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Le 6 Lezioni di
Politica Economica

Ludwig von Mises

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Istituto Liberale

Progettazione Alessio Cotroneo

Traduzione Edson Netto Freitas Amaral


Alessio Cotroneo
Grafica Davide Filippini
Robin Chiodi
Valentino Russo

Titolo originale Economic Policy: Thoughts for Today


and Tomorrow

Pubblicato da Liberty Fund, Inc.


© 1979 Liberty Fund, Inc.
© 2020 Istituto Liberale - APS

Sito www.istitutoliberale.it
E-mail info@istitutoliberale.it

This translation is reproduced with permission from Liberty Fund, Inc. It


is translated from the English version of Economic Policy © 1979 by Lib-
erty Fund, Inc.; editorial additions © 1995, 2010, by Liberty Fund, Inc.
Questa traduzione è riprodotta con il permesso di Liberty Fund, Inc. È
tradotta dalla versione inglese di Economic Policy © 1979 da Liberty
Fund, Inc.; aggiunte editoriali © 1995, 2010, da Liberty Fund, Inc.

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Ringraziamenti per i
nostri Mecenate
La traduzione e la pubblicazione di quest’opera sono
state possibili unicamente grazie al gentile e fonda-
mentale contributo di:
Filippo Feliziani
Edoardo Sirotti
Giorgio Antongiovanni
Aldo Colosimo
Daniele Parlato
Antonio Morisi
Fabio Franzolin
Liberty Fund Inc.
Atlas Network
Ciascuna delle donazioni è stata preziosa per noi.
I nostri più sinceri ringraziamenti a tutti voi!

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Indice

Prefazione dell’Istituto Liberale .................................. 8

Prefazione all’edizione americana............................. 21

Il Capitalismo .............................................................. 25
L’Inizio del Capitalismo......................................................... 26
Il Cliente ha Sempre Ragione ................................................ 29
Il Capitalismo Aumenta il Tenore di Vita............................. 32
Il Risparmio Capitalistico Aiuta i Lavoratori ....................... 40
Il Socialismo ................................................................ 47
La Libertà nella Società .......................................................... 48
Comandano i Consumatori ................................................... 52
La Società Fondata sullo Status ............................................. 56
La Mobilità Sociale ................................................................. 59
La Pianificazione Governativa............................................... 62
Il Calcolo Economico.............................................................. 69
L’Esperimento Sovietico ........................................................ 72
L’Interventismo........................................................... 76
Le Aziende di Stato ................................................................ 77
Che Cos’è l’Interventismo? .................................................... 79
Perché il Controllo dei Prezzi Fallisce? ................................. 84
Interventismo in Tempo di Guerra ....................................... 89
Il Controllo degli Affitti ......................................................... 95

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C’è una Via di Mezzo fra Capitalismo e Socialismo? ........... 96
L’Inflazione ............................................................... 102
Stampare il Denaro............................................................... 103
L’Aumento dei Prezzi Passo Dopo Passo ........................... 107
Al Governo non Piace Tassare............................................. 112
L’Inflazione non Può Durare ............................................... 113
Il Gold Standard ................................................................... 117
Inflazione e Stipendi............................................................. 120
Stipendi e “Piena Occupazione” ......................................... 125
Gli investimenti esteri .............................................. 130
Strumenti Migliori per Aumentare la Produzione ............. 131
Gli Investimenti Esteri Britannici ........................................ 135
Ostilità agli Investimenti Esteri ........................................... 139
I Governi Ostacolano il Risparmio ...................................... 143
I Paesi in Via di Sviluppo Hanno Bisogno di Capitale ...... 146
La Migrazione di Capitali Aumenta gli Stipendi ............... 150
La Politica e le Idee ................................................... 155
Idee Economiche e Politica .................................................. 156
I Gruppi Politici di Pressione............................................... 159
Interventismo e Interessi Speciali ........................................ 165
L’Inflazione e l’Interventismo Hanno Distrutto l’Impero
Romano ......................................................................... 167
Solo Buone Idee Possono Sconfiggere Cattive Idee ........... 171

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PREFAZIONE DELL’ISTITUTO
LIBERALE
Non è un caso che Ludwig Heinrich Edler von Mises
sia stato definito «l'Ultimo Cavaliere del Liberalismo»
dal suo biografo, il professor Jörg Guido Hülsmann.
Ludwig von Mises è stato il più feroce e ostinato difen-
sore della libertà di tutto il ventesimo secolo. Dopo
aver vissuto due grandi guerre e aver subito inizial-
mente gli orrori del totalitarismo e dell'intolleranza,
poi la velata censura al liberalismo economico che si è
verificata in quasi tutti i paesi occidentali del dopo-
guerra, Ludwig von Mises, irriducibile e resiliente, non
ha mai fatto concessioni a coloro che considerava ne-
mici della libertà.
L'economista austriaco nacque il 29 settembre 1881 nel-
la città di Leopoli, l’odierna Lviv, in Ucraina. All'epo-
ca, l'intera regione faceva parte dell'Impero Austro-
Ungarico, la seconda entità politica più grande d'Eu-
ropa - seconda solo alla Russia. La città, situata 500 km
a est di Vienna, apparteneva a una regione chiamata
Galizia, abitata principalmente da tedeschi, ebrei, po-
lacchi e russi.
Alcuni familiari di Mises, sia da parte del padre sia
della madre, erano membri di spicco della comunità
ebraica austriaca. Il suo bisnonno Mayer Rachmiel von

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Mises (1800-1891) venne onorato dall'imperatore Fran-
cesco Giuseppe I d'Austria (1830-1916) con il titolo no-
biliare "Edler" - all'epoca un nobile senza proprietà ru-
rali. Suo fratello, Richard von Mises (1883-1953) fu un
grande matematico e ingegnere, arrivando a insegnare
anche ad Harvard.
Quando Mises aveva solo cinque anni, i suoi genitori,
Arthur e Adele, decisero di trasferirsi a Vienna, capita-
le e centro culturale, economico e scientifico dell'impe-
ro asburgico. Mises si dimostrò sempre uno studente
eccellente, sempre tra i primi della sua classe al Akade-
misches Gymnasium. Fin da giovane si interessò con
passione allo studio della storia, una materia che
«permette l'assimilazione delle idee che hanno risve-
gliato l'umanità dalla routine inerte della pura esisten-
za a una vita di ragione e di interrogatorio». È lo sforzo
dell'individuo di umanizzare sé stesso attraverso l'as-
similazione delle migliori tradizioni che ci sono state
trasmesse dalle generazioni passate.
Nel 1900 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Vienna e ivi la sua passione per la
storia lo spinse inevitabilmente a innamorarsi dello
studio dell'economia, materia che si occupa di proble-
mi pratici di immensa rilevanza. Dopo i due anni del
corso di base, si concesse un anno sabbatico per servire
nella Divisione di artiglieria imperiale. Proprio a causa
di tale addestramento, fu reclutato nella Prima guerra
mondiale come tenente, e finì per prestare servizio per
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tre anni, tra il 1914 e il 1917. Nel 1917 fu chiamato a far
parte del Ministero della Guerra e, promosso a capita-
no, vi rimase fino alla fine del conflitto.
Incredibilmente, l'uomo che sarebbe passato alla storia
come «l'Ultimo Cavaliere del Liberalismo» era inizial-
mente un sostenitore dell'interventismo e
dell’intervento statale nell'economia, influenzato
dall'ideologia più popolare dell'epoca nei paesi tede-
schi, la Scuola Storica d’Economia (Historische Schule
der Nationalökonomie).
Dopo aver frequentato le lezioni di Eugen von Philip-
povich (1858-1917), ma soprattutto grazie all'attenta
lettura dei "Principi di economia politica” (Grundsätze
der Volkswirthschaftslehre) di Carl Menger (1840-1921),
fondatore della Scuola Austriaca di Economia e profes-
sore all'Università di Vienna, Ludwig von Mises di-
venne rapidamente un fervente sostenitore del liberali-
smo.
Infatti, durante il periodo dei suoi studi di dottorato
presso la stessa istituzione, von Mises divenne uno dei
membri più rilevanti dei seminari diretti dal famoso
economista Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914), di-
scepolo di Carl Menger e massimo esponente della se-
conda generazione della Scuola Austriaca. Fu grazie
alle critiche devastanti di Böhm-Bawerk che le teorie
marxiste del valore-lavoro e dello sfruttamento (plu-
svalore) furono completamente confutate, lasciando ai
loro sostenitori nient'altro che la cieca fiducia nell'in-
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tuizione economica del sociologo tedesco Karl Marx.
Partendo dalle opere di Menger e Böhm-Bawerk, Mi-
ses fece avanzare la frontiera del sapere della Scuola
austriaca, diventando infine l'esponente più famoso di
questa scuola di economia.
La sua prima grande opera fu "Teoria della moneta e
dei mezzi di circolazione" (1912), in cui ebbe la grande
intuizione di integrare la nuova brillante teoria genera-
le dell'utilità marginale con la teoria della moneta. Per
la prima volta i rami "studio economico" e "studio mo-
netario" furono integrati in un unico blocco coerente,
omogeneo e logico del sapere.
Dal 1913 al 1934 Mises insegnò presso l'Università di
Vienna come Privat-Dozent, ossia come professore pri-
vato, senza retribuzione fissa. Durante il tempo libero
organizzò il suo Privatseminar, che divenne famoso nel-
la capitale imperiale per essere un ambiente di libera,
franca e ardente discussione di idee economiche. Tra
gli studenti e gli amici che parteciparono a questo se-
minario possiamo citare il sociologo Max Weber, il fi-
losofo e sociologo Alfred Schütz, gli economisti Fritz
Machlup, Gottfried Haberler e Oskar Morgenstern, il
filosofo Eric Voegelin e il premio Nobel per l'economia
Friedrich August von Hayek (1974).
Durante questo periodo fertile, Mises produsse la
maggior parte delle sue eccezionali opere. Tra queste è
possibile citare "Stato, nazione ed economia" (1919), il

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primo scritto in cui mise in relazione i fenomeni eco-
nomici con aspetti legati alle scienze politiche e alla
sociologia, includendo un'ampia analisi storica che
dimostrò le gravi conseguenze della Prima guerra
mondiale sul piano ideologico. Mises già nel 1919 pre-
vedeva il rischio che un governo ultranazionalista ar-
rivasse al potere in Germania, grazie ai termini vessa-
tori del Trattato di Versailles.
Nel 1920 Mises pubblicò il famoso "Calcolo economico
in una comunità socialista", dove aggiunse una nuova
pietra all'edificio costruito da Böhm-Bawerk. Se
quest’ultimo aveva affermato che il plusvalore e la teo-
ria del valore-lavoro non avessero senso economico,
Mises andò oltre e, in un'analisi pionieristica e basata
sul rigore logico che lo ha sempre caratterizzato, so-
stenne l'impossibilità del calcolo economico sotto il so-
cialismo. In termini generali, la pianificazione sarebbe
irrealizzabile e la creazione di "mercati artificiali" risul-
terebbe impossibile, poiché un vero sistema di prezzi
(e costi) dipende necessariamente da uno scambio di
titoli di proprietà, cioè dipende dalla proprietà privata
dei mezzi di produzione.
La teoria misesiana si dimostrò vera durante l'esperi-
mento sovietico, giacché l'Unione Sovietica, dovendo
stabilire parametri affidabili per la produzione e la
pianificazione economica, iniziò ben presto a copiare i
prezzi europei. Vale a dire che, data l'impossibilità di
calcolo economico in un sistema senza proprietà priva-
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ta, ma data la necessità di calcolo economico per evita-
re il crollo repentino del sistema, l'URSS dovette ser-
virsi dei parametri di prezzo applicati nel continente
europeo, dove esisteva la proprietà privata dei mezzi
di produzione.
Mises si dedicò anche alla metodologia nel campo
dell'economia, scrivendo inizialmente l’opera "Pro-
blemi epistemologici dell’economia" (1933). In essa,
Mises iniziò a costruire l'edificio teorico che doveva
servire da guida per l’adeguata e corretta ricerca in
economia.
Mises non riuscì mai ad affermarsi come professore
ordinario all'Università di Vienna. La ragione era mol-
to semplice: era troppo ebreo per essere difeso dagli
altri professori, e troppo liberale per essere difeso dagli
altri ebrei dell'Università. Ciononostante, l’essere ebreo
non gli impedì di sposare l'ex attrice teatrale Margit
Serény, vedova di un aristocratico ungherese. I due
convolarono a nozze nel 1938 nella città di Ginevra,
dove erano fuggiti entrambi a causa delle crescenti
tensioni in Austria.
Questo perché, con l’affermazione del nazismo e le
continue minacce e i continui attacchi alla comunità
ebraica di Vienna, Mises, già nel 1934, scelse di trasfe-
rirsi in Svizzera, dove iniziò a insegnare presso il Gra-
duate Institute of International and Development Studies di
Ginevra.

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L'Austria fu annessa dalla Germania il 13 marzo 1938,
e quello stesso giorno l'appartamento di Mises fu vio-
lato dai nazisti e tutti i suoi effetti personali confiscati.
Mises non recuperò mai quel che restava dei propri
averi e morì credendo che fosse stato tutto distrutto.
Solo nel 1991, diciotto anni dopo la sua morte, i suoi
beni vennero ritrovati in un archivio segreto a Mosca,
nel quale furono immagazzinati dal momento in cui i
sovietici li reperirono in un vagone ferroviario nella
regione dell'attuale Repubblica Ceca alla fine della Se-
conda guerra mondiale.
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e con le
continue richieste e pressioni dei nazisti sulla piccola
Svizzera per la consegna della testa dei coniugi Mises -
e dopo aver subito anche un tentato rapimento - deci-
se di emigrare negli Stati Uniti.
Ma le cose non furono semplici per Mises e Margit,
perché i nazisti avevano già conquistato la Francia e un
volo sopra la Francia sarebbe stato terribilmente ri-
schioso. Di conseguenza, architettarono una folle fuga
in un autobus che attraversò la Francia, e finalmente, il
25 luglio 1940, riuscirono a salpare per gli Stati Uniti.
Anche davanti a tutti questi problemi e a tutte queste
afflizioni, nella mente di Mises ronzavano i grandi
problemi dell'economia. E proprio nel maggio del
1940, ancora a Ginevra, Mises concluse e pubblicò in
tedesco l’opera “Nationalokonomie: Theorie des Handelns
und Wirtschaftens” (mai tradotta in italiano). Essa rap-
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presentò la versione preliminare della sua opera ma-
gna “Human Action: A Treatise on Economics” (L’Azione
umana. Trattato di economia), pubblicato in inglese nel
1949.
Purtroppo, l’opera fu pubblicata lo stesso mese in cui
Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo furono in-
vasi dalle truppe naziste, il che non solo ebbe come
conseguenza la confisca e la distruzione di molteplici
sue copie, ma fece anche sì che l'opera stessa non rice-
vesse l’attenzione che meritava.
Arrivato negli USA, Mises si trovò faccia a faccia con
una nazione ben diversa da quella ideata dai Founding
Fathers. Le idee economiche di John Maynard Keynes
(1883-1946) risuonavano nel mondo accademico e
all’interno del governo americano, e il Paese stava vi-
vendo gli anni del New Deal di Franklin Delano Roose-
velt (1882-1945).
Pertanto, Mises, un «liberale all'antica, di un'altra epo-
ca», finì col subire un altro tipo di persecuzione, sep-
pur meno vessatoria rispetto a quella subita in Europa:
un rifiuto generale delle sue idee da parte del mondo
accademico e dei media, una sorta di velata censura al
liberalismo economico, cosa che gli impedì di ottenere
l’incarico di docente in alcune università della Califor-
nia. Mises, sempre fedele alle sue idee e mai disposto a
cedere, finì per rifiutare diverse offerte del governo
americano di lavorare come burocrate nel settore della
pianificazione economica e di far parte di un gruppo di
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ricerca statistica coordinato da Milton Friedman (1912-
2006) alla Columbia University.
Durante questo periodo, che Mises descrisse come il
più difficile della sua vita, fu costretto a vendere libri e
oggetti di sua proprietà e a dare lezioni sporadiche in
alcune università pur di andare avanti.
Ma la sorte di Mises in America cominciò a cambiare
quando il redattore del New York Times Henry Hazlitt
(1894-1993), che già conosceva le sue opere, lo invitò a
scrivere alcuni articoli e editoriali per il quotidiano
newyorkese. Ebbe così inizio un'amicizia che durò fino
alla fine della sua vita.
Nel 1944, mentre lavorava per la National Association of
Manufacturers (NAM), un'istituzione fortemente con-
traria alle politiche del New Deal, Mises incontrò Leo-
nard Read (1898-1983). Dall’amicizia tra i due nacque
l'idea di creare la Foundation for Economic Education
(FEE), per la quale Mises lavorò come consulente e do-
cente dalla sua fondazione nel 1946 fino alla sua morte.
Già nel 1945 Mises iniziò a lavorare come visiting pro-
fessor di una cattedra finanziata da amici e sostenitori
della New York University (NYU), incarico che ricoprì
fino al 1969. Ivi insegnò a studenti brillanti come Mur-
ray N. Rothbard (1926-1995), George Raisman e Israel
M. Kirzner, che contribuirono molto all'ulteriore svi-
luppo della Scuola austriaca.
Nel 1949, presa consapevolezza che avrebbe dovuto

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tradurre le sue principali opere in inglese al fine di ot-
tenere una maggiore visibilità, Mises completò la tra-
duzione e l'aggiornamento di quello che sarebbe stata
la sua opera magna, "Human Action". In essa, Mises
elaborò una struttura completa, integrata e logica della
teoria economica, sempre basata sui principi deduttivi
che aveva precedentemente difeso come i più appro-
priati per la ricerca in economia. Nella stessa opera,
portò a termine la sua teoria metodologica e presentò
al mondo la "prasseologia", una scienza più ampia di
cui l'economia fa parte e il cui obiettivo è lo «studio
dell'azione umana».
La pubblicazione di questo trattato diede a Mises una
grande notorietà negli Stati Uniti, rendendolo una fi-
gura di spicco tra i liberali e i conservatori americani,
soprattutto nelle scienze sociali. Continuò in seguito a
produrre opere rilevanti, come "The Anti-capitalistic
Mentality" (1956), “Theory and History: An Interpretation
of Social and Economic Evolution” (1957) e "The Historical
Setting of the Austrian School of Economics" (1969).
Negli ultimi anni della sua vita, Mises continuò a dedi-
carsi alle conferenze, a terminare la stesura di alcune
opere e a lezioni eccezionali alla NYU. Nel 1959, in una
serie di conferenze tenute a Buenos Aires, in Argenti-
na, discusse alcuni dei temi economici più rilevanti di
quel periodo storico, temi ancora controversi e pur-
troppo ancora non adeguatamente compresi
nell’ambito del dibattito pubblico: il capitalismo, il so-
17
cialismo, l'interventismo, l'inflazione, gli investimenti
esteri e il rapporto tra politica e idee.
Questa serie di sei lezioni estremamente didattiche e
illuminanti fu trasposta in un libro dalla moglie, Mar-
git von Mises, dopo la sua morte nel 1973. All'epoca,
Margit si era resa conto che anche i non economisti che
frequentavano quei corsi a Buenos Aires erano in gra-
do di comprendere i concetti espressi dal marito, e
aveva avuto l'idea di trasformare le trascrizioni di tali
lezioni in un libro coerente, che lei stessa aveva deno-
minato "Economic Policy: Thoughts for Today and Tomor-
row” (Politica economica: riflessioni per oggi e per
domani).
Ci siamo presi la libertà di chiamarlo, in questa tradu-
zione, "Le 6 Lezioni", esattamente come fatto in prece-
denza nell'edizione brasiliana, diventata molto popola-
re e indispensabile nel nutrire il movimento liberale in
quel Paese.
È un’opera di facile lettura e comprensione, nonché,
oserei dire, la migliore introduzione al pensiero eco-
nomico e ad alcune delle intuizioni politiche della
Scuola Austriaca di Economia. Ed è per questo motivo
che, seguendo la missione istituzionale di rendere ac-
cessibile a tutti il pensiero liberale classico, l'Istituto
Liberale ha deciso di riproporla in un'edizione rifor-
mulata per i lettori italiani.
L’opera non ha la stessa profondità e ambizione del

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capolavoro "L’Azione umana", non presenta le novità
della "Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione",
né le complesse analisi politiche di "Stato, nazione ed
economia", ma è il risultato della conclusione della
lunga vita di resilienza e completa abnegazione di
Ludwig von Mises.
La vera essenza, la vera passione di Ludwig von Mises
erano le conversazioni con i suoi studenti e amici nel
Privatseminar viennese, era il dibattito franco, aperto e
ardente che aveva con i giovani di quella città. Ed è at-
traverso discussioni come queste, stavolta davanti a
giovani argentini, dall'altra parte del pianeta e già alla
fine della sua vita, che Mises poté finalmente dedicarsi
maggiormente a ciò che più lo appassionava: discute-
re, dialogare e difendere con vigore le idee di libertà
che tanto amava davanti a un pubblico di giovani co-
raggiosi.
Da giovane, durante le scuole medie e come era abitu-
dine a Vienna, Mises scelse come motto un verso della
letteratura classica. Il verso è tratto dall'Eneide di Vir-
gilio: Tu ne cede malis, sed contra audentior ito. Non cede-
re al male, ma affrontalo con ancor più audacia.
Nei momenti più difficili, Mises non ha mai dimentica-
to queste parole. Non ha mai perso il coraggio e non si
è mai stancato di sostenere quella che sapeva essere la
verità. Mises, fino alla fine dei suoi giorni, ha creduto
nelle parole contenute in queste Sei Lezioni: le idee e
solo le idee possono illuminare l'oscurità.
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È un immenso piacere e un motivo di grande orgoglio
per noi poter presentare quest’opera ai giovani lettori
italiani, soprattutto in questo momento difficile che
stiamo vivendo dall'inizio del 2020 e che già sembra un
incubo senza fine. Per me questo libro è più di una se-
rie di 6 lezioni introduttive all’economia: vi è anche
una settima lezione, una lezione di coraggio senza
compromessi e di difesa appassionata della libertà, a
qualsiasi costo.
Non cediamo mai, ma procediamo con ancora più co-
raggio.
Buona lettura!
Edson Netto Freitas Amaral
.

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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE
AMERICANA
Il presente libro rispecchia pienamente la posizione fondamenta-
le dell’autore, posizione per cui egli fu – ed è tuttora – ammira-
to dai suoi seguaci e criticato dagli avversari… benché ognuna
delle sei lezioni possa figurare separatamente come un saggio
indipendente, l’armonia della serie proporziona un piacere este-
tico pari a quello che deriva dalla contemplazione
dell’architettura di un edificio ben costruito.
Princeton, 1979 Fritz Machlup
Verso la fine del 1958, mio marito fu invitato dal Dr.
Alberto Benegas-Lynch a tenere una serie di lezioni in
Argentina, e io lo seguii. Questo libro contiene la tra-
scrizione delle parole pronunciate da mio marito a cen-
tinaia di studenti argentini durante quelle lezioni.
Arrivammo in Argentina alcuni anni dopo che Juan
Domingo Perón (1895-1974) fu costretto a lasciare il
Paese. Egli aveva governato quella nazione in una ma-
niera del tutto disastrosa e aveva rovinato le fonda-
menta economiche dell’Argentina. I suoi successori (in
primis Eduardo Lonardi, 1896-1956) non fecero molto
meglio. Il Paese era pronto a ricevere nuove idee, e mio
marito era altrettanto pronto a fornirle.
Le sue lezioni furono tenute in lingua inglese,
nell’enorme sala conferenze dell’Universidad de Buenos
Aires. In due stanze vicine le sue parole erano simulta-

21
neamente tradotte in lingua spagnola per gli studenti
che le ascoltavano con le cuffie. Ludwig von Mises
(1881-1973) parlò liberamente di capitalismo, sociali-
smo, interventismo, comunismo, fascismo, politica
economica e dei pericoli della dittatura.
Quei giovani che lo ascoltavano non sapevano molto
circa la liberà di mercato o la libertà individuale. Come
scrissi a proposito di questa occasione in My Years with
Ludwig von Mises: «se in quegli anni qualcuno avesse
osato attaccare il comunismo e il fascismo come fece
mio marito, la polizia sarebbe immediatamente inter-
venuta per arrestarlo, e l’assemblea sarebbe stata subi-
to interrotta».
La platea reagì come se una finestra fosse stata aperta e
l’aria fresca lasciata libera di circolare nelle aule. Egli
parlò senza consultare appunti. Come sempre, i suoi
pensieri furono guidati da poche parole scritte in un
pezzettino di carta. Egli sapeva esattamente ciò che vo-
leva dire, e usando termini abbastanza semplici riuscì
a comunicare le sue idee a una platea del tutto estranea
al suo lavoro, in modo tale che chiunque riuscisse a
capire esattamente ciò che stava dicendo.
Le lezioni furono registrate, e le bobine delle registra-
zioni furono successivamente trascritte da una segreta-
ria che parlava lo spagnolo. Ho trovato questo mano-
scritto dattilografato tra gli scritti postumi di mio mari-
to. Leggendo il testo, mi ricordai nitidamente
dell’entusiasmo singolare col quale gli argentini ave-
22
vano accolto le parole di mio marito. Mi sembrava, da
non addetta ai lavori, che queste lezioni, tenute in un
auditorio altrettanto “inesperto” nel Sud America, fos-
sero molto più facili da comprendere rispetto ai tantis-
simi scritti più teorici di Ludwig von Mises. Ebbi la
sensazione che esse contenessero talmente tanto mate-
riale prezioso, così tanti pensieri importanti per l’oggi
e per il domani, che ritenni fondamentale metterle a
disposizione del pubblico.
Dal momento che mio marito non ebbe l’occasione di
fare la revisione delle trascrizioni delle sue lezioni per
un’eventuale pubblicazione cartacea, questo compito
fu lasciato a me. Sono stata molto attenta a mantenere
intatto il significato di ogni frase, a non cambiare nulla
dei contenuti e a preservare tutte le espressioni che
mio marito spesso utilizzava e che sono così familiari
ai suoi lettori. Il mio unico contributo è stato quello di
mettere insieme le frasi e di togliere quelle parole che
ogni tanto si usano nel linguaggio orale informale.
Se il mio tentativo di convertire queste lezioni in un
libro è riuscito, ciò è dovuto solamente al fatto che, in
ogni frase, sentivo la voce di mio marito, lo sentivo
parlare. Egli era vivo per me, vivo nella maniera del
tutto chiara con la quale dimostrò i mali e i pericoli in-
siti in un governo con eccessivo potere; nella compren-
sibilità e lucidità con cui spiegò le differenze tra ditta-
tura e interventismo; nell’arguzia con cui parlò di im-
portanti personaggi politici; e nelle poche e brevi os-
23
servazioni con le quali riuscì a far rivivere i tempi pas-
sati.
Vorrei cogliere questa occasione per ringraziare il mio
buon amico George Koether per avermi assistita in
questo compito. La sua esperienza nel campo editoria-
le e la sua ottima conoscenza delle teorie di mio marito
hanno contribuito immensamente alla realizzazione di
questa opera.
Spero che queste lezioni vengano lette non solo dagli
studiosi, ma anche dai tanti ammiratori non economi-
sti di mio marito. Spero immensamente che questo li-
bro venga messo a disposizione dei lettori più giovani,
soprattutto degli studenti delle scuole e delle universi-
tà di tutto il mondo.
Margit von Mises
New York
giugno 1979

24
PRIMA LEZIONE

IL CAPITALISMO
Alcune espressioni utilizzate dalle persone sono spesso
fuorvianti. Quando si parla dei grandi uomini d’affari
contemporanei, ad esempio, vengono spesso chiamati
“il re della cioccolata”, “il re del cotone” o “il re delle
automobili”.
Quando le persone usano queste espressioni, dimo-
strano di non percepire alcuna differenza tra i moderni
capi d’industria e i re, i duchi e i signori feudali dei
tempi antichi. Ma la differenza è, in realtà, enorme, dal
momento che il “re della cioccolata” non regna su tutti,
non è assolutamente un sovrano, bensì un servitore.
Egli non regna su un territorio conquistato, indipen-
dente dal mercato, indipendente dai consumatori. Il re
della cioccolata – o il re dell’acciaio o il re delle auto-
mobili e ogni singolo re dell’industria contemporanea
– dipende dall’industria che gestisce e dai consumatori
che serve. Questo “re” deve mantenersi “nelle buone
grazie” dei suoi sudditi, i consumatori; egli perderà il
suo “regno” nel momento in cui non sarà più in grado
di offrire ai propri clienti un servizio migliore e più
economicamente conveniente dei servizi dei suoi con-
correnti.
Duecento anni fa, prima dell’avvento del capitalismo,
lo status sociale di un uomo era immutabile dall’inizio
25
e sino alla fine della sua vita; lo ereditava dai suoi an-
tenati, ed esso non era soggetto ad alcun mutamento.
Se fosse nato povero, sarebbe rimasto per sempre po-
vero, e se fosse nato ricco – un signore o un duca –
avrebbe conservato il suo ducato e la tutta la sua pro-
prietà per il resto della vita.
Per quel che riguarda la manifattura, le prime indu-
strie in quei tempi erano quasi esclusivamente al servi-
zio dei ricchi. La maggioranza delle persone (più del
99% della popolazione europea) lavorava la terra e non
veniva a contatto con le industrie urbane. Questo rigi-
do sistema della società feudale predominò nelle zone
più sviluppate d’Europa per centinaia di anni.

L’INIZIO DEL CAPITALISMO


Ciononostante, man mano che la popolazione rurale
aumentava, ci fu un surplus (o eccesso) di persone nelle
zone rurali. Tali “membri eccedenti”, senza terre o beni
ereditati, non riuscivano a trovare lavoro, nemmeno
nelle industrie manifatturiere. Il numero di questi
“emarginati” continuava a crescere e nessuno sapeva
esattamente cosa farne.
Essi erano, effettivamente e nel vero senso della parola,
“proletari”, ovvero dei derelitti disoccupati che il go-
verno poteva solo sistemare nelle case di lavoro o in
alloggi per i poveri. In alcune zone d’Europa, soprat-
26
tutto nei Paesi Bassi e in Inghilterra, essi divennero co-
sì numerosi che già nel diciottesimo secolo erano dive-
nuti una vera e propria minaccia per la preservazione
del sistema sociale in vigore.
Oggigiorno, quando si discute delle condizioni di Pae-
si come l’India o altri Paesi in via di sviluppo, bisogna
ricordarsi che nell’Inghilterra del diciottesimo secolo le
condizioni di vita erano molto peggiori. A quei tempi,
l’Inghilterra contava una popolazione di sei o sette mi-
lioni di persone, ma circa 1 milione – o addirittura 2
milioni – di queste erano semplicemente poveri emar-
ginati a cui il sistema sociale non riusciva a provvede-
re. Cosa fare di questi poveri era uno dei più grandi
problemi dell’Inghilterra del diciottesimo secolo.
Un altro problema considerevole era quello della man-
canza di materie prime. I britannici si trovarono seria-
mente a dover rispondere alla seguente domanda: cosa
faremo nel futuro, quando le nostre foreste non ci po-
tranno più dare la legna necessaria per le nostre indu-
strie e per il riscaldamento delle nostre case? I dirigenti
dello Stato si trovavano in una situazione disperata.
Gli uomini di governo non sapevano cosa fare, e la no-
biltà era assolutamente priva di idee per migliorare le
suddette condizioni.
Da questa grave situazione sociale emerse il capitali-
smo moderno. Vi erano alcuni tra questi emarginati,
tra questi poveri individui, che cercarono di organiz-
zarsi con altri per allestire piccoli negozi per la produ-
27
zione di alcuni beni. Questa fu un’innovazione. Tali
innovatori non produssero articoli costosi adatti alle
classi più abbienti; produssero beni più economica-
mente convenienti, adatti a soddisfare i bisogni di tutti.
Questa fu l’origine del capitalismo così come lo cono-
sciamo tutt’oggi. Fu l’inizio della produzione di massa, il
principio fondamentale dell’industria capitalistica.
Mentre le vecchie industrie manifatturiere che servi-
vano i ricchi erano esistite quasi che esclusivamente
per soddisfare i bisogni delle classi più abbienti, le
nuove industrie capitaliste iniziarono a produrre beni
che potevano essere acquistati da tutti. Si trattava di
una produzione di massa volta a soddisfare i bisogni
delle masse.
Questo è il principio fondamentale del capitalismo così
com’è oggi in tutti i Paesi nei quali vi è un sistema al-
tamente sviluppato di produzione di massa: le grandi
industrie, bersagli dei più fanatici attacchi da parte de-
gli attivisti di sinistra, producono quasi esclusivamente
per soddisfare i bisogni delle masse. Le imprese che
producono esclusivamente beni di lusso per i ricchi
non potranno mai raggiungere le dimensioni delle
grandi industrie. E oggi, sono coloro che lavorano nel-
le grandi fabbriche i principali consumatori dei beni
prodotti da quelle stesse fabbriche. È questa la diffe-
renza fondamentale tra i principi capitalistici di pro-
duzione e i principi feudali dei periodi precedenti.

28
IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE
Quando le persone presumono, o affermano, che esiste
una differenza tra i produttori e i consumatori dei beni
fabbricati dalle grandi industrie, commettono un gra-
vissimo errore. Nei grandi negozi americani – i cosid-
detti department stores americani – si sente spesso lo
slogan «il cliente ha sempre ragione» (o «the customer is
always right», in inglese). E questo cliente è lo stesso
individuo che produce nelle fabbriche i beni che sono
successivamente venduti nei negozi.
Anche coloro che pensano che il potere delle grandi
industrie sia enorme si sbagliano, poiché queste di-
pendono completamente dal consenso di quelli che
comprano i loro prodotti, ovvero, dei consumatori: an-
che la più grande impresa perde tutto il suo potere e
tutta la sua influenza economica quando perde i suoi
clienti.
Cinquanta o sessanta anni fa 1 si diceva che in quasi
tutti i Paesi capitalisti le compagnie ferroviarie erano
troppo grandi e troppo potenti; esse avevano costituito
un monopolio e sarebbe stato del tutto impossibile af-
frontarle. Si argomentava che, nel settore dei trasporti,
il capitalismo fosse già giunto a una fase nella quale
esso aveva distrutto sé stesso, poiché aveva eliminato

1 N.d.T.: l’autore fa riferimento ai primi anni del Novecento.

29
la competizione. Ciò che la gente ignorava era il fatto
che il potere delle ferrovie dipendeva dalla loro capaci-
tà di servire le persone meglio di qualsiasi altro meto-
do di trasporto.
Certamente sarebbe stato ridicolo provare a competere
con una di queste grandi compagnie ferroviarie co-
struendo una ferrovia parallela ad una già esistente,
visto che la vecchia linea era già sufficiente per soddi-
sfare la domanda esistente. Ma ben presto arrivarono
altri concorrenti. La libertà di concorrenza non signifi-
ca che uno può raggiungere il successo semplicemente
imitando o copiando precisamente ciò che qualcun al-
tro aveva già fatto. La libertà di stampa non significa
che uno ha il diritto di copiare ciò che un altro indivi-
duo ha scritto, e dunque avere per sé il successo che
tale individuo si è giustamente guadagnato per merito
personale. La libertà di stampa significa che si ha il di-
ritto di scrivere qualcosa di diverso. La libertà di con-
correnza nel settore ferroviario, ad esempio, significa
che si è liberi d’inventare qualcosa, di fare qualcosa,
che sfiderà le ferrovie e che potrà trascinarle in una si-
tuazione di fortissima competizione.
Negli Stati Uniti, la competizione fatta alle ferrovie –
nella forma di autobus, automobili, camion e aeroplani
– ha generato grandi difficoltà a quel settore e lo ha
quasi annientato del tutto, almeno per ciò che riguarda
il trasporto viaggiatori.
Lo sviluppo del capitalismo consiste nel diritto ricono-
30
sciuto a tutti di servire i consumatori nei migliori dei
modi e/o a prezzi economicamente più convenienti. E
questo metodo, questo principio, ha, in un lasso di
tempo comparativamente breve, trasformato l’intero
mondo. Ha reso possibile una crescita senza precedenti
della popolazione mondiale.
Nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, la terra poteva
garantire la sussistenza di soli sei milioni di persone
con un tenore di vita piuttosto basso. Oggi più di 50
milioni di persone godono di un tenore di vita molto
più alto addirittura di quello dei ricchi del diciottesimo
secolo. E la qualità di vita dell’Inghilterra odierna sa-
rebbe probabilmente ancora più alta, se non fosse per
l’immensa quantità di energia sprecata dai britannici
in quelle che furono considerate, sotto svariati punti di
vista, “avventure” politiche e militari del tutto evitabi-
li.
Questi sono i veri fatti che riguardano il capitalismo.
Pertanto, se un inglese – o, se vogliamo, un qualsiasi
individuo di un qualsiasi altro Paese del mondo – dice
oggi ai propri amici di essere un oppositore del capita-
lismo, esiste una maniera meravigliosa per risponder-
gli: “sei consapevole del fatto che la popolazione di
questo pianeta è ora dieci volte più alta rispetto a quel-
la dei periodi che hanno preceduto l’avvento del capi-
talismo; sai anche che tutti gli individui oggi godono
di un tenore di vita più elevato rispetto a quello dei
tuoi antenati. Ma come potresti sapere di essere uno
31
dei dieci che sarebbe vissuto in assenza del capitali-
smo? Il semplice fatto che tu sia in vita oggi è la prova
che il capitalismo ha avuto successo, a prescindere dal
valore che attribuisci alla tua vita stessa”.
Nonostante tutti i suoi benefici, il capitalismo è stato
perennemente e costantemente attaccato e criticato. È
necessario comprendere l’origine di questa avversione.
È un dato di fatto che l’odio per il capitalismo ebbe
origine non nelle masse, non tra i lavoratori, ma
nell’aristocrazia terriera – la nobiltà, sia piccola sia
grande, dell’Inghilterra e del continente europeo. Col-
pevolizzarono il capitalismo per un fenomeno che non
era molto piacevole per loro: agli inizi del diciannove-
simo secolo, gli stipendi più elevati che le industrie
pagavano ai propri lavoratori costrinsero la nobiltà ter-
riera a pagare stipendi ugualmente alti ai propri lavo-
ratori agricoli. L’aristocrazia attaccò le industrie criti-
cando il tenore di vita delle masse di lavoratori.

IL CAPITALISMO AUMENTA IL TENORE DI


VITA
Certamente, dal nostro punto di vista, il tenore di vita
dei lavoratori era estremamente basso; le condizioni
che vi erano durante l’inizio del capitalismo erano as-
solutamente sconvolgenti, ma non perché le industrie
capitalistiche appena nate avessero danneggiato i lavo-
32
ratori. Le persone che venivano assunte per lavorare
nelle fabbriche già sopravvivevano a un livello prati-
camente subumano.
La famosa e vecchia storia, ripetuta centinaia di volte,
secondo cui nelle fabbriche lavoravano donne e bam-
bini, che, prima di andare a lavorare in tali fabbriche,
vivevano in condizioni del tutto soddisfacenti, è una
delle più grandi bugie della storia.
Le madri che lavoravano nelle fabbriche non avevano
nulla con cui cucinare; non lasciarono le loro case e le
loro cucine per andare a lavorare nelle fabbriche, al
contrario, andarono nelle fabbriche perché non aveva-
no cucine, e anche se avessero avuto una cucina non
avrebbero comunque avuto del cibo da potervi prepa-
rare.
I bambini non erano arrivati in fabbrica da accoglienti
asili. Stavano morendo di fame. E tutte le argomenta-
zioni a proposito del cosiddetto orrore innominabile
della prima fase del capitalismo possono essere confu-
tate con un singolo dato statistico: precisamente in
quegli anni in cui si sviluppò il capitalismo inglese,
precisamente nell’epoca chiamata Rivoluzione indu-
striale in Inghilterra, dal 1760 al 1830, la popolazione
dell’Inghilterra raddoppiò, il che significa semplice-
mente che centinaia o migliaia di bambini – che sareb-
bero sicuramente morti in altri tempi – riuscirono a
sopravvivere e a crescere fino a diventare uomini e
donne.
33
Non v’è dubbio che le condizioni dei periodi preceden-
ti fossero del tutto insoddisfacenti. Furono le imprese
capitaliste a migliorarle. Furono precisamente quelle
prime fabbriche e industrie a provvedere ai bisogni dei
propri lavoratori, sia direttamente sia indirettamente,
per mezzo dell’esportazione dei prodotti e
l’importazione di generi alimentari e materie prime da
altri Paesi. Ancora una volta e reiteratamente, i primi
storici del capitalismo hanno – e difficilmente si può
usare una parola più leggera – falsificato la storia.
Un aneddoto che a molti piaceva raccontare, molto
probabilmente inventato, aveva come protagonista Be-
njamin Franklin (1706-1790). Secondo la storia, Ben
Franklin andò a visitare un cotonificio in Inghilterra, e
il proprietario del mulino gli disse, tutto orgoglioso:
«Guardi, questi sono i prodotti di cotone che inviere-
mo in Ungheria». Benjamin Franklin, guardandosi in-
torno e notando che gli operai indossavano abiti di
pessima fattura, disse: «Perché Lei non produce anche
per i suoi lavoratori?»
Ma le esportazioni menzionate dal proprietario del
mulino volevano dire che lui effettivamente produceva
per i suoi operai, perché l’Inghilterra doveva importare
tutte le sue materie prime. Non vi era cotone né in In-
ghilterra né nell’Europa continentale. In Inghilterra vi
era una persistente scarsità di generi alimentari, e per-
ciò essi dovevano essere importati dalla Polonia, dalla
Russia e dall’Ungheria. Tali esportazioni, pertanto,
34
non erano altro che il pagamento per le importazioni
di generi alimentari che rendevano possibile la so-
pravvivenza della popolazione britannica.
Molteplici esempi tratti dalla storia di quei periodi
possono illustrare l’atteggiamento della piccola nobiltà
e dell’aristocrazia nei confronti dei lavoratori. Vorrei
citare soltanto due esempi. Uno è il famoso sistema
“Speenhamland” britannico. Secondo tale sistema, il go-
verno britannico avrebbe dovuto pagare a tutti i lavo-
ratori che non ricevevano il salario minimo (il cui im-
porto veniva determinato dal governo) una somma
equivalente alla differenza tra il salario che percepiva-
no e quello minimo. Questo sistema ha permesso alla
piccola nobiltà di evitare di pagare stipendi più elevati.
Essi potevano pagare i tradizionalmente bassi stipendi
agricoli, e il governo li integrava, facendo sì che i lavo-
ratori non volessero abbandonare i posti di lavoro ru-
rali per cercare impiego nelle fabbriche urbane.
Ottant’anni più tardi, dopo che il capitalismo si era già
diffuso anche nell’Europa continentale, l’aristocrazia
terriera reagì ancora una volta al nuovo sistema pro-
duttivo. In Germania, gli Junker prussiani, avendo
perso molti lavoratori a causa degli stipendi più elevati
nelle fabbriche capitaliste, inventarono un termine
speciale per descrivere il problema: “fuga – o, letteral-
mente, volo – dalle campagne” – Landflucht. E nel Par-
lamento tedesco si discusse su come combattere questo
male – o almeno, era così che veniva qualificata tale si-
35
tuazione dall’aristocrazia terriera.
Il principe Bismarck, il famoso cancelliere del Reich te-
desco, durante una conferenza disse: «A Berlino ho in-
contrato un uomo che una volta lavorava nella mia fat-
toria e gli ho chiesto: ‘perché hai lasciato la fattoria,
perché sei andato dalla campagna, perché vivi ora a
Berlino?’». E, secondo Bismarck, questo uomo rispose:
«Voi non avete al villaggio un piacevole Biergarten co-
me quello che abbiamo qui a Berlino, un posto dove ci
si può sedere, bere della birra e ascoltare musica».
Questa è una storia raccontata dal punto di vista del
principe Bismarck, il datore di lavoro. Non rispecchia-
va, certamente, il punto di vista di tutti i suoi dipen-
denti. Essi andarono a lavorare nelle fabbriche perché
l’industria offriva loro stipendi più elevati e aumenta-
va il loro tenore di vita a livelli senza precedenti.
Oggi, nei Paesi capitalisti, vi è una differenza relativa-
mente piccola tra la “vita standard” delle cosiddette
classi alte e classi basse; entrambe hanno accesso a ge-
neri alimentari, a vestiario e a un posto in cui vivere.
Nel diciottesimo secolo e nei secoli precedenti la situa-
zione non era affatto così, la differenza tra un uomo
della classe media e uno della classe bassa era che il
primo aveva delle scarpe e il secondo non le aveva.
Negli Stati Uniti di oggi la differenza tra un ricco e un
povero spesso è quella che esiste tra una Cadillac e una
Chevrolet. La Chevrolet può anche essere acquistata di
seconda mano, ma fondamentalmente svolge le stesse
36
funzioni dell’altra automobile: il proprietario della
Chevrolet può, esattamente come quello della Cadillac,
spostarsi da un punto a un altro. Più del 50% delle per-
sone negli Stati Uniti vive in case o in appartamenti di
proprietà.
Gli attacchi al capitalismo – soprattutto quelli diretti
agli stipendi elevati – si basano sulla premessa sbaglia-
ta secondo la quale i salari vengono pagati, in linea di
massima, da persone diverse da quelle che lavorano
nelle fabbriche. Ecco, è giusto che gli economisti e gli
studiosi di teorie economiche facciano una distinzione
tra il lavoratore e il consumatore, e che essi vengano
considerati due gruppi diversi. Ma il fatto è che ogni
consumatore deve, in un modo o nell’altro, guada-
gnarsi i soldi che eventualmente potrà spendere, e che
l’immensa maggioranza dei consumatori è composta
precisamente dagli stessi individui che lavorano come
operai nelle industrie che producono i beni che ver-
ranno successivamente acquistati da loro.
L’ammontare degli stipendi nel sistema capitalista non
viene stabilito da una classe di persone diversa da
quella alla quale appartengono gli individui che gua-
dagnano tali stipendi; si tratta delle stesse persone. Non
è una corporazione cinematografica di Hollywood che
paga il salario a una star del cinema; sono le persone
che pagano il biglietto d’ingresso al cinema. E non è un
imprenditore che organizza una lotta di boxe a pagare
gli enormi premi per la partecipazione dei famosi e
37
grandi campioni; tale premio viene pagato dalle per-
sone che acquistano il biglietto per assistere alla lotta.
Per mezzo della distinzione tra datore di lavoro e di-
pendente, si crea una distinzione nella teoria economi-
ca, ma non si tratta di una distinzione rilevante nella
vita reale; nella realtà, il datore di lavoro e il dipenden-
te sono, in ultima analisi, la medesima persona.
Vi sono persone in diversi Paesi che considerano molto
ingiusto che un uomo che deve mantenere una fami-
glia con svariati figli percepisca lo stesso stipendio di
un uomo che deve provvedere solo a sé stesso. Ma la
questione non è esattamente se l’imprenditore debba
assumersi delle responsabilità maggiori in base alla
dimensione della famiglia del dipendente.
La domanda che veramente bisogna porsi in questo
caso è: tu, in quanto individuo, saresti disposto a paga-
re di più per un determinato bene, come, ad esempio,
una pagnotta, se ti venisse detto che l’uomo che ha
prodotto questa pagnotta ha sei figli? Un individuo
onesto certamente risponderebbe di no e aggiungereb-
be: «In teoria lo farei, ma se costasse di meno io prefe-
rirei comprare il pane prodotto da un uomo senza figli
a suo carico».
Il fatto è che se i consumatori non pagano al datore di
lavoro abbastanza denaro per permettergli di pagare i
suoi dipendenti, diventa impossibile per costui rima-
nere aperto.

38
Il sistema capitalista fu denominato “capitalismo” non
da un “fan” del sistema, ma da un individuo che lo
considerava il peggiore di tutti i sistemi in tutta la Sto-
ria, il più grande male che avesse mai colpito
l’umanità. Questo uomo era Karl Marx (1818-1883).
Ciononostante, non vi è alcuna ragione per rifiutare il
termine coniato da Marx, perché esso descrive con
molta chiarezza l’origine di tutti gli immensi sviluppi e
progressi sociali portati dal sistema capitalista. Questi
progressi furono il risultato dell’accumulazione di ca-
pitale; si basavano sul fatto che le persone, di regola,
non consumano esattamente tutto ciò che producono;
che le persone, invece, risparmiano – e investono – una
parte di ciò che hanno prodotto.
Vi è un grande insieme di interpretazioni sbagliate sul
problema e – nel corso di queste lezioni – avrò
l’opportunità di affrontare i più fondamentali equivoci
che esistono sull’accumulazione del capitale,
sull’utilizzo del capitale e sui vantaggi universali che
derivano da questo uso. Nelle lezioni sull’investimento
estero e sull’inflazione – uno dei problemi più critici
della politica odierna – affronterò nello specifico la
questione capitalismo. Voi sapete, certamente, che
l’inflazione esiste non solo in questo Paese. È un pro-
blema che attualmente riguarda il mondo intero.

39
IL RISPARMIO CAPITALISTICO AIUTA I
LAVORATORI
Un fatto spesso ignorato sul capitalismo è il seguente: i
risparmi rappresentano benefici per tutti coloro che
sono ansiosi di produrre o di guadagnare uno stipen-
dio. Quando un individuo ha accumulato una deter-
minata quantità di denaro – mettiamo mille dollari – e,
anziché spenderli, decide di affidare i suoi soldi a una
banca o a un’azienda d’assicurazioni, quel denaro va a
finire nelle mani di un imprenditore, un uomo d’affari,
e permette a costui di iniziare e realizzare progetti che
fino a un giorno prima non avrebbe potuto cominciare,
giacché il capitale necessario non era disponibile.
Cosa farà ora l’imprenditore col capitale addizionale?
La prima cosa che dovrà fare sarà assumere dei lavora-
tori e acquistare materie prime – così facendo, costui
creerà una domanda aggiunta di lavoratori e materie
prime, e ciò contribuirà a generare una tendenza di
aumento degli stipendi e del prezzo delle materie pri-
me. Molto prima che il risparmiatore o l’imprenditore
potranno ottenere profitto da tutte queste operazioni,
il disoccupato, il produttore di materie prime,
l’agricoltore e il lavoratore dipendente avranno tutti
avuto la loro parte di questi benefici generati dal ri-
sparmio iniziale.
Il tempo necessario affinché l’imprenditore percepisca
il guadagno derivante dal progetto precedentemente
40
ideato dipenderà sia dalla situazione futura del merca-
to sia dalla sua abilità d’intuire e anticipare corretta-
mente quale sarà esattamente tale situazione futura.
Ma i dipendenti, così come i produttori di materie
prime, ricevono i benefici immediatamente. Molto è
stato detto, trenta o quaranta anni fa, della cosiddetta
“politica dei salari” di Henry Ford (1863-1947).
Una delle realizzazioni più grandi del Sig. Ford fu
quella di pagare ai suoi operai salari più alti rispetto a
quelli che percepivano i lavoratori nelle altre industrie
e fabbriche. La sua “politica dei salari” fu descritta
come un’invenzione, ciononostante non è sufficiente
dire che questa nuova politica “inventata” fu il risulta-
to della generosità o liberalità del Sig. Ford. Un nuovo
settore di un business, o una nuova fabbrica che svolge
le sue funzioni in un settore già esistente, deve attrarre
i lavoratori da altri posti di lavoro, da altre regioni del
Paese, addirittura da altri Paesi. E l’unico modo per
ottenere ciò è offrire agli operai salari più elevati. Que-
sto è ciò che accadde nei primi giorni del capitalismo,
ed è ciò che si verifica ancora oggi.
Quando i manufatturieri della Gran Bretagna iniziaro-
no a produrre articoli in cotone, essi pagavano ai loro
operai salari più elevati rispetto a quelli che percepi-
vano in precedenza. Evidentemente, una percentuale
considerevole di questi nuovi operai non aveva mai
guadagnato qualcosa prima e perciò era disposta ad
accettare praticamente qualsiasi cosa le fosse offerta.
41
Ma dopo un po’ di tempo – quando il capitale si accu-
mulò in maniera progressiva e costante e le imprese
diventarono sempre più numerose – l’ammontare de-
gli stipendi si elevò, e il risultato fu l’aumento senza
precedenti della popolazione britannica di cui ho par-
lato prima.
La descrizione spregevole del capitalismo fatta da al-
cune persone, in cui esso veniva inteso come un siste-
ma ideato per rendere i ricchi più ricchi e i poveri più
poveri, è sbagliata dal principio alla fine. Le tesi marxi-
ste riguardanti l’avvento del socialismo si basavano
sulla premessa secondo la quale gli operai diventavano
sempre più poveri, che le masse diventavano sempre
più indigenti, e che eventualmente la ricchezza di un
Paese si sarebbe concentrata nelle mani di pochi o ad-
dirittura nelle mani di un singolo uomo. E, di conse-
guenza, le masse di operai impoveriti finalmente si sa-
rebbero ribellate e avrebbero espropriato le ricchezze
degli abbienti proprietari. Secondo questa dottrina di
Marx, non vi può essere alcuna opportunità, alcuna
possibilità all’interno del sistema capitalista per il mi-
glioramento delle condizioni dei lavoratori.
Nel 1864, parlando dinanzi all’International Wor-
kingsmen’s Association in Inghilterra, Marx disse che la
convinzione secondo cui i sindacati potrebbero miglio-
rare le condizioni dei lavoratori era «assolutamente
sbagliata». La politica sindacale di chiedere stipendi
più elevati e riduzioni nell’orario lavorativo era, per
42
lui, “conservatrice” – naturalmente il termine “conser-
vatore” era il più dispregiativo in assoluto usato da
Marx. Egli suggerì ai sindacati di attuare nuovo obiet-
tivo, un obiettivo rivoluzionario: essi avrebbero dovuto
«abolire del tutto il sistema salariale», sostituendo il
sistema di proprietà privata con il “socialismo” – pro-
prietà statale dei mezzi di produzione.
Se guardiamo la storia del mondo, in particolare la sto-
ria dell’Inghilterra dal 1865 ad oggi, notiamo che Marx
si è sbagliato su ogni singolo aspetto. Non esiste un
singolo Paese capitalista occidentale nel quale le con-
dizioni delle masse non siano migliorate in una manie-
ra del tutto senza precedenti. Tutti questi progressi
degli ultimi ottanta o novant’anni sono stati raggiunti
a dispetto dei pronostici e delle previsioni di Karl Marx.
Ciò si deve al fatto che, per i socialisti marxisti, le con-
dizioni dei lavoratori non sarebbero mai potute mi-
gliorare. Essi seguivano una falsa teoria, la famosa
“Legge di Ferro dei Salari” – una legge che stabiliva
che gli stipendi dei lavoratori, nel sistema capitalista,
non avrebbero mai superato l’ammontare di denaro
necessario affinché essi potessero mantenersi in vita
per essere poi in grado di lavorare all’industria.
I marxisti formularono la loro teoria in questa maniera:
se i salari dei lavoratori si alzano, e superano la soglia
della sussistenza, i lavoratori fanno più figli; e questi
figli, quando entrano a far parte della forza di lavoro,
fanno aumentare il numero di lavoratori fino a un
43
punto tale che i salari diminuiscono, ritornando ancora
una volta al livello di sussistenza – quel livello così
basso che serve a malapena a garantire che la popola-
zione lavorativa non si estingua. Ma questa idea di
Marx, e di tanti altri socialisti, si basa su un concetto
dell’operaio che è precisamente uguale a quello che i
biologi utilizzano – ragionevolmente – nello studio
della vita degli animali. La vita dei topi, ad esempio.
Se si aumenta la quantità di cibo disponibile a degli
organismi animali o a dei microbi, conseguentemente
un numero maggiore di essi sopravvivrà. E se si riduce
la quantità di cibo, si ridurrà il numero di organismi e
microbi in generale. L’uomo, invece, è diverso. Anche
il lavoratore – a dispetto del fatto che i marxisti non lo
riconoscano – ha bisogni umani che vanno oltre il cibo
e la riproduzione della propria specie. Un aumento
reale dei salari comporta non solo una crescita demo-
grafica, ma anche, e innanzitutto, un aumento del te-
nore di vita medio. Ecco il motivo per cui oggi abbia-
mo un tenore di vita più elevato nell’Europa occiden-
tale e negli Stati Uniti rispetto a quello delle nazioni in
via di sviluppo, come, ad esempio, quelle del continen-
te africano.
Dobbiamo capire, tuttavia, che questo elevato tenore di
vita dipende dalla disponibilità di capitale. Ciò spiega
la differenza tra le condizioni di vita negli Stati Uniti e
quelle in India; i moderni metodi per combattere le
malattie infettive furono introdotti in India – almeno
44
parzialmente – e l’effetto fu un aumento senza prece-
denti della popolazione; ciononostante, siccome questo
aumento demografico non fu accompagnato da un
aumento nella disponibilità di capitali investiti, il risul-
tato fu un aumento della povertà. Un Paese diventa più
prospero in proporzione all’aumento del capitale investito
pro capite.
Spero di avere l’opportunità di approfondire queste
tematiche e questi problemi nelle lezioni successive, e
di poterli chiarire definitivamente, perché alcuni ter-
mini e definizioni – come, ad esempio, il “capitale in-
vestito pro capite” – richiedono una spiegazione con-
siderevolmente più approfondita.
Dovete ricordare che, nell’ambito delle politiche eco-
nomiche, non esistono miracoli. Avrete letto nei gior-
nali e avrete sicuramente seguito alcune conferenze sul
cosiddetto “miracolo economico italiano”2 – ossia della
ripresa economica dell’Italia dopo la sua sconfitta e la
sua distruzione nella Seconda guerra mondiale. Ma
non è stato affatto un miracolo. È stata la semplice ap-
plicazione dei principi dell’economia di libero mercato, dei
metodi del capitalismo, anche se essi non sono stati se-
guiti del tutto e/o fino in fondo. Ogni singolo Paese
può sperimentare il medesimo “miracolo” della ripre-

2 N.d.T.: nelle lezioni originali l’autore parla del miracolo economico tede-

sco, ma è sostituibile senza problemi con quello italiano, trattandosi dello


stesso periodo e delle stesse condizioni.

45
sa economica, ma devo ribadire che la ripresa econo-
mica non è assolutamente derivata dal miracolo; essa
nasce dall’adozione – e ne è il risultato – di politiche
economiche salde.

46
SECONDA LEZIONE

IL SOCIALISMO
Mi trovo qui, nella città di Buenos Aires, in qualità di
invitato del Centro de Difusión Economía Libre 3 (in italia-
no: Centro di Diffusione Economia Libera). Che cos’è
l’economía libre? Cosa significa questo sistema di libertà
economica? La risposta è semplice: si tratta
dell’economia di mercato, si tratta del sistema nel qua-
le la cooperazione tra individui nella divisione sociale
del lavoro viene raggiunta grazie al mercato. Questo
mercato non è un posto; è un processo, è il modo in cui,
tramite acquisti e vendite, tramite la produzione e il
consumo, gli individui contribuiscono al funzionamen-
to sistemico della società.
Quando parliamo di questo sistema d’organizzazione
economica – l’economia di mercato – abitualmente
usiamo il termine “libertà economica”. Molto spesso, le
persone fraintendono ciò che tale termine significa, e
pensano che la libertà economica sia un qualcosa di
sostanzialmente separato dalle altre libertà, e che que-
ste altre libertà – ritenute molto più importanti di quel-
la economica – possano essere preservate anche in as-
senza di quella.

3 Successivamente denominato Centro de Estudios sobre la Libertad


(Centro di Studi sulla Libertà).

47
Questo è il significato di libertà economica: che
l’individuo si trova in una posizione di essere capace
di scegliere in che modo vorrebbe integrarsi nella socie-
tà. L’individuo può scegliere la sua carriera, è libero di
fare esattamente ciò che desidera fare.
Certamente questo non dev’essere inteso alla luce del
significato che ormai molti attribuiscono alla parola
libertà; tale parola va intesa, invece, nel senso che, at-
traverso la libertà economica, l’individuo viene libera-
to dalle sue condizioni naturali. In natura, non c’è nul-
la che possa essere effettivamente nominato “libertà”;
esiste solo la regolarità delle leggi della natura, alle
quali l’uomo deve obbedire se vuole ottenere qualcosa.

LA LIBERTÀ NELLA SOCIETÀ


Quando si usa la parola libertà nell’ambito degli esseri
umani, si parla sostanzialmente della libertà all’interno
della società. Tuttavia, ancora oggi, le libertà sociali
vengono considerate da tante persone come indipen-
denti l’una dall’altra. Coloro che attualmente si dichia-
rano “liberals” lottano per politiche che sono precisa-
mente l’opposto di quelle che i liberali del diciannove-
simo secolo sostenevano nei propri programmi politici.
I cosiddetti liberals di oggi sostengono un’idea abba-
stanza popolare: secondo loro, le libertà di parola, di
pensiero, di stampa, di religione e di diritto a un giusto
48
processo prima della detenzione possono essere ade-
guatamente preservate anche in assenza di ciò che vie-
ne chiamata libertà economica. Non si rendono conto
che, in un sistema nel quale il mercato è assente e nel
quale spetta al governo la gestione di ogni singola co-
sa, tutte le altre libertà sono completamente illusorie –
anche se vengono trasformate in leggi e scritte nelle
costituzioni.
Prendiamo una di queste libertà, la libertà di stampa.
Se il governo possiede tutte le tipografie, esso potrà
determinare cosa verrà stampata o meno. E se il go-
verno possiede tutte le tipografie e determina ciò che
deve essere stampato o meno, allora è evidente che la
possibilità di pubblicare le argomentazioni contrarie
alle idee del governo diventa praticamente inesistente.
La libertà di stampa svanisce. Ed è così per tutte le al-
tre libertà.
In un’economia di mercato, l’individuo ha la libertà di
scegliere la carriera che desidera perseguire, di sceglie-
re il proprio modo di integrarsi nella società. Ma un
sistema socialista non funziona così: la sua carriera
verrà stabilita da un decreto del governo. Il governo
può ordinare a persone che per qualche motivo gli ri-
sultino sgradite – o anche a persone che non vuole che
vivano in una determinata regione – che si trasferisca-
no in altre regioni o località. E il governo si trova sem-
pre nella posizione di essere in grado di giustificare e
spiegare tali procedimenti semplicemente dichiarando
49
che il piano governativo prevedeva la presenza di que-
sto eminente cittadino a cinquemila chilometri dal
luogo in cui egli sarebbe potuto risultare sgradito agli
uomini al potere.
È vero che la libertà di cui può godere un uomo in
un’economia di mercato non è una libertà perfetta dal
punto di vista metafisico. Ma non esiste la libertà per-
fetta. La libertà significa qualcosa solo all’interno del
framework della società. Gli scrittori che parlavano di
“diritto naturale” nel diciottesimo secolo – soprattutto
Jean Jacques Rousseau (1712-1778) – credevano che un
tempo, nel remoto passato, gli uomini godevano di ciò
che è stata chiamata libertà “naturale”. Ma in quei re-
moti tempi, gli individui non erano assolutamente li-
beri, erano invece alla mercé di tutti quelli che erano
più forti di loro. Le famose parole di Rousseau
(«l’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene»)
possono anche suonare bene alle orecchie, ma l’uomo
veramente non nasce libero. L’uomo quando nasce è
una creatura debolissima. Senza la protezione dei suoi
genitori, senza la protezione proporzionata dalla socie-
tà ai suoi genitori, egli non riuscirebbe a preservare la
propria vita.
La libertà nella società significa che un individuo di-
pende dagli altri esattamente come gli altri dipendono
da lui. La società nella quale vige l’economia di merca-
to, nella quale esistono le condizioni de “l’economía li-
bre”, è un sistema in cui ognuno provvede ai bisogni e
50
alle necessità dei propri concittadini e, in cambio, vie-
ne servito da tutti. Le persone ritengono che
nell’economia di mercato vi siano capi che si manten-
gono indipendentemente dalla buona volontà e dal so-
stegno degli altri individui. Credono che i capitani
dell’industria, gli uomini d’affari e gli imprenditori
siano i veri padroni del sistema economico. Ma questa
non è altro che un’illusione. I veri padroni del sistema
economico sono i consumatori. E se i consumatori de-
cidono di non dare più il loro sostegno economico a un
settore di un determinato business, questi imprenditori
saranno costretti o ad abbandonare la rilevante posi-
zione previamente occupata nel sistema economico o a
adeguare le proprie azioni ai desideri e alle richieste
dei consumatori.
Una delle più famose sostenitrici del comunismo fu
Lady Passfield, conosciuta sia come Beatrice Potter (il
suo nome da nubile) sia come moglie di Sidney Webb.
Era figlia di un ricco uomo d’affari e, da giovane, ave-
va lavorato come segretaria del padre. Nelle sue me-
morie scrisse: «nell’impresa di mio padre tutti doveva-
no obbedire agli ordini impartiti da lui, essendo egli il
capo. Era l’unico che dava gli ordini, ma a lui nessuno
dava ordini». Questa è una visione considerevolmente
limitata. Suo padre veramente riceveva ordini dai con-
sumatori, dai compratori dei suoi prodotti. Purtroppo,
ella non poté vedere questi ordini; non poté vedere ciò
che effettivamente avveniva in un’economia di merca-

51
to, perché si interessava soltanto degli ordini che veni-
vano dati all’interno dell’ufficio e della fabbrica di suo
padre.
Ogni volta che guardiamo i problemi economici dob-
biamo tenere in mente le parole del grande economista
francese Frédéric Bastiat (1801-1850), il quale nominò
uno dei suoi brillanti saggi “Ce qu’on voit et ce qu’on ne
voit pas” (in italiano, “Ciò che si vede e ciò che non si
vede”, pubblicato dall’Istituto Liberale). Per poter
comprendere il funzionamento di un sistema economi-
co dobbiamo considerare e analizzare non solo quei
fenomeni che si possono vedere chiaramente, ma an-
che quei fenomeni che non possono essere percepiti
direttamente. Per esempio, un ordine impartito da un
capo a un fattorino può essere sentito da tutti coloro
che sono presenti in quella stanza. Ciò che non si può
sentire, invece, sono gli ordini impartiti dai consuma-
tori al capo.

COMANDANO I CONSUMATORI
Il fatto è che, nel sistema capitalistico, i veri padroni
sono i consumatori. Il sovrano non è lo Stato, sono le
persone. E la prova di ciò è il fatto che gli individui
hanno il diritto di comportarsi in maniera folle. Questo è il
privilegio del sovrano. Egli ha il diritto di commettere
errori e nessuno può impedirglielo; ma, certamente,

52
egli dovrà successivamente pagare per i suoi errori.
Quando diciamo che il consumatore è supremo o che il
consumatore è sovrano non intendiamo dire che egli è
un individuo in grado di sapere ogni singola volta ciò
che è meglio per sé stesso. I consumatori spesso acqui-
stano o consumano beni che non dovrebbero comprare
o consumare.
Nonostante ciò, è assolutamente falsa la nozione se-
condo cui un sistema di capitalismo di Stato, per mez-
zo del controllo dei consumi, può impedire alle perso-
ne di fare del male a loro stesse. L’idea di un governo
come un’autorità paternalista, come un guardiano
universale, è l’idea di coloro che difendono il sociali-
smo.
Alcuni anni fa, negli Stati Uniti, il governo ha provato
ciò che è stato chiamato “un nobile esperimento”.
Questo nobile esperimento era una legge che proibiva
l’acquisto e la vendita di bevande alcoliche. È sicura-
mente vero che molti individui bevono troppo brandy
e troppo whiskey, e che questo comportamento può
generare danni alla loro salute. Alcune autorità negli
Stati Uniti sono contrarie anche al fumo. E certamente
vi sono molte persone che fumano troppo e che fuma-
no anche quando evidentemente sarebbe meglio per
loro astenersi dal farlo. Questi dilemmi ci fanno pensa-
re a una questione che va molto oltre la discussione
economica: ci dimostrano ciò che veramente vuol dire
libertà.
53
Si riconosce, come premessa, che è buono evitare che le
persone si facciano del male tramite il consumo ecces-
sivo di bevande alcoliche o di sigarette. Ma una volta
ammessa questa premessa altri potrebbero dire: il cor-
po è tutto? Non è forse molto più importante la mente
di un individuo? Non è forse la mente dell’individuo il
vero dono umano, la reale qualità umana? Se diamo al
governo il diritto di determinare le sostanze che il cor-
po umano può assumere, di determinare se uno può
fumare/bere o meno, allora non si può proprio conte-
stare coloro che dicono: «Più importanti del corpo so-
no la mente e l’anima, e l’uomo fa molto più male a sé
stesso quando legge cattivi libri, quando ascolta pes-
sima musica e quando guarda scadenti film. Pertanto,
è un dovere del governo impedire alle persone di
commettere questi errori».
Come sapete, per centinaia di anni i governi e le auto-
rità credettero che ciò fosse davvero un loro compito.
Ciò non è accaduto solo in ere lontane; non molto tem-
po fa vi è stato un governo in Germania che ha consi-
derato fosse un dovere governativo quello di distin-
guere tra dipinti buoni e cattivi – il che, naturalmente,
significava che la distinzione tra di essi spettava a un
uomo che, in gioventù, aveva fallito all’esame
d’ammissione all’Accademia d’Arte di Vienna; un con-
cetto di buono e cattivo, quindi, che dipendeva dal
punto di vista di un noto pittore di cartoline postali,
Adolf Hitler (1889-1945). Ed è diventato illegale soste-

54
nere punti di vista sull’arte e sui dipinti che non fosse-
ro armonici rispetto a quelli del Führer Supremo.
Una volta ammesso che è compito del governo stabili-
re dei controlli sul consumo di alcool, cosa si potrebbe
rispondere a coloro che dicono che il controllo dei libri
e delle idee è considerevolmente più importante?
Libertà significa, in realtà, libertà di commettere errori.
Questo è ciò che dobbiamo comprendere. Possiamo
essere altamente critici quando giudichiamo ciò che i
nostri cari concittadini fanno con i loro soldi o addirit-
tura in che modo vivono la loro vita. Possiamo ritenere
che ciò che fanno sia assolutamente dannoso e sbaglia-
to, ma in una società libera vi sono molteplici maniere
attraverso cui le persone possono esprimere le loro
opinioni su come dovrebbero cambiare stile di vita i
loro cari concittadini.
Possono scrivere libri, possono scrivere articoli, posso-
no tenere delle conferenze e possono addirittura predi-
care agli angoli delle strade, se vogliono – ed è ciò che
effettivamente succede in svariati Paesi. Ma non devo-
no cercare di comandare su altri individui, impedendo
loro di fare determinate cose o di agire in un certo mo-
do semplicemente perché non vogliono che questi ab-
biano la libertà di farlo.

55
LA SOCIETÀ FONDATA SULLO STATUS
Questa è la differenza tra schiavitù e libertà. Lo schia-
vo deve fare ciò che il suo superiore gli ordina di fare,
ma il cittadino libero – e questo è ciò che significa li-
bertà – si trova nella posizione di poter scegliere il
proprio piano di vita. È possibile che in questo sistema
capitalistico vengano commessi abusi e che il proprio
sistema sia vittima di abusi da parte di alcuni indivi-
dui. È senza dubbio possibile fare cose che non do-
vrebbero assolutamente essere fatte. Ma se queste cose
vengono approvate dalla maggioranza delle persone,
un individuo contrario può sempre trovare un modo
per provare a far cambiare idea ai suoi cari concittadi-
ni. Può cercare di persuaderli, di convincerli, ma non
può costringerli usando la forza, la forza del potere di
polizia governativo.
Nell’economia di mercato ognuno provvede ai bisogni
dei propri concittadini provvedendo a sé stesso. Que-
sto avevano in mente gli autori liberali del diciottesimo
secolo quando parlavano dell’armonia tra i giusti inte-
ressi di tutti i gruppi e gli individui della popolazione.
E fu proprio questa dottrina dell’armonia tra gli inte-
ressi di tutti a essere attaccata dai socialisti. Essi parla-
vano di un “inconciliabile conflitto d’interessi” tra i
molteplici gruppi.
Cosa significa tutto ciò? Quando Karl Marx – nel pri-
mo capitolo del Manifesto comunista, un piccolo pam-
56
phlet che inaugurò il suo movimento socialista – affer-
mò che esisteva un conflitto inconciliabile tra le classi,
egli non riuscì ad illustrare la sua tesi se non con
esempi tratti dalle condizioni della società precapitali-
stica. Nelle ere precapitalistiche, la società era divisa in
diversi gruppi che possedevano uno status che era ere-
ditario ed equivalente a ciò che in India vengono
chiamate “caste”. In una società basata sullo status, un
uomo non nasceva, ad esempio, francese; egli nasceva
membro dell’aristocrazia francese, della borghesia
francese o della plebe francese. Durante la maggior
parte del Medioevo l’uomo comune era un semplice
servo della gleba. E la servitù della gleba, in Francia,
scomparve completamente solamente dopo la Rivolu-
zione americana. In altre parti d’Europa durò per mol-
to più tempo.
Ma la forma peggiore di servitù della gleba esisté – e
continuò ad esistere anche dopo l’abolizione della
schiavitù – nelle colonie britanniche d’oltreoceano.
L’individuo ereditava il suo status dai propri genitori e
questo rimaneva immutabile per tutta la sua vita. Egli
lo trasferiva ai propri figli. Ogni gruppo aveva privile-
gi e svantaggi. I ceti più elevati avevano solo privilegi,
mentre quelli più bassi solo svantaggi. E un individuo
non poteva scappare agli svantaggi imposti per legge
al suo gruppo d’appartenenza se non con la lotta poli-
tica contro le altre classi. In queste condizioni, si po-
trebbe dire che vi era un “inconciliabile conflitto

57
d’interessi tra gli schiavisti e gli schiavi”, perché ciò
che gli schiavi volevano era liberarsi dalla propria
schiavitù, dal loro essere schiavi. Ciò significava,
dall’altro lato, una perdita per i loro proprietari. Per-
tanto, era abbastanza evidente che vi fosse un inconci-
liabile conflitto d’interessi tra i membri delle diverse
classi.
Non si può dimenticare che in quei tempi – quando le
società basate sullo status erano predominanti in Eu-
ropa, nonché nelle colonie successivamente fondate
dagli europei in America – le persone non si conside-
ravano legate in una maniera speciale alle altre classi
della loro nazione; si sentivano invece molto più vicine
ai membri della loro classe in altri Paesi. Un aristocra-
tico francese non vedeva i francesi dei ceti più bassi
come i suoi cari concittadini; essi erano la “plebaglia”
che disprezzava. Egli considerava suoi pari solo gli
aristocratici degli altri Paesi – quelli, ad esempio,
d’Italia, d’Inghilterra e della Germania.
L’effetto più visibile di questa circostanza storica era il
fatto che gli aristocratici di tutta l’Europa utilizzavano
e parlavano la stessa lingua. E questa lingua era il
francese, una lingua che, fuori dalla Francia, era scono-
sciuta agli altri gruppi della popolazione. Le classi
medie – la borghesia – avevano la loro lingua, mentre
le classi basse – la plebe e i contadini in generale – usa-
vano i dialetti locali che molto spesso non erano capiti
dagli altri gruppi della popolazione. Lo stesso valeva
58
per la maniera in cui le persone si vestivano. Quando
si viaggiava da un Paese all’altro nel 1750 si notava che
le classi alte, gli aristocratici, si vestivano alla stessa
maniera in tutta l’Europa, e si notava che le classi basse
si vestivano diversamente. Quando si incontrava qual-
cuno per strada era molto facile percepire – da come si
vestiva – a che classe, a quale status appartenesse.
È difficile immaginare quanto erano diverse queste
condizioni rispetto a quelle attuali. Quando sono venu-
to dagli Stati Uniti in Argentina e ho visto un uomo
per strada, non ho potuto sapere a quale status appar-
tenesse. Ho potuto solo presumere che si trattasse di
un cittadino dell’Argentina e che non fosse membro di
un gruppo sociale legalmente ristretto. Questa è una
cosa che il capitalismo ha portato con sé. Vi sono, cer-
tamente, delle differenze all’interno del capitalismo. Vi
sono differenze nella ricchezza, differenze che i marxi-
sti hanno erroneamente considerato equivalenti alle
vecchie differenze che vi erano tra gli uomini nelle so-
cietà basate sullo status.

LA MOBILITÀ SOCIALE
Le differenze all’interno di una società capitalista non
sono uguali a quelle che esistono in una società sociali-
sta. Nel Medioevo – e in molti Paesi anche nei periodi
successivi – una famiglia aristocratica di grande ric-

59
chezza avrebbe potuto rimanere una famiglia di duchi
per centinaia e centinaia di anni, indipendentemente
dalla qualità, dai talenti, dal carattere e dal valore mo-
rale dei suoi membri. Nelle condizioni della moderna
società capitalista, invece, vi è ciò che è stato descritto
dai sociologi come “mobilità sociale”. Il principio mo-
tore di questa mobilità sociale, secondo il sociologo ed
economista italiano Vilfredo Pareto, è “la circulation des
élites”. Ciò significa che ci saranno sempre delle perso-
ne ricche e politicamente importanti che si troveranno
in cime alla scala sociale, ma che questi individui –
queste élites – sono in continuo cambiamento.
Questa descrizione si applica con perfezione alla socie-
tà capitalista. Non era invece vera per la precapitalisti-
ca società basata sullo status. Le famiglie che erano
considerate le grandi famiglie aristocratiche d’Europa
sono ancora oggi le stesse famiglie, o, per la precisione,
sono i discendenti di quelle che furono le più eminenti
famiglie d’Europa ottocento o mille e più anni fa. I Ca-
petingi di Bourbon – che a lungo governarono qui in
Argentina – furono una casa reale già nel distante de-
cimo secolo. Questi re governarono un territorio oggi
conosciuto come Île-de-France, e ampliarono il loro re-
gno una generazione dopo l’altra. Ma in una società
capitalista vi è una mobilità continua – i poveri diven-
tano ricchi e i discendenti di quei ricchi successiva-
mente perdono la loro ricchezza e diventano poveri.
Oggi ho visto, in una libreria situata in una delle vie
60
centrali di Buenos Aires, la biografia di un imprendito-
re che era così eminente, importante e rappresentativo
delle grandi imprese del diciannovesimo secolo in Eu-
ropa che, anche qui in Argentina, così lontano
dall’Europa, la menzionata libraria ne aveva delle co-
pie. Io conosco il nipote di questo uomo. Egli porta lo
stesso nome del nonno e ha ancora il diritto di usare il
medesimo titolo nobiliare di suo nonno – che aveva
iniziato la carriera come fabbro – e che aveva ricevuto
ottant’anni fa. Oggi suo nipote è un povero fotografo a
New York.
Altre persone, che erano povere nell’epoca in cui il
nonno di questo fotografo diventò uno degli industria-
li più grandi d’Europa, sono oggi capitani
dell’industria. Ognuno è libero di cambiare il proprio
status, la propria posizione socioeconomica. È questa la
differenza tra il sistema basato sullo status e il sistema
capitalista di libertà economica, nel quale ogni singolo
individuo può colpevolizzare soltanto sé stesso se non
dovesse riuscire a raggiungere la posizione sognata.
Il più famoso industriale del ventesimo secolo fino ad
oggi è Henry Ford. Egli iniziò la sua attività con alcune
centinaia di dollari che ebbe in prestito da alcuni amici,
e in pochissimo tempo riuscì a sviluppare una delle
più importanti industrie del mondo. Si potrebbero
scoprire centinaia di casi analoghi al suo ogni singolo
giorno.
Il New York Times pubblica lunghi necrologi ogni gior-
61
no. Se si leggono queste biografie, è possibile trovare il
nome di un eminente imprenditore che ha iniziato co-
me venditore di giornali agli angoli delle strade di
New York. Oppure ha iniziato come fattorino ed è
morto presidente della stessa Banca nella quale aveva
iniziato la carriera, partendo dal gradino più basso del-
la scala. È evidente che non tutti riescono a raggiunge-
re queste posizioni lavorative. Non tutti vogliono rag-
giungerle. Vi sono persone che sono più interessate ad
altri obiettivi e, anche in questo caso, vi sono oggi mol-
te più possibilità di realizzarsi rispetto ai rigidi percor-
si chiusi della società feudale, nei periodi della società
basata sullo status.

LA PIANIFICAZIONE GOVERNATIVA
Il sistema socialista, invece, proibisce questa libertà
fondamentale di scegliersi la propria carriera. In un
sistema socialista esiste soltanto un’unica autorità eco-
nomica ed essa ha la prerogativa totale di decidere su
tutte le questioni riguardanti la produzione.
Una delle caratteristiche distintive dei nostri giorni è il
fatto che molte persone usano molteplici nomi per la
stessa cosa. Uno dei sinonimi per socialismo e comuni-
smo è “pianificazione”. Quando le persone parlano di
“pianificazione” esse intendono, certamente, pianifica-
zione centrale, il che significa un unico piano ideato e

62
attuato dal governo – un unico piano che mette la pia-
nificazione del governo in una posizione egemonica e
inibisce le pianificazioni di tutti gli altri.
Una signora britannica 4, che è anche un membro della
Camera dei Lord, ha scritto un libro intitolato Plan or
No Plan, un’opera che è divenuta molto popolare glo-
balmente. Cosa significava il titolo di suo libro? Quan-
do scriveva “plan”, alludeva solo al tipo di piano idea-
to da Lenin, Stalin e i loro successori, il tipo di piano
che, appunto, governa le attività di tutti gli abitanti di
una nazione. Dunque, questa signora intendeva una
pianificazione centrale che escludeva tutti i piani per-
sonali che gli individui avrebbero potuto avere.
Il suo titolo Plan or no Plan, pertanto, è un’illusione, un
inganno: l’alternativa non è tra un piano centrale e
nessun piano, bensì il piano totale di un’autorità gover-
nativa centrale o la libertà degli individui di ideare i
propri piani, di portare avanti i propri progetti e sogni
personali. L’individuo pianifica la propria vita, ogni
giorno, cambiando i progetti quotidiani a proprio pia-
cere.
Un individuo libero quotidianamente fa dei piani per
soddisfare i propri bisogni personali; egli può dire, ad
esempio: «Ieri ho deciso di lavorare per tutta la vita a

4Barbara Wootton (1897 – 1988) era una Baronessa britannica, sociolo-


ga e criminologa.

63
Córdoba». Oggi viene a sapere che vi sono condizioni
migliori a Buenos Aires e cambia i suoi piani, dicendo:
«Invece di lavorare a Córdoba, voglio trasferirmi a
Buenos Aires». Questo è ciò che significa libertà. Può
darsi che si sbagli, che andare a Buenos Aires si dimo-
stri un errore, che le condizioni a Córdoba fossero in
realtà le migliori per lui, ma è stato lui, e solo lui, a fare
i piani e a decidere la strada della propria vita.
Quando vi è la pianificazione centrale, l’individuo è
come un soldato nell’esercito. Il soldato nell’esercito
non ha il diritto di scegliersi la guarnigione, di sce-
gliersi il posto in cui deve servire. Deve obbedire agli
ordini. E il sistema socialista – come Karl Marx, Lenin
e tutti gli altri leader socialisti sapevano e hanno anche
ammesso – è la trasposizione della legge militare a tut-
to il sistema produttivo. Marx parlò di “eserciti indu-
striali”, e Lenin difese «l’organizzazione di tutto – de-
gli uffici postali, delle fabbriche e delle altre industrie
secondo il modello dell’esercito».
Dunque, nel sistema socialista tutto dipende dalla sa-
pienza, dai talenti e dai doni di quelle persone che
formano l’autorità suprema. Ciò che il dittatore su-
premo – o il suo comitato – non conosce non viene af-
fatto preso in considerazione. Ma la conoscenza e il sa-
pere che l’umanità ha accumulato in tutta la sua storia
non sono assimilati integralmente da tutti; abbiamo
accumulato una quantità così enorme di conoscenze
tecniche e scientifiche nel corso dei secoli che è uma-
64
namente impossibile che un solo individuo, anche uno
immensamente dotato, possa conoscerle tutte.
E le persone sono diverse, non sono uguali. Saranno
sempre diverse. Vi sono alcuni individui che sono più
portati per alcuni argomenti e meno per altri. Vi sono
persone col dono di scoprire nuove strade, di cambiare
la tendenza delle conoscenze. Nelle società capitaliste,
il progresso tecnologico ed economico viene stimolato
grazie allo sforzo di questi individui. Se un individuo
ha un’idea, egli cercherà di trovare alcune persone che
sono sufficientemente intelligenti per capire il valore
della sua idea. Alcuni capitalisti, quelli che osano
guardare al futuro e che si rendono conto delle poten-
ziali conseguenze di tale idea, cercheranno di concre-
tizzarla. Altre persone potrebbero, inizialmente, sen-
tenziare: «Questi sono dei folli!», ma sicuramente
smetteranno di affermarlo quando si renderanno conto
che l’impresa da loro considerata folle starà fiorendo e
che altri individui saranno contenti di poterne acqui-
stare i prodotti.
Nel sistema marxista, d’altra parte, il supremo governo
deve convincersi del valore di tale idea prima che essa
possa essere ricercata e sviluppata. Questa è una cosa
veramente molto difficile da fare, perché soltanto il
gruppo all’apice del governo – o il supremo dittatore
stesso – possiede il potere di prendere decisioni. E se
queste persone – per pigrizia o per l’età avanzata, o
perché semplicemente non sono particolarmente bril-
65
lanti e istruite – sono incapaci di capire l’importanza
della nuova idea, allora il nuovo progetto non verrà
portato avanti.
Possiamo pensare a degli esempi anche nell’ambito
della storia militare. Napoleone fu certamente un ge-
nio militare; ma finì per trovarsi dinanzi a un serio
problema, e la sua incapacità di risolverlo culminò, alla
fine, con la sua sconfitta e l’esilio nella solitudine di
Sant’Elena. Il problema di Napoleone era: “come con-
quistare l’Inghilterra?”. Per riuscirci avrebbe avuto bi-
sogno di una flotta per attraversare la Manica, e alcuni
individui gli dissero di conoscere un modo per farlo,
persone che – nell’era delle navi a vela – ebbero la ge-
niale idea di costruire delle navi a vapore. Ma Napo-
leone non capì la loro proposta.
Successivamente vi fu il Generalstab tedesco, il famoso
Stato maggiore generale delle forze armate tedesche.
Precedentemente alla Prima guerra mondiale, questo
organo era universalmente considerato insuperabile
nell’ambito della conoscenza e del sapere militari. Di
una reputazione similare godeva lo staff del generale
Foch in Francia. Ma né i tedeschi né i francesi – i quali,
sotto la guida del generale Foch successivamente scon-
fissero i tedeschi – si resero conto dell’importanza
dell’aviazione per gli scopi militari. Lo Stato maggiore
generale tedesco disse: «L’aviazione è semplicemente
un’attività piacevole, è adatta agli oziosi. Da un punto
di vista militare, solo gli Zeppelin sono importanti», e
66
lo Stato maggiore francese condivideva la stessa opi-
nione.
Dopo, durante il periodo tra la Prima e la Seconda
guerra mondiale, vi fu un generale degli Stati Uniti che
si convinse che l’aviazione avrebbe svolto un ruolo
estremamente importante nella guerra successiva.
Ciononostante, tutti gli esperti negli Stati Uniti si
schierarono contro di lui. Egli non riuscì a convincerli.
È praticamente impossibile convincere un gruppo di
persone composto da individui che non sono diretta-
mente dipendenti dalla soluzione di un determinato
problema. Questo è valido anche per i problemi non
economici.
Vi sono stati pittori, poeti, scrittori e compositori che si
sono lamentati del fatto che il pubblico non riconosces-
se il valore del loro lavoro, il che, di conseguenza, li ha
fatti rimanere poveri. Il pubblico può senza dubbio
non possedere l’adeguata sensibilità artistica, ma
quando questi artisti hanno sostenuto che «il governo
dovrebbe finanziare grandi artisti, pittori e scrittori»,
essi hanno sbagliato enormemente. Il governo a chi
dovrebbe affidare il compito di decidere quando un
giovane pittore è effettivamente un grande pittore o
meno? Potrebbe basarsi sul giudizio dei critici e dei
professori di storia dell’arte, che guardano sempre al
passato e che molto raramente hanno dimostrato di
avere il talento per scoprire nuovi geni. È questa la
grande differenza tra un sistema di “pianificazione”, e
67
un sistema nel quale ognuno può pianificare e agire
per conto proprio.
È sicuramente vero che i grandi pittori e i grandi scrit-
tori spesso hanno dovuto sopportare immense difficol-
tà. Avranno addirittura avuto successo nell’arte, ma
non sempre nel guadagnare denaro. Van Gogh era cer-
tamente un grande pittore. Egli ha dovuto soffrire dif-
ficoltà insopportabili e, alla fine, quando aveva trenta-
sette anni, si è suicidato. In tutta la vita è riuscito a
vendere una sola pittura e il compratore era suo cugino.
Oltre a quest’unica vendita, egli ha vissuto grazie ai
soldi che riceveva dal fratello, il quale non era né arti-
sta né pittore. Ma il fratello di Van Gogh comprendeva
i bisogni di un pittore. Oggigiorno è impossibile com-
prare un quadro di Van Gogh per meno di cento o
duecentomila dollari.
In un sistema socialista, il destino di Van Gogh avreb-
be potuto essere diverso. Un qualche ufficiale del go-
verno avrebbe chiesto a dei pittori famosi (che Van
Gogh certamente non avrebbe ritenuto affatto artisti)
se questo giovane uomo, parzialmente o completamen-
te pazzo, fosse realmente un pittore degno del suppor-
to finanziario del governo. Essi, senza dubbio, avreb-
bero risposto: «No, quest’uomo non è un pittore, non è
un artista, è solo un uomo che spreca i colori». E così,
successivamente, il governo l’avrebbe spedito in una
fabbrica di latte o in un manicomio. Dunque, tutto
questo entusiasmo da parte della generazione emer-
68
gente di pittori, poeti, musici, giornalisti e attori in fa-
vore del socialismo è basato su un’illusione. Ci tengo a
sottolinearlo perché questi gruppi sono tra i più fanati-
ci sostenitori dell’ideologia socialista.

IL CALCOLO ECONOMICO
Quando si deve scegliere tra il socialismo e il capitali-
smo come sistema economico, il problema è conside-
revolmente differente. Gli autori del socialismo non
hanno mai sospettato che l’industria moderna e tutte le
operazioni del moderno mondo degli affari si basino
sul calcolo. Gli ingegneri non sono affatto gli unici a
sviluppare piani sulla base di calcoli, gli imprenditori
devono farlo ugualmente. E i calcoli fatti dagli im-
prenditori si basano sul fatto che, in un’economia di
mercato, i prezzi dei prodotti forniscono informazioni
non solo al consumatore, ma anche – e in maniera vita-
le – all’imprenditore stesso. Le informazioni riguarda-
no i fattori di produzione, e la funzione principale del
mercato non è meramente quella di determinare il co-
sto dell’ultima fase del processo di produzione e trasfe-
rimento dei prodotti nelle mani dei consumatori, ma
soprattutto il costo delle fasi, dei singoli passaggi, che
portano alla fase finale. L’intero sistema di mercato è
legato al fatto che esiste una divisione del lavoro men-
talmente calcolata tra i diversi imprenditori, che com-

69
petono tra di loro nel fare offerte per i fattori di produ-
zione – le materie prime, i macchinari, gli strumenti – e
per il fattore umano della produzione, ovvero i salari
dovuti ai fornitori della manodopera. Questo tipo di
calcolo fatto dall’imprenditore non può essere conclu-
so in assenza di prezzi forniti dal mercato.
Nel preciso istante in cui si abolisce il mercato – che è
ciò che vorrebbero fare i socialisti – diventano inutili
tutti i calcoli fatti dagli ingegneri e dai tecnici. I tecnici
possono darci un grande numero di progetti che, dal
punto di vista delle scienze naturali, sono ugualmente
attuabili, ma sono fondamentali i calcoli economici fatti
dagli imprenditori per chiarire al meglio quale di quei
progetti è il più vantaggioso dal punto di vista econo-
mico.
Quando questo fatto è stato scoperto, i socialisti non
sapevano cosa rispondere. Per centocinquant’anni
hanno ripetuto: «tutti i mali del mondo provengono
dal fatto che esistono il mercato e i prezzi di mercato.
Noi vogliamo abolire il mercato e, insieme a esso, ov-
viamente, l’economia di mercato, e sostituirli con un
sistema senza prezzi e senza mercati». Volevano aboli-
re ciò che Marx chiamò “il carattere mercantile” dei
beni e della manodopera.
Gli autori del socialismo, quando dovettero affrontare
questo nuovo problema, rimasero inizialmente senza
parole, ma alla fine dissero: «noi non aboliremo il mer-
cato in maniera istantanea; faremo finta che un merca-
70
to esista, faremo una sorta di gioco del mercato, esat-
tamente come i bambini che fanno finta di andare a
scuola». Ma sappiamo tutti che i bambini, quando gio-
cano e fingono di essere a scuola, non stanno effetti-
vamente imparando nulla. È soltanto un esercizio, un
gioco, e si può “giocare” in molteplici maniere.
Questo è un problema piuttosto difficile e complicato,
e per affrontarlo integralmente è necessario disporre di
un po’ più di tempo di quanto io abbia a disposizione
in queste lezioni. Ho spiegato la questione in maniera
dettagliata nei miei scritti. In sei lezioni non riuscirò ad
analizzare tutti i suoi aspetti. Dunque, se siete curiosi e
se vi interessa il problema fondamentale
dell’impossibilità del calcolo e della pianificazione
all’interno del sistema socialista, leggete il mio libro
Human Action, che è disponibile in un’eccellente tradu-
zione in spagnolo 5.
Ma leggete anche altri libri, come, ad esempio, l’opera
dell’economista norvegese Trygve Hoff, che ha trattato
la tematica del calcolo economico. E se non volete esse-
re parziali, vi consiglio, sempre in riguardo a questa
materia, l’apprezzatissimo libro socialista
dell’eminente economista polacco Oskar Lange. Egli
ha lavorato come professore presso un’università ame-
ricana, successivamente è diventato un ambasciatore

5N.d.T.: il libro L’Azione Umana è disponibile anche in un’eccellente tra-


duzione in italiano!

71
polacco e poi è ritornato in Polonia.

L’ESPERIMENTO SOVIETICO
Probabilmente mi chiederete: «E la Russia? Come af-
frontano i russi la questione del sistema dei prezzi?».
Questa domanda cambia la prospettiva del problema.
Il sistema socialista sovietico opera all’interno di un
mondo nel quale ci sono prezzi per tutti i fattori di
produzione, per le materie prime, per tutto. I russi,
dunque, possono usare i prezzi esteri del mercato in-
ternazionale per promuovere la loro pianificazione. E
siccome esistono delle differenze tra le condizioni della
Russia e quelle negli Stati Uniti, il risultato è che spes-
so i russi considerano giustificato e opportuno – dal
loro punto di vista economico – ciò che gli americani
non considererebbero affatto.
Tale “esperimento sovietico”, come veniva chiamato,
non è in grado di dimostrare niente. Non ci dice nulla
circa il problema fondamentale del socialismo, il pro-
blema del calcolo economico. Ma possiamo almeno
analizzarlo come se fosse un esperimento? Non ritengo
che sia possibile un esperimento nell’ambito
dell’azione umana e dell’economia. Non si possono
eseguire esperimenti di laboratorio nell’ambito
dell’azione umana perché un esperimento scientifico
richiede che la stessa cosa venga ripetuta sotto molte-

72
plici condizioni, o che le condizioni vengano mantenu-
te stabili – col cambiamento, forse, di un singolo fatto-
re.
Per esempio, se viene iniettato nel corpo di un animale
con il cancro una medicazione sperimentale, il risultato
potrebbe essere la scomparsa del cancro. Questo espe-
rimento può essere ripetuto con molteplici animali del-
la stessa specie e che soffrono della stessa patologia. Se
il farmaco viene usato per alcuni degli animali ma non
per altri, è possibile successivamente confrontare i ri-
sultati. Non è possibile farlo nell’ambito dell’azione
umana. Non vi sono esperimenti di laboratorio per
quanto riguarda l’azione umana.
È evidente che se si dice una cosa del genere a un so-
cialista egli dirà: «Le cose sono meravigliose in Rus-
sia». E se gli si dice: «Le cose potrebbero senza dubbio
essere meravigliose, ma lo standard medio di vita è
molto più basso del nostro», egli risponderà: «Sì, ma
ricordati com’era terribile per i russi quando governa-
vano gli zar, e com’è stata terribile la guerra che ab-
biamo dovuto combattere».
Non voglio entrare nel merito della fondatezza o meno
di tale spiegazione, ma se si nega l’uguaglianza tra le
condizioni, si nega contemporaneamente che si possa
parlare di un esperimento. Si potrebbe dire (e ciò sa-
rebbe molto più corretto): «Il socialismo in Russia non
ha portato con sé un miglioramento delle condizioni
del cittadino medio paragonabile a quello che si è veri-
73
ficato, durante lo stesso periodo, negli Stati Uniti».
Negli Stati Uniti si sente parlare di una novità, di un
miglioramento, quasi ogni settimana. Questi sono i
progressi generati dalle imprese, perché migliaia e mi-
gliaia di imprenditori si sforzano giorno e notte per
trovare un qualche nuovo prodotto che sia in grado di
soddisfare maggiormente i bisogni del consumatore o
che sia più economico – o che sia migliore e addirittura
più economico. Non fanno tutto ciò per altruismo,
bensì perché vogliono aumentare i propri guadagni. E
l’effetto di ciò è un aumento dello standard di vita de-
gli Stati Uniti che è quasi miracoloso, soprattutto
quando confrontato con lo standard di vita di cinquan-
ta o cent’anni fa. Dall’altro lato, nella Russia sovietica,
Paese nel quale non esiste il sistema capitalista, non si
è verificato un progresso paragonabile a quello ameri-
cano. Detto ciò, coloro che ci dicono che dovremmo
adottare il sistema sovietico si sbagliano enormemen-
te.
È importante menzionare ancora un’altra cosa. Il con-
sumatore americano, l’individuo, è sia compratore sia
padrone. Quando si esce da un negozio negli Stati Uni-
ti, spesso si può trovare un cartello che dice: «Grazie
per il tuo sostegno. Alla prossima!». Ma se si entra in
un negozio in un Paese totalitario – che si tratti della
Russia contemporanea, o della Germania sotto Hitler –
il venditore ti dirà: «Devi essere grato al grande leader
perché ti ha dato ciò che hai chiesto».
74
Nei Paesi socialisti, non è il venditore a dover essere
grato dell’acquisto, bensì il consumatore per ciò che ha
avuto. Il cittadino non è il capo, il vero padrone è il
Comitato Centrale, è l’Ufficio Centrale. Questi comitati
socialisti, capi e dittatori sono supremi, e alle persone
spetta soltanto la rigida obbedienza nei loro confronti.

75
TERZA LEZIONE

L’INTERVENTISMO
Una frase famosa e spesso citata recita: «Il governo mi-
gliore è quello che governa il minimo possibile». Io
non credo che questa sia una giusta descrizione delle
funzioni di un buon governo. Il governo dovrebbe oc-
cuparsi di tutte le materie per le quali è necessario e
dovrebbe, inoltre, svolgere i compiti per i quali è stato
istituito.
Il governo deve proteggere gli individui che vivono
all’interno del Paese dagli attacchi violenti e fraudolen-
ti dei criminali, e dovrebbe difendere il Paese dai ne-
mici stranieri. Queste sono le funzioni del governo in
un sistema libero, all’interno del sistema dell’economia
di mercato.
Nel sistema socialista, ovviamente, il governo è totali-
tario, e nulla sfugge alla sua sfera e alla sua giurisdi-
zione. In un’economia di mercato, invece, il compito
principale del governo è quello di proteggere la fluidi-
tà del funzionamento dell’economia di mercato, ovve-
ro, di proteggerla contro le frodi e le violenze sia
dall’interno sia dall’esterno del Paese.
Le persone che non sono d’accordo con questa defini-
zione delle funzioni del governo potrebbero dire:
«Quest’uomo odia il governo». Nulla potrebbe essere
più lontano dalla realtà.
76
Se io dicessi che la benzina è un liquido utilissimo, uti-
le per svariati fini, ma che ciononostante non la berrei
mai perché non lo riterrei sensato, ciò non vorrebbe
dire che sono un nemico della benzina. Io non odio la
benzina. Dico soltanto che la benzina è molto utile per
svariati propositi, ma non per altri.
Se dico che è un compito del governo imprigionare
omicidi e altri criminali, ma che invece non lo sarebbe
la gestione delle ferrovie o l’utilizzo di soldi per cose
inutili, allora io non odio il governo semplicemente per
aver dichiarato che è giusto che svolga determinati
compiti, mentre invece non è giusto che ne svolga al-
tri.
È stato detto che attualmente non abbiamo più
un’economia di libero mercato. Abbiamo al giorno
d’oggi ciò che viene chiamato “economia mista”. E per
dimostrare che viviamo in un sistema di “economia
mista” le persone nominano le diverse aziende che so-
no gestite dallo Stato o che appartengono direttamente
ad esso. L’economia è mista, dicono le persone, perché
vi sono, in molteplici Paesi, determinate istituzioni –
come il telefono, il telegrafo e le ferrovie – che appar-
tengono e sono gestite dal governo.

LE AZIENDE DI STATO
Il fatto che alcune di queste istituzioni e aziende siano
77
gestite dal governo è senza dubbio veritiero. Eppure,
questo fatto da solo non cambia la natura del nostro
sistema economico. Non significa nemmeno che ci sia
una sorta di “piccolo socialismo” all’interno di quella
che è comunque un’assolutamente non socialista eco-
nomia di mercato.
Questo perché il governo, quando gestisce queste im-
prese, è sottoposto alla supremazia del mercato, il che
vuol dire che è soggetto alla supremazia dei consuma-
tori. Il governo – se gestisce, diciamo, gli uffici postali
o le ferrovie – deve contrattare persone per lavorare in
queste imprese. Deve anche acquistare le materie pri-
me e altri beni che sono necessari per condurre al me-
glio la loro attività economica.
Dall’altro lato, esso “vende” questi servizi o prodotti al
pubblico. Tuttavia, anche se gestisce queste istituzioni
usando i metodi del sistema di libertà economica, il
risultato, di regola, è deficitario. Il governo, però, si
trova nelle condizioni di poter finanziare tale deficit –
o almeno così credono i membri del governo e del par-
tito al potere.
La situazione è certamente diversa per un normale cit-
tadino. Il potere (o la capacità) dell’individuo di gestire
un’azienda in perdita è molto limitato. Se il deficit non
viene combattuto subito, e se l’impresa non inizia a
produrre profitti (o almeno a dimostrare che non sta
andando incontro a ulteriori deficit), l’individuo va in
bancarotta e l’impresa deve chiudere.
78
Per il governo le condizioni sono altre. Il governo può
andare avanti in deficit, perché dispone del potere di
tassare le persone. E se i contribuenti sono favorevoli a
pagare tasse più elevate affinché il governo possa ge-
stire un’impresa che subisce continue perdite – cioè, a
gestire un’azienda in una maniera meno efficiente ri-
spetto a ciò che farebbe un’istituzione privata – e se le
persone accettano queste perdite, allora l’impresa an-
drà avanti con la sua attività.
Negli ultimi anni, i governi hanno aumentato così
enormemente il numero di istituzioni e imprese nazio-
nalizzate che i deficit sono cresciuti in misura molto
superiore rispetto all’incremento della capacità tributa-
ria dei cittadini. Ciò che succede successivamente non
è l’argomento della lezione di oggi. Si tratta
dell’inflazione, e io affronterò questo tema domani. Ho
menzionato tale fenomeno solo perché l’economia mi-
sta non può essere confusa con il problema
dell’interventismo, tema che intendo affrontare ora.

CHE COS’È L’INTERVENTISMO?


Cos’è l’interventismo? Interventismo significa che il
governo non limita la propria attività alla preservazio-
ne dell’ordine pubblico, o – come si diceva un secolo fa
– alla “produzione di sicurezza”. Significa che il go-
verno vuole fare di più, che vuole interferire con i fe-

79
nomeni del mercato.
Se qualcuno si oppone a ciò e afferma che il mercato
non dovrebbe interferire nelle aziende e nel mercato in
generale, le persone spesso rispondono: «Ma il gover-
no necessariamente interferisce sempre. Se vi sono po-
liziotti per strada, il governo interferisce. Lo fa anche
quando impedisce il saccheggio di un negozio e il fur-
to di una macchina». Ma quando si affronta la tematica
dell’interventismo, ovvero quando si vuole definire il
suo significato preciso, si parla dell’intervento del go-
verno nel mercato.
(Presumere che il governo e la polizia debbano proteg-
gere i cittadini, il che include gli imprenditori e ovvia-
mente i loro dipendenti, dagli attacchi di criminali lo-
cali e/o stranieri è un’aspettativa assolutamente nor-
male, perché si tratta della necessaria azione governa-
tiva. Tale protezione non è considerata sotto l’ottica
dell’interventismo, perché l’unica funzione legittima
del governo è, appunto, quella di fornire, sicurezza).
Ciò che abbiamo in mente quando parliamo di inter-
ventismo è il desiderio del governo di fare molto di più
che prevenire la violenza e la frode. Interventismo si-
gnifica che il governo non solo fallisce nel garantire il
corretto funzionamento dell’economia di mercato, ma
interferisce con molteplici fenomeni di mercato; inter-
ferisce con i prezzi, i salari, i tassi d’interesse e i profit-
ti.

80
Il governo vuole intervenire per costringere
l’imprenditore a gestire i propri affari in una maniera
diversa da quella che normalmente avrebbe adottato
per soddisfare solamente i consumatori. Dunque, tutte
le misure interventiste del governo sono finalizzate a
restringere e limitare la supremazia dei consumatori. Il
governo vuole impossessarsi del potere – o almeno di
una parte di esso – che, nell’economia di libero merca-
to, si trova nelle mani dei consumatori.
Prendiamo un esempio di interventismo che è molto
comune in diversi Paesi e che viene sperimentato mol-
te volte da svariati governi, soprattutto in tempi
d’inflazione. Mi riferisco al controllo dei prezzi.
I governi normalmente ricorrono al controllo dei prez-
zi quando hanno inflazionato l’offerta di moneta e le
persone hanno cominciato a lamentarsi del risultante
aumento dei prezzi. Vi sono molteplici esempi storici
celebri di politiche di controllo dei prezzi che hanno
fallito, ma ne menzionerò solo due perché, in entrambi
i casi, i governi sono stati molto rigidi e ostinati
nell’applicazione di questa politica economica.
Il primo famoso esempio è quello dell’imperatore ro-
mano Diocleziano, molto famoso in quanto fu l’ultimo
degli imperatori a perseguitare i cristiani. L’imperatore
romano della seconda metà del terzo secolo aveva a
disposizione un singolo strumento finanziario: la sva-
lutazione della moneta. In quei tempi primitivi, ante-
cedenti all’invenzione della stampa, anche l’inflazione
81
era, diciamo, primitiva.
Riguardava la svalutazione della moneta tramite il
procedimento di coniazione, soprattutto la moneta
d’argento. Il governo mescolò progressivamente sem-
pre più rame all’argento finché il colore delle monete
d’argento cambiò e il loro peso si ridusse considere-
volmente. Il risultato di questa svalutazione nella co-
niazione della moneta e del conseguente incremento
della quantità di moneta in circolazione fu un aumento
dei prezzi, seguito da un editto con il quale si intro-
dusse il controllo dei prezzi.
Gli imperatori romani non erano per niente pacati
quando si trattava di applicare e far rispettare la legge;
non ritenevano esagerato condannare un uomo a mor-
te per aver chiesto prezzi più alti rispetto a quelli stabi-
liti tramite decreto. Fecero rispettare la legge che stabi-
liva il controllo dei prezzi, ma fallirono nel mantenere
sana e integra la società romana. Il risultato fu la disin-
tegrazione dell’Impero Romano e del sistema della di-
visione del lavoro.
Millecinquecento anni dopo, durante la Rivoluzione
francese, si provò la medesima politica di svalutazione
monetaria. Ma questa volta venne usato un metodo
diverso. La tecnologia per la produzione di moneta era
migliorata considerevolmente e, perciò, ai francesi non
era più necessario promuovere la svalutazione tramite
il processo di coniazione della moneta: avevano a di-
sposizione le macchine tipografiche.
82
Queste macchine erano estremamente efficienti. Nuo-
vamente, il risultato fu un incremento senza precedenti
dei prezzi. Tuttavia, durante la Rivoluzione francese, il
tetto massimo dei prezzi non si faceva rispettare in ra-
gione dello stesso metodo di applicazione della pena
capitale usato nel periodo dell’imperatore Dioclezia-
no.
Vi furono diversi miglioramenti anche nell’ambito del-
le tecniche con cui uccidere i cittadini. Tutti voi ricor-
derete il celebre Dr. J. I. Guillotin (1738-1814), il quale
difendeva l’uso della ghigliottina. Nonostante
l’utilizzo della ghigliottina, i francesi ugualmente non
ebbero successo con le loro leggi sui prezzi massimi.
Quando lo stesso Robespierre (1758-1794) fu mandato
alla ghigliottina, il popolo urlò: «Se ne va l’immondo
Maximum».
Ho voluto menzionare tali esempi perché le persone
spesso dicono: «Ciò che è necessario affinché il control-
lo dei prezzi sia effettivo ed efficiente è semplicemente
un grado maggiore di brutalità ed energia». Ecco, Dio-
cleziano fu sicuramente molto brutale, e fu così anche
la Rivoluzione francese. Nonostante tutti gli sforzi, il
controllo dei prezzi in entrambi i periodi storici è falli-
to miseramente.

83
PERCHÉ IL CONTROLLO DEI PREZZI FAL-
LISCE?

Ora analizziamo le regioni di tale fallimento. Il gover-


no viene a conoscenza del fatto che la popolazione si
lamenta dell’aumento del prezzo del latte. Il latte è
senza dubbio un alimento molto importante, soprattut-
to per i bambini. Di conseguenza, il governo fissa un
prezzo massimo per il latte, un prezzo che è inferiore a
quello che sarebbe il potenziale prezzo di mercato.
Dopodiché il governo dice: «ora abbiamo sicuramente
fatto tutto ciò che era necessario affinché i genitori po-
veri possano acquistare tutto il latte necessario per
alimentare i loro bambini».
Cosa succede, invece? Da un lato, il prezzo ridotto del
latte ne aumenterà la domanda; persone che prima non
potevano permettersi di comprarlo ora lo possono ac-
quistare grazie all’abbassamento del prezzo decretato
dal governo. Dall’altro lato, alcuni dei produttori,
quelli che prima producevano del latte a un costo più
elevato – ossia, i cosiddetti produttori marginali –, ora
subiscono delle perdite, perché il prezzo fissato dal
governo è più basso dei costi che devono sostenere.
Questo è un aspetto fondamentale nell’economia di
mercato.
L’imprenditore privato, il produttore privato, non rie-
sce a sopportare a lungo le perdite economiche. E sic-
come non può subire perdite con la vendita del suo
84
prodotto, inizierà a limitare la produzione di latte per
il mercato. Potrà vendere parte del bestiame ai matta-
toi, o vendere solo prodotti derivati del latte, come, ad
esempio, la panna, il burro e il formaggio.
Ebbene, l’interferenza del governo nel prezzo del latte
genererà una produzione minore di quel prodotto ri-
spetto a prima, e, simultaneamente, ne aumenterà la
domanda.
Alcune persone che sono disposte ad acquistare del
latte al prezzo ridotto stabilito dal governo non riusci-
ranno ad acquistarlo. Un altro risultato è che gli indi-
vidui ansiosi, pur di essere i primi e per riuscire ad ac-
quistare il prodotto, si affretteranno a mettersi in fila
fuori dai negozi. Le lunghe code di persone che aspet-
tano al di fuori dei negozi sono sempre un fenomeno
abituale nelle città in cui il governo fissa prezzi massi-
mi per i beni che considera importanti.
Questo fenomeno è accaduto ovunque il prezzo del
latte sia stato sottoposto al controllo statale; gli econo-
misti hanno sempre previsto tali conseguenze. Ovvia-
mente parliamo solo di economisti effettivamente pre-
parati, e oramai ce ne sono davvero pochi.
Dunque, quale sarebbe il risultato del controllo gover-
nativo dei prezzi? Il governo resta deluso. Voleva au-
mentare la soddisfazione dei consumatori di latte, ma
non ha fatto altro che incrementare la loro insoddisfa-
zione. Prima dell’interferenza del governo, il latte era

85
costoso, ma le persone potevano acquistarlo. Ora la
quantità di latte disponibile è certamente insufficiente
e, pertanto, diminuisce il consumo totale di latte.
I bambini bevono meno latte, anche se l'obiettivo ini-
ziale era quello di incrementare il loro consumo. La
misura successiva del governo è il razionamento. Ma il
razionamento significa soltanto che alcuni individui
vengono privilegiati e ricevono il latte, mentre altri non
lo ricevono affatto. La scelta relativa a chi deve riceve-
re il latte o meno, certamente, è basata su parametri del
tutto arbitrari. Un decreto potrebbe determinare, per
esempio, che i bambini al di sotto dei quattro anni de-
vono avere del latte, e che ai bambini più grandi, con
età compresa tra i quattro e i sei anni, venga concessa
solo metà razione.
Qualunque cosa il governo decida di fare, il risultato
rimane comunque lo stesso: vi è una quantità minore
di latte disponibile. Di conseguenza, le persone sono
più insoddisfatte di prima. Ora il governo decide di
domandare ai produttori di latte (visto che non ha
nemmeno quel minimo di immaginazione per arrivare
da solo alla risposta): «Perché non producete la stessa
quantità di latte di prima?» E il governo riceve la ri-
sposta: «Non possiamo farlo, dato che i costi di produ-
zione ora sono maggiori dei prezzi massimi stabiliti
dal governo». Allora il governo si mette a studiare i
costi degli svariati fattori del processo produttivo e
scopre che uno di questo è il foraggio.
86
«Oh», dice il governo, «applicheremo al foraggio lo
stesso controllo che abbiamo precedentemente applica-
to al latte. Fisseremo un prezzo massimo per il forag-
gio, e quindi sarete in grado di nutrire le vostre muc-
che a costi minori, ossia, sostenendo una spesa inferio-
re. Così andrà tutto bene, sarete in grado di produrre
più latte e pertanto potrete venderne di più».
Cosa succede a questo punto? La stessa storia si ripete
col foraggio, e, come potete immaginare, per gli stessi
motivi. La produzione di foraggio crolla e il governo
nuovamente deve affrontare un dilemma. Allora deci-
de di organizzare nuove udienze per scoprire cos’è che
non va con la produzione di foraggio. E la spiegazione
dei produttori di foraggio è precisamente uguale a
quella che prima avevano dato i produttori di latte.
Pertanto, il governo deve fare un passo in avanti, dal
momento che non vuole nemmeno pensare all’idea di
abbandonare il principio del controllo dei prezzi. Fis-
serà un prezzo massimo per l’acquisto di tutti i beni
necessari alla produzione del foraggio. E la storia si
ripeterà ancora una volta.
Il governo, contemporaneamente, inizia a controllare il
prezzo non solo del latte, ma anche delle uova, della
carne e di altri beni di prima necessità. E ogni singola
volta il governo raggiunge lo stesso risultato, la conse-
guenza è la stessa ovunque. Una volta che il governo
decide di fissare il prezzo massimo per un bene di con-
sumo, finisce per andare oltre e limita anche i prezzi
87
dei beni necessari alla produzione di quei beni i cui
prezzi sono stati inizialmente sottoposti al controllo
governativo.
Quindi, il governo, che era partito con l’intenzione di
controllare soltanto alcuni prezzi, si trova a dover in-
dietreggiare progressivamente nel processo produtti-
vo, a dover estendere sempre di più l’ambito degli in-
terventi sui prezzi, fissando prezzi massimi per tutti i
tipi di beni utilizzati dai produttori, compresi, ovvia-
mente, i costi della manodopera – perché, senza il con-
trollo degli stipendi, il “controllo dei costi” governati-
vo sarebbe completamente inutile.
Inoltre, il governo non può limitare le sue interferenze
nel mercato a quei pochi settori che ritiene vitali, come
i mercati del latte, del burro, delle uova e della carne.
Deve per forza includere i beni di lusso, perché se non
limitasse anche questi prezzi, il capitale e la manodope-
ra non rimarrebbero più nel processo produttivo dei
beni di prima necessità, ma verrebbero impiegati nella
produzione di quei beni che il governo considera su-
perflui beni di lusso. Dunque, l’isolata ingerenza su
uno o alcuni prezzi dei beni di consumo porta sempre
a delle conseguenze – ed è importante rendersene con-
to – che sono ancor meno soddisfacenti delle condizioni
precedenti.
Prima dell’intervento del governo, il latte e le uova
erano costosi, ma dopo l’ingerenza del governo tali
prodotti sono spariti dal mercato. Il governo li consi-
88
derava così importanti che ha deciso di intervenire sui
loro prezzi; voleva incrementarne il consumo e aumen-
tarne la quantità. Il risultato è stato l’esatto opposto:
l’interferenza isolata ha portato a una condizione che –
dal punto di vista del governo – risulta addirittura
peggiore del precedente status quo che il governo ha
voluto alterare.
Man mano che il governo andrà avanti, si arriverà a un
punto in cui tutti i prezzi, tutti gli stipendi, tutti i tassi
d’interesse, insomma, l’intero sistema economico sarà
sottomesso al controllo governativo. E questo, indub-
biamente, è socialismo.
Ciò che vi ho raccontato qui, questa spiegazione sche-
matica e teorica, illustra precisamente ciò che è succes-
so in quei Paesi che hanno provato ad applicare una
politica di controllo dei prezzi – Paesi nei quali i go-
verni sono stati sufficientemente testardi da continuare
ad andare avanti, passo dopo passo, fino al crollo tota-
le. Questo è successo durante la Prima guerra mondia-
le sia in Germania sia in Inghilterra.

INTERVENTISMO IN TEMPO DI GUERRA


Analizziamo la situazione di entrambi i Paesi. Tutti e
due hanno vissuto l’esperienza inflazionaria. I prezzi
sono saliti e i due governi hanno stabilito politiche di
controllo dei prezzi. Hanno iniziato con il controllo di
89
alcuni prezzi, come il latte e le uova, ma successiva-
mente sono andati oltre.
Più persisteva la guerra, più l’inflazione cresceva. E
dopo tre anni di guerra, i tedeschi – come sempre in
maniera del tutto sistematica – hanno elaborato un
grande piano. L’hanno chiamato Hindenburg Plan: in
quel periodo, tutto ciò che in Germania era considerato
buono dal governo veniva chiamato con il nome Hin-
denburg (1847-1934).
Tale Hindenburg Plan stabiliva che l’intero sistema eco-
nomico tedesco dovesse sottoporsi al controllo gover-
nativo: i prezzi, gli stipendi, i profitti… tutto. E
l’apparato burocratico del Paese ha iniziato immedia-
tamente a mettere in pratica tale piano. Ma prima che
l’intero piano venisse portato a termine, è arrivata la
débâcle: l’impero tedesco è crollato, l’intero apparato
burocratico è sparito, la rivoluzione ha prodotto i suoi
sanguinosi risultati – le cose sono giunte al termine.
In Inghilterra tutto è iniziato nella stessa maniera, ma
dopo un po’ di tempo, nella primavera del 1917, gli
Stati Uniti sono entrati in guerra e hanno iniziato a
fornire ai britannici tutto ciò di cui avevano bisogno.
Dunque, il cammino verso il socialismo – la via della
schiavitù – è stato interrotto.
Prima dell’ascesa di Hitler al potere, il cancelliere
Brüning (1885-1970) ha introdotto ancora una volta in
Germania il sistema di controllo dei prezzi – e per gli

90
stessi motivi di sempre. Hitler ha sostenuto e applicato
tale misura, ancor prima dell’inizio della guerra. Infat-
ti, nella Germania di Hitler non esistevano né
l’impresa privata né l’iniziativa privata.
Nella Germania di Hitler vi era una modalità di socia-
lismo che si distingueva dal sistema russo soltanto
perché le terminologie ed etichette proprie di un sistema
economico libero erano ancora utilizzate. Vi erano an-
cora “imprese private”, almeno così erano chiamate.
Ma il proprietario non era più un imprenditore, bensì
un “gestore di negozio” (Betriebsführer).
L’intera Germania era organizzata secondo una gerar-
chia di führers: vi era l’Altissimo Führer, ovviamente
Hitler, e vi erano altri führers minori, che occupavano
le diverse funzioni gerarchiche dall’alto verso il basso.
In questo sistema, il capo di un’impresa era il Betrieb-
sführer, e i dipendenti dell’azienda venivano nominati
con una parola che, nel Medioevo, indicava gli uomini
della scorta dei signori feudali: la Gefolgschaft. Tutte
queste persone dovevano obbedire agli ordini dati loro
da un’istituzione dal nome incredibilmente lungo: Rei-
chsführerwirtschaftsministerium 6, alla guida della quale
vi era un noto signore molto grasso di nome Göring,
ricoperto di gioielli e medaglie.

6Führer del Reich (i.e., “dell’Impero”) Ministero dell’Economia, ovvero


Ministero dell’Economia dell’Impero.

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Questa istituzione dal lungo nome impartiva ordini a
tutte le imprese: cosa dovevano produrre, in quale
quantità, dove dovevano prendere le materie prime e a
quale prezzo acquistarle, a chi vendere i beni e a quale
prezzo. Gli operai ricevevano l’ordine di lavorare in
una determinata fabbrica, e ricevevano i salari previa-
mente stabiliti dal governo. L’intero sistema economi-
co era regolato in tutti i minimi dettagli dal governo.
Il Betriebsführer non aveva il diritto di appropriarsi del
profitto; egli riceveva una sorta di salario, e se, ad
esempio, avesse avuto bisogno di più soldi avrebbe
dovuto dire: «Sono molto malato, ho bisogno di un ur-
gentissimo intervento chirurgico e l’operazione costa
cinquecento marchi». Dopodiché avrebbe dovuto
chiedere al führer del distretto (il Gauführer o Gauleiter)
se fosse autorizzato a prelevare una somma più elevata
rispetto al suo stipendio standard. I prezzi non erano
più prezzi, i salari non erano più salari: essi erano ter-
mini quantitativi in un sistema socialista.
Ora vi dirò com’è crollato il sistema. Un giorno, dopo
anni di combattimenti, gli eserciti stranieri sono arriva-
ti in Germania. Essi hanno provato a mantenere questo
sistema economico sotto il controllo del governo, ma
per riuscirci sarebbe stata necessaria una brutalità
equivalente a quella di Hitler e, in assenza di questa, il
tentativo è fallito.
Mentre tutto ciò accadeva in Germania, la Gran Breta-
gna – durante la Seconda guerra mondiale – ha fatto
92
precisamente ciò che ha fatto la Germania. I britannici
hanno iniziato a controllare i prezzi di pochi beni, ma
progressivamente, un passo dopo l’altro, i controlli so-
no diventati più estesi e pesanti (esattamente come
aveva fatto Hitler in tempo di pace, ancor prima
dell’inizio della guerra) finché, finita la guerra, sono
arrivati a un sistema che era praticamente il socialismo
puro.
La Gran Bretagna non è stata portata al socialismo dal
partito laburista, che è salito al potere nel 1945. Il Paese
è diventato socialista durante la guerra, sotto la guida
del primo ministro sir Winston Churchill. Il governo
laburista ha semplicemente mantenuto il sistema socia-
lista che aveva ereditato dal governo Churchill. E tutto
ciò a dispetto delle immense resistenze da parte del
popolo britannico.
Le nazionalizzazioni in Gran Bretagna non sono state
veramente significative: la nazionalizzazione della
Banca d’Inghilterra è stata puramente nominale, per-
ché tale istituzione era già sotto il controllo completo
del governo. Lo stesso è successo con le nazionalizza-
zioni delle ferrovie e dell’industria dell’acciaio. Il co-
siddetto “socialismo di guerra” – ossia, il sistema
d’interventismo che procedeva con un passo dopo
l’altro – aveva già praticamente nazionalizzato l’intero
sistema.
La differenza tra i sistemi tedesco e britannico non era
minimamente importante, dato che le persone che li
93
gestivano erano state nominate dal governo, e in en-
trambi i casi questi erano costretti alla completa obbe-
dienza, nei minimi dettagli, agli ordini del governo.
Come ho detto prima, il sistema dei nazisti tedeschi ha
mantenuto le etichette e le terminologie proprie
dell’economia di libero mercato capitalista. Cionono-
stante, significavano un qualcosa di completamente
diverso: vi erano ora soltanto svariati decreti governa-
tivi.
Ciò era vero anche per il sistema britannico. Quando il
Partito conservatore è tornato al potere in Gran Breta-
gna, alcuni di quei controlli sono stati rimossi. In quel
Paese, oggi vediamo che una parte prova a mantenerli,
mentre un’altra cerca di abolirli (non possiamo dimen-
ticare, però, che le condizioni in Inghilterra sono molto
diverse da quelle in Russia). Lo stesso è vero anche per
altri Paesi che dipendono dall’importazione di generi
alimentari e di materie prime e che, pertanto, devono
esportare beni manifatturati. Per i Paesi che dipendono
enormemente dall’esportazione, un sistema basato sul
controllo governativo semplicemente non funziona.
Dunque, si può dire che esiste ancora la libertà econo-
mica (e vi è ancora una sostanziale libertà in alcuni
Paesi, come la Norvegia, l’Inghilterra e la Svezia) per-
ché in alcuni Paesi vi è la necessità di proteggere il com-
mercio basato sull’esportazione. Prima, ho scelto
l’esempio del latte non perché ho un debole per quel
bene, ma perché praticamente tutti i governi – o co-
94
munque la maggioranza di essi – negli ultimi decenni
hanno regolato i prezzi del latte, delle uova e del bur-
ro.

IL CONTROLLO DEGLI AFFITTI


Vorrei fare un breve cenno a un altro esempio, cioè, al
controllo dei prezzi nel mercato degli affitti. Se il go-
verno controlla gli affitti, il primo risultato è che coloro
che avrebbero traslocato da un appartamento più
grande a uno più piccolo, in seguito a un cambiamento
delle condizioni familiari, non lo faranno più.
Consideriamo il caso di due genitori i cui figli sono
andati via di casa dopo aver superato i vent’anni d’età,
o dopo essersi sposati o trasferiti per motivi di lavoro.
Normalmente questi genitori andrebbero a vivere in
appartamenti più piccoli ed economici. Questa necessi-
tà smette di esistere quando vengono imposti controlli
sugli affitti.
A Vienna, in Austria, agli inizi degli anni Venti, quan-
do furono stabiliti i controlli sugli affitti, la somma di
denaro che i proprietari ricevevano per un apparta-
mento mediano sottoposto al controllo dei prezzi non
era superiore al doppio del prezzo di un biglietto per
una corsa sui mezzi di trasporto gestiti
dall’amministrazione comunale.
Potrete immaginare che le persone non avessero il mi-
95
nimo incentivo nel cambiare appartamento. E, oltre a
ciò, non si costruivano nuove case. Vi erano condizioni
analoghe negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra
mondiale; e vi sono ancora oggi in molte città.
Uno dei motivi per cui tante città americane si trovano
in difficoltà finanziaria è esattamente il controllo sugli
affitti, che genera scarsità nel mercato immobiliare. In
ragione di ciò, il governo spende miliardi di dollari per
costruire nuove case. Ma perché vi è stata una scarsità
così elevata nel mercato immobiliare? Questa mancan-
za di case è dovuta agli stessi motivi che hanno causa-
to una scarsità di latte in seguito al controllo dei prezzi
di questo bene. Dunque, quando il governo interferisce
con il mercato, esso si avvicina progressivamente al sociali-
smo.
E questa è la risposta a coloro che dicono: «Noi non
siamo socialisti, non vogliamo che il governo controlli
tutto. Ci rendiamo conto che il socialismo è sbagliato.
Ma perché il governo non può interferire solo un po-
chettino nel mercato? Perché il governo non può aboli-
re alcune delle cose che non ci piacciono?»

C’È UNA VIA DI MEZZO FRA CAPITALI-


SMO E SOCIALISMO?

Queste persone parlano di una politica “intermedia”,


una via di mezzo fra socialismo e capitalismo. Ciò che
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non riescono a capire è che un’interferenza isolata, os-
sia l’interferenza con una sola e piccola parte del si-
stema economico, porta a una situazione che il gover-
no stesso – e coloro che hanno richiesto l’intervento del
governo – reputa peggiore di quella che intendeva ri-
solvere. Le persone che chiedono il controllo sugli af-
fitti si arrabbiano immensamente quando scoprono che
mancano appartamenti e case.
Il fatto è che questa scarsità nel mercato immobiliare è
causata precisamente dall’interferenza governativa,
dallo stabilimento di prezzi per gli affitti che sono infe-
riori a quelli che le persone avrebbero dovuto pagare
in un sistema di libero mercato.
È completamente assurda l’idea secondo cui ci sarebbe
un terzo sistema – che si troverebbe a metà strada tra il
socialismo e il capitalismo, come dicono i suoi sosteni-
tori –, un sistema che si discosterebbe sia dal sociali-
smo sia dal capitalismo, ma che nonostante ciò avrebbe
tutti i vantaggi ed eviterebbe tutti gli svantaggi di en-
trambi i sistemi.
Coloro che credono all’esistenza di questo mitico si-
stema diventano addirittura molto poetici quando ce-
lebrano le glorie dell’interventismo. La realtà è che si
sbagliano. L’interferenza governativa che tanto lodano
produce proprio quelle condizioni che a loro non piac-
ciono e che vogliono evitare.
Uno dei problemi che affronterò più avanti è il prote-

97
zionismo. Tale politica si basa sull’introduzione di im-
poste e dazi che aumentano il prezzo interno di un be-
ne fino a che esso non superi il prezzo nel mercato in-
ternazionale, il che permette ai produttori nazionali di
formare dei cartelli. Questi vengono poi attaccati dal
governo, che dichiara: «In queste condizioni, è neces-
saria una legislazione anti-cartello».
Questa è precisamente ciò che accade nella maggio-
ranza dei governi europei. Negli Stati Uniti, esistono
anche altre ragioni alla base della legislazione antitrust
e della campagna del governo contro lo spettro del
monopolio.
È assurdo vedere il governo – il quale crea, con il pro-
prio intervento, le condizioni che rendono possibile la
nascita di cartelli nel mercato interno – puntare il dito
contro le imprese dicendo: «Esistono cartelli, quindi
l’interferenza del governo negli affari economici è fon-
damentale».
Sarebbe molto più semplice evitare i cartelli mettendo
un punto finale all’interferenza del governo nel merca-
to – un’interferenza che rende possibili tali cartelli.
L’idea secondo cui l’interferenza del governo sarebbe
la “soluzione” ai problemi economici porta, in tutti i
Paesi, a condizioni che, come minimo, sono molto in-
soddisfacenti e molto spesso parecchio caotiche.
Ciononostante, l’interferenza del governo negli affari
economici è ancora molto popolare. Non appena qual-

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cuno scopre un fatto spiacevole che sta accadendo da
qualche parte nel mondo, dice: «Il governo dovrebbe
fare qualcosa. Altrimenti, a che serve il governo? Il go-
verno deve risolvere questo problema».
Questo è un residuo caratteristico del pensiero che ab-
biamo ereditato dalle epoche passate, epoche che pre-
cedettero il periodo della libertà moderna, del moderno
governo costituzionale, del governo rappresentativo e
del moderno repubblicanesimo.
Per secoli vi fu la dottrina – mantenuta ed accettata da
tutti – secondo cui il re, un re benedetto, era un mes-
saggero di Dio: egli aveva più saggezza dei suoi suddi-
ti, ed era addirittura dotato di poteri soprannaturali.
Ancora agli inizi del diciannovesimo secolo, le persone
che soffrivano di determinate patologie erano del tutto
convinte che sarebbero guarite attraverso il contatto
fisico del re, per mano del re. I medici erano normal-
mente più bravi, ma nonostante ciò mandavano i loro
pazienti dal re.
Questa dottrina della superiorità di un governo pater-
nalistico, della superiorità dei poteri soprannaturali e
sovrumani dei re ereditari è gradualmente scomparsa
con il tempo – o almeno così abbiamo creduto. Ma è
tornata alla ribalta.
Vi è stato un professore tedesco chiamato Werner
Sombart (lo conoscevo benissimo), famoso in tutto il
mondo, che era un professore onorario in molte uni-

99
versità, era anche membro onorario dell’American Eco-
nomic Association. Questo professore ha scritto un libro,
che è disponibile in inglese e pubblicato dalla Princeton
University Press. È disponibile anche in francese, e pro-
babilmente anche in spagnolo – almeno lo spero, per-
ché così potrete controllare se ciò che vi sto dicendo è
vero. In questo libro, pubblicato nel nostro secolo, non
nei Secoli Bui, Werner Sombart, un professore di eco-
nomia, dice letteralmente: “Il Führer, il nostro Führer –
si riferiva, ovviamente, a Hitler – riceve gli ordini di-
rettamente da Dio, il Führer dell’Universo».
Ho parlato prima di questa gerarchia tra i führer, e in
questa gerarchia ho menzionato Hitler come il “Führer
Supremo” … Tuttavia, esiste, secondo Werner Som-
bart, un Führer ancora più importante: Dio, il Führer
dell’Universo. E Dio, secondo lui, impartiva i Suoi or-
dini direttamente a Hitler. Certo che il professor Som-
bart ha modestamente aggiunto: «Noi non sappiamo
come Dio comunichi con il Führer. Ma questo fatto non
può essere negato».
Ora, se sentite che un libro simile può essere pubblica-
to in lingua tedesca, la lingua della nazione che una
volta è stata glorificata come “la nazione dei filosofi e
dei profeti”, e se venite a sapere che tal testo è stato
tradotto in inglese e in francese, allora sicuramente
non vi meraviglierà il fatto che anche un minuscolo
burocrate possa ritenersi più saggio e addirittura mi-
gliore degli altri cittadini, e che voglia interferire con
100
tutto, pur essendo un povero piccolo burocrate, e non
il famoso professor Sombart, membro onorario di tut-
to.
Esiste un rimedio per eventi del genere? Direi di sì, di-
rei che un rimedio c’è. Questo rimedio è il potere dei
cittadini: essi devono evitare la formazione e lo stabi-
limento di un simile regime autocratico, di un regime
che si attribuisce una saggezza superiore a quella del
cittadino medio. Questa è la differenza fondamentale
tra libertà e schiavitù.
Le nazioni socialiste si sono appropriate del termine
democrazia. I russi hanno chiamato il loro sistema De-
mocrazia Popolare; probabilmente sostengono che il
popolo è rappresentato nella persona del dittatore.
Penso che un dittatore, Juan Perón, qui in Argentina,
abbia ricevuto una buona risposta quando è stato co-
stretto all’esilio nel 1955. Speriamo che a tutti gli altri
dittatori, in altre nazioni, sia data una risposta simile.

101
QUARTA LEZIONE

L’INFLAZIONE
Se l’offerta di caviale fosse abbondante quanto quella
di patate, il prezzo del caviale – cioè, il rapporto di
scambio tra il caviale e il denaro, o tra il caviale e altri
beni – cambierebbe considerevolmente. In tal caso, uno
potrebbe ottenere il caviale con un livello molto mino-
re di sacrificio rispetto a quello che è necessario at-
tualmente per farlo.
Ugualmente, se la quantità di moneta viene aumenta-
ta, il potere d’acquisto dell’unità monetaria diminui-
sce, e perciò si riduce anche la quantità di beni che si
possono ottenere con ogni unità di questo denaro.
Quando, nel sedicesimo secolo, furono scoperte e
sfruttate le riserve americane di oro e argento, quantità
enormi di metalli preziosi furono trasportate in Euro-
pa. Il risultato di questo aumento della quantità di
moneta fu una tendenza generale verso l’aumento dei
prezzi nel continente. Allo stesso modo, oggi, quando
un governo aumenta la quantità di cartamoneta, il ri-
sultato sarà sempre una diminuzione del potere
d’acquisto dell’unità monetaria, e un aumento nei
prezzi. Questo fenomeno viene chiamato inflazione.
Purtroppo, negli Stati Uniti, così come in altri Paesi,
alcune persone preferiscono sostenere che la causa ori-
ginaria dell’inflazione non sarebbe l’incremento nella
102
quantità di moneta, bensì l’aumento dei prezzi.
Ciononostante, non vi è mai stata una solida teoria ca-
pace di confutare l’interpretazione economica del rap-
porto tra prezzi e quantità di moneta, o del rapporto
tra moneta e altri beni, merci e servizi. In ragione delle
moderne condizioni tecnologiche, nulla è più facile
della fabbricazione di pezzetti di carta sui quali ven-
gono stampate cifre monetarie.
Negli Stati Uniti, dove tutte le banconote sono della
stessa dimensione, il governo non deve sostenere un
costo di produzione superiore per stampare una ban-
conota da mille dollari rispetto a una da un dollaro. Si
tratta di una semplicissima procedura tipografica che
richiede la stessa quantità di carta e d’inchiostro.

STAMPARE IL DENARO
Nel diciottesimo secolo, quando furono fatti i primi
tentativi di emettere banconote e di attribuire a queste
il cosiddetto valore legale – ossia, il diritto di essere
accettate nelle transazioni esattamente come lo erano
l’oro e l’argento – i governi e le nazioni credettero che i
banchieri avessero qualche conoscenza segreta che
permetteva loro di creare ricchezza dal nulla.
Quando i governi del diciottesimo secolo si trovavano
in difficoltà finanziarie, pensavano che bastasse sem-
plicemente trovare un banchiere intelligente da mette-
103
re alla guida della loro amministrazione finanziaria
per risolvere tutte le loro difficoltà.
Alcuni anni prima della Rivoluzione francese, quando
la regalità di Francia si trovava in difficoltà finanziarie,
il re di Francia si mise alla ricerca di un banchiere astu-
to e non appena lo trovò, gli conferì un alto incarico.
Questo uomo era, in tutti i sensi, l’opposto di tutti
quelli che, fino a quel periodo, avevano governato la
Francia.
Innanzitutto, non era francese, bensì uno straniero –
uno svizzero di Ginevra, Jacques Necker (1732-1804).
In secondo luogo, non era un membro
dell’aristocrazia, ma un cittadino ordinario. E, cosa che
contava ancora di più nella Francia del diciottesimo
secolo, egli non era cattolico, ma protestante. Così il
signor Necker, padre della famosa Madame de Staël
(1766-1817), divenne ministro delle finanze, e tutti si
aspettavano che risolvesse i problemi finanziari della
Francia.
Ma malgrado l’alta fiducia di cui godeva il signor
Necker, le casse reali rimanevano vuote – l’errore più
grande di Necker fu quello di aiutare economicamente
i coloni americani nella loro guerra d’indipendenza
contro l’Inghilterra senza promuovere un corrispettivo in-
cremento della tassazione in Francia. Fu, certamente, il
modo sbagliato per tentare di risolvere i problemi fi-
nanziari della Francia.

104
Non esistono scorciatoie per risolvere i problemi fi-
nanziari di un governo; se ha bisogno di denaro, deve
ottenerlo attraverso la tassazione dei suoi cittadini (o,
sotto determinate condizioni, prendendolo in prestito
da persone che dispongono di denaro). Ma molti go-
verni, possiamo dire anche la maggioranza dei governi,
pensano che vi sia un metodo alternativo per ottenere
il denaro necessario: semplicemente stampandolo.
Se il governo intende realizzare un’opera benefica – se,
ad esempio, vuole costruire un ospedale – l’unica ma-
niera per ottenere i soldi necessari all’esecuzione del
progetto è tassare i cittadini e costruire l’ospedale con i
fondi appena ottenuti. Dunque, non vi sarà una “rivo-
luzione dei prezzi”, perché quando il governo racco-
glie il denaro per la costruzione dell’ospedale, i citta-
dini – che hanno appena pagato le corrispettive tasse –
sono costretti a ridurre le proprie spese.
Il contribuente si trova costretto a restringere i propri
consumi, i propri investimenti o i propri risparmi. Il
governo, che si presenta nel mercato come consumato-
re, si sostituisce al cittadino individuale: il cittadino
compra di meno, il governo compra di più. Il governo,
ovviamente, non compra sempre gli stessi beni che
avrebbe acquistato il cittadino: ma, normalmente, non
vi è un aumento dei prezzi quando il governo costrui-
sce un ospedale.
Ho scelto l’esempio dell’ospedale precisamente perché
le persone a volte dicono: «fa differenza se il governo
105
utilizza il suo denaro per buoni anziché cattivi propo-
siti». Voglio presumere che il governo utilizzi sempre il
denaro che ha stampato per i migliori propositi e pro-
getti possibili – per opere sulle quali siamo tutti
d’accordo. Perché le conseguenze che chiamiamo in-
flazione e che la maggioranza delle persone non consi-
dera benefiche sono create non in ragione del modo con
cui il governo spende i soldi, bensì in ragione del mo-
do con cui li ottiene.
Per esempio, senza promuovere l’inflazione, il governo
potrebbe utilizzare i soldi provenienti dalle tasse e im-
poste varie per contrattare nuovi dipendenti o per au-
mentare gli stipendi di coloro che già lavorano al ser-
vizio dello Stato. Dunque, queste persone, che hanno
ricevuto un aumento delle proprie remunerazioni,
possono permettersi di comprare di più.
Quando il governo tassa i cittadini e usa questo denaro
per aumentare gli stipendi dei dipendenti statali, i con-
tribuenti dispongono di meno denaro da spendere,
mentre i dipendenti statali ne hanno di più. I prezzi in
generale non saliranno.
Ma se il governo decide di non usare il denaro prove-
niente dalle imposte per implementare questo proget-
to, bensì di usare il denaro appena stampato, ciò signi-
fica che vi saranno alcune persone che avranno più
soldi, mentre tutti gli altri individui ne avranno la stes-
sa quantità che avevano in precedenza. In questo mo-
do, coloro che avranno ricevuto il denaro appena
106
stampato inizieranno a competere sul mercato con
quegli individui che erano già prima compratori.
Siccome non esistono più beni rispetto a prima, ovve-
ro, siccome la quantità di beni è rimasta pressoché in-
variata, ma vi è più denaro in circolazione sul mercato
– e dato che vi sono persone che possono comprare
oggi più di quanto potessero ieri – vi sarà un incre-
mento della domanda per quella stessa quantità di
merci. Pertanto, i prezzi tendenzialmente aumenteran-
no. Questo non può essere assolutamente evitato, a
prescindere da quale sarà l’utilizzo del nuovo denaro
appena stampato.

L’AUMENTO DEI PREZZI PASSO DOPO


PASSO
E, cosa ancora più importante, questa tendenza verso
l’aumento dei prezzi si svilupperà gradualmente, un
passo dopo l’altro; non si tratta di un aumento genera-
le di ciò che è stato nominato “livello dei prezzi”. Non
si dovrebbe mai usare l’espressione metaforica “livello
dei prezzi”.
Quando le persone parlano di un “livello dei prezzi”,
hanno in mente l’immagine del livello di un liquido
che sale e scende in un recipiente a seconda
dell’aumento o della diminuzione della sua quantità; e
che, comunque, proprio come il liquido in un recipien-
107
te, si alza sempre in maniera uniforme e omogenea.
Ma quando si tratta dei prezzi non esiste un “livello”
di questo genere. I prezzi non variano nella stessa mi-
sura e allo stesso tempo. Vi saranno sempre alcuni
prezzi che variano più velocemente, che aumentano o
scendono molto di più rispetto ad altri. Vi è anche una
ragione per questo.
Prendiamo l’esempio del dipendente pubblico che ha
ricevuto del denaro appena stampato e aggiunto
all’offerta di moneta. Gli individui non comprano oggi
esattamente le stesse merci (e la stessa quantità di tali
merci) che compravano ieri. Il denaro aggiuntivo
stampato dal governo e introdotto sul mercato non
viene utilizzato per l’acquisto di tutti i beni e servizi.
Verrà usato per l’acquisto di determinati beni, i cui
prezzi subiranno un aumento, mentre altri beni rimar-
ranno con gli stessi prezzi che avevano prima
dell’ingresso della nuova moneta nel mercato. Dun-
que, quando l’inflazione inizia, i differenti gruppi so-
ciali verranno colpiti in maniera assolutamente diver-
sa. Coloro che ricevono il nuovo denaro per primi ver-
ranno temporaneamente favoriti.
Quando il governo inizia il processo inflazionistico per
poter combattere una guerra, esso deve acquistare
munizioni, e, pertanto, i primi a ricevere il nuovo de-
naro sono le industrie belliche e i loro operai. Questi
gruppi si trovano ora in una posizione parecchio van-
taggiosa. Hanno profitti e salari più elevati e il loro bu-
108
siness va avanti in maniera virtuosa. Perché? Perché
sono stati i primi a ricevere il denaro aggiuntivo e,
avendone di più a loro disposizione, iniziano a com-
prare di più. E comprano presso coloro che producono
e vendono i beni di cui le industrie belliche hanno bi-
sogno.
Essi formano il secondo gruppo. E il secondo gruppo
considera l’inflazione un fenomeno molto positivo per
i propri affari. Perché non sarebbe così? Non è meravi-
glioso poter vendere di più? Per esempio, il proprieta-
rio di un ristorante vicino alla fabbrica di munizioni
dirà: «È veramente meraviglioso! Gli operai della fab-
brica hanno più soldi, sono più numerosi e ‘finanzia-
no’ il mio ristorante. Sono veramente molto contento
di tutto ciò». Egli non avrebbe alcun motivo per pen-
sarla diversamente.
La situazione è la seguente: coloro che ricevono il de-
naro per primi avranno un reddito più elevato, e po-
tranno ancora acquistare diversi beni e servizi a prezzi
che corrispondono allo status precedente del mercato,
alla vigilia del processo inflazionistico. Di conseguen-
za, si trovano in una posizione del tutto vantaggiosa.
Così l’inflazione prosegue, passo dopo passo, da un
gruppo della popolazione all’altro, gradualmente.
Tutti coloro che ricevono il denaro aggiuntivo durante
le prime fasi del processo inflazionistico vengono favo-
riti, perché possono acquistare alcuni beni a prezzi che
ancora corrispondono alla situazione precedente,
109
quando il rapporto di cambio tra denaro e merci era
diverso.
Ma vi sono alcuni gruppi della popolazione che rice-
vono questo denaro aggiuntivo molto, molto più tardi.
Essi si trovano in una posizione svantaggiata. Durante il
periodo di tempo che precede l’arrivo del denaro ag-
giuntivo alle loro tasche, essi sono costretti a pagare di
più per alcuni – o praticamente per tutti i – beni che
vogliono acquistare, mentre le loro remunerazioni ri-
mangono pressoché inalterate, o comunque spropor-
zionatamente aggiornate rispetto all’incremento dei
prezzi.
Prendiamo in analisi la situazione degli Stati Uniti du-
rante la Seconda guerra mondiale; da un lato,
l’inflazione all’epoca favoriva gli operai delle fabbriche
di munizioni, le fabbriche di munizioni e le industrie
di armi, mentre dall’altro lato l’inflazione produceva
effetti del tutto perniciosi per gli altri gruppi della po-
polazione. E coloro che hanno sofferto i più grandi
svantaggi all’epoca sono stati gli insegnanti e i sacer-
doti.
Come sapete, un sacerdote è una persona assai mode-
sta che serve Dio e che non parla molto di denaro. Gli
insegnanti, ugualmente, sono persone dedicate che, in
linea di principio, si preoccupano di più
dell’educazione dei giovani che dei propri salari. Di
conseguenza, gli insegnanti e i sacerdoti sono stati al-
cuni dei gruppi più penalizzati dall’inflazione, dato
110
che le diverse scuole e chiese sono state tra le ultime
istituzioni ad accorgersi che era necessario aumentare
gli stipendi dei collaboratori.
Quando i capi delle chiese e le associazioni scolastiche
hanno finalmente capito che dovevano aumentare i
salari di quelle persone tanto dedicate, le perdite eco-
nomiche che tali categorie avevano sofferto all’inizio
sono rimaste comunque non del tutto compensate.
Per un lungo periodo di tempo, questi hanno dovuto
comprare di meno rispetto a prima, ridurre i consumi
di generi alimentari migliori e più costosi, e restringere
le spese per l’abbigliamento – visto che i prezzi di tali
beni erano già aumentati, mentre le loro remunerazio-
ni erano comunque rimaste congelate (questa situazio-
ne è parecchio cambiata oggi, almeno per quanto ri-
guarda gli insegnanti).
Dunque, i differenti gruppi della popolazione subisco-
no gli effetti dell’inflazione in maniera assai diversa.
Per alcuni di loro, l’inflazione non è poi così negativa;
anzi, desiderano che tale fenomeno diventi definitivo,
perché sono i primi a trarne vantaggio. Nella prossima
lezione vedremo come questa disuguaglianza delle
conseguenze generate dall’inflazione influisca in ma-
niera fondamentale sulle politiche che portano alla
promozione e alla continuità del fenomeno stesso.
Come conseguenza dei cambiamenti causati
dall’inflazione, vi sono gruppi che beneficiano della

111
situazione e gruppi che ne traggono profitto diretta-
mente. Non utilizzo il termine “profitto” per offendere
queste persone, perché se qualcuno dev’essere colpe-
volizzato di tale situazione, questo sarebbe il governo,
che per primo ha avviato il processo inflazionistico.
Vi sono sempre persone che appoggiano l’inflazione,
perché si rendono conto di ciò che sta succedendo mol-
to prima degli altri. I loro abbondanti profitti esistono
in ragione dell’intrinseca disuguaglianza portata in at-
to dal processo inflazionistico.

AL GOVERNO NON PIACE TASSARE


Il governo può ritenere che l’inflazione – in quanto me-
todo di raccolta fondi – sia migliore della tassazione, la
quale è sempre molto impopolare, oltre ad essere di
complicata attuazione. In molti Paesi ricchi e grandi, i
legislatori hanno spesso discusso, per mesi e mesi, le
diverse modalità per introdurre nuove tasse che sareb-
bero state necessarie per coprire l’aumento delle spese
già deliberato dal Parlamento. Dopo tali discussioni e
analisi, hanno infine deciso che sarebbe stato meglio
fare la raccolta fondi tramite l’inflazione.
È ovvio che la parola “inflazione” non venisse mai uti-
lizzata. Il politico al potere che decide di avviare un
processo inflazionistico non annuncerà: «Sto avviando
un processo inflazionistico». I metodi tecnici impiegati
112
per innescare tale processo sono così complicati che il
cittadino medio non si rende conto del fatto che
l’inflazione è già iniziata.
Uno dei processi inflazionistici più grandi della storia
fu quello avvenuto nel Reich tedesco dopo la Prima
guerra mondiale. L’inflazione non era particolarmente
apparente durante la guerra; fu invece l’inflazione del
dopoguerra a condurre alla catastrofe. Il governo non
disse: «Stiamo avviando un processo inflazionistico».
Semplicemente prese in prestito del denaro dalla Ban-
ca centrale in un modo assai indiretto. Il governo non
dovette chiedere alla Banca centrale come essa avrebbe
trovato e consegnato quel denaro: semplicemente lo
stampò.
Oggi le tecniche per innescare l’inflazione sono più
complicate, dal momento che esistono i depositi banca-
ri a vista. Vi sono, dunque, altre tecniche, ma il risulta-
to è comunque lo stesso. Col semplice movimento di
una penna, il governo crea la cosiddetta fiat money (o
moneta fiduciaria), e in questo modo aumenta la quan-
tità di moneta e di credito. Il governo semplicemente
emana l’ordine e la fiat money viene creata.

L’INFLAZIONE NON PUÒ DURARE


Al governo non importa, almeno all’inizio, che alcuni
individui verranno svantaggiati e che i prezzi saliran-
113
no continuamente. I legislatori diranno: «Questo è un
sistema stupendo!». Ma questo meraviglioso sistema
ha un fondamentale vulnus: esso non può perdurare a
lungo.
Se l’inflazione potesse proseguire all’infinito, non
avrebbe senso argomentare e chiedere ai governi che
smettano di promuovere tale fenomeno. Ma un fatto
del tutto oggettivo e sicuro sul fenomeno inflazionisti-
co è che, prima o poi, deve terminare. È una politica
che non è capace di durare più di tanto.
Nel lungo termine, l’inflazione finisce in ragione del
collasso della moneta; finisce in catastrofe, in una si-
tuazione molto simile a quella della Germania del
1923. Il 1º agosto 1914, il dollaro valeva quattro marchi
e venti pfennig. Nove anni e tre mesi dopo, nel no-
vembre 1923, il dollaro era equivalente a 4.2 trilioni di
marchi. In altre parole, il marco non valeva nulla, non
aveva più alcun valore.
Alcuni anni fa, il rinomato economista John Maynard
Keynes ha scritto: «Nel lungo termine saremo tutti
morti». Questo è sicuramente vero, mi dispiace am-
metterlo. Ma la questione è: quanto durerà il breve
termine?
Nel diciottesimo secolo visse la famosa Madame de
Pompadour (1721-1764), nota per il suo detto: «Après
nous le déluge» (Dopo di noi, il diluvio). Ella fu abba-
stanza fortunata da morire nel breve termine, ma colei

114
che le succedette, Madame du Barry (1743-1793), visse
sicuramente oltre il breve termine, solo per essere poi
decapitata nel lungo termine. Per molti, il “lungo ter-
mine” velocemente diventa “breve termine” – e più va
avanti l’inflazione, più breve sarà il “breve termine”.
Quanto può durare il breve termine? Per quanto tem-
po una Banca centrale può continuare a promuovere il
processo inflazionistico? Probabilmente tanto a lungo
quanto durerà la convinzione, da parte degli individui,
che il governo, prima o poi, ma sicuramente non ecces-
sivamente tardi, smetterà di stampare denaro, inter-
rompendo il processo di svalutazione dell’unità di
moneta.
Quando le persone smettono di credere a ciò, quando
si rendono conto che il governo continuerà a seguire
questa strada indefinitamente, senza la minima inten-
zione di fermarsi, allora iniziano a capire che i prezzi
domani saranno più alti di quelli di oggi. A questo
punto, iniziano a comprare beni a qualsiasi prezzo, il
che fa sì che i prezzi salgano così velocemente e rag-
giungano valori così elevati che il sistema monetario
non resista e crolli.
Mi riferisco al caso della Germania, a cui tutto il mon-
do ha assistito. Molteplici libri hanno descritto gli
eventi di quel periodo. (Benché io non sia tedesco, ma
austriaco, ho visto, dall’interno, tutto ciò che è accadu-
to lì: in Austria le condizioni non erano molto diverse
da quelle in Germania; non erano nemmeno molto di-
115
verse da quelle di molti altri Paesi europei.)
Per parecchi anni, il popolo tedesco ha ritenuto che
l’inflazione fosse solo un fenomeno temporaneo, che
presto sarebbe finito. L’hanno creduto per quasi nove
anni, fino all’estate del 1923. Poi hanno iniziato ad ave-
re dei dubbi a riguardo. Siccome l’inflazione continua-
va a crescere, le persone hanno pensato che sarebbe
stato intelligente comprare qualsiasi cosa fosse dispo-
nibile – un’alternativa migliore che tenersi i soldi in
tasca. Inoltre, tutti hanno ritenuto abbastanza ragione-
vole non dare soldi in prestito, e che, anzi, sarebbe sta-
to meglio essere un debitore. L’inflazione, quindi, con-
tinuava a nutrirsi di sé stessa.
Questo processo è andato avanti in Germania fino al 20
novembre 1923. Le masse hanno creduto che il denaro
inflazionato fosse denaro vero, ma poi hanno scoperto
che le condizioni erano cambiate. Nell’autunno 1923, al
termine dell’inflazione tedesca, le fabbriche tedesche
pagavano i loro operai ogni mattina in anticipo per la
giornata di lavoro.
L’operaio, che andava a lavorare in fabbrica accompa-
gnato dalla moglie, immediatamente le consegnava il
proprio stipendio – tutti i milioni che aveva ricevuto.
La signora andava direttamente in un negozio per
comprare qualcosa, qualsiasi cosa. Ella capiva ciò che
molti già sapevano all’epoca – che da un giorno
all’altro il marco perdeva il cinquanta per cento del
suo potere d’acquisto.
116
Il denaro, esattamente come la cioccolata nel forno, si
scioglieva nelle tasche delle persone. Quest’ultima fase
dell’inflazione tedesca non è durata a lungo: dopo al-
cuni giorni l’incubo è finito, il marco ha perso tutto il
suo valore ed è stata creata una nuova moneta.

IL GOLD STANDARD
Lord Keynes, lo stesso uomo che disse che nel lungo
termine saremo tutti morti, fu uno dei tantissimi soste-
nitori dell’inflazione del ventesimo secolo. Tutti questi
autori hanno scritto intere opere contro il gold standard.
Quando Keynes attaccava tale sistema, lo definiva
“barbaro relitto”.
Oggi la maggioranza delle persone ritiene sia ridicolo
parlare di un ritorno al gold standard. Negli Stati Uniti,
per esempio, verrebbe considerato praticamente un
sognatore chi dicesse che “prima o poi gli Stati Uniti
dovranno ritornare al gold standard”.
Il sistema aureo si fonda su una grandissima virtù: la
quantità di moneta in circolazione non dipende da
giudizi politici da parte dei governi e dei partiti politi-
ci. È questo il suo pregio. È una forma di tutela contro
le tendenze dei governi a spendere in maniera smisu-
rata e incontrollabile.
Se al governo venisse chiesto, in un sistema basato sul
gold standard, di spendere soldi per una nuova opera
117
pubblica, il Ministro delle finanze potrebbe replicare:
«E dove posso trovare questi soldi? Dimmi, innanzitut-
to, come farò per trovare i soldi necessari per sostenere
questa spesa aggiuntiva».
In un sistema basato sull’inflazione, dal punto di vista
dei politici non vi è niente di più semplice che ordinare
alla tipografia statale di stampare la quantità necessa-
ria di denaro per i loro progetti. Dall’altro lato, col gold
standard, ci sarà con molta più probabilità un governo
che attui politiche solide e sostenibili, dato che i suoi
leaders potranno sempre dire al popolo e agli altri poli-
tici: «Non possiamo farlo, a meno che non aumentiamo
le tasse».
Ma quando vi sono le condizioni inflazionistiche, le
persone si abituano a vedere il governo come
un’istituzione che dispone di mezzi illimitati: lo Stato,
il governo, può fare tutto. Se, per esempio, la nazione
vuole un nuovo sistema di autostrade, si aspetta che il
governo lo costruisca. Ma il governo da dove prenderà
tutti questi soldi?
Negli Stati Uniti odierni – ma anche in passato, sotto
McKinley (1843-1901) – si potrebbe dire che il Partito
repubblicano sia più o meno favorevole a una moneta
forte e al gold standard, e che il Partito democratico sia
favorevole all’inflazione – ovviamente non l’inflazione
della cartamoneta, bensì quella dell’argento.
Tuttavia, fu un presidente democratico, il presidente

118
Cleveland (1837-1908), che, sul finire degli anni Ottan-
ta dell’Ottocento, mise il veto alla decisione del Con-
gresso di destinare una piccola somma – circa diecimi-
la dollari – a una comunità appena colpita da un disa-
stro.
Il presidente Cleveland giustificò il suo veto dicendo:
«Nonostante sia un dovere dei cittadini quello di so-
stenere il governo, non è un dovere del governo quello
di sostenere i cittadini». Ciò dovrebbe essere scritto da
ogni uomo di Stato sulle pareti del proprio ufficio af-
finché sia visibile a tutti coloro che vanno da lui a
chiedere soldi.
Mi imbarazza assai il dover semplificare in tal modo
questi problemi. Il sistema monetario è saturo di pro-
blemi complessi, e io non avrei scritto interi volumi a
riguardo se il tema fosse così semplice come lo sto de-
scrivendo ora. Ma le premesse fondamentali sono pre-
cisamente queste: se aumenti la quantità di denaro, ri-
duci il potere d’acquisto dell’unità monetaria.
È questo il motivo per cui alcune persone, quelle che
vengono svantaggiate durante questo processo, non
apprezzano l’inflazione. Coloro che non vengono favo-
riti dall’inflazioni sono precisamente quelli che si la-
mentano.
Se l’inflazione è così negativa e se le persone se ne ren-
dono conto, perché è diventata ormai quasi uno stile di
vita in tutti i Paesi? Addirittura, alcuni dei Paesi più

119
ricchi soffrono di questa patologia. Gli Stati Uniti di
oggi sono sicuramente il Paese più ricco del mondo,
col più alto tenore di vita. E quando viaggi all’interno
del Paese, noti che vi sono costanti discussioni
sull’inflazione e sulla necessità di fermarla. Ma se ne
parla soltanto, non si fa nulla per affrontare il proble-
ma.

INFLAZIONE E STIPENDI
Menzionerò alcuni fatti storici: dopo la Prima guerra
mondiale, la Gran Bretagna è tornata alla parità tra oro
e sterlina del pre-guerra. Vi è stata una rivalutazione
verso l’alto della sterlina. Ciò ha fatto sì che aumentas-
se il potere d’acquisto dei salari di tutti gli operai. In
un mercato veramente libero e senza ostacoli, la remu-
nerazione monetaria nominale si ridurrebbe per com-
pensare tutto ciò, e la remunerazione reale degli operai
non ne soffrirebbe.
Non abbiamo ora il tempo necessario per discutere le
ragioni di ciò. Ma i sindacati in Gran Bretagna non
erano disposti ad accettare un adeguamento verso il
basso della remunerazione monetaria mentre aumen-
tava il potere d’acquisto dell’unità monetaria. Pertanto,
grazie a tale politica monetaria, la remunerazione reale
è stata considerevolmente incrementata.
Di conseguenza, una seria catastrofe ha colpito
120
l’Inghilterra, perché la Gran Bretagna è un Paese di
economia predominantemente industriale, che, perciò,
deve importare le materie prime, i beni semilavorati e i
generi alimentari per poter sopravvivere, e deve espor-
tare i beni industrializzati per pagare tali importazioni.
Con l’aumento della quotazione internazionale della
sterlina inglese, i prezzi dei beni britannici sui mercati
esteri sono aumentati e le vendite e le esportazioni so-
no diminuite. La Gran Bretagna si era, in effetti, autoe-
sclusa dal mercato mondiale.
Non si è riusciti a sconfiggere i sindacati britannici.
Sapete bene quanto potere abbia effettivamente un
sindacato al giorno d’oggi. Praticamente ha il diritto, il
privilegio, di ricorrere alla violenza. E una direttiva
sindacale è, pertanto, non meno importante di un de-
creto governativo.
Il decreto del governo è un ordine la cui esecuzione
viene garantita da un raffinato apparato governativo –
la polizia – che è pronto ad agire. Devi per forza obbe-
dire al decreto governativo, altrimenti potresti avere
problemi con la polizia.
Sfortunatamente, abbiamo oggi, in quasi tutti i Paesi
del mondo, un secondo potere che è capace di esercita-
re la forza: i sindacati degli operai. Tali organizzazioni
determinano gli stipendi e poi organizzano scioperi
per fare in modo che essi vengano rispettati. Seguono
lo stesso modus operandi del governo quando esso, ad
esempio, stabilisce l’importo del salario minimo.
121
Non discuterò la questione dei sindacati; discuteremo
dell’argomento più tardi. Vorrei soltanto ribadire che è
una politica dei sindacati quella di aumentare gli sti-
pendi oltre il livello che avrebbero raggiunto in un
mercato libero e senza ostacoli. Dunque, una parte
considerevole della potenziale forza-lavoro può essere
assunta solo da fabbriche e imprenditori che sono ca-
paci e disposti a sostenere perdite economiche.
E, siccome le aziende non sono in grado di sostenere
continuamente perdite economiche, esse eventualmen-
te chiudono i battenti e le persone si ritrovano disoc-
cupate. L’aumento degli stipendi oltre l’importo natu-
rale in un regime di libero mercato porta sempre alla
disoccupazione di una parte considerevole della forza
di lavoro potenziale.
In Gran Bretagna, il risultato degli stipendi elevati
imposti dai sindacati è stato un duraturo periodo di
disoccupazione, che si è prolungato anno dopo anno.
Milioni di operai si sono trovati senza un posto di la-
voro e la produzione si è ridotta. Addirittura, gli esper-
ti sono rimasti perplessi. E dinanzi a tale situazione, il
governo britannico ha adottato una misura che molti
consideravano indispensabile ed emergenziale: ha sva-
lutato la propria moneta.
Come risultato, il potere d’acquisto della remunera-
zione monetaria, sul quale insistevano così tanto i sin-
dacati, non è rimasto più lo stesso. La remunerazione
reale è stata ridotta. L’operaio non poteva più comprare
122
gli stessi beni che riusciva a comprare prima, anche se
la remunerazione nominale era rimasta invariata. In
questo modo, si è pensato, i salari reali sarebbero torna-
ti ai livelli di libero mercato, e la disoccupazione sa-
rebbe scomparsa.
Questa misura – la svalutazione – è stata adottata da
svariati Paesi, dalla Francia, dai Paesi Bassi e dal Bel-
gio. Un Paese ha addirittura fatto ricorso a questa poli-
tica due volte nel periodo di un anno e mezzo: la Ceco-
slovacchia. È stato un metodo obliquo e subdolo, di-
ciamo, per contrastare il potere dei sindacati. Non si
può affermare, tuttavia, che tale misura abbia avuto un
reale successo.
Dopo alcuni anni, le persone, gli operai, anche i sinda-
cati, hanno cominciato a comprendere ciò che stava
succedendo. Si sono resi conto che la svalutazione mo-
netaria aveva condotto alla riduzione dei loro salari
reali. I sindacati, però, avevano il potere per opporsi a
ciò. In svariati Paesi, essi hanno inserito, nei contratti
di lavoro, una clausola che prevedeva un aumento au-
tomatico dei salari quando vi fosse stato un incremen-
to dei prezzi. Ciò si chiama indicizzazione.
I sindacati sono diventati abbastanza coscienti
dell’importanza dell’indicizzazione. Di conseguenza,
questo metodo di riduzione della disoccupazione che il
governo della Gran Bretagna ha inaugurato nel 1931 –
e che è stato poi adottato da quasi tutti i governi im-
portanti –, questo metodo per “risolvere la disoccupa-
123
zione”, oggi non funziona più.
Nel 1936, nella sua “Teoria Generale dell'Occupazione,
dell'Interesse e della Moneta”, Lord Keynes ha pur-
troppo trasformato questo incipiente metodo – le mi-
sure emergenziali che sono state attuate nel periodo tra
il 1929 e il 1933 – in un principio, in un sistema fonda-
mentale di politica pubblica. In effetti, ha giustificato
questa evoluzione dicendo: «La disoccupazione è un
male. Se vogliamo eliminarla, bisogna inflazionare la
moneta».
Egli ha capito benissimo che i salari possono essere
troppo elevati per il mercato, ossia, troppo alti perché
un imprenditore possa trovare profittevole aumentare
il numero di posti di lavoro nella sua azienda. Dunque,
i salari sarebbero troppo alti anche dal punto di vista
della popolazione totale di lavoratori, dato che, con gli
stipendi imposti dai sindacati al di sopra del livello di
mercato, solo una piccola parte di coloro che cercano
lavoro riescono a trovarlo.
In questo senso, Keynes ha affermato: «Ovviamente la
disoccupazione di massa, prolungata per anni e anni, è
una situazione immensamente insoddisfacente». Tut-
tavia, anziché suggerire che i salari dovrebbero essere
aggiustati secondo le normali condizioni di mercato,
ha proseguito: «Se si svaluta la moneta e gli operai non
sono sufficientemente intelligenti da accorgersene, non
si opporranno a una riduzione dei salari reali, purché
quelli nominali rimangano inalterati». In altre parole,
124
Lord Keynes stava dicendo che se un uomo riceve oggi
la stessa somma di sterline che guadagnava prima del-
la svalutazione monetaria, non si accorgerà del fatto
che, in realtà, ora guadagna di meno.
In un linguaggio più diretto, Keynes ha proposto di
truffare i lavoratori. Anziché dichiarare apertamente
che i salari dovrebbero essere adeguati alle condizioni
del mercato – perché, appunto, se ciò non si verifica
una parte della forza di lavoro rimarrà inevitabilmente
disoccupata – egli disse: «La piena occupazione si rag-
giunge solo tramite l’inflazione. Truffando i lavorato-
ri».
Il fatto più interessante, comunque, è che quando è sta-
ta pubblicata la General Theory, non era più possibile
ingannare nessuno, perché tutti erano già consapevoli
della necessità dell’indicizzazione. La piena occupa-
zione rimaneva, tuttavia, un obiettivo da raggiungere.

STIPENDI E “PIENA OCCUPAZIONE”


Cosa vuol dire “piena occupazione”? Questa situazio-
ne ha a che vedere con un mercato di lavoro libero, che
non abbia ostacoli creati né dai sindacati né dal gover-
no. In questo mercato, i salari corrisposti per ogni tipo
di lavoro tendono a raggiungere un livello tale che
ogni individuo che cerca un lavoro potrà trovarlo, e
ogni imprenditore potrà assumere tutti gli operai di
125
cui avrà bisogno. Se vi sarà un aumento della doman-
da di manodopera, i salari tenderanno a salire, e se sa-
ranno necessari meno lavoratori, i salari tenderanno a
ridursi.
L’unico metodo attraverso cui la “piena occupazione”
potrà essere raggiunta è quello in cui viene garantito
un mercato libero e senza alcun ostacolo. Ciò è valido
per ogni tipo di lavoro e per ogni genere di merce.
Cosa fa un imprenditore che vuole vendere un prodot-
to a cinque dollari al pezzo? Quando non riesce a ven-
derlo a quel prezzo, l’espressione tecnica che si usa ne-
gli Stati Uniti è “the inventory does not move”
(“l’inventario non si muove”). Ma deve muoversi.
L’imprenditore non può tenere i prodotti fermi, perché
deve acquistarne nuovi; le mode cambiano continua-
mente.
Perciò egli lo vende a un prezzo più basso: se non rie-
sce a vendere il prodotto a cinque dollari, deve vender-
lo a quattro. E se non riesce a venderlo a quattro, deve
venderlo a tre. Non esiste un’altra scelta se vuole ri-
manere aperto. Egli può subire delle perdite, ma que-
ste sono dovute al fatto che le sue previsioni riguardo
all’esistenza futura di un vero mercato per il suo pro-
dotto si sono rivelate errate.
Lo stesso succede nel caso delle migliaia e migliaia di
giovani che si trasferiscono dalle campagne in città in
cerca di soldi. Così succede in ogni singola nazione in-

126
dustrializzata. Negli Stati Uniti i giovani arrivano in
città col piano di poter guadagnare, diciamo, cento
dollari a settimana. Ciò può rivelarsi una cosa impos-
sibile.
Dunque, se un individuo non riesce a trovare un lavo-
ro che gli permetta di guadagnare cento dollari a set-
timana, deve provare a trovare un lavoro che renda
novanta o ottanta dollari, forse anche meno. Ma se egli
dovesse dire – come fanno i sindacati – «cento dollari a
settimana o niente», allora potrebbe essere costretto a
rimanere senza lavoro. (A molti non preoccupa la di-
soccupazione, perché il governo offre dei sussidi di di-
soccupazione – finanziati con alcune imposte speciali
pagate dai datori di lavoro – che spesso sono quasi
equivalenti alla remunerazione che un individuo rice-
verebbe se avesse effettivamente un lavoro).
Dato che un certo gruppo di persone ritiene che la pie-
na occupazione possa essere raggiunta solo attraverso
l’inflazione, questo fenomeno viene accettato negli Sta-
ti Uniti. Intanto le persone discutono la seguente que-
stione: è meglio avere una moneta forte accompagnata
dalla disoccupazione, o l’inflazione accompagnata dal-
la piena occupazione? Questa è un’analisi assoluta-
mente perniciosa e sbagliata.
Per affrontare questo problema dobbiamo porci la se-
guente domanda: come si possono migliorare le condi-
zioni dei lavoratori e degli altri gruppi della popola-
zione? La risposta è: attraverso il mantenimento di un
127
mercato libero e senza alcun ostacolo, e, di conseguen-
za, attraverso la piena occupazione. Il nostro dilemma
è sapere se spetta al mercato la determinazione dei di-
versi salari, o se questi devono essere determinati at-
traverso la pressione e la coercizione sindacali. Il di-
lemma non è “meglio avere l’inflazione o la disoccupa-
zione?”.
Questa sbagliata impostazione del problema viene fat-
ta in Inghilterra, nei Paesi industrializzati europei e
addirittura negli Stati Uniti. E alcune persone dicono:
«Guarda, anche gli Stati Uniti stanno inflazionando la
propria moneta. Perché non dobbiamo farlo anche
noi?»
A queste persone bisogna rispondere, innanzitutto, di-
cendo: «Uno dei privilegi dell’uomo ricco è quello di
potersi permettere di essere folle molto più a lungo ri-
spetto all’uomo povero». E questa è la situazione degli
Stati Uniti. La politica finanziaria americana è vera-
mente molto sbagliata e sta peggiorando. Forse gli Sta-
ti Uniti riescono a comportarsi in maniera insensata
più a lungo degli altri Paesi.
La cosa più importante da ricordare è che l’inflazione
non è un atto di Dio; l’inflazione non è una catastrofe
degli elementi o una malattia che si comporta come la
peste. L’inflazione è una politica – una politica attuata
appositamente da persone che la considerano
un’alternativa meno dannosa della disoccupazione.
Ma il fatto è che, nel non così tanto lontano lungo ter-
128
mine, l’inflazione non cura la disoccupazione.
L’inflazione è una politica. E una politica può essere
cambiata. Dunque, non vi è un motivo per cui dob-
biamo necessariamente cedere all’inflazione. Se si rico-
nosce che l’inflazione è un male, allora bisogna smette-
re di inflazionare. È necessario promuovere il pareggio
di bilancio.
Certo, l’opinione pubblica deve sostenere questa ini-
ziativa; gli intellettuali devono aiutare le persone a ca-
pire il problema. Con l’appoggio dell’opinione pubbli-
ca, è senza dubbio possibile che i rappresentanti eletti
del popolo abbandonino la politica inflazionistica.
Dobbiamo ricordare che, nel lungo termine, potremmo
essere tutti morti, e sicuramente lo saremo. Tuttavia,
dobbiamo comunque prenderci cura dei nostri affari
terreni, perché nel breve termine dobbiamo vivere, e
dobbiamo farlo nel miglior modo possibile. E una delle
misure necessarie al raggiungimento di questo propo-
sito è abbandonare le politiche inflazionistiche.

129
QUINTA LEZIONE

GLI INVESTIMENTI ESTERI


Alcuni pensano che i programmi di libertà economica
siano programmi negativi. Dicono: «Cosa volete dav-
vero voi liberali? Siete contro il socialismo,
l’interventismo del governo, l’inflazione, la violenza
dei sindacati, le tariffe e i dazi in generale… Dite ‘no’ a
tutto».
Secondo me, un’affermazione del genere è piuttosto
parziale e, anzi, è un’impostazione assai superficiale
del problema in questione. In realtà è sicuramente pos-
sibile formulare un programma liberale di impostazio-
ne positiva.
Se uno dice: «Sono contrario alla censura», la sua non è
per forza un’idea negativa; egli è, infatti, favorevole al
diritto degli autori di pubblicare ciò che vogliono sen-
za che vi sia l’interferenza da parte del governo. Ciò
non è negativismo, ma precisamente libertà. (Certo,
quando uso il termine “liberale” a proposito delle ca-
ratteristiche del sistema economico intendo dire “libe-
rale” nel vecchio e classico senso della parola.)
Attualmente, molti ritengono insoddisfacenti le consi-
derevoli differenze nel tenore di vita tra i diversi Paesi
del mondo. Duecento anni fa, le condizioni in Gran
Bretagna erano molto peggiori di quelle dell’India di
oggi. Ma i britannici del 1750 non si ritenevano “sotto-
130
sviluppati” o “arretrati”, perché non potevano con-
frontare le condizioni del proprio Paese con quelle dei
Paesi nei quali le condizioni erano più soddisfacenti.
Oggi tutti coloro che non hanno raggiunto il tenore
medio di vita del Regno Unito credono che vi sia qual-
cosa di sbagliato con la loro situazione economica.
Molti di questi Paesi si dichiarano “Paesi in via di svi-
luppo” e, come tali, chiedono aiuto ai cosiddetti “Paesi
sviluppati” o addirittura “Sovrasviluppati”.

STRUMENTI MIGLIORI PER AUMENTARE


LA PRODUZIONE

Lasciatemi spiegare come stanno realmente le cose. Il


tenore di vita è più basso nei cosiddetti “Paesi in via di
sviluppo” perché la remunerazione media per lo stesso
tipo di lavoro è più bassa in questi Paesi rispetto a
quella che percepiscono i lavoratori dell’Europa occi-
dentale, del Canada, del Giappone e soprattutto degli
Stati Uniti.
Se proviamo a individuare le ragioni di ciò, dobbiamo
capire che tale distinzione non è dovuta a una poten-
ziale inferiorità degli operai o degli altri dipendenti. Vi
è all’interno di alcuni gruppi di lavoratori
dell’America del Nord una tendenza a credere che sia-
no migliori degli altri – cioè, che ricevono stipendi più
elevati in ragione della propria superiorità, del proprio
131
merito.
Basterebbe che un operaio americano visitasse un altro
Paese – ad esempio, l’Italia, Paese d’origine di tanti la-
voratori americani – per scoprire che non sono le sue
qualità personali, bensì le condizioni esistenti
all’interno di un Paese, a fare sì che la sua remunera-
zione sia più elevata.
Se un siciliano emigra negli Stati Uniti, potrà riuscire
molto presto a guadagnare uno stipendio equivalente
alla media americana. E se questo stesso uomo dovesse
ritornare in Sicilia, scoprirebbe subito che la sua visita
negli Stati Uniti non gli ha fornito le qualità che gli
avrebbero permesso di guadagnare di più dei suoi
connazionali.
Nemmeno si può spiegare questa situazione economi-
ca presumendo una sorta di inferiorità degli imprendi-
tori non-americani. È un dato di fatto che, ad eccezione
degli Stati Uniti, del Canada, dell’Europa occidentale e
di alcune parti dell’Asia, gli strumenti e i metodi tec-
nologici impiegati nelle fabbriche sono di gran lunga
inferiori a quelli che vi sono negli Stati Uniti. Ma ciò
non si deve a una presunta ignoranza degli imprendi-
tori di quei Paesi “sottosviluppati”.
Sanno benissimo che le fabbriche negli Stati Uniti e in
Canada impiegano strumenti molto superiori. Essi
stessi sanno tutto ciò che c’è da sapere sulla tecnologia
– e, se così non fosse, avrebbero comunque

132
l’opportunità di imparare assolutamente tutto ciò che
serve a loro dai libri e dalle riviste specializzate che di-
vulgano queste conoscenze.
Ripeto: la differenza non è dovuta all’inferiorità perso-
nale o all’ignoranza. La differenza si deve all’offerta di
capitale, alla quantità di beni capitali disponibili. In
altre parole, il capitale investito pro capite è più eleva-
to nelle cosiddette nazioni avanzate rispetto a quelle in
via di sviluppo.
Un imprenditore non può pagare a un dipendente uno
stipendio più alto dell'importo aggiunto dal lavoro di
questo dipendente al valore del prodotto. Non può
pagarlo di più di quanto i consumatori sono disposti a
pagare per il lavoro aggiuntivo di questo singolo di-
pendente.
Se lo paga di più, non riuscirà, con i soldi ricevuti dai
clienti, a coprire le spese sostenute. Egli inizierà ad
avere perdite economiche e, come ho sottolineato sva-
riate volte e come sanno tutti, un imprenditore che ini-
zia a subire perdite deve cambiare i suoi metodi azien-
dali, oppure andrà in bancarotta.
Gli economisti descrivono questa situazione ribadendo
che «i salari vengono determinati dalla produttività
marginale del lavoro». Questa è semplicemente una
maniera diversa per spiegare ciò che ho appena detto.
È un dato di fatto che la scala salariale venga determi-
nata in base alla misura in cui il lavoro di un individuo

133
incrementa il valore di un prodotto.
Se un uomo lavora con attrezzature migliori e più effi-
cienti, allora riuscirà a fare in un’ora molto più di
quanto potrebbe fare un altro uomo con strumenti me-
no efficienti nello stesso arco di tempo. È ovvio che
cento uomini lavorando in una fabbrica di calzature
americana e utilizzando i più moderni macchinari e
strumenti riusciranno a produrre, nello stesso arco di
tempo, molto di più di cento calzolai in India, i quali
utilizzeranno strumenti antiquati in una maniera mol-
to meno sofisticata.
Gli imprenditori in tutte le nazioni in via di sviluppo
sanno benissimo che strumenti migliori renderebbero
le loro imprese maggiormente profittevoli. Vorrebbero
costruire più fabbriche, e vorrebbero anche migliorarle
e aggiornarle tecnologicamente. L’unica cosa che im-
pedisce loro di farlo è la mancanza di capitale.
La differenza tra le nazioni meno sviluppate e quelle
più sviluppate è una funzione del tempo: i britannici
hanno iniziato a risparmiare prima di tutte le altre na-
zioni, hanno anche iniziato prima ad accumulare capi-
tale e a investirlo negli affari. Dato che hanno iniziato
prima a fare tutto ciò, vi era un tenore di vita più ele-
vato in Gran Bretagna rispetto a quello di tutti gli altri
Paesi europei.
Gradualmente, tutte le altre nazioni hanno iniziato a
studiare le condizioni britanniche e non è stato difficile

134
per loro scoprire le ragioni della ricchezza della Gran
Bretagna. E, in questo modo, hanno iniziato a imitare i
metodi e le tecniche delle imprese britanniche.
Siccome le altre nazioni hanno iniziato più tardi, e sic-
come i britannici non hanno smesso di investire il pro-
prio capitale, è rimasta comunque un’enorme differen-
za tra le condizioni in Inghilterra e quelle negli altri
Paesi. Ma poi è successa una cosa che ha fatto sì che il
vantaggio britannico sparisse.

GLI INVESTIMENTI ESTERI BRITANNICI


Accadde il più grande evento di tutto il diciannovesi-
mo secolo, e non solo della storia di un unico Paese. Il
grande evento fu lo sviluppo, nel diciannovesimo seco-
lo, degli investimenti esteri. Nel 1817, il grande econo-
mista britannico David Ricardo (1772-1823) dava anco-
ra per scontato che il capitale potesse essere investito
solamente entro i confini di un Paese.
Diede per scontato, ecco, che i capitalisti non avrebbe-
ro tentato di investire all’estero. Ma alcuni decenni più
tardi, gli investimenti di capitali all’estero iniziarono a
svolgere un ruolo fondamentale negli affari mondiali.
Senza gli investimenti di capitali, le nazioni meno svi-
luppate della Gran Bretagna avrebbero dovuto iniziare
con metodi e tecnologie analoghe a quelle di cui di-
sponeva la Gran Bretagna dall’inizio alla metà del di-
135
ciottesimo secolo e, lentamente, un passo alla volta – e
restando sempre molto al di sotto del livello
dell’economia britannica –, avrebbero dovuto cercare
di imitare ciò che i britannici avevano fatto.
Ci sarebbero voluti tanti, tantissimi decenni prima che
questi Paesi potessero arrivare allo stesso livello di svi-
luppo tecnologico raggiunto dalla Gran Bretagna
cent’anni prima di loro. Ma il grande evento che aiutò
tutti questi Paesi fu l’investimento estero.
L’investimento estero significava che i capitalisti bri-
tannici investivano il capitale inglese in altre parti del
mondo. Investirono inizialmente in quei Paesi europei
che, dal punto di vista della Gran Bretagna, soffrivano
di una scarsa quantità di capitale ed erano arretrati.
È un fatto assai noto che le ferrovie della maggioranza
dei Paesi europei, e anche degli Stati Uniti, furono co-
struite con l’aiuto del capitale inglese. Come sapete, la
stessa cosa accadde qui, in Argentina.
Le compagnie del gas in tutte le città d’Europa erano
anch’esse inglesi. Verso la metà del 1870, un autore e
poeta britannico criticò i suoi connazionali dicendo: «I
britannici hanno perso il loro antico vigore e non han-
no più nuove idee. Non sono più una nazione impor-
tante, non sono più una nazione che conduce il mon-
do».
Replicò a questo scrittore il grande sociologo Herbert
Spencer: «Guardi il continente europeo. Tutte le capita-

136
li europee sono illuminate perché una compagnia bri-
tannica fornisce loro del gas». Questo accadde, ovvia-
mente, in quell’epoca che oggi, a noi, sembra la “remo-
ta” era dell’illuminazione a gas.
Proseguendo nella risposta a questo autore britannico,
Herbert Spencer aggiunse: «Lei dice che i tedeschi so-
no molto più avanzati rispetto alla Gran Bretagna. Ma
guardi la Germania. Addirittura, Berlino, la capitale
del Reich tedesco, la capitale del Geist, sarebbe comple-
tamente al buio, se una compagnia britannica non
avesse invaso il Paese e illuminato le strade».
Allo stesso modo, il capitale britannico contribuì allo
sviluppo delle ferrovie e di molteplici settori
dell’industria negli Stati Uniti. E, certamente, quando
una nazione continua a importare capitale dall’estero,
la sua bilancia commerciale si trova, come direbbe un
non economista, in situazione “sfavorevole”.
Ciò significa, in pratica, che le importazioni superano
le esportazioni. In questo senso, la Gran Bretagna ave-
va una “bilancia commerciale favorevole” perché le
fabbriche britanniche inviavano svariati strumenti e
attrezzature agli Stati Uniti, e questi venivano pagati
integralmente con azioni delle imprese americane.
Questo periodo della storia degli Stati Uniti durò pra-
ticamente fino agli anni Novanta del diciannovesimo
secolo.
Ma quando gli Stati Uniti, con l’aiuto del capitale bri-

137
tannico – e, più tardi, con l’aiuto delle proprie politiche
“pro-capitalistiche” – svilupparono il proprio sistema
economico in una maniera senza precedenti, gli ameri-
cani iniziarono a riacquistare le azioni che avevano
precedentemente venduto agli stranieri. In quel perio-
do, le esportazioni americane superarono le importa-
zioni. La differenza fu pagata dall’importazione – o dal
rimpatrio, come lo ha chiamato qualcuno – di azioni
ordinarie americane.
Questo periodo durò fino alla Prima guerra mondiale.
Ciò che è successo dopo è un’altra storia. Si tratta della
storia dei sussidi americani agli Stati belligeranti tra e
anche dopo le due guerre mondiali: i prestiti, gli inve-
stimenti che gli Stati Uniti hanno fatto in Europa, oltre
ai leasing, l’aiuto agli Stati esteri, il Piano Marshall,
l’invio di generi alimentari oltreoceano, e tanti altri
sussidi e sovvenzioni.
Ci tengo a sottolinearlo perché molti credono che sia
vergognoso o addirittura degradante avere del capitale
estero investito nel proprio Paese. Dovete capire che,
in tutti i Paesi tranne l’Inghilterra, l’investimento di
capitale estero ha svolto un ruolo considerevole nello
sviluppo delle industrie moderne.
Quando dico che l’investimento estero è stato il più
grande evento storico del diciannovesimo secolo, do-
vete pensare a tutte quelle cose che non sarebbero state
realizzate se non fossero esistiti gli investimenti esteri.
Tutte le ferrovie, i porti, le fabbriche e le miniere in
138
Asia, il canale di Suez e tante altre opere nell’emisfero
occidentale non sarebbero state costruite in assenza
dell’investimento estero.

OSTILITÀ AGLI INVESTIMENTI ESTERI


L’investimento estero viene fatto nell’aspettativa che
non verrà poi espropriato. Nessuno investirebbe qual-
cosa se sapesse già in anticipo che qualcuno esproprie-
rà i suoi investimenti. Nel periodo tra il diciannovesi-
mo e l’inizio del ventesimo secolo non veniva nemme-
no posto il problema dell’espropriazione. Dall’inizio,
alcuni Paesi furono molto ostili al capitale estero, ma
normalmente si rendevano conto degli espliciti van-
taggi che ne derivavano.
In alcuni casi, questi capitali esteri non erano investiti
direttamente sui progetti condotti dai capitalisti stra-
nieri, bensì indirettamente attraverso prestiti al gover-
no del Paese. Successivamente il governo investiva
questi soldi in progetti nazionali. Questo era, ad esem-
pio, il caso della Russia. Per ragioni puramente politi-
che, i francesi investirono in Russia, nei due decenni
che precedettero la Prima guerra mondiale, circa venti
miliardi di franchi d’oro; e questo investimento fu in-
viato direttamente al governo russo.
Tutte le grandi opere realizzate dal governo russo – ad
esempio, la ferrovia che collega la Russia dai Monti
139
Urali, attraverso il giacchio e la neve della Siberia, fino
al Pacifico – furono costruite principalmente con
l’aiuto degli investimenti esteri forniti al governo rus-
so. Ovviamente, i francesi non avevano immaginato
che un giorno vi sarebbe stato un governo comunista
in Russia, il quale avrebbe semplicemente dichiarato di
non voler più pagare i debiti contratti dal governo pre-
cedente, il governo zarista.
A partire dalla Prima guerra mondiale ebbe inizio un
periodo di guerra dichiarata agli investimenti esteri.
Dal momento che non esiste un metodo efficiente con
cui impedire a un governo di espropriare il capitale
investito, oggi è inesistente la protezione legale per gli
investimenti esteri nel mondo. I capitalisti non
l’avevano previsto. Se i capitalisti dei Paesi esportatori
di capitale se ne fossero resi conto, tutti gli investimen-
ti esteri sarebbero stati interrotti quaranta o cin-
quant’anni fa.
Ma i capitalisti non immaginavano che un Paese si sa-
rebbe potuto comportare in una maniera così disonesta
e immorale non solo da rinnegare i propri debiti, ma
anche espropriare e confiscare il capitale estero. Dopo
questi avvenimenti, è iniziato un nuovo capitolo della
storia economica mondiale.
Con la fine del grande periodo del ventesimo secolo,
quando il capitale straniero ha contribuito allo svilup-
po, in tutte le parti del mondo, di moderni metodi di
trasporto, delle industrie, delle miniere,
140
dell’agricoltura, ha avuto inizio un’era in cui i governi
e i partiti politici hanno considerato gli investitori degli
sfruttatori che andavano espulsi dal Paese.
In questa ondata di atteggiamento anticapitalista, i
russi non erano gli unici peccatori. Ricordate, per
esempio, l’espropriazione dei pozzi petroliferi ameri-
cani in Messico, e di tutte le cose che sono accadute in
questo Paese, in Argentina, fatti che non ho certo biso-
gno di approfondire.
La situazione nel mondo attuale, creata dal sistema di
espropriazione del capitale straniero, consiste
nell’espropriazione diretta o indiretta attraverso il con-
trollo del cambio estero o la tassazione discriminatoria.
Questo è un problema che esiste soprattutto nelle na-
zioni in via di sviluppo.
Prendiamo, ad esempio, la più grande di queste nazio-
ni: l’India. Sotto il governo britannico, il capitale bri-
tannico – predominantemente britannico, ma anche
quello delle altre nazioni europee – fu investito in In-
dia. E i britannici esportarono in India altre cose che
vanno menzionate: esportarono in India moderni me-
todi con cui combattere le malattie infettive.
Come risultato, si verificò un colossale aumento della
popolazione indiana e un altrettanto enorme incre-
mento dei problemi del Paese. Dinanzi a una situazio-
ne che si aggravava, l’India decise di scegliere
l’espropriazione come il metodo più adeguato a risol-

141
vere i problemi. Tuttavia, non si trattava sempre di
espropriazione diretta: il governo dava fastidio ai capi-
talisti stranieri, creando così tanti ostacoli ai loro inve-
stimenti che questi investitori furono praticamente co-
stretti a vendere le loro quote.
L’India avrebbe potuto, ovviamente, accumulare capi-
tale in un altro modo: l’accumulazione domestica (o in-
terna) di capitale. Ciononostante, l’India è ugualmente
contraria all’accumulazione domestica di capitale. Il
governo indiano dice di voler industrializzare il Paese,
ma ciò che vuole veramente è creare delle imprese so-
cialiste.
Pochi anni fa, il famoso uomo di Stato Jawaharlal Neh-
ru (1889-1964) ha pubblicato una raccolta dei suoi di-
scorsi. Il libro è stato pubblicato con l’intenzione di
stimolare gli investimenti stranieri in India. Il governo
indiano non è contrario agli investimenti esteri prima
che questi entrino nel Paese.
L’ostilità inizia solo quando il capitale è già stato inve-
stito. In questo libro – cito testualmente – il signor
Nehru afferma: «Certo, vogliamo socializzare il Paese.
Ma non siamo contrari alle imprese private. Vogliamo
incoraggiarle in tutti i modi. Vogliamo promettere agli
imprenditori che desiderano investire nel nostro Paese
che non abbiamo l’intenzione di espropriare o di na-
zionalizzare le loro aziende prima di dieci anni, o forse
addirittura di più».

142
E Nehru pensava che questo fosse un invito ad investi-
re in India!

I GOVERNI OSTACOLANO IL RISPARMIO


Il problema – come sapete – è l’accumulazione dome-
stica di capitale. Oggi vi sono pesantissime imposte
incidenti sulle imprese in tutti i Paesi. Infatti, le azien-
de subiscono addirittura la doppia imposizione fiscale:
innanzitutto il profitto delle imprese viene tassato pe-
santemente; e successivamente vengono tassati anche i
dividendi che esse pagano agli azionisti. E questo vie-
ne fatto in maniera progressiva.
L’attuale imposta progressiva sui redditi e sui profitti
funziona nel seguente modo: vengono tassate precisa-
mente quelle porzioni del reddito che le persone
avrebbero risparmiato o investito. Prendiamo
l’esempio degli Stati Uniti. Qualche anno fa vi è stata
questa imposta sul “profitto in eccesso”, il che signifi-
cava che su ogni dollaro guadagnato un’impresa pote-
va tenere per sé soltanto diciotto centesimi.
Quando questi diciotto centesimi venivano distribuiti
tra gli azionisti, quelli che possedevano un grande
numero di azioni dovevano pagare un altro sessanta o
ottanta per cento (o addirittura di più) di imposte. Su
un dollaro guadagnato potevano effettivamente met-
tersi in tasca circa sette centesimi, e novantatré cente-
143
simi andavano direttamente al governo.
La maggior parte di questo novantatré per cento ver-
rebbe sicuramente risparmiata o investita se fosse la-
sciata agli azionisti, ma in mano al governo veniva
usata semplicemente per sostenere le spese correnti.
Questa è la politica concreta degli Stati Uniti.
Penso di essere riuscito a spiegare con chiarezza che le
politiche americane non sono esempi degni di essere
imitati dagli altri Paesi. La politica che ho menzionato
precedentemente è peggio che sbagliata – è folle.
L’unica cosa che mi piacerebbe aggiungere è che un
Paese ricco può permettersi un maggior numero di po-
litiche sbagliate rispetto a un Paese povero.
Negli Stati Uniti, malgrado l’esistenza di tutti questi
metodi di tassazione, vi sono ancora delle porzioni di
capitale e d’investimenti che vengono accumulate ogni
anno, e, pertanto, vi è ancora una tendenza verso
l’incremento del tenore di vita.
Ma in molti Paesi il problema è assai grave. Non vi è (o
non è sufficiente) il risparmio domestico, e gli investi-
menti di capitale dall’estero vengono seriamente ridot-
ti a causa della manifesta ostilità da parte loro.
Come possono parlare di industrializzazione, della ne-
cessità di sviluppare nuovi impianti industriali, di mi-
gliorare le condizioni nazionali, di incrementare il te-
nore di vita, di avere salari più elevati, migliori mezzi
di trasporto, se attuano politiche che generano proprio

144
l’effetto opposto? Ciò che le loro politiche effettiva-
mente fanno è prevenire o ridurre l’accumulo domesti-
co di capitale e ostacolare l’arrivo e la permanenza del
capitale estero nei loro Paesi.
Il risultato finale è senza dubbio terribile. Una situa-
zione del genere porta alla sfiducia, e al giorno d’oggi
sono sempre di più i Paesi i cui capitalisti non si fidano
di investire all’estero. Anche se i Paesi interessati do-
vessero cambiare immediatamente le loro politiche e
fare tutte le immaginabili promesse, è molto difficile
immaginare che riuscirebbero a convincere ancora una
volta i capitalisti stranieri a investire in quei posti.
Esistono, senza dubbio, dei metodi con i quali evitare
tale conseguenza. Si potrebbero stabilire dei trattati o
statuti internazionali, che non siano semplici accordi,
che sottraggono gli investimenti esteri alla giurisdizio-
ne nazionale. Le Nazioni Unite potrebbero fare qualco-
sa in questa direzione. Ma questa istituzione non è al-
tro che un posto di ritrovo per discussioni inutili.
Una volta che ci si rende conto dell’enorme importan-
za degli investimenti esteri, del fatto che essi, da soli,
potrebbero portare a un incremento delle condizioni
politiche ed economiche in tutto il mondo, si potrebbe
tentare di fare qualcosa dal punto di vista della legisla-
zione internazionale.
Questo è un problema tecnico legale, e ho deciso di
menzionarlo qui solo perché la situazione non è ancora

145
irrimediabile. Se il mondo effettivamente volesse offri-
re ai Paesi in via di sviluppo la possibilità di innalzare
il loro tenore di vita al livello dell’American way of life,
lo potrebbe fare. È necessario soltanto capire come si
potrebbe farlo.

I PAESI IN VIA DI SVILUPPO HANNO BI-


SOGNO DI CAPITALE

L’unica cosa che manca ai Paesi in via di sviluppo af-


finché diventino prosperi come gli Stati Uniti è la se-
guente: il capitale – e, ovviamente, la libertà di poterlo
gestire in un sistema basato su regole di mercato, non
su regole imposte dal governo. Queste nazioni devono
accumulare capitale domestico, e devono anche fare il
possibile affinché il capitale estero venga investito nei
loro Paesi.
Per quanto riguarda lo sviluppo del risparmio dome-
stico è necessario menzionare ancora una volta che il
consistente risparmio domestico da parte della popo-
lazione presuppone una moneta stabile. Ciò implica
l’assenza di ogni tipo di inflazione.
Una parte considerevole del capitale impiegato nelle
imprese americane è di proprietà dei lavoratori stessi e
di altri individui che dispongono di modesti mezzi
economici. Miliardi e miliardi di depositi bancari (ri-
sparmi), di azioni e di polizze assicurative vengono
146
“usati” da queste imprese.
Nel mercato finanziario americano attuale non sono
più le banche, bensì le compagnie assicurative, i grandi
prestatori di soldi, i grandi finanziatori. E i soldi della
compagnia assicurativa sono – non legalmente, ma
economicamente – di proprietà degli assicurati. Prati-
camente tutti negli Stati Uniti, in un modo o nell’altro,
hanno una copertura assicurativa.
Il requisito fondamentale per il raggiungimento di una
maggiore uguaglianza economica nel mondo è
l’industrializzazione. E questa è possibile solo attra-
verso un aumento del capitale investito e
dell’accumulo di capitale. Sarete sicuramente sconvolti
dal fatto che io non abbia menzionato una misura che è
considerata imprescindibile come primo passo per
l’industrializzazione di un Paese.
Mi riferisco al protezionismo. Ma i dazi e i controlli dei
cambi sono esattamente i mezzi che impediscono
l’importazione di capitale e l’industrializzazione del
Paese. L’unica maniera di incrementare
l’industrializzazione è aumentare il capitale a disposi-
zione. Il protezionismo non fa altro che dirottare gli
investimenti da un settore degli affari ad altro.
Il protezionismo, di per sé, non aggiunge assolutamen-
te nulla al capitale di un Paese. Per aprire una nuova
fabbrica, è necessario che l'imprenditore disponga di
capitale. E per migliorare una fabbrica già esistente

147
l’imprenditore avrà comunque bisogno di capitale, non
di un dazio.
Non voglio discutere l’intero problema del libero
commercio e del protezionismo. Mi auguro che
l’argomento venga illustrato adeguatamente nei vostri
testi di economia. Il protezionismo non migliora la si-
tuazione economica di un Paese.
E ciò che sicuramente non la rende migliore è il sindaca-
lismo. Se le condizioni lavorative sono insoddisfacenti,
e i salari sono bassi, se un lavoratore di un determinato
Paese esamina ciò che succede negli Stati Uniti e si in-
forma sulle cose che accadono lì, se vede nei film tutte
le moderne comodità di cui dispone una normale casa
americana, egli potrebbe diventare invidioso. E avreb-
be pienamente ragione se dicesse: «Dobbiamo avere le
stesse cose». Ma l’unico modo per ottenerle è attraver-
so l’aumento del capitale.
I sindacati impiegano la violenza contro gli imprendi-
tori e contro coloro che vengono chiamati crumiri. Tut-
tavia, nonostante tutto il loro potere e la loro violenza,
i sindacati non sono in grado di aumentare continua-
mente i salari di tutti i lavoratori.
Altrettanto inefficienti sono i decreti governativi che
stabiliscono gli importi del salario minimo. Ciò che i
sindacati effettivamente ottengono (se, alla fine, riescono
a far aumentare l’importo dei salari) è una permanente
e duratura disoccupazione.

148
Ma i sindacati non possono industrializzare un Paese,
e non possono aumentare il tenore di vita dei lavorato-
ri. Questo è il punto decisivo: bisogna capire che tutte
le politiche di un Paese che vuole migliorare il tenore
di vita dei suoi abitanti devono puntare all’aumento
del capitale investito pro capite.
Questo investimento di capitale pro capite continua a
crescere negli Stati Uniti, malgrado tutte le pessime
politiche attuate in quel Paese. Lo stesso succede in
Canada e in alcuni Paesi dell’Europa occidentale. Tut-
tavia, questi investimenti stanno purtroppo diminuen-
do in Paesi come l’India.
Leggiamo tutti i giorni nei giornali che la popolazione
del pianeta aumenta di circa 45 milioni di persone – o
addirittura di più – l’anno. E come andranno a finire le
cose? Quali saranno le conseguenze di tutto ciò? Ri-
cordatevi cosa ho detto della Gran Bretagna. Nel 1750 i
britannici pensavano che sei milioni di persone costi-
tuissero un’enorme sovrappopolazione delle isole bri-
tanniche e che perciò erano tutti destinati a morire di
fame e di peste.
Ma alla vigilia dell’ultima guerra mondiale, nel 1939,
cinquanta milioni di persone vivevano nelle isole bri-
tanniche, e il tenore di vita era incomparabilmente più
elevato rispetto al 1750. Questo è l’effetto di ciò che
viene chiamato industrializzazione – un termine assai
inadeguato.

149
Il progresso britannico fu possibile grazie
all’incremento degli investimenti pro capite di capitale.
Come ho detto in precedenza, esiste una sola strada
per una nazione che vuole raggiungere la prosperità:
se incrementi il capitale, incrementi anche la produtti-
vità marginale del lavoro, e l’effetto sarà un aumento
reale dei salari.
In un mondo senza barriere migratorie, vi sarebbe una
tendenza mondiale all’equalizzazione dei salari. Se
non vi fossero le barriere migratorie oggi, probabil-
mente venti milioni di persone proverebbero a emigra-
re negli Stati Uniti ogni anno per ottenere un livello
remunerativo più elevato. Questo afflusso ridurrebbe i
salari negli Stati Uniti e li aumenterebbe in altri Paesi.

LA MIGRAZIONE DI CAPITALI AUMENTA


GLI STIPENDI

Non dispongo del tempo per affrontare il problema


delle barriere all’immigrazione. Ma, in ogni caso, vo-
glio dire che esiste un altro metodo che porta al livel-
lamento dei salari in tutto il mondo. Quest’altro meto-
do, che funziona anche in assenza della libertà migra-
toria, è la migrazione di capitali.
I capitalisti tendono a spostarsi verso quei Paesi nei
quali la manodopera è maggiormente disponibile ed
economicamente ragionevole. E siccome portano del
150
capitale in questi Paesi, portano anche una tendenza
verso l’incremento dei salari. Ha funzionato nel passa-
to e continuerà a funzionare ugualmente in futuro.
Quando il capitale britannico fu investito per la prima
volta, diciamo, in Austria o in Bolivia, i salari medi in
quei posti erano molto, ma veramente molto più bassi
di quelli in Gran Bretagna. Ma questo investimento
aggiuntivo ha portato e rafforzato una tendenza a sala-
ri più elevati in quei Paesi.
Ciò si è verificato ovunque. È un fatto abbastanza noto
che appena la United Fruit Company si è stabilita in
Guatemala, il risultato è stato una tendenza generale a
salari più elevati, iniziando dai salari che la stessa
compagnia corrispondeva ai suoi lavoratori, il che, di
conseguenza, ha portato gli altri imprenditori ad au-
mentare i salari dei loro operai. Dunque, non esiste un
motivo ragionevole per essere pessimisti riguardo al
futuro dei Paesi “sottosviluppati”.
Sono completamente d’accordo con i comunisti e i sin-
dacati quando dicono: «Ciò che è necessario è
l’aumento del tenore di vita». Poco tempo fa, in un li-
bro pubblicato negli Stati Uniti, un professore ha detto:
«Ora abbiamo quantità sufficienti di tutto, perché le
persone nel mondo continuano a lavorare così tanto?
Abbiamo già tutto».
Non dubito che questo professore abbia già tutto. Ma
esistono altre persone in altri Paesi, anzi, molte perso-

151
ne anche negli Stati Uniti, che vorrebbero e dovrebbero
poter godere di un maggiore tenore di vita.
Fuori dagli Stati Uniti – nell’America Latina e, soprat-
tutto, in Asia e Africa – tutti desiderano che le condi-
zioni migliorino nel proprio Paese. Un tenore di vita
più elevato porta con sé anche un più elevato livello di
cultura e civiltà.
Detto ciò, sono totalmente d’accordo sul fatto che
l’obiettivo finale debba essere quello di incrementare il
tenore di vita in tutti i Paesi. Ma non sono d’accordo
sulle misure da adottare per raggiungerlo. Quali misu-
re effettivamente contribuiranno a raggiungere questo
obiettivo?
Sicuramente non il protezionismo, l’interferenza go-
vernativa, il socialismo e, certamente, non la violenza
dei sindacati (eufemisticamente chiamata contrattazio-
ne collettiva, ma che, in realtà, è una contrattazione con-
dotta con una pistola alla tempia).
Secondo me, per raggiungere questo obiettivo esiste
una singola e unica via! Trattasi di un percorso lento.
Alcuni potrebbero dire: è fin troppo lento! Ma non esi-
stono scorciatoie per raggiungere un paradiso terreno.
Ci vuole del tempo, e ci vuole anche l’impegno. Ma ci
vuole meno tempo di quanto abitualmente credono le
persone, e il livellamento si verificherà prima che se ne
rendano conto.
Attorno al 1840, nella parte occidentale della Germania

152
– in Svevia e Württemberg, che erano alcune delle aree
più industrializzate del mondo – si diceva: «Non riu-
sciremo mai a raggiungere il livello dei britannici. I
britannici sono partiti in vantaggio, e perciò saranno
sempre più avanti di noi».
Trent’anni più tardi, i britannici hanno detto: «Questa
competizione tedesca, non riusciamo ad affrontarla;
dobbiamo fare qualcosa per contrastarla adeguatamen-
te». In quel periodo, ovviamente, il tenore di vita tede-
sco cresceva rapidamente e, già all’epoca, si avvicinava
velocemente a quello britannico. Oggi il reddito pro
capite in Germania non è affatto inferiore a quello del-
la Gran Bretagna.
Nell’Europa centrale vi è un piccolo Paese, la Svizzera,
al quale la natura non ha dato praticamente nulla. Non
ha miniere di carbone né minerali e non possiede alcu-
na risorsa naturale. Ma il suo popolo, nel corso dei se-
coli, ha continuamente perseguito delle politiche capi-
talistiche.
Gli svizzeri hanno raggiunto il più elevato tenore di
vita dell’Europa continentale, e il loro Paese è uno dei
maggiori centri mondiali di civiltà. Non vedo perché
un Paese come l’Italia7 – che è molto più grande della
Svizzera sia per popolazione sia per dimensione terri-

7 NdT: nel testo originale si citava l’Argentina, ma riteniamo che


l’esempio sia altrettanto calzante con l’Italia.

153
toriale – non possa raggiungere lo stesso elevato tenore
di vita dopo alcuni anni di politiche sane ed economi-
camente sostenibili.
Ma – come ho già sottolineato – queste politiche devo-
no essere effettivamente sane.

154
SESTA LEZIONE

LA POLITICA E LE IDEE
Nel periodo conosciuto come Illuminismo, negli anni
in cui i nordamericani ottennero la loro indipendenza,
e, alcuni anni dopo, quando le colonie spagnole e por-
toghesi divennero nazioni indipendenti, il sentimento
prevalente nella società occidentale era quello ottimi-
sta.
In quel periodo, tutti i filosofi e uomini di Stato erano
del tutto convinti che si stesse vivendo l’inizio di una
nuova era di prosperità, progresso e libertà. In quei
giorni le persone immaginavano che le nuove istitu-
zioni politiche – i governi rappresentativi costituziona-
li stabiliti nelle nazioni libere d’Europa e d’America –
avrebbero lavorato in una maniera enormemente bene-
fica, e che la libertà economica avrebbe migliorato sen-
za sosta le condizioni materiali dell’umanità.
Sappiamo benissimo che alcune di queste aspettative
erano troppo ottimistiche. È senza dubbio vero che
esperimentammo, nel diciannovesimo e nel ventesimo
secolo, un miglioramento senza precedenti delle con-
dizioni economiche, e che tale miglioramento rese pos-
sibile, a un numero considerevolmente maggiore della
popolazione, il godimento di un tenore di vita molto
più elevato. Ma sappiamo anche che molte delle spe-
ranze dei filosofi del diciottesimo secolo furono di-

155
strutte pesantemente – si sperava, ad esempio, che non
vi sarebbero state più le guerre e che le rivoluzioni non
sarebbero state più necessarie. Queste aspettative non
furono realizzate.
Durante il diciannovesimo secolo, vi fu un periodo nel
quale la severità e il numero di guerre diminuì. Ma il
ventesimo secolo portò con sé il risorgimento dello
spirito guerrafondaio, e possiamo dire molto giusta-
mente che non siamo ancora arrivati alla fine delle du-
re prove alle quali dovrà sottoporsi l’umanità.

IDEE ECONOMICHE E POLITICA


Il sistema costituzionale che nacque tra la fine del di-
ciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo deluse
l’umanità. Molte delle persone – e anche molti degli
autori – che hanno affrontato questo problema tendo-
no a pensare che non vi fosse un collegamento tra
l’aspetto economico e l’aspetto politico del problema in
discussione.
Dunque, tendono a dedicarsi approfonditamente
all’analisi delle degenerazioni del parlamentarismo – il
governo i cui membri sono i rappresentanti del popolo
– come se questo fenomeno fosse completamente indi-
pendente dalla situazione economica e dalle idee eco-
nomiche che determinano le attività delle persone.
Il fatto è che questa indipendenza non esiste. L’uomo
156
non è un essere che, da un lato, possiede un aspetto
economico e, dall’altro, un aspetto politico, senza col-
legamenti tra entrambi gli aspetti. In realtà, ciò che
viene chiamato il decadimento della libertà, del gover-
no costituzionale e delle istituzioni rappresentative, è
la conseguenza di un cambiamento radicale delle idee
economiche e politiche. Gli eventi politici sono
l’inevitabile conseguenza del cambiamento delle poli-
tiche economiche.
Le idee che ispirarono gli statisti, i filosofi e gli avvoca-
ti che, nel diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo
secolo, svilupparono i principi fondamentali di un
nuovo sistema politico, si basavano sulla premessa se-
condo la quale, all’interno di una nazione, tutti i citta-
dini onesti condividono la stessa meta finale.
Questa meta finale, alla quale tutti gli uomini onesti
devono dedicarsi, è il benessere dell’intera nazione, e
anche quello delle altre nazioni – questi leader politici
e morali erano completamente convinti che una nazio-
ne libera non potesse interessarsi della conquista di
altri Paesi. Ritenevano che le lotte tra i partiti fossero
circostanze normali, che fosse perfettamente normale
l’esistenza di divergenze d’opinione riguardo ai meto-
di migliori con cui condurre gli affari di Stato.
Coloro che condividevano idee similari circa un pro-
blema cooperavano tra di loro, e a questa cooperazione
fu dato il nome di partito. Ma la struttura del partito
non era permanente, non dipendeva dalla posizione
157
che gli individui ricoprivano all’interno dell’intero or-
dine sociale e cambiava quando le persone si rendeva-
no conto che la propria posizione originaria si basava
su premesse e idee sbagliate.
Da questo punto di vista, molti ritenevano le discus-
sioni durante le campagne elettorali e successivamente
durante le assemblee legislative un importante fattore
politico. I discorsi dei membri di una legislatura non
venivano considerati semplici dichiarazioni, non ave-
vano come scopo quello di comunicare al mondo il vo-
lere di un determinato partito politico.
Erano invece ritenuti validi tentativi di convincere i
gruppi all’opposizione del fatto che le idee sostenute
dall’oratore fossero le più giuste, le più benefiche al
bene comune rispetto a quelle che erano state esposte
prima.
I discorsi politici, gli editoriali nei quotidiani, i volan-
tini e i libri erano scritti per persuadere le persone del-
la correttezza di un’idea. Nessuno dubitava del fatto
che si potesse dimostrare l’assoluta correttezza delle
proprie idee a una maggioranza, qualora queste idee
fossero state solide. Fu partendo da questo punto di
vista che le regole costituzionali furono scritte dai cor-
pi legislativi agli inizi del diciannovesimo secolo.
Tutto ciò implicava, tuttavia, che il governo non do-
vesse interferire con le condizioni economiche del
mercato. Implicava che tutti i cittadini condividessero

158
un singolo obiettivo politico: il benessere dell’intero
Paese e dell’intera nazione. E l’interventismo è andato
a sostituire precisamente questa filosofia sociale ed
economica. L’interventismo ha dato origine a una filo-
sofia assai diversa.

I GRUPPI POLITICI DI PRESSIONE


Dal punto di vista della mentalità interventista, il go-
verno ha il compito di sostenere, sovvenzionare e offri-
re privilegi ad alcuni gruppi speciali. Nel diciottesimo
secolo si credeva che i legislatori avessero idee speciali
riguardo al bene comune.
Tuttavia, ciò che realmente vediamo nella vita politica
odierna, praticamente senza alcuna eccezione, in tutti i
Paesi del mondo in cui non esiste semplicemente una
dittatura comunista, non vi sono più dei veri partiti
politici nell’accezione classica della parola, bensì sol-
tanto gruppi di pressione.
Un gruppo di pressione è un gruppo formato da indi-
vidui che vogliono ottenere per sé privilegi speciali a
spese del resto della nazione. Questo privilegio può
essere un dazio sull’importazione, un sussidio, o addi-
rittura leggi che impediscono ad altre persone di com-
petere con i membri del gruppo di pressione. Comun-
que sia, questo privilegio offre al gruppo di pressione
una posizione speciale. Offre loro facilitazioni indi-
159
sponibili o che devono diventare indisponibili agli altri
gruppi.
Negli Stati Uniti, il sistema bipartitico dei vecchi giorni
resta apparentemente preservato. Ma questo non è al-
tro che un camuffamento della situazione reale. Difatti,
la vita politica degli Stati Uniti – così come la vita poli-
tica di tutti gli altri Paesi – è determinata dalle lotte e
dalle aspirazioni dei gruppi di pressione.
Negli Stati Uniti vi sono ancora un Partito repubblica-
no e un Partito democratico, ma in ognuno di questi
partiti vi sono rappresentanti dei gruppi di pressione.
Questi sono più interessati alla cooperazione con i
rappresentanti degli stessi gruppi di pressione che si
trovano nelle fila del partito d’opposizione che con i
cari membri del proprio partito.
Per darvi un esempio, se parlate con le persone negli
Stati Uniti che effettivamente sanno come funziona il
Congresso, vi diranno: «Quest’uomo, questo membro
del Congresso rappresenta gli interessi dei commer-
cianti d’argento». Oppure vi diranno che un altro uo-
mo rappresenta i coltivatori di grano.
Ovviamente, ognuno di questi gruppi di pressione co-
stituisce necessariamente una minoranza. In un siste-
ma basato sulla divisione del lavoro, ogni gruppo spe-
ciale che punta a ottenere dei privilegi dev’essere un
gruppo minoritario. E le minoranze non hanno la pos-
sibilità di avere successo se non cooperano con altre

160
minoranze similari, con gruppi di pressione armonici
tra di loro.
Nelle assemblee legislative, essi cercano di coalizzarsi
per provare a diventare una maggioranza. Tuttavia,
dopo un po’ di tempo, questa coalizione può disinte-
grarsi a causa dell’impossibilità di trovare un duraturo
consenso tra i diversi gruppi di pressione, e si formano
nuove coalizioni di gruppi di pressione.
Questo è ciò che accadde in Francia nel 1871, una si-
tuazione che gli storici chiamarono “la degenerazione
della Terza Repubblica”. Non si trattò, in realtà, della
rovina della Terza Repubblica; questa fu semplicemen-
te un’esemplificazione del fatto che il sistema dei
gruppi di pressione non è un sistema che può essere
adeguatamente ed efficacemente applicato al governo
di una grande nazione.
Abbiamo, nelle legislature, rappresentanti dei settori
economici del grano, della carne, dell’argento e del pe-
trolio, nonché i rappresentanti dei molteplici sindacati.
Un’unica entità non viene rappresentata nella legisla-
tura: la nazione nel suo insieme. Pochi effettivamente
prendono le parti della nazione nel suo complesso. E
tutti i problemi, anche quelli legati alla politica estera,
vengono valutati dalla prospettiva degli interessi spe-
ciali dei gruppi di pressione.
Negli Stati Uniti, alcuni degli Stati meno popolosi sono
interessati al prezzo dell’argento. Ma non tutti gli abi-

161
tanti di questi Stati si interessano di ciò. Tuttavia, gli
Stati Uniti, per molto decenni, hanno speso una som-
ma considerevole di denaro, a spese dei contribuenti,
per acquistare dell’argento a un prezzo superiore a
quello di mercato.
Un altro esempio: negli Stati Uniti, solo una piccola
parte della popolazione lavora nel settore agricolo; il
resto della popolazione è costituito da consumatori –
ma non produttori – di prodotti agricoli. Ciononostan-
te, gli Stati Uniti spendono miliardi e miliardi di dolla-
ri per mantenere i prezzi dei beni agricoli al di sopra
dei loro potenziali prezzi di mercato.
Non si può affermare che si tratti di una politica favo-
revole a una piccola minoranza, perché gli interessi dei
produttori agricoli non sono uniformi. Al produttore
di latte non sono convenienti gli alti prezzi dei cereali;
al contrario, preferirebbe che i prezzi fossero più bassi.
Un allevatore di pollame vuole pagare di meno per il
mangime.
Vi sono molti interessi speciali completamente incom-
patibili tra di loro all’interno del gruppo degli agricol-
tori. Intanto, trattative diplomatiche condotte con intel-
ligenza e astuzia nella politica parlamentare fanno sì
che piccoli gruppi minoritari possano ottenere privile-
gi a spese della maggioranza.
Una situazione particolarmente interessante negli Stati
Uniti riguarda lo zucchero. Con molta probabilità, solo

162
un americano su cinquecento è interessato a un prezzo
più alto per lo zucchero. Probabilmente quattrocento-
novantanove americani su cinquecento vorrebbero che
lo zucchero fosse più economico.
Tuttavia, la politica condotta dagli Stati Uniti ha come
unico scopo quello di aumentare il prezzo dello zuc-
chero, sia attraverso l’applicazione di dazi sia attraver-
so l’attuazione di altre misure speciali. Questa politica
non solo danneggia gli interessi di quei quattrocento-
novantanove consumatori di zucchero americani, ma
crea addirittura un gravissimo problema per gli Stati
Uniti nell’ambito della politica estera.
L’obiettivo della loro politica estera è la cooperazione
con le altre repubbliche americane, alcune delle quali
sono interessate a vendere zucchero agli Stati Uniti.
Vorrebbero vendere quantità maggiori di tale prodot-
to. Questo illustra in quale misura gli interessi dei
gruppi di pressione possono determinare anche la po-
litica estera di una nazione.
Per anni, studiosi in tutto il mondo hanno scritto sulla
democrazia – sul governo popolare e rappresentativo.
Si sono spesso lamentati delle inadeguatezze di tale
forma di governo, ma la democrazia che criticano è so-
lo quella in cui l’interventismo è diventato la politica
egemonica del Paese.
Oggi molte persone dicono: «All’inizio del diciannove-
simo secolo, nelle legislature di Francia, Inghilterra,

163
Stati Uniti, e altre nazioni, vi erano discorsi sui grandi
problemi dell’umanità. Lottavano contro la tirannia e
si battevano per la libertà, per la cooperazione con tut-
te le altre nazioni libere. Ma ora siamo più pratici nei
Parlamenti!».
È ovvio che siamo più pratici; le persone oggi non par-
lano di libertà, bensì di un aumento dei prezzi delle ara-
chidi. Se questo è pratico, allora è evidente che i Parla-
menti sono cambiati considerevolmente, ma certo non
in meglio.
Questi cambiamenti politici, portati dall’interventismo,
hanno indebolito di molto il potere delle nazioni e dei
rappresentanti di resistere alle aspirazioni dei dittatori
e alle operazioni dei tiranni. I rappresentanti legislativi
che hanno come unica preoccupazione quella di soddi-
sfare gli elettori che vogliono, ad esempio, un aumento
del prezzo dello zucchero, del latte e del burro, e una
diminuzione del prezzo del grano (sovvenzionato dal
governo) possono rappresentare il popolo solo in una
maniera del tutto debole e superficiale. Non potranno
mai rappresentare tutto il loro elettorato.
Gli elettori che sono favorevoli a tali privilegi non ca-
piscono che esistono anche cittadini che vogliono
l’opposto e che pertanto impediscono ai loro rappre-
sentanti di raggiungere l’integrale successo.
Questo sistema porta a un costante aumento della spe-
sa pubblica, da un lato, e fa sì che diventi progressi-

164
vamente più difficile l’imposizione di tributi, dall’altro
lato. Questi rappresentanti dei gruppi di pressione vo-
gliono che i loro gruppi di pressione abbiano moltepli-
ci privilegi speciali, ma non vogliono far pesare sulle
spalle dei propri sostenitori un’imposizione fiscale ec-
cessivamente pesante.

INTERVENTISMO E INTERESSI SPECIALI


I fondatori del moderno governo costituzionale nel di-
ciottesimo secolo non avevano in mente che un legisla-
tore dovesse rappresentare, non l’intera nazione, ma
solo gli interessi speciali del distretto in cui era stato
eletto. Questa è stata una delle conseguenze
dell’interventismo.
L’idea originale era che ogni singolo membro del Par-
lamento dovesse rappresentare l’intera nazione. Costui
veniva eletto in un distretto particolare soltanto perché
lì era conosciuto e pertanto veniva eletto da coloro che
si fidavano delle sue competenze.
Non era previsto che egli dovesse entrare nel governo
per poter ottenere qualche privilegio o qualcosa di
speciale per il suo distretto elettorale, per chiedere ma-
gari la costruzione di una nuova scuola, di un nuovo
ospedale o di un nuovo istituto psichiatrico – generan-
do, di conseguenza, un considerevole aumento della
spesa pubblica nel rispettivo distretto.
165
La politica basata sui gruppi di pressione spiega il mo-
tivo per cui è praticamente impossibile per tutti i go-
verni fermare l’inflazione. Non appena i politici eletti
cercano di limitare la spesa pubblica, intervengono co-
loro che sostengono gli interessi speciali, coloro che
traggono vantaggi dall’inclusione di progetti speciali
nel bilancio, e dichiarano che questo particolare proget-
to non può essere intrapreso, o che quell’altro lo
dev’essere per forza.
La dittatura, ovviamente, non è la soluzione ai pro-
blemi economici; e non è nemmeno la risposta ai pro-
blemi della libertà. Un dittatore può iniziare la sua car-
riera politica facendo ogni genere di promessa, ma, es-
sendo un dittatore, necessariamente non le manterrà.
Al contrario, egli sopprimerà immediatamente la liber-
tà di parola, in modo tale che i quotidiani e i redattori
dei discorsi in Parlamento non riusciranno – a distanza
di giorni, mesi e anni – a dimostrare che egli aveva fat-
to delle promesse diverse nel suo primo giorno di go-
verno e che aveva, col tempo, cambiato idea.
La terribile dittatura vissuta nel passato recente in un
Paese grande come la Germania viene in mente quan-
do assistiamo al giorno d’oggi al declino della libertà
in tanti Paesi del mondo. Come risultato, le persone
parlano oggi della degenerazione della libertà e del
declino della nostra civiltà.
Si dice che ogni civiltà deve eventualmente cadere in

166
rovina e disintegrarsi. Vi sono eminenti studiosi che
sostengono questa idea. Tra questi vi sono il professore
tedesco Spengler e lo storico britannico Toynbee. Ci
dicono che la nostra civiltà è ormai vecchia.
Spengler ha paragonato le civiltà alle piante, che cre-
scono e crescono, ma che prima o poi devono morire.
Lo stesso è vero quando parliamo delle civiltà, dice il
professore tedesco. Tuttavia, questo paragone metafo-
rico tra una civiltà e una pianta è completamente alea-
torio.
Innanzitutto, all’interno della storia dell’umanità è
enormemente difficile distinguere tra civiltà differenti
e indipendenti. Le civiltà non sono indipendenti; sono
invece interdipendenti, dato che si influenzano conti-
nuamente a vicenda. Non si può parlare del declino di
una particolare civiltà, dunque, allo stesso modo in cui
si parla della morte di una pianta in particolare.

L’INFLAZIONE E L’INTERVENTISMO HAN-


NO DISTRUTTO L’IMPERO ROMANO

Anche se si respingono le dottrine di Spengler e Toyn-


bee, un paragone assai popolare rimane: quello tra le
molteplici civiltà che sono degenerate. È senza dubbio
vero che nel secondo secolo avanti Cristo, l’Impero
Romano costituiva una civiltà piuttosto fiorente; che in
quelle parti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa sotto il
167
controllo dell’Impero Romano vi fu una civiltà alta-
mente evoluta e avanzata.
Roma fu anche una civiltà economica molto progredita,
fondata su un certo grado di divisione del lavoro. Ben-
ché questa organizzazione appaia considerevolmente
primitiva se paragonata alle condizioni di vita attuali,
essa era certamente notevole. Roma, inoltre, raggiunse
il più alto grado di divisione del lavoro mai esistito
prima dell’avvento del capitalismo moderno.
Ed è altrettanto vero che questa civiltà si disintegrò,
soprattutto durante il terzo secolo. In ragione di questa
disintegrazione, che colpì dall’interno l’Impero, i ro-
mani non furono in grado di resistere alle aggressioni
esterne. Benché queste aggressioni non fossero di certo
più violente di quelle a cui i romani avevano resistito
ripetutamente nei secoli precedenti, essi non riuscirono
più a respingerle – non dopo ciò che era successo
all’interno di Roma.
Cosa era successo? Qual era il problema? Quale fu la
causa che portò alla disintegrazione di un impero che,
sotto ogni punto di vista, aveva raggiunto il più alto
livello di civiltà mai raggiunto prima del diciottesimo
secolo?
La verità è che ciò che ha distrutto questa antica civiltà
fu un fenomeno molto simile, praticamente identico ai
pericoli che minacciano la nostra civiltà attualmente:
da una parte, l’interventismo, e, dall’altra, l’inflazione.

168
L’interventismo di Roma consisteva nel fatto che
l’Impero Romano, seguendo le precedenti politiche dei
greci, non si astenne dalla pratica del controllo dei
prezzi dell’economia. Questo controllo dei prezzi fu
leggero, praticamente senza alcuna conseguenza, per-
ché per secoli non si provò ad abbassare i prezzi al di
sotto dei livelli di mercato.
Durante il terzo secolo, quando iniziò l’inflazione, i
poveri romani non disponevano ancora dei mezzi tec-
nici moderni per poter gestire questo fenomeno. Non
potevano stampare il denaro; dovevano svalutare la
moneta durante la coniazione, e questo era un metodo
inflazionistico molto inferiore rispetto al metodo mo-
derno, il quale – utilizzando le macchine tipografiche –
può distruggere facilmente il valore del denaro.
Si trattava comunque di un metodo sufficientemente
efficiente, e produsse gli stessi risultati che si ottengo-
no con il controllo dei prezzi. Infatti, i prezzi che le au-
torità tolleravano erano inferiori ai prezzi potenziali al
quale l’inflazione aveva portato i prezzi dei diversi be-
ni.
Il risultato fu, ovviamente, una diminuzione della di-
sponibilità dei generi alimentari nelle città romane. Gli
abitanti delle città furono costretti a tornare nelle cam-
pagne e alla vita agricola. I romani non si resero mai
conto di cosa stava succedendo. Non capirono nulla.
Non avevano ancora sviluppato gli strumenti mentali

169
con i quali riuscire a interpretare i problemi della divi-
sione del lavoro e le conseguenze dell’inflazione sui
prezzi di mercato. Capivano benissimo, tuttavia, che
l’inflazione della moneta – ovvero, la svalutazione del-
la moneta attraverso la coniazione fraudolenta – era un
fenomeno molto negativo.
Di conseguenza, gli imperatori approvarono leggi con-
tro la migrazione della popolazione romana. Furono
approvate leggi che impedivano al cittadino che abita-
va in città di trasferirsi in campagna, ma si rivelarono
inefficaci.
Dal momento che le persone non avevano nulla da
mangiare in città, nessuna legge riuscì a impedire loro
di lasciare la città e tornare alla vita rurale. Il cittadino
urbano non riusciva più a trovare lavoro nelle indu-
strie delle città come artigiano. E, siccome i mercati
scomparvero nelle città, nessuno riusciva a farvi degli
acquisti.
Dunque, dal terzo secolo in poi, le città dell’Impero
Romano entrarono in declino e la divisione del lavoro
diventò meno intensa rispetto a prima. Alla fine, nac-
que il sistema medioevale dell’unità domestica auto-
sufficiente, della ‘villa’, come venne chiamata giuridi-
camente nei secoli successivi.
Pertanto, se le persone paragonano le nostre condizio-
ni socioeconomiche a quelle dell’Impero Romano e di-
cono: «A noi succederà la stessa fine», hanno delle ra-

170
gioni per credere a ciò. Possono riscontrare alcuni fatti
che, effettivamente, sono simili in entrambi i periodi
storici. Tuttavia, vi sono anche enormi differenze che
non riguardano l’architettura politica che prevalse du-
rante la seconda metà del terzo secolo.
All’epoca, in media ogni tre anni un imperatore veniva
assassinato, e l’uomo che l’aveva ucciso o ne aveva
causato la morte diventava il suo successore. Quando,
nel 284, Diocleziano divenne imperatore, egli tentò per
un po’ di tempo di opporsi alla degenerazione di Ro-
ma, ma lo fece inutilmente.

SOLO BUONE IDEE POSSONO SCONFIG-


GERE CATTIVE IDEE

Vi sono differenze enormi tra le condizioni attuali e


quelle che esistevano durante il periodo della Roma
imperiale; in quel periodo le misure che causarono la
disintegrazione dell’Impero Romano non furono pre-
meditate. Non furono, devo dire, il risultato di dottrine
riprovevoli formalizzate.
Al contrario, le idee interventiste, socialiste e inflazio-
nistiche dei nostri tempi sono state costruite e forma-
lizzate da scrittori e professori. Sono insegnate nelle
università. Voi sicuramente direte: «La situazione at-
tuale è molto peggiore». E io vi rispondo: «No, non è
peggiore».
171
È migliore, secondo me, perché le idee possono essere
sconfitte da altre idee. Nessuno dubitava, nell’era degli
imperatori romani, che il governo avesse il diritto di
fissare i prezzi massimi dei beni, e che questa fosse una
politica giusta e auspicabile. Nessuno mise mai in di-
scussione tutto ciò.
Ora che abbiamo scuole, professori e libri che indicano
e consigliano questo genere di politiche, sappiamo be-
nissimo che questo è un problema che va discusso.
Tutte queste idee cattive che hanno reso le nostre poli-
tiche pubbliche così perniciose e che causano così tanti
problemi a tutti noi sono state sviluppate da teorici ac-
cademici.
Un famoso scrittore spagnolo, José Ortega y Gasset, ha
parlato della “ribellione delle masse”. Dobbiamo esse-
re molto cauti quando usiamo quest’espressione, per-
ché tale rivolta non è iniziata dalle masse: è partita
grazie agli intellettuali. Gli intellettuali che hanno svi-
luppato queste dottrine non erano uomini che appar-
tenevano alle masse.
La dottrina marxista parte dal presupposto che solo i
proletari hanno buone idee e che è stata la mentalità
proletaria a creare il socialismo, ma tutti gli autori so-
cialisti, senza alcuna eccezione, sono stati dei borghesi
esattamente nel senso che ogni singolo marxista attri-
buisce a questo termine.
Karl Marx non era un uomo del proletariato. Era figlio

172
di un avvocato. Non dovette lavorare per pagarsi gli
studi e andare all’università. Studiò all’università esat-
tamente come fanno oggi i figli delle famiglie bene-
stanti. Più tardi, e per il resto della sua vita, fu mante-
nuto dall’amico Friedrich Engels, che, essendo un in-
dustriale, era il peggior tipo di “borghese” che potesse
esistere, secondo le idee socialiste. Nel linguaggio
marxista, era uno sfruttatore.
Tutto ciò che accade nel mondo sociale dei nostri tem-
pi è il frutto di idee: le cose buone e le cose brutte. Bi-
sogna combattere le cattive idee. Dobbiamo lottare
contro tutti gli aspetti che non ci piacciono nella vita
pubblica. Dobbiamo sostituire le idee sbagliate con
idee migliori. Dobbiamo respingere tutte quelle dottri-
ne che promuovono la violenza sindacale. Dobbiamo
opporci alla confisca della proprietà privata, al control-
lo dei prezzi, all’inflazione e a tutti quei mali che ci af-
fliggono.
Le idee e solo le idee possono illuminare l’oscurità.
Queste idee devono essere presentate a ogni singolo
individuo in modo che possano persuaderlo. Dobbia-
mo convincerli che queste idee sono quelle giuste, non
quelle sbagliate. La brillante epoca del diciannovesimo
secolo, le grandi conquiste del capitalismo, furono il
risultato delle idee degli economisti classici, di Adam
Smith e David Ricardo, di Frédéric Bastiat e tanti altri.
Non dobbiamo far altro che sostituire le idee cattive
con quelle migliori. Io spero e sono veramente convin-
173
to che questo verrà fatto dalle nuove generazioni. La
nostra civiltà non è condannata, come ci hanno detto
Spengler e Toynbee. La nostra civiltà non verrà con-
quistata dallo spirito di Mosca. La nostra civiltà può e
deve sopravvivere. E sopravviverà grazie a idee mi-
gliori rispetto a quelle che oggi guidano una buona
parte del mondo, e queste idee migliori verranno svi-
luppate dalle nuove generazioni.
Considero un ottimo segno il fatto che, mentre cin-
quant’anni fa praticamente nessuno al mondo avrebbe
avuto il coraggio di pronunciarsi a favore di
un’economia libera, abbiamo oggi, almeno in alcuni
dei Paesi più avanzati del mondo, delle istituzioni che
sono centri per la diffusione e la propagazione
dell’economia libera. Un esempio di esse è il “Centro”,
del vostro Paese, che mi ha invitato a Buenos Aires per
scambiare alcune parole in questa grande città.
Non ho potuto discorrere in maniera approfondita su
alcuni importanti problemi. Sei lezioni possono essere
tantissime per una platea che ascolta, ma non bastano
per sviluppare l’intera filosofia di un sistema fondato
sull’economia libera, e certamente non sono sufficienti
per confutare tutte le assurdità che sono state scritte
negli ultimi cinquant’anni riguardo ai problemi eco-
nomici che stiamo affrontando.
Sono veramente molto grato a questo centro per aver-
mi offerto l’opportunità di rivolgermi a una platea così
distinta, e mi auguro che nel giro di pochi anni il nu-
174
mero di sostenitori delle idee di libertà in questo Paese,
e anche in altri Paesi, possa aumentare considerevol-
mente. Per quanto mi riguarda, io credo completamen-
te nel futuro della libertà, sia quella politica sia quella
economica.

175
176
Scoprire il liberalismo
Di recente ho fatto un giro fra i miei vecchi file per fare
un po' di spazio sul cloud e ho ritrovato i miei temi del
liceo. Nel 2011, a 15 anni, supportavo Keynes, ma sen-
za cognizione di causa.
Nel 2013 parlavo già di Hayek e della Thatcher. Ciò
che mi spingeva verso lo studio della politica era il mio
profondo disgusto per il comunismo e per i professori
troppo politically correct.
Non sopportavo la retorica sui migranti: ritenevo as-
surdo che venisse accettato spendere soldi di chi si da-
va da fare per l’accoglienza e per il welfare. Mi diceva-
no che ero razzista. Quasi mi convinsi di esserlo. Ep-
pure, lo ribadivo: ero contrario alla spesa pubblica im-
produttiva e fondata sulla finta solidarietà, non avevo
nulla contro i migranti!
Non sopportavo l'idea comunista dell'uguaglianza. Ero
daltonico, mancino e mi piaceva la matematica. Per
questi e milioni di altri motivi, mi sentivo diverso da
chiunque altro, mentre mi dicevano che l'uguaglianza
era un bene. Per me, l’individualità di ciascuno di noi
era un bene. C'era così tanto collettivismo nell'aria che
le punizioni erano di classe. Responsabilità collettiva.
Non sopportavo neanche l'idea dello stato moralizza-
tore, tuttavia è piuttosto comune che i professori si
sentano maestri di vita e che impartiscano anche lezio-
ni di morale. «Da quando sono i professori a dovermi dire

177
cosa è giusto e cosa è sbagliato?», mi chiedevo.
Riuscirono a farmi odiare tutto il discorso dell'Olocau-
sto e del Giorno della Memoria, per l'esaltazione del
vittimismo. Solamente alcuni anni dopo, da solo, mi
resi conto di quanto fossi stato ingenuo e di quanto
importante sia ricordare, studiare e sensibilizzare ri-
guardo ciò che avvenne nei campi di concentramento.
Ci sono davvero pochi eventi storici importanti come
l’Olocausto su cui dovremmo riflettere. Ripensandoci,
mi rendo conto di quanto sarebbe importante insegna-
re ai ragazzi il perché certe cose siano sbagliate e non
solamente che queste cose siano sbagliate.
Non volevo che qualcuno mi dicesse ciò che dovevo
pensare.
Fra l'ambiente e i professori, si doveva vivere necessa-
riamente nella dicotomia destra-sinistra. Non ero mai
entrato davvero in contatto con una idea liberale in
quanto tale in tutto il liceo. Locke e Smith vengono
trattati alla leggera, Popper - se proprio va bene - viene
accennato. E sempre senza approfondire il lato politi-
co.
Si esaltavano i mali del fascismo e del nazismo – cosa
giustissima -, ma mai una parola contro il comunismo.
Considerando che mi ritenevo anticomunista e, non
conoscendo alternative al comunismo, pensavo di es-
sere persino vicino al fascismo.
Capii che non era così quando, durante una festa noio-
178
sa, un compagno mi chiese: «Ale, sai dirmi cosa fece di
buono il fascismo?»
Sapeva che ero "di destra" e io ancora pensavo di esser-
lo. Non seppi davvero rispondergli. La sera stessa cer-
cai su internet in ogni sito cosa avesse fatto il fascismo.
Non riuscii a trovare una sola cosa positiva.
Cercando a fondo, scoprii la pagina "Minarchism" di
Wikipedia. Mi aprì un mondo. Da lì, in qualche modo,
trovai un documento chiamato "The use of knowledge in
Society" di un certo Hayek. Compresi meno di un quin-
to di quello che c'era scritto, ma oramai mi aveva con-
quistato e convinto.
Questa storia, che si conclude col mio incontro con il
liberalismo, mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile
scoprire il liberalismo quando si è giovani.
Se non per ricerca personale, per puro caso, o grazie ai
genitori, è impossibile scoprirlo.
Avrei desiderato più di ogni altra cosa trovare un tizio
che fuori da scuola mi si avvicinasse per rifilarmi una
copia di Lotta Capitalista di nascosto e approfondire la
causa che sentivo di supportare veramente.
Una delle frasi che ho sentito più spesso negli ultimi
anni è stata: «Grazie a te/voi, ho finalmente capito essere
liberale. Lo sono sempre stato, ma non sapevo di esserlo.»
L'Istituto Liberale è qui anche per tutti quei giovani in
attesa di trovare un'alternativa al comunismo e al fa-
scismo, per tutti coloro che non hanno mai avuto l'oc-
179
casione di uscire dallo schema destra-sinistra.
Nel futuro che sogno nessun giovane rimarrà senza
aver avuto la seria opportunità di scegliere con un'al-
ternativa in più: la libertà.

180
Cos’è il liberalismo?
Il liberalismo è, prima di ogni altra cosa, un metodo d'inda-
gine. Poi, diventa una filosofia di vita, successivamente di-
venta un insieme di valori e infine una dottrina politica.
Quest'ultima è solamente il tassello finale, non quello inizia-
le.
Il liberalismo sorge dalla genialità e da un’attenta ana-
lisi della realtà: osservando la società umana, le rela-
zioni fra individui, le relazioni fra gruppi di individui,
la storia, le istituzioni ci si è resi conto che esistono al-
cune fondamenta per avere una società prospera, libe-
ra e pacifica e al contempo assicurare la libertà a tutti i
cittadini.
Sembra incredibile, ma – parafrasando Milton Fried-
man - siamo piuttosto fortunati perché il liberalismo
coincide con la strada più efficiente.
Sarebbe un po' strano sostenere alcuni valori e certi si-
stemi organizzativi se questi non assicurassero la mi-
glior condizione possibile per te e per la società, non
credi?
Dunque, geniali pensatori come Locke, Smith, Burke,
Ferguson, Mandeville, Cantillon e numerosissimi altri
grandi classici intuirono quale fosse il modo migliore
per far combaciare gli interessi personali con quelli
della società.
Una società è libera e prospera se e solo se anche i suoi
cittadini sono liberi e industriosi.
181
Il metodo è lo studio della realtà, della società e delle
relazioni umane a partire dagli elementi primi: gli in-
dividui. Il liberalismo nient'altro è che una conseguen-
za dell'individualismo metodologico.
Questo non significa che siamo vincolati a studiare gli
individui, come se fossimo psicologi, e ciò ci debba ba-
stare perché qualsiasi altra cosa non andrebbe bene.
A partire dall'individualismo metodologico ricaviamo
che la società è complessa (e non difficile), che l'ordine
che emerge è spontaneo e che nessuno ha progettato la
società così come la vediamo oggi.
Sappiamo che se qualcuno provasse a progettare la so-
cietà fallirebbe, perché non è possibile collezionare tut-
te le informazioni necessarie, prevederne l'evoluzione
e calcolare una qualsiasi ottimizzazione. Ecco perché il
socialismo non funziona.
Il liberalismo è il risultato di un profondo studio di ciò
che siamo e non di ciò che vorremmo essere: consiste
nell’accettare i pregi e i difetti dell’umanità e capire
come farli convivere.
Non si può rinunciare al liberalismo nel nome del
pragmatismo momentaneo, perché le scelte prese con
la cecità del breve termine impediscono che nel lungo
termine ci siano pace, prosperità e libertà.
Si tratta della storia della cicala e della formica: chi
guarda lontano, investe e fa scelte di lungo periodo,
vince e sopravvive.
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Cos’è l’Istituto Liberale?
Eravamo tre ragazzi attorno al tavolo di un pub.
Non c’erano né partiti, né politici, né associazioni libe-
rali che potessero farci sentire a nostro agio nel clima
delle idee italiano.
A poco a poco, da tre siamo diventati centinaia e poi
migliaia e l’entusiasmo di tutti i partecipanti ci ha fatto
capire di aver intrapreso la giusta strada.
Oggi l'Istituto Liberale è il più grande think tank libe-
rale in Italia e unisce tutti coloro che sono favorevoli
alle libertà individuali e al libero mercato.
Il nostro obiettivo finale è aprire le finestre di un paese
rimasto chiuso per troppo tempo e lasciare che l'aria
fresca della libertà dia inizio a una vera rivoluzione
culturale liberale. Per riuscirci, formiamo e informia-
mo.
Siamo presenti sui maggiori social network e pubbli-
chiamo ogni giorno aforismi commentati, infografiche,
storie di personaggi e avvenimenti liberali, articoli di
approfondimento, video.
Siamo presenti in quasi tutte le regioni italiane e i no-
stri gruppi regionali organizzano regolarmente eventi
sul territorio (come cene, aperitivi, conferenze, dibattiti
o ritrovi dei club di studio) in cui ci si può conoscere e
confrontare.

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Non siamo un partito. Abbiamo deciso di investire sul
lungo termine, sulla cultura, disseminando le idee di
libertà che un giorno ci daranno il miglior raccolto:
un'Italia più libera, aperta, tollerante, pacifica, prospe-
ra.
Nel momento in cui scrivo queste righe, siamo seguiti
da oltre quarantamila persone sui social network e i
nostri contenuti raggiungono centinaia di migliaia di
persone ogni mese.
La gran parte dei nostri sostenitori ha meno di
trent’anni, il che ci dimostra ben due cose: stiamo co-
municando coi giovani, a differenza dei partiti, e que-
sti giovani sognano un mondo più libero.

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Unisciti a questa rivoluzione culturale!
Stai per entrare a contatto con idee di pace, intrapren-
denza, coraggio, resilienza e imprenditorialità che
vengono tutt’oggi demonizzate da chiunque in questa
società.
Abbiamo raccolto con cura gli aforismi celebri, i dati
sulla nostra situazione economica e sociale, le storie
delle vittorie del liberalismo nel passato o negli altri
Paesi e i migliori testi per accendere la luce della rivo-
luzione liberale che illuminerà l’Italia. Così come per
molti altri nostri contenuti, in questo libro leggerai
idee che parlano anche di te e dei tuoi valori.
L’Istituto Liberale è un’organizzazione privata che ha
come obiettivo far cambiare rotta alla cultura del no-
stro paese, condotta sulla strada del collettivismo da
decine di anni di egemonia socialista.
La nostra indipendenza da partiti, politici e istituzioni
è assicurata dalle migliaia di persone a contatto con il
nostro lavoro che hanno deciso di supportare le nostre
attività e finanziare questa rivoluzione culturale.
Diventando un membro dell’Istituto Liberale avrai ac-
cesso a contenuti esclusivi che potranno aiutarti ad
ampliare la tua visione del mondo con la prospettiva
della libertà. Potrai dibattere con gli altri partecipanti,
avere accesso alle attività e alle decisioni dell’Istituto.
Ciò che è più importante è che il tuo finanziamento
renderà possibile la creazione di nuovi contenuti gra-

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tuiti affinché sempre più italiani abbiano la possibilità
di abbracciare le idee di libertà e di fare qualcosa di
effettivo per il nostro Paese.
Non aspettare altro tempo: entra a far parte della rivo-
luzione culturale che cambierà le sorti di un’Italia che
può tornare a splendere!
Visita il nostro sito: www.istitutoliberale.it
Detto ciò, spero che questa lettura sia stata di tuo gra-
dimento e ti invito a visionare i nostri altri libri e i mol-
tissimi contenuti gratuiti sul nostro sito.
Alla prossima,
Alessio Cotroneo
Presidente dell’Istituto Liberale

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