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Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi che avevano gettato la popolazione in un

angoscioso stato di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il


presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, che non aveva conseguito alcun
successo nella lotta contro la crisi, fu nettamente sconfitto dal democratico Franklin
Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Già nella campagna elettorale
Roosevelt seppe far valere le sue notevoli doti di comunicatore, instaurando con i
cittadini un rapporto diretto, convinto com’era che la condizione preliminare di
un’azione politica efficace stesse nella capacità di infondere speranza e coraggio nella
popolazione. Diventato presidente, avrebbe aperto un nuovo canale di comunicazione
con i cittadini: le Conversazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica in cui
illustrava le sue scelte con tono familiare e suadente.
Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura, il 2 luglio 1932, Roosevelt
annunciò di voler inaugurare un New Deal nella politica degli Stati Uniti: un nuovo
corso che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un più energico intervento dello
Stato nei processi economici. Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi
della presidenza Roosevelt con una serie di provvedimenti che dovevano servire da
terapia d’urto per arrestare il corso della crisi: si cercò in primo luogo di ristrutturare e
risanare, con ingenti aiuti pubblici, il sistema creditizio, sconvolto da cinquemila
fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di milioni di americani; furono
facilitati i prestiti per consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle
case; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere
più competitive le esportazioni.
A queste misure di emergenza, il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici e
qualificanti, caratterizzati dall’uso di nuovi e originali strumenti d’intervento. L
'Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel
settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni
e allevamenti. Il National Industrial Recovery Act (Nira) imponeva alle imprese operanti
nei vari settori dei “codici di comportamento” volti a evitare, mediante accordi sulla
produzione e sui prezzi, le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche
a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. Particolare rilievo ebbe, infine, l’istituzione della
Tennessee Valley Authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse
idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a
vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato in opere di sistemazione del
territorio.
Se l’esperienza della Tva rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia sul piano
economico sia su quello propagandistico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e
contraddittori. Il calo della produzione agricola previsto dall’Aaa causò l’espulsione dalle
campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del ’34 gli investimenti erano ancora
stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni. Per porre rimedio a questa
situazione, il governo federale allargò al di là di ogni consuetudine il flusso della spesa
pubblica, nella convinzione che ciò avrebbe favorito l’aumento della produzione e del
reddito. Parallelamente, si intensificò l’impegno nel campo delle riforme sociali. Nel
1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale e una nuova
disciplina dei rapporti di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell’azione
sindacale.
Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò l’appoggio del
movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione
grazie anche a un’ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana.
D’altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio
al formarsi di un’ampia coalizione avversa al presidente. Tra il 1935 e il 1936 la Corte
suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere giudiziario, cercò di bloccare le
riforme di Roosevelt dichiarando l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa. Forte dello
schiacciante successo ottenuto nelle elezioni presidenziali del ’36, Roosevelt reagì
ripresentando con lievi modifiche le leggi bocciate.
In conclusione, l’azione di Roosevelt, se da un lato smentì un principio cardine del
liberismo dall’altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo che si era
proposto: quello cioè di ridare slancio all’iniziativa economica dei privati. Per tutti gli
anni ’30 l’economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico.
Sarebbe giunta a una vera ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante la
seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica.
Prima dello scoppio della grande crisi, l’intervento dei poteri pubblici in economia era
stato largamente attuato, soprattutto in Europa, per favorire l’industrializzazione, per
moderare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare la
produzione in tempo di guerra. Ma la cultura dominante fra gli economisti e gli statisti
dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una
conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva
rendere più scorrevole il funzionamento del mercato. La crisi del 1929 fece però sorgere
un complesso di problemi la cui soluzione non poteva essere affidata all’iniziativa dei
soggetti privati. E la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi
per forza propria precipitò. Molti, in quegli anni, subirono il fascino delle alternative di
sistema che si andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell’Urss di
Stalin agli esperimenti corporativi proposti, ma mai realmente attuati, dal fascismo
italiano e dai regimi autoritari di destra.
Il primo e più importante tentativo di sistemazione teorica delle trasformazioni in corso
giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell’economista inglese John Maynard
Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un
capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Il crollo del ’29 e la successiva crisi
fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della
teoria economica classica, in particolare quella secondo cui il mercato tenderebbe
spontaneamente a produrre l’equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena
occupazione. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del capitalismo non
fossero in grado di garantire da soli un’utilizzazione ottimale delle risorse. Ciò lo indusse
a criticare radicalmente le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d’acquisto
dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la restrizione del credito,
aggravavano, nelle situazioni di crisi, le difficoltà dell’economia. Era dunque compito
dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento della spesa pubblica, anche
a costo di allargare, per periodi determinati, il deficit del bilancio statale e di accrescere
la quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste misure
sarebbero stati compensati dai benefici arrecati ai redditi e alla produzione.
Le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano
molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando negli Stati Uniti del New Deal.
Politiche analoghe, basate essenzialmente sull’espansione della spesa pubblica,
sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda
guerra mondiale.

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