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Gli Stati Uniti e la Grande Crisi del '29

Il ruggenti anni Venti negli Stati Uniti


Proprio al termine della Prima guerra mondiale, mentre l'Europa viveva anni di gravi incertezze politiche,
gli Stati Uniti si affermarono come la maggiore potenza economica del mondo, disponendo di grandi
risorse minerarie ed energetiche, di un'altissima produzione industriale, di una piena autonomia alimentare
e favoriti dall'egemonia esercitata sull'America centrale e meridionale.
Dal 1921 al 1928 (i cosiddetti anni ruggenti), in America fu raggiunto un benessere fino ad allora mai
goduto. Le abitudini della popolazione si trasformarono velocemente e la vita delle città si popolò di nuovi
simboli, quali il jazz, il charleston, il cinema di Hollywood, l'automobile e i grattacieli (come l'Empire state
building, il più alto del mondo, terminato nel 1931).
A questi elementi si aggiunse un'intensa espansione commerciale sostenuta da sistemi di vendita che
agevolavano la cosiddetta civiltà dei consumi, riversando sul mercato un'enorme quantità di merci e
stimolando gli acquisti attraversl l'uso massiccio della pubblicità e del pagamento rateale. Sul piano
finanziario il prodotto nazionale lordo crebbe del 2% l'anno, l'inflazione non raggiunse mai l'1% e la
disoccupazione non superò il 3,5% della forza lavoro. In tal modo crebbero fortemente i redditi delle
famiglie, che permisero l'acquisto di molteplici beni di consumo (come lavatrici, frigoriferi, radio,
automobili), migliorando notevolmente la qualità della vita.
Gli USA erano dunque lo stato capitalista più forte del mondo. La concentrazione industriale e
finanziaria era elevatissima, dato che un ristretto numero di banche controllava la maggior parte del
credito e le grandi imprese (corporations) estesero in modo smisurato il proprio impero economico,
controllando la maggior parte della produzione americana, dal reperimento delle materie prime, alla
fabbricazione, alla vendita delle merci nei grandi magazzini. Nel settore dell'acciaio emergeva la Steel
corporation, nella chimica la Dupont, nella gomma la Goodyear e la Firestone, nel petrolio la Standard Oil
(Esso) e la Gulf, nella meccanica la General Motor e la Ford.
Inoltre, grazie alla catena di montaggio, utilizzata per la prima volta nel 1913 nelle fabbriche
automobilistiche di Detroit dell'americano Henry Ford, che riduceva notevolmente i tempi necessari per
produrre una singola autovettura (da 12 ore a un'ora soltanto), vi fu un importante abbassamento dei costi
di produzione. Prendendo come esempio la Ford Model T, la prima utilitaria prodotta su larga scala, se nel
1908 costava ancora mille dollari, nel 1924 poteva essere acquistata a soli trecento dollari (a causa di ciò la
cifra degli esemplari venduti era, alla fine del 1926, di 15 milioni). Negli Stati Uniti circolava un'auto ogni
5 abitanti, contro una ogni 43 in Inghilterra e una ogni 325 in Italia. Un oggetto di lusso come l'automobile
era ormai diventato accessibile ad un numero enorme di individui, un prodotto destinato al consumo di
massa.

Xenofobia e Protezionismo
Gli anni Venti furono quindi un periodo di profondo rinnovamento culturale ed economico, tuttavia una
più attenta analisi obbliga a sfumare notevolmente dall'immagine convenzionale degli anni ruggenti, che
furono caratterizzati anche da un periodo di intolleranza, xenofobia e ostilità verso qualunque forma di
diversità. Il Ku Klux Klan (rilanciato nel 1915), infatti, possedeva circa 4 milioni di affiliati, i quali, oltre i
neri, disprezzavano anche i socialisti, i cattolici e gli ebrei. Tra gli episodi più scandalosi di questo clima,
ricordiamo la condanna a morte dei due anarchici italiani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati di
aver ucciso due persone durante una rapina. Nonostante le prove che li scagionavano, furono ugualmente
condannati alla sedia elettrica, il 23 agosto 1927, nel penitenziario del Massachussetts. Nel 1977 l'America
li riabilitò.
In questo ambito di sentimenti di intolleranza nei confronti dello straniero, né risentì anche la legge (il
Volstead Act del 1920) che aprì negli USA la stagione del proibizionismo, ossia il divieto di vendere
alcolici con una percentuale di alcool superiore allo 0,5%. Questo provvedimento si rivelò assolutamente
controproducente, infatti l’alcolismo non fu affatto sconfitto, mentre aumentò la criminalità organizzata,
che gestì il contrabbando e la produzione clandestina di alcolici. Tra i gangster più celebri ricordiamo
l’immigrato italiano Al Capone.

Situazione nel settore agricolo e la grande depressione


La situazione dell'economia americana negli anni Venti era decisamente più critica nel settore
dell'agricoltura. Durante la Prima guerra mondiale essa aveva registrato un vertiginoso incremento, in
quanto numerosi agricoltori europei si trovavano al fronte, ma, dopo il 1920, l'agricoltura europea aveva
ripreso a funzionare correttamente, con la conseguenza che i prezzi dei prodotti agricoli statunitensi
subirono un forte ribasso. Molti agricoltori, che durante il periodo di prosperità avevano contratto pesanti
debiti col fine di potenziare le proprie attrezzature e la propria capacità produttiva, caddero in rovina, di
cui, circa un milione, non potendo pagare le ipoteche, perse la propria terra (confiscata dalle banche). Col
passare del tempo, la crisi agricola innescò quel processo di contrazione dei consumi che sta alla base della
cosiddetta grande depressione.
Tuttavia tale depressione si verificò non soltanto nelle campagne, che comunque vennero assalite da una
schiera di vagabondi miserabili e disperati, ma anche nelle periferie delle metropoli, dove disoccupati ed
emarginati si ammassavano in baraccopoli improvvisate (denominate hoovervilles, in segno di disprezzo
verso il presidente degli USA).

Il crollo di Wall Street


Il sogno americano di una prosperità senza fine (negli slogan propagandistici del tempo si diceva “una
gallina in ogni pentola” o “due auto in ogni garage”) andò improvvisamente in frantumi. Infatti,
nell'ottobre del 1929, quando la borsa di New York (che aveva sede in Wall Street), dopo un periodo di
forsennata speculazione finanziaria, nel giro di pochi giorni vide precipitare le quotazioni di alcuni titoli (in
quanto le aziende non possedevano più un livello di prosperità che corrispondeva all'elevata quotazione in
Borsa delle loro azioni), gli azionisti, presi dal panico, cominciarono a vendere milioni di azioni per
recuperare parte dei soldi investiti o nella speranza di riacquistarle a prezzi inferiori, provocando un
vertiginoso abbassamento delle quotazioni. Così, il 24 ottobre del 1929 (passato alla storia come “il
giovedì nero”), Wall Street crollò. In quella sola giornata vennero vendute azioni per un valore di 13
milioni di dollari. La valanga proseguì, con il risultato che il 29 ottobre furono liquidate azioni per altri 29
milioni di dollari e nel giro di un mese il valore dei titoli si abbassò per il 40%.
In America, come in Europa, le banche erano divenute il cuore del capitalismo, ma anche il suo punto più
debole. In esse si era riversata l'eccedente ricchezza della borghesia che, attraverso la compravendita in
borsa dei titoli azionari, si accaparrava in maniera parassitaria alti guadagni. Al crollo della borsa di Wall
Street seguì pertanto la chiusura di migliaia di banche (prese d'assalto dai risparmiatori per ritirare il
proprio denaro), inoltre anche le aziende (alle quali gli istituti bancari dovettero negare i prestiti necessari
per assolvere ai loro obblighi commerciali o per gli investimenti) furono trascinate nella catastrofe.
Il crollo borsistico del 1929, sebbene rappresenti l'inizio ufficiale della grande depressione, non ne fu
assolutamente la causa. Esso fu soltanto un ulteriore sintomo della situazione che si era venuta a creare,
cioè quella di un regime economico basato sull'aumento costante della produzione (cioè dell'offerta) che
si scontrava con la stasi della domanda, ossia con l'incapacità del mercato di assorbire la mole sempre
crescente di prodotti sfornati dalle fabbriche.

Dimensioni e significato storico della crisi


Scoppiata nel settore finanziario, la crisi del 1929 si manifestò in poco tempo anche in tutti gli altri
comparti, fino a travolgere l'intera economia, inizialmente degli Stati Uniti, poi di tutti i paesi
industrializzati. Nei tre anni successivi gli Stati Uniti piombarono nella più profonda crisi economico-
sociale della loro storia e il numero dei disoccupati (su una forza lavoro di 48 milioni) passò dai circa 2
milioni dell'inizio del 1929, ai circa 17 milioni del 1933 (quasi il 30% dei lavoratori). Inoltre, 5000 banche
dovettero cessare le proprie attività, mentre, tra il 1929 e il 1932, i fallimenti commerciali e industriali
procedettero al ritmo dell'11% l'anno.
Le più colpite dalla crisi economica furono naturalmente le fasce deboli della società americana (la piccola
borghesia e il proletariato industriale), mentre i super-milionari e le grandi corporations non soltanto ne
uscirono indenni, ma continuarono ad incrementare il loro potere assorbendo le industrie fallite e le terre
abbandonate da migliaia di famiglie contadine.
Nel 1931 gli effetti della crisi raggiunsero l'Inghilterra, che dovette modificare radicalmente la propria
politica economica, abolendo la parità aurea (con la conseguente svalutazione della sterlina, che passò da
un valore di 4,86 a 3,80 dollari) e introducendo, per la prima volta dal 1846, pesanti dazi protezionistici,
in modo da difendere il proprio mercato interno. Per la Gran Bretagna si trattava di una vera e propria
rivoluzione economica che aboliva il principio del liberismo, basato sul presupposto secondo cui lo stato si
dovesse astenere da ogni intervento nel campo dell'economica. In Inghilterra dunque non erano più la
domanda e l'offerta a regolare il mercato, ma lo stato. Cadeva anche l'ipotesi che l'economia poggiasse
sulla convertibilità in oro delle monete e sul pareggio nel bilancio degli stati, che di quelle monete
convertibili erano i garanti. Tutto ciò venne definito da Karl Polanyi “la grande trasformazione” degli anni
Trenta, trasformazione caratterizzata da esperienze radicalmente innovative come il New Deal roosveltiano
e il nazionalsocialismo tedesco.

Roosevelt e il New deal (1933)


Il repubblicano Herbert Hoover, presidente degli USA nel 1929, profondamente legato alla dottrina del
liberismo economico, non seppe trovare alcun rimedio alla crisi. Anzi, fiducioso nella capacità dello stato
di autoregolarsi e convinto che ogni intervento statale corrispondesse ad un opprimente socialismo, nemico
della libertà individuale, Hoover non si curò affatto di andare incontro alle necessità dei disoccupati.
Nel 1932, rispetto al 1929, il prodotto nazionale lordo era di un terzo più basso, l'indice dei prezzi era circa
la metà, gli investimenti privati lordi erano caduti del 90% e i disoccupati erano quasi 13 milioni.
Ben presto, a causa dell'operato di Hoover, la classe politica avvertì il pericolo della ripresa delle agitazioni
popolari, mentre vasti settori del capitalismo americano si resero conto che la smisurata potenza di pochi
colossi stava provocando squilibri incontrollabili nell'economia. Occorreva dunque prendere in seria
considerazione le teorie dell'economista inglese John Maynard Keynes (autore, nel 1936, della “Teoria
generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”), secondo il quale ai governi spettava il compito
di intervenire apertamente nei momenti di crisi per coordinare la produzione capitalistica, garantendo i
profitti degli imprenditori e nello stesso tempo aumentando i salari dei ceti più poveri.
L’uomo politico americano che sembrò interpretare questa esigenza riformatrice fu Franklin Delano
Roosevelt, del Partito democratico. Egli riscuoteva la simpatia di un ampio schieramento popolare,
ottenuta con i suoi accesi interventi contro la minoranza di imprese finanziarie che, come egli disse, aveva
fallito “per caparbietà e inettitudine”, speculando sui mercati di borsa e portando il paese nel caos. Eletto
presidente nel novembre 1932, Roosevelt aveva capito che per fronteggiare una crisi di questa portata
bisognava violare i dogmi dell'economia liberista, inoltre, avvalendosi della collaborazione di tecnici e di
professori universitari, una “concentrazione di cervelli” (brain trust), mise a punto un nuovo corso di
politica economica, il New Deal (Nuovo Corso).
Nel 1933 anche l'amministrazione Roosevelt abbandonò la parità aurea, ovvero la convertibilità del dollaro
in oro.Mentre il presupposto fondamentale per la conservazione della base aurea era il pareggio del
bilancio statale, l'amministrazione roosveltiana scelse di andare in contro ad un deficit nei conti dello stato,
pur di trovare le risorse necessarie a far ripartire il meccanismo inceppato dell'economia nazionale.
In altri termini, è possibile affermare che l'idea centrale del New Deal (alquanto simile alle successive
teorie di Keynes), consisteva nel far intervenire lo stato nella vita economica, rigettando i presupposti
liberisti della capacità di autoregolazione da parte del mercato.
Dette poi l'avvio a grandi opere pubbliche finanziate dallo stato (strade, ponti, canali, centrali elettriche e,
soprattutto, grandi dighe, che permisero lo sfruttamento idroelettrico del fiume Tennessee), per assorbire
la disoccupazione e per non gettare nelle braccia del comunismo le migliaia di persone disperate, varando
infine un ampio piano di riforme, con l'appoggio dell'ALF (American federation of labor), una potente
organizzazione sindacale a cui fu affidato un'importante ruolo nella soluzione dei problemi del lavoro
attraverso la contrattazione collettiva. Sempre per combattere la disoccupazione 500.000 giovani furono
assunti per lavori di rimboschimento e controllo delle acque. Vennero introdotti sussidi per la
disoccupazione, forme di assicurazione per la vecchiaia, garantiti salari minimi per i lavoratori e forme di
tutela della contrattazione sindacale.
Verso l'inizio del 1934, lo stato era riuscito a trovare un impiego a più di 4 milioni di disoccupati e, verso
gli anni successivi, furono creati, mediamente, 2 milioni di posti di lavoro all'anno. Quanto all'agricoltura,
venne sostenuta con una serie di provvedimenti, tra i quali spiccano i sussidi offerti ai contadini disposti a
ridurre la propria produzione in modo da risollevare i prezzi dei prodotti agricoli. Invece, considerando gli
interventi finanziari, ricordiamo che la Federal Bank Reserve (una sorta di Banca centrale) accentrò il
controllo delle banche (dato che erano stati il disordine creditizio e l'estrema frammentazione del sistema
bancario una delle cause della crisi del 1929), venne introdotta una riforma fiscale (col fine di distribuire
le ricchezze in modo più equo), furono garantite assicurazioni sui depositi azionari e forme di controllo
sul mercato azionario.
In tal modo, un numero sempre crescente di individui avrebbe avuto nuovamente a propria disposizione
delle risorse e del denaro da spendere, rialimentando il mercato. L'entità dello sforzo di Roosevelt e le
novità del suo operato si riassumono nei dati delle spese del governo nazionale: tra il 1930 e il 1936, il
debito nazionale passò da 16 a 36 miliardi di dollari; nel 1937 la produzione industriale era tornata ai livelli
del 1929. Malgrado ciò, nel 1939 il paese contava ancora 9,5 milioni di disoccupati, pertanto solo lo
scoppio della seconda guerra mondiale riuscirà a porre fine alla grande depressione.
Inizialmente le simpatie del governo per il sindacato non furono condivise dai monopoli dell'industria
americana, abituati ad avere nelle fabbriche una piena libertà d'azione. Tuttavia Roosevelt non cessò mai di
tranquillizzarli, riaffermando la sua fede “nel sistema dell'iniziativa privata, della proprietà e del profitto
privato”. E in effetti i principali interventi statali servirono a fornire crediti alle industrie e ai consumatori,
rimettendo così in moto il meccanismo produttivo, da cui trassero vantaggio i grandi trusts. Nonostante
avesse “riportato a galla il capitalismo”, Roosevelt aveva definitivamente conquistato l'appoggio delle
masse americane.

Cause e conseguenze della crisi del 1929


1) La crisi del 1929 era una crisi di sovrapproduzione, in quanto l'aumento costante della produzione si
scontrava con l'incapacità del mercato di assorbire una mole sempre crescente di prodotti, dato che una
parte troppo alta del reddito nazionale andava ad una ristretta cerchia di persone (nel 1929 le 500 persone
più ricche avevano un reddito pari a quello di tutti i 615.000 operai dell'industria automobilistica).
2) I prodotti statunitensi trovavano minori sbocchi all'estero, dato che le economie dei paesi europei, che
durante la Grande Guerra erano fortemente dipendenti dagli USA, avevano ricominciato a produrre.
Inoltre, in Europa, sulla scia del modello americano, erano stati introdotti pesanti dazi protezionistici.
3) Negli anni Venti l'enorme facilitazione creditizia e la diffusione del pagamento rateale aveva fatto
crescere l'indebitamento nei confronti delle banche. Così, una volta crollato Wall Street, queste ultime
chiusero i “rubinetti del credito” e i debitori si trovarono in una situazione disperata.
4) La prospettiva di rapidi guadagni aveva alimentato la speculazione, facendo crescere i prezzi dei titoli
azionari e degli immobili.
5) La crisi americana ebbe inoltre una ricaduta in vari paesi europei, soprattutto in Germania, la quale dopo
esser stata sottoposta ad una forte inflazione nel 1923 (conseguente alla sconfitta nella Grande Guerra), si
era ripresa soltanto grazie al massiccio intervento di capitali statunitensi. Però, proprio per questo motivo,
al crollo di Wall Street, la Germania fu il paese più colpito, dato che i capitali americani vennero ritirati.

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