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sintesi
1 Introduzione ............................................................................................ 3
2 L’intervento della FED negli Stati Uniti ............................................... 6
3 L’intervento della BCE in Europa ........................................................ 8
3.1 Gli strumenti tradizionali della politica monetaria........................... 9
3.2 Gli strumenti non convenzionali della politica monetaria ............. 14
3.3 Lo spread e il suo impatto sull’economia reale .............................. 17
3.4 Gli interventi dell’Unione europea come risposta alla crisi del
debito sovrano ................................................................................ 24
4 Appendice: L’impatto dello spread sull’economia italiana .............. 28
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Politica monetaria 2008-2018: una breve sintesi
1 INTRODUZIONE
La crisi finanziaria, che esplode a settembre 2008 con il fallimento della grande
banca statunitense Lehman Brothers, genera pesanti effetti negativi sulla finanza e
sull’industria europea.
La propagazione della crisi finanziaria dagli USA al resto dei paesi industrializzati
è immediata, stante i forti legami internazionali del settore finanziario e la
diffusione dei titoli di innovazione finanziaria in Europa, dove alcuni paesi avevano
basato la crescita sul mercato finanziario (come nel caso dell’Irlanda) e
immobiliare (Spagna, in primis).
Il trasferimento della crisi dalla finanza all’economia reale avviene rapidamente, e
conferma che non ci sono separazioni nette tra la parte finanziaria e quella
industriale del sistema economico: i due ambiti sono legati tra loro, in quanto sono
complementari alla crescita economica. Pertanto, la crisi finanziaria colpisce nel
2009 il sistema economico nel suo complesso, con un calo della fiducia, degli
investimenti, della domanda aggregata e della produzione. Inoltre, essendo la crisi
internazionale, il calo del commercio estero avvenuto nel 2009 è generalizzato, e
non consente ai paesi esportatori di compensare la domanda interna con le
esportazioni.
Quali sono i meccanismi di trasmissione della crisi dall’ambito finanziario a quello
reale?
In primo luogo, la crisi nel 2009 ha colpito soprattutto gli Stati Uniti, che hanno
ridotto la domanda aggregata e quindi le importazioni: in un primo tempo, sono
state penalizzate soprattutto le imprese che esportano negli USA, come nel caso
della filiera della moda e del lusso italiano.
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In realtà, l’effetto negativo più importante è quello della crisi di fiducia che ha
colpito le banche, che fa sì che esse restringano i cordoni della borsa del credito,
generando una sorta di credit crunch nei confronti delle imprese che forniscono
minori garanzie. In Europa, la necessità di rispettare i nuovi parametri di
patrimonializzazione imposti dall’ultimo accordo di Basilea vincola le banche ad
un aumento del capitale o a una riduzione degli impieghi: in alcuni paesi si sceglie
subito la prima strada, rafforzando patrimonialmente le banche anche con
l’immissione temporanea di capitale pubblico; in altri paesi, tra cui l’Italia, le
banche cercano di evitare gli aumenti di capitale, che modificherebbero
sostanzialmente gli equilibri raggiunti tra gli azionisti di riferimento, e tentano di
resistere riducendo gli impieghi a favore delle imprese meno solide, favorendo così
la spirale recessiva.
Inoltre, un altro effetto è dato dal semplice legame di tipo “keynesiano” esistente
tra la disoccupazione creata dalle società finanziarie in crisi e la minore domanda
generata da tali disoccupati: il settore finanziario rappresenta un’importante fetta
di occupazione a medio-alto reddito, che in caso di crisi riduce fortemente i propri
consumi e quindi la domanda aggregata del sistema.
In generale, la carenza di liquidità a danno delle imprese comporta un maggiore
costo del debito e quindi minori profitti per l’impresa, favorendo il fallimento delle
imprese che già prima del 2008 erano poco solide.
Infine, la crisi nata dalla facilità con cui si erogavano i mutui genera ovviamente
una reazione di chiusura del credito verso questo comparto, e quindi una caduta
dell’attività edilizia. Dal lato della domanda, un numero inferiore di famiglie può
ora permettersi di attivare un mutuo, in quanto il mercato del credito screma la
domanda e concede solo mutui veramente garantiti, che coprono solo una parte del
valore dell’immobile (in quanto la quotazione delle case è in calo), riducendo
ulteriormente la domanda di nuove abitazioni (in precedenza, il valore del mutuo
raggiungeva anche il 100% del valore dell’immobile da acquistare, in quanto il
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valore degli immobili era ipotizzato in crescita continua nel tempo). Dal lato
dell’offerta, le società immobiliari non riescono a vendere le opere nel frattempo
portate a termine e pertanto non ricevono più il credito dalle banche per attivare
nuovi lavori. In ogni paese, l’edilizia è uno dei settori con il maggior coefficiente
di attivazione della domanda aggregata perché è molto integrato con gli altri settori
economici (come indicato nelle tavole input-output delle interdipendenze
settoriali) e quindi la crisi dell’edilizia si ripercuote in una minore domanda di beni
industriali negli altri settori, diffondendo la recessione nel sistema economico.
Oltre al comparto edile, la crisi colpisce subito tutti i settori dei beni industriali e
dei beni di investimento, che sono quelli più legati alle aspettative sul futuro
dell’economia. Dal lato dei beni di consumo, gli effetti recessivi della domanda
aggregata, uniti alla crisi di fiducia nel futuro e ad aspettative pessimistiche,
colpiscono soprattutto i beni di consumo durevole, come le auto. Un chiaro
esempio è individuato nel rischio di fallimento della General Motors e degli altri
produttori statunitensi che si registra subito nel 2008, e nella crisi dei produttori
europei, Fiat in primis, con i forti cali della domanda di auto nel periodo 2009-
2013. In Italia le immatricolazioni annuali si riducono di quasi il 50%, passando da
2,5 mln di auto nel 2007 a 1,3 mln del 2013.
Il settore auto anticipa gli effetti della crisi che si riversa solo in un secondo tempo
nei confronti degli altri beni di consumo, meno legati alle decisioni di medio
periodo dei consumatori. In Italia, le regioni in cui il settore auto è molto
importante, come nel caso del Piemonte, sono le prime ad essere colpite dagli
effetti negativi della recessione.
In generale, l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale si manifesta con
un forte aumento del tasso di disoccupazione, come indicato nella tabella 1.
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Tabella 1: Impatto della crisi sul tasso di disoccupazione
Negli Stati Uniti la risposta della FED è stata immediata: dall’agosto del 2007 i
tassi di interesse calano continuamente fino a raggiunge lo 0,25% nel 2008, tasso
che verrà mantenuto fino alla fine del 2015 quando si alzerà allo 0,5% (grafico 1).
Inoltre, si sono subito attivati gli strumenti di politica monetaria non convenzionali,
come il QE (Quantitative Easing) e il TARP (Trouble Asset Relief Program).
Il QE rappresenta un’immissione di liquidità nel sistema economico che passa
attraverso l’acquisto da parte della FED di titoli, anche tossici, posseduti dalle
banche. La differenza rispetto alle manovre convenzionali di politica monetaria
risiede proprio nella tipologia di titoli acquistabili, che nelle condizioni di normalità
sono rappresentati dai soli titoli pubblici.
Il QE è stato effettuato in varie tranche, dal novembre 2008 in poi, con un
ammontare di circa 1000 miliardi di dollari all’anno. Nel 2013 inizia la riduzione
progressiva del QE, definito programma “tapering”, e con la promessa della FED
di immettere “solo” 65 miliardi di dollari mensili, che diventano 45 dal 2014.
Grazie alla ripresa dell’economia, la FED non ha più bisogno di immettere
un’elevata liquidità nel sistema e dal 2016 ha incominciato a far risalire il tasso di
interesse, raggiungendo l’1,75% a marzo 2018.
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Grafico 1: Evoluzione tasso di interesse FED
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tempo e il rafforzamento della patrimonializzazione bancaria gli aiuti concessi alle
banche statunitensi sono stati gradualmente rimborsati.
3 L’INTERVENTO DELLA BCE IN EUROPA
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Questo approccio è stato utilissimo nella gestione della crisi, quando nel 2012, in
piena crisi del debito sovrano, il presidente Mario Draghi pronunciò la famosa frase
“….BCE is ready to do whatever it takes to preserve the euro…”, indicando che la
BCE avrebbe fatto di tutto pur di sostenere la fiducia nell’euro e nell’Unione
Monetaria Europea. Si tratta di un approccio che utilizza al meglio la forza della
“moral suasion”, consentita dalla fiducia dei mercati nell’operato della BCE, che
nei primi anni di vita si è guadagnata la credibilità puntando su obiettivi molto
vicini a quelli perseguiti in precedenza dalla Bundesbank tedesca come, per
esempio, l’essersi posta inizialmente l’obiettivo intermedio di una crescita annua
della quantità di moneta del 4,5% (derivata da una variazione del PIL reale del
2,5% e da una variazione dei prezzi del 2%, all’interno di una velocità di
circolazione della moneta che si mantiene stabile).
Al contrario degli Stati Uniti, la risposta dei paesi europei e dell’UEM nel suo
insieme è stata invece molto lenta nel comprendere che gli strumenti tradizionali
non erano più efficaci, sin dai primi anni della crisi.
Infatti, fino al 2011 la BCE ha implementato la strategia tradizionale, con il tasso
di interesse che dal 4,25% del 2008 raggiunge l’1% nel 2009, ma senza ottenere
grandi risultati in termini di stimolo all’economia. Anzi, con lo scoppio della crisi
del debito sovrano il tasso è stato alzato dall’1% all’1,5% per alcuni mesi.
Solo dal novembre 2011 e, soprattutto, dal 2012, la nuova impostazione della
governance della politica economica europea e i nuovi strumenti messi a
disposizione della BCE hanno consentito di bloccare la spirale di sfiducia nei
confronti dell’UEM nel suo complesso e dei paesi colpiti dalla crisi del debito
sovrano (i paesi PIIGS).
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I singoli governi si sono mossi per difendere e salvare il proprio sistema
finanziario: per esempio, Islanda, Irlanda1, Regno Unito hanno fornito molti aiuti
pubblici alle banche per risollevarsi in termini patrimoniali, e riottenere
velocemente la fiducia dei mercati. Persino la Germania ha investito 500 miliardi
di euro per il salvataggio delle banche.
In realtà, la politica economica europea ha avuto maggiori difficoltà nel gestire la
crisi anche a causa del “double-dip”, e cioè della doppia caduta del PIL: la tabella
2 mostra che la prima caduta è stata quella del 2009, generalizzata a tutti i paesi
industrializzati del mondo, mentre la seconda caduta è avvenuta invece nel 2012 e
2013 solo in Europa, quando ormai si pensava che il sistema europeo fosse già in
ripresa. Soprattutto nei paesi colpiti dalla crisi del debito sovrano, la seconda caduta
è stata intensa, mentre nell’area tedesca si è trattato per lo più di una attenuazione
della ripresa.
Il confronto tra l’operato della BCE e quello della FED è indicativo dei diversi
obiettivi istituzionali a cui le due banche centrale devono fare riferimento.
Infatti, mentre la BCE si concentra sulla stabilità dei prezzi, lo statuto della FED
include anche obiettivi di economia reale, quali la crescita economica e la riduzione
1
A causa degli aiuti concessi alle banche, il deficit irlandese ha raggiunto ben il 30% del PIL nel
2010.
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dell’occupazione. Inoltre, mentre la FED può acquistare titoli di stato al momento
dell’emissione, e cioè sul cosiddetto mercato primario, alla BCE tale facoltà è
espressamente vietata dal Trattato di Maastricht, e la BCE è costretta ad intervenire
soltanto sul mercato secondario dei titoli di stato, e cioè sui titoli già emessi e in
circolazione, ed anche in questo caso sotto determinate condizioni. In sostanza, alla
BCE viene esclusa la possibilità di monetizzare il debito pubblico dei paesi partner:
un’ulteriore garanzia e difesa della stabilità dei prezzi.
La politica monetaria di tipo tradizionale, adottata dalla BCE dal 1999 al 2011, si
basava su due “pilastri” ben identificati: da una parte, il continuo riferimento
all’andamento della massa monetaria in circolazione, nei suoi vari aggregati, sulla
base del principio che l’inflazione nel lungo termine è considerata un fenomeno
monetario: controllando la crescita della massa monetaria, si controlla l’inflazione.
Il legame tra quantità di moneta, crescita del PIL e inflazione deriva dalla “teoria
quantitativa della moneta”, in cui gli aumenti dei prezzi sono, in genere, legati a
tassi di crescita della moneta superiori al potenziale di crescita dell’economia reale
nel medio termine; dall’altra, il secondo pilastro si basa sul monitoraggio delle
variabili economiche e finanziarie che rappresentano indicatori di possibili
pressioni inflazionistiche a breve o medio termine. Con il passare del tempo,
l’importanza del pilastro economico è aumentata rispetto al pilastro monetario, ed
è stata confermata successivamente negli anni di crisi quando l’impatto della
domanda di beni e della fiducia dei consumatori ha prodotto addirittura una
deflazione.
Per implementare la strategia tradizionale, la BCE ha utilizzato i tipici strumenti
della politica monetaria, e cioè il controllo dei tassi guida, dei coefficienti di riserva
obbligatoria e dell'emissione di moneta. Tra questi, il più importante è il tasso di
interesse sulle operazioni di rifinanziamento delle banche presso la BCE.
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Un aumento dei tassi di interesse con cui le banche commerciali si finanziano
presso la BCE si trasmette al mercato del credito con un aumento del costo del
denaro, che genera una riduzione della quantità di moneta in circolazione, una
riduzione dell’attività economica (minori investimenti e minori consumi) e, in
condizioni normali, una rivalutazione dell’euro: tutti elementi che permettono il
controllo dell’inflazione.
Al contrario, riducendo i tassi di interesse si migliorano le condizioni del credito e
si stimola l’economia attraverso l’aumento degli investimenti e dei consumi,
nonchè delle esportazioni nella misura in cui le condizioni monetarie espansive
conducono ad un deprezzamento dell’euro.
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però attivare solo dal novembre 2011 in poi2, e non prima, con l’arrivo di Mario
Draghi alla presidenza BCE, dopo il periodo del presidente Trichet, che aveva
seguito una strategia opposta che aveva rialzato i tassi dall’1% al 1,5% per paura
di un’inflazione generata dall’aumento delle materie prime. Questa scelta è stata
pesantemente criticata dagli economisti in quanto effettuata proprio in
concomitanza con la crisi del debito sovrano dei paesi PIIGS, che necessitava
invece di una politica monetaria accomodante per far scendere lo spread di tali
paesi.
2
Mario Draghi arriva alla presidenza BCE il primo novembre 2011 e nove giorni dopo inizia a
ridurre gradualmente i tassi di riferimento, fino a portarli a zero.
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3.2 Gli strumenti non convenzionali della politica monetaria
La politica monetaria della BCE è profondamente mutata negli anni della crisi del
debito sovrano (iniziata nel 2010-2011), grazie all’uso di strumenti di politica
monetaria di tipo “innovativo” e non ortodosso. Dal 2010, la BCE applica
frequentemente i nuovi strumenti di politica monetaria, quali prestiti alle banche a
tasso zero senza limitazione di quantità, l’allungamento delle scadenze dei prestiti
concessi alle banche, l’allargamento delle tipologie di titoli che possono essere dati
in garanzia dalle banche alla BCE, l’acquisto di titoli pubblici sul mercato
secondario (in forma ”sterilizzata”, cioè senza incremento della massa monetaria
per non creare inflazione).
Con il normale meccanismo di trasmissione della politica monetaria la Bce agisce
sull’inflazione tramite i tassi di interesse, ma in periodi di eccezionali tensioni sui
mercati finanziari la BCE può ricorrere a qualsiasi altro strumento, purchè
compatibile con il Trattato, pur di conseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi.
Pertanto, durante la crisi del debito sovrano del 2010-2011 la BCE ha utilizzato
misure non convenzionali, che formano parte degli strumenti di attuazione della
politica monetaria a sua disposizione, ma che per definizione sono di natura
straordinaria e temporanea. Queste misure sono in genere dirette al settore
bancario, poiché le imprese dell’area dell’euro dipendono soprattutto dal
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finanziamento delle banche, piuttosto che dal finanziamento sui mercati dei
capitali.
Queste misure straordinarie hanno subito una rapida modifica nel corso della crisi
del debito sovrano, in quanto sono aumentate di intensità e di efficacia. Qui di
seguito si citano i principali strumenti adottati:
- LTRO: è l’acronimo di «Long Term Refinancing Operation» o piano di
rifinanziamento a lungo termine. Consiste in un’asta di liquidità in cui la Bce
concede un prestito alle banche richiedenti, della durata di 3-5 anni, per finanziare
stabilmente le banche europee, alimentando gli acquisti dei titoli di Stato in asta
(cioè all’emissione) e sul mercato secondario da parte degli stessi istituti sui
rispettivi mercati domestici. La domanda di titoli pubblici da parte delle banche
favorisce bassi tassi di interesse all’emissione di tali titoli, a tutto vantaggio della
finanza pubblica per paese in crisi. La Bce ha varato due tranche di LTRO per oltre
1000 miliardi di euro complessivi fra dicembre 2011 e febbraio 2012.
- TLTRO: è l’acronimo di Targeted Long Term Refinancing Operation. Si tratta
di due serie di operazioni di rifinanziamento del giugno 2014 e del marzo 2016,
simili alle LTRO, ma finalizzate a privilegiare le banche che aumentano i prestiti a
imprese e famiglie. Hanno l’obbiettivo di migliorare il funzionamento del
meccanismo di trasmissione della politica monetaria, sostenendo l'erogazione del
credito bancario all'economia reale. I finanziamenti vengono concessi alle banche
in modo proporzionale agli impieghi della banca a favore delle imprese e delle
famiglie. In quest’ultimo caso, senza però considerare i mutui, in modo da non far
nascere una nuova bolla immobiliare. La banca potrà rimborsare, anche solo in
parte, i finanziamenti TLTRO in via anticipate, a seconda delle proprie esigenze.
Nel complesso, si sono concessi crediti che hanno consentito nuovi impieghi per
circa 400 miliardi alle imprese e alle famiglie, una cifra significativa ma ben al di
sotto delle previsioni, a conferma della difficoltà con cui opera il meccanismo di
- 15 -
trasmissione della politica monetaria in periodi particolarmente turbolenti come gli
attuali.
- QE “Quantitative easing”: rappresenta lo strumento non convenzionale per
eccellenza, nel senso che immette direttamente moneta nel circuito economico
tramite l’acquisto di titoli del debito pubblico e di imprese a partecipazione
pubblica (obbligazioni). Le operazioni LTRO e TLTRO pur immettendo liquidità
nel sistema non potevano essere considerate un vero e proprio “quantitative easing”
perché avevano una durata temporale limitata: dopo uno o tre anni il prestito
concesso dalla BCE doveva essere restituito. In questo caso, non si tratta di un
prestito, ma di un vero e proprio acquisto di titoli che rimarranno presso la BCE
fino a scadenza.
Nel 2015 la BCE inizia una vera e propria politica di quantitative easing con
l’acquisto di 60 miliardi di titoli al mese, soprattutto di titoli pubblici dei paesi più
deboli (sempre con riferimento al mercato secondario): non sono più operazioni
“sterilizzate”, ma si immette una pari quantità di moneta sul mercato. Nel caso
italiano, oltre ai titoli pubblici sono stati acquistati anche le obbligazioni emesse
dalla Cassa Depositi e Prestiti, da Snam, Terna, Enel, Trenitalia.
Nel 2016 il QE è stato aumentato a 80 miliardi di euro mensili, ed è stato esteso
alle obbligazioni delle imprese private (con un rating pari almeno a BBB), mentre
dal 2017 il QE è stato ridotto a 30 miliardi.
Sin dall’inizio, le operazioni di QE avevano una scadenza temporale, una data
finale dell’operazione, che però è stata sempre posticipata in avanti in attesa che si
realizzassero pienamente gli effetti della trasmissione della politica monetaria
sull’economia reale: il primo QE del 2015 doveva terminare nel 2016, quando
invece è addirittura aumentato e prorogato fino al 2017 e poi, benchè ridotto, è stato
prorogato fino a settembre 2018.
- SMP: il Security Market Programme è il programma con il quale dal maggio
2010 al settembre 2012 la BCE compra titoli pubblici, sul mercato secondario, dei
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paesi più in difficoltà, in primis la Grecia, ma anche Irlanda e Portogallo.
Purtroppo, l’ammontare dei titoli acquistabili non è stato sufficiente a bloccare la
speculazione finanziaria nei confronti dei paesi del Sud-Europa, che dal 2011
coinvolge pesantemente anche la Spagna e l’Italia.
In generale, l’attenzione della BCE nei confronti dello spread dei paesi deboli e
dell’evoluzione dei titoli pubblici di tali paesi è quindi molto elevata, ed è
pienamente giustificata con il fatto che gli spread dei titoli dei paesi vulnerabili
incorporavano un elevato premio per il rischio di “dissoluzione dell’area euro”,
che si aggiungeva al normale premio per il rischio default del paese in questione,
posseduto per definizione da tutti i titoli pubblici. Gli alti spread presenti nel 2011
rendevano inefficace la trasmissione della politica monetaria della BCE, in quanto
un eventuale intervento della BCE sui tassi di riferimento non avrebbe avuto alcuna
influenza sui crediti dati dalle banche alle imprese: a causa dei tassi elevati a livello
nazionale, sia le banche che le imprese dei paesi PIGS non avrebbero potuto
finanziarsi a condizione economiche favorevoli per innescare il processo di ripresa
economica, trascinando ulteriormente il paese verso il default a causa dell’elevato
onere per il debito. La parte dello spread che incorpora il rischio di dissoluzione
dell’area euro può essere interpretata come una sorta di rischio cambio della
“futura” valuta nazionale che il paese debole avrebbe in caso di fuoruscita
dall’euro. E’ noto infatti che la dissoluzione dell’area euro determinerebbe una
forte svalutazione delle valute dei paesi deboli, e che i mercati avevano incorporato
tale aspettativa negli spread richiesti nel periodo 2010-2012 per acquistare titoli
pubblici a lunga scadenza.
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La crisi finanziaria iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, contagia anche l’Europa a
fine 2008 e si trasforma successivamente nel 2009 in crisi dell’economia reale e
nel 2010 in crisi del debito sovrano.
Quest’ultima accezione di crisi fa riferimento alla sfiducia dei mercati nei confronti
del debito pubblico di alcuni paesi europei, quali Grecia, Portogallo, Irlanda,
Spagna e Italia, particolarmente esposti alla crisi finanziaria (come nel caso
dell’Irlanda) oppure particolarmente deboli dal punto di vista della finanza
pubblica (come nel caso dell’Italia).
In entrambi i casi, i mercati riducono la fiducia nei confronti dei titoli di credito di
tali paesi, ed esigono quindi un maggior tasso di interesse per essere invogliati ad
acquistarli.
La salita dei tassi di interesse sul debito pubblico in alcuni paesi europei viene
diffusa sulla stampa economica con il concetto di spread, che significa
letteralmente “differenza”, e cioè differenza tra due tassi di interesse, di cui uno è
il tasso di interesse di un importante titolo di riferimento (definito anche
benchmark).
Con la crisi del debito sovrano avvenuta in Europa nel 2010-2011, l’attenzione dei
mercati finanziari è indirizzata allo spread esistente tra il tasso di interesse pagato
sui Bund, titoli a lunga scadenza (10 anni) della Germania (paese leader, che
rappresenta il benchmark di riferimento), e il tasso di interesse (per la stessa
tipologia di titoli) del paese che subisce la sfiducia dei mercati.
Il concetto di spread era già stato utilizzato in precedenza, come nel corso degli
anni ’80 e ’90, quando il differenziale tra Bund e i titoli dei paesi con valuta debole
aumentava in concomitanza con le crisi valutarie, e si riduceva nei periodi di
maggiore crescita economica. Tuttavia, è solo con la crisi del debito sovrano che
questo concetto è divenuto di pubblico dominio, e per tale motivo merita un
approfondimento.
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Le variabili che determinano il livello dello spread sono essenzialmente tre: il
rischio default, il rischio cambio e il rischio liquidità.
Il rischio default rappresenta il “premio per il rischio debitore”, e cioè quella parte
di interesse che viene richiesta per compensare il rischio che il fallimento del
debitore avvenga nel periodo di durata del titolo; se ciò accadesse, il debitore non
rimborsa il titolo alla scadenza e il creditore perde il capitale investito. Tale rischio
viene calcolato con algoritmi probabilistici, legati alla durata del titolo e alle
aspettative di solidità/default del paese in crisi. Per tale motivo, più il titolo è a
lunga scadenza e maggiore sarà la probabilità del verificarsi dell’evento negativo:
ecco perché lo spread tra titoli a breve termine (ad esempio, 3 mesi, 6 mesi, un
anno) è inferiore allo spread calcolato per i titoli a lunga scadenza (5 anni, 10 anni,
30 anni).
Il rischio cambio rappresenta il “premio per il rischio valuta”, e rappresenta quindi
quella parte di interesse necessaria all’investitore estero per compensare il rischio
di una svalutazione della moneta con cui il titolo è denominato, nel periodo di
durata del titolo: in caso di svalutazione, il creditore incasserebbe un capitale
ridotto rispetto a quello nominale, in quanto la valuta del debitore si è svalutata
mentre quella del creditore si è rivalutata. Con la costituzione dell’Unione
Economica e Monetaria, il rischio cambio non esiste più, perchè le valute nazionali
sono state sostituite dall’euro, e quindi con l’ingresso nel “club dell’euro” uno dei
principali benefici per i paesi con valuta debole, come nel caso dell’Italia, consiste
proprio nella riduzione dello spread causata dalla scomparsa della componente
“rischio valuta”.
Il rischio liquidità rappresenta il rischio di non poter liquidare velocemente, prima
della scadenza, l’investimento effettuato in titoli a meno di non subire un
deprezzamento del prezzo di mercato del titolo. Se si attende la scadenza si verrà
rimborsati al valore nominale del titolo, mentre se si vende prima della scadenza è
possibile che il prezzo di mercato sia minore del valore nominale.
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Come indicato nel grafico 4, nei primi anni di vita dell’UEM, lo spread tra i titoli
tedeschi e quelli degli altri paesi europei rimane molto basso, nonostante
esistessero profonde differenze in termini di competitività e di risultati della
finanza pubblica. Probabilmente, tale compressione verso il basso di tutti gli spread
dei titoli sovrani fu causata da una eccessiva fiducia dei mercati nella tradizionale
governance dell’UEM: nessun paese della zona euro sarebbe mai andato in default
grazie alla convergenza economica garantita dai criteri di Maastricht e dal Patto di
Stabilità e Crescita, nonché grazie all’aiuto che si riceverebbe dagli altri paesi
partner.
Al contrario, con la crisi economica del 2008 e, soprattutto, con la crisi del debito
sovrano del 2010, aumenta il rischio di fallimento del paese la cui finanza pubblica
è in difficoltà, ed il maggior rischio si riflette in un aumento del tasso di interesse
a cui l’investitore è disposto ad acquistare il titolo del debito pubblico. Addirittura,
in questo periodo aumenta la sfiducia nel concetto stesso di euro e di UEM:
un’ipotetica dissoluzione della zona euro diventa un evento a cui si attribuisce una
qualche, seppur bassa, probabilità di accadimento. Ciò basta a far aumentare gli
spread verso i paesi che soffrirebbero di più nel caso di dissoluzione dell’UEM, e
cioè verso i paesi le cui valute erano più deboli già prima dell’ingresso nell’UEM.
Il credito concesso a tali paesi deboli deve essere compensato da una maggior tasso
di interesse, che copre infatti un maggior premio per il rischio default di tali paesi.
Addirittura, si registra un forte flusso di capitali verso i titoli dei paesi più forti,
quelli che forniscono un tasso di interesse molto basso, che per alcuni anni è
risultato anche negativo, ma che garantiscono una maggiore solidità futura. In
entrambi i casi, si genera un aumento dello spread a danno dei paesi deboli.
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Grafico 4: Evoluzione tassi di interesse titoli pubblici a 10 anni
Nel caso italiano il confronto viene effettuato tra Bund tedeschi e BTP, entrambi
decennali: avendo la stessa durata, lo spread in questione mostra la diversa fiducia
che i mercati finanziari hanno nelle finanze pubbliche dei due paesi. Con l’aumento
della sfiducia nella finanza pubblica italiana aumenta il tasso di interesse richiesto
per comprare titoli pubblici italiani, e quindi aumenta lo spread (anche perché
aumenta, di converso, la fiducia verso la Germania). Dal punto di vista
macroeconomico, un aumento dello spread genera maggiore “onere per il debito”,
cioè l’ammontare degli interessi pagati annualmente dallo Stato sul debito pubblico
che viene rinnovato nelle nuove emissioni di titoli, e quindi si avrà una maggiore
spesa pubblica, che dovrà essere coperta nel bilancio dello Stato con maggiori tasse
o con minori uscite: nel caso italiano, si stima che l’aumento di un punto
percentuale del tasso di interesse sui BTP decennali generi alcuni miliardi di euro
di maggiore spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Merita
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ricordare che lo spread tra Bund e BTP ha raggiunto il massimo di 560 punti nel
novembre 2011.
Purtroppo, un aumento dello spread si ripercuote negativamente su tutta
l’economia, e non solo sulla finanza pubblica. Infatti, la sfiducia che si ripone nel
debito sovrano si estende anche alle banche e alle imprese, il cui merito di credito
si deteriora a livello internazionale a causa del deterioramento della fiducia verso
il sistema paese dove operano tali banche e imprese. Il maggior onere nella raccolta
dei fondi bancari si trasmette in tassi di interesse più elevati per le imprese: nei
periodi in cui lo spread è particolarmente alto, si nota che le imprese italiane
attingono alle risorse finanziarie ad un tasso maggiore delle imprese tedesche (a
parità di tipologia di impresa), con un aumento degli oneri finanziari che si
ripercuote sulla competitività delle imprese italiane e che favorisce i concorrenti
(in questo caso, soprattutto le imprese tedesche, che possono attingere al credito a
condizioni molto favorevoli). Un altro effetto negativo dello spread riguarda il suo
impatto sul patrimonio delle banche: un aumento dello spread, e quindi un aumento
del tasso di interesse sui titoli pubblici, genera una riduzione del corso dei titoli
(minore prezzo del titolo nel mercato finanziario) e quindi un minor valor del
portafoglio bancario investito in tali titoli. Il calo del patrimonio bancario riduce le
possibilità di credito a favore delle imprese (“credit crunch”) e quindi favorisce la
recessione economica.
All’interno di questo contesto, merita quindi sottolineare nuovamente come la crisi
del debito sovrano sia stata generata da almeno due fattori. Il primo si riferisce al
livello patologico di debito raggiunto da alcuni paesi europei: in alcuni paesi, il
debito è aumentato a causa della recessione e dei salvataggi effettuati dallo stato a
favore delle banche o delle imprese del comparto immobiliare, come nei casi di
Irlanda e Spagna; in altri paesi, il debito è aumentato a causa della recessione, che
ha ridotto le entrate e favorito un aumento delle uscite, come nel caso dell’Italia.
La Grecia è un caso ancora a parte, avendo alterato i bilanci pubblici al fine di
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entrare nel rispetto dei criteri di Maastricht, e subendo un vero e proprio default
tecnico, che ha necessitato di importanti aiuti internazionali e ha allontanato per
anni il paese dal mercato delle nuove emissioni di titoli pubblici.
Il secondo fattore è invece rappresentato dalla sfiducia nei confronti dell’euro
stesso, che ha indebolito ulteriormente i paesi già deboli, amplificandone deficit e
debito pubblico a causa del maggiore onere del debito causato dall’aumento dei
tassi di interesse.
Nel caso italiano i tassi di interesse sui BTP a 10 anni sono aumentati in modo
vistoso a fine 2011, nel punto di massimo dello spread, e sono poi scesi
sensibilmente grazie all’intervento della BCE mediante le operazioni di tipo non
convenzionale (grafico 5).
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3.4 Gli interventi dell’Unione europea come risposta alla crisi del debito
sovrano
Oltre agli strumenti di politica monetaria utilizzati dalla BCE, merita comunque
ricordare le iniziative che l’Unione europea ha attivato per reagire alla crisi
economica e, soprattutto, alla crisi del debito sovrano:
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250 miliardi di euro necessari per il primo intervento effettuato a favore della
Grecia, ma quando la speculazione internazionale si è diretta sul Portogallo, i paesi
dell’Eurozona hanno finalmente deciso di raggiungere i 440 mld di euro, la cifra
minima per l’intervento a favore del Portogallo. Poiché l’EFSF finanzia i prestiti
ai paesi deboli emettendo titoli garantiti da tutti i governi europei, queste garanzie
devono essere contabilizzate nel debito pubblico, e quindi se si aumenta la
dotazione del fondo, si aumenta il debito pubblico anche dei paesi virtuosi: questo
spiega la resistenza della Germania a concedere nuovi aiuti non garantiti da
irrevocabili impegni di austerity pubblica, che rimettano in sesto le finanze dei
paesi deboli. La modalità dell’intervento prevede che il fondo EFSF possa
intervenire solo su richiesta del paese in crisi, che deve presentare formale richiesta
e deve accettare il programma di riforme negoziato con la Troika (Commissione
UE, FMI e BCE), come avvenuto nel 2010 a favore della Grecia e nel 2011 a favore
dell’Irlanda e del Portogallo.
- ESM: il Meccanismo europeo di stabilità, nato nel 2012, ha dovuto attendere il
pronunciamento della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe del marzo 2014.
L’ESM è una vera e propria organizzazione intergovernativa regolata da leggi
internazionali (alla stessa stregua del FMI), con un consiglio di amministrazione
composto dai ministri delle finanze degli stati membri, che può decidere a
maggioranza qualificata. Al contrario del fondo EFSF, gli stati europei non
forniscono garanzie sulle sue emissioni obbligazionarie, e quindi ESM si indebita
sul mercato emettendo titoli che pur non essendo garantiti dei singoli stati hanno
comunque un basso rischio perché hanno “priorità di rimborso” sui titoli di debito
nazionali degli stati finanziati. I paesi dell’Eurozona sono dei semplici “azionisti”
dell’ESM, in quanto apportatori del suo capitale sociale (700 mld di euro). L’ESM
si indebita sul mercato per poi girare la liquidità ottenuta a favore degli stati in
difficoltà. Un elemento molto positivo è stata la possibilità di ESM di acquistare i
titoli pubblici dei paesi deboli direttamente sul mercato primario, e quindi
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all’emissione dei titoli, contribuendo al mantenimento di bassi tassi di interesse su
tali titoli pubblici. Questa possibilità, come noto, è negata alla BCE, che a
differenza della FED statunitense non può “monetizzare” il debito dei paesi europei
comprando titoli pubblici in emissione, ma solo sul mercato secondario.
- OMT: è l’acronimo di «Outright monetary transactions», che dal 2012 consistono
nell’acquisto da parte della Bce di titoli di stato a breve termine, emessi da paesi in
crisi che abbiano avviato un programma con il Meccanismo Europeo di Stabilità
(EMS) o con l’European Financial Stabilization Facility (EFSF). La data di avvio,
la durata e la fine delle OMT sono decise dal Consiglio direttivo della Bce in totale
autonomia e in accordo con il suo mandato istituzionale. Il programma OMT
consente un acquisto illimitato di titoli pubblici (con scadenza tra uno e tre anni)
sul mercato secondario purchè il paese in questione accetti determinate condizioni
di “aggiustamento macroeconomico”, definite in accordo con la Commissione
europea e il Fondo Monetario Internazionale. Il successo dell’OMT rispetto al SMP
è dovuto proprio all’annuncio della possibilità di acquistare un ammontare
illimitato di titoli pubblici. L’annuncio della creazione dell’OMT è comunemente
visto come il punto di svolta positivo nella crisi dell’euro, e il suo impatto è stato
talmente efficace che il solo annuncio della sua creazione è stato sufficiente a far
abbassare in maniera sostanziale gli spread sui titoli sovrani riportandoli verso
livelli di maggiore normalità. Infatti, il programma OMT non è mai stato
implementato: un altro esempio del ruolo giocato dalla “moral suasion” della BCE
e dalla forza della sua credibilità.
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Tabella 1: Tassi ufficiali BCE
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4 APPENDICE: L’IMPATTO DELLO SPREAD SULL’ECONOMIA
ITALIANA
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