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8 febbraio 2016

di Andrea Ferrario

Nonostante i tentativi di esorcizzarlo con enormi iniezioni di liquidità lo spettro della crisi mondiale
continua a riemergere. In questa prima parte del nostro panorama della situazione economica a
inizio 2016 affrontiamo il caos mondiale, la crisi cinese, la parabola discendente degli altri paesi
emergenti e la stagnazione del Giappone.

Con l’inizio del 2016 lo spettro della crisi mondiale è tornato all’onore delle cronache dei grandi
media. Borse in caduta libera, Cina in forte difficoltà, crollo dei prezzi del petrolio: all’improvviso
tutto sembra andare storto, dopo che da un paio di anni non si faceva altro che parlare di uscita dal
tunnel. In realtà la casa del capitalismo mondiale non ha mai smesso di essere popolata da temibili
spettri da quando otto anni fa l’intero globo è sprofondato in una crisi mondiale senza precedenti.
Ma in qualche modo le banche centrali e i governi di ogni contintente erano riusciti a tenerli a bada
con riti esorcistici come il quantitative easing e le altre enormi iniezioni di liquidità: i fantasmi si
facevano vedere solo nelle ore più buie della notte. Oggi però l’efficacia di questi esorcismi si sta
logorando e gli spettri tornano a farsi vedere in pieno giorno. Rispetto all’ultima panoramica della
situazione dell’economia mondiale che abbiamo pubblicato circa un anno fa (“Economia mondiale:
allacciatevi le cinture!” Parte 1 e Parte 2) poco è cambiato nella sostanza dei fatti, ma molto è
cambiato in termini di aggravamento di numerosi fattori e di sempre minore efficacia delle politiche
espansive con le quali ci si illude di neutralizzarli. In questo aggiornamento partiamo da una
rassegna di alcuni fattori di crisi che riguardano l’intera economia globale, come il debito e il calo
dei volumi del commercio internazionale, per passare poi a un’analisi dettagliata di singoli casi, con
particolare attenzione per quelli della Cina, della Russia, dei paesi emergenti e di quelli che in teoria
“vanno bene” (Usa, Germania).

Crisi 2016

Il caos mondiale: bolla del debito, produttività in calo, commercio fermo, crollo delle materie prime

Il problema principale e più pericoloso a livello mondiale rimane a tutt’oggi quello del volume del
debito. Non solo dopo lo scoppio della crisi del 2007-2008 non è stato fatto praticamente nulla per
diminuirlo, ma le politiche monetarie espansionistiche (quantitative easing e altre forme di iniezione
di liquidità) ne hanno ulteriormente gonfiato le dimensioni. Negli otto anni passati da allora le
banche centrali hanno iniettato nel sistema economico mondiale oltre 15 trilioni di dollari,
mantenendo allo stesso tempo a zero i tassi reali di riferimento per un periodo che non ha precedenti
nella storia. Il risultato è che, come scriveva il quotidiano “Les Echos” il 18 gennaio, il debito è
oggi lievitato fino a raggiungere il 230% del Pil mondiale, un livello più alto che nel 2007.
Nonostante questa politica espansiva senza precedenti, in tutto il mondo l’economia continua a
essere anemica o in crisi. Secondo dati riportati dallo stesso quotidiano, a livello globale la
produttività del lavoro è passata da una crescita media annuale del 3,5% tra il 2003 e il 2007 a una
di appena lo 0,9% nel 2011-2015. Il dato dei paesi industrializzati è ancora più basso: sono passati
dall’1,3% allo 0,5%. Anche in termini di Pil il panorama è deprimente: i pochi paesi sviluppati che
crescono lo fanno solo in misura limitata (2,4% gli Usa nel 2014, percentuale che risulterà
sicuramente in calo nel 2015, 1,5% reale la Germania quest’anno – la crescita stimata in generale
come sana per un paese sviluppato è una crescita continuativa superiore al 3%, mentre per i paesi
cosiddetti in via di sviluppo la percentuale deve essere molto più alta per garantire una riproduzione
stabile. Non bisogna farsi trarre in inganno dal Renzi di turno: una crescita intorno all’1-2% non è
ripresa, ma stagnazione con tutti i problemi annessi come l’aumento della disoccupazione e/o del
lavoro a infima retribuzione, i bassi redditi, l’accumulazione di debito non produttivo, la fragilità
del sistema bancario e industriale ecc.). I rimanenti paesi sviluppati sono intorno alla crescita zero
(resto dell’Ue, Giappone). Gli emergenti, che fino a un paio di anni fa venivano dati come il “futuro
dell’economia globale” hanno dimezzato in media il loro ritmo di crescita, e alcuni dei paesi più
importanti di questo gruppo (Russia, Brasile) sono in profondo rosso. Il trend al ribasso degli
emergenti comporta molti più rischi oggi di quanto non ne comportasse una ventina di anni fa (per
es. ai tempi della crisi asiatica della fine degli anni ’90), perché attualmente sono responsabili di una
quota molto più ampia dell’economia mondiale, pari a circa il 40% se calcolata in dollari. Nel 2015
è stato inoltre registrato un deciso calo dei profitti delle imprese quasi ovunque, dagli Usa alla Cina,
e la norma è che a un calo dei profitti segue uno degli investimenti e quindi dell’economia nel suo
complesso. Il commercio internazionale è in forte calo a partire dal 2015, dopo la breve ripresa tra il
2010 e il 2014. Il Baltic Dry Index, l’indice rappresentativo dell’andamento del trasporto
internazionale delle merci che con il suo crollo nel 2008 aveva “previsto” la crisi mondiale, ha
toccato in queste settimane i punti più bassi di tutta la sua storia, ancora più bassi di quelli del 2008.
La situazione nel settore del trasporto marittimo (responsabile di oltre il 90% dei flussi commerciali
mondiali) è eloquente: secondo il “Financial Times” il prezzo del noleggio delle navi più grandi era
di 20.000 dollari/giorno in agosto, oggi è crollato a 4.900 dollari/giorno, quando il livello minimo
per il pareggio dei costi lo si raggiunge a 13.000 dollari/giorno. Sul crollo dei prezzi del petrolio
(ma anche di tutte le altre materie prime) sono stati versati in queste settimane fiumi d’inchiostro. In
questo caso si tratta di un fenomeno esemplificativo dello stato di disordine e di crisi in cui versa il
sistema capitalista mondiale. Tutti i paesi produttori, non solo quelli dell’Opec, pompano la
produzione a più non posso nonostante la domanda sia in forte frenata (il livello del calo della
domanda è esemplificato dal dato di Barclays secondo cui a fine 2014 la Cina importava in media
500.000 barili al giorno, mentre oggi siamo a 300.000, un crollo di circa il 40%). L’obiettivo
principale di questa sovraproduzione dei singoli paesi è quello di rubare quote di mercato agli altri
produttori e di riempire le proprie casse finché è possibile perseguendo una politica di “frega il tuo
vicino”. Gli aspetti geopolitici naturalmente contano anch’essi, così come lo sgonfiamento della
speculazione finanziaria che aveva fino di recente contribuito ad alimentare la bolla dei prezzi, ma
non sono in questo caso il fattore decisivo. Il risultato, come spesso è successo nella storia del
capitalismo, è che pur di potere sopravvivere sul breve termine molti paesi si stanno tirando una
dolorosa zappa sui piedi creando enormi squilibri a livello mondiale. Anche le svalutazioni delle
monete nazionali sono un segno, come nel caso del calo dei prezzi del petrolio, che la politica
disperata del “frega il tuo vicino” è imperante. Stanno applicando politiche che comportano una
svalutazione della rispettiva moneta molte delle più grandi economie industrializzate (in primis il
Giappone, ma anche l’Ue e la Cina) e il fenomeno riguarda anche la stragrande parte dei paesi
emergenti (Russia, Turchia, Sudafrica, per citare solo alcuni dei casi più rilevanti). Inutile dire che
si tratta di una guerra disordinata destinata a trascinare con sé al ribasso l’intera economia mondiale.
Questo caos economico si replica a livello geopolitico nel Medio Oriente, dove l’affollarsi di attori
in conflitto e il groviglio di precarie alleanze replicano la tattica disordinata e pericolosa del “frega
il tuo vicino” che sta dilagando in campo economico.

Storicamente, da crisi economiche analoghe a quella di oggi si esce con enormi distruzioni di
ricchezza, per ripartire poi con la crescita dei profitti che sola garantisce la riproduzione del sistema
capitalista. I metodi per farlo sono essenzialmente tre: svalutazioni radicali degli attivi finanziari e
materiali tramite crolli dei mercati e fallimenti in massa, ondata inflazionistica fino al limite
dell’iperinflazione, o guerra di vasta portata come nel caso della Seconda guerra mondiale che ha
chiuso il ciclo depressivo apertosi nel 1929. Le politiche monetarie espansive non fanno che
spostare in là il momento in cui dovrà necessariamente realizzarsi una di tali opzioni.

La bolla cinese sul punto di esplodere

Le difficoltà che la dirigenza cinese ha mostrato a tutto il mondo nel gestire durante gli ultimi mesi i
vari problemi che si stanno accumulando nel paese non sono dovute a una sua maggiore
incompetenza rispetto ai vertici politici di altri paesi, ma al fatto che è obiettivamente pressoché
impossibile trovare una soluzione a tali problemi che non metta radicalmente in discussione il suo
intero sistema, e con esso quello mondiale. Questo spiega in particolare anche perché Pechino
pubblica dati statistici inaffidabili, pressoché sempre molto più rosei della realtà. Come ha ammesso
un alto funzionario cinese citato dal “Financial Times”, i dati di Pechino, ivi compreso il Pil,
vengono calcolati in base a non meglio specificati criteri propri, il che equivale a dire che possono
essere prodotti secondo quanto conviene alle autorità. Sono ormai pochi a credere al dato ufficiale
di una crescita del Pil pari al 6,9% nel 2015, e le stime prevalenti della crescita reale si situano
intorno al 4%. Secondo dati citati da “Les Echos”, la crescita delle imprese estere che operano in
Cina è attualmente compresa tra lo 0 e il 4%, a seconda del settore e dell’ubicazione geografica. La
banca Natixis, basandosi su una serie di dati storici relativi al consumo di elettricità, ai volumi del
commercio estero e a quelli del trasporto di merci, è giunta alla conclusione che la crescita reale del
Pil cinese si aggira sul 2% annuo.

Anche la Cina, come il resto del mondo, ha un enorme problema di debito. L’insieme del debito
pubblico e privato è pari a 28 trilioni di dollari ed è esploso dal 100% del Pil al momento dell’inizio
della crisi fino al 250% di oggi (di cui 147% debito privato). Il ritmo di crescita del debito è in
continua accelerazione: attualmente l’accumulazione di debito sta crescendo a un ritmo tre volte
superiore a quello del Pil ufficiale. Negli ultimi tre anni il peso dei crediti deteriorati e non esigibili
è raddoppiato e ammonta oggi a oltre $270 miliardi, stando sempre alle ottimistiche stime ufficiali.
E ogni nuovo dollaro di credito genera una crescita del Pil sempre più bassa: mentre nel 2011 ogni
dollaro di credito generava 59 centesimi di crescita del Pil, oggi ne genera solo 27, cioè meno della
metà. Questo significa che per continuare a crescere l’economia cinese deve “drogarsi” sempre di
più di debito. Analogo è un altro fenomeno citato da Bloomerg: le aziende cinesi, private e statali,
investono sempre di più, ma i loro profitti sono in netto calo. La bassa inflazione (1,4% nel 2015)
non consente di alleviare l’enorme onero del debito e nel fondamentale settore industriale i prezzi
sono in deflazione ormai da quasi quattro anni: a dicembre hanno toccato quota -5,9%. L’industria
si trova così a dovere ripagare i prestiti che si accumulano mentre i prezzi dei prodotti che vende
calano. Un altro problema della Cina, comune in questo momento a tutti i paesi emergenti, è quello
della fuga di capitali. Secondo le stime di Bloomberg nel 2015 il deflusso verso l’estero è stato pari
alla cifra senza precedenti di $1 trilione, con un aumento del 700% rispetto all’anno precedente. Il
paese sta inoltre registrando un calo delle esportazioni e delle importazioni. Il primo è segno del
fatto che l’economia del resto del mondo è in decisa frenata e acquista meno prodotti della “fabbrica
del mondo cinese”, il secondo è il segno di un drastico calo dell’attività industriale interna, non
compensato da una crescita dei consumi. Nel 2015 il commercio estero cinese ha registrato nel suo
complesso una contrazione del 7%: le esportazioni sono calate dell’1,8%, le importazioni del 7%. Il
maggiore calo delle importazioni rispetto alle esportazioni ha consentito alla Cina di aumentare il
saldo estero positivo di oltre il 56% fino a circa $550 miliardi, ma rimane il fatto che questi dati
sono indice di una brusca frenata.

Le autorità di Pechino stanno reagendo a questo quadro in modo analogo a quello dei paesi
occidentali, cioè con enormi iniezioni di liquidità in un sistema già oberato dal debito, anche se lo fa
con modalità specifiche diverse. L’estate scorsa il governo ha iniettato circa $200 miliardi nella
borsa di Shanghai nell’inutile tentativo di evitarne il crollo. Altri $500 miliardi sono stati spesi da
allora fino a fine anno per arginare la svalutazione dello yuan. Durante il 2015 la PBOC (la banca
nazionale cinese) ha inoltre effettuato ben sei tagli del suo tasso di riferimento portandolo al livello
record del 4,35% e ha tagliato più volte l’indice delle riserve che le banche sono tenute a rispettare,
consentendo loro di liberare così liquidità da immettere nel sistema economico. Poiché però la
situazione è andata peggiorando, a inizio gennaio la PBOC ha cominciato a mettere in circolazione
liquidità tramite prestiti a breve e medio termine, soluzione che in teoria le consentirebbe di
invertire la rotta in tempi più brevi se necessario. In realtà l’esperienza passata insegna che iniezioni
di “droga finanziaria” di questo tipo non producono altro che il bisogno di dosi ancora maggiori. E
le dosi di partenza sono già altissime: nel solo mese di gennaio la PBOC ha iniettato nel sistema con
questi metodi 1,8 trilioni di yuan, pari a circa $275 miliardi, con il pretesto ufficiale del fabbisogno
di liquidità in vista del capodanno cinese, e prevede di iniettarne nelle prossime settimane altri $250
miliardi.

Il governo cinese deve fare fronte, oltre che a questi problemi, anche alla enorme e sempre più
attiva classe operaia. Secondo i dati raccolti dal “China Labour Bulletin”, nel 2015 gli scioperi e le
altre proteste dei lavoratori sono cresciuti di quasi il 100% rispetto all’anno precedente. Le proteste
si fanno anche più dure, in alcuni casi con scontri tra lavoratori e forze speciali o sequestri di
dirigenti d’impresa. Ciò è un riflesso tra le altre cose delle forti difficoltà dell’industria cinese. Le
autorità non rilasciano dati sulle aziende chiuse, ma un indice della situazione viene fornito dal fatto
che il numero di stabilimenti posseduti da imprese di Hong Kong nella regione industriale di
Guangdong è calato di un terzo dal 2006, scrive il “Wall Street Journal”. Secondo dati della rivista
economica cinese Caixin, l’occupazione nelle fabbriche è in calo da 25 mesi consecutivi. La
situazione è particolarmente critica nella “rust-belt” del nord della Cina, dove sono concentrati i
giganti statali del settore dell’estrazione o della lavorazione delle materie prime, una larga fetta dei
quali opera in perdita per mantenere la pace sociale, colmando i buchi in bilancio con finanziamenti
delle banche statali e alimentando così il debito improduttivo. In quest’area geografica, una delle
più grandi acciaierie ha recentemente annunciato 11.000 licenziamenti, mentre uno dei giganti del
settore del carbone ne ha annunciati addirittura 100.000. La disoccupazione ufficiale è a solo il
5,2%, ma come tutti i dati relativi all’economia cinese anche questo va interpretato alla luce della
realtà. Due fattori contribuiscono a nascondere la disoccupazione reale. Il primo è il sistema di
registrazione della residenza (lo “hukou”) che non consente ai 270 milioni di emigrati dalle
campagne alle città di rimanere in queste ultime quando perdono il posto di lavoro. Chi rimane
senza un’occupazione torna nelle campagne e non viene registrato come disoccupato. L’altro è
quello del parziale assorbimento dei disoccupati da parte delle aziende statali di cui sopra, che in
realtà non ne hanno bisogno e svolgono un ruolo analogo a quello della cassa integrazione: come
abbiamo visto però adesso anche queste imprese stanno licenziando. Va infine citato anche il
fenomeno molto diffuso del mancato versamento dello stipendio, che si può protrarre per mesi ed è
uno dei motivi più frequenti degli scioperi. La Cina è poi uno dei paesi del mondo in cui le
diseguaglianze sociali sono più forti. Il coefficiente Gini, che misura tale fenomeno, è pari
ufficialmente allo 0,49 (più l’indice è alto e più forti sono le diseguaglianze – secondo la Banca
Mondiale un indice superiore allo 0,4 è segno di una forte diseguaglianza), uno dei più alti del
mondo. Per un raffronto, quello degli Usa è dello 0,41 e quello della Germania dello 0,3. Tuttavia,
secondo uno studio citato dal Financial Times e condotto su 15.000 nuclei familiari in 15 province
diverse l’indice Gini reale è dello 0,61.

I fattori descritti qui sopra indicano chiaramente che il sistema economico cinese si trova in
situazione di profonda crisi. Sia le autorità di Pechino che molti osservatori occidentali
minimizzano la situazione affermando che non vi è da preoccuparsi perché da una parte il
rallentamento dell’economia al 6,9% (ma come abbiamo visto il dato non è sufficientemente
attendibile) è solo il segno di una sua ristrutturazione che porterà nel breve tempo a un aumento del
ruolo dei servizi e dei consumi interni rispetto a quello della produzione industriale, mentre
dall’altra Pechino dispone di trilioni di riserve in valuta estera che le consentono di fare fronte a
situazioni di crisi anche molto grave. In entrambi i casi si tratta di pie illusioni. La Cina rimane un
paese la cui economia è gonfiata da un livello di investimenti senza pari (sono responsabili del 50%
del Pil) e con una quota del Pil attribuibile ai consumi estremamente bassa, tanto da non avere
analoghi nelle altre economie industrializzate: tale quota è nettamente calata rispetto al 45% circa
del periodo 1990-2000 ed è ferma da tempo intorno al 38%, nonostante la crescita degli stipendi in
alcuni settori. Anche se un processo del genere fosse stato avviato, e non vi sono segni sufficienti
per dirlo, prima di avere cambiamenti sensibili ci vorrebbero comunque di sicuro alcuni decenni,
ma la situazione di crisi profonda del sistema non consente praticamente spazi di manovra per una
trasformazione di questo tipo. Le autorità cinesi hanno alimentato queste illusioni affermando che
secondo le loro statistiche (sempre tutte da verificare) nel 2015 il settore dei servizi ha superato per
la prima volta il 50% del Pil, mentre quello industriale è sceso a poco più del 40%. Se anche fosse
vero, va precisato che questo dato sarebbe comunque una conseguenza del fatto che la produzione
industriale è in brusco rallentamento, mentre il settore dei servizi è rimasto nella sostanza fermo
(+0,5% anno su anno), e non di un’accelerazione positiva dei servizi. Inoltre il volume del settore
dei servizi è strettamente legato a quello della pericolosa bolla in corso: la sola speculazione
immobiliare è responsabile del 23% del settore dei servizi, sul quale incide enormemente anche il
settore finanziario. La tenuta dei servizi rispetto alla frenata della produzione industriale è
fondamentalmente un effetto dell’insana bolla finanziaria: non è un caso che una crescita dei servizi
tripla rispetto a quella media di tutto il 2015 la si sia registrata nel primo trimestre dell’anno,
quando ancora non era scoppiata la bolla della borsa. Sempre secondo i dati ufficiali i consumi
sarebbero stati responsabili dei due terzi della crescita nel 2015, ma il “Financial Times” precisa che
il dato non va considerato reale, perché le statistiche cinesi, a differenza degli standard
internazionali, includono nella categoria dei consumi anche molte spese statali. Del 51%
dell’economia che le autorità attribuiscono ai “consumi” solo il 38% consiste in spesa dei
consumatori.

Per quanto riguarda invece le riserve in valuta estera, a fine 2015 erano attestate a $3,3 trilioni.
Rispetto al picco del giugno 2014, quando erano a quasi $4 trilioni, sono calate di 700 miliardi e il
2015, durante il quale sono diminuite di $500 miliardi, è stato il primo anno dal 1992 in cui è stato
registrato un loro calo. Se si conta poi che nel 2015 il saldo estero positivo è stato di oltre $500
miliardi, vuol dire che il governo in un solo anno ha attinto da tali riserve $1 trilione all’unico scopo
di cercare di rintuzzare la crisi, peraltro con scarsi risultati. Il 2016 è cominciato con un ulteriore
forte calo delle riserve cinesi, diminuite di quasi $100 miliardi nel solo mese di gennaio, sempre
stando ai dati ufficiali. Questi dati sono già di per se stessi sufficienti a ridimensionare
drasticamente la portata delle riserve, che a prima vista appaiono enormi.Ma non è tutto. Come
sottolinea Bloomberg, una larga parte delle riserve non può essere toccata perché deve coprire il
debito legato alle importazioni denominate in valuta estera. Un’altra parte delle riserve non è
liquida, mentre un’altra ancora potrebbe avere subito deterioramenti non contabilizzati. Secondo le
stime dell’agenzia, circa $2,8 trilioni non sono quindi utilizzabili e anche se questa stima dovesse
essere esagerata, è chiaro che le riserve non consentono alle autorità cinesi un largo spazio di
manovra in caso di una crisi grave.

Il pantano del Giappone, la parabola discendente dei paesi emergenti

Accanto al caso della Cina bisogna prendere in considerazione anche quello del Giappone, terza
economia del mondo (quarta se si considera l’Ue come un’economia unica), e quello dei “paesi
emergenti” che secondo gli ideologi del capitalismo mondiale avrebbero dovuto costituire il traino
dell’economia mondiale. In Giappone, paese che non riesce a uscire dal pantano della stagnazione
ormai da un quarto di secolo, sta per compiere il suo terzo anno di vita l’enorme programma di
quantitative easing (QE) lanciato dal premier Shinzo Abe nel 2013: in termini di volumi di moneta
il QE giapponese è pari a quasi il doppio di quello Usa. Nonostante questo enorme bazooka i
risultati ottenuti sono pressoché nulli. In particolare, il programma puntava da una parte a una
svalutazione dello yen per battere la concorrenza sui mercati esteri (con una politica del “frega il tuo
vicino” praticata da moltissimi altri paesi) e dall’altra a sconfiggere il costante pericolo di una
ricaduta nella deflazione con l’obiettivo ultimo di aumentare i consumi privati. Lo yen da allora si è
svalutato di oltre un terzo rispetto al dollaro, ma le esportazioni invece di aumentare sono
fortemente calate (-8% anno su anno a dicembre, con un drastico peggioramento in particolare negli
ultimi tre mesi del 2015), mentre la popolazione, come scrive “Les Echos”, “mal pagata, soffre del
rincaro continuo dei prodotti importati e il suo potere di acquisto è stato intaccato. La svalutazione
dello yen alla fine ha avuto l’effetto principale di trasferire ricchezza dai nuclei familiari agli
esportatori, che non ne avevano bisogno. La crescita, che è risultata nulla nel 2014, dovrebbe
raggiungere lo 0,6% nel 2015”. L’inflazione rimane ferma quasi a zero (intorno allo 0,5%). Intanto
l’enorme debito giapponese continua a lievitare: quello statale è pari a circa il 240% del Pil, mentre
quello totale, comprensivo del debito e privato, è pari addirittura al 450%.

I paesi emergenti sono passati nel giro di breve tempo dal ruolo di star dell’economia mondiale a
quello di fattore ad alto rischio per la sua stabilità. Come scrive il “Sole 24 Ore”, tra il 2009 e il
2014 le principali economie emergenti avevano registrato una crescita media del 48%, rispetto a
quella di appena il 6% messa a segno dai Paesi del G20. Questa crescita è stata alimentata
soprattutto dall’enorme lievitazione del debito, una conseguenza anche dei massicci programmi di
quantitative easing (QE) varati a livello mondiale che hanno messo in circolazione capitali alla
ricerca di rendite più alte di quelle ottenibili nelle principali economie sviluppate. Tra il 2004 e il
2014 il debito delle aziende dei paesi emergenti è lievitato da $4 trilioni a $18 trilioni. La fine del
QE della Federal Reserve e l’avvio da parte della stessa di una politica di innalzamento dei tassi,
unitamente al forte rallentamento cinese e al crollo delle materie prime nonché del commercio
internazionale, stanno rendendo insostenibile questo enorme debito, che le aziende dei paesi
emergenti troveranno sempre più difficile rimborsare, rischiando così di innescare una catena di
default. Le banche estere hanno prestato $3,6 trilioni alle società dei paesi emergenti e nel 2015 i
default in questi ultimi hanno già toccato il livello più alto degli ultimi dieci anni. Nel corso
dell’anno, inoltre, si è registrata una massiccia fuga di capitali da questi paesi, pari a oltre $730
miliardi. I flussi di capitali che entrano nei paesi emergenti sono passati da una media annua di
$1.200 miliardi tra il 2010 e il 2014 ai $230 miliardi nel 2015. L’enorme leva del debito sarà più
difficile da sostenere per gli emergenti anche a causa del fatto che le loro economie sono in forte
frenata: la crescita del Pil degli emergenti si è più che dimezzata, passando dal 7,2% del 2010 al
3,4% del 2014, tasso che a giudicare dagli ultimi dati è destinato a calare ulteriormente. Il panorama
delle economie emergenti è deprimente anche se si prendono in considerazione i casi dei singoli
paesi, oltre a quello già esaminato della Cina. In Asia, economie relativamente ricche e un tempo
solide come quelle di Taiwan e la Corea del Sud sono molto in difficoltà: Taiwan è ufficialmente
entrata in recessione, mentre la Corea del Sud è in forte frenata perché la sua economia, incentrata
sulle esportazioni, sta risentendo fortemente delle difficoltà della Cina, della Russia e di altri paesi.
La crescita del Sudafrica sta toccando livelli minimi, in netta frenata a +1,4% con previsioni di
crescita intorno allo zero nel 2016, mentre la sua produzione industriale è già in recessione. La sua
moneta, il rand, si è fortemente svalutata, arrivando a perdere il 9% in un solo giorno nel corso del
mese di gennaio. Il governo ultracorrotto e oligarchico dell’African National Congress appare
sempre più incapace di gestire la situazione caotica. A differenza di altri paesi, in compenso, il
Sudafrica ha dimostrato negli ultimi anni di disporre di una marcia in più che gli offre prospettive
alternative per il futuro: una forte, agguerrita e organizzata classe lavoratrice, alla quale si
affiancano una società civile e un movimento studentesco molto attivi e organizzati. Il Brasile, fino
a poco tempo fa in netta crescita e considerato una delle grandi speranze dell’economia mondiale, è
in profonda recessione già dal 2014 e quest’anno il suo Pil si è contratto del 3,7%, mentre per
l’anno prossimo si prevede ancora un segno meno di entità simile. La sua moneta, il real, si è
fortemente svalutata, l’inflazione è a due cifre e la disoccupazione in crescita. Come se non
bastasse, la sua produzione industriale ha registrato nel 2015 un calo di oltre l’8%. Insieme alla
Russia, oggi il Brasile è uno dei “buchi neri” dell’economia mondiale. In America Latina va poi
citato il caso del Venezuela, che il calo del petrolio ha messo definitivamente in ginocchio e che
appare prossimo a un default sui $10 miliardi di debito da rimborsare quest’anno. La Turchia di
Erdogan cresce ancora intorno al 3,5%, un tasso comunque molto più basso del 9% medio nel 2010-
2011 e di un tasso compreso tra il 6% e il 9,5% prima della crisi del 2008. La sua moneta si è
svalutata del 20% rispetto al dollaro nel giro di un anno, ma nonostante questo le esportazioni sono
in calo (anche perché il principale mercato della Turchia, l’Ue, è in crisi) e l’economia del paese
deve ancora smaltire un’enorme bolla (per es. nel settore immobiliare) dovuta ai grandi flussi in
entrata di capitali speculativi alla ricerca di alte rendite, flussi che sicuramente andranno a
sgonfiarsi in breve tempo visto il contesto economico mondiale. Le imprese turche sono le più
indebitate del mondo dopo quelle cinesi e il loro debito in rapporto al Pil è raddoppiato negli ultimi
dieci anni. Il fatto che il debito sia in larghissima parte denominato in dollari le rende
particolarmente vulnerabili al rischio del cambio. L’unico paese emergente a godere apparentemente
di buona salute è l’India. Alcune caratteristiche di questo paese, come l’assenza di un vero sistema
industriale, la fatiscenza delle infrastrutture, la povertà della popolazione e la sua scarsa
qualificazione, lo rendono comunque inadatto a fare anche solo in parte da traino al resto
dell’economia globale. Il governo del neoliberale Narendra Modi, giunto al potere nel 2014, aveva
annunciato un ampio programma di riforme che stenta a concretizzarsi a causa delle difficoltà
politiche incontrate. Modi aveva promesso tra l’altro di portare la quota dell’industria manifatturiera
dal 16% al 25% del Pil. Peccato però che nel 2015 la produzione industriale abbia registrato una
contrazione e che l’indice dell’attività manifatturiera sia di segno negativo. La crescita ufficiale del
Pil è molto alta (+7,4%), ma, come constata il “Financial Times”, “la maggior parte degl indicatori
economici e imprenditoriali contraddicono nettamente [i dati ufficiali, con un sensibile
peggioramento] nell’ultimo trimestre dell’anno. Il volume delle merci trasportate via terra e via
mare è stagnante, la produzione di cemento è debole, i progetti di investimento a lungo termine
sono in declino, la fiducia delle imprese e dei consumatori è in calo”. Come nel caso della Cina, le
statistiche ufficiali sono infatti poco affidabili, soprattuto da quando le autorità hanno cambiato i
metodi di calcolo un anno fa. Secondo l’opinione prevalente degli osservatori la crescita è
sopravvalutata di almeno 1-2 punti percentuali. L’apparente alta crescita indiana va poi letta alla
luce del fatto che per creare i posti di lavoro di cui il paese necessita al fine di assorbire senza
squilibri la nuova forza-lavoro che giunge sul mercato ogni anno l’India avrebbe bisogno in realtà
di un tasso di crescita (reale, non gonfiato dalle statistiche) superiore al 9%.

9 febbraio 2016

di Andrea Ferrario

Nonostante i tentativi di esorcizzarlo con enormi iniezioni di liquidità lo spettro della crisi mondiale
continua a riemergere. In questa seconda parte del nostro panorama della situazione dell’economia a
inizio 2016 affrontiamo il crollo dell’economia russa, le economie che apparentemente “vanno
bene” (Usa, Germania, Spagna) e la stagnazione drogata dell’Ue.

La Russia nel baratro

In termini di dimensioni della sua economia la Russia ha un ruolo molto meno rilevante rispetto a
quello delle maggiori potenze economiche come gli Usa, la Cina, l’Ue e il Giappone. Il suo Pil
totale, per farsi un’idea, è di poco inferiore a quello italiano, è meno della metà di quello giapponese
ed è otto-nove volte inferiore a quello degli Usa. La sua industria e le sue banche non hanno alcuna
rilevanza al di fuori del suo “cortile di casa”, cioè i paesi dell’ex Urss e dell’ex Patto di Varsavia.
Tuttavia altri fattori ne fanno un paese dal quale non si può prescindere in un’analisi della
situazione mondiale. La Russia infatti è il numero due mondiale in altri importanti campi. E’ la
seconda potenza militare (ivi compreso nucleare) del mondo, è il secondo venditore di armi del
mondo e il secondo produttore di petrolio e gas del mondo (nonché il primo di molte altre materie
prime). E’ anche il primo paese per estensione geografica, con un’area che va dall’Europa fino
all’Estremo Oriente. E’ dalla metà del 2013 che il paese ha dato segni di un profondo logoramento
del modello economico adottato da Putin. La strategia scelta dal Cremlino è stata quella della
proiezione militare esterna, a partire dall’annessione della Crimea nel 2014, come strumento per
una consolidazione politica interna mirata a raccogliere intorno a sé sia la popolazione sia le diverse
fazioni oligarchiche. Allo stesso tempo, Putin punta a un’ancora maggiore integrazione del suo
paese nel sistema capitalistico mondiale utilizzando l’unica arma efficiente di cui dispone: la
possibilità di alzare la posta a livello militare (ivi compreso con minacce velate di utilizzare il
nucleare, come avvenuto di recente in Siria), tenendo sempre aperta la porta della diplomazia (dagli
accordi di Minsk dopo la vittoria militare nell’Ucraina orientale fino alle attuali manovre
diplomatiche in Siria). Questa strategia ha finora conseguito un apparente pieno successo. A livello
interno la popolarità del regime non è mai stata così alta, nonostante la grave crisi economica,
mentre si sono per il momento sanate le fratture tra le diverse lobby tra le quali Putin media, quella
“liberal” e quella del complesso militare-industriale, tanto che si parla di un ritorno ai vertici di
Aleksey Kudrin, l’ex ministro delle finanze fautore di politiche monetariste, ritenuto un
“filoccidentale” e per questo licenziato qualche anno fa. Grazie ai bombardamenti in Siria a
sostegno di Assad, da una parte, e al conseguente ruolo di partner indispensabile per l’Occidente in
Medio Oriente, dall’altra, Putin è riuscito contemporaneamente a fare leva sia sugli appettiti del
complesso militare-industriale sia su quello dei “liberal” favorevoli a un riavvicinamento
all’Occidente. A livello internazionale ha incontrato porte aperte sia presso l’amministrazione Usa,
sia presso i vertici europei e molti paesi mediorientali. Come abbiamo sempre sostenuto in “Crisi
Globale”, non c’è mai stata una Nuova Guerra Fredda tra Russia e Occidente, ma solo una serie di
“divergenze parallele” che a volte genera forti frizioni. In realtà però, dopo quella che sembrava
ormai diventare quasi un’apoteosi dopo gli attentati di Parigi, il Cremlino si trova ora coinvolto fino
in fondo nel pantano politico e militare del Medio Oriente, dal quale difficilmente riuscirà a tirarsi
fuori se le trattative non andranno a buon fine, oppure se si renderà necessario un intervento di terra.
Le alleanze o le partnership che Putin ha intessuto nel 2015 con quasi tutti gli attori della regione
(dall’Iran fino all’Arabia Saudita, passando per Israele e l’Egitto) rischiano in ogni momento di
sgretolarsi trascinando la Russia in un groviglio inestricabile.

Se questo dovesse succedere, come appare probabile allo stato attuale, Mosca non avrebbe retrovie
salde in cui ritirarsi: la sua economia infatti sta sprofondando e i dati del 2015 sembrano quelli di
una disfatta militare. Il Pil è crollato del 3,7%, il commercio al dettaglio del 10% a causa del calo di
stipendi e redditi della popolazione (ed è in peggioramento: a dicembre era a oltre -15%), gli
investimenti interni sono scesi dell’8,4% ed è il terzo anno consecutivo di calo. Caduta libera anche
per gli investimenti esteri diretti (FDI) passati dal picco di $40 miliardi a inizio 2013 a $3 miliardi
nel primo semestre 2015. I consumi crollano: a dicembre segnavano un -13% anno su anno. Il Pil
pro capite, che al suo picco a metà 2013 era pari a $15.000, ora è a $8.000. Gli stipendi nominali
sono aumentati dell’1,6%, che è comunque il minimo dal 1993, ma essendo l’inflazione intorno al
13% quelli reali sono crollati di circa l’11% in un anno, dopo un calo del 4% nel 2014. Se calcolato
in dollari, lo stipendio medio si è dimezzato. La disoccupazione è bassa, al 5,8%, ma come nel caso
della Cina il dato va letto alla luce della realtà: il massiccio settore dell’economia nera a salari
bassissimi, la pratica diffusa di abbassare anche di molto lo stipendio piuttosto che licenziare e,
soprattutto, il fenomeno del mancato versamento dello stipendio per lunghi periodi, che secondo le
stime ufficiali nel 2015 ha fatto un balzo dell’83% rispetto all’anno precedente. Non sorprende
quindi che nell’anno appena terminato il numero delle persone sotto la soglia di povertà sia
aumentato di 2 milioni e la percentuale di chi non riesce ad acquistare contemporaneamente cibo e
vestiario a sufficienza sia balzata dal 22% al 39%. Anche il rublo è in caduta libera e dopo avere
dimezzato il suo valore rispetto al dollaro nel 2014 quest’anno ha perso un altro 20%. I fondi di
riserva di cui il Cremlino disponeva per fare fronte a situazioni di crisi sono ormai ridotti al
minimo, in buona parte per il tentativo inutile di limitare la caduta del rublo. Il primo fondo è di $50
miliardi, ridotto quasi della metà rispetto al 2014 quando era di $90 miliardi, il secondo, di $70
miliardi, è destinato a garantire le pensioni future ed è illiquido.

Visti i dati disastrosi dell’economia russa e il crollo del prezzo del petrolio che ha esasperato una
situazione già di netto declino, probabilmente chi legge si immagina che le società energetiche,
responsabili della fetta maggiore del Pil russo, versino in situazione disastrosa. Invece, come spiega
il ‘”Wall Street Journal”, godono di un’ottima salute e stanno macinando profitti. Infatti stanno
pompando come mai in passato petrolio che vendono in dollari (la Russia ha aumentato la propria
produzione già prima, e in modo più massiccio, dell’Arabia Saudita), mentre le loro spese per
personale, macchinari ecc. sono in rubli svalutati di oltre la metà rispetto al primo semestre del
2014. Inoltre, l’aliquota fiscale che pagano è vincolata al prezzo del petrolio, pertanto in questo
momento è ridotta al minimo e lo stato si prende interamente carico delle perdite che avrebbero
subito per il crollo dei prezzi dell’oro nero. Lo stesso stato ha deciso allo stesso tempo quest’anno
un ulteriore taglio del 10% della spesa pubblica per non superare il limite di deficit di bilancio del
3% (un dogma neoliberale), ha annullato la scala mobile per le pensioni (nel 2016 verranno
rivalutate solo del 4% a fronte di un’inflazione al 13% e in continua ascesa) e prevede un
innalzamento dell’età pensionabile. Se si aggiunge che le spese militari stanno seguendo un trend al
rialzo secondo un piano a lungo termine (e l’intervento in Siria potrebbe farle incrementare
ulteriormente), si ha un quadro di chiaro e massiccio trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai
capitalisti del complesso energetico e dell’industria militare, le due colonne portanti del regime.
Insomma, la Russia di Putin non solo sta massacrando civili a sostegno di un regime borghese
criminale come quello di Assad, instaurando allo stesso tempo una partnership con gli imperialisti
statunitensi e molti regimi reazionari del Medio Oriente, non solo è alleata dell’estrema destra
europea (Lega Nord inclusa) e di gruppi neofascisti, mentre da sempre adotta politiche reazionarie
in patria, ma è anche un paese che applica brutalmente i dettami neoliberali contro i propri
lavoratori. Nonostante questo, una larga fetta della sinistra continua a osannarlo e/o a ritenerlo
un’alternativa “oggettiva” al resto dei suoi colleghi capitalisti e imperialisti.

Di fronte alla situazione disastrosa dell’economia del suo paese Putin non ha trovato di meglio che
imitare le allegre sortite del suo amico Berlusconi ai tempi della crisi europea del 2011, affermando
in autunno che il peggio della crisi era ormai passato, poi, di fronte all’evidenza, sostenendo che il
crollo del rublo ha i suoi lati positivi. Il nuovo piano economico del Cremlino, annunciato in queste
settimane, conferma tutte le misure di austerità contro lavoratori e pensionati, con l’unica novità di
un aumento dei sussidi alle regioni, ma si tratta di solo poco più di $3 miliardi, una briciola rispetto
alla situazione in cui versano e alla vastità del paese. La mossa però ha una sua logica. Infatti, come
ha rilevato il Centro per i diritti sociali e del lavoro, in Russia è stato registrato nel 2015 un balzo
delle proteste dei lavoratori. Oltre all’aumento in termini numerici, c’è stata un’evoluzione dalle
proteste strettamente locali a quelle regionali e interregionali, spesso anche intersettoriali, molto più
difficili da gestire da un punto di vista politico. Un’indagine sociologica ha rivelato che il numero
dei russi pronti ad aderire a proteste è aumentato di un terzo, fino al 20%. La percentuale però è
molto più alta, del 37%, tra i ceti medio-bassi. Quando era salito al potere, Putin aveva promesso di
diversificare l’economia del suo paese troppo incentrata sulle risorse energetiche. Allora olio e gas
generavano il 30% delle entrate federali, oggi tale percentuale è del 44%. Il modello di capitalismo
di Putin ha chiaramente esaurito la sua capacità di riprodursi senza intoppi ed è in profonda crisi.
Così come nel caso della Cina, dovrà necessariamente passare attraverso cambiamenti radicali,
l’unica incognita è per quanto tempo riuscirà a rimandare la resa dei conti.

I paesi che “vanno bene” e la stagnazione drogata dell’Ue

Nel panorama desolante dell’economia mondiale ci sono tre apparenti importanti eccezioni, gli Usa,
il Regno Unito e la Germania, tre paesi la cui economia è in crescita da alcuni anni. A essi va
aggiunto un paese meno rilevante a livello globale, la Spagna, che ha registrato nel 2015 un alto
tasso di crescita del Pil. La realtà della situazione di questi paesi, che è tra l’altro sicuramente
gonfiata dalla bolla delle politiche monetarie delle banche centrali, lancia però forti segnali
d’allarme. Ci occupiamo qui più nei dettagli di Usa, Germania e Spagna, perché il Regno Unito è un
caso a parte e poco indicativo, trattandosi essenzialmente di uno “hub di smistamento” della bolla
finanziaria e immobiliare mondiale, nonché dei servizi annessi. Basti dire che sebbene in virtù delle
sue caratteristiche peculiari goda più di altri della spinta di questa bolla, il Regno Unito ha registrato
dopo la crisi del 2008 una crescita media di appena circa il 2%, che tra l’altro secondo gli ultimi dati
è in frenata. Ben più rilevante è invece ovviamente il caso degli Usa, che nonostante i grandi
cambiamenti geopolitici degli ultimi due decenni rimangono il numero uno dell’economia
mondiale, la prima potenza militare e il paese imperialista con la più vasta proiezione globale.
Anche gli Stati Uniti hanno registrato una bassa crescita dopo la crisi, in media di poco superiore al
2%. Si tratta di circa la metà rispetto ai ritmi del 4% o più prima del 2001 e a quelli superiori al
3,5% appena prima della crisi del 2007-2008. Il livello della sua crescita è largamente insufficiente
per fare da traino a un’economia mondiale in profonda crisi. E le prospettive non sono per nulla
rosee. L’ultimo trimestre del 2015 ha registrato una crescita in netta flessione, pari allo 0,7%
annualizzato rispetto al 2% del terzo trimestre. A fine anno sono risultati in calo anche i consumi (-
0,1%), che sono responsabili dei due terzi dell’economia nazionale. In complesso nel 2015 sono
cresciuti della metà rispetto al 2014, segnando il livello più basso dall’anno della grande crisi, il
2009, un fatto dovuto tra le altre cose alla stagnazione dei redditi. L’inflazione è in costante calo e,
allo 0,7%, si avvicina sempre più alla deflazione, che ha già colpito i prezzi alla produzione. Sono
in forte calo anche i profitti delle imprese: -1,7% nel secondo trimestre 2015, -3,1% nel terzo
trimestre e stimati a -7,2% nel quarto (anche i ricavi vengono stimati in calo: -3,1%). Altrettanto
preoccupante è la drastica frenata di cui sta dando segno il settore industriale Usa. I dati relativi
all’ISM e all’Empire, due degli indici più significativi della produzione industriale, dipingono il
quadro di un calo costante da novembre a gennaio. Gli ordini di beni durevoli sono calati di ben il
3,5% nel 2015 e a dicembre risultavano crollati addirittura del 5,1%, dati che indicano come le
aziende stiano cessando di investire per il futuro, un altro forte segnale di crisi generale alle porte.
Di fronte a questo calo della produzione industriale e alle chiare prospettive di un suo
peggioramento i pompieri dell’informazione si affrettano a commentare che tutto ciò conta poco,
perché l’industria rappresenta “solo” il 12% del Pil degli Stati Uniti. In realtà, come spiegava
qualche tempo fa il “Sole 24 Ore”, l’industria genera una fetta molto ampia del volume dei servizi,
mentre non avviene il contrario. Lo sa molto bene l’Italia, dove solo il 15% circa del Pil è riferibile
all’industria (18% se si aggiunge il settore energetico), ma dove il crollo di quest’ultima ha
trascinato con sé l’intera economia. Il quadro generale dei dati Usa ha portato molti osservatori a
ipotizzare un nuovo scivolamento del paese in recessione nel 2016. Va infine citato un altro dato
che indica come la crescita post-2008 negli Usa abbia riguardato solo una parte limitata del paese.
Secondo i dati della Associazione Nazionale delle Contee degli Usa, a fine 2015 solo il 7% delle
oltre tremila contee del paese era tornato ai livelli precedenti alla crisi del 2008 in termini di
occupazione, produzione economica e prezzi delle case. In questo 7% delle contee vivono poco
meno di 30 milioni di americani, per gli altri 278 milioni la situazione rimane peggiore rispetto al
periodo pre-crisi.

La Germania ha registrato nel 2015 una crescita del Pil pari all’1,7%, che però rettificata per tenere
conto del maggiore numero di giorni lavorati è dell’1,5%. Siamo quindi a livelli stagnanti inferiori a
quelli degli Usa. Si tratta di una crescita che appare ancora più deludente se si tiene conto di alcuni
eccezionali fattori di spinta di cui ha goduto il paese: l’avvio nel 2015 del programma di
quantitative easing della Bce, del quale la Germania in quanto maggiore economia europea è la
maggiore beneficiaria, la forte svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, fondamentale per l’export
che è responsabile di quasi la metà dell’economia tedesca, i bassi costi del petrolio che hanno
favorito l’industria e i consumi, e i tassi reali a zero. In particolare, le centinaia di miliardi di
liquidità immesse dalla Bce hanno salvato per ora dalla recessione gli altri paesi Ue, che sono di
gran lunga il maggiore mercato di sbocco delle esportazioni tedesche. Queste ultime nel 2015 hanno
ricevuto impulso da un aumento del 5,5% delle esportazioni verso i paesi Ue e di ben il 19% verso
gli Usa, mentre quelle verso la Cina, mercato ancora secondario per la Germania ma che negli anni
scorsi era in forte ascesa, sono calate del 4,3%. Il traino delle esportazioni verso gli Usa è destinato
a ridursi di molto, se non a esaurirsi, vista la situazione della loro economia e in particolare della
loro industria, quello dei paesi Ue è fortemente a rischio e sicuramente non aumenterà, mentre il
calo del mercato cinese è destinato ad approfondirsi: si profilano tempi duri per le esportazioni e
quindi anche per l’economia della Germania. Le prime conferme di questa prospettiva sono già
arrivate: nel quarto trimestre la produzione industriale, colonna portante dell’economia tedesca, è
calata dello 0,8%, con una punta dell’1,2% in dicembre. A dicembre hanno segnato un netto calo
anche le esportazioni e le importazioni, entrambe in discesa dell’1,6%.
Il cosiddetto “modello tedesco” si basa su riforme avviate alla fine degli anni novanta e
approfondite all’inizio degli anni duemila. In pratica Berlino ha applicato un dumping sistematico in
termini di costo del lavoro, sfruttando allo stesso tempo l’arma di un euro più debole di quello che
sarebbe stato il marco in assenza della moneta unica, allo scopo di stimolare le proprie esportazioni.
Si tratta di un ennesimo esempio di politica del “frega il tuo vicino” che va a tutto vantaggio della
borghesia nazionale tedesca e di quelle del suo indotto (per es. Polonia, Repubblica Ceca e
Slovacchia), ma che non crea ricchezza a livello globale e si limita invece ad appropriarsi di una sua
fetta maggiore. In particolare, la Germania ha tenuto pressoché fermi i salari reali per quasi un
ventennio e ha fatto un ricorso massiccio al lavoro precario a basso costo. Il settore dei minijob,
lavori precari e part-time a basso e bassissimo reddito (nel settore commerciale il tetto è €450),
riguarda in tutto 7,5 milioni di lavoratori tedeschi – il raffronto in questo caso è da farsi con l’altra
potenza dell’Eurozona, la Francia, dove i lavoratori precari sono 500.000. E’ in questo modo, tra
l’altro, che la Germania è riuscita ad avere un tasso di disoccupazione molto basso rispetto al resto
d’Europa. Grazie all’enorme saldo positivo della bilancia commerciale generato da questa politica
del “frega il tuo vicino” basata sulle esportazioni, nonché grazie al costo zero del servizio del debito
reso possibile dalle politiche monetarie della Bce, il governo di Berlino è in grado di destinare molti
fondi a misure sociali che compensano i bassi salari e quelli da fame dei minijob. Nei fatti, in questo
modo, il governo tedesco si assume una larga fetta dei costi salariali delle imprese consentendo loro
di risultare competitive all’estero. Tutto ciò spiega come la Germania sia passata dall’avere una
quota del Pil attribuibile alle esportazioni pari a circa il 25% nel 1995 all’attuale quota stratosferica
del 47%, che tra i paesi industrializzati trova un analogo solo nella Corea del Sud (50%). Per un
raffronto, in Italia e in Francia tale quota è inferiore al 30%, in Cina è pari a circa il 22%, in
Giappone è del 15% e negli Usa del 13%. Anche nel caso della Germania, come in quello della
Cina, molti commentatori affermano che il paese negli ultimi due anni ha avviato una politica di
aumento dei salari che consentirà in ultimo di rilanciare l’economia nazionale e allo stesso tempo di
fare dei consumi tedeschi il traino della crescita Ue. In realtà le cose non stanno così. I salari
tedeschi reali (cioè corretti in base al tasso d’inflazione) hanno registrato un calo nel 2013, nel 2014
sono tornati positivi al +1,7% e nel 2015 sono cresciuti del 2,5%. Ma come al solito le statistiche
vanno lette e interpretate con attenzione. In termini nominali (cioè senza tenere conto del tasso di
inflazione) i salari tedeschi sono cresciuti l’anno scorso del 2,8%, un risultato che non si discosta
affatto dal moderato ritmo di crescita del quinquennio precedente: la media annua del periodo 2010-
2014 è stata infatti del 2,5% e nel 2011 era stata per esempio registrata una punta del +3,3%. Non
c’è stata alcuna impennata dei salari negli ultimi due anni, ma solo un crollo del tasso d’inflazione
fino a quasi zero, l’unico effettivo fattore di “spinta” dei dati relativi ai salari reali. Inoltre va tenuto
conto di altri due fattori – in primo luogo quello una tantum dell’approvazione l’anno scorso, dopo
un travagliato e lungo iter, di una legge sul salario minimo (e la crescita del 2015 è infatti dovuta in
massima parte ai salari di fascia inferiore) che non si ripeterà nel prossimo futuro, in secondo luogo
il fatto che il tasso di crescita dei salari sia reali che nominali è stato sì in rialzo fino alla prima metà
del 2015, ma nella seconda parte dell’anno ha avviato un trend in frenata. Alla luce di questi dettagli
non vi è alcun motivo per parlare di una svolta e la situazione dei salari tedeschi rimane nei fatti
immobile, con segni anzi di un rallentamento a partire dalla seconda parte del 2015. E anche se la
Germania avesse avviato una fase di effettivo netto aumento dei salari (cosa che come abbiamo
visto finora non è avvenuta), si tratterebbe come nel caso della Cina di uno sviluppo che
richiederebbe decenni, e non anni, prima di avere effetti sensibili, tanto più che il contesto generale
è tutto fuorché favorevole a un tale ipotetico trend. La nostra opinione è che anche la Germania,
sebbene probabilmente in modo meno drammatico della Cina e della Russia, sarà presto costretta a
fare i conti con l’inadeguatezza del proprio modello economico.

La Spagna da parte sua ha registrato nel 2015 una crescita del Pil del 3,5%, nettamente superiore a
quella degli altri paesi dell’area dell’euro. Si tratta di un risultato notevole, soprattutto rispetto a un
paese con problematiche non dissimili come l’Italia. La Spagna è però ancora impegnata a
recuperare una caduta nel baratro che nel 2008-2009 la aveva colpita in misura molto più forte della
maggior parte degli altri paesi Ue. Sul periodo 2008-2015 il suo Pil registra ancora una contrazione
del 4,1%. Il problema più drammatico per il paese iberico rimane quello della disoccupazione, che
nonostante le correzioni rimane al 21% (e di gran lunga più alta se si conteggiano coloro che hanno
rinunciato a cercare un’occupazione) mentre prima del 2008 era di circa il 7,5%: la crisi ha distrutto
3,7 milioni di posti di lavoro, la Spagna per ora ne ha recuperati meno di un terzo. Come scrive
Romaric Godin su “La Tribune”, “in parole povere, il ritmo di creazione è coerente con il ritmo di
distruzione. Da questo punto di vista non vi è alcun miracolo, ma solo un ritorno progressivo alla
normalità, largamente agevolato dalla moderazione salariale” – un ritorno alla normalità,
aggiungiamo noi, per ora solo abbozzato e alquanto incerto. Infatti, scavando nei dati, si riscontra
che nel solo 2015 la popolazione attiva è diminuita di 148.000 unità (quindi il calo della
disoccupazione è dovuto in larga parte all’aumento degli sfiduciati che rinunciano a cercare un
lavoro) e tra i nuovi posti di lavoro creati quelli precari sono pari al 64%. La Spagna rimane il
secondo paese dell’Ue dopo la Romania, e il primo dell’Eurozona davanti alla Grecia, per la quota
di nuclei familiari a rischio di povertà (22%). Nonostante la crescita del Pil, i salari medi sono fermi
e la situazione per la popolazione è sostenibile solo grazie alla deflazione, che però è proprio uno
dei problemi principali dell’economia Ue contro il quale la Bce di Mario Draghi cerca di
combattere. Se poi il commercio estero della Spagna dovesse frenare, come appare probabile a
giudicare dal contesto mondiale, le imprese comincerebbero a tagliare gli investimenti trascinando
con sé al ribasso l’intera economia. Un primo segno di un tale trend sono i conti in rosso della
produzione industriale, che a fine 2015 risultava in calo dello 0,2% anno su anno. Il paese quindi
rappresenta un’eccezione esclusivamente se ci si limita a un’analisi superficiale e affrettata del solo
dato del Pil.

Per il resto dell’Ue c’è poco da dire di nuovo in questo inizio 2016. Pressoché l’intera Unione
continua a essere in stagnazione, fatta eccezione per qualche paese dell’Europa orientale la cui
rilevanza economica è trascurabile. La deflazione è strisciante e la disoccupazione rimane elevata. Il
problema destabilizzante del debito sovrano è stato temporaneamente nascosto sotto il tappeto
grazie alle politiche monetarie della Bce, ma persiste e in molti casi si aggrava. Il grande bazooka
del quantitative easing di Draghi invece di una montagna ha generato un topolino, vale a dire solo
una stagnazione appena sopra lo zero al posto di una recessione che oggi appare comunque alle
porte. Il ventre molle dell’Ue, viste le sue dimensioni in termini economici, rimane l’Italia, con il
suo gigantesco debito statale, le sue banche malconce, l’enorme massa di crediti deteriorati, il
sistema industriale a pezzi e mai ripresosi dalla crisi.

La scorsa estate i burocrati di Bruxelles avevano serrato le fila ottenendo una vittoria nello
schiacciare senza pietà un piccolo paese come la Grecia. Ma si tratta di una vittoria che, fatte le
debite differenze, ricorda per qualche verso quella ottenuta nel 1968 contro la piccola
Cecoslovacchia dall’ipertrofica e burocratizzata Urss di Brezhnev, poi crollata miseramente da lì a
vent’anni. In realtà sono molti i fattori che indicano un’instabilità e una fragilità generale dell’Ue. Il
più recente è quello dell’ondata di profughi e della caotica reazione politica: che un’Unione di 500
milioni di abitanti si riveli incapace di gestire un flusso di profughi di 1 milione o poco più cadendo
in una profonda disarticolazione interna la dice lunga sulla sua inefficienza. A livello economico
permangono le forti divisioni tra i singoli stati e le rispettive diverse strategie di crescita. A livello
politico è un moltiplicarsi di fattori di destabilizzazione. La crescita generalizzata e fino a pochi
anni fa fa impensabile dei partiti e movimenti non tradizionali che sfuggono ai modelli di
bipartitismo stabile (dal Front National in Francia, fino ai più recenti Syriza, M5S, Podemos e
Ciudadanos, Alleanz fur Deutschland in parallelo a Pegida, e altri ancora) è segno di instabilità:
come ha dimostrato anche il caso di Syriza, riteniamo che allo stato attuale nessuno di essi ponga
problemi sistemici per l’ordine europeo, ma sono tutti segno di una frammentazione politica
difficile da gestire e che complica di molto il già difficile compito di garantire la stabilità. Inoltre,
sono il segno di una difficoltà dell’Ue a coinvolgere le masse nei propri progetti: tra gli altri
soggetti economici o politici di peso comparabile, né gli Usa, né la Cina, né il Giappone hanno
problemi analoghi e un paragone in questo caso è forse possibile solo con l’India. A questo vanno
ad aggiungersi fattori come quello delle aspirazioni all’indipendenza di Scozia e Catalonia, o il
processo della Brexit, che quasi certamente non porterà a un’uscita del Regno Unito dall’Ue, ma
sarà l’occasione per imporre agli altri stati alcune condizioni della borghesia britannica. A livello
culturale, alla crescita dell’estrema destra o della destra più biecamente reazionaria si affianca il
sempre maggiore diffondersi, anche in ambienti “liberal”, di idee identitariste a contenuto
strisciantemente fondamentalista come quelle sulla “superiorità dei valori europei”, segno più di un
tentativo di compensare il deficit di identità europea e di occultare i punti deboli del continente che
di forza, visto anche che prende di mira soggetti emarginati e non in grado di difendersi come i
profughi e gli immigrati. In questo caso il paragone possibile è con il revanscismo culturale
espresso da Shinzo Abe in Giappone, un paese che da venticinque anni ha fallito la sfida economica
che aveva lanciato al mondo ed è in perenne stagnazione. Certo, l’Ue sa spesso mostrarsi forte,
unita e organizzata, per esempio nell’attaccare i diritti dei lavoratori e nello spostare ricchezza dagli
stessi ai capitalisti. Ma rimane una formazione che a più di mezzo secolo dall’avvio del suo
processo costitutivo continua ad avere handicap enormi. Ogni decisione deve passare attraverso
lunghi e dolorosi processi di contrattazione tra paesi diversi. L’Ue inoltre non ha un esercito né una
politica militare ed estera comune degna di questo nome, non ha una vera banca centrale e un
sistema di regolamentazione unico per le banche, non è riuscita nemmeno a imporre una moneta
unica a tutti i suoi membri, ha frontiere interne che incidono profondamente in termini di cultura,
identità nazionale e lingua, ha borghesie nazionali ben distinte che hanno stretto sì una forte
alleanza, ma hanno chiaramente problematiche e prospettive diverse e che tengono nel cassetto, per
i casi di crisi drammatica, lo strumento della rottura di questa alleanza a favore della via nazionale o
dei miniblocchi regionali. Ancora una volta va osservato che nessuno dei concorrenti dell’Ue come
gli Usa, la Cina e il Giappone ha anche solo lontanamente problemi di questo genere. Insomma, la
convinzione di chi scrive è che l’Ue continua ad avere handicap che mettono un’ipoteca sulla sua
sopravvivenza.

La resa dei conti è inevitabile

Dopo la grande crisi del 2008 non solo l’enorme massa di debito improduttivo che circola a livello
mondiale non è stata ridotta, ma è addirittura andata lievitando a causa delle politiche monetarie
espansioniste. Il debito non ha fatto che spostarsi dalle banche agli stati, dai paesi sviluppati a quelli
emergenti, dal sistema finanziario ufficiale allo shadow banking e così via, gonfiandosi sempre di
più. Continua a pesare come un macigno su un’economia dalla crescita asfittica segnata ovunque da
un basso livello di produttività e di profitti, che non è oggettivamente in grado di generare una
crescita in grado di assorbire tale massa di debito. I governi mondiali hanno indubbiamente
acquisito in questi anni un notevole know-how in termini di individuazione di soluzioni tecniche
per tappare in qualche modo le falle che si aprono a intervalli regolari nel sistema economico
mondiale. Ma si tratta di tattiche di breve respiro il cui unico effetto è quello di rimandare la resa
dei conti, aumentando nel contempo il prezzo che dovrà essere pagato. Il crollo dei prezzi del
petrolio e le svalutazioni delle monete nazionali sono segni tra le altre cose del fatto che si sta
inasprendo il ricorso irrazionale a politiche di “frega il tuo vicino” nel tentativo disperato, e inutile,
di salvare il salvabile a livello nazionale.

Questo inizio 2016 ha portato alla luce l’enorme garbuglio di bombe a orologeria reciprocamente
collegate che abbiamo descritto qui sopra. Di fronte a questa situazione, la reazione dei governi e
delle banche centrali, così come quella psicologica dei mercati finanziari, non è cambiata di una
virgola. In Europa il crollo delle borse ha subito una (provvisoria) battuta d’arresto quando Mario
Draghi ha lasciato intendere che a marzo il programma di quantitative easing verrà ulteriormente
ampliato, nonostante la sua dimostrata inefficacia nel risolvere i problemi reali. Analoga euforia ha
destato la decisione della banca centrale giapponese di introdurre tassi negativi sul denaro che le
banche depositano presso di essa, nonostante la Bce abbia adottato da tempo la stessa misura con un
effetto pari a zero. La Cina continua a tamponare ogni proprio problema (dal crollo delle borse, alla
svalutazione dello yuan, alla recessione industriale) riversando nella sua economia masse enormi di
liquidità, con effetti però pressoché nulli. La Federal Reserve americana, dopo averlo rimandato per
lungo tempo minacciando la propria credibilità, aveva avviato a dicembre un programma di
ridottissimo aumento dei tassi ma, passato il primo momento di euforia dei mercati per l’entità
minima e i ritmi lenti promessi dalla banca centrale statunitense, gli effetti destabilizzanti di questo
timido tentativo di uscire progressivamente dal quantitative easing si sono fatti sentire in pieno a
gennaio. E’ pressoché sicuro che il programma si fermerà e non è nemmeno da escludersi un ritorno
della Fed a un pieno regime di quantitative easing. L’euforia dei mercati per ogni nuovo
allentamento monetario è in realtà un segno del panico per quello che succederebbe nel caso di un
suo esaurirsi. Ma la resa dei conti è inevitabile e il sistema capitalista mondiale dovrà prima o poi
passare attraverso una dolorosissima distruzione di debito e ricchezza che causerà sconvolgimenti
anche in campo politico e sociale.

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