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MACROECONOMIA
UNA PROSPETTIVA EUROPEA
C APITO LO 1: UN VIAGGIO INTORNO AL M ONDO
Le economie, come le persone, si possono ammalare di elevata disoccupazione, recessioni, crisi finanziarie
e bassa crescita. La macroeconomia si occupa di capire quello che succede e cosa si può fare al riguardo.
Come sappiamo, all’inizio del 2020 la popolazione mondiale è stata colpita da una pandemia causata da un
nuovo coronavirus che ha costretto in quarantena interi paesi e fermato la produzione in moltissimi settori.
Anche nel 2008 l’economia mondiale fu colpita da una disastrosa crisi economica che è stata la peggiore
dopo la Grande Depressione del 1929; quest’ultima durò molti anni e provocò una drastica riduzione della
produzione, crolli di borsa, fallimenti delle banche e di imprese ed un forte aumento della disoccupazione.
Durante la crisi, il tasso di crescita della produzione mondiale, che solitamente è del 4-5% annuo, nel 2009
è stato lievemente negativo e pari al – 0,1%. Nel 2020, però, la pandemia ha causato una recessione ancora
più profonda e secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale il PIL mondiale è diminuito del –3,2%.
LA PANDEM IA DEL 20 20
La pandemia da Covid-19 nel giro di pochi mesi si è diffusa in tutto il mondo e segnerà questo secolo come
lo scorso fu segnato dalla spagnola, un virus che provocò addirittura più morti della prima guerra mondiale.
Le r ecessioni causate da una pandemia non sono provocate da uno squilibrio nell’economia ma piuttosto
da uno shock esogeno e inatteso, causato dal virus appunto. Questo shock colpisce l’economia in tre modi:
• spezzando le catene produttive: le aziende che producono utilizzando beni intermedi importati dalla Cina
non riescono più ad approvvigionarsi perché molte fabbriche cinesi hanno chiuso e il sistema dei trasporti
si è bloccato per cui, di conseguenza, chi utilizzava prodotti intermedi importati ha fermato le produzioni.
• limitazione della mobilità: per rallentare il diffondersi del virus, la gran parte dei paesi ha deciso di limitare
la mobilità degli individui, e tutti coloro che non potevano lavorare a distanza hanno smesso di lavorare.
• chiusura di fabbriche e negozi e caduta dei redditi familiari: hanno provocato il rallentamento dei consumi.
Quanto durerà questa recessione? Per capirlo è utile studiare la pandemia causata dall’influenza spagnola:
la recessione causata dalla Spagnola durò solo sette mesi. La breve durata di quella recessione è dovuta in
parte al fatto che, diversamente da oggi, allora non si obbligarono i cittadini a «stare a casa».
Questo ebbe due conseguenze: innanzitutto il virus si diffuse rapidamente, quasi tutti furono contagiati e
molti morirono però chi sopravvisse divenne immune e continuò comunque a lavorare. Quindi, le fabbriche
anche se persero alcuni lavoratori, non chiusero e la recessione fu breve.
Per valutare quanto durerà la recessione causata dal Covid-19 bisogna chiedersi quanto a lungo dureranno
le norme di «distanziamento sociale». Più esse saranno estese nel tempo, minore sarà la mortalità di questa
pandemia e più lunga sarà la recessione, ma bisogna sottolineare che più lunga non significa più profonda.
Infatti, durante la spagnola, l’obbligo di «stare a casa» non fu applicato in modo omogeneo ma la decisione
fu lasciata alle singole città oppure ai singoli Stati: ne risultò le città che imposero limitazioni più severe alla
libertà di movimento subirono minori danni economici, perché il numero di decessi fu minore e quando la
pandemia terminò era stato perduto meno capitale umano. Che cosa sappiamo della pandemia Covid-19?
Il tasso di crescita annualizzato dell’importo totale delle spese giornaliere è rimasto stabile fino ai primi di
marzo, però con l’entrata in vigore delle misure di blocco c’è stato un calo delle spese, diminuite del 48,6%.
Nell’aprile del 2020 il Fondo Monetario Internazionale ha prodotto le prime previsioni riguardo l’andamento
dell’economica mondiale durante e dopo la pandemia. Rispetto alle previsioni pre-pandemia, nel secondo
il Pil nei paesi avanzati è diminuito di quasi il 15%, una caduta che non si era mai osservata nei secoli recenti.
La ripresa, tuttavia, almeno secondo il Fmi dovrebbe essere abbastanza rapida: a fine 2021, il Pil dovrebbe
tornare ai livelli pre-shock, anche se un 5% sotto il livello che avrebbe raggiunto in assenza della pandemia.
LA C RISI DEL 2 0 08 – 2 00 9
Nel 2007 iniziarono a comparire i primi segnali di un imminente rallentamento dell’economia : tutto ebbe
inizio negli Stati Uniti dove il prezzo delle case cominciò a diminuire.
Mentre i prezzi delle case continuavano a scendere, fu presto chiaro che i problemi erano più profondi di
quanto immaginato. Infatti, molti dei mutui ipotecari che erano stati concessi erano di scarsa qualità e tante
famiglie che avevano contratto un mutuo si erano indebitate troppo, per cui un numero sempre crescente
di loro non era in grado di pagare le rate mensili. Inoltre, con il prezzo delle case in calo, il valore dei mutui
ipotecari finì per superare quello delle abitazioni che erano state acquistate con quegli stessi mutui dando
un incentivo a chi era debitore di diventare insolvente, cioè di non restituire quanto aveva preso a prestito.
Le banche che avevano emesso mutui ipotecari li avevano poi rimpacchettati creando dei nuovi strumenti
finanziari, che avevano poi venduto ad altre banche o a investitori: il risultato fu che molte delle banche,
invece di avere a bilancio i mutui originari, possedevano tali strumenti così complessi da rendere impossibile
una loro corretta valutazione. Questo trasformò la crisi del settore immobiliare in una crisi finanziaria: il 15
settembre 2008, infatti, una delle maggiori banche americane, Lehman Brothers, annunciò la bancarotta.
La crisi finanziaria si trasformò velocemente in un’enorme crisi economica: i prezzi delle azioni crollarono e
i consumatori americani, colpiti dal crollo immobiliare e azionario, ridussero drasticamente i loro consumi.
Le imprese, data la riduzione delle vendite e il futuro incerto, tagliarono bruscamente gli investimenti. Dati
i bassi prezzi immobiliari e le numerose case rimaste invendute, cessò la costruzione di nuove abitazioni.
Nonostante gli interventi sia della banca centrale degli Stati Uniti (Fed) che tagliò i tassi d’interesse a zero,
sia del governo americano che diminuì le tasse e aumentò la spesa pubblica, la domanda diminuì e a ruota
la produzione. Nel terzo trimestre del 2008, la crescita della produzione statunitense divenne addirittura
negativa e rimase tale per tutto il 2009, cominciando a recuperare lentamente da quel momento in avanti.
La crisi americana divenne molto rapidamente una crisi mondiale e il contagio avvenne tramite due canali.
Il primo fu il commercio internazionale: quando consumatori e imprese americani ridussero la loro spesa,
una parte di questa riduzione colpì le importazioni di beni prodotti all’estero. Dal punto di vista dei paesi
esportatori verso gli Stati Uniti, il loro export diminuì e, di conseguenza, diminuì anche la loro produzione.
Il secondo canale fu la finanza: le banche americane avevano un disperato bisogno di fondi e proprio per
questo rimpatriarono quelli che detenevano in altri paesi, creando problemi per le banche di questi paesi.
E non appena queste banche iniziarono ad avere problemi di finanziamento, i prestiti erogati alle imprese
si ridussero e ne seguì un calo della spesa e della produzione. In Europa, il declino della produzione fu così
tanto drammatico che questa propagazione della crisi diventò una crisi a sé stante, ovvero la crisi dell’euro.
Riassumendo, la recessione americana divenne una recessione mondiale.
Nel 2009, la crescita media delle economie avanzate fu del – 3,4%, mentre la crescita nei paesi emergenti
e in via di sviluppo rimase positiva, però era del 3,5% inferiore alla media nel periodo 2000-2007. La crescita
nelle economie avanzate è tornata positiva nel 2010 ed è rimasta tale fino alla pandemia del 2020.
In alcune economie avanzate, come gli Stati Uniti, la disoccupazione è per lo più ritornata ai livelli precrisi.
L’Eurozona, ovvero l’insieme di paesi europei che adottano l’euro è invece, ancora oggi, in grande difficoltà
poiché il tasso di crescita è positivo, ma comunque abbastanza basso, e la disoccupazione rimane elevata.
Il tasso di crescita nei paesi emergenti e in via di sviluppo è tornato a livelli sostenuti, ma è minore di quanto
non fosse prima della crisi e, inoltre, ha intrapreso un’ulteriore discesa dal 2010 in poi.
GLI STATI UNITI D’AMERICA
Quando gli economisti considerano un determinato paese, le due domande che si pongono sono: «quanto
è grande questo paese da un punto di vista economico?» e dopo «qual è il tenore di vita in questo paese?».
Per rispondere alla prima domanda devono considerare il prodotto nel suo complesso, per rispondere alla
seconda domanda devono invece considerare il prodotto per persona.
Per comprendere lo stato di salute dell’economia di un certo paese, si guardano tre variabili fondamentali:
• tasso di crescita della produzione: è il tasso al quale la produzione cambia nel corso del tempo.
• tasso di disoccupazione: la proporzione di lavoratori che non sono occupati ma sono in cerca di un lavoro.
• tasso di inflazione: è il tasso al quale il prezzo medio dei beni in un’economia cresce nel corso del tempo.
Prima della pandemia, l’economia degli Stati Uniti era in buona forma e si era lasciata alle spalle gran parte
degli effetti negativi della crisi. La pandemia del 2020 ha portato l’economia in una condizione peggiore di
quella del 2008 – 2009: la grande riduzione del PIL è accompagnata da un aumento della disoccupazione
e da un’inflazione in calo per effetto del crollo della domanda.
Negli Stati Uniti la ripresa dalla crisi finanziaria è cominciata nel giugno del 2009 e da allora la crescita della
produzione è stata positiva. Oggi, gli Stati Uniti stanno cercando di contrastare un’epidemia con misure di
distanziamento sociale, che comportano necessariamente l’interruzione della produzione in molti settori.
Tale blocco dell’attività produttiva ha fatto impennare la disoccupazione e secondo i dati del dipartimento
del lavoro, ad aprile 2020 erano già 10 milioni i lavoratori che avevano richiesto i sussidi di disoccupazione.
In tale situazione, la Fed ha un ruolo centrale per due motivi: perché parte del mandato della Fed è appunto
di contrastare le recessioni, e secondo perché possiede lo strumento migliore per farlo, il tasso di interesse.
Se diminuisce il tasso di interesse, stimola la domanda, aumenta la produzione e riduce la disoccupazione.
Con l’arrivo della pandemia la Fed ha fatto ciò che fece all’inizio della crisi finanziaria, ovvero ha riportato i
tassi di interesse a zero. Il motivo per il quale si è fermata a zero deriva dal fatto che i tassi d’interesse non
possono assumere valore negativo in quanto se lo facessero nessuno vorrebbe tenere titoli obbligazionari
bensì tutti vorrebbero avere banconote, dato che comunque esse pagano un tasso di interesse pari a zero.
Questo limite nella capacità di una banca centrale di fissare tassi di interesse sotto lo zero è conosciuto in
macroeconomia come lo «z ero lower bound», e la Fed lo raggiunse per la prima volta nel dicembre 2008.
Ora che il tasso d’interesse è aumentato, lo zero lower bound è ancora un problema per il fatto che il tasso
di interesse è ancora molto basso rispetto al suo livello medio del passato e questo significa che la Fed ha
poco margine per ridurlo: può abbassarlo solo di circa il 2%, non molto per avere un effetto sulla domanda.
A marzo 2020 la Fed ha portato il tasso d’interesse a zero ma non è stato sufficiente a evitare la recessione.
Come abbiamo appena visto, nel breve periodo quello che succede all’economia dipende dall’andamento
della domanda e dalle decisioni della banca centrale. Nel lungo periodo, la crescita economica è guidata da
altri fattori, primo fra tutti la crescita della produttività: senza crescita della produttività, nel lungo periodo,
un miglioramento del reddito pro-capite sarebbe impensabile.
Secondo alcuni economisti, gli Stati Uniti sono entrati in un periodo di bassa crescita della produttività e
che il progresso economico dei prossimi anni sarà meno veloce che in passato, almeno per qualche tempo.
Una fonte di preoccupazione è che tale rallentamento della crescita della produttività si sta verificando in
un contesto di crescente disuguaglianza: se la crescita della produttività è abbastanza sostenuta, molti ne
beneficiano e, anche se la disuguaglianza aumenta, tutti beneficiano di un miglioramento del tenore di vita.
Non così però quando la produttività non cresce, o cresce di meno. Siamo quindi entrati in un mondo in cui
l’aumento della disuguaglianza si accompagna ad una riduzione del tenore di vita dei lavoratori con redditi
relativamente più bassi. Questo prima o poi diverrà insostenibile, e di conseguenza o si trova un modo per
far crescere la produttività o si riduce la disuguaglianza, o entrambe le cose.
L’EURO PA
Dell’Unione Europea, sorta negli anni ’50 con 6 paesi fondatori tr a cui l’Italia, ne fanno attualmente parte
27 Stati (fino al 31 gennaio 2020 erano 28 gli Stati dell’UE, data in cui il Regno Unito ha cessato di farne
parte a seguito dell’esito del referendum che ha visto la vittoria dei favorevoli all’uscita dall’UE, c.d. Brexit).
Nel 1999, l’UE decise di compiere un passo ulteriore e cominciò il processo di sostituzione delle varie valute
nazionali con una valuta comune, l’euro. Solo undici paesi aderirono da subito, ma ad oggi è di diciannove
il numero di paesi UE che adottano l’euro come valuta, un gruppo noto come A rea euro oppure Eurozona.
La transizione all’euro è avvenuta in diverse fasi. Il 1° gennaio 1999, ciascuno degli iniziali undici paesi fissò
il valore della propria moneta in termini di euro. Dal 1999 al 2002, i prezzi in ogni paese furono espressi sia
in termini della valuta nazionale che in euro, nonostante quest’ultimo non fosse ancora una moneta fisica
o elettronica utilizzabile nelle transazioni. Il passaggio definitivo all’euro avvenne soltanto nel 2002, quando
le banconote e le monete europee sostituirono definitivamente quelle nazionali.
Il passaggio all’euro è stato senza dubbio uno dei più importanti eventi economici, però alcuni economisti
sono preoccupati che dietro all’importanza simbolica dell’euro si nascondano costi economici: una valuta
comune vuol dire politica monetaria comune, che a sua volta vuol dire stessi tassi d’interesse in tutti i paesi.
Di conseguenza, se un paese si trovasse a fronteggiare in una recessione, mentre un altro si trovasse nel
mezzo di un’espansione economica, il primo avrebbe bisogno di tassi di interesse più bassi per incentivare
il consumo e la produzione, mentre il secondo di tassi di interesse alti per evitare l’inflazione. Nonostante
ciò, l’Eurozona è una formidabile area economica: al tasso di cambio del 3 aprile 2020 (1,08€ per dollaro) la
sua produzione è circa 2/3 di quella degli Stati Uniti ed il tenore di vita al suo interno non è molto inferiore
in quanto l’Unione Europea nel suo complesso ha una produzione pari al 90% di quella degli Stati Uniti.
Come negli Stati Uniti, anche in Europa la crisi del 2008 – 2009 è portato ad un tasso di crescita negativo
ma, mentre gli Stati Uniti si sono ripresi, la crescita europea è rimasta debole fino al 2019. Lo shock causato
dalla pandemia da Covid-19 fa prevedere un tasso di crescita del PIL come non si era mai verificato prima.
Gran parte dell’elevata disoccupazione prima dello shock della pandemia del 2020 era un lascito della crisi
finanziaria del 2008 – 2009. La disoccupazione in Europa durante la crisi ha avuto un’evoluzione simile a
quella negli Stati Uniti e in Giappone anche se dopo il 2010 in Europa c’è stata una seconda ondata causata
dalla crisi dell’euro. Mentre negli Stati Uniti e in Giappone la disoccupazione ha recuperato i livelli precrisi
abbastanza rapidamente, in Europa la discesa della disoccupazione è iniziata soltanto nel 2013 e al giorno
d’oggi continua comunque ad avere un tasso di disoccupazione doppio rispetto a quello degli Stati Uniti.
Alcuni economisti ritengono che il problema principale sia che alcuni paesi europei proteggono in modo
eccessivo i lavoratori: infatti, per evitare che questi perdano il lavoro, hanno introdotto leggi che rendono
costoso per un’impresa licenziare i lavoratori, anche quando il numero di lavoratori eccede il fabbisogno.
Uno degli effetti collaterali di queste politiche di protezione del lavoro è di scoraggiare l’impresa che vuole
assumere nuovi lavoratori (poiché poi faticherà a liberarsene), aumentando così il livello di disoccupazione.
Inoltre, per proteggere coloro che hanno perso il lavoro, i governi europei garantiscono generosi sussidi di
disoccupazione. Questo riduce l’incentivo di coloro che sono disoccupati a cercare un nuovo lavoro e ciò
a sua volta aumenta la disoccupazione. La soluzione, sostengono questi economisti, è di garantire meno
protezione e di adottare istituzioni del mercato del lavoro più simili a quelle degli Stati Uniti.
Altri economisti, invece, sono più scettici: osservano che la disoccupazione è bassa anche in paesi europei
che hanno un elevato grado di protezione del lavoratore e questo suggerisce che i problemi non si celano
nel grado di protezione del lavoratore di per sé, bensì nelle modalità con cui questa viene messa in pratica.
LA C INA
Come tutti sappiamo, la Cina è da sempre considerata una delle maggiori potenze economiche nel mondo.
Nonostante la sua popolazione sia grande più di quattro volte quella degli Stati Uniti, la sua produzione è
ancora circa il 60% di quella statunitense ed il suo reddito pro-capite è circa il 15% di quello negli Stati Uniti.
La prima ragione per la quale la Cina attira così tanta attenzione riguarda il fatto che tanti beni sono più a
buon mercato nei paesi poveri piuttosto che in paesi ricchi: ciò vuol dire che uno stesso stipendio, espresso
in dollari, ha molto più potere d’acquisto in Cina piuttosto che negli Stati Uniti.
La seconda ragione, più importante, è che la Cina è cresciuta molto rapidamente per più di tre decenni e
la crescita è a malapena rallentata durante il 2008 – 2009, mentre la disoccupazione è aumentata di poco.
Ci sono due fattori che hanno permesso questa crescita: il primo fattore è l’elevato tasso di accumulazione
di capitale che in Cina è del 46%: più capitale significa maggiore produttività e quindi maggiore produzione.
Il secondo fattore è il rapido progresso tecnologico: una delle strategie adottate dal governo cinese è stata
di incoraggiare le imprese straniere a localizzare la produzione in Cina. Poiché le imprese straniere sono
tipicamente più produttive di quelle cinesi, permettendo alle imprese cinesi di lavorare e apprendere dalle
imprese straniere, la produttività delle prime è aumentata drasticamente e con essa anche la produzione.
L’ITALIA
La storia macroeconomica italiana può essere divisa in due fasi: la prima fase, negli anni ’50 e ’60 è di rapido
sviluppo e caratterizzata da una sostenuta crescita della produzione. Questo sviluppo è proseguito, anche
se più moderatamente, negli anni ’70 e ’80. La seconda fase abbraccia il periodo che va dalla seconda metà
degli anni ’90 fino ad oggi ed è caratterizzato da una fase di stagnazione durante la quale la crescita della
produttività si è interrotta bruscamente, fino a divenire perfino negativa. Sebbene possano aver aggravato
la situazione, alla base di questo declino non ci sono né l’adozione dell’euro e né la crisi economica recente.
Alcuni economisti sostengono che l’inefficienza della burocrazia e della giustizia civile, unite ad un eccessivo
livello della tassazione, impediscano alle imprese di crescere e di svilupparsi. Altri economisti sostengono
che gli imprenditori italiani non siano stati in grado di cogliere i benefici derivanti dall’adozione delle nuove
tecnologie informatiche, sia per la ridotta dimensione delle imprese italiane rispetto alla media europea e
sia per la bassa alfabetizzazione informatica dei lavoratori adulti italiani. Un’ultima ragione per la quale la
produttività italiana è stata stagnante riguarda il mercato del lavoro: al fine di ridurre la disoccupazione, i
governi italiani hanno introdotto due riforme del mercato del lavoro, cioè il pacchetto Treu e la legge Biagi.
Da un lato, esse contribuirono ad una riduzione del tasso di disoccupazione, però dall’altro contribuirono
a precarizzare il mercato del lavoro, soprattutto nelle fasce giovanili; ciò ha ridotto la produttività del lavoro
poiché posti di lavoro temporanei o occasionali non incentivano le imprese ad investire nella formazione e
nella specializzazione dei dipendenti, rendendo difficile aumentare la loro produttività. Inoltre, i lavoratori
precari potrebbero avere minor incentivo a sforzarsi di incrementare la loro produttività sul posto di lavoro.
Bisogna sottolineare che la crescita economica è necessaria per poter rimborsare l’enorme debito pubblico
accumulato nei decenni passati. Il debito italiano è significativamente più alto della media dell’Eurozona ed
è fortemente aumentato a causa della crisi. Dato che il debito è accumulato nel tempo e rimborsarlo in una
volta non è possibile, deve essere continuamente rifinanziato da investitori, di cui metà sono internazionali:
una stagnazione dell’economia italiana preoccupa tutto il mondo in quanto se gli investitori decidessero di
non rifinanziare il nostro debito, il governo italiano fallirebbe, distruggendo l’economia nazionale.
C APITO LO 2: UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL LIBRO
Il PIL nominale, espresso con €𝑌𝑡, è la somma delle quantità di beni e servizi finali al loro prezzo corrente.
Tale definizione ci suggerisce che il PIL nominale cresce nel tempo per due ragioni: perché la produzione di
beni e servizi cresce nel tempo, e poi perché il prezzo dei beni e dei servizi aumenta anch’esso nel tempo.
Il PIL r eale, espresso come 𝑌𝑡, è la somma delle quantità dei beni e servizi finali valutati a prezzi costanti
mentre il PIL reale pro-capite è rappresentato dal rapporto tra PIL reale e la popolazione di un certo paese.
Per costruire il PIL reale dobbiamo moltiplicare la quantità dei beni e servizi finali prodotti per uno stesso
prezzo: se si modificasse il prezzo di riferimento, il livello del PIL reale in ciascun anno sarebbe diverso ma
il suo tasso di variazione da un anno all’altro resterebbe comunque lo stesso.
Per valutare l’andamento di un’economia da un anno ad un altro quello che gli economisti considerano è
il tasso di crescita del PIL reale, chiamato semplicemente crescita del PIL. Periodi di crescita positiva del PIL
sono chiamati espansioni del PIL mentre periodi di crescita negativa del PIL sono detti recessioni del PIL.
La crescita del PIL nell’anno 𝑡 viene definita come: (𝑌𝑡 − 𝑌𝑡 − 1 )/ 𝑌𝑡 − 1
L’inflazione è un aumento del livello dei prezzi, mentre la deflazione è una riduzione del livello dei prezzi.
Il tasso di inflazione è il tasso al quale il livello dei prezzi aumenta nel corso tempo; esso può assumere un
valore negativo se il livello dei prezzi diminuisce nel tempo, cioè quando l’economia si trova in deflazione.
I macroeconomisti usano due indici del livello dei prezzi: il deflatore del PIL e l’indice dei prezzi al consumo.
PIL, DISO C C UPAZ IONE E TASSO DI INFLAZIONE: LA LEG GE DI O KUN E LA C URVA DI PH ILLIPS
La crescita della produzione, tasso di disoccupazione e tasso di inflazione non sono indipendenti tra loro,
ma ci sono due importanti relazioni che intercorrono tra di esse, cioè la legge di Okun e la curva di Phillips.
La legge di Okun esprime la relazione esistente tra la crescita della produzione e il tasso di disoccupazione:
un’elevata crescita della produzione conduce normalmente a una diminuzione del tasso di disoccupazione.
Questa è la ragione per la quale la disoccupazione aumenta durante le recessioni e al contrario diminuisce
durante le espansioni, e questo ha una semplice ma importante con seguenza: il modo migliore per ridurre
la disoccupazione è quello di mantenere un elevato tasso di crescita della produzione.
La curva di Phillips rappresenta la relazione esistente tra il tasso di disoccupazione ed il tasso di inflazione:
una riduzione del tasso di disoccupazione conduce normalmente ad un incremento del tasso di inflazione.
I macroeconomisti distinguono tre orizzonti temporali diversi: breve periodo, medio e infine lungo periodo.
• Nel br eve periodo, cioè nell’arco di qualche anno, il livello della produzione è determinato dalla domanda.
Dunque, le variazioni annuali della produzione sono dovute soprattutto alle variazioni della domanda: le
variazioni della domanda possono derivare da cambiamenti nella fiducia dei consumatori o da altri fattori
e possono portare ad una diminuzione della produzione (recessione) o a un suo aumento (espansione).
• Nel medio periodo, cioè nell’arco di un decennio, il livello della produzione è determinato da fattori che
riguardano l’offerta: lo stock di capitale, il livello della tecnologia, la dimensione delle forze di lavoro ecc.
Dato che questi fattori non cambiano significativamente in un decennio, possono essere presi come dati.
• Nel lungo periodo, cioè nell’arco di qualche decennio o di più, il livello della produzione è determinato da
fattori come l’istruzione, la ricerca, il risparmio e la qualità del governo.
C APITO LO 3: IL M ERC ATO DEI BENI
1) La prima componente del PIL è il consumo (𝐶): si tratta dei beni e dei servizi acquistati dai consumatori.
Possiamo considerarlo la componente più importante che nel 2018 rappresentava il 60% del PIL in Italia.
2) La seconda componente del PIL è l’investimento fisso (𝐼), così detto per distinguerlo dall’investimento
in scorte; esso è la somma di investimento non residenziale, cioè l’acquisto di nuovi impianti o macchinari
da parte delle imprese, e investimento residenziale, cioè l’acquisto di nuove case da parte degli individui.
3) La terza componente del PIL è la spesa pubblica in beni e servizi (𝐺): si tratta di beni e servizi acquistati
dallo Stato e dagli enti pubblici ed include sia la spesa per i consumi, sia quella per investimenti pubblici.
La spesa pubblica non include né i trasferimenti – come le pensioni – né gli interessi sul debito pubblico,
perché nonostante sono chiaramente spese dello Stato non riguardano acquisti di beni oppure di servizi.
4) La quarta componente del PIL sono le esportazioni nette (𝑁𝑋) o saldo commerciale, che rappresentano
la differenza tra le esportazioni e le importazioni. Se le esportazioni sono maggiori delle importazioni, il
saldo commerciale è positivo e il paese registra un avanzo commerciale. Invece, se le esportazioni sono
minori delle importazioni, il saldo commerciale è negativo e il paese registra un disavanzo commerciale.
Le esportazioni (𝑋) sono i beni e servizi nazionali acquistati dal resto del mondo e le importazioni (𝐼𝑀)
sono i beni e servizi acquistati dall’estero da parte di consumatori, delle imprese e del governo nazionali.
5) La quinta componente del PIL è infine l’investimento in scorte (𝐼𝑆): esso rappresenta la differenza tra i
beni prodotti e i beni venduti in un determinato anno, ovvero la differenza tra la produzione e le vendite.
Dunque, se la produzione eccede le vendite, le scorte aumentano e l’investimento in scorte è positivo;
se invece la produzione è inferiore alle vendite, le scorte si riducono e l’investimento in scorte è negativo.
LA DO M ANDA DI BENI
Usando la scomposizione del PIL, la domanda aggregata di beni (𝑍) è data da: 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 – 𝐼𝑀.
Questa equazione indica un’identità in quanto è scritta col simbolo ≡ al posto del simbolo di uguaglianza,
e definisce la domanda 𝑍 come la somma di consumo, investimento, spesa pubblica ed esportazioni nette.
Per comprendere più semplicemente i fattori che determinano 𝑍 introduciamo ora alcune semplificazioni:
• Le imprese producono uno stesso bene che può essere usato indifferentemente dai consumatori come
un bene di consumo, dalle imprese come bene di investimento oppure dal governo come spesa pubblica.
• Le imprese forniscono qualsiasi quantità del bene ad un determinato prezzo, 𝑃. Questa ipotesi vale solo
nel breve periodo e permette di concentrarci esclusivamente sul ruolo della domanda.
• L’economia è chiusa, cioè non avvengono scambi con il resto del mondo: di conseguenza, le esportazioni
e le importazioni sono uguali a zero. Nell’ipotesi che la nostra economia sia chiusa, ovvero 𝑋 = 𝐼𝑀 = 0,
la domanda di beni è data dalla somma di consumo, investimento e spesa pubblica, cioè: 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺.
IL C O NSUMO (C )
Le decisioni di consumo dipendono da molti fattori, primo fra tutti il reddito disponibile (𝑌𝐷) che indica ciò
che rimane del reddito percepito dopo aver ricevuto i trasferimenti dal governo e aver pagato le imposte.
Quando il reddito disponibile aumenta, le persone comprano di più e dunque aumentano anche i consumi;
al contrario, quando il reddito disponibile diminuisce anche i consumi si riducono. Possiamo quindi scrivere:
Si tratta di un modo formale per affermare che il consumo è funzione del reddito disponibile: la funzione
𝐶(𝑌𝐷 ) è chiamata fun zione del consumo. Il segno positivo al di sotto di 𝑌𝐷 indica che il reddito disponibile
ha un effetto positivo sul consumo in quanto se il reddito disponibile aumenta anche il consumo aumenta.
La funzione del consumo è una relazione lineare, caratterizzata da due parametri, 𝑐0 e 𝑐1: 𝐶 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌𝐷 ).
• il parametro 𝑐1 è chiamato propensione al consumo o anche propensione marginale al consumo: questo
parametro esprime l’effetto che ha un euro aggiuntivo di reddito disponibile sul consumo.
𝑐1 è sempre positivo in quanto un aumento del reddito disponibile fa aumentare il consumo, ma è anche
minore di 1 poiché l’aumento del consumo è meno che proporzionale all’aumento del reddito disponibile:
questo accade perché gli individui risparmiano anche una parte dell’aumento del loro reddito disponibile.
• il parametro 𝑐0 è detto consumo autonomo e rappresenta il livello del consumo in corrispondenza di un
reddito disponibile pari a zero; anche 𝑐0 è sempre positivo poiché anche se il reddito disponibile è nullo,
il consumo sarebbe comunque positivo: gli individui, con o senza reddito, devono pur consumare i beni
di prima necessità e possono farlo utilizzando i loro risparmi oppure indebitandosi.
ATTRAVERSO L’ALGEBRA
Riscriviamo l’equazione di equilibrio come 𝑌 = 𝑐0 + 𝑐1 𝑌 − 𝑐1 𝑇 + 𝐼 ̅ + 𝐺 e spostiamo sul lato sinistro 𝑐1 𝑌
ottenendo: 𝑌 − 𝑐1 𝑌 = 𝑐0 − 𝑐1 𝑇 + 𝐼̅ + 𝐺. Raccogliendo ora la 𝑌 otteniamo: 𝑌(1 − 𝑐1 ) = 𝑐0 + 𝐼̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇.
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per (1 − 𝑐1 ) otteniamo la produzione
di equilibrio, ovvero il livello della produzione che eguaglia la domanda come:
• Il termine (𝑐0 + 𝐼 ̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇) rappresenta la spesa autonoma, indipendente dal livello di produzione.
• Il termine 1⁄1 − 𝑐1 è il moltiplicatore; moltiplica l’effetto della spesa autonoma e misura la percentuale
di aumento della produzione aggregata in rapporto all’aumento di una o più variabili domanda aggregata.
C O N I G RAF ICI
La figura rappresenta graficamente l’equilibrio nel mercato dei beni, che
rappresenta la relazione tra produzione e domanda.
La relazione tra produzione e reddito è rappresentata dalla retta a 45°
con pendenza pari a 1 in quanto le due grandezze coincidono sempre.
La relazione tra domanda e reddito è rappresentata dalla retta 𝑍𝑍, di
cui l’intercetta sull’asse verticale rappresenta la spesa autonoma 𝑐0 e la
pendenza della retta rappresenta la propensione al consumo 𝑐1.
La produzione di equilibrio si trova nel punto 𝐴, ossia nel punto in cui la
produzione è uguale alla domanda 𝑌 = 𝑍 (alla sinistra di 𝐴, la domanda
eccede la produzione, a destra di 𝐴 la produzione eccede la domanda).
A PARO LE
La produzione dipende dalla domanda, che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione.
Un incremento della domanda fa aumentare la produzione ed il reddito. L’aumento del reddito a sua volta
fa aumentare nuovamente la domanda e di conseguenza la produzione, e così via fino al nuovo equilibrio.
Quindi, un cambiamento iniziale nella domanda dà il via ad un processo di aggiustamento d ella produzione
e della domanda attraverso il quale si giunge ad un nuovo livello di produzione di equilibrio.
Il risultato è un aumento della produzione di equilibrio, superiore all’incremento iniziale della domanda di
un fattore pari al moltiplicatore: possiamo dire che un aumento della spesa autonoma ha un effetto più
che proporzionale sulla produzione di equilibrio ⇒ effetto del moltiplicatore.
Fino ad ora abbiamo ipotizzato che l’aggiustamento della produzione alla domanda sia istantaneo però in
realtà quella che gli economisti chiamano dinamica dell’aggiustamento non è così istantanea:
• Supponiamo che le imprese scelgano il loro livello di produzione all’inizio di ciascun trimestre e che nel
corso di quel trimestre la produzione non può essere modificata. Se la domanda supererà la produzione,
le imprese ridurranno le scorte per soddisfare la maggiore domanda.
• Supponiamo ora che i consumatori decidano di spendere di più, cioè di aumentare 𝑐0: nel trimestre in cui
ciò accade, la domanda aumenterà ma la produzione non cambierà e di conseguenza neanche il reddito.
• Inizialmente le imprese potranno soddisfare l’incremento di domanda solamente attingendo alle scorte
accumulate per poi fissare nel trimestre successivo un maggior livello di produzione, che si tradurrà in un
aumento di pari valore del reddito e di conseguenza in un ulteriore incremento di domanda.
• Dunque, la produzione non raggiunge subito il nuovo equilibrio ma aumenta progressivamente da 𝑌 a 𝑌 ′
INVESTIM ENTO = RISPARMIO
Un modo alternativo di definire l’equilibrio nel mercato dei beni è attraverso l’uguaglianza tra investimento
e risparmio aggregato, che è dato dalla somma di risparmio privato e risparmio pubblico.
Il risparmio privato (𝑆) è dato dalla differenza tra il reddito disponibile ed il consumo, cioè 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝐶.
Il risparmio pubblico è uguale al gettito delle imposte al netto dei trasferimenti, meno la spesa pubblica,
ossia 𝑇 − 𝐺: se le imposte eccedono la spesa pubblica, il governo ha un avanzo di bilancio ed il risparmio
pubblico è positivo, al contrario se le imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo
di bilancio ed il risparmio pubblico è negativo.
Secondo l’equazione di equilibrio nel mercato dei beni, la produzione deve essere uguale alla domanda che
è data dalla somma di consumo, investimento e spesa pubblica: 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺.
Sottraendo le imposte da entrambi i lati e spostando il consumo sulla sinistra si ha 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇:
dove 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 rappresenta il risparmio privato, per cui otteniamo: 𝑆 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇 ⇒ 𝐼 = 𝑆 + (𝑇 − 𝐺).
Il lato sinistro rappresenta l’investimento e il lato destro il risparmio aggregato, che è dato dalla somma di
risparmio privato e risparmio pubblico. L’equazione ci suggerisce un altro modo di considerare l’equilibrio
nel mercato dei beni cioè: affinché il mercato sia in equilibrio l’investimento deve essere uguale al risparmio.
Possiamo notare come le decisioni di consumo e di risparmio sono due facce della stessa medaglia: dato un
reddito disponibile, una volta deciso il consumo, il risparmio viene determinato per differenza e viceversa.
Sappiamo che il risparmio privato è dato da 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 ⇒ 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝑐0 − 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) e riordinando
i termini otteniamo 𝑆 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇), dove (1 − 𝑐1 ) è la propensione marginale al risparmio che
ci indica quanto viene risparmiato dato un incremento unitario di reddito.
In equilibrio, l’investimento è uguale al risparmio aggregato, cioè: 𝐼 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇) + (𝑇 − 𝐺 ).
Risolvendo per la produzione otteniamo nuovamente 𝑌 = 1⁄1 − 𝑐1 (𝑐0 + 𝐼̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇).
Supponiamo che, per un dato livello di reddito disponibile, i consumatori decidano di risparmiare di più. In
altre parole, supponiamo che i consumatori riducano 𝑐0 aumentando in tal modo il risparmio autonomo.
Che cosa succede alla produzione e al risparmio? La produzione di equilibrio chiaramente scenderà poiché
quando gli individui aumentano il risparmio, vuol dire che stanno diminuendo il consumo e di conseguenza
si riduce la domanda e con essa anche la produzione. La produzione diminuisce più di quanto aumentino i
risparmi, per effetto del moltiplicatore e tale riduzione, a sua volta, fa diminuire anche il reddito.
L’effetto sui risparmi totali è nullo e di conseguenza avremo un calo della produzione a risparmi invariati.
Questa combinazione di risultati è nota come Paradosso del risparmio, ossia quel fenomeno che consiste
nel fatto che anche se gli individui decidessero di risparmiare di più, in corrispondenza di un certo livello di
reddito, quest’ultimo si riduce in misura tale da lasciare il risparmio invariato.
C APITO LO 4: I M ERCATI F INANZIARI
LA DO M ANDA DI M ONETA
• La moneta può essere usata nelle transazioni, ma non paga alcun interesse. Ci sono due tipi di moneta:
la moneta circolante, cioè la moneta metallica e cartacea e i depositi di conto corrente a fronte dei quali
è possibile emettere assegni o utilizzare una carta di credito o di debito.
• I titoli pagano un tasso di interesse positivo (𝑖) ma non possono essere usati per compiere le transazioni.
La decisione di tenere moneta o titoli dipende dal livello delle transazioni e dal tasso di interesse sui titoli.
Indichiamo l’ammontare di moneta che le persone vogliono tenere, ossia la loro la domanda di moneta con
𝑀𝑑 dove 𝑑 sta per domanda. La domanda di moneta di un’economia è la somma di tutte le domande di
moneta individuali, provenienti da imprese e individui.
Quindi, la domanda di moneta 𝑀𝑑 dipende dal livello totale delle transazioni nell’economia e dal tasso di
interesse che pagano i titoli. Il livello totale delle transazioni è difficile da misurare, ma possiamo assumere
che sia più o meno proporzionale al reddito nominale: se il reddito nominale aumenta ad esempio del 10%
è ragionevole supporre che l’ammontare delle transazioni nell’economia aumenti anch’esso di circa il 10%
Possiamo scrivere la relazione tra la domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse ottenendo:
Questa equazione ci dice che la domanda di moneta 𝑀𝑑 è uguale al reddito nominale €𝑌 moltiplicato per
una funzione decrescente del tasso di interesse, indicata con 𝐿(𝑖) . Il segno negativo sotto ad 𝑖 indica che il
tasso di interesse ha un effetto negativo sulla domanda di moneta: un aumento del tasso di interesse riduce
la domanda poiché gli individui preferiranno avere più titoli che ora pagano un più elevato tasso di interesse.
In conclusione, possiamo dire che: in primo luogo la domanda di moneta aumenta proporzionalmente al
reddito nominale e in secondo luogo, la domanda di moneta dipende negativamente dal tasso di interesse.
La banca centrale normalmente modifica l’offerta di moneta attraverso le operazioni di mercato aperto
che consistono in acquisti o vendite di titoli in cambio di moneta: se la banca centrale desidera aumentare
l’offerta di moneta, compra dei titoli e li paga immettendo nuova moneta nel sistema; al contrario se vuole
diminuire l’offerta di moneta, vende titoli e rimuove dalla circolazione la moneta che riceve in pagamento.
Le operazioni di mercato aperto tramite le quali la banca centrale aumenta l’offerta d i moneta acquistando
titoli sono dette intervento espansivo di mercato aperto e portano ad un aumento del prezzo dei titoli e a
una riduzione del tasso di interesse. Le operazioni di mercato aperto attraverso le quali la banca centrale
riduce l’offerta di moneta vendendo titoli sono dette intervento restrittivo di mercato aperto e portano ad
una riduzione del prezzo dei titoli e a un aumento del tasso di interesse.
C H E C O SA F ANNO LE BANCHE?
Le economie moderne sono caratterizzate dall’esistenza di molti tipi di intermediari finanziari: istituzioni
che ricevono fondi dagli individui e dalle imprese e li usano per concedere prestiti e acquistare titoli.
Le banche sono una particolare tipologia di intermediari finanziari: ricevono fondi da individui ed imprese
che li depositano direttamente o li trasferiscono tramite bonifici o assegni. In qualsiasi momento, individui
e le imprese possono emettere assegni o prelevare fino all’ammontare del loro saldo di conto corrente.
Quindi, le passività delle banche sono moneta e sono pari al valore totale tot. dei depositi di conto corrente.
Le banche tengono parte dei fondi ricevuti sotto forma di riserve presso la banca centrale, per tre ragioni:
• ogni giorno, alcuni prelevano dai propri conti correnti mentre altri versano sui propri conti correnti. Le
entrate e le uscite potrebbero non essere uguali per cui la banca deve tenere a disposizione del contante.
• allo stesso modo, ogni giorno, i correntisti di una banca emettono assegni a favore di correntisti di altre
banche e viceversa. In seguito a queste transazioni, quanto una banca deve alle altre banche potrebbe
essere maggiore di quanto deve ricevere dalle stesse: anche per questo ha bisogno di tenere riserve.
• le prime due motivazioni spiegano perché le banche tengono delle riserve anche se non obbligate a farlo.
Esistono poi riserve obbligatorie, proporzionali ai depositi di conto corrente e calcolate moltiplicando le
passività della banca per un’aliquota di riserva obbligatoria, fissata dalla banca centrale.
Inoltre, con i fondi in deposito concedono prestiti e acquistano titoli: i prestiti rappresentano il 70% delle
attività bancarie diverse dalle riserve mentre i titoli rappresentano il restante 30%.
L’offerta di moneta della banca centrale (𝐻) è sotto il controllo diretto della banca centrale stessa, che può
modificare l’offerta di moneta attraverso le operazioni di mercato aperto, sia espansive che restrittive.
La condizione di equilibrio è data dall’uguaglianza tra offerta di moneta
della banca centrale e domanda di moneta della banca centrale, ovvero:
La figura rappresenta graficamente la condizione di equilibrio: la moneta emessa dalla banca centrale 𝐻
è misurata sull’asse orizzontale e il tasso di interesse 𝑖 sull’asse verticale.
La domanda di moneta della banca centrale 𝐻 𝑑 è tracciata per un dato
livello di reddito nominale. Un tasso di interesse più elevato implica una
minore domanda di moneta della banca centrale poiché la domanda di
depositi in conto corrente da parte delle persone, e quindi la domanda di
riserve da parte delle banche, si riduce se i tassi d’interesse aumentano.
L’offerta di moneta della banca centrale è fissa ed è rappresentata dalla
linea verticale in 𝐻. L’equilibrio è nel punto 𝐴, con un tasso di interesse 𝑖.
Un aumento dell’offerta di moneta della banca centrale fa ridurre il tasso
di interesse, al contrario una riduzione dell’offerta di moneta della banca
centrale fa aumentare il tasso di interesse.
La conclusione principale che abbiamo tratto è che la banca centrale, scegliendo opportunamente l’offerta
di moneta, è sempre in grado di raggiungere il tasso di interesse desiderato: se vuole aumentare il tasso di
interesse riduce l’offerta di moneta, se vuole ridurre il tasso di interesse aumenta l’offerta di moneta.
Il tasso di interesse non può però scendere sotto lo zero, un limite che
è conosciuto come lo «z ero lower bound». Quando il tasso di interesse è
uguale a zero, la politica monetaria non è in grado di ridurlo ulteriormente
e si dice che l’economia si trova in una trappola della liquidità.
Generalmente, se il tasso di interesse diminuisce, la domanda di moneta
da parte degli individui aumenta: essi preferiscono tenere più moneta e
meno titoli, che pagano un tasso d’interesse inferiore se esso diminuisce.
Se il tasso di interesse diminuisce fino a zero, gli individui sono indifferenti
tra moneta e titoli e la curva di domanda di moneta diventa orizzontale.
Questo implica che, ad un tasso di interesse pari a zero, ulteriori aumenti
dell’offerta di moneta non hanno alcun effetto sul tasso di interesse.
C APITO LO 5: IL M ODELLO IS – LM
L’equilibrio nel mercato dei beni è definito attraverso l’uguaglianza tra produzione 𝑌 e domanda 𝑍 oppure
tra investimento 𝐼 e risparmio 𝑆: tale condizione è definita relazione 𝐼𝑆.
La domanda è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica e abbiamo assunto che il consumo
fosse una funzione del reddito disponibile e abbiamo considerato investimento, spesa pubblica e imposte
come variabili esogene. La condizione di equilibrio era perciò data da: 𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼̅ + 𝐺
La principale semplificazione consisteva nel fatto che il tasso di interesse non influenzasse la domanda di
beni: in questo capitolo, il primo passo consisterà proprio nell’introdurre il tasso di interesse nel modello di
determinazione dell’equilibrio nel mercato dei beni.
L’equazione stabilisce una relazione tra moneta, reddito nominale e tasso di interesse: un incremento del
reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta, mentre un aumento del tasso di interesse la riduce.
Possiamo riscrivere l’equazione come una relazione tra moneta reale, reddito reale e tasso di interesse,
ovvero esprimendo moneta e reddito in termini di beni e non di euro.
Ricordiamo che il reddito nominale diviso per il livello dei prezzi è uguale al reddito reale 𝑌.
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il livello dei prezzi 𝑃 otteniamo la condizione
di equilibrio data dall’uguaglianza tra offerta reale di moneta e domanda reale di moneta.
Questa equazione, chiamata relazione 𝐿𝑀, descrive l’equilibrio nel mercato
della moneta ed è usata per derivare la curva 𝐿𝑀 quando la banca centrale
stabilisce una certa offerta di moneta.
In realtà però la banca centrale stabilisce il tasso di interesse aggiustando
l’offerta di moneta in modo tale da raggiungere quel tasso. Quindi, la curva
𝐿𝑀 è una retta orizzontale in corrispondenza del tasso di interesse 𝑖̅ scelto
dalla banca centrale. La curva 𝐿𝑀 non rappresenta il comportamento del
sistema bensì tutte le combinazioni tra produzione 𝑌 e tasso di interesse 𝑖
che garantiscono l’equilibrio reale nei mercati finanziari.
LA PO LITIC A M ONETARIA
Consideriamo ora la politica monetaria. Una riduzione del tasso di interesse, raggiunta tramite un aumento
dell’offerta di moneta, è detta espansione monetaria: un’espansione monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀
verso il basso provocando un aumento della produzione di equilibrio. Un aumento del tasso di interesse,
raggiunto tramite una riduzione dell’offerta di moneta, è detto contrazione monetaria: una contrazione
monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀 verso l’alto causando una diminuzione della produzione di equilibrio.
Supponiamo ora che la banca centrale decida di ridurre il tasso di interesse:
l’espansione monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀 verso il basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′,
mentre la curva 𝐼𝑆 rimane invariata e non si sposta.
L’economia si muove lungo la curva 𝐼𝑆 per raggiungere il nuovo equilibrio,
dato dal punto 𝐴′ in corrispondenza dell’intersezione della nuova curva 𝐿𝑀′
con la curva 𝐼𝑆 originaria. In questo caso, la produzione di equilibrio aumenta
da 𝑌 a 𝑌′ e il tasso di interesse diminuisce da 𝑖 a 𝑖′.
A parole possiamo dire che: una diminuzione del tasso di interesse stimola
l’investimento e di conseguenza, fa aumentare la produzione e la domanda.
UN M IX DI PO LITICA ECONOMIC A
La combinazione di politiche fiscali e monetarie è chiamata mix di politica economica: a volte, le politiche
fiscali e le politiche monetarie sono usate nella stessa direzione, altre volte sono usate in direzioni opposte.
Immaginiamo che la politica fiscale e la politica monetaria vadano nella stessa
direzione, per esempio combinando un’espansione fiscale con un’espansione
monetaria: supponiamo che l’economia sia in recessione e che la produzione
sia considerata troppo bassa. In questa circostanza, sia la politica fiscale che
la politica monetaria possono essere usate per aumentare la produzione.
Questa combinazione è rappresentata nella figura: l’equilibrio iniziale è dato
dal punto 𝐴 in corrispondenza di un livello di produzione pari a 𝑌.
Una politica fiscale espansiva sposta la curva 𝐼𝑆 verso destra e una politica
monetaria espansiva sposta la curva 𝐿𝑀 verso il basso: il nuovo equilibrioè ora
dato dal punto 𝐴 con un livello di produzione più alto pari a 𝑌′.
In questo modo, entrambe le politiche economiche contribuiscono all’aumento della produzione: una tale
combinazione di politica fiscale e monetaria è tipicamente usata per contrastare le recessioni.
Immaginiamo ora che la politica fiscale e la politica monetaria vadano in direzioni opposte, per esempio
combinando una contrazione fiscale con un’espansione monetaria: supponiamo che il governo si trovi con
un troppo elevato disavanzo di bilancio e vorrebbe ridurlo, senza però dare il via ad una recessione. Questa
combinazione è rappresentata in figura: l’equilibrio iniziale è dato dal punto 𝐴 in corrispondenza di un livello
di produzione 𝑌. La produzione è considerata ad un livello giusto, ma il disavanzo di bilancio è troppo alto.
Se il governo riduce il disavanzo di bilancio, la curva 𝐼𝑆 si sposterà a sinistra,
da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. L’equilibrio ora è dato dal punto 𝐴′, in corrispondenza di un livello di
produzione pari a 𝑌′. Dato il tasso di interesse, maggiori imposte o minor spesa
pubblica ridurranno la domanda e, attraverso il moltiplicatore, la produzione: in
questo modo, la riduzione del disavanzo di bilancio condurrà ad una recessione.
Però, la recessione può essere evitata se si utilizza anche la politica monetaria:
se la banca centrale riduce il tasso di interesse, la curva 𝐿𝑀 si sposta verso il
basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′. L’equilibrio è dato ora dal punto 𝐴″, in corrispondenza di un
livello di produzione pari a 𝑌 ″ = 𝑌 . La combinazione di entrambe le politiche
permette la riduzione del disavanzo di bilancio, lasciando invariata la produzione.
Cosa succede al consumo e all’investimento? Che cosa accade al consumo dipende dalla modalità con cui
il disavanzo di bilancio è ridotto: se la riduzione prende la forma di una diminuzione della spesa pubblica, il
reddito rimane invariato, il reddito disponibile rimane invariato e così anche il consumo rimane invariato. Se
invece la riduzione prende la forma di un aumento delle imposte, allora il reddito disponibile sarà inferiore
e di conseguenza anche il consumo. Cosa accade all’investimento è chiaro: una produzione invariata e un
più basso tasso di interesse implicano un livello più alto dell’investimento.
Finora abbiamo ignorato la dinamica di aggiustamento immaginando che fosse istantaneo , ma in realtà
l’aggiustamento della produzione a variazioni della politica fiscale e della politica monetaria richiede tempo:
ai consumatori servirà tempo per aggiustare il consumo in seguito a variazioni del reddito disponibile, così
come alle imprese servirà per aggiustare l’investimento date variazioni delle vendite o del tasso d’int eresse.
In seguito ad un aumento delle imposte, ad esempio, ci vuole del tempo prima che il consumo risponda
alla riduzione del reddito disponibile e che la produzione diminuisca in seguito alla riduzione del consumo.
C APITO LO 6: IL M ODELLO IS – LM ESTESO
Il tasso di interesse nominale 𝑖 è il tasso di interesse espresso in termini di euro, o in termini della valuta
nazionale, mentre il tasso di interesse reale 𝑟 è il tasso di interesse espresso in termini di beni.
La relazione esistente tra tasso d’interesse nominale e tasso d’interesse reale ci dice che il tasso d’interesse
reale è approssimativamente uguale al tasso d’interesse nominale meno il tasso di inflazione attesa, cioè:
𝑒 è il tasso di inflazione attesa che è dato dal prezzo tra
dove 𝜋𝑡+1
un anno meno il prezzo quest’anno, diviso il prezzo quest’anno:
• quando l’inflazione attesa è nulla, il tasso di interesse nominale ed il tasso di interesse reale sono uguali.
• quando l’inflazione attesa è positiva, il tasso di interesse reale è tipicamente inferiore di quello nominale.
• per un dato tasso d’interesse nominale, maggiore è l’inflazione attesa e minore è il tasso d’interesse reale.
Finora abbiamo ipotizzato che ci fosse solo un tipo di titoli ma in realtà essi differiscono sotto due aspetti:
in ter mini di scadenza e in termini di rischiosità, cioè la probabilità che il debitore non ripaghi il suo debito.
Per assumersi questo rischio coloro che comprano titoli richiedono un premio per il rischio che dipende da:
• Probabilità di fallimento del debitore: maggiore è tale probabilità, maggiore sarà il tasso di interesse che
richiederanno coloro che comprano titoli. Chiamiamo 𝑖 il tasso di interesse su un titolo privo di rischio e
𝑖 + 𝑥 il tasso di interesse su un titolo rischioso, che è un titolo soggetto a una probabilità 𝑝 di fallimento.
Inoltre, chiamiamo 𝑥 il premio per il rischio. Il rendimento atteso di un titolo rischioso sarà quindi dato da:
L’equazione ci dice che il premio per il rischio deve essere tale da uguagliare il rendimento di un titolo
privo di rischio al rendimento atteso di un titolo rischioso. Il lato sinistro corrisponde al rendimento del
titolo privo di rischio, il lato destro al rendimento atteso del titolo rischioso . Con probabilità (1 − 𝑝) non
ci sarà fallimento del debitore e il titolo pagherà (1 + 𝑖 + 𝑥). Con una probabilità 𝑝 ci sarà fallimento del
debitore e il titolo non pagherà nulla. Riordinando i termini abbiamo che il premo per il rischio è dato da:
Quindi, per esempio, se il tasso di interesse su un titolo privo di rischio è pari al 4% e la
probabilità di fallimento al 2%, allora il premio per il rischio richiesto per rendere uguali
il rendimento atteso del titolo privo di rischio e quello del titolo rischioso è pari al 2,1%.
• Grado di avversione al rischio del creditore: essa fa sì che anche se il rendimento atteso del titolo rischioso
fosse uguale a quello del titolo privo di rischio, il rischio stesso renderebbe i creditori titubanti a detenere
il titolo. Per convincerli è necessario che il premio per il rischio aumenti ulteriormente: più i creditori sono
avversi al rischio, più il premio aumenterà anche se la probabilità di fallimento del debitore sarà la stessa.
IL RUO LO DEGLI INTERMEDIARI F INANZIARI
Finora abbiamo considerato il finanziamento diretto, caso in cui il debitore prende a prestito direttamente
dal creditore. In realtà gran parte dei prestiti avviene attraverso il finanziamento indiretto, cioè tramite gli
intermediari finanziari, ossia istituzioni finanziarie che ricevono fondi da individui o imprese e li usano per
concedere prestiti. Di tali istituzioni fanno parte le banche, ma anche le istituzioni finanziarie non bancarie.
Gli intermediari finanziari svolgono dunque una funzione molto importante e, in tempi normali, procede
tutto senza intoppi: essi prendono e danno a prestito, richiedendo un tasso di interesse sui prestiti erogati
che è leggermente superiore di quello che hanno pagato per prendere a prestito.
Molte volte però tale meccanismo si blocca, esattamente come è accaduto durante la crisi del 2008 – 2009.
Per capirlo partiamo da un bilancio molto semplificato di una banca: consideriamo una banca con un attivo
pari a 100, un passivo pari a 80 ed un patrimonio netto (chiamiamolo per semplicità «capitale») pari a 20.
Si può pensare che gli azionisti della banca abbiano investito 20 di
tasca propria, che abbiano in seguito preso a prestito altri 80 da vari
investitori e che abbiano comprato attività per un valore pari a 100.
Le passività possono essere depositi in conto corrente o prestiti da
parte di investitori e altre banche. Le attività possono essere riserve,
prestiti ai consumatori o alle imprese, mutui ipotecari, titoli di Stato.
Cominciamo con due definizioni, cioè quella di quota di capitale sugli impieghi e quella di leva finanziaria.
La quota di capitale sugli impieghi di una banca è definita come il rapporto tra il suo capitale e le sue attività
mentre la leva finanziaria di una banca è invece definita come il rapporto tra le sue attività e il suo capitale.
Nel decidere quale leva finanziaria adottare, la banca deve valutare due fattori: da un lato, una maggiore
leva finanziaria implica un più elevato tasso di profitto atteso ma dall’altro, un maggior rischio di fallimento.
Quindi aumentando la sua leva finanziaria, cioè diminuendo il capitale investito, la banca è in grado così di
aumentare i profitti attesi per unità di capitale. Però una maggior leva finanziaria implica anche un più alto
rischio che il valore delle attività diventi minore delle passività, cioè il rischio che la banca diventi insolvente.
Come sappiamo un’elevata leva finanziaria, l’illiquidità delle attività e la liquidità delle passività sono tutti
fattori di rischio per il sistema finanziario. Questi fattori furono tutti e tre presenti durante la crisi del 2008.
• Le banche erano caratterizzate da un’alta leva finanziaria. Questo accadde per diverse ragioni: in primo
luogo le banche avevano aumentato i prestiti concessi sottovalutando il rischio che stavano correndo, in
secondo luogo le banche erano incentivate a realizzare profitti molto elevati e aumentarono la loro leva
finanziaria per farlo. Quando i prezzi delle case cominciarono a diminuire il valore delle attività bancarie
precipitò e la solvibilità delle banche venne messa in discussione.
• Durante la crisi, ci fu un diffuso ricorso cartolarizzazione, ossia la creazione di attività finanziarie sulla base
di un insieme di altre attività, come ad esempio un insieme di prestiti oppure un insieme di mutui ipotecari.
Le banche che avevano emesso mutui ipotecari li avevano poi rimpacchettati creando nuovi strumenti
finanziari che avevano poi venduto ad altre banche o ad altri investitori. Il risultato fu che molte banche,
invece di avere a bilancio i mutui originari, possedevano questi strumenti così tanto complessi da rendere
impossibile una corretta valutazione del grado di rischio delle attività finanziarie.
Questo vuol dire che molte attività tenute dalle banche e altri intermediari finanziari divennero illiquide
per cui era estremamente difficile valutarne il valore e quindi venderle, se non a prezzi di svendita.
• Durante la crisi ci fu un’elevata diffusione del finanziamento all’ingrosso: le banche cominciarono infatti
sempre di più ad affidarsi ad altre banche e ad altri investitori per finanziare l’acquisto delle loro attività.
Il finanziamento all’ingrosso portava con sé un rischio, che divenne chiaro soltanto durante la crisi: queste
istituzioni finanziarie non beneficiavano di alcuna assicurazione sui loro prestiti e, non appena iniziarono
ad avere preoccupazioni sul valore delle attività detenute dalle banche, iniziarono a prelevare i loro fondi.
Le banche avevano passività liquide, molto più liquide delle loro attività e ciò come sappiamo è un rischio.
Il risultato di questa combinazione fu una crisi finanziaria: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers dichiarò la
bancarotta e da allora l’intero sistema finanziario si bloccò. Le banche smisero di prestarsi fondi l’una con
l’altra e anche di prestarli a chiunque altro. La crisi finanziaria si trasformò così in una crisi macroeconomica.
IM PLIC AZ IONI M AC ROECONOMIC HE E C ONTAGIO INTE RNAZIONALE
Gli effetti immediati della crisi finanziaria sull’economia furono due: il primo fu un rapido aumento dei tassi
di interesse a cui le imprese e gli individui potevano prendere a prestito mentre il secondo fu un crollo delle
aspettative economiche. Il peggioramento delle aspettative, l’elevato costo dei prestiti e la riduzione dei
prezzi delle case e delle azioni, portarono i consumatori americani a ridurre drasticamente i loro consumi.
La crisi finanziaria statunitense contagiò tutto il resto del mondo e in particolare l’Europa, tramite tre canali:
○ Le banche americane erano in disperato bisogno di fondi e rimpatriarono quelli che detenevano in altri
paesi creando a loro volta problemi per tali banche. Inoltre, alcune banche europee erano direttamente
esposte al mercato immobiliare statunitense in quanto avevano acquistato mutui ipotecari statunitensi.
○ Il commercio internazionale si ridusse poiché quando i consumatori e le imprese statunitensi ridussero
la spesa, parte di questa riduzione ha colpito le importazioni di beni prodotti all’estero. Dal punto di vista
dei paesi esportatori verso gli Stati Uniti, il loro export diminuì e di conseguenza anche la loro produzione.
○ L’aumento dei tassi di interesse statunitensi si rifletté anche sui tassi di interesse europei. Inoltre, il crollo
dei prezzi delle case non riguardò soltanto gli Stati Uniti ma anche la maggior parte dei paesi europei:
quando i prezzi immobiliari europei diminuirono, si manifestarono conseguenze che furono molto simili
a quelle degli Stati Uniti. Questi effetti provocarono una simultanea riduzione della produzione mondiale.
Per contrastare la crisi, i policy-maker adottarono misure di politica finanziaria, politica monetaria e fiscale.
Come vedremo però lo shock iniziale all’economia statunitense fu così grande che la combinazione di tali
politiche non fu sufficiente ad evitare una riduzione della produzione ed il PIL statunitense diminuì del 3,5%.
PO LITIC H E F INANZIARIE
Per evitare il pericolo delle corse agli sportelli l’assicurazione sui depositi venne aumentata più del doppio.
Gran parte dei finanziamenti delle banche, tuttavia, non provenivano dai depositi bensì da finanziamenti
all’ingrosso che non sono coperti da alcuna assicurazione: se questi creditori prelevano dalle banche i loro
fondi, esse sono costrette a vendere parte delle loro attività e in molti casi ciò le conduce alla bancarotta.
Per far fronte a questo problema, la Fed istituì una serie di programmi di offerta di liquidità permettendo di
prendere a prestito dalla stessa Fed: queste operazioni permisero a banche ed altri intermediari finanziari
di rimborsare i creditori senza dover svendere le proprie attività e, dato che ridussero il rischio di fallimento
di banche ed altri intermediari finanziari, ridussero anche l’incentivo dei creditori di prelevare i loro fondi.
Inoltre, il governo introdusse un programma, chiamato Tarp, con lo scopo di ripulire i bilanci delle banche:
l’obiettivo iniziale era di rimuovere complesse attività finanziarie dai bilanci bancari, rassicurando in questo
modo gli investitori e rendendo più semplice valutare lo stato di salute di ciascuna banca. In poco tempo
però divenne chiaro che valutare correttamente il valore di queste attività era molto difficile e l’obiettivo
iniziale fu abbandonato. Il nuovo obiettivo divenne quello di aumentare la capitalizzazione delle banche,
cioè di fornire fondi alle banche americane tramite l’acquisto di azioni: aumentando così la quota di capitale
sugli impieghi e diminuendo la leva finanziaria, lo scopo era permettere alle banche di evitare il fallimento.
PO LITIC A M ONETARIA
Già a partire dal 2007, la Fed aveva cominciato a preoccuparsi di un rallentamento della crescita economica
e aveva cominciato a diminuire il tasso di policy, lentamente in un primo momento e più velocemente man
mano che la crisi si manifestava. Nel dicembre 2008, il tasso di interesse era stato abbassato fino allo zero
per cui la politica monetaria si trovava già allo zero lower bound e il tasso di policy non poteva essere ridotto
ulteriormente. La Fed adottò così quella che prende il nome di politica monetaria non convenzionale che
consiste nell’acquisto di attività finanziarie al fine di influenzare direttamente il tasso su prestiti, cioè 𝑟 + 𝑥.
Quindi, possiamo pensare alla politica monetaria convenzionale come alla scelta del tasso di policy 𝑟 e alla
politica monetaria non convenzionale come all’insieme delle misure volte a ridurre il premio per il rischio 𝑥.
PO LITIC A F ISCAL E
Il governo statunitense ha attuato programma di stimolo fiscale al fine di ridurre la gravità della recessione.
Durante la crisi, il disavanzo di bilancio statunitense aumentò notevolmente: questo aumento fu in parte il
risultato meccanico della crisi poiché riduzioni della produzione produssero una riduzione delle imposte e
un aumento dei programmi di trasferimento, come i sussidi alla disoccupazione. In parte fu anche il risultato
di misure specifiche del programma di stimolo fiscale finalizzate all’aumento della spesa pubblica e privata.
IL M O DELLO IS – LM
La crisi finanziaria portò ad un significativo spostamento della curva
𝐼𝑆 verso sinistra, da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. In assenza di cambiamenti nella politica
economica, l’equilibrio si sarebbe spostato dal punto 𝐴 al punto 𝐵.
Le politiche finanziarie e fiscali produssero un ritorno parziale della
curva 𝐼𝑆 verso destra così che l’economia si spostò a 𝐼𝑆 ′′ .
La politica monetaria condusse ad uno spostamento della curva 𝐿𝑀
verso il basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′. L’equilibrio risultante a seguito di tali
cambiamenti nella politica economia è dato dal punto 𝐴′: in questo
punto, lo zero lower bound sul tasso di interesse nominale implicò
che il tasso di interesse reale non potesse diminuire ulteriormente.
Il risultato fu comunque una riduzione della produzione, da 𝑌 a 𝑌′.
Come negli Stati Uniti, anche in Europa i policy-maker risposero alla crisi finanziaria tramite misure di politica
economica. Il tipo di risposta fu però differente da quella degli Stati Uniti e, all’interno dell’Europa stessa,
le risposte di paesi appartenenti all’Eurozona furono differenti da quelle degli altri paesi non appartenenti.
PO LITIC H E F INANZIARIE
L’Europa cominciò a ripulire i bilanci delle banche molto più tardi che gli Stati Uniti. Soltanto il Regno Unito
adottò un programma simile al Tarp e cominciò a immettere nuovo capitale nelle banche già nel 2008.
In Italia le banche sono state a lungo paralizzate dai cosiddetti crediti deteriorati: la probabilità che questi
prestiti non venissero ripagati era molto elevata e le banche sono state costrette ad accantonare capitale.
Esse sono diventate «banche zombie», cioè banche che non dispongono di capitale sufficiente a concedere
prestiti: né conseguì una limitazione all’investimento da parte delle imprese ed alla crescita economica.
PO LITIC A M ONETARIA
Anche in termini di politica monetaria, le risposte avvennero con tempistiche diverse nei vari paesi europei.
Quando il tasso di policy britannico raggiunse lo zero lower bound, la Banca d’Inghilterra (così come la Fed)
adottò politiche monetarie non convenzionali. La Bce impiegò molto più tempo prima di adottare queste
politiche ma comunque essa si è spinta oltre la Fed, portando il livello del tasso di interesse al di sotto dello
zero: questo significa che ogni volta che le banche depositano riserve presso la banca centrale, invece che
riceverlo, devono pagare un interesse. La ragione di questa scelta era quella di fornire un disincentivo alle
banche a depositare riserve e, di conseguenza, un incentivo a concedere prestiti a imprese ed individui.
PO LITIC A F ISCALE
La politica fiscale era limitata dal vincolo pubblico: i paesi in cui, allo scoppio della crisi, il livello del debito
pubblico era piuttosto elevato, ebbero poco spazio per aumentarlo ulteriormente e si ritrovarono costretti
a adottare uno stimolo fiscale molto limitato. L’Italia era il paese con il maggior debito pubblico e questo
le impedì del tutto di ricorrere a misure di espansione fiscale. La Danimarca invece aveva un liv ello di debito
pubblico così basso che fu in grado di intraprendere un’espansione fiscale pari al 5% del suo PIL.
C APITO LO 7: IL M ERC ATO DEL LAVORO
✓ Popolazione in età lavorativa ⇒ il numero di individui potenzialmente disponibili per l’impiego, ottenuto
escludendo dalla popolazione totale coloro che non hanno raggiunto l’età lavorativa o sono pensionati.
✓ Forze di lavoro o individui attivi ⇒ è la somma di lavoratori occupati e lavoratori in cerca di occupazione.
✓ Fuori dalle forze di lavoro o individui inattivi ⇒ gli individui né occupati e né in cerca di un’occupazione.
✓ Tasso di partecipazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra forze di lavoro e popolazione in età lavorativa.
✓ Tasso di occupazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra lavoratori occupati e popolazione in età lavorativa.
✓ Tasso di disoccupazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra lavoratori disoccupati e le forze di lavoro.
I F LUSSI DI LAVORATORI
Il mercato del lavoro è un mercato caratterizzato da flussi di lavoratori in entrata e in uscita da occupazione,
disoccupazione e forze di lavoro. Questi flussi derivano da assunzioni quando gli individui trovano un lavoro
e da interruzioni dei rapporti di lavoro quando gli individui abbandonano un’occupazione.
Gli individui abbandonano un’occupazione tramite dimissioni oppure licenziamenti: le dimissioni riguardano
individui che abbandonano volontariamente un’occupazione, mentre i licenziamenti riguardano individui
che abbandonano un’occupazione a causa della decisione dell’impresa.
I flussi di entrata e di uscita dalla disoccupazione possono riguardare sia individui che trovano un lavoro sia
individui che smettono di cercarne uno ed escono dalle forze di lavoro: la durata della disoccupazione indica
il tempo medio prima che un disoccupato trovi un’occupazione o che smetta di cercarne una.
Un certo tasso di disoccupazione può riflettere due realtà completamente diverse: in primo luogo, si può
riferire ad un mercato del lavoro vivace, con molte interruzioni dei rapporti di lavoro ma molte assunzioni;
in secondo luogo, si può riferire ad un mercato del lavoro asfittico dove raramente nascono nuovi rapporti
di lavoro o cessano quelli preesistenti e la disoccupazione è di lungo periodo.
Il tasso d i disoccupazione sottostima la percentuale d i persone non occupate perché non tiene conto degli
individui inattivi che possono essere lavoratori scoraggiati i quali pur non essendo attivamente alla ricerca di
un lavoro, lo accetterebbero nel caso se ne presentasse l’occasione. Per questo motivo gli economisti a volte
considerano il tasso di occupazione invece del tasso di disoccupazione: più alto è il tasso di disoccupazione,
o maggiore è il numero degli individui inattivi, minore è il tasso di occupazione.
Le fluttuazioni nel tasso di disoccupazione sono fortemente associate a periodi di espansione economica
e di recessione: la disoccupazione è alta durante le recessioni e bassa durante le espansioni.
Quando l’economia è in recessione, le imprese reagiscono alla riduzione della domanda in due modi: esse
possono ridurre le assunzioni di nuovi lavoratori oppure possono licenziare i lavoratori già assunti. Di solito
le imprese preferiscono prima ridurre l’assunzione di nuovi lavoratori invece che licenziare quelli già assunti.
Quando però la riduzione della domanda è notevole, ridurre le assun zioni potrebbe non essere sufficiente
e le imprese si trovano costrette a licenziare i propri lavoratori: se l’aggiustamento avviene tramite una
riduzione delle assunzioni, la probabilità che lavoratori disoccupati trovino un’occupazione diminuisce. Se
avviene tramite maggiori licenziamenti, i lavoratori occupati sono più esposti al rischio di perdere il lavoro.
In generale, poiché le imprese agiscono in entrambi i modi, una maggiore disoccupazione è associata sia a
una minore probabilità di trovare un lavoro per un disoccupato (la durata della disoccupazione aumenta)
sia a una maggiore probabilità di perdere il lavoro per un lavoratore occupato.
In conclusione, quando la disoccupazione è elevata la situazione dei lavoratori peggiora sotto due aspetti:
• quando la disoccupazione è elevata, aumenta la percentuale di lavoratori che perde il loro posto di lavoro.
• quando la disoccupazione è alta, diminuisce la percentuale di disoccupati che trovano un’occupazione.
LA DETERM INAZIONE DEI SALARI
I salari possono essere fissati in molti modi: spesso tramite contrattazioni collettive tra imprese e sindacati,
altre volte sono fissati dai datori di lavoro o da contrattazioni bilaterali tra datori di lavoro e singoli lavoratori.
• I lavoratori percepiscono solitamente un salario superiore al loro salario di riserva, cioè il salario che rende
un lavoratore indifferente tra avere un’occupazione ed essere disoccupato.
• I salari solitamente dipendono dalle condizioni prevalenti sul mercato del lavoro, prima fra tutte il tasso
di disoccupazione: quanto più basso è il tasso di disoccupazione, tanto maggiori sono i salari e viceversa.
Per analizzare questi elementi, gli economisti hanno concentrato l’attenzione su due linee interpretative.
La prima sottolinea il fatto che, anche in assenza di contrattazioni collettive, i lavoratori hanno una certa
forza contrattuale che utilizzano per ottenere salari più elevati. La seconda invece sottolinea il fatto che le
imprese stesse, per diverse ragioni, possono voler pagare salari superiori al salario di riserva.
I prezzi fissati dalle imprese dipendono dai costi che, a loro volta, dipendono dalla funzione di produzione
cioè la relazione tra i fattori produttivi impiegati nella produzione e la quantità di prodotto ottenuta.
Per il momento, assumiamo che le imprese producano beni usando il lavoro come unico fattore produttivo:
dove 𝑌 è la produzione, 𝑁 l’occupazione e 𝐴 la produttività del lavoro. Supponiamo ora che 𝐴 sia pari a 1,
cioè che un lavoratore produca un’unità di prodotto. Con questa ipotesi la funzione di produzione diventa:
La funzione di produzione 𝑌 = 𝑁 implica che il costo marginale di produzione è uguale al salario 𝑊: il costo
di produrre un’unità aggiuntiva di prodotto deve essere uguale al costo di impiegare un lavoratore in più.
Se il mercato dei beni fosse un mercato perfettamente concorrenziale, il prezzo di un’unità di produzione
sarebbe uguale al costo marginale: di conseguenza, il prezzo 𝑃 sarebbe uguale al salario 𝑊. In realtà molti
mercati dei beni non sono concorrenziali, e le imprese applicano un prezzo maggiore del costo marginale.
Un modo semplice per definire come le imprese fissano i prezzi è rappresentato dalla seguente equazione:
dove 𝑚 è il r icarico del prezzo sul costo marginale di produzione, indicato in genere con il termine markup.
Il markup è dato dalla differenza tra il prezzo e il costo marginale di produzione, perciò, se i mercati fossero
perfettamente concorrenziali, il prezzo sarebbe uguale al costo marginale e il mark-up sarebbe pari a zero.
Poiché le imprese generalmente hanno un certo potere di mercato, ovvero la capacità di fissare un prezzo
superiore al costo marginale, il prezzo 𝑃 sarà superiore al costo marginale 𝐶 e il mark-up è positivo.
L’EQ UAZ IONE DEI SALARI
Supponiamo che i salari nominali dipendano dal livello effettivo dei prezzi 𝑃 invece che dal livello atteso 𝑃𝑒
Di conseguenza la precedente equazione che descrive la determinazione dei salari diventa: 𝑊 = 𝑃𝐹(𝑢, 𝑧)
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il livello effettivo dei prezzi 𝑃 otteniamo la seguente equazione:
Questa equazione esprime la relazione tra salario reale 𝑊/𝑃 e tasso di disoccupazione 𝑢: quanto maggiore
è il tasso di disoccupazione, tanto minore sarà il salario reale scelto da chi fissa i salari. Il motivo è che quanto
maggiore è il tasso di disoccupazione, tanto più deboli saranno i lavoratori nella contrattazione e tanto
minore sarà il salario reale che riusciranno a ottenere. La relazione tra salario reale e tasso di disoccupazione
è detta equazione dei salari e possiamo pensarla come una teoria del «salario reale richiesto» dai lavoratori.
Come abbiamo visto, l’equazione che descrive la determinazione dei prezzi era data da: 𝑃 = (1 + 𝑚)𝑊
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il salario nominale 𝑊 la precedente equazione che descrive la
determinazione dei prezzi diventa: 𝑃/𝑊 = (1 + 𝑚). Invertendo entrambi i lati dell’equazione, otteniamo:
Questa equazione esprime la relazione tra salario reale e le decisioni di prezzo e ci dice che il salario reale
fissato dalle imprese è una funzione delle decisioni di prezzo: un aumento del markup fa aumentare i prezzi
a parità di salari, facendo in questo modo diminuire il salario reale. Questo vuol dire che quanto maggiore
è il markup fissato dalle imprese, tanto minore sarà il salario reale. La relazione tra salario reale e il markup
è detta equazione dei prezzi e possiamo pensarla come una teoria del «salario reale offerto» dalle imprese.
L’EQ UILIBRIO NEL M ERCATO DEL LAVORO E IL TASSO NATURALE DI DISOCC UPAZIONE
Definire il tasso di disoccupazione come «naturale» è inadeguato: la posizione delle curve che descrivono
l’equazione dei prezzi e dei salari, e di conseguenza anche la posizione del punto di equilibrio, dipendono
sia da 𝑧 che da 𝑚. Qualsiasi fattore che provoca un aumento o una riduzione di 𝑧 fa spostare la curva 𝑊𝑆,
e qualsiasi fattore che provoca un aumento o una riduzione di 𝑚 fa spostare la curva 𝑃𝑆. Gli spostamenti
di queste curve determinano a loro volta un cambiamento del tasso naturale di disoccupazione: ecco il
motivo per il quale «naturale» non è un termine adeguato a definire il tasso di disoccupazione di equilibrio.
SPO STAM ENTI DELLA C URVA 𝑊𝑆
Un aumento dei sussidi di disoccupazione è rappresentato da un
aumento di 𝑧: poiché l’aumento dei sussidi rende meno dolorosa la
prospettiva di restare disoccupati, provoca un aumento del salario
reale richiesto dai lavoratori a parità di tasso di disoccupaz ione.
La curva che rappresenta l’equazione dei salari si sposta verso l’alto
da 𝑊𝑆 a 𝑊𝑆′. L’economia si muove lungo la retta 𝑃𝑆 e l’equilibrio
si sposta dal punto 𝐴 a 𝐴′: come possiamo notare, il tasso naturale
di disoccupazione nel nuovo equilibrio è aumentato da 𝑢 𝑛 ad 𝑢′𝑛 .
In corrispondenza di un dato tasso di disoccupazione, un aumento
dei sussidi fa aumentare il salario reale richiesto dai lavoratori: per
cui è necessario un tasso di disoccupazione più alto per riportare
il salario reale al livello che le imprese sono disposte a pagare.
Fattori come i sussidi disoccupazione e la legislazione antitrust riflettono delle caratteristiche della struttura
dell'economia. Per questo un termine più adeguato potrebbe essere tasso «strutturale» di disoccupazione.
APPENDIC E: L’EQ UAZIONE DEI PREZZ I E DEI SALARI VS LA DOMANDA E L’OF FERTA DI LAVORO
In microeconomia, l’equilibrio nel mercato del lavoro era rappresentato in termini di domanda e offerta di
lavoro. La relazione tra determinazione dei prezzi e dei salari da un lato, e tra domanda e offerta di lavoro
dall’altro è più stretta di quanto non sembri. Per capire perché rappresentiamo l’equilibrio nel mercato del
lavoro, ponendo il salario reale sull’asse verticale e il livello di occupazione (non più 𝑢) sull’asse orizzontale.
Il livello di occupazione 𝑁 è in un punto compreso tra zero e le forze
di lavoro 𝐿. La disoccupazione 𝑈 è invece pari alla distanza tra 𝐿 e 𝑁.
La curva che descrive l’equazione dei salari ha ora pendenza positiva:
se l’occupazione aumenta, la disoccupazione si riduce e a sua volta
aumenta anche il salario reale scelto nella determinazione dei salari.
La curva che descrive l’equazione dei prezzi è ancora rappresentata
da una retta orizzontale in corrispondenza del salario reale 1⁄1 + 𝑚
L’equilibrio è nel punto 𝐴, dove l’occupazione è al livello naturale 𝑁𝑛
e il tasso naturale di disoccupazione è uguale a 𝑢 𝑛 = (𝐿 − 𝑁𝑛 )/𝐿.
Possiamo notare come l’equazione dei salari assomiglia a una curva
di offerta di lavoro e l’equazione dei prezzi a una curva di domanda
di lavoro, sotto l’ipotesi di produttività del lavoro costante e pari a 1.
Esistono però anche alcune differenze tra le equazioni dei salari e dei prezzi, e domanda e offerta di lavoro.
• In primo luogo, la curva di offerta di lavoro rappresenta il salario al quale un certo numero di lavoratori
sono disposti a lavorare, mentre il salario che deriva dall’equazione dei salari è il risultato di un processo
di contrattazione tra i lavoratori e le imprese e/o delle decisioni unilaterali prese dalle imprese.
• In secondo luogo, la curva di domanda di lavoro presuppone mercati perfettamente concorrenziali nei
quali sia i prezzi che i salari sono dati. L’equazione dei prezzi, al contrario, tiene conto del fatto che in
gran parte dei mercati sono le imprese che di fatto fissano il prezzo avendo un certo potere di mercato.
• Nel modello di domanda e offerta di lavoro i disoccupati sono volontariamente disoccupati mentre nella
rappresentazione in termini di equazione dei prezzi e dei salari la disoccupazione è per lo più involontaria.
C APITO LO 8: LA C URVA DI PH ILLIPS, IL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE E L’INFLAZ IONE
Nel 1958 Phillips disegnò un grafico che metteva in relazione tasso di inflazione e tasso di disoccupazione.
Egli notò l’esistenza di una relazione negativa tra inflazione e disoccupazione: quando la disoccupazione
era bassa, l’inflazione era alta, e quando la disoccupazione era alta, l’inflazione era bassa o anche negativa.
Questa relazione, denominata curva di Phillips, può essere scritta come la
relazione tra inflazione 𝜋, inflazione attesa 𝜋 𝑒 e tasso di disoccupazione 𝑢:
Questa equazione esprime che un aumento dell’inflazione attesa 𝜋 𝑒 provoca un aumento dell’inflazione
effettiva 𝜋; un aumento del markup 𝑚 o dei fattori che influiscono sulla determinazione dei salari 𝑧 fanno
aumentare l’inflazione 𝜋, una riduzione del tasso di disoccupazione 𝑢 fa aumentare l’inflazione effettiva 𝜋.
Iniziamo con la relazione tra disoccupazione e inflazione, nella formulazione originaria scoperta da Phillips.
Ipotizziamo che l’inflazione oscilla di anno in anno intorno ad un determinato valore 𝜋̅ e che l’inflazione
non è persistente, cioè che l’inflazione di quest’anno non è buon indicatore dell’inflazione dell’anno dopo.
In questo caso, quando si fissano i salari possiamo assumere che, qualunque sia stata l’inflazione dell’anno
scorso, l’inflazione di quest’anno è semplicemente pari a 𝜋̅. Di conseguenza, 𝜋 𝑒 = 𝜋̅ e l’equazione diventa:
Dobbiamo quindi osservare una relazione negativa tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione: quando
la disoccupazione è alta, l’inflazione è bassa e a volte persino negativa; mentre, quando la disoccupazione
è bassa, l’inflazione è positiva. Sembrerebbe un trade-off tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione:
se i policy-maker avessero accettato una maggiore inflazione, avrebbero potuto ridurre la disoccupazione.
Questa equazione mette in relazione il tasso di inflazione, il tasso atteso di inflazione e la deviazione del
tasso di disoccupazione dal tasso naturale. Se la disoccupazione è al tasso naturale, l’inflazione sarà uguale
all’inflazione attesa. Se la disoccupazione è al di sotto del tasso naturale, l’inflazione sarà superiore a quella
attesa. Infine, se la disoccupazione è al di sopra del tasso naturale, l’inflazione sarà inferiore a quella attesa.
Tale equazione fornisce un modo alternativo di pensare a 𝑢 𝑛: è il tasso che mantiene costante l’inflazione.
Quando negli anni 70 l’inflazione è diventata più persistente ed è cambiato il meccanismo di formazione
delle aspettative da parte di chi fissa i salari, si è notato come la relazione tra disoccupazione e inflazione
tende a cambiare al variare del livello e della persistenza dell’inflazione.
Quando il tasso di inflazione diventa elevato, l’inflazione tende a risultare più variabile e di conseguenza i
lavoratori e le imprese sono meno intenzionati a firmare contratti di lavoro che fissano i salari nominali per
un lungo periodo di tempo: se l’inflazione risultasse più alta del previsto, i salari reali diminuirebbero per cui
i lavoratori perderebbero potere d’acquisto; se invece l’inflazione risultasse più bassa del previsto, i salari
reali aumenterebbero e le imprese potrebbero non essere più in grado di pagarli e rischierebbero di fallire.
Di conseguenza, le contrattazioni salariali cambiano anch’esse al variare dell’inflazione: in presenza di alta
inflazione i salari nominali vengono fissati per periodi di tempo più brevi (fino a un anno, un mese o meno).
L’indicizzazione dei salari è un meccanismo che adegua automaticamente i salari all’inflazione. Nel caso in
cui i contratti sono indicizzati i salari nominali sono fissati in base all’inflazione effettiva e si muovono nella
stessa direzione dei prezzi; se non sono indicizzati, i salari nominali sono fissati in base all’inflazione attesa.
Il meccanismo dell’indicizzazione dei salari aumenta l’effetto della disoccupazione sull’inflazione: quanto
maggiore è la proporzione di contratti indicizzati, tanto maggiore è l’effetto del tasso di disoccupazione
sulla variazione dell’inflazione. Questo perché, senza indicizzazione salariale, una minore disoccupazione
fa aumentare i salari, determinando a sua volta un aumento dei prezzi; ma poiché i salari non rispondono
direttamente al cambiamento dei prezzi, nel corso nell’anno non si verifica un ulteriore aumento dei prezzi.
In presenza di indicizzazione salariale, invece, un aumento dei prezzi porta ad un ulteriore aumento dei
salari nel corso dell’anno, che a sua volta provoca un ulteriore aumento dei prezzi e così via: possiamo dire
dunque che in presenza di indicizzazione salariale, l’effetto della disoccupazione sull’inflazione è maggiore.
Se l’inflazione è molto bassa o c’è una deflazione, in presenza di un’alta disoccupazione ci aspetteremo
una forte deflazione. Durante la Grande Depressione, tuttavia, un’alta disoccupazione fu accompagnata
soltanto da una deflazione abbastanza limitata. Il motivo è che, in presenza di deflazione, la curva di Phillips
non vale più (o vale meno), in quanto sono pochi i lavoratori disposti ad accettare salari nominali più bassi.
C APITO LO 9: IL M ODELLO IS – LM – PC
Dall’equilibrio sul mercato del lavoro abbiamo derivato l’equazione che descrive la relazione tra inflazione
e disoccupazione, detta curva di Phillips ⇒ 𝜋 − 𝜋 𝑒 = −𝛼(𝑢 − 𝑢 𝑛 ): quando il tasso di disoccupazione è al
di sotto del tasso naturale, l’inflazione è maggiore di quella attesa; quando invece è esso al sopra del tasso
naturale, l’inflazione è inferiore a quella attesa. Dato che la relazione 𝐼𝑆 è espressa in termini di produzione
bisogna scrivere la curva di Phillips in termini di inflazione e produzione, non di disoccupazione e inflazione.
Consideriamo innanzitutto la relazione tra tasso di disoccupazione e occupazione: la definizione di tasso di
disoccupazione dice che è dato dal rapporto tra numero di disoccupati e dimensione delle forze di lavoro:
Le tre le variabili sul lato destro sono costanti in stato stazionario; questo implica che la parte sinistra, cioè
l’offerta reale di moneta, deve essere anch’essa costante. Questo, a sua volta, implica che 𝜋 = 𝑔𝑀: questa
uguaglianza dice che il livello dei prezzi 𝑃 deve crescere allo stesso tasso di crescita della moneta, cioè 𝑔𝑀 .
Di conseguenza, nel medio periodo, il tasso di interesse nominale è uguale al tasso d’interesse naturale più
il tasso di crescita della moneta: poiché 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝜋̅, che 𝜋 = 𝑔𝑀 e che 𝜋 = 𝜋̅ allora otteniamo: 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝑔𝑀.
Dunque, nel medio periodo le variabili reali non dipendono dalla politica monetaria: neutralità della moneta.
Le sole variabili che la politica monetaria determina sono il tasso di inflazione e il tasso di interesse nominale.
C O M PLICAZ IONI
L’aggiustamento all’equilibrio di medio periodo è però più complicato di quanto sembra in quanto la banca
centrale non può aumentare subito il tasso reale da 𝑟 a 𝑟𝑛 e riportare l’inflazione a 𝜋 e la produzione a 𝑌𝑛.
In primo luogo, è difficile che la banca centrale conosca esattamente il livello di 𝑌𝑛 e quanto l’economia sia
lontana da quel livello: questo perché essa non può stimare con precisione le dimensioni dell’output gap.
Quindi, la banca centrale potrebbe regolare il tasso di interesse reale lentamente e vedere cosa succede.
In secondo luogo, ci vuole tempo perché l’economia risponda alla politica fiscale in quanto l ’aggiustamento
degli investimenti, dei consumi e del reddito non è immediato. Quindi, anche se la banca centrale agisce
rapidamente aumentando il tasso reale, ci vuole tempo perché l’economia torni alla produzione potenziale.
LO Z ERO LOWER BOUND E LE SPIRALI DEFLAZIONISTICHE
Supponiamo che l’equilibrio iniziale sia nel punto 𝐴, sia nel riquadro
superiore che in quello inferiore: la produzione è al livello potenziale
𝑌𝑛, il tasso di interesse è al tasso naturale 𝑟𝑛 e l’inflazione è stabile.
Supponiamo che il governo decida di aumentare le imposte: questo
aumento fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso sinistra, da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. Dato che
si tratta di un cambiamento nella politica fiscale, la banca centrale
non modifica il tasso d’interesse per cui la curva 𝐿𝑀 resta invariata.
Dunque, l’economia si muove lungo la 𝐿𝑀 per raggiungere il nuovo
equilibrio di breve periodo, che si trova nel punto 𝐴′: in tale punto la
produzione diminuisce da 𝑌𝑛 a 𝑌′ e anche l’inflazione diminuisce.
Nel breve periodo, un aumento delle imposte fa diminuire il reddito
disponibile, che a sua volta fa diminuire il consumo. Di conseguenza,
anche la produzione diminuisce e con essa l’investimento si riduce.
Nel medio periodo, la banca centrale interverrà riducendo il tasso
reale da 𝑟𝑛 a𝑟′𝑛 per riportare la produzione al suo livello potenziale.
L’equilibrio di medio periodo è dato dal punto 𝐴′′: in questo punto,
la produzione è tornata ad 𝑌𝑛 e l’inflazione è nuovamente stabile.
Nel medio periodo la composizione della produzione è cambiata:
dato che il reddito è lo stesso di prima, ma le imposte sono più alte,
il consumo sarà minore; ma dato che la produzione è tornata a 𝑌𝑛 e
il tasso reale è minore, nel medio periodo l’investimento è maggiore.
Dunque, nel medio periodo la riduzione del consumo è controbilanciata da un aumento dell’investimento,
in modo che la domanda rimanga invariata. In conclusione, possiamo dire che: sebbene nel breve periodo
il consolidamento fiscale fa diminuire l’investimento, nel medio periodo esso fa aumentare l’investimento.
GLI EF F ETTI DI UN AUMENTO DEL PREZZ O DEL PETROLIO
Finora abbiamo analizzato shock della domanda, cioè shock che producono uno spostamento della 𝐼𝑆, ma
che lasciano invariata la produzione potenziale e, dunque, la posizione della curva 𝑃𝐶. Esistono, tuttavia,
altri tipi di shock che producono un effetto sia sulla domanda che sul livello potenziale della produzione e
producono uno spostamento sia della curva 𝐼𝑆 che della curva 𝑃𝐶. I cambiamenti nel prezzo del petrolio
sono un esempio di tali shock: supponiamo, ad esempio, che il prezzo del petrolio in termini reali aumenti.
Il prezzo del petrolio non è una variabile direttamente contenuta nel modello 𝐼𝑆 – 𝐿𝑀 – 𝑃𝐶, tuttavia, si può
ragionare sugli effetti che tale aumento può provocare: un aumento del prezzo del petrolio fa aumentare
i costi di produzione, spingendo le imprese a aumentare i prezzi per mantenere lo stesso tasso di profitto.
Per mantenere il medesimo tasso di profitto, le imprese potrebbero per esempio aumentare 𝑚, il markup.
L’AUM ENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO E EF FETTI SUL TASSO NATURALE DI DISOCC UPAZIONE
La figura mostra l’equilibrio nel mercato del lavoro: l’equilibrio iniziale
è dato dal punto 𝐴 con un tasso di disoccupazione pari a 𝑢 𝑛. La curva
𝑊𝑆 che descrive l’equazione dei salari ha una pendenza negativa in
quanto un tasso di disoccupazione più alto fa diminuire il salario reale.
La curva che descrive l’equazione dei prezzi è una retta orizzontale
𝑃𝑆 in corrispondenza del salario reale 1/1 + 𝑚 scelto dalle imprese.
Un aumento del markup provoca una diminuzione del salario reale
offerto dalle imprese e la curva 𝑃𝑆 si sposta verso il basso, fino a 𝑃𝑆′.
L’equilibrio si sposta da 𝐴 a 𝐴′: nel nuovo equilibrio, il tasso naturale
di disoccupazione è aumentato ad 𝑢′𝑛 ed il salario reale è diminuito.
Dato il prezzo del petrolio maggiore, il salario che le imprese possono
permettersi di pagare è minore: convincere i lavoratori ad accettare
un salario reale più basso richiede un aumento della disoccupazione.
L’AUM ENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO E G LI EFF ETTI DI BREVE PERIODO E DI M EDIO PERIODO
Supponiamo che l’equilibrio iniziale si trova nel punto 𝐴, in entrambi i
riquadri, che la produzione sia al livello potenziale 𝑌𝑛, che l’inflazione
sia stabile e che il tasso d’interesse sia al tasso naturale, cioè pari a 𝑟𝑛 .
L’aumento del tasso naturale di disoccupazione conduce, a sua volta,
a una diminuzione del livello naturale di occupazione. Se assumiamo
ancora una volta che 𝑌 = 𝑁, allora la riduzione del tasso naturale di
occupazione porta a una pari riduzione della produzione potenziale.
Dunque, un aumento del prezzo del petrolio, porta ad una riduzione
della produzione potenziale, da 𝑌𝑛 a 𝑌′ 𝑛 : la 𝑃𝐶 si sposta da 𝑃𝐶 a 𝑃𝐶′.
Se la 𝐼𝑆 e la 𝐿𝑀 non si spostano, la produzione non cambia però lo
stesso livello di produzione è associato a un tasso d’inflazione più alto.
Dunque, nel breve periodo, l’equilibrio è dato dal punto 𝐴′: nel breve
periodo il livello di produzione non varia, ma l’inflazione è maggiore.
La banca centrale si troverà costretta ad aumentare il tasso di policy
per contrastare l’aumento dell’inflazione: la 𝐿𝑀 si sposta verso l’alto.
L’economia si sposta lungo la 𝐼𝑆 e la 𝑃𝐶 fino ad arrivare al punto 𝐴′′
cioè l’equilibrio di medio periodo: nel medio periodo, l’aumento del
prezzo del petrolio provoca una riduzione del livello della produzione.
Nel medio periodo si osserva dunque una stagflazione, in cui «stag»
sta per stagnazione, mentre «flazione» sta per inflazione: un aumento
dell’inflazione che è accompagnato da un riduzione della produzione.
GLI EF F ETTI DEL DISTANZIAMENTO SOC IALE DURANTE IL G R EAT LOCKDOWN
Ci possono essere altri shock che influenzano sia la domanda che la produzione potenziale, causati però da
ragioni indipendenti dall’economia: un esempio il Great Lockdown, dovuto alle misure di distanziamento
sociale adottate in tutto il mondo nel 2020 per cercare di impedire che il Covid si diffondesse ulteriormente.
Per permettere il distanziamento, la maggior parte delle imprese ha dovuto fermare la propria produzione.
La ragione per cui ci si preoccupa della crescita è da ricondurre al nostro interesse per la qualità della vita.
Osservando anni diversi, ci interessa sapere quanto è amentata la qualità della vita nel tempo; osservando
paesi diversi ci interessa sapere quanto è migliore la qualità della vita in un paese rispetto ad un altro paese.
La variabile su cui ci concentriamo è il prodotto pro capite, cioè il PIL di un paese diviso il numero di abitanti.
Per confrontare il prodotto pro capite tra paesi diversi bisogna considerare che paesi diversi usano valute
differenti, e la produzione in ogni paese è espressa in termini della propria valuta nazionale. Una soluzione
potrebbe essere quella di utilizzare i tassi di cambio; tuttavia, questa soluzione non funziona per due motivi:
in primo luogo, i tassi di cambio possono variare molto anche in brevi periodo di tempo; in secondo luogo,
ci possono essere differenze sistematiche dei prezzi tra paesi, per cui quanto minore è il livello del prodotto
pro capite in un paese, tanto minori saranno i prezzi dei beni alimentare e dei servizi essenziali in quel paese.
Di conseguenza, quando vogliamo confrontare la qualità della vita in paesi diversi dobbiamo tener conto
sia della fluttuazioni del tasso di cambio, sia delle differenze sistematiche dei prezzi tra paesi: nel misurare
il PIL pro capite si deve usare un insieme di rezzi comune per tutti i paesi (parità dei poteri d’acquisto, PPP).
Possiamo concludere facendo tre osservazioni:
• ciò che conta per il benessere delle persone è il loro livello di consumo e non il loro reddito: è preferibile
dunque utilizzare il consumo pro capite al posto del prodotto pro capite per misurare la qualità della vita.
Poiché il rapporto tra consumo e reddito è abbastanza simile tra paesi, la graduatoria dei paesi è la stessa
sia che si usi il consumo pro capite che il prodotto pro capite per misurare la qualità della vita di un paese.
• dal lato della produzione, la misura appropriata è il prodotto per lavoratore o prodotto per ora lavorativa.
Il prodotto pro capite e il prodotto per lavoratore (o per ora lavorativa) sono diversi in base al rapporto
tra la popolazione in età lavorativa e la popolazione totale, al tasso di occupazione e agli orari lavorativi.
• la ragione per cui siamo interessati alla qualità della vita è che ciò che conta è la felicità degli individui: la
domanda che ci poniamo è dunque se un più alto reddito pro capite sia associato a una maggior felicità.
Considerando la crescita del prodotto pro capite di cinque paesi avanzati (la Francia, il Giappone, l’Italia, il
Regno Unito e gli Stati Uniti) a partire dal 1950 fino ad oggi, emergono due fatti principali. In primo luogo,
tutti i paesi hanno registrato una forte aumento del prodotto pro capite nel corso del tempo: ciò riflette la
cosiddetta forza della capitalizzazione, che consiste nell’accumulare interessi per aumentare la ricchezza.
In secondo luogo, si è verificata una convergenza dei livelli di prodotto pro capite nel corso del tempo. Ciò
significa che i paesi ritardatari sono cresciuti più rapidamente, riducendo così il divario tra loro e la maggiore
potenza economica mondiale, gli Stati Uniti. I valori del prodotto pro capite tra i vari paesi sono molto più
simili tra loro nel 2017 di quanto non lo fossero nel 1950: nonostante il prodotto pro capite statunitense è
ancora oggi più elevato, la differenza con quello degli altri paesi è molto inferiore rispetto a quella del 1950.
Consideriamo ora la crescita su un arco di tempo molto più lungo e per un gruppo di paesi molto più ampio.
Dalla fine dell’impero romano al 1500, in Europa si è registrata una crescita del prodotto pro capite quasi
nulla: gran parte dei lavoratori era impiegata nell’agricoltura, dove il progresso tecnologico è stato scarso.
Nonostante ci sia stata una modesta crescita della produzione, tale crescita è stata accompagnata da un
aumento quasi proporzionale della popolazione e portando a un prodotto pro capite più o meno costante.
Questo periodo è detto era malthusiana: secondo Malthus, ogni aumento della produzione fa diminuire la
mortalità, e quindi provoca un aumento della popolazione finché il prodotto pro capite non torna al livello
iniziale. L’Europa si trovava in una trappola malthusiana, incapace di aumentare il suo prodotto pro capite.
Dal 1500 al 1700 la crescita del prodotto pro capite è diventata positiva, ma comunque scarsa e pari circa
allo 0,1% annuo, ed è aumentata allo 0,2% dal 1700 al 1820. Dalla rivoluzione industriale, i tassi di crescita
sono aumentati fino a circa l’1,5% annuo e tassi di crescita più alti sono stati osservati soltanto dopo il 1950.
La convergenza dei livelli di prodotto pro capite non è un fenomeno esteso a tutti i paesi. La convergenza
è evidente per i paesi Ocse e per molti paesi asiatici. Il Giappone è il primo paese asiatico in cui è iniziata la
crescita e oggi registra il più alto livello di reddito pro capite nel continente. Dal 1960, le cosiddette quattro
tigri asiatiche (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) hanno cominciato a crescere rapidamente.
Più recentemente, l’esperienza più importante è quella della Cina, sia per gli elevatissimi tassi di crescita
che per le dimensioni, anche se il suo prodotto pro capite è ancora solo 1/4 circa di quello degli Stati Uniti.
Riguardo ai paesi africani, invece, nel 1960 gran parte di essi era molto povera e questo ha portato a fasi di
crescita negativa del prodotto pro capite; solo dagli anni duemila la crescita è tornata lentamente positiva.
Questa è la forma intensiva della funzione di produzione: 𝑌/𝑁 è il prodotto per lavoratore, 𝐾/𝑁 è il capitale
per lavoratore: la quantità di produzione per lavoratore dipende dalla quantità di capitale per lavoratore.
Nel grafico, il prodotto per lavoratore è misurato sull’asse verticale,
mentre il capitale per lavoratore è misurato sull’asse orizzontale.
La relazione tra i due è data da una curva crescente: se aumenta il
capitale per lavoratore, aumenta anche il prodotto per lavoratore.
Per la proprietà dei rendimenti decrescenti del capitale, la curva è
disegnata in modo che ulteriori aumenti di capitale per lavoratore
provocano aumenti sempre più piccoli del prodotto per lavoratore:
nel punto 𝐴, dove il capitale per lavoratore è basso, un aumento
del capitale per lavoratore 𝐴𝐵 provoca un aumento del prodotto
per lavoratore 𝐴′𝐵′. Nel punto 𝐶, dove il capitale per lavoratore è
maggiore, lo stesso aumento di capitale per lavoratore 𝐶𝐷 = 𝐴𝐵
genera un minore aumento di prodotto per lavoratore, pari a 𝐶′𝐷′.
LE F O NTI DELLA C RESCITA: L’AC CUM ULAZIO NE DI C APITALE E D IL PROGRESSO TEC NOLOGICO
Dunque, le fonti della crescita sono costituite dall’accumulazione di capitale e dal progresso tecnologico,
cioè dal miglioramento della tecnologia, però i due fattori hanno ruoli molto diversi nel processo di crescita.
L’accumulazione di capitale da sola non può sostenere la crescita: a causa dei rendimenti decrescenti del
capitale, sostenere un aumento costante del prodotto per lavoratori richiede aumenti sempre maggiori del
livello di capitale per lavoratore: l’economia però, ad un certo punto, non sarà più disposta a risparmiare
abbastanza per aumentare il capitale. Dunque, un maggior tasso di risparmio, non può sostenere in modo
permanente un maggior tasso di crescita della produzione, ma soltanto un maggior livello di produzione.
Poiché i due fattori che possono portare a un aumento della produzione sono l’accumulazione di capitale
e il progresso tecnologico, se l’accumulazione di capitale non può sostenere la crescita per sempre, allora
la crescita deve necessariamente derivare dal progresso tecnologico: questo significa dunque che nel lungo
periodo, un’economia con un elevato tasso di progresso tecnologico finirà per superare le altre economie.
Il tasso di progresso tecnologico dipende dallo stato della tecnologia, ovvero dall’insieme dei progetti che
definiscono sia la gamma di prodotti che possono essere prodotti nell’economia, sia le tecniche disponibili.
C APITO LO 11 : RISPARMIO, AC CUMULAZ IONE DI C APITALE E PRODUZIONE
Nel lungo periodo, l’andamento della produzione è determinato da due relazioni tra produzione e capitale:
1) l’ammontare del capitale per lavoratore determina l’ammontare possibile di produzione per lavoratore.
2) l’accumulazione di capitale dipende dal livello di produzione, che determina il risparmio e l’investimento.
Nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti, la relazione tra produzione e capitale per lavoratore è data da:
il prodotto per lavoratore (𝑌/𝑁) è funzione crescente del capitale per lavoratore (𝐾/𝑁).
Sotto l’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale, l’effetto di un aumento del capitale
per lavoratore sulla produzione è sempre più piccolo all’aumentare del suo livello iniziale.
Per semplificare l’equazione, la relazione tra produzione e capitale si può scrivere come: 𝑌/𝑁 = 𝑓(𝐾/𝑁).
Per determinare la prima relazione tra produzione e capitale per lavoratore, facciamo due ulteriori ipotesi:
• la prima è che dimensione della popolazione, tasso di partecipazione e di disoccupazione sono costanti.
Di conseguenza il numero di lavoratori 𝑁 è costante e l’unico fattore di produzione che varia è il capitale.
• la seconda è che non c’è progresso tecnologico, così che la funzione di produzione 𝑓 non varia nel tempo.
Con queste due ipotesi, possiamo scrivere la prima relazione tra produzione e capitale per lavoratore come:
dove abbiamo introdotto gli indici temporali per la produzione e per il capitale, ma non
per il lavoro 𝑁 che per ipotesi è costante e perciò non varia nel tempo. L’equazione ci
dice che un maggior capitale per lavoratore porta a un maggior prodotto per lavoratore.
Per determinare la seconda relazione tra produzione e capitale per lavoratore procediamo in due fasi: prima
ricaviamo la relazione tra produzione e investimento, e dopo tra investimento e accumulazione di capitale.
I governi possono usare vari strumenti per influenzare il tasso di risparmio: possono modificare il risparmio
pubblico o usare le imposte per influenzare quello provato. Qual è il tasso a cui dovrebbe ambire il governo?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo concentrarci sul comportamento del consumo e non della
produzione in quanto gli individui non sono interessati alla produzione, bensì al proprio livello di consumo.
Un aumento del risparmio è inizialmente associato auna riduzione del consumo per lavoratore del la stessa
misura ma bisogna considerare che il consumo può ridursi non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
Consideriamo due casi: se il tasso di risparmio è nullo, il capitale, la produzione e il consumo per lavoratore
sono nulli per cui in tale caso un tasso di risparmio uguale a 0 implica un consumo nullo nel lungo periodo;
se il tasso di risparmio è pari a 1 gli individui risparmiamo tutto il loro reddito, per cui il livello del capitale e
della produzione è molto alto però il consumo è comunque nullo dato che viene risparmiato tutto il reddito.
Questi due casi estremi indicano che esiste un valore del tasso di risparmio
compreso tra 0 e 1 (livello di capitale nella regola aurea) in corrispondenza
del quale il livello di consumo di stato stazionario è massimo: aumenti del
tasso di risparmio al di sotto di questo valore riducono il consumo solo nel
breve periodo; aumenti al di sopra lo riducono anche nel lungo periodo.
Nel grafico, un aumento del tasso di risparmio al di sotto di 𝑠𝐺 , porta ad un
maggiore livello del capitale, del prodotto e del consumo per lavoratore.
Un aumento del tasso di risparmio al di sopra di 𝑠𝐺 , fa aumentare il livello
del capitale e della produzione, ma fa diminuire il consumo per lavoratore.
C APITALE F ISIC O E C APITALE UMANO A C ONFRONTO
Il capitale fisico, ossia l’insieme di macchinari, di impianti, di uffici ecc. non è l’unico tipo di capitale presente
nelle economie. Infatti, esiste anche un altro tipo di capitale: il capitale umano che è l’insieme delle abilità
dei lavoratori di un’economia. Un’economia in cui sono presenti molti lavoratori altamente qualificati sarà
probabilmente più produttiva di un’economia in cui gran parte dei lavoratori non sa né leggere né scrivere.
Bisogna adesso considerare quali sono gli effetti che il capitale umano ha sulla produzione e bisogna anche
comprendere in che modo variano le nostre conclusioni precedenti con l’introduzione del capitale umano.
Il livello di prodotto per lavoratore dipende adesso sia dal livello del capitale fisico per lavoratore 𝐾/𝑁 sia
dal livello del capitale umano per lavoratore 𝐻/𝑁. Come già sappiamo, un aumento del capitale fisico per
lavoratore genera un aumento del prodotto per lavoratore. Questo vale anche per il capitale umano per
lavoratore: un aumento del capitale umano per lavoratore genera un aumento del prodotto per lavoratore.
In precedenza, abbiamo ipotizzato che gli aumenti del capitale fisico facessero aumentare il prodotto per
lavoratore ma che, per i redimenti decrescenti del capitale, l’effetto fosse tanto minore quanto maggiore
era il livello di capitale fisico per lavoratore. La medesima ipotesi si applica al capitale umano per lavoratore.
Come sappiamo, l’accumulazione di capitale non può da sola sostenere la crescita in quanto una crescita
sostenuta richiede progresso tecnologico. Per comprendere come cresce la produzione in un’economia in
cui ci sono sia accumulazione di capitale sia progresso tecnologico ridefiniamo la funzione di produzione.
Il progresso tecnologico può manifestarsi in diversi modi: può generare una maggiore produzione a parità
di capitale e di lavoro, può consentire di realizzare prodotti migliori, può portare alla realizzazione di nuovi
prodotti e infine può ampliare la gamma dei prodotti disponibili. Per semplificare la nostra analisi, possiamo
considerare il progresso come un fattore che aumenta la produzione a parità di fattori produttivi impiegati.
Il progresso tecnologico dipende dallo stato della tecnologia 𝐴 e dunque la funzione di produzione diventa
𝑌 = 𝐹(𝐾,𝑁, 𝐴). La produzione dipende ora sia dal capitale 𝐾 e lavoro 𝑁 sia dallo stato della tecnologia 𝐴:
a parità di capitale e di lavoro, un miglioramento della tecnologia provoca un incremento della produzione.
Per semplificare l’analisi, possiamo usare una forma leggermente più compatta dell’equazione precedente:
dove 𝐴𝑁 è la quantità di lavoro effettivo o lavoro in unità di efficienza, cioè il numero
di lavoratori impiegati in un’economia 𝑁 moltiplicato per lo stato della tecnologia 𝐴.
Questa equazione ci dice che la produzione dipende dal capitale 𝐾 e dal lavoro effettivo 𝐴𝑁, i quali hanno
entrambi rendimenti decrescenti: a parità di lavoro effettivo, un aumento del capitale provoca un aumento
della produzione, ma a un tasso decrescente; a parità di capitale, un aumento del lavoro effettivo provoca
un aumento della produzione, ma a un tasso decrescente. Nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti, per
un dato stato della tecnologia 𝐴, se si raddoppia sia la quantità di capitale 𝐾 che quella di lavoro 𝑁, anche
la produzione raddoppia: 2𝑌 = 𝐹(2𝐾, 2𝐴𝑁). In generale, per ogni numero 𝑥 abbiamo: 𝑥𝑌 = 𝐹(𝑥𝐾, 𝑥𝐴𝑁).
In questo caso, invece di ragionare in termini di prodotto e capitale per lavoratore, dobbiamo ragionare in
termini di prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo. Per farlo poniamo 𝑥 uguale a 1/𝐴𝑁 e otteniamo:
Se definiamo una funzione 𝑓 tale per cui 𝑓(𝐾/𝐴𝑁) = 𝐹(𝐾/𝐴𝑁,1) l’equazione diventa 𝑌/𝐴𝑁 = 𝑓(𝐾/𝐴𝑁):
questa equazione ci dice che 𝑌/𝐴𝑁 è una funzione crescente di 𝐾/𝐴𝑁.
Il grafico rappresenta tale relazione tra prodotto e capitale per unità di
lavoro effettivo: 𝐾/𝐴𝑁 è misurato sull’asse orizzontale, mentre 𝑌/𝐴𝑁
sull’asse verticale. La relazione tra i due è data da una curva crescente.
La relazione tra prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo è molto
simile alla relazione tra prodotto e capitale per lavoratore in assenza di
progresso tecnologico: in quel caso, un aumento di 𝐾/𝑁 provocava un
aumento di 𝑌/𝑁, ma a un tasso decrescente; in questo caso invece un
incremento di 𝐾/𝐴𝑁 fa aumentare 𝑌/𝐴𝑁, ma a un tasso decrescente.
C’è una strana tensione tra la percezione del progresso tecnologico e i dati sulla crescita della produttività.
Si tratta del paradosso della produttività: il cambiamento tecnologico appare molto intenso ma ciò non si
riflette in una maggiore crescita della produttività, in quanto i tassi di crescita della produttività sono bassi.
Una possibile risposta a tale paradosso è la presenza di errori di misurazione, nel senso che la crescita della
produttività potrebbe essere sottovalutata e dunque il tasso di crescita reale potrebbe essere più elevato.
Gli errori di misurazione ci sono, in quanto è difficile misurare il progresso tecnologico, ma non sembra che
questi errori siano in grado da soli di spiegare il paradosso. Questo paradosso è oggetto di forte dibattito.
Ci sono alcuni che sostengono che le grandi innovazioni di oggi sono meno radicali delle grandi innovazioni
del passato: quelle radicali sono innovazioni che hanno applicazione in molti campi e in molti prodotti e per
questo sono dette tecnologie di uso generale. Le innovazioni radicali più importanti sono state l’elettricità
e il motore a combustione interna, le quali hanno trasformato i metodi di produzione e la vita in generale:
l’elettricità ha portato all’uso dell’aria condizionata e ha consentito di produrre frigoriferi, permettendo la
conservazione del cibo in tempi molto più lunghi e cambiando il suo sistema di produzione e distribuzione;
il motore a combustione interna, invece, ha portato all’automobile avviando la costruzione di autostrade e
favorendo lo sviluppo delle città. Questa corrente di pensiero sostiene che le innovazioni dei nostri giorni,
cioè in primis la digitalizzazione, non produrranno neanche lontanamente conseguenze di simile portata.
Ci sono altri che sostengono, invece, che la digitalizzazione avrà un impatto simile o addirittura maggiore
dell’elettricità e del motore a combustione, però che la bassa crescita riflette il fatto che tale impatto non
appare ancora nei dati sulla produttività a causa di ritardi nel processo di diffusione delle innovazioni digitali.
I RO BO T E IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Fin dall’inizio della rivoluzione industriale i lavoratori hanno iniziato a temere che il progresso tecnologico
avrebbe eliminato i posti di lavoro e aumentato la disoccupazione. Il tema della disoccupazione tecnologica
riemerge solitamente quando la disoccupazione è elevata. Durante la Grande Depressione, ad esempio, un
movimento chiamato tecnocratico sosteneva che l’elevata disoccupazione derivava dall’introduzione delle
macchine e che le cose sarebbero andate solo a peggiorare se il progresso tecnologico fosse continuato.
Nella sua forma più grossolana, l’argomento secondo cui il progresso tecnologico debba per forza causare
un aumento della disoccupazione è falso e smentito dai dati, infatti, i miglioramenti del tenore di vita di cui
godono i paesi avanzati, sono stati accompagnati da aumenti dell’occupazione e non della disoccupazione.
Ci sono però versioni più sofisticate riguardo la disoccupazione tecnologica da tenere in considerazione.
In primo luogo, ci si potrebbe aspettare che, dato che l’aumento della produttività porta alcune aziende a
ridurre l’occupazione, ci vorrà del tempo prima che nuovi posti di lavoro sostituiscono quelli che vengono
distrutti portando ad un aumento della disoccupazione per un certo periodo di tempo se non per sempre.
L’evidenza però suggerisce che non è così: periodi di alta crescita della produttività sono stati associati a
un tasso di disoccupazione minore, viceversa periodi di bassa crescita a un tasso di disoccupazione più alto.
I r obot, tuttavia, sembrano essere abbastanza minacciosi in quanto potrebbero sostituire i lavoratori meno
qualificati e nel tempo anche quelli con competenze più elevate. Uno studio del MIT, esaminando l’effetto
dei robot sull’occupazione nei mercati del lavoro, conferma che i robot distruggono effettivamente posti
di lavoro. Ma al tempo stesso la riduzione dei costi permette alle aziende che utilizzano i robot di vendere
i loro prodotti a prezzi più bassi, aumentando le vendite e la produzione. Tra i due effetti la sostituzione dei
robot con i lavoratori è il risultato dominante, il quale porta ad una riduzione del numero dei posti di lavoro.
Bisogna dunque chiedersi se ciò non sia compensato dalla creazione di posti di lavoro in altre imprese: ad
esempio, se le imprese che usano i robot producono a prezzi più bassi, altre imprese vedranno ridurre i loro
costi di produzione e probabilmente aumenteranno l’occupazione, ma ciò è comunque difficile da valutare.
Inoltre, i salari ottenuti nell’eventuale nuovo posto di lavoro potrebbero essere minori di quelli precedenti.
PRO G RESSO TECNOLOGICO, «RIMESCOLAMENTO» E DISEGUAG LIANZA
I robot sono una forma di progresso tecnologico, che fondamentalmente è un processo di cambiamento
strutturale che ha profonde implicazioni per ciò che accade nei mercati del lavoro.
Schumpeter sosteneva che il processo di crescita economica era un processo di distruzione creatrice: sono
sviluppati nuovi beni che rendono altri beni obsoleti e sono introdotte nuove tecniche di produzione che
richiedono nuove abilità che rendono le altre abilità meno utili. Questo processo di rimescolamento si nota
profondamente in numerose professioni, dai fabbri ai sellai, che sono scomparse per sempre. Per esempio,
nel 1900 c’erano più di 11 milioni di contadini negli Stati Uniti e attualmente ce ne sono meno di 1 milione.
Esistono però professioni nuove, come ad esempio gli autisti e gli informatici, che nel 1900 non esistevano.
DISUG UAGLIANZA E IL TO P 1 %
Oltre alla disuguaglianza nei salari, bisogna considerare anche la disuguaglianza nei redditi, la quale è data
dalla percentuale di reddito che confluisce nelle tasche degli individui più ricchi, come ad esempio il top 1%.
I salari non costituiscono una valida misurazione quando consideriamo la disuguaglianza nei redditi a livelli
particolarmente elevati di reddito in quanto gli imprenditori ottengono elevate percentuali del loro reddito
(se non la totalità) non dai salari, bensì dal reddito proveniente dal capitale o dalle plusvalenze finanziarie.
Questo accade perché generalmente tali imprenditori non sono remunerati attraverso il salario, ma tramite
azioni societarie che possono vendere per ottenere della plusvalenze. Il top 1% si divide principalmente in
due gruppi: un gruppo è quello degli eredi, che vivono per lo più del reddito del cap itale ereditario, mentre
un altro gruppo è quello di imprenditori di successo, fondatori di aziende tipo Amazon, Facebook o Google.
Il principale fattore che ha determinato la ricchezza di questi individui è dato dalla tecnologia, che permette
a imprese come Amazon e Facebook di avere rendimenti di scala crescenti: i loro costi sono in gran parte
fissi e non dipendono dal numero di utenti per cui, più alto è il numero di utenti, minore è il costo per utente.
Il risultato è l’emergere di aziende molto grandi con un numero di clienti molto alto e dunque elevati profitti.
Questo permette ai fondatori e ai top manager di ottenere un reddito molto alto ed una grande ricchezza.
C RESC ITA E DISUGUGLIANZ A
Dobbiamo ora chiederci se un paese può sostenere la crescita senza avere disuguaglianze sempre più alte.
Ci sono due ragioni per cui non si deve per forza aumentare la disuguaglianza al fine di sostenere la crescita.
La prima è che le disuguaglianze salariali e la quota dell’1% più ricco sono aumentate in gran parte dei paesi,
ma molto meno che negli Stati Uniti, ovvero il paese in cui è aumentata maggiormente la disuguaglianza.
La seconda è che bisogna distinguere tra disuguaglianza del reddito imponibile, cioè al lo rdo delle imposte
e dei trasferimenti, e disuguaglianza del reddito disponibile, cioè al netto delle imposte e dei trasferimenti.
Un ottimo indice per misurare la disuguaglianza all’interno di un paese è il coefficiente di Gini, compreso tra
0 e 1: un coefficiente di 0 significa completa uguaglianza, cioè tutti hanno lo stesso reddito; un coefficiente
di 1 significa invece completa disuguaglianza, cioè una persona riceve tutto il reddito e gli altri nulla. Questi
sono casi estremi e in genere gli indici variano tra 0,2 per i paesi più ugualitari e 0,6 per i paesi più diseguali.
Come sappiamo, i mercati funzionano male quando ci sono delle esternalità e, nel contesto della crescita,
una delle esternalità principali è l’emissione di gas serra: tali gas hanno un costo che però non viene preso
in considerazione dalle aziende quando decidono, ad esempio, se scegliere una tecnologia oppure un’altra.
Il gas serra più importante è l’anidride carbonica (CO 2) la cui quantità nell’atmosfera determina la forza
dell’effetto serra: se eccessivo, questo effetto comporta l’aumento generale della temperatura sulla terra,
causando il r iscaldamento globale. Il cambiamento climatico è la sfida principale per la crescita economica.
Dalla rivoluzione industriale l’uso di combustibili fossili ha portato ad un grande aumento delle emissioni di
CO2 nell’aria e questo ha ovviamente provocato un costante aumento della temperatura media della terra.
Il fatto che sia i livelli di CO2 sia la temperatura globale siano aumentati è ovvio per cui, pensando al futuro,
la questione principale è quanto rapidamente si verificherà il surriscaldamento globale. Se non esistessero
politiche climatiche si pensa che la temperatura aumenterebbe così tanto da rendere inabitabile il pianeta.
La politica migliore che i paesi dovrebbero adottare per limitare l’aumento è di dare un prezzo alle emissioni
di carbonio, così da internalizzare le esternalità. I motivi per i quali questo non è avvenuto sono molteplici:
in primo luogo, fino a poco tempo fa, il riscaldamento globale non era considerato una priorità; in secondo
luogo qualsiasi politica che comporta un costo attuale in cambio di benefici futuri difficili da valutare non è
facile da attuare; in terzo luogo, poiché i più poveri di ogni paese tendono ad avere auto più vecchie e con
emissioni più elevate, la politica è regressiva se non compensata dai giusti trasferimenti; infine, c’è il rischio
che discussioni politiche su tali temi possano provocare forti tensioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo.
Più in generale, è molto difficile raggiungere e attuare un accordo internazionale tra i paesi su questi temi
e questo si è tradotto nel limitato successo delle passate conferenze sul clima. Una soluzione è stata però
proposta: i paesi che vorrebbero adottare una carbon tax dovrebbero comunque farlo, imponendola sulle
merci importate dai paesi che invece non ce l’hanno; ciò a sua volta incentiverebbe quei paesi ad adottare
una carbon tax per non essere più soggetti a dazi. In ogni caso, tale problema non scomparirà mai del tutto.
C APITO LO 17 : APERTURA DEL M ERCATO DEL BENI E DEI M ERCATI F INANZIARI
Finora abbiamo ipotizzato che l’economia fosse chiusa, ovvero che non interagisse con il resto del mondo.
Studiamo ora le implicazioni macroeconomiche dell’apertura internazionale, che ha tre dimensioni distinte:
• apertura del mercato dei beni: l’opportunità per i consumatori e le imprese di scegliere tra beni nazionali
e beni esteri. In nessun paese la scelta tra i beni nazionali e i beni esteri è del tutto libera da vincoli, poiché
anche i paesi più propensi al libero scambio mantengono dazi cioè tasse sui beni importati, e quote cioè
restrizioni che riguardano le quantità di beni che possono essere importate su determinati prodotti esteri.
• apertura dei mercati finanziari: l’opportunità per gli investitori finanziari di scegliere tra attività finanziarie
nazionali ed estere. Fino a tempi recenti erano in vigore controlli sui movimenti di capitali, cioè restrizioni
su attività finanziarie estere che potevano essere detenute dai residenti nazionali e su attività finanziarie
nazionali che potevano essere detenute da investitori esteri; tali restrizioni sono state per lo più eliminate.
• apertura dei mercati dei fattori: l’opportunità per le imprese di scegliere dove localizzare la propria attività
produttiva e per i lavoratori di scegliere dove lavorare. Nel breve e medio periodo, l’apertura dei mercati
dei fattori ha un ruolo meno importante rispetto all’apertura nel mercato dei beni e nei mercati finanziari.
Per questo, ci concentreremo sulle conseguenze delle prime due dimensioni dell’apertura internazionale.
L’apertura del mercato dei beni implica una modifica dei nostri risultati sull’equilibrio nel mercato dei beni.
Se i mercati dei beni sono aperti le imprese e i consumatori devono scegliere tra beni nazionali o beni esteri.
La scelta tra beni nazionali e beni esteri ha un effetto diretto sulla produzione nazionale: se i consumatori
e le imprese decidono di comprare più beni nazionali, la domanda per tali beni aumenta e di conseguenza
anche la produzione; se invece decidono di acquistare più beni esteri, allora la produzione estera aumenta.
La variabile cruciale in tale scelta è tasso di cambio reale, il prezzo dei beni nazionali in termini di beni esteri.
Dunque, in un’economia chiusa si affronta una sola decisione, risparmiare o consumare; in un’economia
aperta invece si affrontano due decisioni, risparmiare o consumare e acquistare beni nazionali o beni esteri.
Il prezzo dei beni europei in euro è pari a 𝑃; moltiplicandolo per il tasso di cambio nominale euro/sterlina 𝐸
si ottiene il prezzo dei beni europei in sterline, 𝐸𝑃. Il prezzo dei beni britannici in sterline è invece pari a 𝑃⋇.
Il tasso di cambio reale 𝜀, il prezzo dei beni europei in termini di beni britannici, è ottenuto moltiplicando il
livello dei prezzi nazionali per il tasso di cambio nominale, dividendo poi 𝐸𝑃 per il livello dei prezzi esteri 𝑃⋇:
Come i tassi di cambio nominali, anche i tassi di cambio reali variano nel tempo: un apprezzamento reale
indica un aumento del prezzo relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri, e dunque corrisponde ad
un aumento del tasso di cambio reale; un deprezzamento reale indica una riduzione del prezzo relativo dei
beni nazionali in termini di beni esteri, e dunque corrisponde ad una diminuzione del tasso di cambio reale.
L’equazione ci dice che il consumo 𝐶 dipende positivamente dal reddito disponibile 𝑌 − 𝑇 e l’investimento
dipende positivamente dalla produzione 𝑌 e negativamente dal tasso di interesse reale 𝑟. Possiamo notare
che le decisioni di spesa dei consumatori dipendono ancora dal loro reddito disponibile: il tasso di cambio
reale non influenza il livello il livello di spesa, ma solo la composizione della spesa tra beni nazionali e esteri.
Lo stesso vale per l’investimento, poiché il tasso di cambio reale può influenzare le decisioni delle imprese
sull’acquisto di macchinari nazionali oppure esteri, però non influenza il livello degli investimenti aggregati.
Grafico a: la retta 𝐷𝐷 descrive la domanda nazionale di beni 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 come funzione della produzione 𝑌.
La retta 𝐷𝐷 che rappresenta questa relazione è inclinata positivamente, questo perché un aumento della
produzione fa aumentare sia il consumo sia l’investimento, determinando così un aumento della domanda.
Grafico b: sottraendo le importazioni si ha la retta 𝐴𝐴, che descrive la domanda nazionale di beni nazionali.
La distanza tra 𝐷𝐷 e 𝐴𝐴 è uguale al valore delle importazioni 𝐼𝑀/ɛ: poiché la quantità delle importazioni
aumenta con la produzione, la distanza tra le due rette aumenta anch’essa all’aumentare della produzione.
Grafico c: infine, aggiungendo le esportazioni, si ottiene la retta 𝑍𝑍 che indica la domanda di beni nazionali.
La retta 𝑍𝑍 si trova al di sopra della 𝐴𝐴 e la distanza tra esse indica la quantità di esportazioni, le quali non
dipendono dal reddito interno, ma da quello estero; quindi, la distanza è costante e le rette sono parallele.
Inoltre, tale grafico permette di descrivere il comportamento delle esportazioni nette, cioè la differenza tra
esportazioni e importazioni: per esempio, a un livello della produzi one pari a 𝑌, le esportazioni sono date
dalla distanza 𝐴𝐶 e le importazioni da 𝐴𝐵, e dunque le esportazioni nette sono indicate dalla distanza 𝐵𝐶.
Grafico d: il grafico rappresenta la relazione tra esportazioni nette e produzione, che è data dalla retta 𝑁𝑋.
La retta 𝑁𝑋 è inclinata negativamente in quanto le esportazioni nette sono una funzione decrescente della
produzione nazionale: al crescere della produzione nazionale, le importazioni aumentano e le esportazioni
restano invariate, di conseguenza le esportazioni nette diminuiscono se la produzione nazionale aumenta.
Il punto 𝑌𝑇𝐵 (bilancia commerciale) è il livello di produzione nazionale in cui 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 = 𝑒𝑠𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖
per cui le esportazioni nette sono nulle. Per livelli di produzione nazionale maggiori di 𝑌𝑇𝐵, le importazioni
eccedono le esportazioni ed il paese registra un disavanzo commerciale. Per livelli di produzione nazionale
minori di 𝑌𝑇𝐵, le importazioni sono più basse delle esportazioni ed il paese registra un avanzo commerciale.
Consideriamo l’effetto di un deprezzamento nominale di una valuta, cioè una riduzione del tasso di cambio
nominale, sulla bilancia commerciale e sulla produzione. Sappiamo che il tasso di cambio reale è ɛ = 𝐸𝑃/𝑃⋇
Nel breve periodo, consideriamo costante il livello dei prezzi interni ed esteri, e dunque un deprezzamento
del tasso di cambio nominale si riflette in un deprezzamento del tasso di cambio reale della stessa entità.
Per capire l’effetto di questo deprezzamento reale sulla bilancia commerciale e sulla produzione, bisogna
ricordare la definizione delle esportazioni nette, data da 𝑁𝑋 = 𝑋 − 𝐼𝑀/ɛ ⇒ 𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ) − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ.
Dal momento che il tasso di cambio reale ɛ rientra nell’equazione delle esportazioni nette ben tre volte, un
deprezzamento reale, cioè una riduzione di ɛ, influenza la bilancia commerciale tramite tre canali:
• fa aumentare le esportazioni 𝑋: rende i beni nazionali relativamente meno costosi all’estero e questo, a
sua volta, provoca l’aumento della domanda estera di beni nazionali, ovvero delle esportazioni nazionali.
• fa diminuire le importazioni 𝐼𝑀: reale i beni esteri relativamente più costosi nell’economia nazionale e ciò
provoca l’aumento della domanda interna di beni nazionali e dunque una diminuzione delle importazioni.
• fa aumentare il prezzo relativo dei beni esteri in termini di beni nazionali 1/ɛ: ciò tende ad aumentare il
valore delle importazioni, infatti, la stessa quantità di importazioni costa di più in termini di beni nazionali.
Il miglioramento della bilancia commerciale non è scontato, poiché il terzo canale potrebbe essere più forte
dei primi due. Per migliorare la bilancia commerciale in seguito a un deprezzamento, le esportazioni devono
aumentare e le importazioni devono ridursi al fine di compensare l’aumento del prezzo dei beni importati.
Quando il deprezzamento reale aumenta le esportazioni nette abbiamo la condizione di Marshall – Lerner.
Il saldo del conto corrente è pari al risparmio nazionale, dato dalla somma di risparmio pubblico e privato,
meno l’investimento: possiamo dire che un avanzo commerciale corrisponde ad un eccesso del risparmio
sull’investimento ed un disavanzo commerciale corrisponde ad un eccesso dell’investimento sul risparmio.
L’equazione ci suggerisce tre considerazioni: in primo luogo, un aumento dell’investimento deve riflettersi
in un aumento del risparmio privato, del risparmio pubblico o in un peggioramento del s aldo commerciale;
in secondo luogo, un peggioramento del bilancio pubblico deve riflettersi in un incremento del risparmio
privato, in una riduzione dell’investimento o in un peggioramento del saldo commerciale; infine, un paese
con un alto tasso di risparmio deve avere o un alto tasso d’investimento o un elevato avanzo commerciale.
C APITO LO 19 : PRODUZ IONE, TASSO DI INTERESSE E TASSO DI CAMBIO
In economia aperta l’equilibrio nel mercato dei beni è rappresentato dalla seguente condizione d’equilibrio:
𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑟) + 𝐺 − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ + 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ)
(+) (+,−) (+,+) (+,−)
Dunque, il mercato è in equilibrio quando la produzione nazionale è uguale alla domanda di beni nazionali.
Possiamo sostituire gli ultimi due termini con l’espressione delle esportazioni nette 𝑁𝑋, cioè la differenza
tra le esportazioni e le importazioni, data dalla seguente equazione: 𝑁𝑋(𝑌, 𝑌 ⋇ ,ɛ ) = 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ ) − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ.
Le esportazioni nette dipendono dalla produzione nazionale, dalla produzione estera e dal tasso di cambio
reale: un aumento della produzione nazionale aumenta le importazioni e riduce le esportazioni nette; un
aumento della produzione estera aumenta le esportazione e aumenta le esportazioni nette; un aumento
del tasso di cambio reale riduce le esportazioni nette. Possiamo riscrivere la condizione di equilibrio come:
𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑟) + 𝐺 + 𝑁𝑋(𝑌, 𝑌 ⋇ ,ɛ )
(+) (+,−) (−,+,−)
Quindi, la domanda e la produzione dipendono sia dal tasso di interesse reale che dal tasso di cambio reale:
• un aumento del tasso di interesse reale 𝑟 riduce la spesa per gli investimenti, e di conseguenza fa ridurre
la domanda di beni nazionali. Questo porta, attraverso il moltiplicatore, a una riduzione della produzione.
• un aumento del tasso di cambio reale ɛ provoca uno spostamento della domanda a favore dei beni esteri
e dunque fa diminuire le esportazioni nette. Questo a sua volta porta ad una diminuzione della domanda
di beni nazionali e, attraverso il moltiplicatore, tale diminuzione della domanda fa diminuire la produzione.
Introduciamo ora due semplificazioni, ovvero che il livello dei prezzi sia costante e che l’inflazione sia nulla.
• poiché siamo nel breve periodo, assumiamo che il livello dei prezzi nazionali e esteri sia costante; dunque,
il tasso di cambio reale e il tasso di cambio nominale si muovono insieme, cioè abbiamo 𝑃 = 𝑃⋇ → 𝐸 = ɛ:
un aumento del tasso di cambio nominale provoca un aumento della stessa misura del tasso di cambio
reale e una riduzione del tasso di cambio nominale fa diminuire il tasso di cambio reale della stessa misura.
• data l’ipotesi che il livello dei prezzi nazionali e esteri è fisso, l’inflazione sia corrente che attesa è pari a 0;
dunque, tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale coincidono e abbiamo che: 𝜋 = 0 → 𝑟 = 𝑖.
Con queste due semplificazioni, sostituiamo ɛ con 𝐸 ed 𝑟 con 𝑖, così che la condizione di equilibrio diventa:
la condizione di equilibrio nel mercato dei beni afferma
che la produzione dipende negativamente sia dal tasso
di interesse nominale che dal tasso di cambio nominale.
L’EQ UILIBRIO NEI MERC ATI F INANZ IARI IN ECO NOMIA APERTA
L’apertura dei mercati finanziari consente agli investitori di detenere attività finanziarie nazionali ed estere.
In questo caso, affinché sia indifferente tenere titoli nazionali o esteri, essi devono avere lo stesso tasso di
rendimento atteso, cioè deve la condizione della parità dei tassi d’interesse: (1 + 𝑖) = (1 + 𝑖 ⋇ )(𝐸𝑡 /𝐸𝑒 𝑡+1 ),
dove il lato sinistro indica il rendimento in termini di valuta nazionale dei titoli nazionali e il lato destro indica
il rendimento atteso in termini di valuta nazionale dei titoli esteri; i due rendimenti in equilibrio sono uguali.
La presenza di 𝐸𝑡 deriva dal fatto che, per poter acquistare titoli stranieri, è necessario scambiare la valuta
nazionale con la valuta estera, e la presenza di 𝐸 𝑒 𝑡+1 deriva dal fatto che per consentire il rientro dei fondi
alla scadenza del titolo, bisogna scambiare la valuta estera con quella nazionale al tasso di cambio atteso.
Ora moltiplichiamo entrambi i lati dell’equazione per il tasso di cambio futuro atteso, e
consideriamolo come dato, indicandolo con ̅𝐸̅̅̅𝑒; tramite questa ipotesi e omettendo gli
indici temporali, otteniamo una relazione che ci dice che 𝐸 dipende da 𝑖, da 𝑖 ⋇ e da ̅𝐸̅̅̅𝑒:
• in primo luogo, un aumento del tasso di interesse nazionale 𝑖 determina un aumento del tasso di cambio.
• in secondo luogo, un aumento del tasso d’interesse estero 𝑖 ⋇ provoca una riduzione del tasso di cambio.
• infine, un aumento del tasso di cambio atteso ̅𝐸̅̅̅𝑒 determina un incremento del tasso di cambio corrente.
La figura mostra la relazione tra tasso di interesse nazionale 𝑖 e tasso
di cambio 𝐸 che deriva dalla condizione di parità dei tassi di interesse;
essa è rappresentata per un dato tasso di cambio futuro atteso ̅𝐸̅̅̅𝑒 e
per un dato tasso di interesse estero 𝑖 ⋇. La relazione tra 𝑖 ed 𝐸 è data
da una curva inclinata positivamente, che indica che quanto maggiore
è il tasso di interesse nazionale, tanto maggiore sarà il tasso di cambio.
Quando il tasso d’interesse nazionale è pari al tasso d’interesse estero,
il tasso di cambio corrente è uguale al tasso di cambio futuro atteso,
cioè se 𝑖 = 𝑖 ⋇ ⇒ 𝐸 = ̅𝐸̅̅̅𝑒. La condizione di parità dei tassi di interesse
è nel punto 𝐴, dove il tasso d’interesse nazionale è pari a quello estero.
M ERC ATO DEI BENI E M ERC ATI FINANZ IARI INSIEME: IL MO DELLO IS – LM IN EC ONOMIA APERTA
Sostituendo il tasso di cambio con la parità dei tassi di interesse nella condizione di equilibrio nel mercato
dei beni, otteniamo la versione delle curva 𝐼𝑆 e della curva 𝐿𝑀 in un contesto di un’economia aperta come:
Insieme, queste due relazioni determinano il tasso di interesse e la produzione di equilibrio. Consideriamo
per prima la relazione 𝐼𝑆 ed analizziamo l’effetto di un aumento del tasso di interesse 𝑖 sulla produzione 𝑌.
Il primo è l’effetto diretto sull’investimento, già presente in economia chiusa: un tasso d’interesse più alto
fa ridurre l’investimento e provoca così la diminuzione della domanda di beni nazionali e della produzione.
Il secondo è l’effetto indiretto che opera attraverso il tasso di cambio, presente solo in economia a perta:
un aumento del tasso d’interesse interno fa aumentare il tasso di cambio, generando un apprezzamento;
quest’ultimo rende i beni nazionali relativamente più costosi rispetto ai beni esteri e questo , a sua volta,
riduce le esportazioni nette, provocando la diminuzione della domanda di beni nazionali e della produzione.
La figura mostra il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀 in economia aperta, tramite cui possiamo riassumere questi concetti:
• la curva 𝐼𝑆 è disegnata per dati valori di tutte le variabili che entrano nell’equazione, tranne per 𝑌 ed 𝑖;
dunque, essa rappresenta in questo caso la relazione tra il tasso di interesse nazionale e la produzione:
un aumento del tasso di interesse porta direttamente (tramite l’investimento) e indirettamente (tramite
il tasso di cambio) a una diminuzione della domanda e, a sua volta, ad una diminuzione della produzione.
• la curva 𝐿𝑀 è invece esattamente uguale al caso di economia chiusa: essa è rappresentata da una r etta
orizzontale in corrispondenza del tasso d’interesse nominale 𝑖 = 𝑖̅, il quale è stabilito dalla banca centrale.
• la produzione e il tasso d’interesse di equilibrio sono dati dall’intersezione della curve 𝐼𝑆 con la curva 𝐿𝑀.
In figura l’equilibrio è dato dal punto 𝐴, al quale corrisponde un tasso di interesse 𝑖 e una produzione 𝑌.
Il valore di equilibrio del tasso di cambio non può essere letto direttamente dal grafico, ma la parte b in
figura mostra che, dati 𝑖 ⋇ e ̅𝐸̅̅̅𝑒, il tasso di interesse di equilibrio determina il tasso di cambio di equilibrio:
In figura b, in corrispondenza del tasso d’interesse di equilibrio 𝑖, il tasso di cambio di equilibrio è pari a 𝐸.
GLI EF F ETTI DELLA PO LITIC A ECONOMICA IN EC ONOMIA APERTA
Dopo aver derivato il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀, possiamo usarlo per analizzare gli effetti della politica economica:
consideriamo per esempio, prima gli effetti di una contrazione monetaria e dopo di un’espansione fiscale.
Supponiamo ora un aumento della spesa pubblica, con l’aumento del tasso di interesse scelto dalla banca.
Se il tasso di interesse rimane costante, la produzione aumenta da 𝑌𝑛 a 𝑌′ e il tasso di cambio non cambia.
Ma se 𝑖 aumenta, 𝑌 aumenterà di meno, ovvero da
𝑌𝑛 a 𝑌′′, e il tasso di cambio si apprezzerà da 𝐸 e 𝐸 ′′.
Come prima consumo e spesa pubblica aumentano.
Che cosa succede all’investimento è ambiguo: da un
lato, l’aumento della produzione lo fa aumentare e
dall’altro, l’aumento del tasso di interesse lo riduce.
Le esportazioni nette si riducono: l’apprezzamento
riduce le esportazioni ed aumenta le importazioni, e
l’aumento di produzione le aumenta ulteriormente.
I TASSI DI C AM BIO F ISSI
Finora abbiamo assunto che la banca centrale scegliesse il tasso di interesse e lasciasse il tasso di cambio
libero di aggiustarsi per garantire l’equilibrio nel mercato dei beni. In molti paesi però questo non è realistico
in quanto le banche centrali usano spesso la politica monetaria per raggiungere obiettivi di tasso di cambio.
Questi obiettivi possono essere espliciti o impliciti, e possono essere espressi con valori specifici oppure in
termini di bande di oscillazione. Si tratta dei diversi regimi di cambio, i quali possono assumere svariati nomi.
Nel medio periodo, la differenza tra regime di cambi fissi e flessibili svanisce: nel medio periodo, l’economia
raggiunge lo stesso livello di tasso di cambio reale e di produzione, sia in regime di cambi fissi che flessibili.
Sappiamo che il tasso di cambio reale è pari al tasso di cambio nominale moltiplicato per il livello dei prezzi
nazionali e diviso per il livello dei prezzi esteri: ɛ = 𝐸𝑃/𝑃⋇. Dunque, il tasso di cambio reale può aggiustarsi:
• tramite una variazione del tasso di cambio nominale 𝐸, ma ciò è possibile solo in regime di cambi flessibili.
• tramite una variazione del rapporto tra prezzi nazionali ed esteri, ovvero del livello dei prezzi nazionali 𝑃
rispetto al livello dei prezzi esteri 𝑃⋇: nel medio periodo, questo è possibile anche in regime di cambi fissi.
In precedenza, abbiamo presentato una semplice relazione tra tasso di interesse e tasso di cambio: quanto
minore è il tasso di interesse, tanto minore è il tasso di cambio. In realtà, tale relazione non è così semplice.
I tassi di cambio si muovono spesso anche in assenza di variazioni dei tassi di interesse e inoltre, l’ampiezza
dell’effetto di una riduzione del tasso di interesse sul tasso di cambio non è molto semplice da prevedere.
Dunque, nella relazione dobbiamo considerare anche le aspettative future dei tassi d’interesse e di cambio.
Considerando ancora la parità dei tassi di interesse, che è espressa come: (1 + 𝑖 𝑡 ) = (1 + 𝑖 𝑡 ⋇ )(𝐸𝑡 /𝐸 𝑒𝑡+1 ).
Moltiplicando entrambi i lati per 𝐸 𝑒 𝑡+1 abbiamo 𝐸𝑡 = (1 + 𝑖 𝑡 /1 + 𝑖 𝑡 ⋇ )𝐸𝑒𝑡+1: il tasso di cambio quest’anno,
dipende dai tassi di interesse interni ed esteri a un anno e dal tasso di cambio atteso per l’anno prossimo.
Finora abbiamo assunto che il tasso di cambio futuro atteso 𝐸 𝑒 𝑡+1 fosse costante, ma in realtà esso non è
costante. Considerando l’anno 𝑡 + 1 invece che l’anno 𝑡, l’equazione è 𝐸𝑡+1 = (1 + 𝑖 𝑡+1 /1 + 𝑖 ⋇𝑡+1 )𝐸𝑒𝑡+2:
il tasso di cambio dell’anno prossimo dipenderà dal tasso di interesse interno e dal tasso di interesse estero
nell’anno 𝑡 + 1 e dal tasso di cambio futuro e atteso per l’anno successivo, cioè previsto per l’anno 𝑡 + 2.
Il tasso di cambio atteso futuro nell’anno 𝑡 + 1, calcolato nell’anno 𝑡, è 𝐸 𝑒𝑡+1 = (1 + 𝑖 𝑒𝑡+1 /1 + 𝑖 ⋇𝑒 𝑒
𝑡+1 )𝐸 𝑡+2.
In conclusione, il tasso di cambio corrente dipende sia dai tassi di interesse interni e esteri correnti e attesi,
sia dal tasso di cambio atteso in futuro. Sostituendo 𝐸 𝑒𝑡+1, 𝐸 𝑒𝑡+2 fino all’anno 𝐸 𝑒𝑡+𝑛 otteniamo l’equazione:
• il tasso di cambio corrente si muove nella stessa direzione del tasso di cambio futuro atteso: qualunque
fattore che aumenta il tasso di cambio atteso 𝐸 𝑒 𝑡+𝑛 provoca l’aumento del tasso di cambio corrente 𝐸𝑡 .
• il tasso di cambio corrente si muove in risposta a cambiamenti dei tassi di interesse corren ti o futuri attesi:
ogni fattore che aumenta i tassi di interesse correnti o futuri attesi, aumenta il tasso di cambio corrente.
• il tasso di cambio di cambio corrente si muove con ogni mutamento delle aspettative : tale conseguenza
deriva dalle prime due e indica che, poiché il tasso di cambio cambia con le aspettative, esso sarà volatile.
LA SC ELTA TRA C AMBI FISSI E C AMBI F LESSIBILI
In conclusione, dobbiamo chiederci se è meglio scegliere un regime di cambi fissi oppure di cambi flessibili.
Due argomenti sono favore della scelta di un regime di cambi flessibili ed uno a favore dei cambi fissi, cioè:
• il regime di cambio nel medio periodo non importa, ma è rilevante nel breve periodo: i paesi che operano
con regimi di cambio fissi, nel medio periodo, devono rinunciare a due strumenti, il tasso di interesse e il
tasso di cambio; ciò limita la capacità di reagire a shock e aumenta la possibilità di crisi del tasso di cambio.
• in presenza di aspettative di svalutazione, in un regime di cambi fissi, mantenere il tasso di cambio fisso
richiede un grande aumento del tasso di interesse nazionale, peggiorando così la situazione economica.
• l’argomento a favore dei cambi fissi riguarda il fatto che, in un regime di cambi flessibili il tasso di cambio
può fluttuare fortemente e, di conseguenza, esso può essere fuori del controllo della politica monetaria.
In generale, i cambi flessibili sono preferibili, ma con due eccezioni. La prima è quando un gruppo di paesi
è già fortemente integrato dal punto di vista economico, e la soluzione potrebbe essere una moneta unica.
La seconda è quando non ci si può fidare che la banca centrale segua una politica monetaria responsabile
in regime di cambi flessibili, e la soluzione potrebbe essere usare una forma estrema di tassi di cambio fissi.
LE UNIO NI M ONETARIE
Quando un gruppo di paesi è fortemente integrato, potrebbe essere opportuno formare un’area valutaria
comune: una moneta unica per un gruppo di paesi rappresenta una forma estrema di tassi di cambio fissi.
Un’area valutaria è considerata ottimale quando viene soddisfatta una delle due seguenti condizioni, cioè:
• i paesi devono subire stessi shock: se hanno shock simili, scelgono comunque politiche monetarie simili
e costringerli a seguire la stessa politica monetaria potrebbe non essere un vincolo difficile da rispettare.
• devono avere un’elevata mobilità dei fattori: l’alta mobilità permette ai paesi di aggiustarsi in seguito a
shock che colpiscono un paese ma non un altro: ad esempio, se i lavoratori sono disposti a spostarsi da
paesi con un elevato tasso di disoccupazione e lavorare altrove, la disoccupazione in quel paese si riduce.
La gran parte degli economisti pensa che l’area valutaria comune composta dai 50 Stati degli Stati Uniti sia
molto vicina ad essere un’area valutaria ottimale: è vero che la prima condizione non è soddisfatta, poiché
i singoli Stati sono soggetti a shock diversi, ma la seconda condizione è soddisfatta. Infatti, negli Stati Uniti,
c’è una forte mobilità del lavoro per cui i lavoratori si spostano da uno Stato all’altro in base alle condizioni
più favorevoli nei diversi Stati. Ciascuno Stato degli Stati Uniti potrebbe avere una propria valuta in regime
di cambi flessibili, ma hanno preferito costituire un’area valutaria comune con una moneta unica: il dollaro.
I benefici di aderire ad un’unione monetaria sono sia micro che macroeconomici. I microeconomici sono in
primo luogo minore incertezza: eliminare le fluttuazioni dei tassi di cambio, annulla l’incertezza relativa ai
differenziali dei tassi di interesse tra i paesi membri. In secondo luogo, i costi di transazione sono ridotti:
aderendo a un’unione monetaria, i costi di transazione da una valuta all’altra sono molto bassi o anche nulli.
Infine, la tr asparenza dei prezzi: una moneta comune facilita il confronto tra i prezzi dei paesi e dunque ne
riduce le differenze, anche se continuano ad esistere a causa dei costi di trasporto e delle differenze fiscali.
Un primo beneficio macroeconomico è un a migliore credibilità antinflazionistica: un paese con una debole
reputazione anti-inflazionistica può migliorarla formando un’unione monetaria con un paese con migliore
reputazione; l’unione monetaria, rispetto a un cambio fisso, è più credibile perché essa è meno reversibile.
Inoltre, ci sono altri due benefici macroeconomici: il coordinamento della politica monetaria, che riduce il
rischio di svalutazioni competitive e i benefici commerciali, che aumentano il commercio tra i paesi membri.
Il costo di rinunciare alla flessibilità del tasso di cambio tra diversi paesi dipende dall’ampiezza degli shock
asimmetrici che colpiscono tali paesi. Gli economisti definiscono gli shock asimmetrici le variazioni inattese
nella domanda e/o nell’offerta aggregata che colpiscono un certo paese, ma non i suoi partner commerciali.
In seguito ad uno shock asimmetrico, per tornare all’equilibrio nel mercato dei beni, il tasso di cambio deve
aggiustarsi e questo avviene più facilmente in un regime di cambi flessibili. Pertanto, uno dei principali costi
di una unione monetaria è la perdita del tasso di cambio come stabilizzatore, nel caso di shock asimmetrici.
DO LLARIZ ZAZIONE E C URRENCY BOARD
La seconda eccezione a favore di un regime di tassi di cambio fissi riguarda i casi in cui non ci si può fidare
che la banca centrale segua una politica monetaria responsabile. In tal caso, la soluzione per legare le mani
alla banca centrale potrebbe essere proprio quella di fissare il tasso di cambio, cioè attuare una parità fissa.
Una forma estrema di parità fissa è la sostituzione della valuta nazionale con una valuta estera: di solito, la
valuta estera scelta per fissare il tasso di cambio è il dollaro, dunque tale approccio è detto dollarizzazione.
Pochi paesi sono però disposti a rinunciare alla propria valuta per adottare quella di un altro paese, per cui
potrebbero scegliere di adottare una forma meno estrema di parità fissa, per esempio un currency board:
esso prevede l’aggancio della moneta nazionale ad una valuta estera solo per un certo periodo di tempo.
L’esempio più famoso è quello adottato dall’Argentina intorno al 1990 ed abbandonato alla fine del 2001.
Gli economisti sono in disaccordo tra loro riguardo la scelta di un currency board. Infatti, alcuni sostengono
che i currency board non sono in grado di prevenire le crisi del cambio: questi economisti credono che, se
un paese vuole adottare un tasso di cambio fisso, gli conviene scegliere la strada p iù estrema e dollarizzare.
Invece, altri economisti sono a favore dei currency board e non della dollarizzazione, ma credono che essi
debbano essere usati per un tempo limitato, per poi passare a un sistema di tassi di cambio flessibili.
Il dibattito ha riguardato anche il currency board argentino, e gli economisti sono ancora oggi in disaccordo.
Una parte di loro sostiene che esso è stato una buona idea ma che non è stata applicata fino in fondo, in
quanto l’Argentina avrebbe dovuto dollarizzare adottando il dollaro come valuta nazionale ed eliminando
completamente il peso: con la dollarizzazione, infatti, si sarebbe ridotto anche il rischio di una crisi valutaria.
L’altra parte degli economisti sostiene che il currency board è stato inizialmente una buona idea, ma che
non sarebbe dovuto durare così a lungo: l’Argentina ha infatti fissato il cambio con il dollaro per un periodo
troppo lungo fino a quando il peso si è sopravvalutato e, di conseguenza, la crisi valutaria è stata inevitabile.