mali, sia dai no glo-
bal di sinistra sia da quelli di destra.
Cominciamo dalle accuse del tribunale della sinistra,
secondo cui la globalizzazione sarebbe un male per i
poveri del mondo. Qualche fatto. A parte le centinaia e
centinaia di milioni di cinesi e indiani che la globa-
lizzazione ha fatto uscire dalla povertà e denutrizione,
dal 1990 in poi la povertà si è ridotta praticamente in
tutte le parti del mondo. Oltre all'Asia, anche Africa e
America Latina sono cresciute molto di più in questi
due decenni. Il tasso di crescita in America Latina per
esempio è stato negativo negli anni ottanta, mentre dal
1990 a oggi questa parte del mondo ha raddoppiato la
sua quota di commercio internazionale e il reddito pro
capite si mantiene in crescita di un buon 1,6 punti al-
l'anno, una crescita naturale considerando il rapido au-
mento della popolazione in questa regione. In vent'anni
ciò significa un aumento del livello di reddito pro capite
del 40 per cento circa. Negli anni settanta il Messico era
un paese povero, ma grazie all'apertura al commercio
internazionale e alle liberalizzazioni, è ora un paese
Ocse. Anche l'Africa subsahariana ha avuto una crescita
zero negli anni ottanta, mentre dal 1990 al 2004 il
reddito pro capite è salito e dal 2000 cresce a un ritmo
superiore all'I per cento annuo. Alcuni paesi africani
come la Tanzania e l'Uganda stanno sperimentando
tassi di crescita non lontani da quelli cinesi. Il numero
delle persone che vivono in condizioni di estrema
povertà, cioè con meno di un dollaro al giorno di
reddito, è sceso dal 17 per cento della popolazione
mondiale nel 1970 al 6,7 per cento alla fine del
millennio. Nello stesso periodo la percentuale di
persone che vivono con meno di due dollari al giorno si
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è dimezzata.
Certo, tutti desidereremmo che la povertà si ridu-
cesse ancora più in fretta, ma è falso sostenere che la
globalizzazione l'abbia aumentata. E nei casi in cui non
ha funzionato è stato a causa di governi corrotti o in-
competenti, cioè per colpa della politica. Per una de-
scrizione agghiacciante degli errori commessi nelle po-
litiche per lo sviluppo in alcuni paesi, soprattutto afri-
cani, rimandiamo al bel libro di William Easterly, I di-
sastri dell'uomo bianco (Bruno Mondadori 2007).
" Un'altra accusa che i tribunali no global di sinistra
muovono alla globalizzazione è che essa avrebbe au-
mentato il divario tra i ricchi e i poveri del mondo. Ov-
vero: forse i poveri sono diventati un po' meno poveri,
ma i ricchi si sono arricchiti più in fretta. Neanche
questo è vero. In un saggio pubblicato sul prestigioso
Quarterly Journal of Economics, Xavier Sala-i-Martin, della
Columbia University, ha dimostrato che il reddito dei
poveri di tutto il mondo sta crescendo più del reddito
dei ricchi e che la globalizzazione sta riducendo la
disuguaglianza fra i paesi del mondo. In altre parole, se
guardiamo all'umanità nel suo insieme la disuguaglianza
è scesa.
Si dice inoltre che la globalizzazione abbia fatto au-
mentare la disuguaglianza all'interno dei paesi ricchi.
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La crisi
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3. I vantaggi della globalizzazione
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3. I vantaggi della globalizzazione
II diavolo Cina
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3. I vantaggi della globalizzazione
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La crisi
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un altro di quei finti diavoli, come la Cina, dietro cui si
nascondono i veri problemi che non siamo capaci di
risolvere.
Le principali accuse al «diavolo euro» sono tre. Pri-
mo: la sua adozione ha generato un'aumento dei prezzi
di tutti i beni di consumo; secondo: l'adozione dell'euro
" non permette svalutazioni della moneta nazionale per
favorire le esportazioni; terzo: la Banca centrale europea
ha seguito una "politica monetaria restrittiva preoccu-
pandosi solo dell'inflazione e strozzando la crescita.
Ai lettori non dovrebbe sfuggire che queste tre ac-
cuse, spesso snocciolate una accanto all'altra nei discorsi
di certa politica e certa stampa, in realtà si con-
traddicono. Le prime due sottintendono in qualche
modo che l'inflazione è troppo alta. La terza invece, che
è troppo bassa. Esaminiamole.
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La crisi
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sembra limitata. Va anche aggiunto che probabilmente
ne hanno approfittato più i piccoli negozi che i grandi
centri commerciali. Sul nanismo del nostro sistema
distributivo torneremo più avanti.
Inoltre, i prezzi di altri prodotti, soprattutto beni du-
revoli - automobili, elettrodomestici, computer, telefo-
nia - sono aumentati molto meno o per nulla. Infatti va
anche considerato l'aumento della qualità di questi beni.
Un apparecchio telefonico che oggi costa 100 euro ha
molte più funzioni di uno che costava la medesima cifra
cinque anni fa. Lo stesso vale per un'automobile
«media»: la qualità e la sicurezza delle automobili sono
aumentate notevolmente rispetto al passato.
Un secondo studio, sempre della Banca d'Italia, sug-
gerisce un altro motivo per cui i consumatori hanno so-
pravvalutato l'impatto dell'euro sui prezzi: la cattiva
memoria. Tre ricercatori della Banca d'Italia Vincenzo
Cestari, Paolo Del Giovane e Clelia Rossi-Arnaud, han-
no intervistato un campione statisticamente significativo
di italiani chiedendo loro se ricordassero il prezzo di un
biglietto del cinema prima e dopo l'introduzione
dell'euro. I risultati sono molto interessanti: gli intervi-
stati rispondono che i prezzi dei cinema nel 2001, cioè
appena prima dell'euro, erano molto più bassi di quelli
reali. Più del 50 per cento ricorda un costo inferiore del
30 o 40 per cento: 9.000 lire per un cinema di prima
visione invece che 13.000.
Veniamo ora al problema della differenza tra l'in-
flazione percepita dagli italiani negli ultimi anni e quella
misurata dalle statistiche ufficiali. Un'altra indagine della
Banca d'Italia (condotta da Paolo Del Giovane, Silvia
Fabiani e Roberto Sabbatini) dimostra che nel 2006,
anno relativamente tranquillo sul fronte inflazionistico
(il tasso medio fu intorno al 2 per cento), gli italiani
percepivano un'inflazione molto superiore a quella reale.
La discrepanza era più evidente nel caso di famiglie
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La crisi
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erano molto poveri e quindi consumavano poco,. Il
fatto che centinaia di milioni di cinesi, indiani e su-
damericani siano usciti dalla povertà ha un impatto
enorme sulla domanda. Vogliamo impedire ai cinesi di
mangiare per tener bassi nei nostri negozi i prezzi del
riso e della pasta? Non è possibile, oltre che immorale.
L'euro non c'entra. Semmai il rafforzamento dell'euro
sul dollaro - passato da 85 centesimi di euro per dollaro
nel giugno 2001 a quasi 1,6 nell'estate del 2008 - ci ha
aiutato. Mentre il prezzo in dollari del petrolio saliva da
50 a 145 dollari per barile (tra il 2004 e il 2008), l'euro si
rivalutava sul dollaro del 40 per cento, quindi il prezzo
in euro del petrolio saliva molto meno che in dollari. Il
prezzo del petrolio è poi nuovamente sceso a 100 dollari
al barile.
Per quanto riguarda i prezzi dei beni agricoli, invece,
succederà che con il passare del tempo l'offerta reagirà
all'aumento della domanda mondiale, ponendo un freno
all'inflazione di questi beni. Se poi l'Unione europea, gli
Stati Uniti e gli altri paesi Ocse smettessero di
proteggere i loro agricoltori scaricandone i costi sui
consumatori, i cittadini ne trarrebbero un gran benefido.
Politiche protezionistiche che avvantaggiano gli
agricoltori dei paesi Ocse tengono alti i prezzi dei generi
alimentari e impediscono la concorrenza dei paesi
poveri che li abbasserebbero. Questo è stato il punto di
maggiore scontro nei negoziati del Doha Round per la
liberalizzazione del commercio mondiale, che si sono
svolti a Ginevra nell'estate del 2008.1 paesi agricoli più
poveri chiedevano ai paesi ricchi di aprire le frontiere ai
loro prodotti. E poiché questi rifiutavano, per ripicca i
paesi poveri si sono opposti alla richiesta di ridurre le
tariffe che essi impongono sull'importazione di prodotti
industriali dai paesi ricchi. Un classico esempio in cui a
perderci sono i cittadini, sia dei paesi ricchi sia di quelli
poveri.
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La crisi
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nostre attività commerciali con più di 250 dipendenti
sono meno della metà. Anche rispetto alla Spagna, le
dimensioni del nostro commercio al dettaglio sono in
media molto inferiori. Il confronto con paesi
anglosassoni è ancora più sbilanciato: le attività
commerciali italiane con più di 250 dipendenti sono
poco più di un quarto rispetto alla Gran Bretagna.
L'Italia, come del resto gli altri paesi dell'area euro, non
può più svalutare la propria moneta per dar fiato alle
esportazioni. Questo non è un male. Un paese alla lunga
non può crescere a colpi di svalutazioni competitive,
che per l'economia rappresentano solo una droga tem-
poranea. Svalutazioni della moneta renderebbero le no-
stre esportazioni più a buon mercato per gli acquirenti
stranieri e quindi stimolerebbero la domanda estera di
beni nazionali. Tuttavia farebbero anche aumentare i
prezzi dei beni importati in Italia in moneta nazionale e
ciò finirebbe per riflettersi in un aumento dell'inflazione
domestica. In altre parole, prima dell'introduzione
dell'euro, una svalutazione della lira rendeva per un cer-
to periodo le esportazioni italiane più competitive. Poi
però l'inflazione aumentava perché i prezzi in lire di tutti
i beni importati crescevano. E cosi, dopo una tempo-
ranea spinta alle esportazioni dovuta alla svalutazione, il
paese finiva con un'inflazione più elevata, in un circolo
vizioso senza fine. Non solo, ma dato che l'Italia faceva
e fa parte di una Comunità economica europea,
svalutazioni competitive erano considerate sempre più
dannose per gli altri paesi membri, perché favorivano le
esportazioni italiane a danno di quelle, per esempio,
francesi. E stato proprio per evitare questi giochi a som-
ma negativa che l'Europa si è prima mossa verso un si-
stema di cambi fissi, e poi ha adottato una moneta uni-
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La crisi
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versa. In particolare, non poter svalutare la moneta po-
ne vincoli precisi all'andamento di prezzi e salari. Se es-
so non è in linea con la scelta di abbandonare le svalu-
tazioni, le conseguenze per l'economia sono gravi. Con
l'euro diventa quindi particolarmente importante legare
l'andamento dei salari reali all'aumento della pro-
duttività.
Aumentare la produttività significa lavorare meglio,
investire di più, accrescere la flessibilità della forza la-
voro, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori
di fare il loro lavoro, migliorare i servizi e il sistema
giudiziario. Sono tutte cose difficili e impegnative.
Quando manca il coraggio o la forza politica per farle, la
cosa più semplice è creare fantasmi. E i fantasmi forse
sono utili per giustificare i governi in carica, ma non
risolvono i problemi: li buttano sulle spalle del governo
successivo, moltiplicati.
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La crisi
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stata capace di comunicare con chiarezza le sue scelte.
Ripete in continuazione che l'obiettivo principale è la
stabilità dei prezzi, ma si dimentica di dire che questo
significa tenere la domanda al livello della crescita
potenziale di produttività dell'economia. Ogni tanto
dovrebbe ricorrere all'arte retorica e ricordare che il suo
obiettivo è proprio sorvegliare la crescita europea,
almeno indirettamente, attraverso l'andamento
dell'inflazione.
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La crisi
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Gli italiani sono più ricchi o più poveri che in
passato?
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La crisi
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di prossima pubblicazione. Oltre ad attribuire la
responsabilità all'Istat per la confusione dei dati, i tre
economisti sostengono che la situazione non è buona né
dal punto di vista dei salari né dei profitti, cosa non
sorprendente, visto che il paese non cresce. E
concludono:
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La crisi
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crescita europea degli anni sessanta [...] fu generata in
gran parte da una rincorsa tecnologica. Gli europei
erano partiti, dopo la Seconda guerra mondiale, con
un ampio ritardo tecnologico: l'imitazione delle
migliori tecnologie americane era quindi sufficiente a
garantire una crescita rapida. L'imitazione funziona
bene con aziende grandi e consolidate, un sistema
finanziario incentrato sulle banche, relazioni a lungo
termine, basso avvicendamento manageriale e un
forte intervento dello stato nell'economia. In Europa,
negli anni sessanta, la politica industriale funzionava.
[...] Ma più tardi, quando l'Europa si è avvicinata alla
frontiera tecnologica e per continuare a crescere non
bastava più copiare, occorreva saper innovare, ci sia-
mo trovati impreparati. Le stesse istituzioni che erano
state responsabili del successo degli anni sessanta,
dopo i settanta divennero un ostacolo per la crescita.
Invece di accelerare la distruzione delle vecchie
aziende e favorire la creazione di imprese nuove e
innovative, gli europei continuarono a proteggere
quelle esistenti e a sognare una politica industriale
dirigista.
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La crisi
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sitter per la signora A. Il reddito percepito per le due
signore entra nel conteggio del reddito nazionale.
Supponiamo invece che in Italia le signore C e D
accudiscano i propri bambini a casa propria. I loro
servizi non entrano nel conteggio del reddito nazionale
ma in pratica in Italia e in Svezia i bambini vengono
accuditi.
Che cosa significa questo? Due cose: primo, che in un
certo senso gli italiani sono un po' più ricchi di quanto
misurino le statistiche perché non devono comprare dal
mercato i servizi delle casalinghe, che non vengono mai
calcolati, non solo dalle statistiche, ma spesso anche da
mariti poco riconoscenti. Secondo, è che servizi migliori
o incentivi al lavoro femminile potrebbero accrescere
l'efficienza del sistema e il reddito complessivo. Per
esempio, se una madre accudisce cinque bambini e le
altre quattro madri lavorano, il reddito complessivo
aumenta, perché le cinque madri nel loro complesso
sono più produttive che se ognuna accudisse un solo
bambino. Ovviamente lo stesso discorso vale per altri
servizi domestici come le pulizie, la cura degli anziani
eccetera.
L'altro fattore che ha rallentato la crescita italiana è il
crollo della produttività oraria. Da metà degli anni
novanta in poi la produttività del lavoro in Italia è cre-
sciuta pochissimo, molto meno della media europea.
Cosa determini l'andamento della produttività in un'e-
conomia è una delle questioni più importanti e dibattute
dagli studiosi del settore. Un'analisi approfondita di
questa domanda richiederebbe un lungo trattato. Ma
una cosa è certa: non ci sono miracoli. Un fattore
determinante è la qualità della mano d'opera e del
capitale umano ed è per questo che scuola e università
sono tanto importanti, e tanto più in un periodo, come
l'ultimo decennio, ricco di innovazioni tecnologiche.
Una maggiore flessibilità nell'utilizzo della manodopera
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La crisi
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voro femminile. Di tanto in tanto, soprattutto in cam-
pagna elettorale e nella giornata dell'8 marzo, torna a
spirare una ventata di interesse su questo argomento che
subito svanisce nel nulla. Andrea Ichino e uno di noi
(Alesina) hanno proposto una politica molto semplice
che favorirebbe l'occupazione femminile: ridurre le imi,
poste sul reddito delle donne,. Costerebbe relativamente
poco al fisco: molti studi dimostrano che la risposta
dell'occupazione femminile, e quindi della base impo-
nibile, compenserebbe gran parte della caduta di gettito
dovuta alla riduzione delle aliquote. Sarebbe una politica
flessibile che aumenterebbe il reddito delle famiglie, che
faciliterebbe il lavoro femminile stesso, dalla cura dei
bambini a quella degli anziani eccetera. Dando più
reddito disponibile alle famiglie, starebbe poi a loro
decidere come meglio spenderlo. E questa è una politica
più sensata rispetto a quella generalmente proposta di
aumentare le tasse per costruire più asili nido pubblici,
che servono sì a madri con figli piccoli ma non, per
esempio, a lavoratrici con altri problemi domestici
(come i genitori anziani). Alesina e Ichino hanno illu-
strato in dettaglio i meriti di questa proposta in una serie
di articoli sul Sole 24 Ore della scorsa primavera.
Va poi ricordato che una maggiore partecipazione
delle donne al mercato del lavoro non comporta un calo
della natalità. Nulla conferma questa tesi nei paesi Ocse,
e del resto l'Italia ne è la prova. Abbiamo una delle
natalità più basse e la più bassa partecipazione delle
donne alla forza lavoro. La Svezia, con una par-
tecipazione femminile al lavoro del 90 per cento o quasi,
ha una natalità più alta della nostra. Negli Stati Uniti,
anche in assenza dei servizi pubblici gratuiti che ca-
ratterizzano la Svezia (ma con tasse ben inferiori), le
donne lavorano quasi al 70 per cento e hanno una na-
talità ben più alta della nostra. Tutti gli studi statistici
che conosciamo non mostrano alcuna correlazione tra
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La crisi
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creato un mercato dicotomico: da un lato i precari, che
vengono impiegati con contratti temporanei e con
scarsissime garanzie, e dall'altro i lavoratori del mercato
tradizionale, praticamente illicenziabili. L'incentivo per
gli imprenditori, compreso il settore pubblico, è chiaro:
assumere a rotazione precari da non far entrare nel
mercato più rigido. La conseguenza è che gli
imprenditori non sono in alcun modo incentivati a
investire nella formazione della manodopera con effetti
negativi sulla produttività, per non contare la fru-
strazione e la demotivazione dei precari. L'unica solu-
zione è quella di creare un mercato del lavoro unico.
Come abbiamo spiegato, ci vuole un mercato meno di-
cotomico e con adeguate garanzie per tutti, ma senza le
rigidità di quello attuale. Dare un posto fisso a tutti i
precari è un altro falso miracolo. Farebbe regredire il
mercato del lavoro italiano agli anni ottanta, quando la
disoccupazione superava di molto il 10 per cento,
mentre oggi è intorno al 6. Non è certo quello che
vogliamo.
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La crisi
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ciente. A differenza di quasi tutti i paesi Ocse, in Italia
non c'è un sistema ben congegnato di sussidi alla
disoccupazione. I sindacati preferiscono gestire caso per
caso la cassa integrazione, e spesso solo per le grandi
aziende (vedi il caso Alitalia). Perché? Evidentemente
per rendersi indispensabili e per esser sempre presenti a
tutti i tavoli di contrattazione, invece che affidarsi a
meccanismi automatici e più equi. Tutto ciò fra l'altro
rende difficile e socialmente costosa la riallocazione
della manodopera in settori e imprese. Manca infatti una
rete di protezione per il periodo di disoccupazione che
intercorre tra un lavoro e un altro. Un mondo che
cambia richiede aggiustamenti nella struttura produttiva.
I paesi nordici, Danimarca in testa, hanno dato una
lezione a tutti su come far convivere sistemi di sicurezza
sociale generosi e libertà dei mercati in un sistema
globale.
Lo stato è importante, ma in Italia non facilita la crescita
del paese, anzi, la ostacola. Sappiamo tutti come le
imposte riducano (per chi le paga) il proprio reddito
disponibile. Ma ciò sarebbe un costo sopportabile, anzi
produttivo, se il settore pubblico assolvesse con
efficienza alle tre funzioni cui abbiamo accennato. In-
vece in Italia spesso il peso è «doppio» perché, oltre alle
imposte, si aggiunge un settore pubblico
malfunzionante.
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La crisi
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6. Il mondo salvato dalla politica?
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E l'allarme che avvertiamo oggi in Italia. La grave crisi
finanziaria in corso potrebbe essere un'ottima occasione
per riflettere e cercare di capire come evitare che eventi
simili si ripetano. Non è il momento di slogan.
Che il nostro paese sia in un momento critico della
sua storia recente è fuori discussione. La combinazione
di molti anni di crescita quasi zero e di una fase ciclica
negativa rende la situazione particolarmente pericolosa.
Il precedente governo Prodi, debole numericamente e
condizionato da una sinistra massimalista e non
lungimirante, non è riuscito a fare molto, se non alzare
le tasse e liberalizzare - con troppa cautela - alcuni
settori commerciali. L'attuale governo di centrodestra ha
ereditato una situazione fiscale migliore e si avvale di
una solida maggioranza. Tuttavia, molti economisti di
tradizione liberale sono preoccupati per l'impostazione
della sua politica economica che pare orientata verso
una direzione statalista.
Il cortocircuito tra politici ed economisti è a doppio
binario: gli economisti rimproverano i politici di perdere
di vista i vincoli di bilancio e di altro genere
che devono limitare l'azione di governo. O di non per-
seguire obiettivi a lungo termine, intenti a favorire que-
sta o quella lobby utile a spostare voti; o di non sapersi
opporre ai burocrati di carriera che hanno accumulato
un enorme potere nei corridoi ministeriali e si op-
pongono a ogni cambiamento.
I politici rimproverano agli economisti di non tener
conto delle difficoltà che si incontrano quando si tenta
di realizzare le riforme che gli economisti propongono.
Secondo i politici, gli economisti predicano teorie
irrealizzabili, o per lo meno, non spiegano come at-
tivarle nella pratica. In parte questo è vero. Talvolta gli
economisti non considerano la necessità che certe rifor-
me incontrino un consenso di massa. Altre volte man-
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cano di fantasia, non si rendono conto che un obiettivo
politico in un determinato momento può necessitare di
politiche economiche distorte; non vedono cioè che
qualche volta il fine può anche giustificare i mezzi.
L'accusa comune che oggi viene rivolta agli econo-
misti, soprattutto a quelli liberisti, è di non aver capito
che il mercato finanziario americano stava per crollare,
addirittura di essersi opposti a qualunque regola lo
facesse funzionare meglio. Abbiamo visto come in realtà
la colpa della crisi sia in gran parte della politica e non
della mancanza di regole. Inoltre, se è vero che ora il
mercato finanziario è in grave difficoltà, è anche vero
che per un ventennio ha contribuito in modo
determinante alla crescita dell'economia americana. Non
è neppure vero che gli economisti non avessero lanciato
segnali di allarme. Basta leggere il Financial Times o
YEconomist degli ultimi anni, per non parlare dei
documenti del Fondo monetario o della Banca dei
regolamenti internazionali di Basilea. L'eccessivo
indebitamento delle famiglie americane e l'andamento
del mercato immobiliare erano da molti indicati come
fattori ad alto rischio. Tanto per fare qualche esempio,
Robert Shiller di Yale ha pubblicato diversi articoli e
libri sull'esuberanza dei mercati finanziari che qualche
volta diventa eccessiva. Kenneth Ro-goff di Harvard
aveva spesso indicato nell'indebitamento estero
americano un fattore di rischio. Tutti sapevano che il
cumulo di risparmi in certe parti del mondo (Asia),
reinvestito in altre parti del mondo (mercati americani
ed europei), stava creando forti tensioni su questi
mercati. Senza parlare di Nouriel Roubini, della New
York University, che da tempo mandava segnali di
grande pessimismo sulla finanza.
Ma non è la prima volta che gli allarmi degli econo-
misti vengono ignorati dalla politica. Sono tanti gli
esempi di rotta di collisione fra politici ed economisti.
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Uno, famoso, risale al periodo interbellico ma ha molte
risonanze attuali, perché ha a che fare con il rapporto fra
potenza militare e relazioni commerciali. In quel caso la
diatriba vide nientemeno che il grande economista John
Maynard Keynes scontrarsi con molti politici dei paesi
che avevano vinto la Grande guerra, soprattutto
francesi. L'argomento di discussione erano le riparazioni
belliche tedesche. I francesi volevano far valere la forza
politica dei vincitori e imporre sanzioni severissime alla
Germania. Se fossero state pagate interamente o anche
solo in buona parte, avrebbero messo in ginocchio
l'economia di quel paese. I tedeschi ritardarono i
pagamenti appellandosi (con buone ragioni) alla loro
assurdità. Per tutta risposta i francesi nel 1923 oc-
cuparono una regione industrializzata, la Ruhr, e ten-
tarono di isolare commercialmente ed economicamente
la Germania. Il risultato lo conosciamo: il tracollo
economico tedesco, l'iperinflazione, e il collasso della
democrazia di Weimar. Tutto ciò sfociò nel nazismo
isolazionista, nell'odio tedesco verso le potenze vincitrici
della Prima guerra mondiale e nella Seconda guerra
mondiale.
Nella sua lungimiranza, Keynes aveva capito che la
soluzione migliore non era la forza delle armi ma la for-
za dell'economia. Proponeva quindi di reinserire la
Germania nella rete delle relazioni economiche pacifiche
tra le potenze dell'epoca. Aveva intuito che umiliare un
paese non poteva che portare alla catastrofe e sapeva
che la comunanza di interessi economici basati sul
commercio rende le guerre più costose e quindi meno
probabili. Keynes perse questa battaglia e quando al
commercio si sostituì la forza bruta, il risultato fu una
guerra devastante.
Passiamo a esempi più recenti. Negli anni ottanta
l'America Latina stava attraversando un periodo difficile,
risultato, tra l'altro, delle politiche protezionistiche dei
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decenni precedenti. I deficit pubblici erano in aumento,
l'inflazione cresceva. Era chiaro che l'unica soluzione era
riprendere il controllo della finanza pubblica e
controllare l'offerta di moneta, che veniva stampata a
rotta di collo per coprire i deficit. L'indecisione e
l'incapacità politica di agire furono responsabili di una
serie di iperinflazioni disastrose. Alcuni politici, in testa
a tutti il peruviano Alan Garcia, seguirono politiche
eterodosse, divergenti da quelle sostenute dagli
economisti. Invece di una buona dose di rigore fiscale,
adottarono controlli amministrativi sui prezzi, na-
zionalizzazioni, interventi pubblici estesi in questo o
quel settore, ignorando la prescrizione degli economisti
(almeno quelli seri) di smettere di stampare moneta, che
come unico risultato aveva quello di scatenare
l'inflazione. Ne derivò un periodo di iperinflazioni, se-
guite da fortissime recessioni. Anche in questo caso,
paradossalmente, i politici si descrivevano come di-
fensori dei poveri, sebbene l'iperinflazione (per non
parlare delle recessioni) non fece che peggiorare le con-
dizioni dei più deboli, aumentando povertà e disu-
guaglianza. Mentre i poveri venivano pagati con moneta
nazionale che valeva sempre meno, i ricchi esportavano
capitali. L'America Latina uscì da anni di disastrose
politiche populiste con una distribuzione del reddito
ancora più disuguale. Anche in quel caso furono due
economisti, Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards a
mettere in guardia contro i danni di una politica
economica guidata dal populismo.
Naturalmente gli economisti non hanno sempre ragione
e qualche volta commettono errori di valutazione e di
visione globale. Per restare in Sudamerica, per esempio,
hanno sottovalutato la difficoltà con cui economie di
mercato si sarebbero imposte all'opinione pubblica.
Dopo i forti disequilibri macroeconomici degli anni
ottanta, molti paesi sudamericani hanno seguito
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politiche di liberalizzazione dei mercati con notevole
successo, ma in qualche caso vi è stata una reazione
antimercato non prevista. La corruzione, la commistione
tra politica, ricchi rentiers e capitalisti era vista con grande
antipatia dalla maggioranza dei cittadini. Il liberismo
sembrava una scusa a vantaggio di pochi per arricchirsi
con mezzi più o meno leciti. Inoltre, le riforme per
migliorare i sistemi di sicurezza sociale sono state
troppo lente. In questo caso gli economisti hanno
sottovalutato l'importanza di alcuni fattori politici e della
transizione necessaria per arrivare a un'economia di
mercato funzionante. E non è un errore da poco. Il con-
senso politico è fondamentale per cementare alcune
riforme e se viene meno, è a rischio il loro futuro.
Anche in Italia ci sono stati momenti di grande di-
saccordo tra politici ed economisti. Nella sua casa di
Belmont, nel Massachusetts, il 26 gennaio 1975 Franco
Modigliani leggeva una copia del Corriere della Sera. Si
soffermò su un breve articolo in cui si descriveva
l'accordo tra Confindustria e sindacati sulla nuova scala
mobile: «Importante accordo Confindustria-Sindacati
apre nuove prospettive al rilancio produttivo» era il
titolo. Era l'accordo che aumentava i salari non
proporzionaimente all'inflazione ma di un tanto fisso
per ogni punto di inflazione. L'effetto sulla spirale dei
salari e sulla loro compressione sarebbe dovuto risultare
evidente a chiunque. Nessuno, o quasi, in Italia vi aveva
fatto caso. «Il silenzio dei miei colleghi italiani
sull'accordo e soprattutto sulle conseguenze della
contingenza unificata, mi stupisce veramente» scriverà
Modigliani a Paolo Baffi, governatore della Banca
d'Italia, un mese dopo. Economisti e imprenditori
impiegarono molto tempo a rendersi conto degli effetti
di quell'accordo, e solo grazie a un Modigliani
esterrefatto, che non smise mai di scrivere, ribattere, fare
conti ed esempi. Ma ormai il danno era fatto e l'Italia
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impiegò un decennio per rimediare. Quello è l'esempio
di un accordo dettato da esigenze politiche - tenere
insieme Confindustria, sindacati e governo - che diede
un colpo gravissimo all'economia italiana. Quando
queste tre parti si siedono a un tavolo, quasi sempre i
contribuenti sono chiamati a saldare il conto.
Anche sulle pensioni Modigliani fu lungimirante.
Scriveva a metà anni novanta: «L'Italia eroga pensioni
assai maggiori di quelle giustificate dai contributi pagati.
La differenza è saldata dallo stato e ciò ha contribuito al
grande deficit e al suo aumento nel tempo». Sarebbe
dovuto saltare agli occhi che la politica pensionistica
degli anni settanta e ottanta aveva innescato una bomba
a orologeria. E questo è un altro esempio in cui la
politica prevarica sulle leggi basilari dell'economia, anzi,
sulle leggi basilari dell'aritmetica! I politiri fecero finta di
non accorgersene e poi, quando la situazione era
compromessa, si mossero con troppa cautela, ignorando
l'esortazione degli economisti a intervenire con più
decisione.
Anche in Italia vi sono state occasioni in cui gli eco-
nomisti hanno sbagliato. Alla fine degli anni settanta,
per esempio, si opposero all'ingresso nello Sme. Perché
lo fecero? Per due motivi. Il primo fu un errore di teoria
economica. Non capirono che continuare a sostenere le
esportazioni a colpi di svalutazione non avrebbe portato
lontano. Erano rimasti ancorati a una impostazione
keynesiana molto «scolastica», si illudevano che una
politica monetaria e fiscale aggressiva potesse correggere
i cicli economici. Inoltre, non capirono che doveva
finire la dipendenza della Banca d'Italia dalle esigenze
del finanziamento del deficit pubblico, un altro focolaio
d'inflazione. Il secondo errore fu ancora più grave. Non
capirono che entrare nello Sme era un modo per
ancorare politicamente l'Italia al resto d'Europa. Se non
fosse accaduto, probabilmente l'Italia sarebbe precipitata
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in una spirale di inflazione e svalutazione che l'avrebbe
resa un paese di secondo ordine. Ecco un caso in cui
precise esigenze politiche devono condizionare le scelte
economiche. Per fortuna i politici (almeno i più
lungimiranti) in questa occasione non li ascoltarono.
Questi esempi ci dicono che spesso quando il dialogo
tra politici ed economisti è difficile e teso, si sta
attraversando una fase delicata, in cui sono in campo
questioni cruciali. A noi pare che un momento simile si
stia riproponendo oggi in Italia. La supremazia della
politica viene invocata contro il mercato che gli
economisti invece difendono. Questo non è il momento
di slogan contro il capitalismo, la finanza e il mercato.
Questo è il momento di capire che cosa non ha
funzionato, e che cosa si può fare innanzitutto per
evitare errori che potrebbero rendere questa crisi ancor
più grave. Senza perdere di vista che il capitalismo può
produrre crisi gravi, ma rimane il sistema economico
migliore che il genere umano sia stato in grado di creare.
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La crisi
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