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RIASSUNTI DI

MACROECONOMIA
UNA PROSPETTIVA EUROPEA
C APITO LO 1: UN VIAGGIO INTORNO AL M ONDO
Le economie, come le persone, si possono ammalare di elevata disoccupazione, recessioni, crisi finanziarie
e bassa crescita. La macroeconomia si occupa di capire quello che succede e cosa si può fare al riguardo.
Come sappiamo, all’inizio del 2020 la popolazione mondiale è stata colpita da una pandemia causata da un
nuovo coronavirus che ha costretto in quarantena interi paesi e fermato la produzione in moltissimi settori.
Anche nel 2008 l’economia mondiale fu colpita da una disastrosa crisi economica che è stata la peggiore
dopo la Grande Depressione del 1929; quest’ultima durò molti anni e provocò una drastica riduzione della
produzione, crolli di borsa, fallimenti delle banche e di imprese ed un forte aumento della disoccupazione.
Durante la crisi, il tasso di crescita della produzione mondiale, che solitamente è del 4-5% annuo, nel 2009
è stato lievemente negativo e pari al – 0,1%. Nel 2020, però, la pandemia ha causato una recessione ancora
più profonda e secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale il PIL mondiale è diminuito del –3,2%.

LA PANDEM IA DEL 20 20
La pandemia da Covid-19 nel giro di pochi mesi si è diffusa in tutto il mondo e segnerà questo secolo come
lo scorso fu segnato dalla spagnola, un virus che provocò addirittura più morti della prima guerra mondiale.
Le r ecessioni causate da una pandemia non sono provocate da uno squilibrio nell’economia ma piuttosto
da uno shock esogeno e inatteso, causato dal virus appunto. Questo shock colpisce l’economia in tre modi:
• spezzando le catene produttive: le aziende che producono utilizzando beni intermedi importati dalla Cina
non riescono più ad approvvigionarsi perché molte fabbriche cinesi hanno chiuso e il sistema dei trasporti
si è bloccato per cui, di conseguenza, chi utilizzava prodotti intermedi importati ha fermato le produzioni.
• limitazione della mobilità: per rallentare il diffondersi del virus, la gran parte dei paesi ha deciso di limitare
la mobilità degli individui, e tutti coloro che non potevano lavorare a distanza hanno smesso di lavorare.
• chiusura di fabbriche e negozi e caduta dei redditi familiari: hanno provocato il rallentamento dei consumi.
Quanto durerà questa recessione? Per capirlo è utile studiare la pandemia causata dall’influenza spagnola:
la recessione causata dalla Spagnola durò solo sette mesi. La breve durata di quella recessione è dovuta in
parte al fatto che, diversamente da oggi, allora non si obbligarono i cittadini a «stare a casa».
Questo ebbe due conseguenze: innanzitutto il virus si diffuse rapidamente, quasi tutti furono contagiati e
molti morirono però chi sopravvisse divenne immune e continuò comunque a lavorare. Quindi, le fabbriche
anche se persero alcuni lavoratori, non chiusero e la recessione fu breve.
Per valutare quanto durerà la recessione causata dal Covid-19 bisogna chiedersi quanto a lungo dureranno
le norme di «distanziamento sociale». Più esse saranno estese nel tempo, minore sarà la mortalità di questa
pandemia e più lunga sarà la recessione, ma bisogna sottolineare che più lunga non significa più profonda.
Infatti, durante la spagnola, l’obbligo di «stare a casa» non fu applicato in modo omogeneo ma la decisione
fu lasciata alle singole città oppure ai singoli Stati: ne risultò le città che imposero limitazioni più severe alla
libertà di movimento subirono minori danni economici, perché il numero di decessi fu minore e quando la
pandemia terminò era stato perduto meno capitale umano. Che cosa sappiamo della pandemia Covid-19?
Il tasso di crescita annualizzato dell’importo totale delle spese giornaliere è rimasto stabile fino ai primi di
marzo, però con l’entrata in vigore delle misure di blocco c’è stato un calo delle spese, diminuite del 48,6%.
Nell’aprile del 2020 il Fondo Monetario Internazionale ha prodotto le prime previsioni riguardo l’andamento
dell’economica mondiale durante e dopo la pandemia. Rispetto alle previsioni pre-pandemia, nel secondo
il Pil nei paesi avanzati è diminuito di quasi il 15%, una caduta che non si era mai osservata nei secoli recenti.
La ripresa, tuttavia, almeno secondo il Fmi dovrebbe essere abbastanza rapida: a fine 2021, il Pil dovrebbe
tornare ai livelli pre-shock, anche se un 5% sotto il livello che avrebbe raggiunto in assenza della pandemia.
LA C RISI DEL 2 0 08 – 2 00 9

Nel 2007 iniziarono a comparire i primi segnali di un imminente rallentamento dell’economia : tutto ebbe
inizio negli Stati Uniti dove il prezzo delle case cominciò a diminuire.
Mentre i prezzi delle case continuavano a scendere, fu presto chiaro che i problemi erano più profondi di
quanto immaginato. Infatti, molti dei mutui ipotecari che erano stati concessi erano di scarsa qualità e tante
famiglie che avevano contratto un mutuo si erano indebitate troppo, per cui un numero sempre crescente
di loro non era in grado di pagare le rate mensili. Inoltre, con il prezzo delle case in calo, il valore dei mutui
ipotecari finì per superare quello delle abitazioni che erano state acquistate con quegli stessi mutui dando
un incentivo a chi era debitore di diventare insolvente, cioè di non restituire quanto aveva preso a prestito.
Le banche che avevano emesso mutui ipotecari li avevano poi rimpacchettati creando dei nuovi strumenti
finanziari, che avevano poi venduto ad altre banche o a investitori: il risultato fu che molte delle banche,
invece di avere a bilancio i mutui originari, possedevano tali strumenti così complessi da rendere impossibile
una loro corretta valutazione. Questo trasformò la crisi del settore immobiliare in una crisi finanziaria: il 15
settembre 2008, infatti, una delle maggiori banche americane, Lehman Brothers, annunciò la bancarotta.
La crisi finanziaria si trasformò velocemente in un’enorme crisi economica: i prezzi delle azioni crollarono e
i consumatori americani, colpiti dal crollo immobiliare e azionario, ridussero drasticamente i loro consumi.
Le imprese, data la riduzione delle vendite e il futuro incerto, tagliarono bruscamente gli investimenti. Dati
i bassi prezzi immobiliari e le numerose case rimaste invendute, cessò la costruzione di nuove abitazioni.
Nonostante gli interventi sia della banca centrale degli Stati Uniti (Fed) che tagliò i tassi d’interesse a zero,
sia del governo americano che diminuì le tasse e aumentò la spesa pubblica, la domanda diminuì e a ruota
la produzione. Nel terzo trimestre del 2008, la crescita della produzione statunitense divenne addirittura
negativa e rimase tale per tutto il 2009, cominciando a recuperare lentamente da quel momento in avanti.
La crisi americana divenne molto rapidamente una crisi mondiale e il contagio avvenne tramite due canali.
Il primo fu il commercio internazionale: quando consumatori e imprese americani ridussero la loro spesa,
una parte di questa riduzione colpì le importazioni di beni prodotti all’estero. Dal punto di vista dei paesi
esportatori verso gli Stati Uniti, il loro export diminuì e, di conseguenza, diminuì anche la loro produzione.
Il secondo canale fu la finanza: le banche americane avevano un disperato bisogno di fondi e proprio per
questo rimpatriarono quelli che detenevano in altri paesi, creando problemi per le banche di questi paesi.
E non appena queste banche iniziarono ad avere problemi di finanziamento, i prestiti erogati alle imprese
si ridussero e ne seguì un calo della spesa e della produzione. In Europa, il declino della produzione fu così
tanto drammatico che questa propagazione della crisi diventò una crisi a sé stante, ovvero la crisi dell’euro.
Riassumendo, la recessione americana divenne una recessione mondiale.
Nel 2009, la crescita media delle economie avanzate fu del – 3,4%, mentre la crescita nei paesi emergenti
e in via di sviluppo rimase positiva, però era del 3,5% inferiore alla media nel periodo 2000-2007. La crescita
nelle economie avanzate è tornata positiva nel 2010 ed è rimasta tale fino alla pandemia del 2020.
In alcune economie avanzate, come gli Stati Uniti, la disoccupazione è per lo più ritornata ai livelli precrisi.
L’Eurozona, ovvero l’insieme di paesi europei che adottano l’euro è invece, ancora oggi, in grande difficoltà
poiché il tasso di crescita è positivo, ma comunque abbastanza basso, e la disoccupazione rimane elevata.
Il tasso di crescita nei paesi emergenti e in via di sviluppo è tornato a livelli sostenuti, ma è minore di quanto
non fosse prima della crisi e, inoltre, ha intrapreso un’ulteriore discesa dal 2010 in poi.
GLI STATI UNITI D’AMERICA
Quando gli economisti considerano un determinato paese, le due domande che si pongono sono: «quanto
è grande questo paese da un punto di vista economico?» e dopo «qual è il tenore di vita in questo paese?».
Per rispondere alla prima domanda devono considerare il prodotto nel suo complesso, per rispondere alla
seconda domanda devono invece considerare il prodotto per persona.
Per comprendere lo stato di salute dell’economia di un certo paese, si guardano tre variabili fondamentali:
• tasso di crescita della produzione: è il tasso al quale la produzione cambia nel corso del tempo.
• tasso di disoccupazione: la proporzione di lavoratori che non sono occupati ma sono in cerca di un lavoro.
• tasso di inflazione: è il tasso al quale il prezzo medio dei beni in un’economia cresce nel corso del tempo.
Prima della pandemia, l’economia degli Stati Uniti era in buona forma e si era lasciata alle spalle gran parte
degli effetti negativi della crisi. La pandemia del 2020 ha portato l’economia in una condizione peggiore di
quella del 2008 – 2009: la grande riduzione del PIL è accompagnata da un aumento della disoccupazione
e da un’inflazione in calo per effetto del crollo della domanda.
Negli Stati Uniti la ripresa dalla crisi finanziaria è cominciata nel giugno del 2009 e da allora la crescita della
produzione è stata positiva. Oggi, gli Stati Uniti stanno cercando di contrastare un’epidemia con misure di
distanziamento sociale, che comportano necessariamente l’interruzione della produzione in molti settori.
Tale blocco dell’attività produttiva ha fatto impennare la disoccupazione e secondo i dati del dipartimento
del lavoro, ad aprile 2020 erano già 10 milioni i lavoratori che avevano richiesto i sussidi di disoccupazione.
In tale situazione, la Fed ha un ruolo centrale per due motivi: perché parte del mandato della Fed è appunto
di contrastare le recessioni, e secondo perché possiede lo strumento migliore per farlo, il tasso di interesse.
Se diminuisce il tasso di interesse, stimola la domanda, aumenta la produzione e riduce la disoccupazione.
Con l’arrivo della pandemia la Fed ha fatto ciò che fece all’inizio della crisi finanziaria, ovvero ha riportato i
tassi di interesse a zero. Il motivo per il quale si è fermata a zero deriva dal fatto che i tassi d’interesse non
possono assumere valore negativo in quanto se lo facessero nessuno vorrebbe tenere titoli obbligazionari
bensì tutti vorrebbero avere banconote, dato che comunque esse pagano un tasso di interesse pari a zero.
Questo limite nella capacità di una banca centrale di fissare tassi di interesse sotto lo zero è conosciuto in
macroeconomia come lo «z ero lower bound», e la Fed lo raggiunse per la prima volta nel dicembre 2008.
Ora che il tasso d’interesse è aumentato, lo zero lower bound è ancora un problema per il fatto che il tasso
di interesse è ancora molto basso rispetto al suo livello medio del passato e questo significa che la Fed ha
poco margine per ridurlo: può abbassarlo solo di circa il 2%, non molto per avere un effetto sulla domanda.
A marzo 2020 la Fed ha portato il tasso d’interesse a zero ma non è stato sufficiente a evitare la recessione.
Come abbiamo appena visto, nel breve periodo quello che succede all’economia dipende dall’andamento
della domanda e dalle decisioni della banca centrale. Nel lungo periodo, la crescita economica è guidata da
altri fattori, primo fra tutti la crescita della produttività: senza crescita della produttività, nel lungo periodo,
un miglioramento del reddito pro-capite sarebbe impensabile.
Secondo alcuni economisti, gli Stati Uniti sono entrati in un periodo di bassa crescita della produttività e
che il progresso economico dei prossimi anni sarà meno veloce che in passato, almeno per qualche tempo.
Una fonte di preoccupazione è che tale rallentamento della crescita della produttività si sta verificando in
un contesto di crescente disuguaglianza: se la crescita della produttività è abbastanza sostenuta, molti ne
beneficiano e, anche se la disuguaglianza aumenta, tutti beneficiano di un miglioramento del tenore di vita.
Non così però quando la produttività non cresce, o cresce di meno. Siamo quindi entrati in un mondo in cui
l’aumento della disuguaglianza si accompagna ad una riduzione del tenore di vita dei lavoratori con redditi
relativamente più bassi. Questo prima o poi diverrà insostenibile, e di conseguenza o si trova un modo per
far crescere la produttività o si riduce la disuguaglianza, o entrambe le cose.
L’EURO PA

Dell’Unione Europea, sorta negli anni ’50 con 6 paesi fondatori tr a cui l’Italia, ne fanno attualmente parte
27 Stati (fino al 31 gennaio 2020 erano 28 gli Stati dell’UE, data in cui il Regno Unito ha cessato di farne
parte a seguito dell’esito del referendum che ha visto la vittoria dei favorevoli all’uscita dall’UE, c.d. Brexit).
Nel 1999, l’UE decise di compiere un passo ulteriore e cominciò il processo di sostituzione delle varie valute
nazionali con una valuta comune, l’euro. Solo undici paesi aderirono da subito, ma ad oggi è di diciannove
il numero di paesi UE che adottano l’euro come valuta, un gruppo noto come A rea euro oppure Eurozona.
La transizione all’euro è avvenuta in diverse fasi. Il 1° gennaio 1999, ciascuno degli iniziali undici paesi fissò
il valore della propria moneta in termini di euro. Dal 1999 al 2002, i prezzi in ogni paese furono espressi sia
in termini della valuta nazionale che in euro, nonostante quest’ultimo non fosse ancora una moneta fisica
o elettronica utilizzabile nelle transazioni. Il passaggio definitivo all’euro avvenne soltanto nel 2002, quando
le banconote e le monete europee sostituirono definitivamente quelle nazionali.
Il passaggio all’euro è stato senza dubbio uno dei più importanti eventi economici, però alcuni economisti
sono preoccupati che dietro all’importanza simbolica dell’euro si nascondano costi economici: una valuta
comune vuol dire politica monetaria comune, che a sua volta vuol dire stessi tassi d’interesse in tutti i paesi.
Di conseguenza, se un paese si trovasse a fronteggiare in una recessione, mentre un altro si trovasse nel
mezzo di un’espansione economica, il primo avrebbe bisogno di tassi di interesse più bassi per incentivare
il consumo e la produzione, mentre il secondo di tassi di interesse alti per evitare l’inflazione. Nonostante
ciò, l’Eurozona è una formidabile area economica: al tasso di cambio del 3 aprile 2020 (1,08€ per dollaro) la
sua produzione è circa 2/3 di quella degli Stati Uniti ed il tenore di vita al suo interno non è molto inferiore
in quanto l’Unione Europea nel suo complesso ha una produzione pari al 90% di quella degli Stati Uniti.
Come negli Stati Uniti, anche in Europa la crisi del 2008 – 2009 è portato ad un tasso di crescita negativo
ma, mentre gli Stati Uniti si sono ripresi, la crescita europea è rimasta debole fino al 2019. Lo shock causato
dalla pandemia da Covid-19 fa prevedere un tasso di crescita del PIL come non si era mai verificato prima.
Gran parte dell’elevata disoccupazione prima dello shock della pandemia del 2020 era un lascito della crisi
finanziaria del 2008 – 2009. La disoccupazione in Europa durante la crisi ha avuto un’evoluzione simile a
quella negli Stati Uniti e in Giappone anche se dopo il 2010 in Europa c’è stata una seconda ondata causata
dalla crisi dell’euro. Mentre negli Stati Uniti e in Giappone la disoccupazione ha recuperato i livelli precrisi
abbastanza rapidamente, in Europa la discesa della disoccupazione è iniziata soltanto nel 2013 e al giorno
d’oggi continua comunque ad avere un tasso di disoccupazione doppio rispetto a quello degli Stati Uniti.
Alcuni economisti ritengono che il problema principale sia che alcuni paesi europei proteggono in modo
eccessivo i lavoratori: infatti, per evitare che questi perdano il lavoro, hanno introdotto leggi che rendono
costoso per un’impresa licenziare i lavoratori, anche quando il numero di lavoratori eccede il fabbisogno.
Uno degli effetti collaterali di queste politiche di protezione del lavoro è di scoraggiare l’impresa che vuole
assumere nuovi lavoratori (poiché poi faticherà a liberarsene), aumentando così il livello di disoccupazione.
Inoltre, per proteggere coloro che hanno perso il lavoro, i governi europei garantiscono generosi sussidi di
disoccupazione. Questo riduce l’incentivo di coloro che sono disoccupati a cercare un nuovo lavoro e ciò
a sua volta aumenta la disoccupazione. La soluzione, sostengono questi economisti, è di garantire meno
protezione e di adottare istituzioni del mercato del lavoro più simili a quelle degli Stati Uniti.
Altri economisti, invece, sono più scettici: osservano che la disoccupazione è bassa anche in paesi europei
che hanno un elevato grado di protezione del lavoratore e questo suggerisce che i problemi non si celano
nel grado di protezione del lavoratore di per sé, bensì nelle modalità con cui questa viene messa in pratica.
LA C INA
Come tutti sappiamo, la Cina è da sempre considerata una delle maggiori potenze economiche nel mondo.
Nonostante la sua popolazione sia grande più di quattro volte quella degli Stati Uniti, la sua produzione è
ancora circa il 60% di quella statunitense ed il suo reddito pro-capite è circa il 15% di quello negli Stati Uniti.
La prima ragione per la quale la Cina attira così tanta attenzione riguarda il fatto che tanti beni sono più a
buon mercato nei paesi poveri piuttosto che in paesi ricchi: ciò vuol dire che uno stesso stipendio, espresso
in dollari, ha molto più potere d’acquisto in Cina piuttosto che negli Stati Uniti.
La seconda ragione, più importante, è che la Cina è cresciuta molto rapidamente per più di tre decenni e
la crescita è a malapena rallentata durante il 2008 – 2009, mentre la disoccupazione è aumentata di poco.
Ci sono due fattori che hanno permesso questa crescita: il primo fattore è l’elevato tasso di accumulazione
di capitale che in Cina è del 46%: più capitale significa maggiore produttività e quindi maggiore produzione.
Il secondo fattore è il rapido progresso tecnologico: una delle strategie adottate dal governo cinese è stata
di incoraggiare le imprese straniere a localizzare la produzione in Cina. Poiché le imprese straniere sono
tipicamente più produttive di quelle cinesi, permettendo alle imprese cinesi di lavorare e apprendere dalle
imprese straniere, la produttività delle prime è aumentata drasticamente e con essa anche la produzione.

L’ITALIA
La storia macroeconomica italiana può essere divisa in due fasi: la prima fase, negli anni ’50 e ’60 è di rapido
sviluppo e caratterizzata da una sostenuta crescita della produzione. Questo sviluppo è proseguito, anche
se più moderatamente, negli anni ’70 e ’80. La seconda fase abbraccia il periodo che va dalla seconda metà
degli anni ’90 fino ad oggi ed è caratterizzato da una fase di stagnazione durante la quale la crescita della
produttività si è interrotta bruscamente, fino a divenire perfino negativa. Sebbene possano aver aggravato
la situazione, alla base di questo declino non ci sono né l’adozione dell’euro e né la crisi economica recente.
Alcuni economisti sostengono che l’inefficienza della burocrazia e della giustizia civile, unite ad un eccessivo
livello della tassazione, impediscano alle imprese di crescere e di svilupparsi. Altri economisti sostengono
che gli imprenditori italiani non siano stati in grado di cogliere i benefici derivanti dall’adozione delle nuove
tecnologie informatiche, sia per la ridotta dimensione delle imprese italiane rispetto alla media europea e
sia per la bassa alfabetizzazione informatica dei lavoratori adulti italiani. Un’ultima ragione per la quale la
produttività italiana è stata stagnante riguarda il mercato del lavoro: al fine di ridurre la disoccupazione, i
governi italiani hanno introdotto due riforme del mercato del lavoro, cioè il pacchetto Treu e la legge Biagi.
Da un lato, esse contribuirono ad una riduzione del tasso di disoccupazione, però dall’altro contribuirono
a precarizzare il mercato del lavoro, soprattutto nelle fasce giovanili; ciò ha ridotto la produttività del lavoro
poiché posti di lavoro temporanei o occasionali non incentivano le imprese ad investire nella formazione e
nella specializzazione dei dipendenti, rendendo difficile aumentare la loro produttività. Inoltre, i lavoratori
precari potrebbero avere minor incentivo a sforzarsi di incrementare la loro produttività sul posto di lavoro.
Bisogna sottolineare che la crescita economica è necessaria per poter rimborsare l’enorme debito pubblico
accumulato nei decenni passati. Il debito italiano è significativamente più alto della media dell’Eurozona ed
è fortemente aumentato a causa della crisi. Dato che il debito è accumulato nel tempo e rimborsarlo in una
volta non è possibile, deve essere continuamente rifinanziato da investitori, di cui metà sono internazionali:
una stagnazione dell’economia italiana preoccupa tutto il mondo in quanto se gli investitori decidessero di
non rifinanziare il nostro debito, il governo italiano fallirebbe, distruggendo l’economia nazionale.
C APITO LO 2: UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL LIBRO

PIL: PRO DUZ IONE E REDDITO

La misura della produzione aggregata («aggregato» in macroeconomia è sinonimo di «totale») è chiamata


Pr odotto Interno Lordo o in breve PIL. Il PIL può essere considerato sia dal lato della produzione, sia dal
lato del reddito in base a tre modi equivalenti di definire il PIL di un’economia. I modi di definire il PIL sono:
• Il PIL è il valore dei beni finali prodotti nell’economia in un determinato periodo di tempo: la parola chiave
in questa definizione è finali in quanto si considera soltanto la produzione di beni e servizi finali (sia di
consumo che di investimento) e non di beni e servizi intermedi, che sono incorporati nel prodotto finale.
• Il PIL è la somma del valore aggiunto nell’economia in un determinato periodo di tempo: il valore aggiunto
da un’impresa nel processo produttivo viene definito come il valore della sua produzione meno il valore
dei beni intermedi utilizzati nella produzione stessa. Se un’impresa non usa beni intermedi, il suo valore
aggiunto è pari semplicemente alla sua produzione; se un’impresa utilizza beni intermedi nel processo
produttivo, il suo valore aggiunto è pari al valore della produzione meno il valore dei beni inter medi usati.
• Il PIL è la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo: considerando i ricavi che restano
ad un’impresa dopo il pagamento dei beni intermedi, parte di questi è utilizzata per pagare i lavoratori ed
il resto rimane all’impresa. Il PIL può essere espresso anche come reddito da lavoro + reddito da capitale.

PIL NO M INALE, PIL REALE E PIL REALE PRO CAPITE

Il PIL nominale, espresso con €𝑌𝑡, è la somma delle quantità di beni e servizi finali al loro prezzo corrente.
Tale definizione ci suggerisce che il PIL nominale cresce nel tempo per due ragioni: perché la produzione di
beni e servizi cresce nel tempo, e poi perché il prezzo dei beni e dei servizi aumenta anch’esso nel tempo.
Il PIL r eale, espresso come 𝑌𝑡, è la somma delle quantità dei beni e servizi finali valutati a prezzi costanti
mentre il PIL reale pro-capite è rappresentato dal rapporto tra PIL reale e la popolazione di un certo paese.
Per costruire il PIL reale dobbiamo moltiplicare la quantità dei beni e servizi finali prodotti per uno stesso
prezzo: se si modificasse il prezzo di riferimento, il livello del PIL reale in ciascun anno sarebbe diverso ma
il suo tasso di variazione da un anno all’altro resterebbe comunque lo stesso.
Per valutare l’andamento di un’economia da un anno ad un altro quello che gli economisti considerano è
il tasso di crescita del PIL reale, chiamato semplicemente crescita del PIL. Periodi di crescita positiva del PIL
sono chiamati espansioni del PIL mentre periodi di crescita negativa del PIL sono detti recessioni del PIL.
La crescita del PIL nell’anno 𝑡 viene definita come: (𝑌𝑡 − 𝑌𝑡 − 1 )/ 𝑌𝑡 − 1

IL TASSO DI DISO CCUPAZIONE


Il PIL è chiaramente la variabile macroeconomica più importante, poiché misura la produzione aggregata.
Ma altre due variabili, tasso di disoccupazione e tasso di inflazione, rilevano aspetti altrettanto importanti
dell’andamento di un’economia. Per definire il tasso di disoccupazione, partiamo ora da alcune definizioni.
L’occupazione è data dal numero di individui che hanno un’occupazione, mentre la disoccupazione è data
dal numero di individui che non hanno ancora un lavoro, ma che lo stanno cercando. La forza di lavoro 𝐿 è
la somma dei lavoratori occupati 𝑁 e dei lavoratori disoccupati 𝑈 ⇒ 𝐿 = 𝑁 + 𝑈
Il tasso di disoccupazione 𝑢 è dato dal rapporto tra il numero di disoccupati e le forze di lavoro ⇒ 𝑢 = 𝑈/ 𝐿
Si noti che solo chi è in cerca di un lavoro è considerato disoccupato: coloro che invece non lavorano ma
non stanno neanche cercando un lavoro, sono considerati fuori dalla forza di lavoro e non rientrano nella
definizione di disoccupazione. Queste persone sono dette lavoratori scoraggiati oppure individui inattivi.
In pratica, quando l’economia rallenta, si tende ad osservare sia un aumento della disoccupazione, sia un
aumento del numero di persone che escono dalla forza di lavoro e diventano individui inattivi. Allo stesso
modo, un aumento del tasso di disoccupazione è solitamente associato ad una diminuzione del tasso di
partecipazione, definito come il rapporto tra la forza di lavoro e il totale della popolazione in età lavorativa.
IL TASSO DI INF LAZIONE

L’inflazione è un aumento del livello dei prezzi, mentre la deflazione è una riduzione del livello dei prezzi.
Il tasso di inflazione è il tasso al quale il livello dei prezzi aumenta nel corso tempo; esso può assumere un
valore negativo se il livello dei prezzi diminuisce nel tempo, cioè quando l’economia si trova in deflazione.
I macroeconomisti usano due indici del livello dei prezzi: il deflatore del PIL e l’indice dei prezzi al consumo.

IL DEF LATO RE DEL PIL E L’INDICE DEI PREZZI AL C ONSU MO


Il deflatore del PIL rappresenta il prezzo medio dei beni prodotti nell’economia ed è dato dal rapporto tra
il PIL nominale ed il PIL reale in un certo anno: 𝑃𝑡 = €𝑌𝑡 /𝑌𝑡. Il tasso di variazione del deflatore del PIL indica
il tasso al quale il livello dei prezzi cresce nel tempo, cioè indica il tasso di inflazione: 𝜋 = (𝑃𝑡 − 𝑃𝑡−1 )/𝑃𝑡−1 .
Un vantaggio che deriva dal definire il livello dei prezzi in termini di deflatore del PIL è che tale definizione
implica una semplice relazione tra PIL nominale, PIL reale e il deflatore del PIL. Infatti, riordinando i termini
dell’equazione 𝑃𝑡 = €𝑌𝑡 /𝑌𝑡 otteniamo €𝑌𝑡 = 𝑃𝑡 𝑌𝑡: il PIL nominale è pari al PIL reale per il deflatore del PIL.
L’indice dei prezzi al consumo rappresenta invece il prezzo medio dei beni consumati in un’economia ed
anche in questo caso il tasso di variazione dell’indice dei prezzi al consumo rappresenta il tasso di inflazione.

PIL, DISO C C UPAZ IONE E TASSO DI INFLAZIONE: LA LEG GE DI O KUN E LA C URVA DI PH ILLIPS

La crescita della produzione, tasso di disoccupazione e tasso di inflazione non sono indipendenti tra loro,
ma ci sono due importanti relazioni che intercorrono tra di esse, cioè la legge di Okun e la curva di Phillips.
La legge di Okun esprime la relazione esistente tra la crescita della produzione e il tasso di disoccupazione:
un’elevata crescita della produzione conduce normalmente a una diminuzione del tasso di disoccupazione.
Questa è la ragione per la quale la disoccupazione aumenta durante le recessioni e al contrario diminuisce
durante le espansioni, e questo ha una semplice ma importante con seguenza: il modo migliore per ridurre
la disoccupazione è quello di mantenere un elevato tasso di crescita della produzione.
La curva di Phillips rappresenta la relazione esistente tra il tasso di disoccupazione ed il tasso di inflazione:
una riduzione del tasso di disoccupazione conduce normalmente ad un incremento del tasso di inflazione.

BREVE, M EDIO E LUNGO PERIODO

I macroeconomisti distinguono tre orizzonti temporali diversi: breve periodo, medio e infine lungo periodo.
• Nel br eve periodo, cioè nell’arco di qualche anno, il livello della produzione è determinato dalla domanda.
Dunque, le variazioni annuali della produzione sono dovute soprattutto alle variazioni della domanda: le
variazioni della domanda possono derivare da cambiamenti nella fiducia dei consumatori o da altri fattori
e possono portare ad una diminuzione della produzione (recessione) o a un suo aumento (espansione).
• Nel medio periodo, cioè nell’arco di un decennio, il livello della produzione è determinato da fattori che
riguardano l’offerta: lo stock di capitale, il livello della tecnologia, la dimensione delle forze di lavoro ecc.
Dato che questi fattori non cambiano significativamente in un decennio, possono essere presi come dati.
• Nel lungo periodo, cioè nell’arco di qualche decennio o di più, il livello della produzione è determinato da
fattori come l’istruzione, la ricerca, il risparmio e la qualità del governo.
C APITO LO 3: IL M ERC ATO DEI BENI

LA SC O M POSIZIONE DEL PIL

1) La prima componente del PIL è il consumo (𝐶): si tratta dei beni e dei servizi acquistati dai consumatori.
Possiamo considerarlo la componente più importante che nel 2018 rappresentava il 60% del PIL in Italia.
2) La seconda componente del PIL è l’investimento fisso (𝐼), così detto per distinguerlo dall’investimento
in scorte; esso è la somma di investimento non residenziale, cioè l’acquisto di nuovi impianti o macchinari
da parte delle imprese, e investimento residenziale, cioè l’acquisto di nuove case da parte degli individui.
3) La terza componente del PIL è la spesa pubblica in beni e servizi (𝐺): si tratta di beni e servizi acquistati
dallo Stato e dagli enti pubblici ed include sia la spesa per i consumi, sia quella per investimenti pubblici.
La spesa pubblica non include né i trasferimenti – come le pensioni – né gli interessi sul debito pubblico,
perché nonostante sono chiaramente spese dello Stato non riguardano acquisti di beni oppure di servizi.
4) La quarta componente del PIL sono le esportazioni nette (𝑁𝑋) o saldo commerciale, che rappresentano
la differenza tra le esportazioni e le importazioni. Se le esportazioni sono maggiori delle importazioni, il
saldo commerciale è positivo e il paese registra un avanzo commerciale. Invece, se le esportazioni sono
minori delle importazioni, il saldo commerciale è negativo e il paese registra un disavanzo commerciale.
Le esportazioni (𝑋) sono i beni e servizi nazionali acquistati dal resto del mondo e le importazioni (𝐼𝑀)
sono i beni e servizi acquistati dall’estero da parte di consumatori, delle imprese e del governo nazionali.
5) La quinta componente del PIL è infine l’investimento in scorte (𝐼𝑆): esso rappresenta la differenza tra i
beni prodotti e i beni venduti in un determinato anno, ovvero la differenza tra la produzione e le vendite.
Dunque, se la produzione eccede le vendite, le scorte aumentano e l’investimento in scorte è positivo;
se invece la produzione è inferiore alle vendite, le scorte si riducono e l’investimento in scorte è negativo.

LA DO M ANDA DI BENI

Usando la scomposizione del PIL, la domanda aggregata di beni (𝑍) è data da: 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 – 𝐼𝑀.
Questa equazione indica un’identità in quanto è scritta col simbolo ≡ al posto del simbolo di uguaglianza,
e definisce la domanda 𝑍 come la somma di consumo, investimento, spesa pubblica ed esportazioni nette.
Per comprendere più semplicemente i fattori che determinano 𝑍 introduciamo ora alcune semplificazioni:
• Le imprese producono uno stesso bene che può essere usato indifferentemente dai consumatori come
un bene di consumo, dalle imprese come bene di investimento oppure dal governo come spesa pubblica.
• Le imprese forniscono qualsiasi quantità del bene ad un determinato prezzo, 𝑃. Questa ipotesi vale solo
nel breve periodo e permette di concentrarci esclusivamente sul ruolo della domanda.
• L’economia è chiusa, cioè non avvengono scambi con il resto del mondo: di conseguenza, le esportazioni
e le importazioni sono uguali a zero. Nell’ipotesi che la nostra economia sia chiusa, ovvero 𝑋 = 𝐼𝑀 = 0,
la domanda di beni è data dalla somma di consumo, investimento e spesa pubblica, cioè: 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺.

IL C O NSUMO (C )
Le decisioni di consumo dipendono da molti fattori, primo fra tutti il reddito disponibile (𝑌𝐷) che indica ciò
che rimane del reddito percepito dopo aver ricevuto i trasferimenti dal governo e aver pagato le imposte.
Quando il reddito disponibile aumenta, le persone comprano di più e dunque aumentano anche i consumi;
al contrario, quando il reddito disponibile diminuisce anche i consumi si riducono. Possiamo quindi scrivere:

Si tratta di un modo formale per affermare che il consumo è funzione del reddito disponibile: la funzione
𝐶(𝑌𝐷 ) è chiamata fun zione del consumo. Il segno positivo al di sotto di 𝑌𝐷 indica che il reddito disponibile
ha un effetto positivo sul consumo in quanto se il reddito disponibile aumenta anche il consumo aumenta.
La funzione del consumo è una relazione lineare, caratterizzata da due parametri, 𝑐0 e 𝑐1: 𝐶 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌𝐷 ).
• il parametro 𝑐1 è chiamato propensione al consumo o anche propensione marginale al consumo: questo
parametro esprime l’effetto che ha un euro aggiuntivo di reddito disponibile sul consumo.
𝑐1 è sempre positivo in quanto un aumento del reddito disponibile fa aumentare il consumo, ma è anche
minore di 1 poiché l’aumento del consumo è meno che proporzionale all’aumento del reddito disponibile:
questo accade perché gli individui risparmiano anche una parte dell’aumento del loro reddito disponibile.
• il parametro 𝑐0 è detto consumo autonomo e rappresenta il livello del consumo in corrispondenza di un
reddito disponibile pari a zero; anche 𝑐0 è sempre positivo poiché anche se il reddito disponibile è nullo,
il consumo sarebbe comunque positivo: gli individui, con o senza reddito, devono pur consumare i beni
di prima necessità e possono farlo utilizzando i loro risparmi oppure indebitandosi.

La figura rappresenta graficamente la funzione del consumo, la


quale indica la relazione tra il consumo e il reddito disponibile.
Dato che è una relazione lineare, essa è rappresentata da una
linea retta: 𝑐0 è l’intercetta verticale mentre 𝑐1 è la pendenza.
Il reddito disponibile è dato dalla differenza tra il reddito 𝑌e le
imposte pagate al netto dei trasferimenti ricevuti dal governo:
𝑌𝐷 ≡ 𝑌 − 𝑇 e di conseguenza il consumo 𝐶 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇).
L’equazione dice che il consumo è funzione del reddito e delle
imposte: un aumento del reddito fa aumentare il consumo e,
al contrario, un incremento delle imposte fa ridurre il consumo.

INVESTIM ENTO (I) E SPESA PUBBLIC A (G )


Nei modelli economici troviamo due tipi di variabili: le variabili endogene, che sono determinate all’interno
del modello, e le variabili esogene, che sono determinate all’esterno del modello e sono prese come date.
Nel nostro modello l’investimento sarà considerato una variabile esogena 𝐼 = 𝐼̅ : la barretta al di sopra della
variabile è una convenzione che ci ricorda che essa è esogena al modello.
Insieme alle imposte, la spesa pubblica 𝐺 descrive la politica fiscale del governo, ovvero le scelte relative
alle entrate e alle uscite del settore pubblico. Così come l’investimento, anche 𝐺 e 𝑇 sono variabili esogene.

LA DETERM INAZIONE DELLA PRODUZ IONE DI EQUILIBRIO


Ipotizzando che esportazioni e importazioni siano entrambe nulle, la domanda di beni è data dalla somma
di consumo, investimento e spesa pubblica: 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺.
Sostituendo consumo e investimento con le loro espressioni otteniamo che: 𝑍 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 ̅ + 𝐺:
la domanda di beni 𝑍 dipende dal reddito 𝑌, dalle imposte 𝑇, dall’investimento 𝐼 e dalla spesa pubblica 𝐺.
In assenza di investimento in scorte, l’equilibrio nel mercato dei beni richiede che la produzione sia uguale
alla domanda, ottenendo l’equazione di equilibrio 𝑌 = 𝑍 ⇒ 𝑌 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 ̅ + 𝐺.
In equilibrio, la produzione Y è uguale alla domanda e a sua volta la domanda dipende dal reddito Y, che è
uguale alla produzione. Notiamo come usiamo lo stesso simbolo 𝑌 sia per la produzione che per il reddito:
come abbiamo visto, sono due modi diversi di guardare al PIL (dal lato sia della produzione che del reddito).

ATTRAVERSO L’ALGEBRA
Riscriviamo l’equazione di equilibrio come 𝑌 = 𝑐0 + 𝑐1 𝑌 − 𝑐1 𝑇 + 𝐼 ̅ + 𝐺 e spostiamo sul lato sinistro 𝑐1 𝑌
ottenendo: 𝑌 − 𝑐1 𝑌 = 𝑐0 − 𝑐1 𝑇 + 𝐼̅ + 𝐺. Raccogliendo ora la 𝑌 otteniamo: 𝑌(1 − 𝑐1 ) = 𝑐0 + 𝐼̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇.
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per (1 − 𝑐1 ) otteniamo la produzione
di equilibrio, ovvero il livello della produzione che eguaglia la domanda come:
• Il termine (𝑐0 + 𝐼 ̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇) rappresenta la spesa autonoma, indipendente dal livello di produzione.
• Il termine 1⁄1 − 𝑐1 è il moltiplicatore; moltiplica l’effetto della spesa autonoma e misura la percentuale
di aumento della produzione aggregata in rapporto all’aumento di una o più variabili domanda aggregata.
C O N I G RAF ICI
La figura rappresenta graficamente l’equilibrio nel mercato dei beni, che
rappresenta la relazione tra produzione e domanda.
La relazione tra produzione e reddito è rappresentata dalla retta a 45°
con pendenza pari a 1 in quanto le due grandezze coincidono sempre.
La relazione tra domanda e reddito è rappresentata dalla retta 𝑍𝑍, di
cui l’intercetta sull’asse verticale rappresenta la spesa autonoma 𝑐0 e la
pendenza della retta rappresenta la propensione al consumo 𝑐1.
La produzione di equilibrio si trova nel punto 𝐴, ossia nel punto in cui la
produzione è uguale alla domanda 𝑌 = 𝑍 (alla sinistra di 𝐴, la domanda
eccede la produzione, a destra di 𝐴 la produzione eccede la domanda).

Supponiamo ora che 𝑐0 aumenti di un miliardo di euro, e che la curva di


domanda si sposta verso l’alto di una misura pari a un miliardo di euro.
Il nuovo equilibrio è dato dall’intersezione tra la retta a 45° e la nuova
curva di domanda 𝑍𝑍 ′ , ovvero nel punto 𝐴′ . La produzione di equilibrio
è aumenta da 𝑌 a 𝑌 ′ , ma questo aumento della produzione è maggiore
di un miliardo di euro di una misura pari al moltiplicatore.
L’incremento iniziale di 𝑐0 fa aumentare la domanda di un miliardo di
euro e la domanda è ora data dal punto 𝐵. Per soddisfare questo livello
di domanda, le imprese aumentano la produzione di un miliardo di euro.
Questo aumento della produzione porterà a un aumento di pari valore
del reddito, spostando l’economia nel punto 𝐶.
L’aumento di reddito induce ad un ulteriore aumento della domanda, che muove l’economia nel punto 𝐷.
Nel punto 𝐷, a sua volta, la produzione aumenta e di conseguenza anche il reddito e così via finché non si
raggiunge il punto 𝐴′ , ovvero il nuovo punto di equilibrio in cui produzione e domanda sono di nuovo uguali.

A PARO LE
La produzione dipende dalla domanda, che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione.
Un incremento della domanda fa aumentare la produzione ed il reddito. L’aumento del reddito a sua volta
fa aumentare nuovamente la domanda e di conseguenza la produzione, e così via fino al nuovo equilibrio.
Quindi, un cambiamento iniziale nella domanda dà il via ad un processo di aggiustamento d ella produzione
e della domanda attraverso il quale si giunge ad un nuovo livello di produzione di equilibrio.
Il risultato è un aumento della produzione di equilibrio, superiore all’incremento iniziale della domanda di
un fattore pari al moltiplicatore: possiamo dire che un aumento della spesa autonoma ha un effetto più
che proporzionale sulla produzione di equilibrio ⇒ effetto del moltiplicatore.

Fino ad ora abbiamo ipotizzato che l’aggiustamento della produzione alla domanda sia istantaneo però in
realtà quella che gli economisti chiamano dinamica dell’aggiustamento non è così istantanea:
• Supponiamo che le imprese scelgano il loro livello di produzione all’inizio di ciascun trimestre e che nel
corso di quel trimestre la produzione non può essere modificata. Se la domanda supererà la produzione,
le imprese ridurranno le scorte per soddisfare la maggiore domanda.
• Supponiamo ora che i consumatori decidano di spendere di più, cioè di aumentare 𝑐0: nel trimestre in cui
ciò accade, la domanda aumenterà ma la produzione non cambierà e di conseguenza neanche il reddito.
• Inizialmente le imprese potranno soddisfare l’incremento di domanda solamente attingendo alle scorte
accumulate per poi fissare nel trimestre successivo un maggior livello di produzione, che si tradurrà in un
aumento di pari valore del reddito e di conseguenza in un ulteriore incremento di domanda.
• Dunque, la produzione non raggiunge subito il nuovo equilibrio ma aumenta progressivamente da 𝑌 a 𝑌 ′
INVESTIM ENTO = RISPARMIO
Un modo alternativo di definire l’equilibrio nel mercato dei beni è attraverso l’uguaglianza tra investimento
e risparmio aggregato, che è dato dalla somma di risparmio privato e risparmio pubblico.
Il risparmio privato (𝑆) è dato dalla differenza tra il reddito disponibile ed il consumo, cioè 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝐶.
Il risparmio pubblico è uguale al gettito delle imposte al netto dei trasferimenti, meno la spesa pubblica,
ossia 𝑇 − 𝐺: se le imposte eccedono la spesa pubblica, il governo ha un avanzo di bilancio ed il risparmio
pubblico è positivo, al contrario se le imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo
di bilancio ed il risparmio pubblico è negativo.
Secondo l’equazione di equilibrio nel mercato dei beni, la produzione deve essere uguale alla domanda che
è data dalla somma di consumo, investimento e spesa pubblica: 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺.
Sottraendo le imposte da entrambi i lati e spostando il consumo sulla sinistra si ha 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇:
dove 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 rappresenta il risparmio privato, per cui otteniamo: 𝑆 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇 ⇒ 𝐼 = 𝑆 + (𝑇 − 𝐺).
Il lato sinistro rappresenta l’investimento e il lato destro il risparmio aggregato, che è dato dalla somma di
risparmio privato e risparmio pubblico. L’equazione ci suggerisce un altro modo di considerare l’equilibrio
nel mercato dei beni cioè: affinché il mercato sia in equilibrio l’investimento deve essere uguale al risparmio.
Possiamo notare come le decisioni di consumo e di risparmio sono due facce della stessa medaglia: dato un
reddito disponibile, una volta deciso il consumo, il risparmio viene determinato per differenza e viceversa.
Sappiamo che il risparmio privato è dato da 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 ⇒ 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝑐0 − 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) e riordinando
i termini otteniamo 𝑆 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇), dove (1 − 𝑐1 ) è la propensione marginale al risparmio che
ci indica quanto viene risparmiato dato un incremento unitario di reddito.
In equilibrio, l’investimento è uguale al risparmio aggregato, cioè: 𝐼 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇) + (𝑇 − 𝐺 ).
Risolvendo per la produzione otteniamo nuovamente 𝑌 = 1⁄1 − 𝑐1 (𝑐0 + 𝐼̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇).

IL PARADO SSO DEL RISPARMIO

Supponiamo che, per un dato livello di reddito disponibile, i consumatori decidano di risparmiare di più. In
altre parole, supponiamo che i consumatori riducano 𝑐0 aumentando in tal modo il risparmio autonomo.
Che cosa succede alla produzione e al risparmio? La produzione di equilibrio chiaramente scenderà poiché
quando gli individui aumentano il risparmio, vuol dire che stanno diminuendo il consumo e di conseguenza
si riduce la domanda e con essa anche la produzione. La produzione diminuisce più di quanto aumentino i
risparmi, per effetto del moltiplicatore e tale riduzione, a sua volta, fa diminuire anche il reddito.
L’effetto sui risparmi totali è nullo e di conseguenza avremo un calo della produzione a risparmi invariati.
Questa combinazione di risultati è nota come Paradosso del risparmio, ossia quel fenomeno che consiste
nel fatto che anche se gli individui decidessero di risparmiare di più, in corrispondenza di un certo livello di
reddito, quest’ultimo si riduce in misura tale da lasciare il risparmio invariato.
C APITO LO 4: I M ERCATI F INANZIARI

LA DO M ANDA DI M ONETA

• La moneta può essere usata nelle transazioni, ma non paga alcun interesse. Ci sono due tipi di moneta:
la moneta circolante, cioè la moneta metallica e cartacea e i depositi di conto corrente a fronte dei quali
è possibile emettere assegni o utilizzare una carta di credito o di debito.
• I titoli pagano un tasso di interesse positivo (𝑖) ma non possono essere usati per compiere le transazioni.

La decisione di tenere moneta o titoli dipende dal livello delle transazioni e dal tasso di interesse sui titoli.
Indichiamo l’ammontare di moneta che le persone vogliono tenere, ossia la loro la domanda di moneta con
𝑀𝑑 dove 𝑑 sta per domanda. La domanda di moneta di un’economia è la somma di tutte le domande di
moneta individuali, provenienti da imprese e individui.
Quindi, la domanda di moneta 𝑀𝑑 dipende dal livello totale delle transazioni nell’economia e dal tasso di
interesse che pagano i titoli. Il livello totale delle transazioni è difficile da misurare, ma possiamo assumere
che sia più o meno proporzionale al reddito nominale: se il reddito nominale aumenta ad esempio del 10%
è ragionevole supporre che l’ammontare delle transazioni nell’economia aumenti anch’esso di circa il 10%
Possiamo scrivere la relazione tra la domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse ottenendo:

Questa equazione ci dice che la domanda di moneta 𝑀𝑑 è uguale al reddito nominale €𝑌 moltiplicato per
una funzione decrescente del tasso di interesse, indicata con 𝐿(𝑖) . Il segno negativo sotto ad 𝑖 indica che il
tasso di interesse ha un effetto negativo sulla domanda di moneta: un aumento del tasso di interesse riduce
la domanda poiché gli individui preferiranno avere più titoli che ora pagano un più elevato tasso di interesse.
In conclusione, possiamo dire che: in primo luogo la domanda di moneta aumenta proporzionalmente al
reddito nominale e in secondo luogo, la domanda di moneta dipende negativamente dal tasso di interesse.

La figura rappresenta la relazione esistente tra la domanda di moneta,


reddito nominale e tasso di interesse. Il tasso di interesse 𝑖 è misurato
sull’asse verticale e la moneta 𝑀 è misurata sull’asse orizzontale.
La relazione tra domanda di moneta e tasso di interesse, per un dato
livello di reddito nominale €𝑌, è rappresentata dalla curva 𝑀𝑑 : essa ha
un’inclinazione negativa poiché minore è il tasso di interesse, maggiore
sarà la quantità di moneta che le persone vogliono detenere.
Un aumento del reddito nominale sposta la curva di domanda verso
destra, da 𝑀𝑑 a 𝑀𝑑′ : ad esempio, al tasso di interesse 𝑖, un aumento
del reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta da 𝑀 a 𝑀′.

LA DETERM INAZIONE DEL TASSO DI INTERESSE (I)


Supponiamo che la banca centrale decida di offrire un ammontare di
moneta pari a 𝑀, cosicché 𝑀𝑠 = 𝑀 dove l’apice 𝑠 sta per offerta.
L’equilibrio nei mercati finanziari implica che l’offerta di moneta sia pari
alla domanda di moneta, cioè che 𝑀𝑠 = 𝑀𝑑 ⇒ 𝑀 = €𝑌 𝐿(𝑖).
L’equazione ci dice che il tasso di interesse 𝑖 deve essere tale da indurre
gli individui a tenere una quantità di moneta pari all’offerta di moneta.
Il tasso di interesse di equilibrio è quello che eguaglia offerta di moneta
(che non è funzione del tasso di interesse) e domanda di moneta (che
è funzione del tasso di interesse). Nella figura l’equilibrio è nel punto 𝐴.
EF F ETTI DI UN AUMENTO DEL REDDITO NOMINALE SUL TASSO DI INTERESSE
La figura mostra l’effetto di un aumento del reddito nominale sul tasso
di interesse: un aumento del reddito nominale da €𝑌 a €𝑌′ fa spostare
la curva di domanda di moneta verso destra, da 𝑀𝑑 a 𝑀𝑑′ . L’equilibrio
si sposta da 𝐴 a 𝐴′ e il tasso di interesse di equilibrio aumenta da 𝑖 a 𝑖′.
Un incremento del reddito nominale fa aumentare il tasso di interesse.
Questo accade perché in corrispondenza del tasso d’interesse iniziale,
la domanda di moneta è più alta dell’offerta di moneta. Dunque, al fine
di indurre le persone a detenere una quantità inferiore di moneta per
ristabilire così l’equilibrio, è necessario che il tasso d’interesse aumenti.

EF F ETTI DI UN AUMENTO DELL’OFFERTA DI MONETA SUL TASSO DI INTERESSE


Guardiamo ora l’effetto di un aumento dell’offerta di moneta sul tasso
d’interesse: un aumento dell’offerta di moneta da 𝑀 a 𝑀′ fa spostare
la curva di offerta verso destra, cioè da 𝑀𝑠 a 𝑀𝑠′ . L’equilibrio si sposta
dal punto 𝐴 a 𝐴′ e il tasso di interesse di equilibrio diminuisce da 𝑖 a 𝑖′.
Un incremento dell’offerta di moneta fa diminuire il tasso di interesse:
la riduzione del tasso di interesse fa aumentare a sua volta la domanda
di moneta, in modo da eguagliare la nuova offerta di moneta e tornare
di nuovo ad un equilibrio. Dunque, possiamo dire che la banca centrale
può influenzare il tasso di interesse, modificando l’offerta di moneta.

PO LITIC A M ONETARIA E O PERAZIONI DI M ERC ATO APERTO

La banca centrale normalmente modifica l’offerta di moneta attraverso le operazioni di mercato aperto
che consistono in acquisti o vendite di titoli in cambio di moneta: se la banca centrale desidera aumentare
l’offerta di moneta, compra dei titoli e li paga immettendo nuova moneta nel sistema; al contrario se vuole
diminuire l’offerta di moneta, vende titoli e rimuove dalla circolazione la moneta che riceve in pagamento.
Le operazioni di mercato aperto tramite le quali la banca centrale aumenta l’offerta d i moneta acquistando
titoli sono dette intervento espansivo di mercato aperto e portano ad un aumento del prezzo dei titoli e a
una riduzione del tasso di interesse. Le operazioni di mercato aperto attraverso le quali la banca centrale
riduce l’offerta di moneta vendendo titoli sono dette intervento restrittivo di mercato aperto e portano ad
una riduzione del prezzo dei titoli e a un aumento del tasso di interesse.

PREZ Z O E RENDIMENTO DEI TITOLI


Fino ad ora ci siamo concentrati sul tasso di interesse pagato dai titoli ma in realtà, nel mercato dei titoli
si determina non il tasso di interesse, bensì il prezzo dei titoli. Queste due variabili però sono direttamente
collegate ed esiste sempre una relazione tra il prezzo di un titolo ed il suo tasso di interesse.
Supponiamo che i titoli nella nostra economia abbiamo durata annuale, che non paghino alcuna cedola, che
garantiscano il rimborso di 100€ dopo un anno e che il loro prezzo corrente sia €𝑃𝑇 dove 𝑇 sta per titolo.
Supponiamo che vengono corrisposte cedole periodiche, dunque in questo caso gli interessi percepiti sono
impliciti e corrispondono alla differenza tra il valore rimborsato a scadenza e il prezzo d’acquisto corrente.
Il tasso di interesse 𝑖 è dato dal rapporto tra gli interessi percepiti ed il prezzo corrente del titolo, ovvero:
€100 − €𝑃𝑇 L’equazione ci dice che quanto maggiore è il prezzo del titolo, tanto minore sarà il tasso
𝑖=
€𝑃𝑇 di interesse pagato dal titolo stesso.
Se conosciamo il tasso di interesse, tramite la stessa formula possiamo risalire al prezzo del titolo €𝑃𝑇 .
L’equazione ci dice che se il tasso di interesse è positivo, il prezzo del titolo sarà inferiore al €100
€𝑃𝑇 =
valore di rimborso: quanto più alto è il tasso di interesse, tanto minore sarà il prezzo del titolo. 1+𝑖
C O NTROLLARE L’OFFERTA DI M ONETA O IL TASSO DI INTERESSE?
Il modello presentato finora ipotizza che la banca centrale scelga l’offerta di moneta e lasci che il tasso di
interesse sia determinato dall’uguaglianza tra domanda di moneta e offerta di moneta. Alternativamente,
avremmo potuto immaginare che la banca centrale scelga il tasso di interesse e aggiusti di conseguenza
l’offerta di moneta in modo tale da raggiungere quel tasso di interesse pre scelto.
Nella realtà, questa è proprio la modalità con la quale le banche centrali moderne generalmente agiscono:
prima decidono il tasso di interesse obiettivo e poi aggiustano l’offerta di moneta al fine di raggiungerlo.
Questo è il motivo per cui solitamente i notiziari non dichiarano “la banca centrale ha deciso di aumentare
l’offerta di moneta” ma piuttosto affermano che “la banca centrale ha deciso di tagliare i tassi di interesse”.

LA DETEM INAZ IONE DEL TASSO DI INTERESSE (II)


Nel paragrafo I nel determinare il tasso di interesse, abbiamo ipotizzato che tutta la moneta presente nella
nostra economia fosse costituita da moneta circolante fornita dalla banca centrale.
In realtà però la moneta non include soltanto circolante, ma anche depositi di conto corrente che possono
essere usati per effettuare transazioni direttamente emettendo assegni o indirettamente usando una carta
di credito o di debito. I depositi di conto corrente non sono emessi dalla banca centrale, ma dalle banche.

C H E C O SA F ANNO LE BANCHE?
Le economie moderne sono caratterizzate dall’esistenza di molti tipi di intermediari finanziari: istituzioni
che ricevono fondi dagli individui e dalle imprese e li usano per concedere prestiti e acquistare titoli.
Le banche sono una particolare tipologia di intermediari finanziari: ricevono fondi da individui ed imprese
che li depositano direttamente o li trasferiscono tramite bonifici o assegni. In qualsiasi momento, individui
e le imprese possono emettere assegni o prelevare fino all’ammontare del loro saldo di conto corrente.
Quindi, le passività delle banche sono moneta e sono pari al valore totale tot. dei depositi di conto corrente.
Le banche tengono parte dei fondi ricevuti sotto forma di riserve presso la banca centrale, per tre ragioni:
• ogni giorno, alcuni prelevano dai propri conti correnti mentre altri versano sui propri conti correnti. Le
entrate e le uscite potrebbero non essere uguali per cui la banca deve tenere a disposizione del contante.
• allo stesso modo, ogni giorno, i correntisti di una banca emettono assegni a favore di correntisti di altre
banche e viceversa. In seguito a queste transazioni, quanto una banca deve alle altre banche potrebbe
essere maggiore di quanto deve ricevere dalle stesse: anche per questo ha bisogno di tenere riserve.
• le prime due motivazioni spiegano perché le banche tengono delle riserve anche se non obbligate a farlo.
Esistono poi riserve obbligatorie, proporzionali ai depositi di conto corrente e calcolate moltiplicando le
passività della banca per un’aliquota di riserva obbligatoria, fissata dalla banca centrale.
Inoltre, con i fondi in deposito concedono prestiti e acquistano titoli: i prestiti rappresentano il 70% delle
attività bancarie diverse dalle riserve mentre i titoli rappresentano il restante 30%.

O F F ERTA E DO MANDA DI M ONETA DELLA BANCA C ENTRALE


La domanda di moneta della banca centrale ha ora due componenti: la prima è la domanda di circolante
da parte degli individui e la seconda è la domanda di riserve da parte delle banche.
Per semplificare, assumeremo che gli individui vogliano detenere moneta soltanto sotto forma di depositi
di conto corrente e non di circolante. In questo caso, la domanda di moneta emessa dalla banca centrale
coincide con la domanda di riserve da parte delle banche.
Sotto l’ipotesi che non detengano circolante, la domanda di moneta da parte degli individui coincide con
la domanda di depositi di conto corrente. Possiamo scrivere la domanda di depositi di conto corrente come:
L’equazione dice che la domanda di depositi aumenta proporzionalmente al reddito
nominale e dipende negativamente dal tasso di interesse: un aumento del tasso di
interesse riduce la domanda di depositi poiché gli individui preferiranno avere più titoli.
Maggiori sono i depositi di conto corrente, maggiore è l’ammontare di riserve che le banche devono tenere
sia per motivi discrezionali che per via dei vincoli sulle riserve obbligatorie. Chiamiamo 𝜃 il coefficiente di
riserva, cioè l’ammontare di riserve che le banche detengono per ogni euro di depositi in conto corrente.
Quindi la domanda di moneta della banca centrale 𝐻 𝑑 , che equivale alla domanda di riserve da parte delle
banche, è data da 𝜃 moltiplicato per la domanda di depositi di conto corrente da parte degli individui, cioè:

L’offerta di moneta della banca centrale (𝐻) è sotto il controllo diretto della banca centrale stessa, che può
modificare l’offerta di moneta attraverso le operazioni di mercato aperto, sia espansive che restrittive.
La condizione di equilibrio è data dall’uguaglianza tra offerta di moneta
della banca centrale e domanda di moneta della banca centrale, ovvero:
La figura rappresenta graficamente la condizione di equilibrio: la moneta emessa dalla banca centrale 𝐻
è misurata sull’asse orizzontale e il tasso di interesse 𝑖 sull’asse verticale.
La domanda di moneta della banca centrale 𝐻 𝑑 è tracciata per un dato
livello di reddito nominale. Un tasso di interesse più elevato implica una
minore domanda di moneta della banca centrale poiché la domanda di
depositi in conto corrente da parte delle persone, e quindi la domanda di
riserve da parte delle banche, si riduce se i tassi d’interesse aumentano.
L’offerta di moneta della banca centrale è fissa ed è rappresentata dalla
linea verticale in 𝐻. L’equilibrio è nel punto 𝐴, con un tasso di interesse 𝑖.
Un aumento dell’offerta di moneta della banca centrale fa ridurre il tasso
di interesse, al contrario una riduzione dell’offerta di moneta della banca
centrale fa aumentare il tasso di interesse.

LA TRAPPO LA DELLA LIQUIDITÀ

La conclusione principale che abbiamo tratto è che la banca centrale, scegliendo opportunamente l’offerta
di moneta, è sempre in grado di raggiungere il tasso di interesse desiderato: se vuole aumentare il tasso di
interesse riduce l’offerta di moneta, se vuole ridurre il tasso di interesse aumenta l’offerta di moneta.
Il tasso di interesse non può però scendere sotto lo zero, un limite che
è conosciuto come lo «z ero lower bound». Quando il tasso di interesse è
uguale a zero, la politica monetaria non è in grado di ridurlo ulteriormente
e si dice che l’economia si trova in una trappola della liquidità.
Generalmente, se il tasso di interesse diminuisce, la domanda di moneta
da parte degli individui aumenta: essi preferiscono tenere più moneta e
meno titoli, che pagano un tasso d’interesse inferiore se esso diminuisce.
Se il tasso di interesse diminuisce fino a zero, gli individui sono indifferenti
tra moneta e titoli e la curva di domanda di moneta diventa orizzontale.
Questo implica che, ad un tasso di interesse pari a zero, ulteriori aumenti
dell’offerta di moneta non hanno alcun effetto sul tasso di interesse.
C APITO LO 5: IL M ODELLO IS – LM

IL M ERC ATO DEI BENI E LA C URVA IS

L’equilibrio nel mercato dei beni è definito attraverso l’uguaglianza tra produzione 𝑌 e domanda 𝑍 oppure
tra investimento 𝐼 e risparmio 𝑆: tale condizione è definita relazione 𝐼𝑆.
La domanda è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica e abbiamo assunto che il consumo
fosse una funzione del reddito disponibile e abbiamo considerato investimento, spesa pubblica e imposte
come variabili esogene. La condizione di equilibrio era perciò data da: 𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼̅ + 𝐺
La principale semplificazione consisteva nel fatto che il tasso di interesse non influenzasse la domanda di
beni: in questo capitolo, il primo passo consisterà proprio nell’introdurre il tasso di interesse nel modello di
determinazione dell’equilibrio nel mercato dei beni.

INVESTIM ENTO, VENDITE E TASSO DI INTERESSE


Finora abbiamo ipotizzato che l’investimento fosse costante ma in realtà esso non è costante e dipende
da due fattori: il livello delle vendite e il tasso di interesse. Quindi, scriviamo l’equazione dell’investimento:
Questa equazione dice che l’investimento 𝐼 dipende positivamente dalla produzione 𝑌 e
negativamente dal tasso di interesse 𝑖: un aumento della produzione provoca un aumento
dell’investimento, mentre un aumento del tasso di interesse fa diminuire l’investimento.
Considerando questa equazione dell’investimento, la condizione di equilibrio nel mercato dei beni diventa:

La domanda 𝑍 è misurata sull’asse verticale e la produzione 𝑌 sull’asse


orizzontale. Per un dato valore del tasso di interesse , la domanda è una
funzione crescente della produzione, per due ragioni: un aumento della
produzione fa aumentare il reddito e quindi anche il reddito disponibile
che a sua volta fa aumentare il consumo; un aumento della produzione
fa aumentare l’investimento. Tale relazione tra produzione e domanda
è rappresentata dalla curva 𝑍𝑍, inclinata positivamente.
L’equilibrio nel mercato dei beni è nel punto in cui la domanda è uguale
produzione, ossia nel punto 𝐴 con una produzione di equilibrio pari a 𝑌.

LA C URVA IS (INVESTMENT – SAVING)


Finora abbiamo considerato l’equilibrio nel mercato dei beni a parità di
tasso di interesse: vediamo cosa accade se il tasso di interesse cambia.
Supponiamo che l’equilibrio sia inizialmente nel punto 𝐴, e che il tasso
di interesse aumenti dal valore iniziale 𝑖 a un valore maggiore, pari a 𝑖′.
Un aumento del tasso d’interesse riduce la domanda di beni e sposta la
curva di domanda verso il basso da 𝑍𝑍 a 𝑍𝑍 ′ : il nuovo equilibrio è dato
dal punto 𝐴′ e la produzione di equilibrio diminuisce da 𝑌 a 𝑌′.
L’equilibrio nel mercato dei beni implica che un aumento del tasso di
interesse comporta una riduzione del livello di produzione di equilibrio.
La relazione tra produzione e tasso di interesse è data dalla curva 𝐼𝑆, la
quale è inclinata negativamente e ci dice come cambia la produzione di
equilibrio al variare del tasso di interesse: il tasso di interesse è sull’asse
verticale, mentre la produzione è sull’asse orizzontale.
Dobbiamo sottolineare che la curva 𝐼𝑆 non indica il comportamentodel
sistema, ma tutte quelle combinazioni tra la produzione 𝑌 e il tasso di
interesse 𝑖 che garantiscono l’equilibrio reale nel mercato dei beni.
SPO STAM ENTI DELLA C URVA IS
Nel grafico precedente abbiamo derivato la curva 𝐼𝑆 per dati valori delle imposte e della spesa pubblica.
Qualsiasi variazione delle imposte 𝑇 o della spesa pubblica 𝐺 comporta lo spostamento dalla curva 𝐼𝑆 .
Consideriamo ad esempio un aumento delle imposte, da 𝑇 a 𝑇′: per ogni
dato tasso di interesse, il reddito disponibile diminuisce facendo diminuire
anche il consumo, che a sua volta causa una riduzione della domanda di
beni e una diminuzione della produzione di equilibrio. Dunque, la curva 𝐼𝑆
si sposta verso sinistra e la produzione di equilibrio diminuisce da 𝑌 a 𝑌′.
Più in generale: per ogni dato tasso di interesse, ogni fattore che riduce la
domanda di beni fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso sinistra (un aumento delle
imposte, una riduzione della spesa pubblica) al contrario ogni fattore che
aumenta la domanda di beni provoca lo spostamento verso destra della
curva 𝐼𝑆 (una riduzione delle imposte, un aumento della spesa pubblica).

I M ERC ATI F INANZIARI E LA C URVA LM


L’equilibrio nei mercati finanziari è definito attraverso l’uguaglianza tra offerta e domanda di moneta, cioè:

L’equazione stabilisce una relazione tra moneta, reddito nominale e tasso di interesse: un incremento del
reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta, mentre un aumento del tasso di interesse la riduce.
Possiamo riscrivere l’equazione come una relazione tra moneta reale, reddito reale e tasso di interesse,
ovvero esprimendo moneta e reddito in termini di beni e non di euro.
Ricordiamo che il reddito nominale diviso per il livello dei prezzi è uguale al reddito reale 𝑌.
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il livello dei prezzi 𝑃 otteniamo la condizione
di equilibrio data dall’uguaglianza tra offerta reale di moneta e domanda reale di moneta.
Questa equazione, chiamata relazione 𝐿𝑀, descrive l’equilibrio nel mercato
della moneta ed è usata per derivare la curva 𝐿𝑀 quando la banca centrale
stabilisce una certa offerta di moneta.
In realtà però la banca centrale stabilisce il tasso di interesse aggiustando
l’offerta di moneta in modo tale da raggiungere quel tasso. Quindi, la curva
𝐿𝑀 è una retta orizzontale in corrispondenza del tasso di interesse 𝑖̅ scelto
dalla banca centrale. La curva 𝐿𝑀 non rappresenta il comportamento del
sistema bensì tutte le combinazioni tra produzione 𝑌 e tasso di interesse 𝑖
che garantiscono l’equilibrio reale nei mercati finanziari.

IL M O DELLO IS – LM : L’EQUILIBRIO M ACROECONOMICO G ENERALE

La curva 𝐼𝑆 deriva dall’equilibrio nel mercato dei beni, mentre la curva 𝐿𝑀


deriva dall’equilibrio nel mercato della moneta.
Quindi, per raggiungere l’equilibrio nella nostra economia, sia la 𝐼𝑆 che la
𝐿𝑀 devono valere simultaneamente. Qualsiasi punto della 𝐼𝑆 corrisponde
ad un possibile equilibrio nel mercato dei beni e qualsiasi punto della 𝐿𝑀
corrisponde ad un possibile equilibrio nei mercati finanziari.
Solo nel punto 𝐴, che appartiene ad entrambe le curve, le due condizioni
di equilibrio sono soddisfatte in entrambi i mercati. Ciò significa che questo
punto corrisponde all’equilibrio macroeconomico generale, ossia il punto
in cui si ha equilibrio sia nel mercato dei beni sia nel mercato della moneta.
LA PO LITIC A F ISCALE
Una riduzione del disavanzo pubblico, raggiunta tramite un aumento delle imposte o una riduzione della
spesa pubblica, è detta contrazione fiscale: una contrazione fiscale fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso sinistra
causando una diminuzione della produzione di equilibrio. Un aumento del disavanzo pubblico, raggiunto
tramite una riduzione delle imposte o a un aumento della spesa pubblica, è detto espansione fiscale: una
espansione fiscale fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso destra causando un aumento della produzione di equilibrio.
Supponiamo che il governo decida di aumentare le imposte: l'aumento delle
imposte fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso sinistra, da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. Dato che riguarda
un cambiamento nella politica fiscale, la banca centrale non modifica il tasso
di interesse per cui la curva 𝐿𝑀 rimane invariata e non si sposta.
L’economia si muove lungo la curva 𝐿𝑀 per raggiungere il nuovo equilibrio,
dato dal punto 𝐴′ in corrispondenza dell’intersezione della nuova curva 𝐼𝑆′
con la curva 𝐿𝑀 originaria. La produzione di equilibrio diminuisce da 𝑌 a 𝑌′.
A parole possiamo dire che un aumento delle imposte fa diminuire il reddito
disponibile e tale riduzione a sua volta riduce il consumo. Di conseguenza, la
produzione diminuisce e con essa anche l’investimento.

LA PO LITIC A M ONETARIA
Consideriamo ora la politica monetaria. Una riduzione del tasso di interesse, raggiunta tramite un aumento
dell’offerta di moneta, è detta espansione monetaria: un’espansione monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀
verso il basso provocando un aumento della produzione di equilibrio. Un aumento del tasso di interesse,
raggiunto tramite una riduzione dell’offerta di moneta, è detto contrazione monetaria: una contrazione
monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀 verso l’alto causando una diminuzione della produzione di equilibrio.
Supponiamo ora che la banca centrale decida di ridurre il tasso di interesse:
l’espansione monetaria fa spostare la curva 𝐿𝑀 verso il basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′,
mentre la curva 𝐼𝑆 rimane invariata e non si sposta.
L’economia si muove lungo la curva 𝐼𝑆 per raggiungere il nuovo equilibrio,
dato dal punto 𝐴′ in corrispondenza dell’intersezione della nuova curva 𝐿𝑀′
con la curva 𝐼𝑆 originaria. In questo caso, la produzione di equilibrio aumenta
da 𝑌 a 𝑌′ e il tasso di interesse diminuisce da 𝑖 a 𝑖′.
A parole possiamo dire che: una diminuzione del tasso di interesse stimola
l’investimento e di conseguenza, fa aumentare la produzione e la domanda.

UN M IX DI PO LITICA ECONOMIC A
La combinazione di politiche fiscali e monetarie è chiamata mix di politica economica: a volte, le politiche
fiscali e le politiche monetarie sono usate nella stessa direzione, altre volte sono usate in direzioni opposte.
Immaginiamo che la politica fiscale e la politica monetaria vadano nella stessa
direzione, per esempio combinando un’espansione fiscale con un’espansione
monetaria: supponiamo che l’economia sia in recessione e che la produzione
sia considerata troppo bassa. In questa circostanza, sia la politica fiscale che
la politica monetaria possono essere usate per aumentare la produzione.
Questa combinazione è rappresentata nella figura: l’equilibrio iniziale è dato
dal punto 𝐴 in corrispondenza di un livello di produzione pari a 𝑌.
Una politica fiscale espansiva sposta la curva 𝐼𝑆 verso destra e una politica
monetaria espansiva sposta la curva 𝐿𝑀 verso il basso: il nuovo equilibrioè ora
dato dal punto 𝐴 con un livello di produzione più alto pari a 𝑌′.
In questo modo, entrambe le politiche economiche contribuiscono all’aumento della produzione: una tale
combinazione di politica fiscale e monetaria è tipicamente usata per contrastare le recessioni.
Immaginiamo ora che la politica fiscale e la politica monetaria vadano in direzioni opposte, per esempio
combinando una contrazione fiscale con un’espansione monetaria: supponiamo che il governo si trovi con
un troppo elevato disavanzo di bilancio e vorrebbe ridurlo, senza però dare il via ad una recessione. Questa
combinazione è rappresentata in figura: l’equilibrio iniziale è dato dal punto 𝐴 in corrispondenza di un livello
di produzione 𝑌. La produzione è considerata ad un livello giusto, ma il disavanzo di bilancio è troppo alto.
Se il governo riduce il disavanzo di bilancio, la curva 𝐼𝑆 si sposterà a sinistra,
da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. L’equilibrio ora è dato dal punto 𝐴′, in corrispondenza di un livello di
produzione pari a 𝑌′. Dato il tasso di interesse, maggiori imposte o minor spesa
pubblica ridurranno la domanda e, attraverso il moltiplicatore, la produzione: in
questo modo, la riduzione del disavanzo di bilancio condurrà ad una recessione.
Però, la recessione può essere evitata se si utilizza anche la politica monetaria:
se la banca centrale riduce il tasso di interesse, la curva 𝐿𝑀 si sposta verso il
basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′. L’equilibrio è dato ora dal punto 𝐴″, in corrispondenza di un
livello di produzione pari a 𝑌 ″ = 𝑌 . La combinazione di entrambe le politiche
permette la riduzione del disavanzo di bilancio, lasciando invariata la produzione.
Cosa succede al consumo e all’investimento? Che cosa accade al consumo dipende dalla modalità con cui
il disavanzo di bilancio è ridotto: se la riduzione prende la forma di una diminuzione della spesa pubblica, il
reddito rimane invariato, il reddito disponibile rimane invariato e così anche il consumo rimane invariato. Se
invece la riduzione prende la forma di un aumento delle imposte, allora il reddito disponibile sarà inferiore
e di conseguenza anche il consumo. Cosa accade all’investimento è chiaro: una produzione invariata e un
più basso tasso di interesse implicano un livello più alto dell’investimento.

PERC H É SI UTILIZZ ANO M IX DI POLITICA ECO NOMIC A?


Esistono svariate ragioni per cui i policy-maker desiderano utilizzare un mix di politica economica anche se
ne basterebbe soltanto una politica per raggiungere, ad esempio, l’aumento di produzione desiderato:
• Un’espansione fiscale significa un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle imposte, oppure
entrambi. In entrambi i casi questo porta ad un aumento del disavanzo di bilancio, che se fosse troppo
elevato potrebbe essere rischioso. Per questo motivo è meglio non affidarsi soltanto alla politica fiscale,
ma ricorrere almeno in parte anche alla politica monetaria.
• Un’espansione monetaria significa una riduzione del tasso di interesse: se il tasso di interesse è già troppo
basso, ci sarà poco spazio di manovra per utilizzare la politica monetaria e in questo caso, la politica fiscale
deve farsi carico della maggior parte del problema. Se il tasso di interesse è già prossimo allo zero, cioè
l’economia si trova nello zero lower bound, allora la politica fiscale deve farsi carico di tutto il problema.
• La politica monetaria e la politica fiscale hanno differenti effetti sulla composizione della produzione. Una
riduzione delle imposte sul reddito agisce più sul consumo che sull’investimento, facendo aumentare il
primo più del secondo. Una riduzione del tasso di interesse agisce più sull’investimento che sul consumo.
Così, a seconda della composizione iniziale della produzione, si preferirà una politica economica all’altra.
• Infine, la politica monetaria e la politica fiscale potrebbero non funzionare perfettamente: una riduzione
delle imposte potrebbe non avere successo nell’aumentare il consumo così come una riduzione del tasso
di interesse potrebbe non stimolare l’investimento. Così, nel caso una politica economica non funzioni
come sperato, è preferibile ricorrere ad entrambe.

Finora abbiamo ignorato la dinamica di aggiustamento immaginando che fosse istantaneo , ma in realtà
l’aggiustamento della produzione a variazioni della politica fiscale e della politica monetaria richiede tempo:
ai consumatori servirà tempo per aggiustare il consumo in seguito a variazioni del reddito disponibile, così
come alle imprese servirà per aggiustare l’investimento date variazioni delle vendite o del tasso d’int eresse.
In seguito ad un aumento delle imposte, ad esempio, ci vuole del tempo prima che il consumo risponda
alla riduzione del reddito disponibile e che la produzione diminuisca in seguito alla riduzione del consumo.
C APITO LO 6: IL M ODELLO IS – LM ESTESO

IL TASSO DI INTERESSE NOMINALE E REALE

Il tasso di interesse nominale 𝑖 è il tasso di interesse espresso in termini di euro, o in termini della valuta
nazionale, mentre il tasso di interesse reale 𝑟 è il tasso di interesse espresso in termini di beni.
La relazione esistente tra tasso d’interesse nominale e tasso d’interesse reale ci dice che il tasso d’interesse
reale è approssimativamente uguale al tasso d’interesse nominale meno il tasso di inflazione attesa, cioè:
𝑒 è il tasso di inflazione attesa che è dato dal prezzo tra
dove 𝜋𝑡+1
un anno meno il prezzo quest’anno, diviso il prezzo quest’anno:
• quando l’inflazione attesa è nulla, il tasso di interesse nominale ed il tasso di interesse reale sono uguali.
• quando l’inflazione attesa è positiva, il tasso di interesse reale è tipicamente inferiore di quello nominale.
• per un dato tasso d’interesse nominale, maggiore è l’inflazione attesa e minore è il tasso d’interesse reale.

TASSO DI INTERESSE NOMINALE E REALE: Z ERO LOWER BOUND E DEFLAZIONE


Quando si pensa al consumo oppure alle decisioni di investimento, quello che importa agli individui e alle
imprese non è il tasso di interesse nominale ma il tasso di interesse reale, ovvero espresso in termini di beni.
Sebbene la banca centrale scelga il tasso di interesse nominale 𝑖, in realtà ha in mente di scegliere il tasso di
interesse reale 𝑟 tenendo conto dell’inflazione attesa 𝜋 𝑒 : se vuole raggiungere un tasso di interesse reale
pari a 𝑟, data l’inflazione attesa pari a 𝜋 𝑒 , deve scegliere un tasso di interesse nominale 𝑖 tale che 𝑟 = 𝑖 – 𝜋 𝑒
sia pari al livello desiderato. Ad esempio, se la banca centrale desidera che il tasso di interesse reale sia pari
al 4%, data un’inflazione attesa del 2%, fisserà un tasso di interesse nominale i pari al 6% dato che 4 = 6 – 2.
Quando si raggiunge lo zero lower bound del tasso di interesse nominale, il tasso reale sarà pari al negativo
dell’inflazione attesa ovvero 𝑟 = −𝜋 𝑒 : finché l’inflazione è positiva è possibile quindi raggiungere tassi di
interesse reale negativi. Se invece gli individui si aspettano una deflazione, ovvero un’inflazione negativa, il
tasso di interesse reale è positivo anche in presenza di un tasso nominale nullo dato che 𝑟 = −(−𝜋 𝑒 ) = 𝜋 𝑒

RISC H IO E PREMIO PER IL RISC HIO

Finora abbiamo ipotizzato che ci fosse solo un tipo di titoli ma in realtà essi differiscono sotto due aspetti:
in ter mini di scadenza e in termini di rischiosità, cioè la probabilità che il debitore non ripaghi il suo debito.
Per assumersi questo rischio coloro che comprano titoli richiedono un premio per il rischio che dipende da:
• Probabilità di fallimento del debitore: maggiore è tale probabilità, maggiore sarà il tasso di interesse che
richiederanno coloro che comprano titoli. Chiamiamo 𝑖 il tasso di interesse su un titolo privo di rischio e
𝑖 + 𝑥 il tasso di interesse su un titolo rischioso, che è un titolo soggetto a una probabilità 𝑝 di fallimento.
Inoltre, chiamiamo 𝑥 il premio per il rischio. Il rendimento atteso di un titolo rischioso sarà quindi dato da:

L’equazione ci dice che il premio per il rischio deve essere tale da uguagliare il rendimento di un titolo
privo di rischio al rendimento atteso di un titolo rischioso. Il lato sinistro corrisponde al rendimento del
titolo privo di rischio, il lato destro al rendimento atteso del titolo rischioso . Con probabilità (1 − 𝑝) non
ci sarà fallimento del debitore e il titolo pagherà (1 + 𝑖 + 𝑥). Con una probabilità 𝑝 ci sarà fallimento del
debitore e il titolo non pagherà nulla. Riordinando i termini abbiamo che il premo per il rischio è dato da:
Quindi, per esempio, se il tasso di interesse su un titolo privo di rischio è pari al 4% e la
probabilità di fallimento al 2%, allora il premio per il rischio richiesto per rendere uguali
il rendimento atteso del titolo privo di rischio e quello del titolo rischioso è pari al 2,1%.
• Grado di avversione al rischio del creditore: essa fa sì che anche se il rendimento atteso del titolo rischioso
fosse uguale a quello del titolo privo di rischio, il rischio stesso renderebbe i creditori titubanti a detenere
il titolo. Per convincerli è necessario che il premio per il rischio aumenti ulteriormente: più i creditori sono
avversi al rischio, più il premio aumenterà anche se la probabilità di fallimento del debitore sarà la stessa.
IL RUO LO DEGLI INTERMEDIARI F INANZIARI

Finora abbiamo considerato il finanziamento diretto, caso in cui il debitore prende a prestito direttamente
dal creditore. In realtà gran parte dei prestiti avviene attraverso il finanziamento indiretto, cioè tramite gli
intermediari finanziari, ossia istituzioni finanziarie che ricevono fondi da individui o imprese e li usano per
concedere prestiti. Di tali istituzioni fanno parte le banche, ma anche le istituzioni finanziarie non bancarie.
Gli intermediari finanziari svolgono dunque una funzione molto importante e, in tempi normali, procede
tutto senza intoppi: essi prendono e danno a prestito, richiedendo un tasso di interesse sui prestiti erogati
che è leggermente superiore di quello che hanno pagato per prendere a prestito.
Molte volte però tale meccanismo si blocca, esattamente come è accaduto durante la crisi del 2008 – 2009.
Per capirlo partiamo da un bilancio molto semplificato di una banca: consideriamo una banca con un attivo
pari a 100, un passivo pari a 80 ed un patrimonio netto (chiamiamolo per semplicità «capitale») pari a 20.
Si può pensare che gli azionisti della banca abbiano investito 20 di
tasca propria, che abbiano in seguito preso a prestito altri 80 da vari
investitori e che abbiano comprato attività per un valore pari a 100.
Le passività possono essere depositi in conto corrente o prestiti da
parte di investitori e altre banche. Le attività possono essere riserve,
prestiti ai consumatori o alle imprese, mutui ipotecari, titoli di Stato.

LA SC ELTA DELLA LEVA F INANZ IARIA

Cominciamo con due definizioni, cioè quella di quota di capitale sugli impieghi e quella di leva finanziaria.
La quota di capitale sugli impieghi di una banca è definita come il rapporto tra il suo capitale e le sue attività
mentre la leva finanziaria di una banca è invece definita come il rapporto tra le sue attività e il suo capitale.

Nel decidere quale leva finanziaria adottare, la banca deve valutare due fattori: da un lato, una maggiore
leva finanziaria implica un più elevato tasso di profitto atteso ma dall’altro, un maggior rischio di fallimento.
Quindi aumentando la sua leva finanziaria, cioè diminuendo il capitale investito, la banca è in grado così di
aumentare i profitti attesi per unità di capitale. Però una maggior leva finanziaria implica anche un più alto
rischio che il valore delle attività diventi minore delle passività, cioè il rischio che la banca diventi insolvente.

LEVA F INANZ IARIA, RISCHIO DI F ALLIMENTO E LIQ UIDITÀ


Supponiamo che il valore delle attività diminuisca, ad esempio in seguito a un prestito divenuto inesigibile.
Dato che il capitale serve per assorbire eventuali perdite, esso diminuirà e di conseguenza la leva finanziaria
della banca aumenterà. La banca potrebbe essere ancora solvente però sarà sicuramente più rischiosa in
quanto una leva finanziaria più alta sappiamo che implica un maggior rischio che la banca diventi insolvente.
Infatti, se il valore delle attività si riducesse ulteriormente a tal punto che le perdite supereranno il capitale,
la banca diventerebbe insolvente e fallirebbe in quanto non sarebbe più in grado di ripagare le sue passività.
Consideriamo ora il caso in cui i creditori di una banca cominciano a dubitare della sua solvibilità, credendo
che il valore dell’attivo sia diminuito. Quando i creditori dubitano del valore dell’attivo, tenteranno di ritirare
i fondi che avevano investito nella banca ed essa sarà costretta a vendere le proprie attività per rimborsarli.
Questo processo è tanto più facile quanto più le attività sono liquide. Tipicamente però le attività di una
banca sono illiquide: la banca dovrà liquidare le proprie attività e potrebbe doverlo fare a prezzi di svendita.
In questo modo, la banca subisce una diminuzione del valore delle attività e rischia di diventare insolvente.
Il problema è persino più grande quando i creditori possono prelevare i loro fondi senza preavviso, come
nel caso dei depositi in conto corrente. Questo fa sì che le banche siano particolarmente esposte al rischio
di corse agli sportelli, cioè episodi durante i quali le preoccupazioni sul valore dell’attivo hanno portato gli
investitori a prelevare i propri fondi senza o con poco preavviso, causando l’insolvenza delle banche stesse.
IL M O DELLO IS – LM ESTESO
Estendiamo ora il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀 tenendo conto della differenza tra tassi di interesse nominali e tassi di
interesse reali e considerando anche il premio per il rischio. Per semplificare l’analisi, assumeremo tuttavia
che l’inflazione attesa sia nulla, così che la banca centrale sia in grado di controllare direttamente il tasso di
interesse reale, che coincide con quello nominale. Possiamo riscrivere il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀 in questo modo:
𝑅𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐼𝑆 ⇒ 𝐶(𝑌 − 𝑇) + 𝐼(𝑌, 𝑟 + 𝑥) + 𝐺
𝑅𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐿𝑀 ⇒ 𝑟 = 𝑟̅
Le due equazioni rendono chiaro che il tasso di interesse che entra nella relazione 𝐿𝑀 non è più lo stesso
che entra nella relazione 𝐼𝑆. Il tasso che entra nella relazione 𝐿𝑀, ovvero 𝑟, è detto «tasso di policy» poiché
è stabilito dai policy-maker, nello specifico dalla banca centrale. Il tasso che entra nella relazione 𝐼𝑆, ovvero
𝑟 + 𝑥, è detto «tasso sui prestiti» in quanto è il tasso a cui imprese e individui possono prendere a prestito.
La banca centrale sceglie il tasso di policy reale ma il tasso di interesse reale che determina le decisioni di
spesa è il tasso reale sui prestiti, che dipende non solo dal tasso di policy, ma anche dal premio per il rischio.
La figura rappresenta queste due equazioni. Il tasso di policy reale 𝑟 è
misurato sull’asse verticale e la produzione 𝑌 sull’asse orizzontale.
Come prima, la condizione di equilibrio nel mercato della moneta è data
dalla retta orizzontale 𝐿𝑀 in corrispondenza del tasso di policy stabilito
dalla banca centrale, mentre la condizione di equilibrio nel mercato dei
beni è rappresentata dalla curva 𝐼𝑆 con pendenza negativa. L’equilibrio
è in corrispondenza del punto 𝐴, cui è associato il livello di produzione 𝑌.
Un aumento del premio per il rischio 𝑥 sposta la curva 𝐼𝑆 verso sinistra e
porta a una diminuzione della produzione di equilibrio: il nuovo equilibrio
è in corrispondenza del punto 𝐴′, con un livello di produzione pari a 𝑌′.

SH O C K F INANZIARI E PO LITIC A ECONOMIC A


Un aumento del premio per il rischio potrebbe verificarsi per diverse ragioni: ad esempio, i creditori sono
diventati più avversi al rischio e richiedono così un maggior premio per il rischio; oppure perché una banca
è fallita e i creditori hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle altre banche dando così il via ad una
corsa agli sportelli e obbligando le altre banche a ridurre i prestiti concessi al resto dell’economia.
Come abbiamo già visto, il risultato è che la curva 𝐼𝑆 si sposta verso sinistra: per un dato tasso di policy 𝑟, il
tasso sui prestiti 𝑟 + 𝑥 aumenta, provocando una riduzione della domanda e della produzione di equilibrio.
Che cosa può fare la politica economica? Sappiamo che la politica fiscale, aumentando la spesa pubblica o
riducendo le imposte, può spostare la 𝐼𝑆 verso destra e aumentare la produzione. Ma un’espansione fiscale
potrebbe far aumentare troppo il disavanzo di bilancio per cui il governo potrebbe non adottare tali misure.
Dato che la causa della riduzione della produzione è un tasso troppo alto
sui prestiti, la politica monetaria potrebbe essere una soluzione migliore:
una sufficiente riduzione del tasso di policy 𝑟, come quella rappresentata
nella figura, può in principio bastare a portare l’economia al punto 𝐴′ e
riportare così la produzione di equilibrio al suo livello iniziale 𝑌.
In altre parole, in risposta ad un aumento del premio per il rischio 𝑥, la
banca centrale deve ridurre il tasso di policy 𝑟 in modo tale da lasciare
invariato il tasso sui prestiti 𝑟 + 𝑥 e in questo modo anche la produzione.
Il tasso di interesse necessario a stimolare sufficientemente la domanda
al fine di riportare la produzione al suo livello iniziale può essere negativo.
Lo zero lower bound limita la riduzione del tasso di policy, dato che il tasso di interesse reale più basso che
la banca centrale può raggiungere potrebbe non bastare a riportare la produzione al suo equilibrio iniziale.
DA UNA C RISI IM MOBILIARE AD UNA C RISI F INANZIARIA
Nel 2006 quando i prezzi delle case negli Stati Uniti cominciarono a scendere, pochi economisti intuirono
che stava per iniziare una grande crisi economica: ciò che la maggior parte di loro non riuscì a prevedere fu
l’effetto del crollo dei prezzi delle case sul sistema finanziario e sull’andamento della produzione.
Prima di diminuire, dal 2000 al 2006 ci fu un rapido aumento dei prezzi delle case che era principalmente
causato dal fatto che i tassi di interesse sui mutui ipotecari erano molto bassi, per cui tassi di interesse bassi
stimolavano la domanda di abitazioni e spingevano in questo modo i prezzi verso l’alto.
Coloro che concedevano mutui ipotecari avevano cominciato a concederli a debitori sempre più rischiosi.
Questi mutui ipotecari, conosciuti come mutui ipotecari «subprime», nel 2006 rappresentavano circa il 20%
di tutti i mutui ipotecari statunitensi: all’epoca questo era visto dagli economisti come uno sviluppo positivo
poiché permetteva a individui poveri di comprare una casa e, sotto l’ipotesi che i prezzi delle case sarebbero
continuati ad aumentare, sembrò una soluzione sicura e conveniente sia per i creditori che per i debitori.
Quando però i prezzi delle case diminuirono, molti debitori si ritrovarono a dover ripagare mutui ipotecari
il cui valore eccedeva quello delle case che erano state acquistata con quei mutui. Inoltre, in numerosi casi
i mutui ipotecari erano di fatto molto più rischiosi di quanto sia i creditori che i debitori avessero ritenuto.
La conseguenza fu che molti debitori fallirono e i creditori si ritrovarono a fronteggiare gigantesche perdite.
Si pensò che il sistema finanziario statunitense avrebbe potuto in qualche modo assorbire tali perdite e che
le conseguenze negative sulla produzione sarebbero state limitate.
In realtà però non fu così e anche gli economisti che avevano correttamente anticipato la diminuzione dei
prezzi delle case non avevano capito quanto grande sarebbe stato il meccanismo di amplificazione di tale
sh ock. Per comprendere questo meccanismo, dobbiamo concentrarci sul ruolo degli intermediari finanziari.

IL RUO LO DEGLI INTERMEDIARI F INANZIARI

Come sappiamo un’elevata leva finanziaria, l’illiquidità delle attività e la liquidità delle passività sono tutti
fattori di rischio per il sistema finanziario. Questi fattori furono tutti e tre presenti durante la crisi del 2008.
• Le banche erano caratterizzate da un’alta leva finanziaria. Questo accadde per diverse ragioni: in primo
luogo le banche avevano aumentato i prestiti concessi sottovalutando il rischio che stavano correndo, in
secondo luogo le banche erano incentivate a realizzare profitti molto elevati e aumentarono la loro leva
finanziaria per farlo. Quando i prezzi delle case cominciarono a diminuire il valore delle attività bancarie
precipitò e la solvibilità delle banche venne messa in discussione.
• Durante la crisi, ci fu un diffuso ricorso cartolarizzazione, ossia la creazione di attività finanziarie sulla base
di un insieme di altre attività, come ad esempio un insieme di prestiti oppure un insieme di mutui ipotecari.
Le banche che avevano emesso mutui ipotecari li avevano poi rimpacchettati creando nuovi strumenti
finanziari che avevano poi venduto ad altre banche o ad altri investitori. Il risultato fu che molte banche,
invece di avere a bilancio i mutui originari, possedevano questi strumenti così tanto complessi da rendere
impossibile una corretta valutazione del grado di rischio delle attività finanziarie.
Questo vuol dire che molte attività tenute dalle banche e altri intermediari finanziari divennero illiquide
per cui era estremamente difficile valutarne il valore e quindi venderle, se non a prezzi di svendita.
• Durante la crisi ci fu un’elevata diffusione del finanziamento all’ingrosso: le banche cominciarono infatti
sempre di più ad affidarsi ad altre banche e ad altri investitori per finanziare l’acquisto delle loro attività.
Il finanziamento all’ingrosso portava con sé un rischio, che divenne chiaro soltanto durante la crisi: queste
istituzioni finanziarie non beneficiavano di alcuna assicurazione sui loro prestiti e, non appena iniziarono
ad avere preoccupazioni sul valore delle attività detenute dalle banche, iniziarono a prelevare i loro fondi.
Le banche avevano passività liquide, molto più liquide delle loro attività e ciò come sappiamo è un rischio.
Il risultato di questa combinazione fu una crisi finanziaria: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers dichiarò la
bancarotta e da allora l’intero sistema finanziario si bloccò. Le banche smisero di prestarsi fondi l’una con
l’altra e anche di prestarli a chiunque altro. La crisi finanziaria si trasformò così in una crisi macroeconomica.
IM PLIC AZ IONI M AC ROECONOMIC HE E C ONTAGIO INTE RNAZIONALE
Gli effetti immediati della crisi finanziaria sull’economia furono due: il primo fu un rapido aumento dei tassi
di interesse a cui le imprese e gli individui potevano prendere a prestito mentre il secondo fu un crollo delle
aspettative economiche. Il peggioramento delle aspettative, l’elevato costo dei prestiti e la riduzione dei
prezzi delle case e delle azioni, portarono i consumatori americani a ridurre drasticamente i loro consumi.
La crisi finanziaria statunitense contagiò tutto il resto del mondo e in particolare l’Europa, tramite tre canali:
○ Le banche americane erano in disperato bisogno di fondi e rimpatriarono quelli che detenevano in altri
paesi creando a loro volta problemi per tali banche. Inoltre, alcune banche europee erano direttamente
esposte al mercato immobiliare statunitense in quanto avevano acquistato mutui ipotecari statunitensi.
○ Il commercio internazionale si ridusse poiché quando i consumatori e le imprese statunitensi ridussero
la spesa, parte di questa riduzione ha colpito le importazioni di beni prodotti all’estero. Dal punto di vista
dei paesi esportatori verso gli Stati Uniti, il loro export diminuì e di conseguenza anche la loro produzione.
○ L’aumento dei tassi di interesse statunitensi si rifletté anche sui tassi di interesse europei. Inoltre, il crollo
dei prezzi delle case non riguardò soltanto gli Stati Uniti ma anche la maggior parte dei paesi europei:
quando i prezzi immobiliari europei diminuirono, si manifestarono conseguenze che furono molto simili
a quelle degli Stati Uniti. Questi effetti provocarono una simultanea riduzione della produzione mondiale.

LE RISPO STE DI PO LITIC A EC ONOMICA NEGLI STATI UNITI

Per contrastare la crisi, i policy-maker adottarono misure di politica finanziaria, politica monetaria e fiscale.
Come vedremo però lo shock iniziale all’economia statunitense fu così grande che la combinazione di tali
politiche non fu sufficiente ad evitare una riduzione della produzione ed il PIL statunitense diminuì del 3,5%.

PO LITIC H E F INANZIARIE
Per evitare il pericolo delle corse agli sportelli l’assicurazione sui depositi venne aumentata più del doppio.
Gran parte dei finanziamenti delle banche, tuttavia, non provenivano dai depositi bensì da finanziamenti
all’ingrosso che non sono coperti da alcuna assicurazione: se questi creditori prelevano dalle banche i loro
fondi, esse sono costrette a vendere parte delle loro attività e in molti casi ciò le conduce alla bancarotta.
Per far fronte a questo problema, la Fed istituì una serie di programmi di offerta di liquidità permettendo di
prendere a prestito dalla stessa Fed: queste operazioni permisero a banche ed altri intermediari finanziari
di rimborsare i creditori senza dover svendere le proprie attività e, dato che ridussero il rischio di fallimento
di banche ed altri intermediari finanziari, ridussero anche l’incentivo dei creditori di prelevare i loro fondi.
Inoltre, il governo introdusse un programma, chiamato Tarp, con lo scopo di ripulire i bilanci delle banche:
l’obiettivo iniziale era di rimuovere complesse attività finanziarie dai bilanci bancari, rassicurando in questo
modo gli investitori e rendendo più semplice valutare lo stato di salute di ciascuna banca. In poco tempo
però divenne chiaro che valutare correttamente il valore di queste attività era molto difficile e l’obiettivo
iniziale fu abbandonato. Il nuovo obiettivo divenne quello di aumentare la capitalizzazione delle banche,
cioè di fornire fondi alle banche americane tramite l’acquisto di azioni: aumentando così la quota di capitale
sugli impieghi e diminuendo la leva finanziaria, lo scopo era permettere alle banche di evitare il fallimento.

PO LITIC A M ONETARIA
Già a partire dal 2007, la Fed aveva cominciato a preoccuparsi di un rallentamento della crescita economica
e aveva cominciato a diminuire il tasso di policy, lentamente in un primo momento e più velocemente man
mano che la crisi si manifestava. Nel dicembre 2008, il tasso di interesse era stato abbassato fino allo zero
per cui la politica monetaria si trovava già allo zero lower bound e il tasso di policy non poteva essere ridotto
ulteriormente. La Fed adottò così quella che prende il nome di politica monetaria non convenzionale che
consiste nell’acquisto di attività finanziarie al fine di influenzare direttamente il tasso su prestiti, cioè 𝑟 + 𝑥.
Quindi, possiamo pensare alla politica monetaria convenzionale come alla scelta del tasso di policy 𝑟 e alla
politica monetaria non convenzionale come all’insieme delle misure volte a ridurre il premio per il rischio 𝑥.
PO LITIC A F ISCAL E
Il governo statunitense ha attuato programma di stimolo fiscale al fine di ridurre la gravità della recessione.
Durante la crisi, il disavanzo di bilancio statunitense aumentò notevolmente: questo aumento fu in parte il
risultato meccanico della crisi poiché riduzioni della produzione produssero una riduzione delle imposte e
un aumento dei programmi di trasferimento, come i sussidi alla disoccupazione. In parte fu anche il risultato
di misure specifiche del programma di stimolo fiscale finalizzate all’aumento della spesa pubblica e privata.

IL M O DELLO IS – LM
La crisi finanziaria portò ad un significativo spostamento della curva
𝐼𝑆 verso sinistra, da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. In assenza di cambiamenti nella politica
economica, l’equilibrio si sarebbe spostato dal punto 𝐴 al punto 𝐵.
Le politiche finanziarie e fiscali produssero un ritorno parziale della
curva 𝐼𝑆 verso destra così che l’economia si spostò a 𝐼𝑆 ′′ .
La politica monetaria condusse ad uno spostamento della curva 𝐿𝑀
verso il basso, da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′. L’equilibrio risultante a seguito di tali
cambiamenti nella politica economia è dato dal punto 𝐴′: in questo
punto, lo zero lower bound sul tasso di interesse nominale implicò
che il tasso di interesse reale non potesse diminuire ulteriormente.
Il risultato fu comunque una riduzione della produzione, da 𝑌 a 𝑌′.

LE RISPO STE DI PO LITIC A EC ONOMICA IN EUROPA

Come negli Stati Uniti, anche in Europa i policy-maker risposero alla crisi finanziaria tramite misure di politica
economica. Il tipo di risposta fu però differente da quella degli Stati Uniti e, all’interno dell’Europa stessa,
le risposte di paesi appartenenti all’Eurozona furono differenti da quelle degli altri paesi non appartenenti.

PO LITIC H E F INANZIARIE
L’Europa cominciò a ripulire i bilanci delle banche molto più tardi che gli Stati Uniti. Soltanto il Regno Unito
adottò un programma simile al Tarp e cominciò a immettere nuovo capitale nelle banche già nel 2008.
In Italia le banche sono state a lungo paralizzate dai cosiddetti crediti deteriorati: la probabilità che questi
prestiti non venissero ripagati era molto elevata e le banche sono state costrette ad accantonare capitale.
Esse sono diventate «banche zombie», cioè banche che non dispongono di capitale sufficiente a concedere
prestiti: né conseguì una limitazione all’investimento da parte delle imprese ed alla crescita economica.

PO LITIC A M ONETARIA
Anche in termini di politica monetaria, le risposte avvennero con tempistiche diverse nei vari paesi europei.
Quando il tasso di policy britannico raggiunse lo zero lower bound, la Banca d’Inghilterra (così come la Fed)
adottò politiche monetarie non convenzionali. La Bce impiegò molto più tempo prima di adottare queste
politiche ma comunque essa si è spinta oltre la Fed, portando il livello del tasso di interesse al di sotto dello
zero: questo significa che ogni volta che le banche depositano riserve presso la banca centrale, invece che
riceverlo, devono pagare un interesse. La ragione di questa scelta era quella di fornire un disincentivo alle
banche a depositare riserve e, di conseguenza, un incentivo a concedere prestiti a imprese ed individui.

PO LITIC A F ISCALE
La politica fiscale era limitata dal vincolo pubblico: i paesi in cui, allo scoppio della crisi, il livello del debito
pubblico era piuttosto elevato, ebbero poco spazio per aumentarlo ulteriormente e si ritrovarono costretti
a adottare uno stimolo fiscale molto limitato. L’Italia era il paese con il maggior debito pubblico e questo
le impedì del tutto di ricorrere a misure di espansione fiscale. La Danimarca invece aveva un liv ello di debito
pubblico così basso che fu in grado di intraprendere un’espansione fiscale pari al 5% del suo PIL.
C APITO LO 7: IL M ERC ATO DEL LAVORO

LE C O M PONENTI DEL M ERC ATO DEL LAVORO

✓ Popolazione in età lavorativa ⇒ il numero di individui potenzialmente disponibili per l’impiego, ottenuto
escludendo dalla popolazione totale coloro che non hanno raggiunto l’età lavorativa o sono pensionati.
✓ Forze di lavoro o individui attivi ⇒ è la somma di lavoratori occupati e lavoratori in cerca di occupazione.
✓ Fuori dalle forze di lavoro o individui inattivi ⇒ gli individui né occupati e né in cerca di un’occupazione.
✓ Tasso di partecipazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra forze di lavoro e popolazione in età lavorativa.
✓ Tasso di occupazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra lavoratori occupati e popolazione in età lavorativa.
✓ Tasso di disoccupazione ⇒ il tasso dato dal rapporto tra lavoratori disoccupati e le forze di lavoro.

I F LUSSI DI LAVORATORI
Il mercato del lavoro è un mercato caratterizzato da flussi di lavoratori in entrata e in uscita da occupazione,
disoccupazione e forze di lavoro. Questi flussi derivano da assunzioni quando gli individui trovano un lavoro
e da interruzioni dei rapporti di lavoro quando gli individui abbandonano un’occupazione.
Gli individui abbandonano un’occupazione tramite dimissioni oppure licenziamenti: le dimissioni riguardano
individui che abbandonano volontariamente un’occupazione, mentre i licenziamenti riguardano individui
che abbandonano un’occupazione a causa della decisione dell’impresa.
I flussi di entrata e di uscita dalla disoccupazione possono riguardare sia individui che trovano un lavoro sia
individui che smettono di cercarne uno ed escono dalle forze di lavoro: la durata della disoccupazione indica
il tempo medio prima che un disoccupato trovi un’occupazione o che smetta di cercarne una.

M O VIM ENTI ALL’INTERNO DELLA DISOCCUPAZIONE

Un certo tasso di disoccupazione può riflettere due realtà completamente diverse: in primo luogo, si può
riferire ad un mercato del lavoro vivace, con molte interruzioni dei rapporti di lavoro ma molte assunzioni;
in secondo luogo, si può riferire ad un mercato del lavoro asfittico dove raramente nascono nuovi rapporti
di lavoro o cessano quelli preesistenti e la disoccupazione è di lungo periodo.
Il tasso d i disoccupazione sottostima la percentuale d i persone non occupate perché non tiene conto degli
individui inattivi che possono essere lavoratori scoraggiati i quali pur non essendo attivamente alla ricerca di
un lavoro, lo accetterebbero nel caso se ne presentasse l’occasione. Per questo motivo gli economisti a volte
considerano il tasso di occupazione invece del tasso di disoccupazione: più alto è il tasso di disoccupazione,
o maggiore è il numero degli individui inattivi, minore è il tasso di occupazione.
Le fluttuazioni nel tasso di disoccupazione sono fortemente associate a periodi di espansione economica
e di recessione: la disoccupazione è alta durante le recessioni e bassa durante le espansioni.
Quando l’economia è in recessione, le imprese reagiscono alla riduzione della domanda in due modi: esse
possono ridurre le assunzioni di nuovi lavoratori oppure possono licenziare i lavoratori già assunti. Di solito
le imprese preferiscono prima ridurre l’assunzione di nuovi lavoratori invece che licenziare quelli già assunti.
Quando però la riduzione della domanda è notevole, ridurre le assun zioni potrebbe non essere sufficiente
e le imprese si trovano costrette a licenziare i propri lavoratori: se l’aggiustamento avviene tramite una
riduzione delle assunzioni, la probabilità che lavoratori disoccupati trovino un’occupazione diminuisce. Se
avviene tramite maggiori licenziamenti, i lavoratori occupati sono più esposti al rischio di perdere il lavoro.
In generale, poiché le imprese agiscono in entrambi i modi, una maggiore disoccupazione è associata sia a
una minore probabilità di trovare un lavoro per un disoccupato (la durata della disoccupazione aumenta)
sia a una maggiore probabilità di perdere il lavoro per un lavoratore occupato.
In conclusione, quando la disoccupazione è elevata la situazione dei lavoratori peggiora sotto due aspetti:
• quando la disoccupazione è elevata, aumenta la percentuale di lavoratori che perde il loro posto di lavoro.
• quando la disoccupazione è alta, diminuisce la percentuale di disoccupati che trovano un’occupazione.
LA DETERM INAZIONE DEI SALARI
I salari possono essere fissati in molti modi: spesso tramite contrattazioni collettive tra imprese e sindacati,
altre volte sono fissati dai datori di lavoro o da contrattazioni bilaterali tra datori di lavoro e singoli lavoratori.
• I lavoratori percepiscono solitamente un salario superiore al loro salario di riserva, cioè il salario che rende
un lavoratore indifferente tra avere un’occupazione ed essere disoccupato.
• I salari solitamente dipendono dalle condizioni prevalenti sul mercato del lavoro, prima fra tutte il tasso
di disoccupazione: quanto più basso è il tasso di disoccupazione, tanto maggiori sono i salari e viceversa.
Per analizzare questi elementi, gli economisti hanno concentrato l’attenzione su due linee interpretative.
La prima sottolinea il fatto che, anche in assenza di contrattazioni collettive, i lavoratori hanno una certa
forza contrattuale che utilizzano per ottenere salari più elevati. La seconda invece sottolinea il fatto che le
imprese stesse, per diverse ragioni, possono voler pagare salari superiori al salario di riserva.

C O NTRATTAZIONE DEI SALARIO


La forza contrattuale di un lavoratore dipende da due fattori. Il primo è il costo che, in caso di dimissioni,
l’impresa dovrebbe pagare per sostituirlo. Il secondo è la difficoltà che egli incontrerebbe nel trovare un
nuovo lavoro. Quanto più costoso è per l’impresa sostituire il lavoratore e quanto più facile è per lui trovare
un’altra occupazione, tanto maggiore sarà la forza contrattuale del lavoratore. Due sono le conseguenze:
• La forza contrattuale di un lavoratore dipende dalla n atura del lavoro stesso. Sostituire un lavoratore le
cui competenze possono essere apprese velocemente non è molto difficile per cui il lavoratore ha una
scarsa forza contrattuale: se chiede un salario maggiore, l’impresa può licenziarlo con costi trascurabili.
Un lavoratore altamente qualificato che si è dimostrato piuttosto abile nel suo lavoro, al contrario, può
essere molto difficile e costoso da rimpiazzare per cui il lavoratore ha una maggiore forza contrattuale:
se chiedesse un salario maggiore, l’impresa potrebbe trovare conveniente concederglielo.
• La forza contrattuale di un lavoratore dipende anche dalle condizioni prevalenti sul mercato del lavoro.
Quando il tasso di disoccupazione è basso, l’impresa ha difficoltà a trovare validi sostituti e allo stesso
tempo per i lavoratori è più facile trovare un nuovo lavoro: questo aumenta la loro forza contrattuale e
permette loro di ottenere salari più alti. Quando il tasso di disoccupazione è alto, trovare validi sostituti
(anche per rimpiazzare lavoratori altamente specializzati) è molto più facile: in questo caso, i lavoratori
occupati hanno una minore forza contrattuale e potrebbero essere costretti ad accettare salari più bassi.

LA TEO RIA DEI SALARI DI EFF ICIENZ A


Prescindendo dalla forza contrattuale dei lavoratori, le imprese possono voler pagare un salario superiore
al salario di riserva principalmente per due ragioni. La prima è che esse vogliono aumentare la produttività
dei lavoratori, e un salario superiore a quello di riserva può essere un incentivo per raggiungere l’obiettivo.
La seconda è che se i lavoratori percepiscono un salario pari a quello di riserva, essi saranno indifferenti tra
rimanere e andarsene: corrispondere un salario superiore rende più conveniente per i lavoratori rimanere
nell’impresa, per cui fa ridurre il turnover dei lavoratori e tale riduzione tende ad aumentare la produttività.
Il principio generale alla base delle teorie dei salari di efficienza è che la maggior parte delle imprese vuole
che i propri lavoratori siano ben disposti verso il lavoro e verso l’impresa.
Così come le teorie basate sulla contrattazione del salario, le teorie dei salari di efficienza suggeriscono che:
• I salari dipendono dalla natura del lavoro stesso: le imprese che considerano il morale e l’impegno dei
lavoratori come elementi essenziali per la qualità del lavoro pagheranno di più rispetto alle altre imprese.
• I salari dipendono dalle condizioni prevalenti sul mercato del lavoro: quando il tasso di disoccupazione è
basso è più facile per i lavoratori trovare una nuova occupazione. Per evitare un aumento delle dimissioni
le imprese dovranno pagare un salario più alto man mano che la disoccupazione si riduce.
Quando il tasso di disoccupazione è alto, al contrario, per i lavoratori è più difficile trovare una nuova
occupazione per cui un aumento della disoccupazione tende a far diminuire il salario.
SALARIO , PREZ ZI E DISOCCUPAZIONE
Partiamo da questa equazione che può essere pensata come una teoria del «salario
richiesto» dai lavoratori. L’equazione dice che il salario nominale medio 𝑊 dipende
dal livello atteso dei prezzi 𝑃𝑒 , dal tasso di disoccupazione 𝑢 e da una generica
variabile 𝑧 che include gli altri fattori che influenzano la determinazione del salario.
• Il livello atteso dei prezzi 𝑃𝑒 ⇒ nonostante sia le imprese che gli individui sono interessati al salario reale
cioè al salario espresso in termini di beni, i salari vengono fissati in termini nominali ad esempio in euro.
La ragione per cui i salari dipendono dal livello atteso dei prezzi 𝑃𝑒 e non dal livello effettivo dei prezzi 𝑃
è che i salari sono fissati in termini nominali per un certo periodo di tempo, e nel momento in cui sono
fissati il livello effettivo dei prezzi a cui fare riferimento non è ancora noto.
Un aumento del livello atteso dei prezzi 𝑃𝑒 determina un aumento proporzionale del salario nominale 𝑊
• Il tasso di disoccupazione 𝑢 ⇒ il salario nominale dipende negativamente dal tasso di disoccupazione,
come è indicato dal segno negativo sotto ad 𝑢: un aumento del tasso di disoccupazione riduce i salari.
Se pensiamo ai salari come al risultato di una contrattazione, una disoccupazione più alta riduce la forza
contrattuale dei lavoratori in quanto l’impresa ha meno difficoltà a trovare validi sostituti e i lavoratori
potrebbero essere costretti ad accettare salari più bassi. Se invece consideriamo il fatto che i salari sono
determinati sulla base delle teorie dei salari di efficienza, quando il tasso di disoccupazione è alto per i
lavoratori è più difficile trovare un nuovo lavoro e questo permette alle imprese di pagare salari inferiori.
• Gli altri fattori 𝑧 ⇒ la variabile 𝑧 rappresenta tutti gli altri fattori che influenzano i salari, oltre al livello
atteso dei prezzi e al tasso di disoccupazione. Per convenzione, 𝑧 è definita in modo tale che un aumento
di 𝑧 determina un aumento del salario nominale 𝑊, come è indicato dal segno positivo sotto a 𝑧.
I fattori che potrebbero essere inclusi in 𝑧 sono il sussidio di disoccupazione, il salario minimo ed il livello
di protezione dei lavoratori, ovvero tutti i fattori che all’aumentare determinano un aumento del salario.

LA D ETERM INAZIONE DEI PREZZI

I prezzi fissati dalle imprese dipendono dai costi che, a loro volta, dipendono dalla funzione di produzione
cioè la relazione tra i fattori produttivi impiegati nella produzione e la quantità di prodotto ottenuta.
Per il momento, assumiamo che le imprese producano beni usando il lavoro come unico fattore produttivo:

dove 𝑌 è la produzione, 𝑁 l’occupazione e 𝐴 la produttività del lavoro. Supponiamo ora che 𝐴 sia pari a 1,
cioè che un lavoratore produca un’unità di prodotto. Con questa ipotesi la funzione di produzione diventa:

La funzione di produzione 𝑌 = 𝑁 implica che il costo marginale di produzione è uguale al salario 𝑊: il costo
di produrre un’unità aggiuntiva di prodotto deve essere uguale al costo di impiegare un lavoratore in più.
Se il mercato dei beni fosse un mercato perfettamente concorrenziale, il prezzo di un’unità di produzione
sarebbe uguale al costo marginale: di conseguenza, il prezzo 𝑃 sarebbe uguale al salario 𝑊. In realtà molti
mercati dei beni non sono concorrenziali, e le imprese applicano un prezzo maggiore del costo marginale.
Un modo semplice per definire come le imprese fissano i prezzi è rappresentato dalla seguente equazione:

dove 𝑚 è il r icarico del prezzo sul costo marginale di produzione, indicato in genere con il termine markup.
Il markup è dato dalla differenza tra il prezzo e il costo marginale di produzione, perciò, se i mercati fossero
perfettamente concorrenziali, il prezzo sarebbe uguale al costo marginale e il mark-up sarebbe pari a zero.
Poiché le imprese generalmente hanno un certo potere di mercato, ovvero la capacità di fissare un prezzo
superiore al costo marginale, il prezzo 𝑃 sarà superiore al costo marginale 𝐶 e il mark-up è positivo.
L’EQ UAZ IONE DEI SALARI

Supponiamo che i salari nominali dipendano dal livello effettivo dei prezzi 𝑃 invece che dal livello atteso 𝑃𝑒
Di conseguenza la precedente equazione che descrive la determinazione dei salari diventa: 𝑊 = 𝑃𝐹(𝑢, 𝑧)
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il livello effettivo dei prezzi 𝑃 otteniamo la seguente equazione:

Questa equazione esprime la relazione tra salario reale 𝑊/𝑃 e tasso di disoccupazione 𝑢: quanto maggiore
è il tasso di disoccupazione, tanto minore sarà il salario reale scelto da chi fissa i salari. Il motivo è che quanto
maggiore è il tasso di disoccupazione, tanto più deboli saranno i lavoratori nella contrattazione e tanto
minore sarà il salario reale che riusciranno a ottenere. La relazione tra salario reale e tasso di disoccupazione
è detta equazione dei salari e possiamo pensarla come una teoria del «salario reale richiesto» dai lavoratori.

L’EQ UAZ IONE DEI PREZ ZI

Come abbiamo visto, l’equazione che descrive la determinazione dei prezzi era data da: 𝑃 = (1 + 𝑚)𝑊
Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il salario nominale 𝑊 la precedente equazione che descrive la
determinazione dei prezzi diventa: 𝑃/𝑊 = (1 + 𝑚). Invertendo entrambi i lati dell’equazione, otteniamo:

Questa equazione esprime la relazione tra salario reale e le decisioni di prezzo e ci dice che il salario reale
fissato dalle imprese è una funzione delle decisioni di prezzo: un aumento del markup fa aumentare i prezzi
a parità di salari, facendo in questo modo diminuire il salario reale. Questo vuol dire che quanto maggiore
è il markup fissato dalle imprese, tanto minore sarà il salario reale. La relazione tra salario reale e il markup
è detta equazione dei prezzi e possiamo pensarla come una teoria del «salario reale offerto» dalle imprese.

L’EQ UILIBRIO NEL M ERCATO DEL LAVORO E IL TASSO NATURALE DI DISOCC UPAZIONE

La figura mostra l’equilibrio nel mercato del lavoro: il salario reale è


sull’asse verticale e il tasso di disoccupazione sull’asse orizzontale.
L’equazione dei salari è rappresentata dalla curva decrescente 𝑊𝑆:
la curva ha pendenza negativa in quanto ad un aumento del tasso di
disoccupazione corrisponde una diminuzione del salario reale.
L’equazione dei prezzi è rappresentata dalla retta orizzontale 𝑃𝑆 in
corrispondenza del salario reale pari a 1⁄1 + 𝑚 scelto dalle imprese.
Il tasso naturale di disoccupazione 𝑢 𝑛 è il tasso di disoccupazione
tale per cui il salario reale determinato dall’equazione dei salari sia
uguale al salario reale determinato dall’equazione dei prezzi: nella
figura l’equilibrio si trova nel punto 𝐴, cioè nel punto di intersezione
tra la 𝑊𝑆 e la 𝑃𝑆, e il tasso di disoccupazione di equilibrio è pari a 𝑢 𝑛.

Possiamo definire il tasso di disoccupazione di equilibrio anche algebricamente,


attraverso l’uguaglianza tra l’equazione dei salari e l’equazione dei prezzi ovvero:

Definire il tasso di disoccupazione come «naturale» è inadeguato: la posizione delle curve che descrivono
l’equazione dei prezzi e dei salari, e di conseguenza anche la posizione del punto di equilibrio, dipendono
sia da 𝑧 che da 𝑚. Qualsiasi fattore che provoca un aumento o una riduzione di 𝑧 fa spostare la curva 𝑊𝑆,
e qualsiasi fattore che provoca un aumento o una riduzione di 𝑚 fa spostare la curva 𝑃𝑆. Gli spostamenti
di queste curve determinano a loro volta un cambiamento del tasso naturale di disoccupazione: ecco il
motivo per il quale «naturale» non è un termine adeguato a definire il tasso di disoccupazione di equilibrio.
SPO STAM ENTI DELLA C URVA 𝑊𝑆
Un aumento dei sussidi di disoccupazione è rappresentato da un
aumento di 𝑧: poiché l’aumento dei sussidi rende meno dolorosa la
prospettiva di restare disoccupati, provoca un aumento del salario
reale richiesto dai lavoratori a parità di tasso di disoccupaz ione.
La curva che rappresenta l’equazione dei salari si sposta verso l’alto
da 𝑊𝑆 a 𝑊𝑆′. L’economia si muove lungo la retta 𝑃𝑆 e l’equilibrio
si sposta dal punto 𝐴 a 𝐴′: come possiamo notare, il tasso naturale
di disoccupazione nel nuovo equilibrio è aumentato da 𝑢 𝑛 ad 𝑢′𝑛 .
In corrispondenza di un dato tasso di disoccupazione, un aumento
dei sussidi fa aumentare il salario reale richiesto dai lavoratori: per
cui è necessario un tasso di disoccupazione più alto per riportare
il salario reale al livello che le imprese sono disposte a pagare.

SPO STAM ENTI DELLA C URVA 𝑃𝑆


Un aumento del markup, ad esempio a seguito dell'adozione di una
legislazione antitrust meno restrittiva, provoca una diminuzione del
salario reale offerto dalle imprese.
La curva che rappresenta l’equazione dei prezzi si sposta verso il
basso, da 𝑃𝑆 a 𝑃𝑆′. L’economia si muove lungo la 𝑊𝑆 e l’equilibrio
si sposta dal punto 𝐴 a 𝐴′: come possiamo notare, il tasso naturale
di disoccupazione nel nuovo equilibrio è aumentato da 𝑢 𝑛 ad 𝑢′𝑛 .
Consentendo alle imprese di aumentare il markup, una legislazione
antitrust meno restrittiva fa diminuire il salario reale offerto dalle
imprese: è necessario un naturale tasso di disoccupazione più alto al
fine di costringere i lavoratori ad accettare un salario reale inferiore.

Fattori come i sussidi disoccupazione e la legislazione antitrust riflettono delle caratteristiche della struttura
dell'economia. Per questo un termine più adeguato potrebbe essere tasso «strutturale» di disoccupazione.

APPENDIC E: L’EQ UAZIONE DEI PREZZ I E DEI SALARI VS LA DOMANDA E L’OF FERTA DI LAVORO

In microeconomia, l’equilibrio nel mercato del lavoro era rappresentato in termini di domanda e offerta di
lavoro. La relazione tra determinazione dei prezzi e dei salari da un lato, e tra domanda e offerta di lavoro
dall’altro è più stretta di quanto non sembri. Per capire perché rappresentiamo l’equilibrio nel mercato del
lavoro, ponendo il salario reale sull’asse verticale e il livello di occupazione (non più 𝑢) sull’asse orizzontale.
Il livello di occupazione 𝑁 è in un punto compreso tra zero e le forze
di lavoro 𝐿. La disoccupazione 𝑈 è invece pari alla distanza tra 𝐿 e 𝑁.
La curva che descrive l’equazione dei salari ha ora pendenza positiva:
se l’occupazione aumenta, la disoccupazione si riduce e a sua volta
aumenta anche il salario reale scelto nella determinazione dei salari.
La curva che descrive l’equazione dei prezzi è ancora rappresentata
da una retta orizzontale in corrispondenza del salario reale 1⁄1 + 𝑚
L’equilibrio è nel punto 𝐴, dove l’occupazione è al livello naturale 𝑁𝑛
e il tasso naturale di disoccupazione è uguale a 𝑢 𝑛 = (𝐿 − 𝑁𝑛 )/𝐿.
Possiamo notare come l’equazione dei salari assomiglia a una curva
di offerta di lavoro e l’equazione dei prezzi a una curva di domanda
di lavoro, sotto l’ipotesi di produttività del lavoro costante e pari a 1.
Esistono però anche alcune differenze tra le equazioni dei salari e dei prezzi, e domanda e offerta di lavoro.
• In primo luogo, la curva di offerta di lavoro rappresenta il salario al quale un certo numero di lavoratori
sono disposti a lavorare, mentre il salario che deriva dall’equazione dei salari è il risultato di un processo
di contrattazione tra i lavoratori e le imprese e/o delle decisioni unilaterali prese dalle imprese.
• In secondo luogo, la curva di domanda di lavoro presuppone mercati perfettamente concorrenziali nei
quali sia i prezzi che i salari sono dati. L’equazione dei prezzi, al contrario, tiene conto del fatto che in
gran parte dei mercati sono le imprese che di fatto fissano il prezzo avendo un certo potere di mercato.
• Nel modello di domanda e offerta di lavoro i disoccupati sono volontariamente disoccupati mentre nella
rappresentazione in termini di equazione dei prezzi e dei salari la disoccupazione è per lo più involontaria.
C APITO LO 8: LA C URVA DI PH ILLIPS, IL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE E L’INFLAZ IONE

Nel 1958 Phillips disegnò un grafico che metteva in relazione tasso di inflazione e tasso di disoccupazione.
Egli notò l’esistenza di una relazione negativa tra inflazione e disoccupazione: quando la disoccupazione
era bassa, l’inflazione era alta, e quando la disoccupazione era alta, l’inflazione era bassa o anche negativa.
Questa relazione, denominata curva di Phillips, può essere scritta come la
relazione tra inflazione 𝜋, inflazione attesa 𝜋 𝑒 e tasso di disoccupazione 𝑢:
Questa equazione esprime che un aumento dell’inflazione attesa 𝜋 𝑒 provoca un aumento dell’inflazione
effettiva 𝜋; un aumento del markup 𝑚 o dei fattori che influiscono sulla determinazione dei salari 𝑧 fanno
aumentare l’inflazione 𝜋, una riduzione del tasso di disoccupazione 𝑢 fa aumentare l’inflazione effettiva 𝜋.

LA C URVA DI PH ILLIPS E LE SUE RIFORM ULAZIO NI

Iniziamo con la relazione tra disoccupazione e inflazione, nella formulazione originaria scoperta da Phillips.
Ipotizziamo che l’inflazione oscilla di anno in anno intorno ad un determinato valore 𝜋̅ e che l’inflazione
non è persistente, cioè che l’inflazione di quest’anno non è buon indicatore dell’inflazione dell’anno dopo.
In questo caso, quando si fissano i salari possiamo assumere che, qualunque sia stata l’inflazione dell’anno
scorso, l’inflazione di quest’anno è semplicemente pari a 𝜋̅. Di conseguenza, 𝜋 𝑒 = 𝜋̅ e l’equazione diventa:

Dobbiamo quindi osservare una relazione negativa tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione: quando
la disoccupazione è alta, l’inflazione è bassa e a volte persino negativa; mentre, quando la disoccupazione
è bassa, l’inflazione è positiva. Sembrerebbe un trade-off tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione:
se i policy-maker avessero accettato una maggiore inflazione, avrebbero potuto ridurre la disoccupazione.

UN APPARENTE TRADE-O FF E LA SUA SCOMPARSA


Dal 1970 in poi l’apparente trade-off tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione scomparve, questo
accadde perché coloro che fissano i salari hanno cambiato il modo di formulare le aspettative sull’inflazione:
il tasso di inflazione divenne più persistente, cioè divenne più probabile che un anno di inflazione elevata
sarebbe stato seguito da un altro anno di inflazione ancora elevata; individui ed imprese iniziarono a tener
conto di tale persistenza nel formulare le aspettative sull’inflazione futura. Il cambiamento del meccanismo
di formazione della aspettative modificò, a sua volta, la relazione stessa tra l’inflazione e la disoccupazione:
invece di una relazione tra il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione, la curva di Phillips è diventata
una relazione tra tasso di disoccupazione e la variazione del tasso di inflazione (curva di Phillips modificata).
Curva di Phillips originaria: 𝑢 𝑡↑ ⇒ 𝜋𝑡 ↓
Curva di Phillips modificata: 𝑢 𝑡↑ ⇒ (𝜋𝑡 − 𝜋𝑡−1 )↓

IL RITO RNO ALL’ANCORAGGIO DELLE ASPETTATIVE?


Dagli anni 90, la curva di Phillips è variata ancora, a causa di cambiamenti nella politica monetaria: molte
banche centrali, tra le quali la Fed, hanno rafforzato il loro impegno a mantenere l’inflazione bassa e stabile.
Infatti, a metà degli anni 90, la Fed raggiunse il proprio obiettivo rendendo l ’inflazione stabile per più di un
decennio e questo modificò di nuovo il meccanismo di formazione delle aspettative sull’inflazione futura:
anche se, in un certo anno, l’inflazione è superiore all’obiettivo, nel formulare le aspettative sull’inflazione
futura si suppone che la banca centrale adotterà misure sufficienti per riportare l’inflazione al suo obiettivo,
e perciò l’inflazione attesa è di nuovo costante, e pari all’inflazione obiettivo fissata dalla banca centrale.
La relazione tra inflazione e disoccupazione dipende da come le persone formano le loro aspettative, che
a loro volta dipendono dal comportamento dell’inflazione: se essa è stabile nel tempo, le aspettative sono
costanti e la curva di Phillips assume la sua forma originaria; se invece l’inflazione non è costante, cambia
il meccanismo di formazione delle aspettative e la curva di Phillips assumerà la forma della curva modificata.
LA C URVA DI PH ILLIPS E IL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE
La curva di Phillips originaria implicava l’assenza del tasso naturale di disoccupazione per cui, per ottenere
un tasso di disoccupazione minore, i policy-maker avrebbero dovuto tollerare un tasso di inflazione più alto.
Tuttavia, gli economisti Friedman e Phelps affermarono che tale trade-off poteva esistere solo in presenza
di una sottostima dell’inflazione nel determinare i salari. Inoltre, essi sostenevano anche che se il governo
avesse tentato di sostenere un’occupazione elevata accettando un’inflazione più alta, il trade-off sarebbe
scomparso e il tasso di disoccupazione non sarebbe sceso al di sotto del tasso naturale di disoccupazione.
Per definizione, il tasso naturale di disoccupazione è il tasso in corrispondenza del quale il livello effettivo
dei prezzi è uguale a quello atteso; ciò implica che il tasso d’inflazione effettivo sia uguale a quello atteso.
Imponendo l’uguaglianza 𝜋 = 𝜋 𝑒 nell’equazione della curva di Phillips 𝜋 = 𝜋 𝑒 + (𝑚 + 𝑧) − 𝛼𝑢 otteniamo:

Questa equazione mette in relazione il tasso di inflazione, il tasso atteso di inflazione e la deviazione del
tasso di disoccupazione dal tasso naturale. Se la disoccupazione è al tasso naturale, l’inflazione sarà uguale
all’inflazione attesa. Se la disoccupazione è al di sotto del tasso naturale, l’inflazione sarà superiore a quella
attesa. Infine, se la disoccupazione è al di sopra del tasso naturale, l’inflazione sarà inferiore a quella attesa.
Tale equazione fornisce un modo alternativo di pensare a 𝑢 𝑛: è il tasso che mantiene costante l’inflazione.

L’INDIC IZ ZAZIONE DEI SALARI

Quando negli anni 70 l’inflazione è diventata più persistente ed è cambiato il meccanismo di formazione
delle aspettative da parte di chi fissa i salari, si è notato come la relazione tra disoccupazione e inflazione
tende a cambiare al variare del livello e della persistenza dell’inflazione.
Quando il tasso di inflazione diventa elevato, l’inflazione tende a risultare più variabile e di conseguenza i
lavoratori e le imprese sono meno intenzionati a firmare contratti di lavoro che fissano i salari nominali per
un lungo periodo di tempo: se l’inflazione risultasse più alta del previsto, i salari reali diminuirebbero per cui
i lavoratori perderebbero potere d’acquisto; se invece l’inflazione risultasse più bassa del previsto, i salari
reali aumenterebbero e le imprese potrebbero non essere più in grado di pagarli e rischierebbero di fallire.
Di conseguenza, le contrattazioni salariali cambiano anch’esse al variare dell’inflazione: in presenza di alta
inflazione i salari nominali vengono fissati per periodi di tempo più brevi (fino a un anno, un mese o meno).
L’indicizzazione dei salari è un meccanismo che adegua automaticamente i salari all’inflazione. Nel caso in
cui i contratti sono indicizzati i salari nominali sono fissati in base all’inflazione effettiva e si muovono nella
stessa direzione dei prezzi; se non sono indicizzati, i salari nominali sono fissati in base all’inflazione attesa.
Il meccanismo dell’indicizzazione dei salari aumenta l’effetto della disoccupazione sull’inflazione: quanto
maggiore è la proporzione di contratti indicizzati, tanto maggiore è l’effetto del tasso di disoccupazione
sulla variazione dell’inflazione. Questo perché, senza indicizzazione salariale, una minore disoccupazione
fa aumentare i salari, determinando a sua volta un aumento dei prezzi; ma poiché i salari non rispondono
direttamente al cambiamento dei prezzi, nel corso nell’anno non si verifica un ulteriore aumento dei prezzi.
In presenza di indicizzazione salariale, invece, un aumento dei prezzi porta ad un ulteriore aumento dei
salari nel corso dell’anno, che a sua volta provoca un ulteriore aumento dei prezzi e così via: possiamo dire
dunque che in presenza di indicizzazione salariale, l’effetto della disoccupazione sull’inflazione è maggiore.

DEF LAZ IONE E C URVA DI PH ILLIPS

Se l’inflazione è molto bassa o c’è una deflazione, in presenza di un’alta disoccupazione ci aspetteremo
una forte deflazione. Durante la Grande Depressione, tuttavia, un’alta disoccupazione fu accompagnata
soltanto da una deflazione abbastanza limitata. Il motivo è che, in presenza di deflazione, la curva di Phillips
non vale più (o vale meno), in quanto sono pochi i lavoratori disposti ad accettare salari nominali più bassi.
C APITO LO 9: IL M ODELLO IS – LM – PC

L’equilibrio sul mercato dei beni rappresenta il comportamento della


produzione nel breve periodo, ed è rappresentato dalla relazione 𝐼𝑆.
𝑌 = 𝐶(𝑌 − 𝑇) + 𝐼(𝑌, 𝑟 + 𝑥) + 𝐺
Nel breve periodo la produzione è determinata dalla domanda, data
a sua volta dalla somma di consumo, investimento e spesa pubblica.
L’equilibrio sui mercati finanziari è dato dalla relazione 𝐿𝑀 ⇒ 𝑟 = 𝑟̅ ,
che mostra il tasso d’interesse reale scelto dalla banca centrale.
L’intersezione tra la 𝐼𝑆 e la 𝐿𝑀 è il livello di equilibrio della produzione
nel breve periodo: un tasso di interesse reale più basso fa aumentare
la domanda che, a sua volta, provoca un aumento della produzione.

Dall’equilibrio sul mercato del lavoro abbiamo derivato l’equazione che descrive la relazione tra inflazione
e disoccupazione, detta curva di Phillips ⇒ 𝜋 − 𝜋 𝑒 = −𝛼(𝑢 − 𝑢 𝑛 ): quando il tasso di disoccupazione è al
di sotto del tasso naturale, l’inflazione è maggiore di quella attesa; quando invece è esso al sopra del tasso
naturale, l’inflazione è inferiore a quella attesa. Dato che la relazione 𝐼𝑆 è espressa in termini di produzione
bisogna scrivere la curva di Phillips in termini di inflazione e produzione, non di disoccupazione e inflazione.
Consideriamo innanzitutto la relazione tra tasso di disoccupazione e occupazione: la definizione di tasso di
disoccupazione dice che è dato dal rapporto tra numero di disoccupati e dimensione delle forze di lavoro:

𝑢 è il tasso di disoccupazione, 𝑈 è il numero dei disoccupati, 𝑁 è il numero di occupati e 𝐿 la dimensione


delle forze di lavoro: dunque, 𝑢 è uguale a uno meno il numero di occupati in rapporto alle forze di lavoro.
Riscriviamo ora l’equazione in modo da poter esprimere 𝑁 in termini di 𝑢 e otteniamo che: 𝑁 = 𝐿(1 − 𝑢).
Per ottenere la produzione manteniamo l’ipotesi che la produzione è uguale all’occupazione e otteni amo:

Quando il tasso di disoccupazione è al suo livello naturale 𝑢 𝑛, l’occupazione è data da 𝑁𝑛 = 𝐿(1 − 𝑢 𝑛 ) e la


produzione è data da 𝑌𝑛 = 𝐿(1 − 𝑢𝑛 ): 𝑁𝑛 è il livello naturale di occupazione, 𝑌𝑛 è la produzione potenziale.
Esprimiamo le deviazioni del tasso di disoccupazione dal livello naturale in funzione della produzione come
𝑌 − 𝑌𝑛 = 𝐿 [(1 − 𝑢) − (1 − 𝑢 𝑛 )] e otteniamo che 𝑌 − 𝑌𝑛 = −𝐿(𝑢 − 𝑢 𝑛 ): l’equazione è una relazione tra
le deviazioni della produzione dal livello potenziale e le deviazioni della disoccupazione dal livello naturale.
La differenza tra produzione e produzione potenziale è detta output gap: se il tasso di disoccupazione è
al suo livello naturale, la produzione è al suo livello potenziale e l’output gap è pari a zero; quando il tasso
di disoccupazione è superiore al suo livello naturale, la produzione è al di sotto del suo livello potenziale e
l’output gap è negativo; quando il tasso di disoccupazione è inferiore al suo livello naturale, la produzione
è superiore al suo livello potenziale e l’output gap è positivo. Sostituendo 𝐿(𝑢 − 𝑢 𝑛 ) nella curva di Phillips:

Se le aspettative di inflazione sono ancorate, un’ipotesi ragionevole è di


pensare che coloro che fissano i salari si aspettano che l’inflazione sia
uguale all’obiettivo fissato dalla banca centrale, indicato con 𝜋̅ e quindi:

Se al contrario le aspettative di inflazione non sono ancorate e dunque


esse dipendono dall’inflazione del periodo precedente otteniamo che:
L’EQ UILIBRIO DAL BREVE AL MEDIO PERIODO
Con riferimento alle figure precedenti, la banca centrale ha adottato un tasso di interesse reale pari a 𝑟. In
corrispondenza di tale tasso di interesse, nella prima figura il livello della produzione è pari a 𝑌. La figura
che rappresenta la curva 𝑃𝐶 mostra che la produzione 𝑌 è al di sopra del suo livello potenziale 𝑌𝑛: l’output
gap è positivo, e questo implica che l’inflazione è superiore al tasso obiettivo (equilibrio di breve periodo).
Se l’output gap rimane positivo, l’inflazione non solo sarà superiore a
quella obiettivo, ma inizierà ad aumentare. In questo caso è plausibile
un intervento della politica monetaria: ad esempio, la banca centrale
può aumentare il tasso di interesse reale per riportare la produzione al
suo livello potenziale, prima che le aspettative si destabilizzino.
La figura mostra l’equilibrio di medio periodo, che è dato dal punto 𝐴′.
Supponiamo che l’equilibrio iniziale si trova nel punto 𝐴, sia nella figura
superiore che in quella inferiore. Riguardo alla prima figura, se la banca
centrale aumenta il tasso di interesse reale 𝑟, l’economia si muoverà
lungo la curva 𝐼𝑆, dal punto 𝐴 al punto 𝐴′, e la produzione diminuisce.
Riguardo al riquadro inferiore, man mano che la produzione e l’output
gap diminuiscono, l’economia si sposta lungo la curva 𝑃𝐶, da 𝐴 a 𝐴′.
Nel punto 𝐴′, l’economia raggiunge il suo equilibrio di medio periodo:
nel medio periodo, quando il tasso di interesse è al suo livello naturale
(cioè 𝑟 = 𝑟𝑛 dove 𝑟𝑛 è il tasso di interesse naturale o tasso di Wicksell),
l’equilibrio di medio periodo si caratterizza per 𝑌 = 𝑌𝑛 , 𝑢 = 𝑢 𝑛, 𝜋 = 𝜋̅.
Dunque, nel medio periodo l’economia converge verso la produzione
potenziale e l’inflazione converge verso il tasso di inflazione obiettivo.
Per quanto riguarda il tasso di interesse nominale 𝑖, sapendo che il tasso reale è uguale al tasso nominale
meno l’inflazione attesa, allora il tasso nominale è uguale al tasso reale più l’inflazione attesa: 𝑖 = 𝑟 + 𝜋 𝑒 ;
poiché nel medio periodo 𝑟 = 𝑟𝑛 e poiché 𝜋 = 𝜋̅, il tasso d’interesse nominale è pari a 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝜋̅.
Dato che il tasso di interesse nominale è dato da 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝜋̅ e la produzione è al suo livello potenziale 𝑌𝑛
l’equazione che descrive l’equilibrio nel mercato della moneta, nel medio periodo, può essere scritta come:

Le tre le variabili sul lato destro sono costanti in stato stazionario; questo implica che la parte sinistra, cioè
l’offerta reale di moneta, deve essere anch’essa costante. Questo, a sua volta, implica che 𝜋 = 𝑔𝑀: questa
uguaglianza dice che il livello dei prezzi 𝑃 deve crescere allo stesso tasso di crescita della moneta, cioè 𝑔𝑀 .
Di conseguenza, nel medio periodo, il tasso di interesse nominale è uguale al tasso d’interesse naturale più
il tasso di crescita della moneta: poiché 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝜋̅, che 𝜋 = 𝑔𝑀 e che 𝜋 = 𝜋̅ allora otteniamo: 𝑖 = 𝑟𝑛 + 𝑔𝑀.
Dunque, nel medio periodo le variabili reali non dipendono dalla politica monetaria: neutralità della moneta.
Le sole variabili che la politica monetaria determina sono il tasso di inflazione e il tasso di interesse nominale.

C O M PLICAZ IONI
L’aggiustamento all’equilibrio di medio periodo è però più complicato di quanto sembra in quanto la banca
centrale non può aumentare subito il tasso reale da 𝑟 a 𝑟𝑛 e riportare l’inflazione a 𝜋 e la produzione a 𝑌𝑛.
In primo luogo, è difficile che la banca centrale conosca esattamente il livello di 𝑌𝑛 e quanto l’economia sia
lontana da quel livello: questo perché essa non può stimare con precisione le dimensioni dell’output gap.
Quindi, la banca centrale potrebbe regolare il tasso di interesse reale lentamente e vedere cosa succede.
In secondo luogo, ci vuole tempo perché l’economia risponda alla politica fiscale in quanto l ’aggiustamento
degli investimenti, dei consumi e del reddito non è immediato. Quindi, anche se la banca centrale agisce
rapidamente aumentando il tasso reale, ci vuole tempo perché l’economia torni alla produzione potenziale.
LO Z ERO LOWER BOUND E LE SPIRALI DEFLAZIONISTICHE

Consideriamo ora un’economia in recessione: l’equilibrio iniziale è


nel punto 𝐴, con un tasso reale 𝑟 e un livello di produzione pari a 𝑌.
La produzione di trova dunque al di sotto del suo livello naturale 𝑌𝑛
per cui l’output gap è negativo e l’inflazione è inferiore all’obiettivo.
Se l’output gap è molto grande e l’inflazione è molto al di sotto di
quella obiettivo, il risultato potrebbe essere un’inflazione negativa,
e cioè potrebbe accadere che l’economia si trova in deflazione.
La banca centrale dovrebbe diminuire il tasso di interesse reale fino
a che la produzione aumenti fino al suo livello potenziale (𝑌 = 𝑌𝑛).
Con un’economia in forte recessione, però, il tasso reale necessario
a riportare la produzione al suo livello potenziale potrebbe essere
negativo, per cui lo zero lower bound potrebbe rendere impossibile
per la banca centrale raggiungere un tasso reale negativo.
Se lo zero lower bound impedisce di riportare la produzione a 𝑌𝑛,
il risultato può essere una spirale deflazionistica: man mano che la
deflazione aumenta, anche il tasso di interesse reale aumenta, che
a sua volta porta a produzione più bassa e a una deflazione più alta.
Invece di tornare al suo equilibrio di medio periodo, l’economia si
allontana sempre più, con una produzione sempre più bassa e una
deflazione sempre più alta aggravando ulteriormente la recessione.

IL C O NSO LIDAM ENTO F ISCALE NEL M EDIO PERIODO

Supponiamo che l’equilibrio iniziale sia nel punto 𝐴, sia nel riquadro
superiore che in quello inferiore: la produzione è al livello potenziale
𝑌𝑛, il tasso di interesse è al tasso naturale 𝑟𝑛 e l’inflazione è stabile.
Supponiamo che il governo decida di aumentare le imposte: questo
aumento fa spostare la curva 𝐼𝑆 verso sinistra, da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′. Dato che
si tratta di un cambiamento nella politica fiscale, la banca centrale
non modifica il tasso d’interesse per cui la curva 𝐿𝑀 resta invariata.
Dunque, l’economia si muove lungo la 𝐿𝑀 per raggiungere il nuovo
equilibrio di breve periodo, che si trova nel punto 𝐴′: in tale punto la
produzione diminuisce da 𝑌𝑛 a 𝑌′ e anche l’inflazione diminuisce.
Nel breve periodo, un aumento delle imposte fa diminuire il reddito
disponibile, che a sua volta fa diminuire il consumo. Di conseguenza,
anche la produzione diminuisce e con essa l’investimento si riduce.
Nel medio periodo, la banca centrale interverrà riducendo il tasso
reale da 𝑟𝑛 a𝑟′𝑛 per riportare la produzione al suo livello potenziale.
L’equilibrio di medio periodo è dato dal punto 𝐴′′: in questo punto,
la produzione è tornata ad 𝑌𝑛 e l’inflazione è nuovamente stabile.
Nel medio periodo la composizione della produzione è cambiata:
dato che il reddito è lo stesso di prima, ma le imposte sono più alte,
il consumo sarà minore; ma dato che la produzione è tornata a 𝑌𝑛 e
il tasso reale è minore, nel medio periodo l’investimento è maggiore.
Dunque, nel medio periodo la riduzione del consumo è controbilanciata da un aumento dell’investimento,
in modo che la domanda rimanga invariata. In conclusione, possiamo dire che: sebbene nel breve periodo
il consolidamento fiscale fa diminuire l’investimento, nel medio periodo esso fa aumentare l’investimento.
GLI EF F ETTI DI UN AUMENTO DEL PREZZ O DEL PETROLIO

Finora abbiamo analizzato shock della domanda, cioè shock che producono uno spostamento della 𝐼𝑆, ma
che lasciano invariata la produzione potenziale e, dunque, la posizione della curva 𝑃𝐶. Esistono, tuttavia,
altri tipi di shock che producono un effetto sia sulla domanda che sul livello potenziale della produzione e
producono uno spostamento sia della curva 𝐼𝑆 che della curva 𝑃𝐶. I cambiamenti nel prezzo del petrolio
sono un esempio di tali shock: supponiamo, ad esempio, che il prezzo del petrolio in termini reali aumenti.
Il prezzo del petrolio non è una variabile direttamente contenuta nel modello 𝐼𝑆 – 𝐿𝑀 – 𝑃𝐶, tuttavia, si può
ragionare sugli effetti che tale aumento può provocare: un aumento del prezzo del petrolio fa aumentare
i costi di produzione, spingendo le imprese a aumentare i prezzi per mantenere lo stesso tasso di profitto.
Per mantenere il medesimo tasso di profitto, le imprese potrebbero per esempio aumentare 𝑚, il markup.

L’AUM ENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO E EF FETTI SUL TASSO NATURALE DI DISOCC UPAZIONE
La figura mostra l’equilibrio nel mercato del lavoro: l’equilibrio iniziale
è dato dal punto 𝐴 con un tasso di disoccupazione pari a 𝑢 𝑛. La curva
𝑊𝑆 che descrive l’equazione dei salari ha una pendenza negativa in
quanto un tasso di disoccupazione più alto fa diminuire il salario reale.
La curva che descrive l’equazione dei prezzi è una retta orizzontale
𝑃𝑆 in corrispondenza del salario reale 1/1 + 𝑚 scelto dalle imprese.
Un aumento del markup provoca una diminuzione del salario reale
offerto dalle imprese e la curva 𝑃𝑆 si sposta verso il basso, fino a 𝑃𝑆′.
L’equilibrio si sposta da 𝐴 a 𝐴′: nel nuovo equilibrio, il tasso naturale
di disoccupazione è aumentato ad 𝑢′𝑛 ed il salario reale è diminuito.
Dato il prezzo del petrolio maggiore, il salario che le imprese possono
permettersi di pagare è minore: convincere i lavoratori ad accettare
un salario reale più basso richiede un aumento della disoccupazione.

L’AUM ENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO E G LI EFF ETTI DI BREVE PERIODO E DI M EDIO PERIODO
Supponiamo che l’equilibrio iniziale si trova nel punto 𝐴, in entrambi i
riquadri, che la produzione sia al livello potenziale 𝑌𝑛, che l’inflazione
sia stabile e che il tasso d’interesse sia al tasso naturale, cioè pari a 𝑟𝑛 .
L’aumento del tasso naturale di disoccupazione conduce, a sua volta,
a una diminuzione del livello naturale di occupazione. Se assumiamo
ancora una volta che 𝑌 = 𝑁, allora la riduzione del tasso naturale di
occupazione porta a una pari riduzione della produzione potenziale.
Dunque, un aumento del prezzo del petrolio, porta ad una riduzione
della produzione potenziale, da 𝑌𝑛 a 𝑌′ 𝑛 : la 𝑃𝐶 si sposta da 𝑃𝐶 a 𝑃𝐶′.
Se la 𝐼𝑆 e la 𝐿𝑀 non si spostano, la produzione non cambia però lo
stesso livello di produzione è associato a un tasso d’inflazione più alto.
Dunque, nel breve periodo, l’equilibrio è dato dal punto 𝐴′: nel breve
periodo il livello di produzione non varia, ma l’inflazione è maggiore.
La banca centrale si troverà costretta ad aumentare il tasso di policy
per contrastare l’aumento dell’inflazione: la 𝐿𝑀 si sposta verso l’alto.
L’economia si sposta lungo la 𝐼𝑆 e la 𝑃𝐶 fino ad arrivare al punto 𝐴′′
cioè l’equilibrio di medio periodo: nel medio periodo, l’aumento del
prezzo del petrolio provoca una riduzione del livello della produzione.
Nel medio periodo si osserva dunque una stagflazione, in cui «stag»
sta per stagnazione, mentre «flazione» sta per inflazione: un aumento
dell’inflazione che è accompagnato da un riduzione della produzione.
GLI EF F ETTI DEL DISTANZIAMENTO SOC IALE DURANTE IL G R EAT LOCKDOWN

Ci possono essere altri shock che influenzano sia la domanda che la produzione potenziale, causati però da
ragioni indipendenti dall’economia: un esempio il Great Lockdown, dovuto alle misure di distanziamento
sociale adottate in tutto il mondo nel 2020 per cercare di impedire che il Covid si diffondesse ulteriormente.
Per permettere il distanziamento, la maggior parte delle imprese ha dovuto fermare la propria produzione.

GLI EF F ETTI DI UN LOC KDOWN SUL TASSO NATURALE DI DISOCC UPAZIONE


La relazione 𝑃𝑆 che descrive la fissazione dei prezzi diventa verticale poiché le imprese, nel fissare i prezzi,
sono costrette a prendere l’occupazione come data e anche a rinunciare al tasso di profitto desiderato in
quanto le imprese non possono aumentare la produzione oltre il livello consentito dalle restrizioni. Poiché
il numero dei lavoratori che possono effettivamente lavorare durante il lockdown è limitato a quelli che
lavorano in settori considerati essenziali, il livello dell’occupazione è molto più basso di quello precedente.
Tutto ciò si traduce in un tasso di disoccupazione naturale più alto e una produzione potenziale più bassa.
Riguardo alla determinazione dei salari, in tempi normali, un aumento del
tasso di disoccupazione indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori
costringendoli ad accettare salari molto più bassi da parte delle imprese.
Durante il blocco, però, le imprese non possono assumere più lavoratori
e allo stesso tempo i salari sono bloccati dai regimi pubblici di sostegno al
reddito, così che il salario resti al livello precedente al blocco, nonostante
l’aumento della disoccupazione. Dunque, la relazione 𝑊𝑆 che descrive la
fissazione dei salari diventa orizzontale in corrispondenza di un livello di
salario reale pari a 1/(1+ 𝑚), dove 𝑚 rappresenta il markup pre- blocco.
L’equilibrio nel mercato del lavoro durante il blocco si trova dunque nel
punto 𝐴, con un tasso naturale di disoccupazione più alto pari a 𝑢′𝑛 > 𝑢 𝑛 .

GLI EF F ETTI DI UN LOC KDOWN NEL BREVE E NEL M EDIO PERIODO


Supponiamo che l’equilibrio iniziale prima del blocco sia nel punto 𝐴, con
la produzione al suo livello potenziale pari a 𝑌𝑛 ed il tasso reale pari a 𝑟𝑛 .
Con l’inizio del blocco, la produzione potenziale diminuisce da 𝑌𝑛 ad 𝑌′𝑛 .
Si riduce anche la domanda, per cui la curva 𝐼𝑆 si sposta verso sinistra: il
blocco riduce l’occupazione e il reddito dei lavoratori, provocando un calo
della domanda; inoltre, si riducono gli investimenti da parte delle imprese.
Il nuovo equilibrio di breve periodo è dato dal punto 𝐴, con un livello di
produzione potenziale pari a 𝑌′𝑛 , cioè più basso del livello pre-blocco 𝑌𝑛.
Nel medio periodo, la produzione resterà al nuovo livello potenziale: un
lockdown fa diminuire la produzione sia nel breve che nel medio periodo.
Supponiamo ora che la produzione nel breve periodo diminuisca fino a 𝑌𝑡
cioè scende di più del nuovo livello di produzione potenziale (𝑌𝑡 > 𝑌′𝑛 ).
Ciò accade se il calo della domanda è più grande del calo della produzione.
In questo caso, i governi potrebbero adottare misure di politica fiscale
espansiva tramite un aumento della spesa pubblica oppure una riduzione
delle imposte, cercando di spostare la curva 𝐼𝑆 verso destra, da 𝐼𝑆′ a 𝐼𝑆′′.
Inoltre, le banche centrali possono adottare misure di politica monetaria
espansiva riducendo il tasso reale e spostando la curva 𝐿𝑀 verso il basso.
In entrambi i casi, la produzione potrà aumentare soltanto fino al nuovo
livello potenziale pari a 𝑌′𝑛 ma comunque inferiore al livello 𝑌𝑛 pre-blocco.
Le autorità di politica economica reagiscono però la produzione resta comunque inferiore al livello iniziale.
C APITO LO 10 : LA CRESC ITA
La percezione dell’economia tende ad essere influenzata dalle fluttuazioni annuali dell’attività economica.
Un’espansione ispira ottimismo, mentre una recessione ispira incertezza. Nel lungo periodo le fluttuazioni
perdono importanza e la cr escita diventa il fattore dominante. Passiamo dallo studio delle determinanti
della produzione nel breve e medio periodo, quando dominano le fluttuazioni, alla determinazione della
produzione nel lungo periodo quando domina la crescita (aumento della produzione aggregata nel tempo)

C O M E SI M ISURA LA Q UALITÀ DELLA VITA?

La ragione per cui ci si preoccupa della crescita è da ricondurre al nostro interesse per la qualità della vita.
Osservando anni diversi, ci interessa sapere quanto è amentata la qualità della vita nel tempo; osservando
paesi diversi ci interessa sapere quanto è migliore la qualità della vita in un paese rispetto ad un altro paese.
La variabile su cui ci concentriamo è il prodotto pro capite, cioè il PIL di un paese diviso il numero di abitanti.
Per confrontare il prodotto pro capite tra paesi diversi bisogna considerare che paesi diversi usano valute
differenti, e la produzione in ogni paese è espressa in termini della propria valuta nazionale. Una soluzione
potrebbe essere quella di utilizzare i tassi di cambio; tuttavia, questa soluzione non funziona per due motivi:
in primo luogo, i tassi di cambio possono variare molto anche in brevi periodo di tempo; in secondo luogo,
ci possono essere differenze sistematiche dei prezzi tra paesi, per cui quanto minore è il livello del prodotto
pro capite in un paese, tanto minori saranno i prezzi dei beni alimentare e dei servizi essenziali in quel paese.
Di conseguenza, quando vogliamo confrontare la qualità della vita in paesi diversi dobbiamo tener conto
sia della fluttuazioni del tasso di cambio, sia delle differenze sistematiche dei prezzi tra paesi: nel misurare
il PIL pro capite si deve usare un insieme di rezzi comune per tutti i paesi (parità dei poteri d’acquisto, PPP).
Possiamo concludere facendo tre osservazioni:
• ciò che conta per il benessere delle persone è il loro livello di consumo e non il loro reddito: è preferibile
dunque utilizzare il consumo pro capite al posto del prodotto pro capite per misurare la qualità della vita.
Poiché il rapporto tra consumo e reddito è abbastanza simile tra paesi, la graduatoria dei paesi è la stessa
sia che si usi il consumo pro capite che il prodotto pro capite per misurare la qualità della vita di un paese.
• dal lato della produzione, la misura appropriata è il prodotto per lavoratore o prodotto per ora lavorativa.
Il prodotto pro capite e il prodotto per lavoratore (o per ora lavorativa) sono diversi in base al rapporto
tra la popolazione in età lavorativa e la popolazione totale, al tasso di occupazione e agli orari lavorativi.
• la ragione per cui siamo interessati alla qualità della vita è che ciò che conta è la felicità degli individui: la
domanda che ci poniamo è dunque se un più alto reddito pro capite sia associato a una maggior felicità.

IL PARADO SSO DI EASTERLIN


Le analisi sulla relazione tra reddito e felicità hanno suggerito che l’ipotesi per la ad un maggior reddito pro
capite è associata una maggiore felicità potrebbe essere sbagliata, portando al c.d. paradosso di Easterlin.
Easterlin osservò i seguenti tre fatti:
• se si confrontano paesi differenti, la felicità in paese sembra essere tanto maggiore quanto è più altro il
livello del reddito pro capite. Tale correlazione, tuttavia, emerge solamente in paesi relativamente poveri.
• se si analizzano i singoli paesi nel corso del tempo, la felicità media non aumenta con il reddito pro capite.
• se si studiano i singoli individui, la felicità appare correlata al reddito, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri.
Il paradosso sta nel fatto che, mentre gli individui ricchi all’interno di un paese sembrano essere più felici
degli altri, la felicità non sembra aumentare con il reddito quando si considera un paese nel suo complesso.
Possiamo dunque dire che un maggior reddito pro capire non aumenta la felicità, ma quello che aumenta
la felicità non è il reddito in termini assoluti ma il reddito di un individuo in relazione a quello di altri individui.
Le ricerche di Stevenson e Wolfers sembrano smentire tale paradosso, facendo emergere una correlazione
positiva tra il reddito pro capite e la felicità degli individui: la felicità individuale aumenta con il reddito, sia
perché il paese diventa più ricco sia perché gli individui diventano relativamente più ricchi all’interno di esso.
LA C RESC ITA NEI PAESI RICCH I D EL 1 950

Considerando la crescita del prodotto pro capite di cinque paesi avanzati (la Francia, il Giappone, l’Italia, il
Regno Unito e gli Stati Uniti) a partire dal 1950 fino ad oggi, emergono due fatti principali. In primo luogo,
tutti i paesi hanno registrato una forte aumento del prodotto pro capite nel corso del tempo: ciò riflette la
cosiddetta forza della capitalizzazione, che consiste nell’accumulare interessi per aumentare la ricchezza.
In secondo luogo, si è verificata una convergenza dei livelli di prodotto pro capite nel corso del tempo. Ciò
significa che i paesi ritardatari sono cresciuti più rapidamente, riducendo così il divario tra loro e la maggiore
potenza economica mondiale, gli Stati Uniti. I valori del prodotto pro capite tra i vari paesi sono molto più
simili tra loro nel 2017 di quanto non lo fossero nel 1950: nonostante il prodotto pro capite statunitense è
ancora oggi più elevato, la differenza con quello degli altri paesi è molto inferiore rispetto a quella del 1950.

UNA PANO RAMIC A NEL TEMPO E NELLO SPAZIO

Consideriamo ora la crescita su un arco di tempo molto più lungo e per un gruppo di paesi molto più ampio.
Dalla fine dell’impero romano al 1500, in Europa si è registrata una crescita del prodotto pro capite quasi
nulla: gran parte dei lavoratori era impiegata nell’agricoltura, dove il progresso tecnologico è stato scarso.
Nonostante ci sia stata una modesta crescita della produzione, tale crescita è stata accompagnata da un
aumento quasi proporzionale della popolazione e portando a un prodotto pro capite più o meno costante.
Questo periodo è detto era malthusiana: secondo Malthus, ogni aumento della produzione fa diminuire la
mortalità, e quindi provoca un aumento della popolazione finché il prodotto pro capite non torna al livello
iniziale. L’Europa si trovava in una trappola malthusiana, incapace di aumentare il suo prodotto pro capite.
Dal 1500 al 1700 la crescita del prodotto pro capite è diventata positiva, ma comunque scarsa e pari circa
allo 0,1% annuo, ed è aumentata allo 0,2% dal 1700 al 1820. Dalla rivoluzione industriale, i tassi di crescita
sono aumentati fino a circa l’1,5% annuo e tassi di crescita più alti sono stati osservati soltanto dopo il 1950.
La convergenza dei livelli di prodotto pro capite non è un fenomeno esteso a tutti i paesi. La convergenza
è evidente per i paesi Ocse e per molti paesi asiatici. Il Giappone è il primo paese asiatico in cui è iniziata la
crescita e oggi registra il più alto livello di reddito pro capite nel continente. Dal 1960, le cosiddette quattro
tigri asiatiche (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) hanno cominciato a crescere rapidamente.
Più recentemente, l’esperienza più importante è quella della Cina, sia per gli elevatissimi tassi di crescita
che per le dimensioni, anche se il suo prodotto pro capite è ancora solo 1/4 circa di quello degli Stati Uniti.
Riguardo ai paesi africani, invece, nel 1960 gran parte di essi era molto povera e questo ha portato a fasi di
crescita negativa del prodotto pro capite; solo dagli anni duemila la crescita è tornata lentamente positiva.

LA C RESC ITA E LA F UNZIONE DI PRODUZIONE AGG REGAT A


Il punto di partenza per analizzare la crescita deve essere una funzione di produzione aggregata, che mette
in relazione il prodotto aggregato con due fattori produttivi, capitale e lavoro. Questa funzione è data da:
𝑌 è la produzione aggregata, 𝐾 è il capitale, 𝑁 è il lavoro e 𝐹 è la funzione di produzione
aggregata che indica quanto prodotto è ottenuto per date quantità di capitale e lavoro.
La funzione 𝐹 dipende dallo stato della tecnologia: quanto maggiore è lo stato della tecnologia, tanto più
alto è 𝐹(𝐾, 𝑁) per dati 𝐾 e 𝑁. Questo vuol dire che con le stesse quantità di capitale e di lavoro, un paese
con una tecnologia più avanzata produrrà molto di più rispetto a un paese con una tecnologia più arretrata.
Nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti, se si raddoppiano le quantità sia di capitale che di lavoro, anche
la produzione raddoppierà: 2𝑌 = 𝐹(2𝐾,2𝑁). In generale, per ogni valore x abbiamo che: 𝑥𝑌 = 𝐹(𝑥𝐾, 𝑥𝑁).
Se aumenta un solo fattore produttivo, dobbiamo considerare i rendimenti decrescenti di capitale e lavoro.
Dato il lavoro, un aumento della quantità di capitale genera un aumento di produzione tanto minore quanto
maggiore è la quantità di capitale già impiegata: tale proprietà è detta rendimenti decrescenti del capitale.
Dato il capitale, un aumento della quantità di lavoro genera un aumento di produzione tanto minore quanto
maggiore è la quantità di lavoro già impiegata: questa proprietà è detta rendimenti decrescenti del lavoro.
PRO DO TTO PER LAVORATORE E C APITALE PER LAVORATORE
Per la funzione di produzione, le proprietà dei rendimenti decrescenti del capitale e del lavoro comportano
una relazione tra prodotto per lavoratore e capitale per lavoratore. Se poniamo 𝑥 uguale a 1/𝑁 otteniamo:

Questa è la forma intensiva della funzione di produzione: 𝑌/𝑁 è il prodotto per lavoratore, 𝐾/𝑁 è il capitale
per lavoratore: la quantità di produzione per lavoratore dipende dalla quantità di capitale per lavoratore.
Nel grafico, il prodotto per lavoratore è misurato sull’asse verticale,
mentre il capitale per lavoratore è misurato sull’asse orizzontale.
La relazione tra i due è data da una curva crescente: se aumenta il
capitale per lavoratore, aumenta anche il prodotto per lavoratore.
Per la proprietà dei rendimenti decrescenti del capitale, la curva è
disegnata in modo che ulteriori aumenti di capitale per lavoratore
provocano aumenti sempre più piccoli del prodotto per lavoratore:
nel punto 𝐴, dove il capitale per lavoratore è basso, un aumento
del capitale per lavoratore 𝐴𝐵 provoca un aumento del prodotto
per lavoratore 𝐴′𝐵′. Nel punto 𝐶, dove il capitale per lavoratore è
maggiore, lo stesso aumento di capitale per lavoratore 𝐶𝐷 = 𝐴𝐵
genera un minore aumento di prodotto per lavoratore, pari a 𝐶′𝐷′.

IL PRO G RESSO TECNOLOGICO


Gli aumenti del prodotto per lavoratore, oltre che da aumenti del
capitale per lavoratore, possono derivare anche da miglioramenti
della tecnologia che fanno spostare la funzione di produzione 𝐹 e
permettono di ottenere una maggiore quantità di produzione per
lavoratore con la stessa quantità di capitale per lavoratore: infatti,
come possiamo notare in figura, un miglioramento della tecnologia
fa spostare verso l’alto la funzione di produzione fino a 𝐹(𝐾/𝑁, 1)′.
Per un dato livello di capitale per lavoratore, il miglioramento della
tecnologia provoca un aumento del prodotto per lavoratore. Nella
figura, per un dato livello di capitale per lavoratore dato dal punto
𝐴, la tecnologia fa aumentare il prodotto per lavoratore da 𝐴′ a 𝐵′.

LE F O NTI DELLA C RESCITA: L’AC CUM ULAZIO NE DI C APITALE E D IL PROGRESSO TEC NOLOGICO
Dunque, le fonti della crescita sono costituite dall’accumulazione di capitale e dal progresso tecnologico,
cioè dal miglioramento della tecnologia, però i due fattori hanno ruoli molto diversi nel processo di crescita.
L’accumulazione di capitale da sola non può sostenere la crescita: a causa dei rendimenti decrescenti del
capitale, sostenere un aumento costante del prodotto per lavoratori richiede aumenti sempre maggiori del
livello di capitale per lavoratore: l’economia però, ad un certo punto, non sarà più disposta a risparmiare
abbastanza per aumentare il capitale. Dunque, un maggior tasso di risparmio, non può sostenere in modo
permanente un maggior tasso di crescita della produzione, ma soltanto un maggior livello di produzione.
Poiché i due fattori che possono portare a un aumento della produzione sono l’accumulazione di capitale
e il progresso tecnologico, se l’accumulazione di capitale non può sostenere la crescita per sempre, allora
la crescita deve necessariamente derivare dal progresso tecnologico: questo significa dunque che nel lungo
periodo, un’economia con un elevato tasso di progresso tecnologico finirà per superare le altre economie.
Il tasso di progresso tecnologico dipende dallo stato della tecnologia, ovvero dall’insieme dei progetti che
definiscono sia la gamma di prodotti che possono essere prodotti nell’economia, sia le tecniche disponibili.
C APITO LO 11 : RISPARMIO, AC CUMULAZ IONE DI C APITALE E PRODUZIONE
Nel lungo periodo, l’andamento della produzione è determinato da due relazioni tra produzione e capitale:
1) l’ammontare del capitale per lavoratore determina l’ammontare possibile di produzione per lavoratore.
2) l’accumulazione di capitale dipende dal livello di produzione, che determina il risparmio e l’investimento.

GLI EF F ETTI DEL C APITALE SULLA PRODUZIONE ( 1)

Nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti, la relazione tra produzione e capitale per lavoratore è data da:
il prodotto per lavoratore (𝑌/𝑁) è funzione crescente del capitale per lavoratore (𝐾/𝑁).
Sotto l’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale, l’effetto di un aumento del capitale
per lavoratore sulla produzione è sempre più piccolo all’aumentare del suo livello iniziale.
Per semplificare l’equazione, la relazione tra produzione e capitale si può scrivere come: 𝑌/𝑁 = 𝑓(𝐾/𝑁).
Per determinare la prima relazione tra produzione e capitale per lavoratore, facciamo due ulteriori ipotesi:
• la prima è che dimensione della popolazione, tasso di partecipazione e di disoccupazione sono costanti.
Di conseguenza il numero di lavoratori 𝑁 è costante e l’unico fattore di produzione che varia è il capitale.
• la seconda è che non c’è progresso tecnologico, così che la funzione di produzione 𝑓 non varia nel tempo.
Con queste due ipotesi, possiamo scrivere la prima relazione tra produzione e capitale per lavoratore come:
dove abbiamo introdotto gli indici temporali per la produzione e per il capitale, ma non
per il lavoro 𝑁 che per ipotesi è costante e perciò non varia nel tempo. L’equazione ci
dice che un maggior capitale per lavoratore porta a un maggior prodotto per lavoratore.

GLI EF F ETTI DELLA PRODUZIONE SULL’ACCUMULAZIONE DI C APITALE (2)

Per determinare la seconda relazione tra produzione e capitale per lavoratore procediamo in due fasi: prima
ricaviamo la relazione tra produzione e investimento, e dopo tra investimento e accumulazione di capitale.

LA RELAZ IO NE TRA PRODUZIONE E INVESTIM ENTO


La pr ima fase riguarda la relazione tra produzione e investimento. Per determinarla bisogna fare tre ipotesi:
• assumiamo che l’economia è chiusa: ciò vuol dire che l’investimento è pari al risparmio, dato dalla somma
del risparmio privato 𝑆 e del risparmio pubblico 𝑇 − 𝐺. L’investimento, dunque, è pari a 𝐼 = 𝑆 + (𝑇 − 𝐺).
• per concentrarci sul risparmio privato, assumiamo che il risparmio pubblico è nullo e dunque si ha: 𝐼 = 𝑆.
• assumiamo che il risparmio privato è proporzionale al reddito, cioè: 𝑆 = 𝑠𝑌 dove 𝑠 è il tasso di risparmio.
Combinando queste due relazioni e inserendo gli indici temporali otteniamo la relazione tra investimento e
produzione come 𝐼𝑡 = 𝑠𝑌𝑡: maggiore è la produzione, più alto è il risparmio e dunque anche l’investimento.

LA RELAZ IO NE TRA INVESTIMENTO E AC C UMULAZIONE DI C APITALE


La seconda fase riguarda la relazione tra investimento (flusso) e capitale (stock). Per determinarla bisogna
ipotizzare che il tempo è misurato in anni, che lo stock di capitale è misurato all’inizio di ogni anno, che ogni
anno una porzione 𝛿 dello stock di capitale diventa fuori uso e che una porzione pari a (1 − 𝛿) resta intatta.
L’andamento dello stock di capitale è dunque dato da 𝐾𝑡+1 = (1 − 𝛿 )𝐾𝑡 + 𝐼𝑡 : l’equazione dice che lo stock
di capitale all’inizio dell’anno t + 1 è uguale allo stock di capitale all’inizio dell’anno t che rimane intatto fino
all’anno t + 1 più l’investimento nel corso dell’anno t, cioè il nuovo stock di capitale accumulato nell’anno t.
Se sostituiamo l’investimento con l’espressione precedente 𝐼𝑡 = 𝑠𝑌𝑡 e dividiamo entrambi i lati per 𝑁 si ha:
il capitale per lavoratore all’inizio dell’anno t + 1 è pari al capitale per lavoratore
all’inizio dell’anno t (meno il deprezzamento) più l’investimento per lavoratore
nell’anno t, pari al tasso di risparmio per il prodotto per lavoratore nell’anno t.
Se moltiplichiamo (1 − 𝛿 )𝐾𝑡 /𝑁 e spostiamo 𝐾𝑡 /𝑁 sul lato sinistro, otteniamo
la seconda relazione: la variazione dello stock di capitale per lavoratore è pari
al risparmio per lavoratore meno il deprezzamento del capitale per lavoratore.
LA DINAM IC A DEL C APITALE E DELLA PRODUZIONE NEL LUNGO PERIODO
Finora abbiamo derivato due relazioni tra capitale per lavoratore e prodotto per lavoratore: dal lato della
produzione, la prima relazione indica in che modo il capitale determina la produzione; dal lato del risparmio,
la seconda relazione indica in che modo la produzione determina a sua volta l’accumulazione di capitale.
Sostituendo il prodotto per lavoratore 𝑌𝑡 /𝑁 nella seconda relazione con l’espressione 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁) otteniamo:
Questa relazione descrive che cosa succede al capitale
per lavoratore: la sua variazione da un anno ad un altro
dipende dalla differenza due termini, investimento per
lavoratore e deprezzamento del capitale per lavoratore.
Se l’investimento per lavoratore è più alto del deprezzamento per lavoratore, la variazione del capitale per
lavoratore è positiva e il capitale aumenta; se l’investimento per lavoratore è più basso del deprezzamento
per lavoratore la variazione del capitale per lavoratore sarà negativa e il capitale per lavoratore diminuisce.
Dato il capitale per lavoratore, il prodotto per lavoratore è dato dall’equazione: 𝑌𝑡⁄𝑁 = 𝑓(𝐾𝑡 ⁄𝑁). Queste
due equazioni ci permettono di comprendere la dinamica del capitale e della produzione nel lungo periodo.
Nel grafico, il prodotto per lavoratore è sull’asse verticale mentre
il capitale per lavoratore è sull’asse orizzontale. Consideriamo in
primo luogo la curva che rappresenta il prodotto per lavoratore
𝑓(𝐾𝑡 ⁄𝑁) come funzione crescente del capitale per lavoratore: il
prodotto per lavoratore aumenta all’aumentare del capitale per
lavoratore, però tale effetto è tanto minore quanto è maggiore
il livello del capitale per lavoratore, per i rendimenti decrescenti.
Consideriamo ora le due curve che descrivono l’investimentoper
lavoratore 𝑠𝑓(𝐾𝑡 ⁄𝑁) e il deprezzamento per lavoratore 𝛿 𝐾𝑡 ⁄𝑁:
• la curva 𝑠𝑓(𝐾𝑡 ⁄𝑁) che rappresenta l’investimento per lavoratore ha la medesima forma della funzione di
produzione ma è più bassa di un fattore pari a 𝑠, ovvero il tasso di risparmio. Supponiamo che nel grafico
il livello di capitale per lavoratore sia uguale a 𝐾0⁄𝑁: il prodotto per lavoratore è dato dalla distanza 𝐴𝐵 e
l’investimento è dato dalla distanza 𝐴𝐶, che è pari alla distanza 𝐴𝐵 moltiplicata per il tasso di risparmio 𝑠.
L’investimento per lavoratore cresce anch’esso all’aumentare del capitale per lavoratore ma, sempre per
i rendimenti decrescenti del capitale, aumenta sempre di meno all’aumentare del capitale per lavoratore.
• la curva 𝛿 𝐾𝑡 ⁄𝑁 che rappresenta il deprezzamento per lavoratore è data da una retta con inclinazione 𝛿.
Il deprezzamento per lavoratore aumenta in misura proporzionale al capitale per lavoratore: nella figura,
al livello di capitale per lavoratore pari a 𝐾0⁄𝑁 il deprezzamento per lavoratore è dato dalla distanza 𝐴𝐷.
La variazione del capitale per lavoratore è data dalla differenza tra investimento e deprezzamento: al livello
di capitale 𝐾0⁄𝑁 essa è positiva ed è pari alla distanza 𝐶𝐷 = 𝐴𝐶 − 𝐴𝐷: il capitale per lavoratore aumenta.
A un livello di capitale per lavoratore 𝐾 ⋇⁄𝑁 l’investimento è pari al deprezzamento e il capitale è costante:
- alla sinistra di 𝐾⋇ ⁄𝑁 l’investimento eccede il deprezzamento e il capitale per lavoratore aumenta e ciò è
rappresentato dalle frecce che puntano verso destra lungo la curva che descrive la funzione di produzione.
- alla destra di 𝐾 ⋇⁄𝑁 il deprezzamento eccede l’investimento e il capitale per lavoratore diminuisce e ciò è
rappresentato dalle frecce che puntano verso sinistra lungo la curva che descrive la funzione di produzione.
Quando il capitale per lavoratore raggiunge il livello 𝐾⋇ ⁄𝑁, il prodotto e il capitale per lavoratore rimangono
costanti rispettivamente a 𝑌 ⋇⁄𝑁 e a 𝐾⋇ ⁄𝑁: questi rappresentano i loro livelli di equilibrio di lungo periodo.
La situazione in cui prodotto e capitale per lavoratore sono costanti è lo stato stazionario dell’economia.
In stato stazionario, per definizione, la variazione del capitale per lavoratore è nullo.
Il valore di stato stazionario del capitale per lavoratore è dato da un’equazione in cui
l’ammontare del risparmio per lavoratore è uguale al deprezzamento per lavoratore:
Dato il capitale per lavoratore, il prodotto per lavoratore è dato da 𝑌𝑡⁄𝑁 = 𝑓 (𝐾𝑡⁄𝑁)
per cui il valore di stato stazionario del prodotto per lavoratore è dato dall’equazione:
TASSO DI RISPARM IO E PRODUZIONE
Come il tasso di risparmio influenza il prodotto per lavoratore? L’analisi condotta ci porta a tre conclusioni.
• il tasso di risparmio non influenza il tasso di crescita di lungo periodo del prodotto per lavoratore, che è nullo
nel lungo periodo, l’economia converge a un livello costante di prodotto per lavoratore, dunque, il tasso
di crescita di lungo periodo del prodotto per lavoratore è uguale a 0 a prescindere dal tasso di risparmio.
Per sostenere un tasso di crescita positivo e costante della produzione, il capitale dovrebbe aumentare
però anche risparmiare l’intera produzione non basta a sostenere l’accumulazione di capitale e la crescita.
• il tasso di risparmio determina il livello del prodotto per lavoratore nel lungo periodo: a parità di altri fattori,
i paesi con un tasso di risparmio più alto raggiungeranno un maggiore livello del prodotto per lavoratore.
Consideriamo due paesi con la medesima funzione di produzione,
lo stesso livello di occupazione e lo stesso tasso di deprezzamento
però con diversi tassi di risparmio, 𝑠0 e 𝑠1 e consideriamo 𝑠1 > 𝑠0.
Il grafico mostra la funzione di produzione comune, cioè 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁)
e le funzioni che esprimono il rapporto risparmio/investimento in
funzione del capitale nei due paesi, cioè 𝑠0 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁) e 𝑠1 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁).
Nel lungo periodo, il paese con il tasso di risparmio 𝑠0 raggiungerà
livelli di capitale e prodotto per lavoratore minori del paese con 𝑠1.
• un aumento del tasso di risparmio porterà ad un aumento del prodotto per lavoratore ma non per sempre:
in seguito all’aumento del tasso di risparmio l’economia attraverserà un periodo di crescita positiva, ma
destinato comunque a esaurirsi quando la produzione non raggiunge il nuovo livello di stato stazionario.
Facendo riferimento alla figura precedente, consideriamo un paese con un tasso iniziale di risparmio 𝑠0 e
assumiamo che capitale e prodotto per lavoratore siano inizialmente pari rispettivamente a 𝐾0 /𝑁, 𝑌0 /𝑁.
Se il tasso di risparmio aumenta da 𝑠0 a 𝑠1 la funzione che esprime il rapporto risparmio/investimento per
lavoratore in funzione del capitale per lavoratore si sposta verso l’alto, da 𝑠0 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁) fino a 𝑠1 𝑓(𝐾𝑡 /𝑁):
dopo l’aumento del tasso di risparmio, il prodotto per lavoratore aumenta p er un periodo di tempo fino
a raggiungere il suo nuovo livello di stato stazionario 𝑌1/𝑁; da tale momento il tasso di crescita torna a 0.

TASSO DI RISPARMIO E C O NSUM O

I governi possono usare vari strumenti per influenzare il tasso di risparmio: possono modificare il risparmio
pubblico o usare le imposte per influenzare quello provato. Qual è il tasso a cui dovrebbe ambire il governo?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo concentrarci sul comportamento del consumo e non della
produzione in quanto gli individui non sono interessati alla produzione, bensì al proprio livello di consumo.
Un aumento del risparmio è inizialmente associato auna riduzione del consumo per lavoratore del la stessa
misura ma bisogna considerare che il consumo può ridursi non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
Consideriamo due casi: se il tasso di risparmio è nullo, il capitale, la produzione e il consumo per lavoratore
sono nulli per cui in tale caso un tasso di risparmio uguale a 0 implica un consumo nullo nel lungo periodo;
se il tasso di risparmio è pari a 1 gli individui risparmiamo tutto il loro reddito, per cui il livello del capitale e
della produzione è molto alto però il consumo è comunque nullo dato che viene risparmiato tutto il reddito.
Questi due casi estremi indicano che esiste un valore del tasso di risparmio
compreso tra 0 e 1 (livello di capitale nella regola aurea) in corrispondenza
del quale il livello di consumo di stato stazionario è massimo: aumenti del
tasso di risparmio al di sotto di questo valore riducono il consumo solo nel
breve periodo; aumenti al di sopra lo riducono anche nel lungo periodo.
Nel grafico, un aumento del tasso di risparmio al di sotto di 𝑠𝐺 , porta ad un
maggiore livello del capitale, del prodotto e del consumo per lavoratore.
Un aumento del tasso di risparmio al di sopra di 𝑠𝐺 , fa aumentare il livello
del capitale e della produzione, ma fa diminuire il consumo per lavoratore.
C APITALE F ISIC O E C APITALE UMANO A C ONFRONTO
Il capitale fisico, ossia l’insieme di macchinari, di impianti, di uffici ecc. non è l’unico tipo di capitale presente
nelle economie. Infatti, esiste anche un altro tipo di capitale: il capitale umano che è l’insieme delle abilità
dei lavoratori di un’economia. Un’economia in cui sono presenti molti lavoratori altamente qualificati sarà
probabilmente più produttiva di un’economia in cui gran parte dei lavoratori non sa né leggere né scrivere.
Bisogna adesso considerare quali sono gli effetti che il capitale umano ha sulla produzione e bisogna anche
comprendere in che modo variano le nostre conclusioni precedenti con l’introduzione del capitale umano.

ESTENDIAM O LA F UNZIONE DI PRODUZIONE


Per tener conto anche del capitale umano dobbiamo estendere la funzione di produzione in questo modo:

Il livello di prodotto per lavoratore dipende adesso sia dal livello del capitale fisico per lavoratore 𝐾/𝑁 sia
dal livello del capitale umano per lavoratore 𝐻/𝑁. Come già sappiamo, un aumento del capitale fisico per
lavoratore genera un aumento del prodotto per lavoratore. Questo vale anche per il capitale umano per
lavoratore: un aumento del capitale umano per lavoratore genera un aumento del prodotto per lavoratore.
In precedenza, abbiamo ipotizzato che gli aumenti del capitale fisico facessero aumentare il prodotto per
lavoratore ma che, per i redimenti decrescenti del capitale, l’effetto fosse tanto minore quanto maggiore
era il livello di capitale fisico per lavoratore. La medesima ipotesi si applica al capitale umano per lavoratore.

C APITALE UM ANO, C APITALE FISIC O E PRODUZIONE


Con l’introduzione del capitale umano, le nostre conclusioni che riguardano l’accumulazione del capitale
fisico restano comunque valide: un aumento del tasso di risparmio provoca un incremen to del capitale per
lavoratore di stato stazionario e di conseguenza un incremento del prodotto per lavoratore.
Ora dobbiamo estendere queste conclusioni anche all’accumulazione del capitale umano: un aumento di
quanto una società risparmia in termini di capitale umano, tramite l’istruzione e la formazione sul lavoro, fa
aumentare il capitale umano per lavoratore in stato stazionario e di conseguenza il prodotto per lavoratore.
Possiamo dire che, nel lungo periodo, il prodotto per lavoratore dipende da quanto una società risparmia
(per accumulare capitale fisico) e da quanto essa spende per l’istruzione (per accumulare capitale umano).
Dunque, il prodotto per lavoratore dipende allo stesso modo dall’ammontare d el capitale fisico e umano
presenti nell’economia: i paesi che risparmiano di più per accumulare capitale fisico e che spendono di più
per accumulare capitale umano raggiungono livelli maggiori di prodotto per lavoratore in stato stazionario.
C APITO LO 12 : PROGRESSO TECNOLOGICO E C RESC ITA

Come sappiamo, l’accumulazione di capitale non può da sola sostenere la crescita in quanto una crescita
sostenuta richiede progresso tecnologico. Per comprendere come cresce la produzione in un’economia in
cui ci sono sia accumulazione di capitale sia progresso tecnologico ridefiniamo la funzione di produzione.
Il progresso tecnologico può manifestarsi in diversi modi: può generare una maggiore produzione a parità
di capitale e di lavoro, può consentire di realizzare prodotti migliori, può portare alla realizzazione di nuovi
prodotti e infine può ampliare la gamma dei prodotti disponibili. Per semplificare la nostra analisi, possiamo
considerare il progresso come un fattore che aumenta la produzione a parità di fattori produttivi impiegati.
Il progresso tecnologico dipende dallo stato della tecnologia 𝐴 e dunque la funzione di produzione diventa
𝑌 = 𝐹(𝐾,𝑁, 𝐴). La produzione dipende ora sia dal capitale 𝐾 e lavoro 𝑁 sia dallo stato della tecnologia 𝐴:
a parità di capitale e di lavoro, un miglioramento della tecnologia provoca un incremento della produzione.
Per semplificare l’analisi, possiamo usare una forma leggermente più compatta dell’equazione precedente:
dove 𝐴𝑁 è la quantità di lavoro effettivo o lavoro in unità di efficienza, cioè il numero
di lavoratori impiegati in un’economia 𝑁 moltiplicato per lo stato della tecnologia 𝐴.
Questa equazione ci dice che la produzione dipende dal capitale 𝐾 e dal lavoro effettivo 𝐴𝑁, i quali hanno
entrambi rendimenti decrescenti: a parità di lavoro effettivo, un aumento del capitale provoca un aumento
della produzione, ma a un tasso decrescente; a parità di capitale, un aumento del lavoro effettivo provoca
un aumento della produzione, ma a un tasso decrescente. Nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti, per
un dato stato della tecnologia 𝐴, se si raddoppia sia la quantità di capitale 𝐾 che quella di lavoro 𝑁, anche
la produzione raddoppia: 2𝑌 = 𝐹(2𝐾, 2𝐴𝑁). In generale, per ogni numero 𝑥 abbiamo: 𝑥𝑌 = 𝐹(𝑥𝐾, 𝑥𝐴𝑁).
In questo caso, invece di ragionare in termini di prodotto e capitale per lavoratore, dobbiamo ragionare in
termini di prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo. Per farlo poniamo 𝑥 uguale a 1/𝐴𝑁 e otteniamo:

Se definiamo una funzione 𝑓 tale per cui 𝑓(𝐾/𝐴𝑁) = 𝐹(𝐾/𝐴𝑁,1) l’equazione diventa 𝑌/𝐴𝑁 = 𝑓(𝐾/𝐴𝑁):
questa equazione ci dice che 𝑌/𝐴𝑁 è una funzione crescente di 𝐾/𝐴𝑁.
Il grafico rappresenta tale relazione tra prodotto e capitale per unità di
lavoro effettivo: 𝐾/𝐴𝑁 è misurato sull’asse orizzontale, mentre 𝑌/𝐴𝑁
sull’asse verticale. La relazione tra i due è data da una curva crescente.
La relazione tra prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo è molto
simile alla relazione tra prodotto e capitale per lavoratore in assenza di
progresso tecnologico: in quel caso, un aumento di 𝐾/𝑁 provocava un
aumento di 𝑌/𝑁, ma a un tasso decrescente; in questo caso invece un
incremento di 𝐾/𝐴𝑁 fa aumentare 𝑌/𝐴𝑁, ma a un tasso decrescente.

INTERAZ IO NI TRA PRODUZIONE E C APITALE


Possiamo ora concentrarci sulla crescita, considerando il prodotto e il capitale per unità di lavoro effettivo:
• la curva 𝑌/𝐴𝑁 = 𝑓(𝐾/𝐴𝑁) rappresenta la relazione tra prodotto per unità di lavoro effettivo e capitale
per unità di lavoro effettivo: l’aumento di 𝐾/𝐴𝑁 provoca l’aumento di 𝑌/𝐴𝑁 ma, a causa dei rendimenti
decrescenti del capitale, aumenti del capitale per unità di lavoro effettivo comportano aumenti sempre
minori del prodotto per unità di lavoro effettivo; questo si nota dalla curva che diventa sempre più piatta.
• mantenendo l’ipotesi che l’investimento è pari al risparmio privato 𝐼 = 𝑠𝑌 e dividendo i membri per 𝐴𝑁
abbiamo 𝐼/𝐴𝑁 = 𝑠(𝑌/𝐴𝑁). Dato che 𝑌/𝐴𝑁 = 𝑓(𝐾/𝐴𝑁) si può sostituire 𝑌/𝐴𝑁 con questa espressione
ottenendo la relazione tra investimento e capitale per unità di lavoro effettivo come 𝐼/𝐴𝑁 = 𝑠𝑓(𝐾/𝐴𝑁),
data da una curva con la stessa forma della funzione di produzione, ma è più bassa di un fattore pari a 𝑠.
• qual è il livello di investimento che mantiene costante un dato livello di capitale? Poiché 𝐴𝑁 aumenta nel
tempo, mantenere costante un dato 𝐾/𝐴𝑁, richiede un aumento di 𝐾 proporzionale all’aumento di 𝐴𝑁.
Dunque, il capitale deve aumentare non soltanto per rimpiazzare la parte 𝛿 che diventa inutilizzabile ma
anche in relazione al tasso di progresso tecnologico 𝑔𝐴 e al tasso di crescita del numero dei lavoratori 𝑔𝑁 .
Il livello di investimento necessario è dunque dato da 𝐼 = (𝛿 + 𝑔𝐴 +𝑔𝑁 )𝐾. Per definire più precisamente
l’investimento per unità di lavoro effettivo necessario a mantenere costante un dato livello di capitale per
unità di lavoro effettivo, dividiamo l’espressione per 𝐴𝑁 ottenendo dunque 𝐼/𝐴𝑁 = (𝛿 + 𝑔𝐴 +𝑔𝑁 )𝐾/𝐴𝑁

LA DINAM IC A DEL C APITALE E DELLA PRODUZIONE NEL LUNGO PERIODO


Con riferimento alla figura precedente, consideriamo un dato livello di capitale per unità di lavoro effettivo
(𝐾/𝐴𝑁)0: a questo livello, il prodotto per unità di lavoro effettivo è pari alla distanza 𝐴𝐵, l’investimento per
unità di lavoro effettivo è pari alla distanza 𝐴𝐶 e l’investimento necessario per mantenere costante questo
livello di capitale per unità di lavoro effettivo è pari alla distanza 𝐴𝐷. Dato che l’investimento eccede quello
necessario per mantenere costante il livello di capitale per unità di lavoro effettivo, allora 𝐾/𝐴𝑁 aumenta.
Quindi, partendo da (𝐾/𝐴𝑁)0 l’economia si muove verso destra fin quando l’investimento è esattamente
sufficiente a mantenere costante il livello di capitale per unità di lavoro effettivo, cioè fino al livello (𝐾/𝐴𝑁)⋇
In stato stazionario, il capitale e il prodotto per unità di lavoro effettivo sono costanti, pari rispettivamente
a (𝐾/𝐴𝑁)⋇ e (𝑌/𝐴𝑁)⋇. Poiché in stato stazionario sia 𝐾/𝐴𝑁 che 𝑌/𝐴𝑁 sono costanti, questo implica che
sia il capitale 𝐾 che la produzione 𝑌 crescono allo stesso tasso di crescita del lavoro effettivo 𝐴𝑁: dato che
il lavoro effettivo cresce ad un tasso (𝑔𝐴 +𝑔𝑁 ), anche la produzione e il capitale crescono al tasso (𝑔𝐴 +𝑔𝑁 ).
Dato che in stato stazionario produzione, capitale e lavoro effettivo crescono allo stesso tasso in modo da
mantenere costanti 𝐾/𝐴𝑁 e 𝑌/𝐴𝑁 lo stato stazionario si definisce anche come stato di crescita bilanciata.

EF F ETTI DEL TASSO DI RISPARMIO


In stato stazionario, il tasso di crescita della produzione dipende solo dal tasso di progresso tecnologico e
dal tasso di crescita demografica. Dato che 𝑔𝑁 e 𝑔𝐴 non dipendono dal tasso di risparmio, le variazioni del
tasso di risparmio non influenzano il tasso di crescita della produzione, ma soltanto il livello di prodotto.
La figura mostra l’effetto di un aumento del tasso di risparmio da 𝑠0 a 𝑠1: l’aumento del tasso di risparmio
sposta la curva dell’investimento, da 𝑠0 𝑓(𝐾/𝐴𝑁) ad 𝑠1 𝑓(𝐾/𝐴𝑁).
Dunque, il livello di capitale per unità di lavoro effettivo aumenta
da (𝐾/𝐴𝑁)0 a (𝐾/𝐴𝑁)1, a cui corrisponde un aumento del livello
di prodotto per unità di lavoro effettivo da (𝑌/𝐴𝑁)0 a (𝑌/𝐴𝑁)1.
In seguito all’aumento del tasso di risparmio, capitale e prodotto
per unità di lavoro effettivo aumentano per qualche tempo a un
tasso di crescita superiore al tasso di crescita di stato stazionario,
ma finché non si raggiunge il nuovo sentiero di crescita bilanciata:
il capitale ed il prodotto per unità di lavoro effettivo raggiungono
livelli più alti di quelli che avrebbero mantenuto senza l’aumento
del tasso di risparmio, ma il loro tasso di crescita rimane (𝑔𝐴+𝑔𝑁 ).
LE DETERM INANTI DEL PROGRESSO TEC NOLOGIC O
La gran parte del progresso tecnologico è il risultato dell’attività di ricerca e sviluppo svolta dalle imprese,
che investono in R&S per aumentare i propri profitti attesi. Il livello di spesa in R&S dipende da due fattori:
• fer tilità del processo di ricerca: la misura in cui la spesa in R&S si traduce in nuove idee e in nuovi prodotti.
Se la ricerca è abbastanza fertile, cioè se la spesa in R&S permette di ottenere molti nuovi prodotti, allora
le imprese saranno più incentivate a investire in ricerca e sviluppo e il progresso tecnologico sarà maggiore.
La fertilità della ricerca dipende da una buona interazione tra ricerca di base e ricerca applicata: la ricerca di
base non conduce di per sé al progresso tecnologico, ma è determinante per il successo di quella applicata.
Sembra che alcuni paesi conseguano successi maggiori nella ricerca di base, altri invece sono migliori nella
ricerca applicata; gli studi svolti ne individuano la motivazione nelle differenze tra sistemi scolastici: infatti,
il sistema educativo ha chiaramente un ruolo importante nello sviluppo e nel successo della ricerca di base.
Le potenzialità di una scoperta si realizzano pienamente soltanto dopo un certo periodo di tempo: di solito,
ad una grande scoperta segue l’analisi delle potenziali applicazioni, e dunque lo sviluppo di nuovi prodotti,
e infine la diffusione di questi nuovi prodotti sul mercato. Dunque, dall’invenzione si passa all’innovazione
e in seguito dall’innovazione si procede alla diffusione delle conoscenze sviluppate nel sistema produttivo.
• appropriabilità dei risultati della ricerca: la misura in cui le imprese beneficiano dei risultati della loro R&S.
Se le imprese non riescono a appropriarsi dei profitti generati dai nuovi prodotti, gli investimenti in ricerca
e sviluppo diminuiranno e il progresso tecnologico sarà rallentato. L’appropriabilità dipende da due fattori.
In primo luogo, dalla natura del processo di R&S: se un’innovazione è destinata a diffondersi rapidamente,
potrebbe non essere conveniente innovare per primi. In secondo luogo, dal grado di protezione accordata
ai nuovi prodotti: senza tale protezione, i profitti derivanti dallo sviluppo di nuovi prodotti sarebbero bassi.
Infatti, tranne nei casi rari in cui il prodotto è basato su un segreto industriale come per la Coca-Cola o per
la Nutella, di solito non è necessario molto tempo prima che le altre imprese producano lo stesso prodotto,
annullando così il vantaggio iniziale dell’impresa innovatrice. Per tale motivo, in tutti i paesi ci sono norme
relative ai brevetti: i brevetti danno a un’impresa che ha scoperto un nuovo prodotto il diritto di escludere
chiunque altro dalla realizzazione oppure dall’uso di tale prodotto per un determinato periodo di tempo.
Le leggi sui brevetti devono bilanciare due effetti: da un lato, la protezione è necessaria al fine di fornire alle
imprese gli incentivi a investire in R&S; dall’altro, una volta che le imprese hanno scoperto nuovi prodotti,
per la società nel suo complesso, sarebbe meglio se la conoscenza incorporata in quei prodotti fosse resa
disponibile senza restrizioni alle altre imprese e agli individui. Questo vuol dire che una scarsa protezione
porterà ad un livello insufficiente di R&S e una protezione eccessiva renderà più difficile per la nuova R&S
basarsi sui risultati di quella passata e potrebbe anche portare a un livello molto ridotto di ricerca e sviluppo.

INNO VAZ IONE VS IM ITAZIONE


Sebbene l’attività di ricerca e sviluppo sia un elemento fondamentale per il progresso tecnologico, sarebbe
sbagliato concentrarsi esclusivamente su di essa in quanto ci sono anche altri aspetti che sono rilevanti.
Innanzitutto, buone pratiche manageriali, cioè come un’impresa viene gestita, può essere più importante
di altre forme di innovazione. Inoltre, in alcuni paesi la R&S potrebbe essere meno importante che in altri.
In questo contesto, bisogna fare una distinzione tra la crescita per innovazione e la crescita per imitazione:
per sostenere la crescita economica, i paesi avanzati che hanno raggiunto la frontiera tecnologica, devono
necessariamente innovare e questo richiede elevati investimenti in R&S; i paesi più poveri invece, che sono
ancora lontani dalla frontiera tecnologica, possono continuare a crescere limitandosi ad imitare, piuttosto
che ad innovare, importando ed adattando le tecnologie già esistenti invece che sviluppandone di nuove.
La differenza tra innovazione e imitazione spiega anche perché i paesi meno avanzati abbiano sp esso una
legislazione insufficiente in materia di brevetti proprio perché si tratta di paesi utilizzatori e non produttori:
in tale caso, i costi di una scarsa protezione dei brevetti sono ridotti, poiché ci sarebbero poche invenzioni
nazionali da proteggere; d’altra parte i benefici sono chiari in quanto le imprese nazionali possono usare e
adattare la tecnologia importata o copiata senza pagarne i diritti alle imprese estere che l’hanno sviluppata.
C APITO LO 13 : LE SFIDE DELLA CRESC ITA

IL F UTURO DEL PROGRESSO TEC NOLOGICO

C’è una strana tensione tra la percezione del progresso tecnologico e i dati sulla crescita della produttività.
Si tratta del paradosso della produttività: il cambiamento tecnologico appare molto intenso ma ciò non si
riflette in una maggiore crescita della produttività, in quanto i tassi di crescita della produttività sono bassi.
Una possibile risposta a tale paradosso è la presenza di errori di misurazione, nel senso che la crescita della
produttività potrebbe essere sottovalutata e dunque il tasso di crescita reale potrebbe essere più elevato.
Gli errori di misurazione ci sono, in quanto è difficile misurare il progresso tecnologico, ma non sembra che
questi errori siano in grado da soli di spiegare il paradosso. Questo paradosso è oggetto di forte dibattito.
Ci sono alcuni che sostengono che le grandi innovazioni di oggi sono meno radicali delle grandi innovazioni
del passato: quelle radicali sono innovazioni che hanno applicazione in molti campi e in molti prodotti e per
questo sono dette tecnologie di uso generale. Le innovazioni radicali più importanti sono state l’elettricità
e il motore a combustione interna, le quali hanno trasformato i metodi di produzione e la vita in generale:
l’elettricità ha portato all’uso dell’aria condizionata e ha consentito di produrre frigoriferi, permettendo la
conservazione del cibo in tempi molto più lunghi e cambiando il suo sistema di produzione e distribuzione;
il motore a combustione interna, invece, ha portato all’automobile avviando la costruzione di autostrade e
favorendo lo sviluppo delle città. Questa corrente di pensiero sostiene che le innovazioni dei nostri giorni,
cioè in primis la digitalizzazione, non produrranno neanche lontanamente conseguenze di simile portata.
Ci sono altri che sostengono, invece, che la digitalizzazione avrà un impatto simile o addirittura maggiore
dell’elettricità e del motore a combustione, però che la bassa crescita riflette il fatto che tale impatto non
appare ancora nei dati sulla produttività a causa di ritardi nel processo di diffusione delle innovazioni digitali.

I RO BO T E IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

Fin dall’inizio della rivoluzione industriale i lavoratori hanno iniziato a temere che il progresso tecnologico
avrebbe eliminato i posti di lavoro e aumentato la disoccupazione. Il tema della disoccupazione tecnologica
riemerge solitamente quando la disoccupazione è elevata. Durante la Grande Depressione, ad esempio, un
movimento chiamato tecnocratico sosteneva che l’elevata disoccupazione derivava dall’introduzione delle
macchine e che le cose sarebbero andate solo a peggiorare se il progresso tecnologico fosse continuato.
Nella sua forma più grossolana, l’argomento secondo cui il progresso tecnologico debba per forza causare
un aumento della disoccupazione è falso e smentito dai dati, infatti, i miglioramenti del tenore di vita di cui
godono i paesi avanzati, sono stati accompagnati da aumenti dell’occupazione e non della disoccupazione.
Ci sono però versioni più sofisticate riguardo la disoccupazione tecnologica da tenere in considerazione.
In primo luogo, ci si potrebbe aspettare che, dato che l’aumento della produttività porta alcune aziende a
ridurre l’occupazione, ci vorrà del tempo prima che nuovi posti di lavoro sostituiscono quelli che vengono
distrutti portando ad un aumento della disoccupazione per un certo periodo di tempo se non per sempre.
L’evidenza però suggerisce che non è così: periodi di alta crescita della produttività sono stati associati a
un tasso di disoccupazione minore, viceversa periodi di bassa crescita a un tasso di disoccupazione più alto.
I r obot, tuttavia, sembrano essere abbastanza minacciosi in quanto potrebbero sostituire i lavoratori meno
qualificati e nel tempo anche quelli con competenze più elevate. Uno studio del MIT, esaminando l’effetto
dei robot sull’occupazione nei mercati del lavoro, conferma che i robot distruggono effettivamente posti
di lavoro. Ma al tempo stesso la riduzione dei costi permette alle aziende che utilizzano i robot di vendere
i loro prodotti a prezzi più bassi, aumentando le vendite e la produzione. Tra i due effetti la sostituzione dei
robot con i lavoratori è il risultato dominante, il quale porta ad una riduzione del numero dei posti di lavoro.
Bisogna dunque chiedersi se ciò non sia compensato dalla creazione di posti di lavoro in altre imprese: ad
esempio, se le imprese che usano i robot producono a prezzi più bassi, altre imprese vedranno ridurre i loro
costi di produzione e probabilmente aumenteranno l’occupazione, ma ciò è comunque difficile da valutare.
Inoltre, i salari ottenuti nell’eventuale nuovo posto di lavoro potrebbero essere minori di quelli precedenti.
PRO G RESSO TECNOLOGICO, «RIMESCOLAMENTO» E DISEGUAG LIANZA
I robot sono una forma di progresso tecnologico, che fondamentalmente è un processo di cambiamento
strutturale che ha profonde implicazioni per ciò che accade nei mercati del lavoro.
Schumpeter sosteneva che il processo di crescita economica era un processo di distruzione creatrice: sono
sviluppati nuovi beni che rendono altri beni obsoleti e sono introdotte nuove tecniche di produzione che
richiedono nuove abilità che rendono le altre abilità meno utili. Questo processo di rimescolamento si nota
profondamente in numerose professioni, dai fabbri ai sellai, che sono scomparse per sempre. Per esempio,
nel 1900 c’erano più di 11 milioni di contadini negli Stati Uniti e attualmente ce ne sono meno di 1 milione.
Esistono però professioni nuove, come ad esempio gli autisti e gli informatici, che nel 1900 non esistevano.

L’AUM ENTO DELLA DISUGUAGLIANZA SALARIALE


Per coloro che hanno un’occupazione in settori in crescita, o che possiedono le giuste abilità, il progresso
tecnologico offre nuove opportunità e salari maggiori. Ma per coloro che hanno un’occupazione in settori
in crisi o che possiedono abilità non più richieste dal mercato, il progresso tecnologico potrebbe significare
la perdita del proprio posto di lavoro, un periodo di disoccupazione e probabilmente salari molto più bassi.
La disuguaglianza salariale è aumentata notevolmente durante gli ultimi 30 anni: dall’inizio degli anni ‘80,
i lavoratori con un basso livello di istruzione hanno subito una riduzione dei loro salari relativi nel tempo,
mentre quelli con un alto livello di istruzione hanno registrato un continuo aumento dei loro salari relativi.
Il principale fattore dietro all’aumento del salario dei lavoratori qualificati relativamente al salario di quelli
poco qualificati è un costante aumento della domanda dei lavoratori qualificati rispetto alla domanda dei
lavoratori poco o non qualificati. Alla base di tale costante cambiamento della domanda relativa troviamo:
• il commercio internazionale: le imprese con una percentuale maggiore di lavoratori poco qualificati sono
sempre più spinte fuori dal mercato da quelle che hanno una percentuale maggiore di lavoratori qualificati.
Il risultato è un costante calo della domanda relativa di lavoratori poco qualifi cati. Sicuramente il commercio
è in parte responsabile dell’aumento della disuguaglianza salariale, ma non del tutto in quanto la domanda
a favore dei lavoratori qualificati è presente anche in settori che non sono soggetti alla concorrenza estera.
• il progresso tecnologico: esso è orientato verso il lavoro qualificato in quanto i nuovi macchinari e metodi
di produzione richiedono un numero sempre maggiore di lavoratori qualificati. Nuovi metodi di produzione
richiedono che i lavoratori siano più flessibili e maggiormente in grado di adattarsi a nuove mansioni. Tale
flessibilità richiede a sua volta più competenze e un grado di istruzione più elevato. Inoltre, lo sviluppo dei
computer e macchine a controllo numerico richiede che i lavoratori abbiamo più competenze informatiche.
Gran parte degli economisti crede che essa sia la causa principale dell’aumento di disuguaglianza salariale.

DISUG UAGLIANZA E IL TO P 1 %
Oltre alla disuguaglianza nei salari, bisogna considerare anche la disuguaglianza nei redditi, la quale è data
dalla percentuale di reddito che confluisce nelle tasche degli individui più ricchi, come ad esempio il top 1%.
I salari non costituiscono una valida misurazione quando consideriamo la disuguaglianza nei redditi a livelli
particolarmente elevati di reddito in quanto gli imprenditori ottengono elevate percentuali del loro reddito
(se non la totalità) non dai salari, bensì dal reddito proveniente dal capitale o dalle plusvalenze finanziarie.
Questo accade perché generalmente tali imprenditori non sono remunerati attraverso il salario, ma tramite
azioni societarie che possono vendere per ottenere della plusvalenze. Il top 1% si divide principalmente in
due gruppi: un gruppo è quello degli eredi, che vivono per lo più del reddito del cap itale ereditario, mentre
un altro gruppo è quello di imprenditori di successo, fondatori di aziende tipo Amazon, Facebook o Google.
Il principale fattore che ha determinato la ricchezza di questi individui è dato dalla tecnologia, che permette
a imprese come Amazon e Facebook di avere rendimenti di scala crescenti: i loro costi sono in gran parte
fissi e non dipendono dal numero di utenti per cui, più alto è il numero di utenti, minore è il costo per utente.
Il risultato è l’emergere di aziende molto grandi con un numero di clienti molto alto e dunque elevati profitti.
Questo permette ai fondatori e ai top manager di ottenere un reddito molto alto ed una grande ricchezza.
C RESC ITA E DISUGUGLIANZ A
Dobbiamo ora chiederci se un paese può sostenere la crescita senza avere disuguaglianze sempre più alte.
Ci sono due ragioni per cui non si deve per forza aumentare la disuguaglianza al fine di sostenere la crescita.
La prima è che le disuguaglianze salariali e la quota dell’1% più ricco sono aumentate in gran parte dei paesi,
ma molto meno che negli Stati Uniti, ovvero il paese in cui è aumentata maggiormente la disuguaglianza.
La seconda è che bisogna distinguere tra disuguaglianza del reddito imponibile, cioè al lo rdo delle imposte
e dei trasferimenti, e disuguaglianza del reddito disponibile, cioè al netto delle imposte e dei trasferimenti.
Un ottimo indice per misurare la disuguaglianza all’interno di un paese è il coefficiente di Gini, compreso tra
0 e 1: un coefficiente di 0 significa completa uguaglianza, cioè tutti hanno lo stesso reddito; un coefficiente
di 1 significa invece completa disuguaglianza, cioè una persona riceve tutto il reddito e gli altri nulla. Questi
sono casi estremi e in genere gli indici variano tra 0,2 per i paesi più ugualitari e 0,6 per i paesi più diseguali.

C AM BIAM ENTO C LIM ATIC O E SURRISCALDAMENTO GLOBALE

Come sappiamo, i mercati funzionano male quando ci sono delle esternalità e, nel contesto della crescita,
una delle esternalità principali è l’emissione di gas serra: tali gas hanno un costo che però non viene preso
in considerazione dalle aziende quando decidono, ad esempio, se scegliere una tecnologia oppure un’altra.
Il gas serra più importante è l’anidride carbonica (CO 2) la cui quantità nell’atmosfera determina la forza
dell’effetto serra: se eccessivo, questo effetto comporta l’aumento generale della temperatura sulla terra,
causando il r iscaldamento globale. Il cambiamento climatico è la sfida principale per la crescita economica.
Dalla rivoluzione industriale l’uso di combustibili fossili ha portato ad un grande aumento delle emissioni di
CO2 nell’aria e questo ha ovviamente provocato un costante aumento della temperatura media della terra.
Il fatto che sia i livelli di CO2 sia la temperatura globale siano aumentati è ovvio per cui, pensando al futuro,
la questione principale è quanto rapidamente si verificherà il surriscaldamento globale. Se non esistessero
politiche climatiche si pensa che la temperatura aumenterebbe così tanto da rendere inabitabile il pianeta.
La politica migliore che i paesi dovrebbero adottare per limitare l’aumento è di dare un prezzo alle emissioni
di carbonio, così da internalizzare le esternalità. I motivi per i quali questo non è avvenuto sono molteplici:
in primo luogo, fino a poco tempo fa, il riscaldamento globale non era considerato una priorità; in secondo
luogo qualsiasi politica che comporta un costo attuale in cambio di benefici futuri difficili da valutare non è
facile da attuare; in terzo luogo, poiché i più poveri di ogni paese tendono ad avere auto più vecchie e con
emissioni più elevate, la politica è regressiva se non compensata dai giusti trasferimenti; infine, c’è il rischio
che discussioni politiche su tali temi possano provocare forti tensioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo.
Più in generale, è molto difficile raggiungere e attuare un accordo internazionale tra i paesi su questi temi
e questo si è tradotto nel limitato successo delle passate conferenze sul clima. Una soluzione è stata però
proposta: i paesi che vorrebbero adottare una carbon tax dovrebbero comunque farlo, imponendola sulle
merci importate dai paesi che invece non ce l’hanno; ciò a sua volta incentiverebbe quei paesi ad adottare
una carbon tax per non essere più soggetti a dazi. In ogni caso, tale problema non scomparirà mai del tutto.
C APITO LO 17 : APERTURA DEL M ERCATO DEL BENI E DEI M ERCATI F INANZIARI
Finora abbiamo ipotizzato che l’economia fosse chiusa, ovvero che non interagisse con il resto del mondo.
Studiamo ora le implicazioni macroeconomiche dell’apertura internazionale, che ha tre dimensioni distinte:
• apertura del mercato dei beni: l’opportunità per i consumatori e le imprese di scegliere tra beni nazionali
e beni esteri. In nessun paese la scelta tra i beni nazionali e i beni esteri è del tutto libera da vincoli, poiché
anche i paesi più propensi al libero scambio mantengono dazi cioè tasse sui beni importati, e quote cioè
restrizioni che riguardano le quantità di beni che possono essere importate su determinati prodotti esteri.
• apertura dei mercati finanziari: l’opportunità per gli investitori finanziari di scegliere tra attività finanziarie
nazionali ed estere. Fino a tempi recenti erano in vigore controlli sui movimenti di capitali, cioè restrizioni
su attività finanziarie estere che potevano essere detenute dai residenti nazionali e su attività finanziarie
nazionali che potevano essere detenute da investitori esteri; tali restrizioni sono state per lo più eliminate.
• apertura dei mercati dei fattori: l’opportunità per le imprese di scegliere dove localizzare la propria attività
produttiva e per i lavoratori di scegliere dove lavorare. Nel breve e medio periodo, l’apertura dei mercati
dei fattori ha un ruolo meno importante rispetto all’apertura nel mercato dei beni e nei mercati finanziari.
Per questo, ci concentreremo sulle conseguenze delle prime due dimensioni dell’apertura internazionale.

IL M ERC ATO DEI BENI IN EC ONOMIA APERTA

L’apertura del mercato dei beni implica una modifica dei nostri risultati sull’equilibrio nel mercato dei beni.
Se i mercati dei beni sono aperti le imprese e i consumatori devono scegliere tra beni nazionali o beni esteri.
La scelta tra beni nazionali e beni esteri ha un effetto diretto sulla produzione nazionale: se i consumatori
e le imprese decidono di comprare più beni nazionali, la domanda per tali beni aumenta e di conseguenza
anche la produzione; se invece decidono di acquistare più beni esteri, allora la produzione estera aumenta.
La variabile cruciale in tale scelta è tasso di cambio reale, il prezzo dei beni nazionali in termini di beni esteri.
Dunque, in un’economia chiusa si affronta una sola decisione, risparmiare o consumare; in un’economia
aperta invece si affrontano due decisioni, risparmiare o consumare e acquistare beni nazionali o beni esteri.

TASSI DI C AM BIO NO MINALI


I tassi di cambio nominali tra due valute diverse possono essere espressi in uno dei due seguenti modi, cioè:
• come il prezzo di un’unità della valuta nazionale in termini di valuta estera: se per esempio consideriamo
l’Eurozona e il Regno Unito e pensiamo all’euro come alla valuta nazionale e alla sterlina come alla valuta
estera, possiamo così esprimere il tasso di cambio nominale come il prezzo di un euro in termini di sterline.
• come il prezzo di un’unità della valuta estera in termini di valuta nazionale: considerando sempre l’euro
e la sterlina, si può esprimere il tasso di cambio nominale come il prezzo di una sterlina in termini di euro.
Queste definizioni sono entrambe giuste, ma adottiamo la prima: indichiamo con tasso di cambio nominale
il prezzo della moneta nazionale in termini di moneta estera e lo denominiamo con 𝐸: considerando il tasso
di cambio nominale tra Eurozona e Regno Unito, 𝐸 indica dunque il prezzo di un euro di termini di sterline.
I tassi di cambio tra le monete sono determinati nei mercati dei cambi e tali tassi cambiano continuamente:
un apprezzamento della moneta nazionale corrisponde ad un aumento del prezzo della moneta nazionale
in termini di moneta estera, e dunque un apprezzamento corrisponde ad un aumento del tasso di cambio;
un deprezzamento della moneta nazione corrisponde ad una riduzione del prezzo della moneta nazionale
in termini di moneta estera, e dunque un deprezzamento corrisponde a una riduzione del tasso di cambio.
Esistono altri due termini per indicare i movimenti dei tassi di cambio, usati quando si opera in un sistema
di cambi fissi, un sistema in cui due o più paesi mantengono un tasso di cambio costante tra le loro valute:
aumenti del tasso di cambio sono detti rivalutazioni e riduzioni del tasso di cambio sono dette svalutazioni.
Bisogna tener conto, tuttavia, che se siamo interessati alla scelta tra beni nazionali e beni esteri, il tasso di
cambio nominale fornisce solo una parte dell’informazione necessaria, e questo ci porta alla costruzione
del tasso di cambio reale, che indica il tasso di cambio espresso in termini di beni, non in termini di monete.
DAI TASSI DI C AM BIO NOMINALI AI TASSI DI C AMBIO REALI
Il tasso di cambio reale, in termini di beni, indica il prezzo relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri.
Per costruire il tasso di cambio reale tra Eurozona e Regno Unito, supponiamo che l’Eurozona produca un
solo bene, cioè automobili Ferrari, e che anche nel Regno Unito si produca un solo bene, automobili Jaguar.
In questo caso, per costruire il tasso di cambio reale, dobbiamo semplicemente esprimere i due beni nella
stessa valuta e calcolare il loro prezzo relativo. Supponiamo di voler esprimere entrambi i prezzi in sterline:
• il primo passaggio consiste nel considerare il prezzo in euro di una Ferrari e convertire il prezzo in sterline.
Se il prezzo di una Ferrari nell’Eurozona è di 200.000€ e se un euro vale ad esempio 0,77£, allora il prezzo
di una Ferrari in sterline di 200.000€ moltiplicato per 0,77, cioè uguale a 154.000£ approssimativamente.
• il secondo passaggio è calcolare il rapporto tra il prezzo di una Ferrari il prezzo di una Jaguar in sterline,
supponendo che il prezzo di una Jaguar sia di 30.000£: il prezzo di una Ferrari in termini di Jaguar, cioè il
tasso di cambio reale, è di 154.000£/30.000£ = 5,1£. Una Ferrari è dunque 5,1 volte più cara di una Jaguar.
Il Regno Unito e l’Eurozona non producono però soltanto Jaguar e Ferrari, per cui dobbiamo costruire un
tasso di cambio reale che rifletta il prezzo relativo di tutti i beni prodotti nell’Eurozona in termini di tutti i
beni prodotti nel Regno Unito. Invece di usare il prezzo di una Jaguar e di una Ferrari, utilizziamo un indice
dei prezzi di tutti i beni prodotti nel Regno Unito e un indice dei prezzi di tutti i beni prodotti nell’Eurozona,
ovvero il deflatore del PIL, che è dato dal rapporto tra PIL nominale e PIL reale e che indica il prezzo medio.

Il prezzo dei beni europei in euro è pari a 𝑃; moltiplicandolo per il tasso di cambio nominale euro/sterlina 𝐸
si ottiene il prezzo dei beni europei in sterline, 𝐸𝑃. Il prezzo dei beni britannici in sterline è invece pari a 𝑃⋇.
Il tasso di cambio reale 𝜀, il prezzo dei beni europei in termini di beni britannici, è ottenuto moltiplicando il
livello dei prezzi nazionali per il tasso di cambio nominale, dividendo poi 𝐸𝑃 per il livello dei prezzi esteri 𝑃⋇:

Come i tassi di cambio nominali, anche i tassi di cambio reali variano nel tempo: un apprezzamento reale
indica un aumento del prezzo relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri, e dunque corrisponde ad
un aumento del tasso di cambio reale; un deprezzamento reale indica una riduzione del prezzo relativo dei
beni nazionali in termini di beni esteri, e dunque corrisponde ad una diminuzione del tasso di cambio reale.

DAI TASSI DI C AM BIO BILATERALI AI TASSI DI CAMBIO MULTILATERALI


Finora abbiamo considerato il tasso di cambio tra Eurozona e Regno Unito, ma il Regno Unito non è l’unico
paese con il quale l’Eurozona commercia. Dobbiamo passare dai tassi di cambio bilaterali ai tassi di cambio
multilaterali, ovvero il prezzo medio dei beni di un paese rispetto a quello di tutti i suoi partner commerciali.
Per misurare il tasso di cambio reale multilaterale di un paese, si utilizzano come pesi le quote dei suoi flussi
commerciali con gli altri paesi, cioè di esportazioni e importazioni. In realtà, i pesi sono dati dall’importanza
delle diverse valute negli scambi mondiali, considerando anche il ruolo dei produttori interni a d ogni paese.
In questo caso, dobbiamo tenere conto non soltanto di quanto l’Eurozona commercia con un certo paese,
bensì anche di quanto questo paese compete con l’Eurozona negli altri paesi. Consideriamo ad esempio
due paesi, l’Eurozona e il paese A e supponiamo che Eurozona e paese A non commercino direttamente
tra loro per cui le rispettive quote commerciali sono pari a zero. Supponiamo però che entrambi esportino
verso un terzo paese, il paese B. In questo caso, il tasso di cambio reale tra l’Eurozona e il paese A è molto
importante nel determinare quanto l’Eurozona esporterà nel paese B, e quindi quanto esporterà in totale.
La variabile così costruita è chiamata il tasso di cambio reale effettivo o tasso di cambio reale multilaterale.
I M ERC ATI F INANZIARI IN EC ONOMIA APERTA
L’apertura dei mercati finanziari consente agli investitori di detenere attività finanziarie nazionali ed estere.
Inoltre, permette ai paesi di registrare avanzi o disavanzi commerciali: si ha disavanzo commerciale quando
in un paese le importazioni eccedono le esportazioni: per finanziare tale disavanzo, il paese deve prendere
a prestito la differenza tra importazioni e esportazioni. Per fare ciò esso deve rendere conveniente per gli
investitori esteri aumentare i loro investimenti in attività finanziarie nazionali: in altre parole, per finanziare
tale disavanzo un paese deve vendere attività finanziarie nazionali in misura pari al disavanzo commerciale.

LA SC ELTA TRA ATTIVIT À F INANZIARIE NAZIONALI ED ESTERE


L’apertura dei mercati consente agli investitori di investire scegliendo attività finanziarie nazionali e estere.
Sembrerebbe che ci siano due decisioni da affrontare: la scelta tra moneta nazionale ed estera e la scelta
tra attività finanziarie fruttifere nazionali ed estere . Per chi vive nell’Eurozona detenere la moneta estera è
inutile poiché le transazioni sono effettuate quasi esclusivamente in euro: l’unica scelta sarà dunque quella
se detenere attività finanziarie nazionali oppure estere, proprio perché detenere titoli esteri è senza dubbio
molto più conveniente che detenere moneta estera, in quanto essi pagano un tasso di interesse positivo.
Consideriamo la scelta tra titoli nazionali ed esteri, ad esempio tra titoli tedeschi e titoli britannici dal punto
di vista di un investitore europeo: supponiamo che i titoli abbiano durata di un anno, dunque, l’investitore
può scegliere se comprare titoli tedeschi e detenerli fino a scadenza o comprare titoli britannici al tasso di
cambio corrente, detenerli fino a scadenza e infine riconvertire le sterline in euro al tasso di cambio futuro.
Se decidesse di detenere titoli tedeschi con un tasso di interesse nominale pari a 𝑖 𝑡 , per ogni euro investito
in titoli tedeschi l’investitore otterrebbe (1 + 𝑖 𝑡 ) euro l’anno prossimo, alla scadenza del titolo nazionale.
Se invece decidesse di detenere titoli britannici, per acquistarli deve innanzitutto comprare sterline: se 𝐸𝑡
è il tasso di cambio nominale tra l’euro e la sterlina nell’anno 𝑡, per ogni euro otterrebbe dunque 𝐸𝑡 sterline.
Se il tasso di interesse nominale sui titoli britannici è pari a 𝑖 𝑡 ⋇, l’anno prossimo egli otterrebbe £𝐸𝑡 (1 + 𝑖 𝑡 ⋇).
Poi si dovranno riconvertire le sterline in euro; dunque, per valutare la redditività dei titoli tedeschi rispetto
ai titoli britannici, non basta guardare ai rispettivi tassi di interesse 𝑖 𝑡 e 𝑖 𝑡 ⋇ ma bisogna anche formulare un
aspettativa riguardante l’andamento del tasso di cambio euro/sterlina da quest’anno 𝐸𝑡 al prossimo 𝐸 𝑒 𝑡+1.
In questo caso, affinché sia indifferente tenere titoli tedeschi o britannici
essi devono avere lo stesso tasso di rendimento atteso, cioè deve valere
la seguente condizione di arbitraggio, chiamata parità dei tassi di interesse:
La parità dei tassi d’interesse è troppo restrittiva poiché ignora i costi di transazione e l’esistenza del rischio:
• acquistare e vendere titoli esteri richiede tre transazioni separate, ciascuna con un costo di transazione.
• il tasso di cambio ad un anno è incerto e perciò per un investitore europeo tenere titoli esteri è rischioso.

TASSI DI INTERESSE E TASSI DI C AMBIO


La parità dei tassi di interesse può essere riscritta anche come: (1 + 𝑖 𝑡 ) = (1 + 𝑖 𝑡 ⋇ )/[1+ (𝐸𝑒 𝑡+1 − 𝐸𝑡 )/𝐸𝑡 ]
Questa espressione mostra la relazione tra il tasso di interesse nominale nazionale 𝑖 𝑡 , il tasso di interesse
nominale estero 𝑖 𝑡 ⋇ e il tasso di apprezzamento atteso della moneta interna, che è pari a (𝐸 𝑒 𝑡+1 − 𝐸𝑡 )/𝐸𝑡.
Una buona approssimazione di tale relazione è data dalla seguente equazione,
che dice che il tasso di interesse interno è approssimativamente pari al tasso di
interesse esterno meno il tasso di apprezzamento atteso della moneta interna:
Tasso di apprezzamento atteso della valuta nazionale = tasso di deprezzamento atteso della valuta estera.
Possiamo applicare tale equazione alla scelta tra titoli tedeschi e titoli britannici, supponendo che il tasso
d’interesse nominale a un anno sia del 2% in Germania e del 5% nel Regno Unito. Quali titoli si devono tenere?
• la scelta dipende da quanto ci si aspetta che, nell’anno successivo, la sterlina si deprezzi rispetto all’euro
per un valore pari per lo più alla differenza tra tasso di interesse tedesco e britannico, in questo caso il 3%.
• se ci aspetta un tasso di deprezzamento della sterlina maggiore del 3% conviene investire in titoli tedeschi.
• se ci si aspetta che la sterlina si deprezzi dell’1% o che si apprezzi, è conveniente investire in titoli britannici.
C APITO LO 18 : IL MERCATO DEI BENI IN ECONOMIA APERTA
Se l’economia è chiusa, non serve distinguere la domanda nazionale di beni dalla domanda di beni nazionali.
Ora che abbiamo assunto che l’economia sia aperta al commercio estero tale distinzione è fondamentale.
La domanda nazionale di beni è la domanda di beni espressa dai residenti, domanda che può essere rivolta
a beni nazionali oppure a beni esteri e la domanda nazionale di beni esteri prende il nome di importazioni.
La domanda di beni nazionali proviene in parte dall’estero, e tale parte è rappresentata dalle esportazioni.

LA DO M ANDA DI BENI NAZIONALI

In un’economia aperta la domanda di beni nazionali è data da tale equazione: 𝑍 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 − 𝐼𝑀/ɛ + 𝑋


La somma di consumo, investimento e spesa pubblica è la domanda nazionale di beni, nazionali o esteri.
Se l’economia fosse chiusa, 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 sarebbe anche la domanda di beni nazionali. In un’economia aperta:
• dobbiamo innanzitutto sottrarre le importazioni, cioè la parte di domanda nazionale di beni rivolta a beni
esteri anziché a beni nazionali. I beni esteri, tuttavia, sono diversi dai beni nazionali per cui non possiamo
semplicemente sottrarre la quantità di importazioni 𝐼𝑀 dalla domanda 𝑍; dobbiamo dunque esprimere il
valore delle importazioni in termini di beni nazionali tramite il tasso di cambio reale ɛ, che indica il prezzo
relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri. Il valore delle importazioni è dunque indicato da: 𝐼𝑀/ɛ.
• il secondo aggiustamento consiste nell’aggiungere le esportazioni, ovvero la parte della domanda di beni
nazionali proveniente dal resto del mondo. La domanda estera di beni nazionali è indicata dal termine 𝑋.

LE DETERM INANTI DI C ONSUMO, INVESTIMENTO E SP ESA PUBBLICA


Dopo aver elencato le cinque componenti della domanda aggregata, analizziamo ora le loro determinanti.
Iniziamo con le prime tre componenti consumo 𝐶, investimento 𝐼 e spesa pubblica 𝐺, che costituiscono la
domanda nazionale di beni. La domanda nazionale di beni, come in economia chiusa, è funzione del reddito
disponibile e del tasso di interesse, mentre la spesa pubblica è fissata esogenamente dal governo , ovvero:

L’equazione ci dice che il consumo 𝐶 dipende positivamente dal reddito disponibile 𝑌 − 𝑇 e l’investimento
dipende positivamente dalla produzione 𝑌 e negativamente dal tasso di interesse reale 𝑟. Possiamo notare
che le decisioni di spesa dei consumatori dipendono ancora dal loro reddito disponibile: il tasso di cambio
reale non influenza il livello il livello di spesa, ma solo la composizione della spesa tra beni nazionali e esteri.
Lo stesso vale per l’investimento, poiché il tasso di cambio reale può influenzare le decisioni delle imprese
sull’acquisto di macchinari nazionali oppure esteri, però non influenza il livello degli investimenti aggregati.

LE DETERM INANTI DELLE IM PORTAZ IONI E DELLE ESPORTAZIO NI


Le importazioni sono la parte di domanda nazionale rivolta ai beni esteri. La quantità delle importazioni 𝐼𝑀
dipende dal livello aggregato del reddito nazionale e dal tasso di cambio reale. Le importazioni sono date:
Le importazioni 𝐼𝑀 dipendono positivamente dal reddito nazionale 𝑌 e dal tasso di
cambio reale ɛ: un aumento del reddito nazionale fa aumentare le importazioni ed un
aumento del tasso di cambio reale provoca anch’esso un aumento delle importazioni.
Le esportazioni sono la parte di domanda estera rivolta ai beni nazionali. La quantità delle esportazioni 𝑋
dipende dal livello aggregato del reddito estero 𝑌 ⋇ e dal tasso di cambio reale. Le esportazioni sono date:
Le esportazioni 𝑋 dipendono positivamente dal reddito nazionale 𝑌 ⋇ e negativamente
dal tasso di cambio reale ɛ: un incremento del reddito estero provoca un aumento delle
esportazioni, mentre un aumento del tasso di cambio reale fa diminuire le esportazioni.
Un aumento del tasso di cambio reale implica un aumento del prezzo dei beni nazionali in termini di beni
esteri: i beni esteri costano meno in termini reali e questo riduce le esportazioni e aumenta le importazioni.
UNIAM O TUTTE LE DETERMINANTI DELLA DOMANDA DI BENI NAZIONALI

La figura rappresenta tutte le componenti


della domanda di beni nazionali in funzione
della produzione, tenendo costanti tutte le
altre variabili che influenzano la domanda
(come tasso di interesse, imposte, tasso di
cambio reale, spesa pubblica ecc.)

Grafico a: la retta 𝐷𝐷 descrive la domanda nazionale di beni 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 come funzione della produzione 𝑌.
La retta 𝐷𝐷 che rappresenta questa relazione è inclinata positivamente, questo perché un aumento della
produzione fa aumentare sia il consumo sia l’investimento, determinando così un aumento della domanda.
Grafico b: sottraendo le importazioni si ha la retta 𝐴𝐴, che descrive la domanda nazionale di beni nazionali.
La distanza tra 𝐷𝐷 e 𝐴𝐴 è uguale al valore delle importazioni 𝐼𝑀/ɛ: poiché la quantità delle importazioni
aumenta con la produzione, la distanza tra le due rette aumenta anch’essa all’aumentare della produzione.
Grafico c: infine, aggiungendo le esportazioni, si ottiene la retta 𝑍𝑍 che indica la domanda di beni nazionali.
La retta 𝑍𝑍 si trova al di sopra della 𝐴𝐴 e la distanza tra esse indica la quantità di esportazioni, le quali non
dipendono dal reddito interno, ma da quello estero; quindi, la distanza è costante e le rette sono parallele.
Inoltre, tale grafico permette di descrivere il comportamento delle esportazioni nette, cioè la differenza tra
esportazioni e importazioni: per esempio, a un livello della produzi one pari a 𝑌, le esportazioni sono date
dalla distanza 𝐴𝐶 e le importazioni da 𝐴𝐵, e dunque le esportazioni nette sono indicate dalla distanza 𝐵𝐶.
Grafico d: il grafico rappresenta la relazione tra esportazioni nette e produzione, che è data dalla retta 𝑁𝑋.
La retta 𝑁𝑋 è inclinata negativamente in quanto le esportazioni nette sono una funzione decrescente della
produzione nazionale: al crescere della produzione nazionale, le importazioni aumentano e le esportazioni
restano invariate, di conseguenza le esportazioni nette diminuiscono se la produzione nazionale aumenta.
Il punto 𝑌𝑇𝐵 (bilancia commerciale) è il livello di produzione nazionale in cui 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 = 𝑒𝑠𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖
per cui le esportazioni nette sono nulle. Per livelli di produzione nazionale maggiori di 𝑌𝑇𝐵, le importazioni
eccedono le esportazioni ed il paese registra un disavanzo commerciale. Per livelli di produzione nazionale
minori di 𝑌𝑇𝐵, le importazioni sono più basse delle esportazioni ed il paese registra un avanzo commerciale.

PRO DUZIONE DI EQUILIBRIO E BILANCIA C OMMERC IALE

Il mercato dei beni è in equilibrio quando la produzione nazionale è uguale alla


domanda di beni nazionali: 𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑟) + 𝐺 − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ ) + 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ)
Tale condizione di equilibrio è rappresentata dalla figura a, dove la produzione
è misurata sull’asse orizzontale e la domanda sull’asse verticale: l’equilibrio si
trova nel punto 𝐴, cioè nel punto di intersezione tra la retta a 45˚ e la retta 𝑍𝑍
che indica la domanda di beni nazionali. Nel punto 𝐴, la produzione è pari a 𝑌.
Il livello della produzione di equilibrio non per forza deve coincidere con quello
che pareggia la bilancia commerciale, dato dal livello di produzione pari a 𝑌𝑇𝐵.
In figura b, ad esempio, la produzione di equilibrio 𝑌 è più alta di 𝑌𝑇𝐵 e dunque
tale livello di produzione è associato a un disavanzo commerciale, dato da 𝐵𝐶.
Se la produzione di equilibrio 𝑌, al contrario, fosse stata inferiore al livello 𝑌𝑇𝐵,
la produzione di equilibrio sarebbe stata associata ad un avanzo commerciale.
UN AUM ENTO DELLA DOM ANDA INTERNA E UN AUM ENTO DELLA DOMANDA ESTERA

UN AUM ENTO DELLA DOM ANDA INTERNA


Supponiamo che l’economia sia in recessione e che il governo aumenti
la spesa pubblica: prima di tale aumento, la domanda è data da 𝑍𝑍 ed
il punto di equilibrio si trova nel punto 𝐴, con una produzione pari a 𝑌.
Supponiamo che la bilancia commerciale sia in pareggio, cioè 𝑌 = 𝑌𝑇𝐵.
Se la spesa pubblica aumenta di 𝛥𝐺, la retta 𝑍𝑍 che indica la domanda
si sposta verso l’alto fino a 𝑍𝑍′, in misura pari a 𝛥𝐺: l’equilibrio passa da
𝐴 ad 𝐴′ e la produzione aumenta da 𝑌 a 𝑌′. L’aumento di 𝑌 è tuttavia
maggiore di quello della spesa pubblica, per effetto del moltiplicatore.
La spesa pubblica non rientra né nell’equazione delle esportazioni né
delle importazioni; dunque, la retta 𝑁𝑋 non si sposta e l’incremento di
produzione genera un disavanzo commerciale, dato dalla distanza 𝐵𝐶.
Inoltre, l’aumento di 𝐺 provoca un effetto sulla produzione nazionale
minore rispetto a quello registrato in economia chiusa. Infatti, minore
è l’inclinazione della curva di domanda, minore sarà il moltiplicatore: la
curva di domanda 𝑍𝑍 è più piatta della curva di domanda in economia
chiusa 𝐷𝐷: in un’economia aperta, dunque, il moltiplicatore è inferiore.

UN AUM ENTO DELLA DOM ANDA ESTERA


Consideriamo ora un aumento della produzione estera 𝑌 ⋇, pari a 𝛥𝑌 ⋇.
L’equilibrio iniziale si trova nel punto 𝐴, con un livello di produzione 𝑌 e
supponiamo che la bilancia commerciale sia in pareggio, cioè 𝑌 = 𝑌𝑇𝐵 .
La produzione estera influenza direttamente le esportazioni ed entra
nella relazione tra domanda di beni nazionali e produzione, tuttavia non
influenza direttamente il consumo, l’investimento e la spesa pubblica e
non entra nella relazione tra domanda nazionale di beni e produzione.
L’aumento di 𝑌 ⋇ fa aumentare la domanda estera, che riguarda anche
i beni nazionali: l’effetto è un incremento delle esportazioni, pari a 𝛥𝑋.
L’aumento delle esportazioni sposta verso l’alto sia la retta che indica
la domanda di beni nazionali, da 𝑍𝑍 a 𝑍𝑍′ che la retta che rappresenta
le esportazioni nette, da 𝑁𝑋 a 𝑁𝑋′, entrambe di una misura pari a 𝛥𝑋.
Il nuovo equilibrio è nel punto 𝐴′ e la produzione è pari a 𝑌′: l’aumento
della produzione estera provoca l’aumento della produzione nazionale.
Poiché la domanda nazionale di beni 𝐷𝐷 non si sposta, al nuovo livello
di produzione le esportazioni nette sono pari a 𝐶𝐴′. Con l’aumento di
𝑌 ⋇ aumenta la produzione nazionale e migliora la bilancia commerciale.

PO LITIC A F ISCALE: UNA RIVISITAZIONE


Finora abbiamo derivato due risultati, riguardo un aumento della domanda estera e della domanda interna:
• l’aumento della domanda interna aumenta la produzione nazionale, ma peggiora la bilancia commerciale.
• l’aumento della domanda estera incrementa la produzione nazionale, e migliora la bilancia commerciale.
Questi due risultati hanno due conseguenze: la prima è che essi comportano che gli shock della domanda
in un paese hanno effetti anche in tutti gli altri paesi; la secon da è che tali interazioni tra paesi complicano
in misura notevole il compito delle autorità di politica economica, soprattutto nel caso della politica fiscale.
I governi discutono spesso di coordinare le politiche economiche, ma il coordinamento è difficile da attuare:
esso potrebbe richiedere ad alcuni paesi di intervenire più di altri, e non sempre sono disposti a farlo. Inoltre,
i paesi hanno un forte incentivo a promettere di aderire al coordinamento e poi rinnegare la loro promessa.
DEPREZ Z AMENTO, BILANC IA COM MERCIALE E PRO DUZ IONE

Consideriamo l’effetto di un deprezzamento nominale di una valuta, cioè una riduzione del tasso di cambio
nominale, sulla bilancia commerciale e sulla produzione. Sappiamo che il tasso di cambio reale è ɛ = 𝐸𝑃/𝑃⋇
Nel breve periodo, consideriamo costante il livello dei prezzi interni ed esteri, e dunque un deprezzamento
del tasso di cambio nominale si riflette in un deprezzamento del tasso di cambio reale della stessa entità.
Per capire l’effetto di questo deprezzamento reale sulla bilancia commerciale e sulla produzione, bisogna
ricordare la definizione delle esportazioni nette, data da 𝑁𝑋 = 𝑋 − 𝐼𝑀/ɛ ⇒ 𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ) − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ.
Dal momento che il tasso di cambio reale ɛ rientra nell’equazione delle esportazioni nette ben tre volte, un
deprezzamento reale, cioè una riduzione di ɛ, influenza la bilancia commerciale tramite tre canali:
• fa aumentare le esportazioni 𝑋: rende i beni nazionali relativamente meno costosi all’estero e questo, a
sua volta, provoca l’aumento della domanda estera di beni nazionali, ovvero delle esportazioni nazionali.
• fa diminuire le importazioni 𝐼𝑀: reale i beni esteri relativamente più costosi nell’economia nazionale e ciò
provoca l’aumento della domanda interna di beni nazionali e dunque una diminuzione delle importazioni.
• fa aumentare il prezzo relativo dei beni esteri in termini di beni nazionali 1/ɛ: ciò tende ad aumentare il
valore delle importazioni, infatti, la stessa quantità di importazioni costa di più in termini di beni nazionali.
Il miglioramento della bilancia commerciale non è scontato, poiché il terzo canale potrebbe essere più forte
dei primi due. Per migliorare la bilancia commerciale in seguito a un deprezzamento, le esportazioni devono
aumentare e le importazioni devono ridursi al fine di compensare l’aumento del prezzo dei beni importati.
Quando il deprezzamento reale aumenta le esportazioni nette abbiamo la condizione di Marshall – Lerner.

GLI EF F ETTI DI UN DEPREZZ AM ENTO REALE


Il deprezzamento reale provoca l’aumento della domanda di beni nazionali; questo genera a sua volta un
aumento della produzione interna e un miglioramento della bilancia commerciale. Poiché gli effetti di un
deprezzamento reale sono simili a quelli di un aumento della produzione estera, usiamo lo stesso grafico:
proprio come un aumento della produzione estera, un deprezzamento reale fa aumentare le esportazioni
nette assumendo che valga la condizione di Marshall – Lerner. Dunque, sia la retta che indica la domanda
di beni nazionali, sia la retta delle esportazioni nette si spostano verso l’alto, da 𝑍𝑍 a 𝑍𝑍′ e da 𝑁𝑋 a 𝑁𝑋′.
L’equilibrio si sposta da 𝐴 ad 𝐴′ e la produzione nazionale aumenta da 𝑌 a 𝑌′; al nuovo livello di produzione
le esportazioni nette sono pari a 𝐶𝐴′ e dunque, un deprezzamento reale migliora la bilancia commerciale.
Nonostante hanno stessi effetti sulla produzione nazionale e sulla bilancia commerciale, c’è un’importante
differenza: un deprezzamento reale rende i beni esteri relativamente più costosi rispetto ai beni nazionali.

LA C O M BINAZIO NE DI POLITICHE F ISCALI E PO LITIC HE DEL TASSO DI CAMBIO


Supponiamo un’economia con la produzione al suo livello naturale, ma con
un alto disavanzo commerciale. Per ridurre il disavanzo commerciale senza
modificare il livello della produzione bisogna utilizzare una combinazione
di politiche fiscali e del tasso di cambio, come è rappresentato nella figura.
L’equilibrio iniziale si trova nel punto 𝐴, associato ad una produzione 𝑌 e a
un disavanzo commerciale rappresentato dalla distanza 𝐵𝐶. Per eliminare
il disavanzo senza modificare la produzione il governo deve fare due cose.
In primis, generare un deprezzamento sufficiente ad eliminare il disavanzo:
il deprezzamento deve essere tale da spostare la curva delle esportazioni
nette da 𝑁𝑋 a 𝑁𝑋′. Il problema è che l’aumento delle esportazioni nette fa
spostare la curva di domanda da 𝑍𝑍 a 𝑍𝑍′: senza altre misure, l’equilibrio si
sposterebbe da 𝐴 ad 𝐴′, e dunque la produzione aumenterebbe da 𝑌 a 𝑌′.
In secondo luogo, per evitare l’aumento della produzione, il governo deve
usare la politica fiscale per riportare la curva di domanda da 𝑍𝑍′ a 𝑍𝑍′; esso
potrebbe diminuire la spesa pubblica, così da spostare la 𝑍𝑍′ verso il basso.
RISPARM IO , INVESTIMENTO E SALDO C OMMERC IALE
Come sappiamo, un modo alternativo di definire l’equilibrio nel mercato dei beni è attraverso l’uguaglianza
tra investimento e risparmio aggregato, che è dato dalla somma di risparmio privato e risparmio pubblico.
Deriviamo ora tale relazione in economia aperta. La condizione di equilibrio è: 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 − 𝐼𝑀/ɛ + 𝑋.
Indicando 𝐼𝑀/ɛ + 𝑋 con 𝑁𝑋, spostando il consumo 𝐶 dal lato destro al sinistro e sottraendo le imposte 𝑇
da entrambi i lati dell’equazione, otteniamo la seguente relazione: 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 = 𝐼 + (𝑇 − 𝐺 ) + 𝑁𝑋.
Ricordiamo che in un’economia aperta il reddito totale dei residenti è pari al reddito nazionale, dato dalla
somma di produzione 𝑌 e reddito netto dall’estero 𝑁𝐼. Sommando 𝑁𝐼 ai due lati dell’equazione, abbiamo
(𝑌 + 𝑁𝐼 − 𝑇) − 𝐶 = 𝐼 + (𝐺 − 𝑇) + (𝑁𝑋 + 𝑁𝐼): il termine (𝑌 + 𝑁𝐼 − 𝑇) rappresenta il reddito disponibile,
e sottraendo ad esso il consumo otteniamo il risparmio privato 𝑆, che è dato dal lato destro dell’equazione;
il termine (𝑁𝑋 + 𝑁𝐼) sul lato destro indica la somma delle esportazioni nette e del reddito netto dall’estero
e rappresenta il saldo del conto corrente, che indichiamo con il termine di 𝐶𝐴. Dunque, possiamo riscrivere
l’equazione come: 𝑆 = 𝐼 + (𝐺 − 𝑇) + 𝐶𝐴. E riordinando i termini otteniamo, infine, la seguente equazione:

Il saldo del conto corrente è pari al risparmio nazionale, dato dalla somma di risparmio pubblico e privato,
meno l’investimento: possiamo dire che un avanzo commerciale corrisponde ad un eccesso del risparmio
sull’investimento ed un disavanzo commerciale corrisponde ad un eccesso dell’investimento sul risparmio.
L’equazione ci suggerisce tre considerazioni: in primo luogo, un aumento dell’investimento deve riflettersi
in un aumento del risparmio privato, del risparmio pubblico o in un peggioramento del s aldo commerciale;
in secondo luogo, un peggioramento del bilancio pubblico deve riflettersi in un incremento del risparmio
privato, in una riduzione dell’investimento o in un peggioramento del saldo commerciale; infine, un paese
con un alto tasso di risparmio deve avere o un alto tasso d’investimento o un elevato avanzo commerciale.
C APITO LO 19 : PRODUZ IONE, TASSO DI INTERESSE E TASSO DI CAMBIO

L’EQ UILIBRIO NEL M ERCATO DEI BENI IN EC ONOMIA APERTA

In economia aperta l’equilibrio nel mercato dei beni è rappresentato dalla seguente condizione d’equilibrio:
𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑟) + 𝐺 − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ + 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ)
(+) (+,−) (+,+) (+,−)
Dunque, il mercato è in equilibrio quando la produzione nazionale è uguale alla domanda di beni nazionali.
Possiamo sostituire gli ultimi due termini con l’espressione delle esportazioni nette 𝑁𝑋, cioè la differenza
tra le esportazioni e le importazioni, data dalla seguente equazione: 𝑁𝑋(𝑌, 𝑌 ⋇ ,ɛ ) = 𝑋(𝑌 ⋇ ,ɛ ) − 𝐼𝑀(𝑌, ɛ)/ɛ.
Le esportazioni nette dipendono dalla produzione nazionale, dalla produzione estera e dal tasso di cambio
reale: un aumento della produzione nazionale aumenta le importazioni e riduce le esportazioni nette; un
aumento della produzione estera aumenta le esportazione e aumenta le esportazioni nette; un aumento
del tasso di cambio reale riduce le esportazioni nette. Possiamo riscrivere la condizione di equilibrio come:
𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑟) + 𝐺 + 𝑁𝑋(𝑌, 𝑌 ⋇ ,ɛ )
(+) (+,−) (−,+,−)

Quindi, la domanda e la produzione dipendono sia dal tasso di interesse reale che dal tasso di cambio reale:
• un aumento del tasso di interesse reale 𝑟 riduce la spesa per gli investimenti, e di conseguenza fa ridurre
la domanda di beni nazionali. Questo porta, attraverso il moltiplicatore, a una riduzione della produzione.
• un aumento del tasso di cambio reale ɛ provoca uno spostamento della domanda a favore dei beni esteri
e dunque fa diminuire le esportazioni nette. Questo a sua volta porta ad una diminuzione della domanda
di beni nazionali e, attraverso il moltiplicatore, tale diminuzione della domanda fa diminuire la produzione.
Introduciamo ora due semplificazioni, ovvero che il livello dei prezzi sia costante e che l’inflazione sia nulla.
• poiché siamo nel breve periodo, assumiamo che il livello dei prezzi nazionali e esteri sia costante; dunque,
il tasso di cambio reale e il tasso di cambio nominale si muovono insieme, cioè abbiamo 𝑃 = 𝑃⋇ → 𝐸 = ɛ:
un aumento del tasso di cambio nominale provoca un aumento della stessa misura del tasso di cambio
reale e una riduzione del tasso di cambio nominale fa diminuire il tasso di cambio reale della stessa misura.
• data l’ipotesi che il livello dei prezzi nazionali e esteri è fisso, l’inflazione sia corrente che attesa è pari a 0;
dunque, tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale coincidono e abbiamo che: 𝜋 = 0 → 𝑟 = 𝑖.
Con queste due semplificazioni, sostituiamo ɛ con 𝐸 ed 𝑟 con 𝑖, così che la condizione di equilibrio diventa:
la condizione di equilibrio nel mercato dei beni afferma
che la produzione dipende negativamente sia dal tasso
di interesse nominale che dal tasso di cambio nominale.

L’EQ UILIBRIO NEI MERC ATI F INANZ IARI IN ECO NOMIA APERTA

L’apertura dei mercati finanziari consente agli investitori di detenere attività finanziarie nazionali ed estere.
In questo caso, affinché sia indifferente tenere titoli nazionali o esteri, essi devono avere lo stesso tasso di
rendimento atteso, cioè deve la condizione della parità dei tassi d’interesse: (1 + 𝑖) = (1 + 𝑖 ⋇ )(𝐸𝑡 /𝐸𝑒 𝑡+1 ),
dove il lato sinistro indica il rendimento in termini di valuta nazionale dei titoli nazionali e il lato destro indica
il rendimento atteso in termini di valuta nazionale dei titoli esteri; i due rendimenti in equilibrio sono uguali.
La presenza di 𝐸𝑡 deriva dal fatto che, per poter acquistare titoli stranieri, è necessario scambiare la valuta
nazionale con la valuta estera, e la presenza di 𝐸 𝑒 𝑡+1 deriva dal fatto che per consentire il rientro dei fondi
alla scadenza del titolo, bisogna scambiare la valuta estera con quella nazionale al tasso di cambio atteso.
Ora moltiplichiamo entrambi i lati dell’equazione per il tasso di cambio futuro atteso, e
consideriamolo come dato, indicandolo con ̅𝐸̅̅̅𝑒; tramite questa ipotesi e omettendo gli
indici temporali, otteniamo una relazione che ci dice che 𝐸 dipende da 𝑖, da 𝑖 ⋇ e da ̅𝐸̅̅̅𝑒:
• in primo luogo, un aumento del tasso di interesse nazionale 𝑖 determina un aumento del tasso di cambio.
• in secondo luogo, un aumento del tasso d’interesse estero 𝑖 ⋇ provoca una riduzione del tasso di cambio.
• infine, un aumento del tasso di cambio atteso ̅𝐸̅̅̅𝑒 determina un incremento del tasso di cambio corrente.
La figura mostra la relazione tra tasso di interesse nazionale 𝑖 e tasso
di cambio 𝐸 che deriva dalla condizione di parità dei tassi di interesse;
essa è rappresentata per un dato tasso di cambio futuro atteso ̅𝐸̅̅̅𝑒 e
per un dato tasso di interesse estero 𝑖 ⋇. La relazione tra 𝑖 ed 𝐸 è data
da una curva inclinata positivamente, che indica che quanto maggiore
è il tasso di interesse nazionale, tanto maggiore sarà il tasso di cambio.
Quando il tasso d’interesse nazionale è pari al tasso d’interesse estero,
il tasso di cambio corrente è uguale al tasso di cambio futuro atteso,
cioè se 𝑖 = 𝑖 ⋇ ⇒ 𝐸 = ̅𝐸̅̅̅𝑒. La condizione di parità dei tassi di interesse
è nel punto 𝐴, dove il tasso d’interesse nazionale è pari a quello estero.

M ERC ATO DEI BENI E M ERC ATI FINANZ IARI INSIEME: IL MO DELLO IS – LM IN EC ONOMIA APERTA

Sostituendo il tasso di cambio con la parità dei tassi di interesse nella condizione di equilibrio nel mercato
dei beni, otteniamo la versione delle curva 𝐼𝑆 e della curva 𝐿𝑀 in un contesto di un’economia aperta come:

Insieme, queste due relazioni determinano il tasso di interesse e la produzione di equilibrio. Consideriamo
per prima la relazione 𝐼𝑆 ed analizziamo l’effetto di un aumento del tasso di interesse 𝑖 sulla produzione 𝑌.
Il primo è l’effetto diretto sull’investimento, già presente in economia chiusa: un tasso d’interesse più alto
fa ridurre l’investimento e provoca così la diminuzione della domanda di beni nazionali e della produzione.
Il secondo è l’effetto indiretto che opera attraverso il tasso di cambio, presente solo in economia a perta:
un aumento del tasso d’interesse interno fa aumentare il tasso di cambio, generando un apprezzamento;
quest’ultimo rende i beni nazionali relativamente più costosi rispetto ai beni esteri e questo , a sua volta,
riduce le esportazioni nette, provocando la diminuzione della domanda di beni nazionali e della produzione.

La figura mostra il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀 in economia aperta, tramite cui possiamo riassumere questi concetti:
• la curva 𝐼𝑆 è disegnata per dati valori di tutte le variabili che entrano nell’equazione, tranne per 𝑌 ed 𝑖;
dunque, essa rappresenta in questo caso la relazione tra il tasso di interesse nazionale e la produzione:
un aumento del tasso di interesse porta direttamente (tramite l’investimento) e indirettamente (tramite
il tasso di cambio) a una diminuzione della domanda e, a sua volta, ad una diminuzione della produzione.
• la curva 𝐿𝑀 è invece esattamente uguale al caso di economia chiusa: essa è rappresentata da una r etta
orizzontale in corrispondenza del tasso d’interesse nominale 𝑖 = 𝑖̅, il quale è stabilito dalla banca centrale.
• la produzione e il tasso d’interesse di equilibrio sono dati dall’intersezione della curve 𝐼𝑆 con la curva 𝐿𝑀.
In figura l’equilibrio è dato dal punto 𝐴, al quale corrisponde un tasso di interesse 𝑖 e una produzione 𝑌.
Il valore di equilibrio del tasso di cambio non può essere letto direttamente dal grafico, ma la parte b in
figura mostra che, dati 𝑖 ⋇ e ̅𝐸̅̅̅𝑒, il tasso di interesse di equilibrio determina il tasso di cambio di equilibrio:
In figura b, in corrispondenza del tasso d’interesse di equilibrio 𝑖, il tasso di cambio di equilibrio è pari a 𝐸.
GLI EF F ETTI DELLA PO LITIC A ECONOMICA IN EC ONOMIA APERTA

Dopo aver derivato il modello 𝐼𝑆 − 𝐿𝑀, possiamo usarlo per analizzare gli effetti della politica economica:
consideriamo per esempio, prima gli effetti di una contrazione monetaria e dopo di un’espansione fiscale.

GLI EF F ETTI DELLA PO LITIC A MONETARIA IN ECONOMIA APERTA


Supponiamo che la banca centrale aumenti il tasso
di interesse nazionale da 𝑖 a 𝑖′: tale aumento sposta
la curva 𝐿𝑀 verso l’alto da 𝐿𝑀 a 𝐿𝑀′, però la 𝐼𝑆 e la
curva di parità dei tassi di interesse non si spostano.
L’equilibrio passa da 𝐴 ad 𝐴′: l’aumento del tasso di
interesse provoca una diminuzione della produzione
da 𝑌 a 𝑌′ ed un apprezzamento del tasso di cambio.
In conclusione, la politica monetaria in un’economia
aperta agisce tramite due canali: il primo è l’effetto
del tasso di interesse sulla spesa, mentre il secondo
è l’effetto del tasso di interesse sul tasso di cambio.

GLI EF F ETTI DELLA PO LITIC A FISCALE IN ECONOMIA APERTA


Supponiamo che il governo attui una politica fiscale espansiva, ad esempio che aumenti la spesa pubblica,
e analizziamo che cosa succede, supponendo però che la banca centrale non modifichi il tasso di interesse.
Un aumento della spesa pubblica pari a 𝛥𝐺, sposta
la curva 𝐼𝑆 verso destra da 𝐼𝑆 a 𝐼𝑆′, però dato che la
banca centrale lascia invariato il tasso di interesse, la
𝐿𝑀 e la parità dei tassi di interesse non si spostano.
Il nuovo equilibrio è in 𝐴′, con un livello di produzione
maggiore pari ad 𝑌′: se la banca centrale non cambia
il tasso di interesse, l’aumento della spesa pubblica
determina un aumento della produzione, senzaperò
determinare nessuna variazione del tasso di cambio.
Riguardo a cosa accade a consumo, spesa pubblica, investimento e esportazioni nette possiamo dire che:
• il consumo e la spesa pubblica aumentano: 𝐶 aumenta a causa dell’incremento del reddito, 𝐺 per ipotesi.
• l’investimento aumenta 𝐼(𝑌, 𝑖): in questo caso, la produzione aumenta e il tasso di interesse è costante.
• le esportazioni nette diminuiscono 𝑁𝑋(𝑌, 𝑌 ⋇ , 𝐸 ): in questo caso, supponiamo che il resto del mondo non
risponda all’aumento della spesa pubblica nazionale; dunque, la produzione estera è invariata e anche il
tasso di cambio resta invariato in quanto il tasso di interesse non cambia. Resta l’effetto di una maggior
produzione nazionale, la quale fa aumentare le importazioni riducendo in tal modo le esportazioni nette.

Supponiamo ora un aumento della spesa pubblica, con l’aumento del tasso di interesse scelto dalla banca.
Se il tasso di interesse rimane costante, la produzione aumenta da 𝑌𝑛 a 𝑌′ e il tasso di cambio non cambia.
Ma se 𝑖 aumenta, 𝑌 aumenterà di meno, ovvero da
𝑌𝑛 a 𝑌′′, e il tasso di cambio si apprezzerà da 𝐸 e 𝐸 ′′.
Come prima consumo e spesa pubblica aumentano.
Che cosa succede all’investimento è ambiguo: da un
lato, l’aumento della produzione lo fa aumentare e
dall’altro, l’aumento del tasso di interesse lo riduce.
Le esportazioni nette si riducono: l’apprezzamento
riduce le esportazioni ed aumenta le importazioni, e
l’aumento di produzione le aumenta ulteriormente.
I TASSI DI C AM BIO F ISSI

Finora abbiamo assunto che la banca centrale scegliesse il tasso di interesse e lasciasse il tasso di cambio
libero di aggiustarsi per garantire l’equilibrio nel mercato dei beni. In molti paesi però questo non è realistico
in quanto le banche centrali usano spesso la politica monetaria per raggiungere obiettivi di tasso di cambio.
Questi obiettivi possono essere espliciti o impliciti, e possono essere espressi con valori specifici oppure in
termini di bande di oscillazione. Si tratta dei diversi regimi di cambio, i quali possono assumere svariati nomi.

PARITÀ, PARITÀ M O BILE E PARITÀ C ENTRALE


Esistono diversi regimi di cambio: essi possono variare da regimi di cambio perfettamente flessibili, a regimi
di cambio con parità mobili, a regimi di cambio perfettamente fissi, fino all’adozione di una valuta comune.
I paesi con regimi di cambio flessibili non hanno obiettivi specifici in termini di tassi di cambio, perciò, anche
se le loro banche centrali prestano molta attenzione al tasso di cambio, ne consentono ampie fluttuazioni.
I paesi con regimi di cambio rigidamente fissi mantengono un determinato tasso di cambio fisso in termini
di qualche valuta estera, cioè mantengono una parità tra il valore nominale della valuta nazionale e estera:
alcuni ancorano la loro moneta al dollaro o all’euro, altri ancora la ancorano ad un insieme di valute estere.
In un sistema di cambi fissi, nonostante le variazioni del tasso di cambio sono rare, posso comunque esserci:
aumenti del tasso di cambio sono detti rivalutazioni e riduzioni del tasso di cambio sono dette svalutazioni.
Tra tali due estremi, ci sono paesi che adottano regimi di cambio intermedi e operano con una parità mobile
del tasso di cambio: vuol dire che stabiliscono un tasso di deprezzamento pre-determinato nei confronti di
una valuta, al fine di evitare un apprezzamento della loro valuta che renderebbe i loro beni non competitivi.
Un altro tipo di regime di cambio prevede che un gruppo di paesi mantengano i loro tassi di cambio bilaterali
all’interno di determinate bande di oscillazione, così com’è stato per il Sistema monetario europeo, lo Sme:
secondo le regole dello Sme, i paesi membri mantenevano il loro tasso di cambio all’interno di una banda
di oscillazione costruita intorno ad una parità centrale, ovvero a un determinato valore del tasso di cambio.

PO LITIC A M ONETARIA IN UN REGIME DI C AMBI F ISSI


Supponiamo che un paese decida di ancorare il proprio tasso di cambio a un dato valore, diciamo pari a 𝐸̅.
Per giungere a tale risultato deve fare in modo che il tasso di cambio scelto prevalga sul mercato dei cambi,
cioè deve garantire una parità fissa del tasso di cambio. Con o senza cambio fisso, tasso di cambio e tasso
di interesse nominale devono soddisfare la parità dei tassi di interesse, cioè: (1 + 𝑖) = (1 + 𝑖 ⋇ )(𝐸𝑡 /𝐸𝑒 𝑡+1 ).
Quando un paese ancora il suo tasso di cambio a un livello 𝐸̅, il tasso di cambio corrente è dato da 𝐸𝑡 = 𝐸̅
quindi, se il tasso di cambio resta effettivamente ancorato, il tasso di cambio futuro atteso sarà 𝐸 𝑒 𝑡+1 = 𝐸̅ .
In un regime di cambi fissi, dunque, la condizione di parità dei tassi di interesse si può scriv ere come 𝑖 = 𝑖 ⋇ .
La banca centrale perde la possibilità di usare la politica monetaria come strumento di politica economica,
in quanto in regime di cambi fissi, il tasso di interesse interno deve essere uguale al tasso di interesse estero.

PO LITIC A F ISCALE IN UN REGIME DI C AM BI F ISSI


Nonostante in regime di cambi fissi la politica monetaria non può essere usata come strumento di politica
economica, la politica fiscale diventa più efficace rispetto ad un regime di cambi flessibili, poiché la banca
centrale n on può intervenire a cambiare il tasso d’interesse nazionale, che deve essere pari al tasso estero.
Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in regime di cambi fissi sono uguali a quelli in regime di cambi
flessibili, se la banca centrale non reagisce: ciò è dovuto al fatto che, se l’aumento della spesa pubblica non
è seguito da una variazione del tasso di interesse da parte della banca centrale, il tasso di cambio non varia.
Per un paese, fissare il proprio tasso di cambio potrebbe non essere una buona scelta, per tre motivazioni:
• fissando il tasso di cambio, si rinuncia ad uno strumento efficace per correggere gli squilibri commerciali.
• fissando il tasso di cambio, un paese rinuncia anche al controllo del suo tasso di interesse; inoltre , deve
seguire l’andamento del tasso di interesse estero, rischiando effetti dannosi per la sua attività economica.
• anche se la politica fiscale è efficace, solo uno strumento di politica economica non sempre è sufficiente.
C APITO LO 20 : I REGIMI DI C AMBIO

PO LITIC H E M AC ROECONOMIC HE E REGIMI DI C AM BIO NEL M EDIO PERIODO

Nel medio periodo, la differenza tra regime di cambi fissi e flessibili svanisce: nel medio periodo, l’economia
raggiunge lo stesso livello di tasso di cambio reale e di produzione, sia in regime di cambi fissi che flessibili.
Sappiamo che il tasso di cambio reale è pari al tasso di cambio nominale moltiplicato per il livello dei prezzi
nazionali e diviso per il livello dei prezzi esteri: ɛ = 𝐸𝑃/𝑃⋇. Dunque, il tasso di cambio reale può aggiustarsi:
• tramite una variazione del tasso di cambio nominale 𝐸, ma ciò è possibile solo in regime di cambi flessibili.
• tramite una variazione del rapporto tra prezzi nazionali ed esteri, ovvero del livello dei prezzi nazionali 𝑃
rispetto al livello dei prezzi esteri 𝑃⋇: nel medio periodo, questo è possibile anche in regime di cambi fissi.

LA RELAZ IO NE IS IN REGIM E DI TASSI DI C AM BIO F ISSI


In economia aperta, se si adotta un regime di tassi di cambio fissi, la relazione 𝐼𝑆 può essere riscritta come:
Questa equazione ci dice che la domanda, e dunque a sua volta
anche la produzione, dipendono da tasso di cambio reale, spesa
pubblica, imposte, tasso di interesse reale e produzione estera.
• negativamente dal tasso di cambio reale: un suo aumento provoca la riduzione di domanda e produzione.
• positivamente dalla spesa pubblica: un aumento della spesa pubblica aumenta la domanda e produzione.
• negativamente dalle imposte: un aumento delle imposte provoca la riduzione di domanda e produzione.
• negativamente dal tasso di interesse reale nazionale: sotto la condizione di parità dei tassi di interesse e
in regime di tassi di cambio fissi, il tasso di interesse nominale nazionale è pari al tasso di interesse estero.
• positivamente dalla produzione estera: un suo aumento, aumenta le esportazioni e perciò la produzione.

L’EQ UILIBRIO DI BREVE E DI MEDIO PERIODO


Consideriamo un’economia in cui il tasso di cambio reale è troppo elevato: in questo caso, di conseguenza,
la bilancia commerciale si trova in disavanzo, mentre la produzione si trova al di sotto del livello potenziale.
In un regime di cambi flessibili la banca centrale può ridurre il tasso di interesse per migliorare la situazione,
ma in un regime di cambi fissi, non può modificarlo in quanto il tasso d’interesse nazionale deve essere pari
a quello estero: nel breve periodo il disavanzo commerciale persiste e la produzione r imane troppo bassa.
Nel medio periodo, però, i prezzi si aggiustano. Il comportamento dei prezzi è decritto dalla curva di Phillips
data da 𝜋 − 𝜋 𝑒 = (𝛼/𝐿)(𝑌 − 𝑌𝑛 ): se la produzione è superiore al suo livello potenziale, il tasso d’inflazione
è maggiore di quello atteso, se è inferiore al livello potenziale, il tasso d’inflazione è minore di quello atteso.
Se aspettative sono ancorate a un tasso d’inflazione costante, la curva di Phillips è 𝜋 − 𝜋̅ = (𝛼/𝐿)(𝑌 − 𝑌𝑛 ).
Se sia la produzione nazionale che estera sono al livello potenziale, tasso di inflazione nazionale 𝜋 e tasso
di inflazione estero 𝜋 ⋇ sono uguali, dunque i livelli dei prezzi relativi e il tasso di cambio reale sono costanti.
Questo è quello che accade nel medio periodo: la produzione torna al suo livello potenzial e e l’inflazione
interna torna a essere uguale all’inflazione estera; quando 𝜋 = 𝜋 ⋇ il tasso di cambio reale rimane costante.
Riassumendo: n el breve periodo, un tasso di cambio nominale fisso implica un tasso di cambio reale fisso,
in quanto i prezzi sono rigidi; nel medio periodo, un tasso di cambio nominale fisso è compatibile con un
aggiustamento del tasso di cambio reale, il quale viene raggiunto attraverso variazioni del livello dei prezzi.

I VANTAG G I E GLI SVANTAGGI DI UNA SVALUTAZIO NE


Nonostante nel medio periodo la produzione torna al livello potenziale anche con cambi fissi, questo non
esclude che tale aggiustamento potrebbe essere lungo. Un modo più rapido è di attuare una svalutazione:
per un dato livello dei prezzi, una riduzione del tasso di cambio nominale porta ad una riduzione del tasso
di cambio reale e dunque porta ad un incremento della produzione: una svalutazione della giusta misura
fa ottenere nel breve periodo ciò che può essere raggiunto solo nel medio periodo. Però, la possibilità per
la banca centrale di attuare una svalutazione aumenta la probabilità di attacchi speculativi e crisi valutarie.
C RISI DEL TASSO DI C AMBIO IN REGIM E DI C AMBI F ISSI
In un sistema di cambi fissi, le crisi del tasso di cambio di solito iniziano quando i mercati finanziari credono
che una valuta possa essere presto svalutata. Questo accade quando gli investitori finanziari cominciano a
credere che ci sarà presto un aggiustamento del tasso di cambio, che può avvenire attraverso svalutazione
o attraverso un passaggio a un sistema di cambi flessibili, accompagnato da un deprezzamento nominale.
Una svalutazione potrebbe essere la conseguenza di un tasso di cambio reale troppo alto: in questo caso
occorre un deprezzamento reale e, anche se nel medio periodo ciò potrebbe accadere senza svalutazione,
gli investitori finanziari potrebbero credere che il governo e le banche prenderanno la decisione di svalutare.
Il passaggio da un regime di cambi fissi ad un regime di cambi flessibili è necessario quando bisogna ridurre
il tasso di interesse nazionale per ragioni interne: se il paese lascia fluttuare il cambio e poi riduce il tasso di
interesse interno, causerà un deprezzamento nominale, cioè la diminuzione del tasso di cambio nominale.
In presenza di aspettative di svalutazione, mantenere il tasso di cambio fisso richiede un aumento del tasso
di interesse nazionale, per la parità dei tassi di interesse. Dunque, la banca centrale ha due possibili opzioni:
• può tentare di convincere i mercati finanziari di non avere intenzione di svalutare, ma può non riuscirci e
si troverebbe dunque costretta a arrendersi e svalutare, anche se in origine non era intenzionata di farlo.
• lottare per difendere la parità dei tassi, al costo di un tasso d’interesse molto alto e una grave recessione.
Riassumendo: le aspettative di una possibile svalutazione possono provocare una crisi del tasso di cambio.
Di fronte a tali aspettative, un punto interessante è che una svalutazione può «auto-verificarsi», cioè può
avvenire anche se l’aspettativa di svalutazione era del tutto infondata. Infatti, anche se la banca centrale
non aveva intenzione di svalutare, potrebbe essere costretta a farlo se i mercati finanziari credono lo farà:
il costo di mantenere la parità dei tassi di interesse sarebbe un lungo periodo di tassi di interesse molto alti
e una possibile recessione, e il governo e la banca centrale non potrebbero che preferire una svalutazione.

F LUTTUAZIONI DEL TASSO DI CAM BI O IN REGIME DI CAM BI F LESSIBILI

In precedenza, abbiamo presentato una semplice relazione tra tasso di interesse e tasso di cambio: quanto
minore è il tasso di interesse, tanto minore è il tasso di cambio. In realtà, tale relazione non è così semplice.
I tassi di cambio si muovono spesso anche in assenza di variazioni dei tassi di interesse e inoltre, l’ampiezza
dell’effetto di una riduzione del tasso di interesse sul tasso di cambio non è molto semplice da prevedere.
Dunque, nella relazione dobbiamo considerare anche le aspettative future dei tassi d’interesse e di cambio.
Considerando ancora la parità dei tassi di interesse, che è espressa come: (1 + 𝑖 𝑡 ) = (1 + 𝑖 𝑡 ⋇ )(𝐸𝑡 /𝐸 𝑒𝑡+1 ).
Moltiplicando entrambi i lati per 𝐸 𝑒 𝑡+1 abbiamo 𝐸𝑡 = (1 + 𝑖 𝑡 /1 + 𝑖 𝑡 ⋇ )𝐸𝑒𝑡+1: il tasso di cambio quest’anno,
dipende dai tassi di interesse interni ed esteri a un anno e dal tasso di cambio atteso per l’anno prossimo.
Finora abbiamo assunto che il tasso di cambio futuro atteso 𝐸 𝑒 𝑡+1 fosse costante, ma in realtà esso non è
costante. Considerando l’anno 𝑡 + 1 invece che l’anno 𝑡, l’equazione è 𝐸𝑡+1 = (1 + 𝑖 𝑡+1 /1 + 𝑖 ⋇𝑡+1 )𝐸𝑒𝑡+2:
il tasso di cambio dell’anno prossimo dipenderà dal tasso di interesse interno e dal tasso di interesse estero
nell’anno 𝑡 + 1 e dal tasso di cambio futuro e atteso per l’anno successivo, cioè previsto per l’anno 𝑡 + 2.
Il tasso di cambio atteso futuro nell’anno 𝑡 + 1, calcolato nell’anno 𝑡, è 𝐸 𝑒𝑡+1 = (1 + 𝑖 𝑒𝑡+1 /1 + 𝑖 ⋇𝑒 𝑒
𝑡+1 )𝐸 𝑡+2.
In conclusione, il tasso di cambio corrente dipende sia dai tassi di interesse interni e esteri correnti e attesi,
sia dal tasso di cambio atteso in futuro. Sostituendo 𝐸 𝑒𝑡+1, 𝐸 𝑒𝑡+2 fino all’anno 𝐸 𝑒𝑡+𝑛 otteniamo l’equazione:

• il tasso di cambio corrente si muove nella stessa direzione del tasso di cambio futuro atteso: qualunque
fattore che aumenta il tasso di cambio atteso 𝐸 𝑒 𝑡+𝑛 provoca l’aumento del tasso di cambio corrente 𝐸𝑡 .
• il tasso di cambio corrente si muove in risposta a cambiamenti dei tassi di interesse corren ti o futuri attesi:
ogni fattore che aumenta i tassi di interesse correnti o futuri attesi, aumenta il tasso di cambio corrente.
• il tasso di cambio di cambio corrente si muove con ogni mutamento delle aspettative : tale conseguenza
deriva dalle prime due e indica che, poiché il tasso di cambio cambia con le aspettative, esso sarà volatile.
LA SC ELTA TRA C AMBI FISSI E C AMBI F LESSIBILI

In conclusione, dobbiamo chiederci se è meglio scegliere un regime di cambi fissi oppure di cambi flessibili.
Due argomenti sono favore della scelta di un regime di cambi flessibili ed uno a favore dei cambi fissi, cioè:
• il regime di cambio nel medio periodo non importa, ma è rilevante nel breve periodo: i paesi che operano
con regimi di cambio fissi, nel medio periodo, devono rinunciare a due strumenti, il tasso di interesse e il
tasso di cambio; ciò limita la capacità di reagire a shock e aumenta la possibilità di crisi del tasso di cambio.
• in presenza di aspettative di svalutazione, in un regime di cambi fissi, mantenere il tasso di cambio fisso
richiede un grande aumento del tasso di interesse nazionale, peggiorando così la situazione economica.
• l’argomento a favore dei cambi fissi riguarda il fatto che, in un regime di cambi flessibili il tasso di cambio
può fluttuare fortemente e, di conseguenza, esso può essere fuori del controllo della politica monetaria.
In generale, i cambi flessibili sono preferibili, ma con due eccezioni. La prima è quando un gruppo di paesi
è già fortemente integrato dal punto di vista economico, e la soluzione potrebbe essere una moneta unica.
La seconda è quando non ci si può fidare che la banca centrale segua una politica monetaria responsabile
in regime di cambi flessibili, e la soluzione potrebbe essere usare una forma estrema di tassi di cambio fissi.

LE UNIO NI M ONETARIE
Quando un gruppo di paesi è fortemente integrato, potrebbe essere opportuno formare un’area valutaria
comune: una moneta unica per un gruppo di paesi rappresenta una forma estrema di tassi di cambio fissi.
Un’area valutaria è considerata ottimale quando viene soddisfatta una delle due seguenti condizioni, cioè:
• i paesi devono subire stessi shock: se hanno shock simili, scelgono comunque politiche monetarie simili
e costringerli a seguire la stessa politica monetaria potrebbe non essere un vincolo difficile da rispettare.
• devono avere un’elevata mobilità dei fattori: l’alta mobilità permette ai paesi di aggiustarsi in seguito a
shock che colpiscono un paese ma non un altro: ad esempio, se i lavoratori sono disposti a spostarsi da
paesi con un elevato tasso di disoccupazione e lavorare altrove, la disoccupazione in quel paese si riduce.
La gran parte degli economisti pensa che l’area valutaria comune composta dai 50 Stati degli Stati Uniti sia
molto vicina ad essere un’area valutaria ottimale: è vero che la prima condizione non è soddisfatta, poiché
i singoli Stati sono soggetti a shock diversi, ma la seconda condizione è soddisfatta. Infatti, negli Stati Uniti,
c’è una forte mobilità del lavoro per cui i lavoratori si spostano da uno Stato all’altro in base alle condizioni
più favorevoli nei diversi Stati. Ciascuno Stato degli Stati Uniti potrebbe avere una propria valuta in regime
di cambi flessibili, ma hanno preferito costituire un’area valutaria comune con una moneta unica: il dollaro.
I benefici di aderire ad un’unione monetaria sono sia micro che macroeconomici. I microeconomici sono in
primo luogo minore incertezza: eliminare le fluttuazioni dei tassi di cambio, annulla l’incertezza relativa ai
differenziali dei tassi di interesse tra i paesi membri. In secondo luogo, i costi di transazione sono ridotti:
aderendo a un’unione monetaria, i costi di transazione da una valuta all’altra sono molto bassi o anche nulli.
Infine, la tr asparenza dei prezzi: una moneta comune facilita il confronto tra i prezzi dei paesi e dunque ne
riduce le differenze, anche se continuano ad esistere a causa dei costi di trasporto e delle differenze fiscali.
Un primo beneficio macroeconomico è un a migliore credibilità antinflazionistica: un paese con una debole
reputazione anti-inflazionistica può migliorarla formando un’unione monetaria con un paese con migliore
reputazione; l’unione monetaria, rispetto a un cambio fisso, è più credibile perché essa è meno reversibile.
Inoltre, ci sono altri due benefici macroeconomici: il coordinamento della politica monetaria, che riduce il
rischio di svalutazioni competitive e i benefici commerciali, che aumentano il commercio tra i paesi membri.
Il costo di rinunciare alla flessibilità del tasso di cambio tra diversi paesi dipende dall’ampiezza degli shock
asimmetrici che colpiscono tali paesi. Gli economisti definiscono gli shock asimmetrici le variazioni inattese
nella domanda e/o nell’offerta aggregata che colpiscono un certo paese, ma non i suoi partner commerciali.
In seguito ad uno shock asimmetrico, per tornare all’equilibrio nel mercato dei beni, il tasso di cambio deve
aggiustarsi e questo avviene più facilmente in un regime di cambi flessibili. Pertanto, uno dei principali costi
di una unione monetaria è la perdita del tasso di cambio come stabilizzatore, nel caso di shock asimmetrici.
DO LLARIZ ZAZIONE E C URRENCY BOARD
La seconda eccezione a favore di un regime di tassi di cambio fissi riguarda i casi in cui non ci si può fidare
che la banca centrale segua una politica monetaria responsabile. In tal caso, la soluzione per legare le mani
alla banca centrale potrebbe essere proprio quella di fissare il tasso di cambio, cioè attuare una parità fissa.
Una forma estrema di parità fissa è la sostituzione della valuta nazionale con una valuta estera: di solito, la
valuta estera scelta per fissare il tasso di cambio è il dollaro, dunque tale approccio è detto dollarizzazione.
Pochi paesi sono però disposti a rinunciare alla propria valuta per adottare quella di un altro paese, per cui
potrebbero scegliere di adottare una forma meno estrema di parità fissa, per esempio un currency board:
esso prevede l’aggancio della moneta nazionale ad una valuta estera solo per un certo periodo di tempo.
L’esempio più famoso è quello adottato dall’Argentina intorno al 1990 ed abbandonato alla fine del 2001.
Gli economisti sono in disaccordo tra loro riguardo la scelta di un currency board. Infatti, alcuni sostengono
che i currency board non sono in grado di prevenire le crisi del cambio: questi economisti credono che, se
un paese vuole adottare un tasso di cambio fisso, gli conviene scegliere la strada p iù estrema e dollarizzare.
Invece, altri economisti sono a favore dei currency board e non della dollarizzazione, ma credono che essi
debbano essere usati per un tempo limitato, per poi passare a un sistema di tassi di cambio flessibili.
Il dibattito ha riguardato anche il currency board argentino, e gli economisti sono ancora oggi in disaccordo.
Una parte di loro sostiene che esso è stato una buona idea ma che non è stata applicata fino in fondo, in
quanto l’Argentina avrebbe dovuto dollarizzare adottando il dollaro come valuta nazionale ed eliminando
completamente il peso: con la dollarizzazione, infatti, si sarebbe ridotto anche il rischio di una crisi valutaria.
L’altra parte degli economisti sostiene che il currency board è stato inizialmente una buona idea, ma che
non sarebbe dovuto durare così a lungo: l’Argentina ha infatti fissato il cambio con il dollaro per un periodo
troppo lungo fino a quando il peso si è sopravvalutato e, di conseguenza, la crisi valutaria è stata inevitabile.

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