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Lezione 12 – 13/04

Prova intercorso
FORSE domande a risposta multipla (numero non lo sa ancora). Tempo molto limitato. Si farà quando finirà
la parte sulla seconda globalizzazione.
Noi affronteremo già il tema delle crisi a partire dalla settimana prossima.

Avevamo cominciato già a parlare la volta scorsa di deglobalizzazione, individuando le cause della inversione
del ciclo che aveva caratterizzato invece in maniera espansiva dalla fine dell’Ottocento fino alla Prima guerra
mondiale, avevamo detto che per capire questi maledetti anni ’20, dove si generano tutte le condizioni che
poi sfoceranno nella crisi del ’29, avremmo dovuto affrontare il discorso da un doppio angolo di visuale: i
problemi economici della guerra che abbiamo cominciato a vedere in maniera più puntuale e poi avevamo
cominciato a tratteggiare invece quelli che sembrano essere il portato più duraturo, il legato ereditario più
pesante dell’avvio della crisi del ’29, cioè tutti i temi economici legati al modo in cui si era usciti dalla guerra,
al modo in cui si erano affrontati i problemi drammatici posti dal primo conflitto mondiale.
Elenchiamo brevemente quali erano i problemi ereditati direttamente dal conflitto.
Una distruzione in termini materiali (non parliamo in termini di vite umane) di oltre 380 miliardi di danni
materiali nei paesi direttamente coinvolti nel conflitto e oltre 40 milioni di morti dirette e indirette generate
dal conflitto.
Quello che ci interessa di più sul piano delle relazioni economiche di fatto la guerra aveva comportato
un’interruzione e una completa disorganizzazione delle relazioni economiche internazionali così come si
erano costruite nel corso della prima globalizzazione. Perché si erano costruite politiche economiche in
funzione della guerra fondamentalmente di tipo protezionista, di controllo molto forte dei flussi di capitale.
Tutto ciò che invece si era liberalizzato nel corso della prima globalizzazione diviene progressivamente
asservito al controllo politico.
C’è un vero e proprio sconvolgimento del commercio estero. Citavamo l’altra volta il blocco dei porti
tedeschi e la guerra dei sottomarini come esemplificazione di questo sconvolgimento del commercio estero.
L’Europa perde il ruolo di centralità e dunque si determinano non solo un blocco delle relazioni
extraeuropee (cioè con gli altri continenti) ma avviene, a seguito delle alleanze di come si determinano i
rapporti militari, anche un blocco delle relazioni intraeuropei (all’interno stesso dell’Europa).
Il dato su cui ci soffermavamo in maniera particolare era invece lo sconvolgimento che si era determinato
soprattutto sul mercato dei prodotti agricoli.
Determinato questo sconvolgimento dell’agricoltura mondiale, da un processo di sovrapproduzione che la
guerra aveva generato direttamente scaricando su pochi paesi in possesso di un’ampia risorsa terra, la
domanda complessiva di tutti i paesi praticamente coinvolti nel conflitto.
Con la fine della guerra la ripresa delle attività produttive in campo agrario, anche in Europa, ovviamente i
paesi che prima erano i fornitori dei prodotti agricoli si trovano ad accumulare una quantità di scorte che
rimangono fondamentalmente invendute.
Per tentare di smaltire queste scorte si ricorre a processi di svalutazione continua per essere più competitivi
sul mercato con il doppio effetto non solo di mantenere in un clima di sovrapproduzione il mercato agricolo
internazionale, ma anche di generare per questa strada un’instabilità finanziaria senza fine.
Gli altri due aspetti che erano generati direttamente dal conflitto erano l’alterazione dei circuiti di
investimento finanziario (quello che avevamo detto in relazione ai flussi di capitale). Cambiano i ruoli. Si
invertono le traiettorie dei flussi finanziari internazionali. L’Europa prima prestava agli altri paesi,
assegnatamente agli Stati Uniti; con la guerra si inverte questa funzione: sono gli Stati Uniti che diventano
creditori netti di tutti gli altri paesi coinvolti nel conflitto.
E siccome pervenire questa funzione di creditore netto a livello internazionale, come indicava l’Inghilterra,
comporta oneri e onori. Non assolverà gli onori determinati dal fatto che appunto si era gli unici ad aver
prestato a tutto il mondo, comporta anche a una progressiva rigidità: cioè se il paese che detiene tutti degli
altri paesi (ben 11 paesi sono creditori degli Stati Uniti) decidono che la loro massima priorità è rientrare nei
crediti, questo significa che il mercato internazionale improvvisamente si inlambidisce, viene prosciugato
dalla necessaria liquidità utile a far marciare il sistema degli scambi internazionali e piena i paesi ad una
ricerca disperata e disperante di come pagare i debiti contratti con gli Stati Uniti.
Ultimo, ma non per importanza: le spese belliche sono alte, continue, non c’è sistema dal gold standard che
tenga. Ogni paese deve finanziare queste spese con una emissione fuori controllo della propria moneta. Se
aumenta la quantità di moneta, aumenta il disvalore della moneta stessa (cioè la moneta si svaluta). Tutto
questo genera un processo di carattere inflattivo che colpisce ambi settori della vita sociale, in modo
particolare i percettori di reddito fisso che ovviamente non vedono rivalutarsi il proprio reddito in funzione
della svalutazione della moneta.
La guerra non ci fa mancare niente da questo punto di vista. Mette in valigia una quantità sterminata di
problemi che si sarebbero dovuti risolvere con la fine del conflitto.
Ma quello che anticipavamo l’altra volta è che l’insipienza politica con cui si affronta il problema della
ricostruzione non solo economica ma anche politica, geopolitica, del sistema mondiale dopo il primo
conflitto, produce più danni degli stessi danni prodotti direttamente dalla guerra.
Soffermiamoci oggi in modo particolare su questi.
Un vero pozzo di San Patrizio di tutti i problemi che avranno il punto finale, esplosivo, determinato dalla crisi
del 1929; definendo per crisi del ’29 non solo la crisi della borsa americana, ma la crisi di sovrapproduzione,
crisi finanziaria, la crisi bancaria e la crisi sociale.
Anche in questo caso ovviamente, correlata alla vastità dei problemi, la crisi si prospetta come l’elemento
più drammatico ai contemporanei, assolutamente impreparati a vivere e gestire una fase congiunturale così
profondamente negativa come quella che si avvia dalla crisi del 1929 della borsa americana.
Io raggrupperei le conseguenze negative economiche della pace stavolta (non della guerra) in due
macroaree.
La prima legata a una disordinata composizione del nazionalismo economico, il nazionalismo come vettore
di guerre tra vicini, perché la guerra, avendo determinato vinti e vincitori e tra i vinti c’era ovviamente
l’impero guglielmino tedesco ma c’era soprattutto l’impero austroungarico, tenta di risolvere in maniera
punitiva questa sconfitta di questi due attori smembrando di fatto l’impero austroungarico, dando fiato a
una serie di nazionalismi, etnie che fino a quel momento erano sopravvissuti all’interno di un sistema di tipo
imperiale, quale quello austroungarico. Far affiorare questi nazionalismi significa creare nel cuore
dell’Europa una fonte permanente di conflitti etnici, guerra guerreggiata sul piano economico. Laddove c’è
l’impero che aveva creato le condizioni per un grande mercato di scambio nel cuore dell’Europa, adesso in
realtà c’è una frammentazione insostenibile, insopportabile di cui a farne le spese sono soprattutto i paesi
costituiti al tavolo delle trattative di Parigi di Versailles.
Dunque, uno smembramento dell’impero austroungarico che significa di fatto l’abolizione di un sistema di
libero scambio che aveva facilitato fino a quel momento le relazioni economiche soprattutto all’interno del
Europa. E costituisce la fonte permanente di politiche neo-mercantiliste basate su un protezionismo
spietato, sul danneggiamento permanente del vicino, che ovviamente ha riflessi e ricadute del tutto
negative sull’ipotesi di sviluppo delle economie dei nuovi stati formati in seguito ai trattati di pace.
Laddove c’è fino al via del primo conflitto mondiale si generava benessere in virtù di questa intensificazione
degli scambi, adesso c’è una vera e propria desertificazione commerciale.
Questo è il primo processo.
Quindi un mercato che si deflagra improvvisamente, un grande mercato che non si ritrova più. Per cui anche
tutti gli sforzi di ricostruire le economie postbelliche cozzano sul fatto che c’è una domanda che langue
perché non c’è un mercato che è in grado di produrre.
Connesso a questi disordini etnici (o etnoeconomici potremmo dire), c’è un montante ancora più pericoloso
di disordini di carattere monetario e finanziario che è il grande tema che attraversa tutti gli anni ‘20.
Questo disordine monetario e finanziario può essere riferito fondamentalmente a tre elementi fra loro
fortemente connessi.
Il primo elemento è dato praticamente dalla insensata spirale – accennavamo la volta scorsa – tra debiti di
guerra (contratti dai paesi belligeranti e in questo caso senza distinzione alcuna, tanto i paesi sconfitti
quanto i paesi vincitori) e come riparare i danni di guerra. Problema che diventa emergente e pressante
perché gli Stati Uniti stoltamente pretendono di rientrare rapidamente nel grande montante di prestiti che
avevano fatto durante gli anni del conflitto. Primo elemento.
L’elemento più vistoso di questi disordini è dato da quella che viene definita libera inflazione tedesca.
Vedete, quando parliamo di libera inflazione, come ci insegna anche più recentemente la storia dei paesi
dell’America Latina, noi parliamo di inflazione che nel migliore dei casi era a due cifre, nel peggiore
addirittura tre. Dire che una moneta è svalutata del 300%, significa semplicemente dire che quella moneta
non ha valore. È la grande dannazione. Una inflazione fuori controllo, come ci insegnano anche gli ultimi
provvedimenti della Banca Europea che hanno aumentato i tassi al 4% con un salasso per le povere famiglie
che hanno contratto … 18:48, ma è lo strumento per combattere lo scivolamento in termini di svalutazione
monetaria delle monete nazionali. Aumentare il costo del denaro. Ma qui stiamo dentro un processo che
nemmeno questa leva dell’aumento del costo del denaro (il caso della Germania) può raggiungere risultati
soddisfacenti, perché, ripeto, il marco tedesco si è completamente disintegrato in termini di valore.
Su tutto poi, il condimento pericoloso, illusorio, di un ritorno al gold standard, così come l’aveva conosciuto
e riconosciuto durante la prima globalizzazione. Mentre se vi applicate sulle cronache del tempo, la
struttura di questi giudizi è più o meno la stessa. Il quadro, l’affresco, devastanti dei problemi odierni è
l’ottimistica visione che con il ritorno del gold standard, tutto si sarebbe risolto e saremmo tornati all’età
dell’oro (alla golden age) che abbiamo conosciuto alla fine dell’Ottocento. È una pia illusione ma è anche
una pericolosa illusione. Come spesso capita quando si vuole rincorrere qualcosa che non può essere
realizzato. Il gold standard così come lo avevamo conosciuto negli anni precedenti al conflitto non è in grado
di essere riesumato nelle intemperie degli anni ’20. Ma tutti lo cercano e questo non si trova mai.
Dunque, come vedete i disordini monetari e finanziari sono frutto di un processo cumulativo di errori, di
incapacità di porre un freno in queste derive e che anche essi nascono da un’idea che devono pagare chi ha
perso la guerra e deve avere il massimo dei vantaggi chi la guerra l’ha vinta.
Povero Keynes che nel ’19 costruisce un libro meraviglioso “Le conseguenze economiche della pace” che
illustra in maniera chiara, efficace, scientificamente inoppugnabile, come la scelta di perseguire oltre la
guerra i paesi perdenti e non ricostituire un clima di fiducia collettiva, avrebbe generato guai ancora
maggiori di quelli che la guerra stessa aveva portato. Lì Keynes si guadagna il medaglino della Cassandra
inascoltata, poverino. Lui vede bene ma nessuno lo pensa.

Studente chiede di ripetere “Le conseguenze economiche della pace” e il prof rispiega:
In realtà era centrato sul fatto che una pace duratura che avrebbe facilitato la ripresa economica non
potevano costruirsi se non dentro uno schema collaborativo che superava la demarcazione tra i paesi che
avevano perso e i paesi che avevano vinto. Per cui i paesi che avevano vinto si rivalevano sui paesi che
avevano perso. Ma se avevano perso, che cosa potevano dare?
Questi sono i due grandi tronconi problematici che attraversano gli anni ’20.
Gli anni ’20 sono anche anni maledettamente sfuggenti di una lettura complessiva. Per chiudere in termini
di congiuntura, è una congiuntura estremamente nervosa, 19-20, sembra che l’economia riparta alla
grande, ma questa è facilmente spiegabile perché ovviamente una domanda compressa da 4-5 anni di
conflitto esplode improvvisamente e ha effetti salutari sulle economie che in quel momento sembrano
ripartire. Ma non avendo la capacità di costruire le condizioni di stabilità entro cui questa crescita poteva
essere assistita, questa apparente, improvvisa, nervosa impennata in termini espansivi ha immediatamente
alla metà degli anni ’20 (dal ’23 al ’25) un improvviso stop.
Vedete, noi in genere i cicli li misuriamo su 7 anni quelli brevi, 15 anni quelli medi, 50 anni quelli lunghi, qui
stiamo ragionando di un biennio/triennio e quindi capite quale difficoltà si vive in termini economici il primo
dopoguerra.
La crisi della metà degli anni ’20 viene poi sostituita, soprattutto negli Stati Uniti, con un’ulteriore impennata
espansiva, quella che crea l’illusione che ormai siamo sulla via della ripresa, mentre invece in realtà
l’orizzonte già si intravede invece la crisi del ’29.
Ora, questo andamento nervoso che, come dicevo l’altra volta, cromaticamente ha segnato dalla
contrapposizione al nostro regno, dagli effetti sociali e politici che determina dalla mobilitazione delle masse
ma anche dal progressivo favore ha portato all’involuzione in termini autoritari soprattutto di paesi
direttamente penalizzati dal conflitto mondiale (Germania, Italia), ma involuzioni in senso autoritario
riguarderà anche paesi vincitori, anche paesi ultra-atlantico. Il fascismo e il nazismo ha fortuna ben oltre i
confini europei.
Ma l’altro elemento è dato appunto dal carattere nervoso con cui questi processi sociali si determinano in
piano della socialità.
Sembra che c’è una colonna sonora – come vi dicevo l’altra volta – molto “swing”, ma c’è invece anche un
drammatico problema di disoccupazione che precede la crisi del ’29.
Quella illusoria ripresa economica ha come prezzo fondamentale e irrinunciabile proprio il fatto che non si
raggiungerà mai un livello di occupazione soddisfacente.
Concentriamoci – perché questo è il terreno minato – sui disordini finanziari; cerchiamo di costruire una
cronologia problematica di questi avvenimenti.
Su tutti sovrasta il mito del gold standard, un vero e proprio mito. Tutti volevano tornare al gold standard
ma chissà per quale arcano motivo nessuno era in grado di poterlo fare. Bisogna indagare questo elemento.
Perché nonostante più desiderata dalle classi politiche del tempo, il gold standard è destinato ormai a
essere definitivamente accantonato almeno nella forma che avevamo conosciuto nel corso della fine
dell’Ottocento.
Il primo elemento è dato dal sommovimento del valore delle monete. Il gold standard funzionava bene
perché c’era una moneta, la sterlina, che era assolutamente considerata da tutti gli altri paesi del concerto
internazionale la moneta per eccellenza. E tale era.
Una moneta è forte non solo quando dietro ha un’economia che la sostiene, ma quando riesce a far fronte a
quel sistema di multilateralismo del sistema degli scambi commerciali a livello internazionale, garantendo
quei flussi monetari necessari a sostenere questi scambi. Cioè la sterlina fa tutto questo. La sterlina tenterà
di rifare tutto questo, ma la sterlina non è più quella di un tempo. È una moneta acciaccata, snobbata, la sua
economia non è più quella fiorente di un tempo e la sua finanza, dunque, non è in grado di svolgere quella
centralità che tutti le riconoscevano fino all’inizio del primo conflitto mondiale.
Dunque, primo problema di un gold standard impossibile: la sterlina è debole.
C’è un’altra moneta che nel frattempo era diventata forte, ma quella moneta non ha intenzione di svolgere
quella funzione di centralità che fino all’inizio del conflitto aveva avuto la sterlina ed è il dollaro. Grande
conflitto.
Ma l’altro elemento credo ancora più importante è definito dal fatto che le variabili del gold standard puro
come l’abbiamo conosciuto nella prima globalizzazione non si muovono più secondo gli intendimenti dei
sostenitori del gold standard.
Diciamolo in termini più scientifici.
Il gold standard per garantire la stabilità è una politica tendenzialmente deflazionista, cioè che tende a
conservare il valore delle singole monete perché se non conserviamo il valore delle singole monete,
abbiamo come riscontro una stabilità dei cambi tra queste monete che è la garanzia fondamentale del buon
funzionamento del mercato internazionale.
Ora, perché una politica tendenzialmente sia deflazionista, c’è bisogno che non ci siano interferenze
inespinte/irrespinte (?) 31:03 che possano alterare questo obiettivo di tornare costantemente a mantenere
il valore inalterato della moneta.
Uno di questi, se ricordate vi avevo detto che un principio fondamentale del gold standard, quello che
sembrava averlo fatto funzionare splendidamente, era l’assenza di scopi sociali da parte delle ditte di
governo del tempo. Diciamolo in soldoni brutali: se ne fregarono dei problemi in termini di disoccupazione,
in termini di aumento dei salari che erano fortemente compressi, perché agire su questi livelli, agire
sull’aumento dei salari o agire su tutto un sistema di sostegno ai redditi più poveri, avrebbe alterato il
famoso equilibrio di bilancio che era il totem, il postulato irrinunciabile del gold standard.
Ma nel primo dopo guerra, ma quale possibilità di tornare direttamente a politiche deflazioniste quando
interi sconvolgimenti sociali presiedeva nuove istanze politiche-economiche che si riversavano sullo Stato.
Facevo degli esempi più banali l’altra volta. Le pensioni per soldati morti bisognava pagarle e i combattenti
reduci (la quinta colonna del fascismo o del nazismo), come le placavamo in qualche modo le loro istanze di
tornare a una vita normale? Non rispondere a queste istanze che venivano dal basso si traduceva
immediatamente in una sorta di radicalismo politico. Se io rimango inascoltato ovviamente non mi
riconosco più in quei gruppi notabilari che avevano eletto le sorti e dunque mi mobilito, costruisco nuove
esperienze politiche che questa volta fanno contare molto le masse che hanno gli stessi problemi e dunque
come masse critiche esprimono il loro stesso livello di istanze al potere politico. I partiti popolari nascono
così in questo frangente degli anni ’20. Nascono a sinistra come al centro. E di fatto come reazione si
riorganizzano sulle stesse basi anche i partiti più conservatori.
Vi dicevo, sembra quasi un ossimoro, Gramsci che definisce il fascismo un regime reazionario di massa, in
cui il termine vero era massa che si riconosceva in questo nuovo ordine politico.
Dunque, la gente torna a contare, già nel corso della guerra cambiano i sistemi elettorali, che non sono più
censitari: non si ha diritto al voto perché si possiede ma si ha diritto al voto perché si è cittadini di uno stato.
Dunque, quando la dinamica politica non riguarda più un campo ristretto di giocatori più o meno con le
stesse idee, quella identità forgiata appunto dal rigorismo del gold standard, voi capite che il ritorno quasi
automatico a politiche deflazioniste non ha senso perché si mette ogni volta in gioco l’ordine sociale
ristabilito. Si scende in piazza, si occupano le fabbriche…è la storia degli anni ’20 e dunque lo stato traballa,
è incerto, ma deve concedere; ma se concede ovviamente l’idea del rigore finanziario, dei conti in ordine,
che era il totem del gold standard va a farsi friggere. Non è più una priorità delle classi dirigenti. La priorità è
mantenere l’ordine sociale e per mantenere l’ordine sociale, anche lo strumento monetario diventa
funzionale a questo tipo.
Si crea un po’ di disavanzo? Si crea un po’ di deficit? Sicuramente, ma a quel punto diventa tollerabile in
funzione di questo fine politico ben più totale (?) 36:35.
Capite, si usciva dalla guerra. Vivere in una condizione diciamo di fibrillazione continua non era certo la
condizione ideale per immaginare una definitiva fuoriuscita da tutto.
Ma questo significa dunque che per esempio quelle istanze non portano così facilmente e così
meccanicamente per esempio a ridefinire, in senso negativo e di ulteriore compressione, quelli che sono i
salari.
Il mercato del lavoro che è una variabile dipendente per le élite ottocentesche, divengono una variabile non
dipendente e stabilisce una entrinseca rigidità nei meccanismi di rideterminazione dei salari stessi, che
tendono ad aumentare e non a diminuire. Dunque, con contraccolpi effetti altisonanti sugli equilibri
finanziari di uno stato.
È significativo che ad esempio in Italia queste istanze operaie vedono sì la scissione del partito socialista
lascia il partito comunista, ma vedono anche il partito popolare di Sturzo sostenere le rivendicazioni che
avvengono dagli ambienti che percepiscono i salari (fossero agricoli, fossero stati industriali).
L’altro elemento che rende incerto e impossibile il ritorno agli equilibri del gold standard classico è il fatto
che gli stati volenti o nolenti devono alimentare un processo di costruzione di guerra, di misure sociali che
vanno in direzione dei ceti più danneggiati praticamente dal conflitto.
C’è una teoria che spiega come in realtà, durante un conflitto mondiale, indipendentemente dalla base
teorica ed ideologica, il ruolo dello stato aumenta a dismisura; ma la fenice di quella teoria è ancora più
interessante, alla fine del conflitto lo Stato non rientra nella sua condizione (diciamo che avrà sempre), non
riduce le spese che in qualche modo erano state necessitate dal conflitto, ma la curva della spesa pubblica
tende comunque a mantenersi alta perché intervengono appunto questi temi legati al welfare, al sostegno
delle (??); Ma tutto questo ci porta sideralmente lontani dai terreni normalmente praticati dai sostenitori
del Gold Standard, tutti volevano, ma nessuno poteva. Ho già detto che per me l’antinomia più interessante
è quella di un autore americano, tradotto dalla casa Egea, che contrappone la moneta moneta tipica del
Gold Standard alla moneta politica che invece si afferma proprio nel corso degli anni 20’; e la moneta
politica, cioè quella alimentata da interessi che non sono di carattere finanziario, ma sono prioritariamente
di carattere politico, la fa da padrone nel corso di questa congiuntura degli anni 20’. Tutto questo viene
sviscerato quotidianamente, ma nonostante questo, tutti pensano che in ogni caso il Gold Standard possa
tornare; significa fare un passo indietro per vivere una convinzione di irrealtà che produce ulteriori danni. Il
danni forse più grande è dato dal fatto che chi non poteva più essere il motore che ritorna al Gold Standard,
si accolla questo impegno, e sto parlando dell’Inghilterra. L’Inghilterra vuole ritornare ad essere il centro.
Nei primi anni del dopoguerra l’Inghilterra riceve un’impennata in termini di crescita economica in virtù di
questa domanda che aumenta, anche e soprattutto nei suoi territori del Commonwealth, e dunque sembra
che può rivendicare questa nuova centralità. È l’elemento che la fa sostenere una scelta per molti versi
scellerata, soprattutto per sé stessa; il fatto cioè di tornare alla parità aurea anteguerra, significa dire al
mondo “signori sto bene, ho una salute finanziaria da cavallo, per cui fidatevi di me, tornate a depositare i
vostri soldi nella city londinese, datemi il mandato fiduciario di poter alimentare come facevo prima il
sistema degli scambi”. Ma è davvero forte quella moneta? E soprattutto gli altri paesi, quella famosa
orchestra sinfonica che faceva funzionare splendidamente il Gold Standard, costituita dal direttore che era
la banca d’Inghilterra e dai musicisti che erano le altre banche nazionali, erano disposti a suonare la stessa
opera. In quel clima di guerra guerreggiata che in qualche modo è anche il portato delle scelleratezza con
cui si chiudono gli accordi di pace. Il problema è che nessuno è disposto a riconoscere niente a nessuno. Ora
vedete, si crea un meccanismo infernale, questo si, destinato ad alimentare quel disordine e quella
instabilità finanziaria degli anni 20’; la sterlina si rivaluta alla parità aurea anteguerra. Una scelta che non fa
per esempio la Francia, che rivede il valore in termini aurei della propria moneta a ribasso; ci vuole meno
once di oro per stabilire il valore del franco francese. Ad una parità più bassa rispetto all’anteguerra, si
colloca anche il dollaro. Che significa che non c’è un allineamento in termini di parità aurea ai valori (?)? Che
si crea una disparità che si traduce immediatamente nella competitività delle monete che hanno un minore
contenuto aureo rispetto a quelle che ne hanno un contenuto più alto. Il problema è che le monete, (noi
abbiamo detto che in realtà quando si sta sul mercato internazionale noi paghiamo con la moneta forte o
con la moneta dei paesi che esportano di più, dunque devo accumularla, ma se quella moneta costa molto,
non mi conviene aprire una linea di import export, soprattutto di esportazione, perché devo recuperare una
quantità maggiore di quelle monete, a fronte di una mia moneta che costa meno. Ora, per gli altri paesi, il
messaggio che arriva qual è? Se in Francia, in America, si producono le stesse cose che può offrire il mercato
inglese, ma con un valore delle loro monete più basse, perché devo andare a comprare la merce inglese e
non rivolgermi invece a quella francese o americana? Ed è quello che capita. Con quali effetti? Per
l’Inghilterra devastanti, perché la forza di quell’economia viene ulteriormente compromessa dal fatto che
non è più competitivo sul mercato in virtù di quella rivalutazione eccessiva della sterlina; mentre invece si
rivaluta fortemente la capacità di esportazione di paesi che hanno valutato la propria moneta ad un valore
aureo più basso. Che significa? Che in quei paesi ovviamente affluisce più valuta estera, e quando non c’è la
valuta estera affluisce più oro. Dunque, vedete dove sta la contraddizione? Il sistema del Gold Standard
funzionava perfettamente nell’800, perché alla forza della sterlina si abbinava il fatto che la banca di
Inghilterra controllasse gran parte delle risorse auree del mondo. Dunque c’era una simmetria tra il ruolo
svolto e le basi monetaria che ne consentivano lo svolgimento. Negli anni 20 questa simmetria invece salta
completamente l’oro si concentra nella Federal Reserve, nella banca centrale francese e non in quella
d’Inghilterra. Se la Federal Reserve e la banca francese avessero fatto parte di quella sinfonia magistrale del
Gold Standard non ci sarebbero stati grandi problemi, la quantità maggiore di oro si metteva a disposizione
della banca di Inghilterra per mantenere stabile il sistema finanziario internazionale; ma se questo non
avviene, quale ruolo di agente principale può svolgere l’Inghilterra se non dissanguandosi? Perché per
svolgere questo ruolo centrale deve impegnarsi sul mercato internazionale a procurare moneta forte,
riserve auree, che gli consentono di mantenere questa sua centralità a fronte di un’economia che non è più
competitiva come quella di prima. Dunque si determina una schizofrenia che è il grande freno per ritornare
al passato. Altro che il modello della cooperazione finanziaria internazionale della fine dell’800. C’è una
guerra che si combatte nei salotti della finanza internazionale e che porta come conseguenza fondamentale
alla sterilizzazione delle riserve auree, chi ce l’ha se le tiene belle strette. Ma voi ricordate qual è uno dei
presupposti del Gold Standard? È che ci sia una piena agibilità nella convertibilità e nel trasferimento di oro
da un paese all’altro. Se io chiudo questa possibilità, chiudo la possibilità di far funzionare il Gold Standard.
Ed è quello che succede negli anni 20’. Il momento in cui tutti questo appare molto chiaro e l’Inghilterra non
se ne rende conto seguendo stoltamente la sua ambizione di tornare al centro del mondo, è la conferenza di
Genova del 22’, dove da un lato c’è l’Inghilterra che dice “signori torniamo al modello del Gold Standard,
capisco che non c’è tanto ora quanto necessario ma allora costruiamo un modello alternativo (che è quello
che poi si proporrà ma in condizioni totalmente diverse alla fine del secondo conflitto mondiale), il Gold
Change standard, che significa bypassare il vincolo delle riserve auree e assegnare alla moneta forte, lo
stesso valore di riserva, lo stesso valore di moneta dei pagamenti internazionali”. L’oro non si muove più con
quella presupposta libertà che poneva il Gold Standard ma si muove con la muove con la moneta forte. Va
benissimo, ma c’era bisogno che tutti riconoscessero che a quel punto la rivendicazione ad essere moneta
forte della Sterlina fosse (lunatica?), E invece gli americani fanno un po’ gli ignoti perché non hanno alcun
interesse a offrire questo riconoscimento al sistema. L’Inghilterra di intestardisce e apre ad un quinquennio,
nel 25 non ritorna al valore aureo inizio, nel 31 uno sciopero generale, il primo della storia inglese, ricorda
che quel sistema è stato fallimentare e bisogna recedere. C’è un altro modello di rivalutazione aurea, ed è
per esempio quota 90 del fascismo, che se la gioca più in una logica geopolitica, tant’è che mentre dice al
mondo “la lira sta bene, siamo tornati al valore aureo anteguerra”, costruisce però un sistema economico
(della monarchia?), chiudendo il paese al sistema degli scambi internazionali, per evitare che quella
sopravvalutazione della lira si traducesse in un danno in termini di contabilità nazionale, di disavanzo del
proprio bilancio.a versione degli Stati Uniti a riconoscere le pretese inglesi, fa fallire la conferenza di Genova
e ristabilire quel clima di diffidenza che si era già avvertito all’indomani della fine del conflitto.
Il cumulo di errori era impressionante, si perde di vista la stabilità finanziaria, ma anche le politiche che
avrebbero potuto concorrere indipendentemente dal Gold Standard per ristabilita un minimo di stabilità,
dettata dal fatto che non si fossero affermate in maniera così forte le pretese americane di rientrare nel
debito che hanno concesso durante (?). L’iperinflazione tedesca è frutto di questa scelleratezza, perché se
io chiedo all’Italia (?).. ma se io chiedo alla Francia, chiedo praticamente all’Inghilterra di essere ripagata (?),
Quelle nazioni pensano che la scorciatoia fondamentale sia chiedere i danni di guerra al paese perdente (in
questi caso alla Germania). Come fa la Germania a pagare? Può soltanto azionare in maniera sconsiderata la
leva del conio della moneta, ma poi moneta conio meno valore quella moneta ha. L’inflazione è un fiume
carsico che attraversa tutti i paesi coinvolti nel conflitto, ma il bubbone esplode in Germania, determinando
una sperequazione sociale impressionante, perché alla fine del conflitto le banche tedesche, fanno fruire le
poche risorse disponibili verso ad esempio le industrie, nel tentativo di risollevarsi; ma questo illanguidisce
le risorse disponibili per il resto della popolazione. L’inflazione si accompagna in questi casi sempre a dei
movimenti di carattere politico, che trova un aggiustamento purtroppo fallace nella svolta autoritaria, ma
prima di questa dovremmo ricordare l’esperienza in Germania, di un tentativo coalizionale di forze di natura
progressista che tentano di risolvere questo problema della perdita di assoluto valore da parte della loro
moneta; ma è un fallimento assoluto, da lì in nazismo ha fiato in virtù del fallimento di quest’ esperienza
democratica tentata preliminarmente. Tutti questo è un elemento che altera e allontana la possibilità di
trovare un punto di approdo tranquillo a questa rotta molto complicata che si era avviata dal secondo
conflitto mondiale; insomma, se dovessi richiamare brevemente i punti di debolezza, sono
fondamentalmente questi: non c’è cooperazione tra i centri finanziari, soprattutto tra quelli che hanno
depositato una maggiore quantità di oro e quelli che invece avrebbero dovuto gestirla per garantire questa
loro centralità. C’è una cecità nella presunzione inglese di ritornare al centro del sistema, perché non
esistono più le condizioni economiche per quel paese, dunque non può costringere nessuno come faceva
nel corso del periodo del Gold Standard, a imporre ai paesi, a vincolare le proprie risorse presso la banca
d’Inghilterra. Tutti questo con un grande ostacolo che viene dall’800, perché gli Stati Uniti, consapevoli della
propria forza non sono disposti né ad assumere queste responsabilità di essere il centro del mondo, né
tantomeno a rinunciare ai vantaggi che ne derivavano ad essere l’economia meno toccata. Il ruolo degli Stati
Uniti lo dovete imprimere in un gioco di chiave oscura, adesso sta tutti nell’oscurità delle scelte, è un paese
isolazionista, protezionista, che non accede ad una collaborazione di carattere finanziario ma un paese
estremamente forte in termini economici. Un paese che non è disposto a tollerare che parte delle sue
ricchezze servano a lubrificare il mercato internazionale, anzi fa esattamente l’opposto, perché mentre
illanguidisce il mercato, fa venire a galla che l’Europa stenta (?), E dunque i capitali, a partire da quelli
americani che si erano collocati o nelle banche o in altri modi in Europa, tornano molto rapidamente a casa
per essere investiti in quel micidiale gioco di borsa che poi (…?) nella crisi del 29. Per cui l’effetto dei capitali
a livello internazionale è ancora più forte, perché chi li aveva se li porta direttamente a casa sua, e dunque
gli altri mercati possono far ben poco da questo punto di vista. Ora fissate questi tre punti, perché vi sarà
poi molto chiaro capire come questa elezione scellerata degli anni 20 della crisi del 29, per gli Stati Uniti è
estremamente (?), perché farà esattamente il contrario dopo il secondo conflitto mondiale. C’è veramente
una diversa comprensione dei fatti finanziari, insanabile contraddizione, in realtà se ci riflettete per un
attimo che cosa poi alla fine pretendeva l’Inghilterra rivendicando il ritorno alla sua centralità? Il fatto che i
fatti monetari fossero depoliticizzati, cioè come fossero passati dentro una macchina di immunodeficienza
rispetto invece alle politiche che gli altri Stati mettevano in piedi. Non si potevano più depoliticizzare i fatti
finanziari, e chi riporta pesantemente questo fatto, sono proprio gli Stati Uniti, che invece procedono
esattamente in senso opposto, politicizzano fortemente i fatti monetari e finanziari. Ovviamente tutti
questo, in questa impossibilità di fare convergere queste visioni così antitetiche, salta la cooperazione dei
sistemi bancari dei diversi paesi, va a farsi friggere il livello di cooperazione che invece era uno dei capisaldi.
Si era politicizzata soprattutto la gestione dell’oro, abbiamo detto la Francia e gli Stati Uniti in modo
particolare. Vedete, tutto questo direi che si traduce nell’avvio di lunghe sventure che potremmo
rapidamente far risalire a questi aspetti; il gold standard nella forma illusoria del Gold Change standard
quando prevedeva l’Inghilterra dura pochissimo, ma quel poco che dura, crea sfracelli ancora più grandi di
quelli che avevano ereditato dalla guerra perché il mancato buon funzionamento del ritorno al Gold
Standard nella versione Gold Change standard è attribuibile a delle cause che non possono essere
facilmente rimosse per decreto; io qui ne ho segnate alcune: innanzitutto l’impatto della guerra sul sistema
monetario era determinato dal fatto che adesso le gerarchie erano profondamente mutate, anche se New
York non ha intenzione di contare quanto contava Londra nel periodo del Gold Standard. Possiamo dire più
in generale che in maniera molto stolta, gli Stati Uniti ma in qualche modo la stessa Francia, erano poco
interessati alla ripresa del mercato internazionale, creando per questa strada le premesse di quella crisi
dell’economia reale, che sarebbe esplosa sul terreno finanziario, ma si sarebbe affermata sul terreno ben
più pericoloso dell’economia reale; cioè una crisi di vera e propria (?) Che caratterizza la grande
depressione. Il mancato funzionamento di questo sistema come abbiamo già detto (sto semplicemente
ricapitolando) è attribuibile alla ingovernabilità politica dell’ indebitamento internazionale, che si traduce in
una strutturale difficoltà di arrivare al pareggio al bilancio dei pagamenti dei diversi paesi, che si traduce in
un progressivo prosciugamento del mercato finanziario europeo dei capitali americani, che come dicevo
prima, tornano a casa e si offrono come massa di manovra per l’euforia borsistica di quel paese alla fine
degli anni 20’, cadono i prezzi delle esportazioni, che era lo strumento attraverso cui si poteva tentare di
risollevare i debiti accumulati nel bilanci commerciali dei diversi paesi. Insomma, tutto questo concorre a
rendere impossibile la possibilità di pagamenti dei debiti contratti a livello internazionale (la grande piaga
che in qualche modo si determina nel corso degli anni 20’). L’altro aspetto, è il livello e la rigidità dei prezzi, a
partire dai prezzi del fattore lavoro, ma in generale vogliamo dire la rigidità e l’aumento dei prezzi dei
FATTORI produttivi. Ma se manteniamo questa rigidità, se sono alti e manca la domanda, il riscontro è del
tutto negativo sul piano della ripresa delle attività, che, almeno in Europa, stentano a riprendersi. Politiche
di rientro dei capitali americani dall’Europa agli Stati Uniti accentuano questa difficoltà di ripresa; non si
trovano più i capitali, non solo per gli scambi commerciali, ma per gli investimenti. Insomma fatevi un’idea
degli anni 20’ che possono essere rappresentati come un ring in cui ognuno gioca per sé, e dunque ognuno
gioca contro tutti. Ora in un clima del genere, di danneggiamento continuo, è chiaro che la ripresa
economica già pregiudicata dal conflitto mondiale è fortemente compromessa, e soprattutto l’elemento
fondamentale da tenere presente, è che è fortemente compromessa nel cuore del sistema economico
internazionale, che è l’Europa, perché se volessimo volgere lo sguardo a paesi vicini e lontani (Russia,
Giappone) lì sono altri esiti. Allora, la Russia è momentaneamente assente dalla scena internazionale, ma
Lenin nel 19 capisce che le cose non vanno tanto bene, l’economia non sostiene questa svolta
rivoluzionaria, e avvia quella che si chiama la nuova politica economica, che è concentrata sul fatto di
favorire una parziale liberalizzazione, soprattutto in campo agricolo, formando una classe di medi contadini
che sono in grado di produrre per il mercato, che favoriscono l’aumento della produzione e che sostengo le
masse inurbate che invece vanno a lavorare all'industria di Stato. Questo fa crescere enormemente i tassi di
sviluppo di quel paese. Almeno fino a quando nel 28 Stalin non decide di cancellare la nuova politica
economica di Lenin e quindi di procedere ad una forte nazionalizzazione e alla distruzione di questo ceto
medio che si era creato nelle campagne li abbiamo una forte crescita del sistema economico di quel paese e
una crescita altrettanto sostenuta si ha anche in Giappone. Sono paesi non direttamente coinvolti nel
conflitto, entrambi solo parzialmente, ma sono intelligenti anche le scelte che vanno compiendo in termini
economici. In Giappone si afferma una ristretta elite imprenditoriale, che si raccoglie attorno pochissimi
grandi conglomerati (..?), Il più grande gruppo controlla la proprietà di altri 97 gruppi; ma che in un rapporto
sinergico e stringente con lo stato, riescono a riutilizzare (..?). Dunque una crescita importante. Siamo di
fronte un'ipotesi di un recentraggio di quell'economia mondo che (???) ci raccontava dicendo "guardate, il
centro è l'Europa, poi c'è una semiperiferia e poi c'è la periferia che sono i paesi in via di sviluppo", però
vedete è difficile leggere così chiaramente questa gerarchia dopo il primo conflitto mondiale; di certo è che
la centralità Europea si è appannata, e che invece sembra che gli Stati Uniti possano accampare questa
identità di nuovo centro, e quelle che erano alcune periferie incominciano a scivolare in una dimensione di
semiperiferia molto interessante come il Giappone e la Russia, ma non soltanto. Gli effetti di questa
riconsiderazione geoeconomica peseranno molto quando poi andremo a riparlare di globalizzazione,
soprattutto rispetto al sud-est asiatico; ma tutto questo, come vedete pone al centro la storia, che conta
nella capacità di dettare tempi lunghi con cui gli sconvolgimenti, soprattutto sul piano economico, si sono
poi determinati in un presente storicissimo come quello che stiamo vivendo anche oggi.

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