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Indice
Copertina
Frontespizio
Colophon
Introduzione
Brevi cenni biografici
Può l’impresa darsi dei fini che non siano solo il raggiungimento
del profitto? Natura, funzione e destino della moderna impresa
industriale
I
II
III
IV
V
Le strutture interne dell’impresa: organi di consultazione mista
introducono e consolidano la democrazia nella vita aziendale
VI
VII
I dirigenti. La loro formazione va impostata in modo che siano
consapevoli di esercitare una «funzione pubblica»
VIII
IX
X
XI
XII
Crescita della fabbrica e sviluppo del territorio. Olivetti e
l’urbanistica in Italia
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
Un piano nazionale organico per lo sviluppo del Mezzogiorno
XVIII
Il progetto istituzionale: L’ordine politico delle comunità (1945)
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
L’impegno diretto nella politica: il Movimento Comunità (1947-
1958)
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
Introduzione

Adriano Olivetti fu una delle massime figure di imprenditore che l’Italia


abbia espresso nell’intero arco del Ventesimo secolo. Il suo agire doveva
apparire assurdo agli uomini del grigio conformismo industriale suoi
contemporanei. Olivetti era un ricercatore instancabile, guardava sempre
avanti. Molto ampio era il ventaglio dei nuclei tematici attorno ai quali egli
formulò proposte originali e concrete che, in larga misura, seppe realizzare
nelle sue fabbriche ponendosi, a dir poco, una quarantina d’anni in anticipo
sui suoi tempi. Tra questi nuclei tematici mette conto ricordare il rapporto tra
impresa e territorio, le politiche del lavoro, il rilievo industriale
dell’elettronica, la missione sociale dell’impresa, le funzioni dello stato
sociale.
La Olivetti che l’ingegner Adriano dirigeva a Ivrea era un’azienda che, al di
là di un piccolo turnover fisiologico, non licenziava: riusciva a fare ciò in
virtù di un paziente processo di riconversione del personale, sperimentando
modelli formativi avanzati e applicando soluzioni organizzative che, a ben
vedere, sarebbero valide ancora nel tempo presente. Il lavoro era modificabile
soltanto tenendo conto degli uomini che lavorano. Per Olivetti la fabbrica non
era un’impresa privata ma una realtà sociale, affidata alla gestione della sua
competenza. Uno dei punti fermi della sua visione dell’impresa, per esempio,
era la partecipazione dei lavoratori al governo della fabbrica. Tale idea non
venne accolta non già perché fosse utopica, ma perché incontrava la più
feroce avversione da parte di tutti: da parte dei partiti politici, del mondo
imprenditoriale ma anche dei sindacati, compresa la Cgil, i quali vedevano in
tale proposta una misura che avrebbe rischiato di indebolire fortemente la
conflittualità sindacale.
All’epoca di Adriano Olivetti “Ivrea la bella”, la minuscola capitale del
Canavese, poteva ben far pensare a una rivisitata Urbino sotto il potere dei
Montefeltro, o a una moderna piccola Atene dei tempi di Pericle. Vi si
potevano incontrare o ascoltare i personaggi più diversi, molti dei quali di
fama internazionale: economisti, sociologi, psicologi, scienziati della politica,
architetti, urbanisti, nonché poeti, artisti, critici d’arte. Va anche precisato che
Olivetti non era il “buon padrone”, il “mecenate paternalistico” come tanti
andavano dicendo allora e continuarono a ripetere in seguito. Olivetti non
“proteggeva” gli uomini di cultura: era egli stesso un uomo di cultura. Fu,
forse, l’unico esempio d’industriale italiano che riconobbe sempre alle attività
culturali (libere, umanisticamente intese, non asservite al tecnicismo) un
ruolo primario. Ne è testimonianza l’impulso che egli diede alle biblioteche
di fabbrica e periferiche, alle espressioni culturali comunitarie (teatri,
concerti, letture, seminari, discussioni pubbliche, mostre d’arte), alle scuole e,
soprattutto, agli studi urbanistici, dei quali fu un autentico grande pioniere.
Come imprenditore, come tecnico fu costantemente un maestro. Credeva
fermamente in una funzione attiva degli intellettuali: nell’industria e, insieme,
nel progetto sociale di una comunità di cui l’industria fosse momento
propulsore. Amò sempre circondarsi di giovani ingegni, vivi e promettenti, e
correre il rischio di stimolarli per fare di loro strumenti del nuovo lievito
sociale per il quale, come politico, si batteva. Il ‘catalogo’ dei collaboratori di
tipo un po’ speciale – ognuno con una sua responsabilità aziendale – di cui
quell’imprenditore di tipo molto speciale amò circondarsi rischia di risultare
largamente incompleto: architetti come Ludovico Quaroni e Bruno Zevi,
economisti come Franco Momigliano e Giorgio Fuà, sociologi come Luciano
Gallino, Alessandro Pizzorno e Roberto Guiducci, psicologi come Cesare
Musatti e Francesco Novara, poeti come Leonardo Sinisgalli e Franco
Fortini, scrittori come Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Giancarlo Buzzi,
Antonio Cossu e Libero Bigiaretti, saggisti e critici letterari come Umberto
Serafini, Cesare Mannucci, Riccardo Musatti, Geno Pampaloni e Renzo
Zorzi, giornalisti quali Tiziano Terzani, Lorenzo Camusso e Furio Colombo.
Molte le presenze importanti nel campo del design: da Sinisgalli a Giovanni
Pintori a Egidio Bonfante a Marcello Nizzoli a Ettore Sottsass jr., per tacere
di altri collaboratori tra i maestri della grafica mondiale: Saul Steinberg,
Raymond Savignac, Jean-Michel Folon, Milton Glaser.
Nel marzo 1946, ossia nell’immediato dopoguerra, vide la luce il primo
numero di «Comunità», la rivista che Adriano Olivetti fondò e che da allora,
pur attraverso differenti vesti grafiche e scadenze periodiche, continuò a
uscire sino al marzo 1992.
Ma già prima del lancio della rivista, Olivetti aveva elaborato un’originale
proposta di carattere politico-istituzionale, consegnata ai capitoli di un libro,
L’ordine politico delle comunità, che egli aveva pubblicato negli ultimi mesi
del suo esilio in Svizzera, poco avanti che finisse la seconda guerra mondiale.
Senza pretese dottrinarie, ma attraverso meditate riflessioni su esperienze e
scritti delle più diverse scuole di pensiero, Olivetti aveva maturato la
prospettiva di una riforma politico-sociale imperniata su quella che egli
chiamava una «comunità a misura d’uomo»; una riforma volta a fare sì che i
rapporti della vita organizzata rimanessero il più possibile armoniosi e
adeguati, appunto, alla misura di ciascun uomo; e che tutto, dunque, si
articolasse in un sistema di poteri ordinati e frazionati, cooperativi e
federativi, a tutti i livelli: comunali, regionali, nazionali e sovranazionali.
L’assunto dell’organizzazione statuale che egli era venuto formulando
muoveva dal rifiuto delle strutture verticistiche e burocratiche del vecchio
Stato prefascista e fascista – fortemente accentrato –, e dall’esigenza di
evitare che in Italia le libere espressioni della società civile finissero
paralizzate o inghiottite dai grandi partiti di massa e dai loro apparati. Così
egli concepì l’idea della «comunità concreta» quale cellula di una democrazia
diretta, che fosse espressione tanto degli enti territoriali e degli ordini politici,
quanto delle forze del lavoro e della cultura.
L’idea politica di Olivetti era fondata sulla sussidiarietà e su un rapporto fra i
soggetti politici di schietta impronta federalista: di un federalismo alla
Cattaneo, si badi, che nulla aveva da spartire con la demagogia di chi oggi
afferma di voler federare per separare. Le ‘comunità’ cui Olivetti pensava
intendevano esprimere, all’interno del sistema-Paese, il ventaglio delle
molteplici e diversissime identità socio-culturali, valorizzandone anche le
specifiche vocazioni economiche sulla base di precise considerazioni storiche
e antropologiche. Quello di Olivetti era un progetto politico di città-comunità
che doveva avere proiezioni anche nei termini di elaborazioni urbanistiche
innovative e rigorose.
Nel luglio 1949 nacque per iniziativa di Olivetti e di un gruppo di amici che
contribuiranno per un decennio ad animarne le iniziative, il Movimento
Comunità, del quale apparve nel 1953 una Dichiarazione politica nel cui
testo, fra l’altro, si leggeva: «L’azione programmatica del Movimento
Comunità esula dai limiti tradizionali della ‘politica’ intesa come rapporto di
forze, e si fonda su una diversa moralità sociale: ‘politica’ è per noi la
possibilità dell’uomo di armonizzare e sintetizzare esigenze e vocazioni
diverse […] rapporto attivo, consapevole, armonioso tra l’uomo e l’ambiente
del suo operare quotidiano […] di qui il grande valore ‘politico’ che ha per
noi l’urbanistica […] il rifiuto di subordinare, in ordine alla moralità, i mezzi
ai fini […] il rispetto assoluto della persona umana».
E sotto la spinta di Olivetti, il Movimento Comunità riuscì in pochi anni a
dare vita nel Canavese – autentico laboratorio-pilota – a un articolato
ventaglio di istituzioni ispirate a un autonomismo radicale e moderno:
amministrando con intenti esemplari varie municipalità conquistate attraverso
normali contese elettorali; favorendo organiche iniziative consortili fra questi
comuni; promovendo una rete di centri comunitari e culturali; stimolando
forme di imprenditorialità fortemente orientate al sociale, ossia creando e
avviando in zone meno fortunate del territorio attività artigiane, industriali e
agricole, finalizzate soprattutto allo sviluppo dell’occupazione.
Nel primo dopoguerra l’azione di Olivetti si spostò anche nel Mezzogiorno.
Come vicepresidente dell’Unrra-Casas, promosse un laboratorio
interdisciplinare con antropologi, sociologi, urbanisti ed esperti di
programmazione, coordinato da Friedrich G. Friedmann, per lo studio delle
condizioni di vita degli abitanti dei Sassi di Matera, ponendo così Matera al
centro del dibattito urbanistico, teorico e metodologico. La conseguenza di
questo studio fu la realizzazione di una serie di borghi agricoli a corona della
città: il più noto è La Martella, progettata da un gruppo di architetti coordinati
da Ludovico Quaroni, che si ispirava all’urbanistica inglese dei
Neighbourhood Units.
Per parte loro, la rivista «Comunità» e la casa editrice che al periodico venne
affiancandosi contribuirono in misura significativa a sprovincializzare la
cultura italiana, liberandola progressivamente da pregiudizi e catechismi
ideologici e sottraendola alla sclerosi indotta da vent’anni di fascistica
‘autarchia’. E ciò sulla base non solo di nuovi strumenti di conoscenza e di
riflessione, ma anche di un impegno e di una passione civile che si
richiamava all’etica della responsabilità individuale.
Coloro che collaborarono alla rivista, alla casa editrice e al Movimento
Comunità condividevano innanzitutto l’assunto che lo sviluppo di
un’autentica democrazia politica dovesse radicarsi in un profondo
rinnovamento dei costumi e della mentalità.
Così, attraverso un dibattito a più voci, condotto in assoluta libertà e nel più
ampio pluralismo delle opinioni attorno ai problemi e alle tendenze della
società italiana del dopoguerra, e grazie all’apporto di uomini e donne di
diverse matrici ed esperienze, l’insieme delle iniziative messe in moto da
Olivetti concorse in misura rilevante a dare corpo nel nostro Paese a una
cultura laica moderna, aperta verso nuovi indirizzi e campi di ricerca: dalle
scienze politiche a quelle sociali, dall’economia all’urbanistica, dalla
psicologia alla scienza dell’organizzazione, dalla filosofia alla critica d’arte e
alla critica letteraria.
Basato in larga misura sul recupero di memorie personali neppure troppo
lontane, il precedente breve mio schizzo relativo alla figura e all’opera di
Adriano Olivetti suscita in me, non posso nasconderlo, un senso di disagio.
Che cosa posso mai dire dell’eredità splendida e molteplice che Olivetti
lasciò dietro di sé?
Il lasso di tempo che ci separa dalla scomparsa di Adriano Olivetti e dallo
scioglimento del Movimento Comunità – nel cui ambito ebbi il privilegio e la
fortuna di lavorare al suo fianco – è relativamente breve: poco meno che una
sessantina d’anni. E tuttavia, nel fare memoria di Olivetti ho l’inquietante
impressione di confrontarmi con vicende che appartengono a una diversa era
geologica, ormai remotissima. Di tutto ciò che Adriano Olivetti realizzò o si
proponeva di realizzare, temo che non sia rimasto praticamente nulla. Nel
giro di pochi decenni, quello che egli aveva seminato sembra essersi disperso,
senza residui. Persino la Olivetti, la grande gloriosa industria che produceva
apparecchiature per l’ufficio in Italia e le distribuiva in tutto il mondo, è
andata passando di mano in mano in rapida successione a ‘controllori’ con la
spiccata vocazione dei raider internazionali, finendo per soccombere nelle
vorticose vicende aleatorie di un’economia finanziarizzata. La conclusione fu
mortificante. Scomparvero le biblioteche, gli asili nido, le colonie, i servizi
sociali che a lungo erano stati modelli inarrivabili. Il 12 marzo 2003 la
Olivetti fu cancellata definitivamente dal listino della Borsa italiana.
Se è vero che non esiste più l’ambito specifico nel quale Adriano Olivetti
esercitò la sua operosità e la sua influenza, occorre ammettere che la stessa
Italia, cioè l’odierno sistema-Paese, non ha più nulla o quasi da spartire con
l’Italia che fu testimone delle iniziative e delle realizzazioni di Olivetti.
Nella seconda metà del Novecento – di questo secolo grande e terribile,
affascinante e tremendo, tempo di morti e di rinascite – la mappa dei poteri
ha subito in tutto il mondo un profondo rimodellamento. Sotto la spinta della
globalizzazione, gli Stati nazionali hanno ridimensionato il loro ruolo mentre
si sono grandemente rafforzati la finanza e i media. I capitali e le
informazioni ‘in tempo reale’ hanno abbattuto tutte le frontiere: finanzieri e
tycoon hanno beneficiato più di ogni altro delle nuove opportunità di
comunicazione e di relazione. In pochi anni sono emersi nuovi, immensi
potentati globali. È cambiata profondamente la stessa politica. La
partecipazione organizzata dei cittadini, che aveva avuto un ruolo di
straordinaria importanza nei lunghi anni di crescita e di stabilità economica
successivi alla seconda guerra mondiale, si è affievolita giorno per giorno un
po’ dovunque.
Negli ultimi cinquant’anni si è realizzato il passaggio dalla prima alla
seconda modernità: la tradizionale società industriale si è trasformata nella
società della comunicazione. Nel nuovo scenario, anche la politica ha
ridefinito la propria vocazione: svincolata dalle grandi narrazioni che
l’avevano tradizionalmente accompagnata e sorretta, ha abbandonato ogni
progetto di trasformazione della società e di costruzione di assetti più giusti,
concentrandosi sull’obiettivo di eliminare, a raggio globale, tutti gli ostacoli
possibili al mercato, alla libera circolazione dei capitali e delle merci.
L’interesse per la polis, per il bene pubblico, è stato accantonato: in primo
piano ha finito per restare e affermarsi solo l’economia, l’interesse privato.
Dentro questo mutamento generale di paradigma si inscrive, con
caratteristiche del tutto particolari, la crisi che colpisce in profondità la vita
pubblica del nostro Paese. In Italia, a causa dell’abnorme concentrazione in
pochissime mani del sistema dei media, l’indebolimento della politica si è
manifestato più che altrove in tempi accelerati e in forme particolarmente
virulente e plateali. Il dibattito pubblico si è rapidamente immiserito,
banalizzato, riempito di luoghi comuni. In un Paese a rischio evidentissimo di
declino, con un debito pubblico enorme, con una disoccupazione giovanile
cospicua e protratta nel tempo, e con la crescita economica ferma da anni,
sembra essersi perduta la capacità di produrre idee nuove; preoccupante,
soprattutto, è il silenzio degli intellettuali. I cittadini si palesano sempre meno
motivati a prendere parte con impegno e passione alla lotta politica.
In questo clima di ‘democrazia bloccata’, la nostra vita pubblica appare
corrosa da personalismi esasperati, rissosità dilagante, mancanza di progetti
di lungo periodo, spudorata autoreferenzialità della classe dirigente. La
politica non riesce a indicare al Paese una prospettiva credibile, non sa come
governare i tumultuosi cambiamenti della nostra epoca, ha perso i cittadini
per strada, si è ridotta a un penoso teatrino di interessi e di vanità personali.
A questo punto, Adriano Olivetti mi si configura come il figlio di un mondo
lontano anni luce da quello in cui ci ritroviamo a vivere noi: il figlio di un
mondo che abbiamo irrimediabilmente perduto. È vero che, anche alla
distanza di vari decenni, la visione olivettiana costituisce un modello
positivo, in grado di cogliere concretamente i problemi e di fornire gli
strumenti per intervenire sulle linee di tendenza nello sviluppo di una
moderna società industriale. Ma non v’è alcun dubbio che già nell’Italia degli
anni Cinquanta questa visione, che proponeva la compenetrazione tra
pianificazione territoriale e pianificazione economica articolandosi
nell’indicazione di un progetto organico per affrontare i nodi di crescita
democratica e di sviluppo economico della società nazionale, rimase per larga
parte incompresa.
E tuttavia, il fare oggi memoria di Olivetti mi induce a coltivare la fiducia
che in un futuro più o meno lontano noi italiani sapremo ritrovare
motivazioni ed energie per recuperare, riprodurre e rimettere in circolo valori
democratici forti, radicati in esperienze cruciali della storia del Paese. A tal
fine gioverebbe che i nostri concittadini, e in particolare i giovani, si
disponessero a riascoltare oggi l’appello che Ignazio Silone formulava
firmando l’editoriale del primo numero di «Comunità», il periodico fondato
da Adriano Olivetti, pubblicato nel marzo ormai lontanissimo del 1946. Ma
soprattutto, che di quell’appello – chiaramente improntato allo spirito
antifascista del Comitato di Liberazione Nazionale – noi italiani ci
sforzassimo di cogliere il senso profetico.
Scriveva allora Ignazio Silone: «I fautori del rinnovamento democratico del
Paese, se pure discordi su molti punti, devono almeno coincidere in questo:
persuadere ogni cittadino che l’avvenire del Paese non dipende dalle leggi
storiche, ma da lui, dalla sua conoscenza, dalla sua volontà, dal suo
comportamento».
Bruno Segre
Brevi cenni biografici

Adriano Olivetti nacque a Ivrea nell’aprile 1901 da Camillo, ebreo, e da


Luisa, valdese. Nel 1924 conseguì la laurea in ingegneria chimica e, dopo un
soggiorno di studio negli Stati Uniti, durante il quale poté aggiornarsi sulle
pratiche di organizzazione aziendale, entrò nel 1926 nella fabbrica paterna
ove, per volere di Camillo, fece le prime esperienze come operaio. Si oppose
al regime fascista con momenti di militanza attiva: fra l’altro, prese parte con
Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri all’organizzazione, nel
dicembre 1926, della rocambolesca fuga di Filippo Turati verso l’esilio in
Francia. L’Ingegner Adriano divenne direttore della Società Olivetti nel 1932
e presidente nel 1938. Nell’ultimo anno e mezzo del secondo conflitto
mondiale, in un periodo nel quale era inseguito da mandato di cattura per
attività sovversiva, Olivetti riparò in Svizzera. Rientrato dal suo rifugio alla
caduta del regime, riprese le redini dell’azienda. Alle sue capacità
manageriali, che portarono la Olivetti a essere la prima azienda del mondo
nel settore dei prodotti per ufficio, unì un’instancabile sete di ricerca e di
sperimentazione su come si potesse armonizzare lo sviluppo industriale con
l’affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e
fuori la fabbrica. Morì improvvisamente nel febbraio 1960, quando non
aveva ancora compiuto sessant’anni.
Adriano Olivetti e Bruno Segre. Torino, 5 maggio 1956
Può l’impresa darsi dei fini che non siano solo il raggiungimento del
profitto? Natura, funzione e destino della moderna impresa industriale

Grazie alla sua quotidiana pratica di imprenditore, Adriano Olivetti ha ben


chiaro quale sia il rilievo assunto dalla produzione industriale nel quadro del
sistema di valori sul quale si regge la civiltà contemporanea.
Ma non meno chiara è, in lui, la consapevolezza che molti dei fattori di
tensione che, all’interno della civiltà industriale, caratterizzano il suo tempo
(e in larga misura caratterizzano ancora il nostro) – antinomie tra uomo e
macchina, tra città e campagna, tra sviluppo industriale e deterioramento
dell’ambiente naturale, e via elencando – vanno ricondotti a taluni aspetti
negativi e ‘alienanti’ del processo di industrializzazione: aspetti che
diventano del tutto manifesti allorché l’impresa industriale concepisce se
stessa e viene gestita quale mero strumento atto a produrre profitti e
null’altro che profitti.
E allora, come trasformare l’impresa capitalistica – la cui finalità
dichiarata ed esclusiva è appunto quella di produrre profitti – in un centro
propulsivo di integrazione sociale ed economica? Può l’industria darsi dei
fini altri rispetto al puro e semplice perseguimento del profitto? E per quali
vie i fini della produzione economica possono venire armonizzati con le
ragioni del progresso democratico della comunità e con le naturali esigenze
di sviluppo dei suoi membri?
In virtù del suo retroterra di imprenditore consapevole delle proprie
responsabilità e determinato a farvi fronte, Olivetti risponde a quelle
domande delineando in chiave pluralista e federalista le strutture funzionali
idonee a creare un’impresa di tipo nuovo, al di là del capitalismo e del
socialismo: strutture che postulano un superamento e un’innovazione
sostanziale nella tradizionale concezione privatistica della proprietà
industriale, in quanto risolvono in termini soddisfacenti il passaggio della
proprietà privata a quella di diritto pubblico.
Secondo il disegno di Olivetti, è necessario per un verso creare le condizioni
affinché il capitale azionario delle grandi e medie imprese appartenga in
parte alla comunità locale, e occorre per l’altro che alla loro proprietà e
gestione partecipino solidalmente i lavoratori, la Comunità, lo Stato
regionale, l’università. Esemplare è, per Olivetti, il caso della ‘Carl Zeiss’ di
Jena: industria produttrice di strumenti ottici che, costituita in fondazione nel
1896, vedeva demandata la nomina del suo consiglio di amministrazione al
dipartimento del Granducato di Sassonia-Weimar da cui dipendeva anche
l’università di Jena. Era venuta così a stabilirsi tra l’industria, il piccolo
granducato e il mondo scientifico e accademico una comunione di intenti che
contribuì a conservare all’azienda il suo altissimo livello tecnico e
commerciale e al contempo le consentì di assumersi, nei confronti dei propri
dipendenti, obblighi sociali molto più estesi di quelli assolti da qualsivoglia
imprenditore privato.
Grazie a tale soluzione pluralista e federalista del problema della proprietà
industriale, i conflitti che caratterizzano i rapporti tra l’impresa privata e il
proprio ambiente di sviluppo possono giungere a composizione, conseguendo
in tal modo quella tutela del ‘bene comune’ in cui si ravvisa il fine ultimo
dell’attività industriale. Inoltre, tale soluzione consente di offrire all’impresa
la garanzia di una direzione competente, attraverso il riconoscimento del
principio che il potere di dirigere il lavoro altrui deve essere conseguenza di
merito ed essere legato a comprovate capacità superiori.
Con una siffatta strutturazione della proprietà industriale, vengono a essere
armonicamente conciliate le esigenze di una direzione competente, di
un’attiva tutela degli interessi del lavoro e dell’incremento sociale ed
economico della comunità che costituisce la sede naturale di sviluppo
dell’attività produttiva.
I

Nelle esperienze tecniche dei primi tempi, quando studiavo problemi di


organizzazione scientifica e di cronometraggio, sapevo che l’uomo e la
macchina erano due domini ostili l’uno all’altro, che occorreva conciliare.
Conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito
davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere
l’uomo da questa degradante schiavitù. Ma il cammino era tremendamente
lungo e difficile.
Mi dovetti accontentare in principio a volere l’«optimum» e non il
«maximum» delle energie umane, a perfezionare gli strumenti di assistenza,
le condizioni di lavoro.
Ma mi resi a poco a poco ben conto che tutto questo non bastava. Bisognava
dare consapevolezza di fini al lavoro. E l’ottenerlo non era più compito di un
«padrone illuminato», ma della società.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 3-4.
II

Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei
profitti?
Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una
destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?
Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea,
come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano
sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa.
Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione
aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore,
l’opera della nostra Società.
Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor
del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo
nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con
urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale
sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo
e della società moderna.
La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le
regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione
materiale, culturale, sociale del luogo dove fu chiamata a operare, avviando
quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza
sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che
si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una
vita più degna di essere vissuta.
La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza,
crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli
ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora
ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua
fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.
«Notizie Olivetti» N° 26, aprile-maggio 1955, pp. 16-17. (Brano tratto dal
discorso pronunciato per l’inaugurazione dello Stabilimento Olivetti di
Pozzuoli, 23 aprile 1955).
III

Né il paradigma della invisibile armonia in virtù della quale l’arricchimento


di ciascuno avrebbe servito la comunità, né l’illusione paternalista, possono
ancora essere portati ad ammonimento dei lavoratori che si domandano se
veramente la loro fatica, che pur serve al mantenimento della propria
famiglia, non contenga in se stessa un tragico vizio, la contemporanea
creazione di una ricchezza che lungi dall’esser indirizzata a necessità sociali
ed umane che gridano urgenza, alla ricerca scientifica, alle cose dell’arte, è
distaccata dai veri problemi della comunità onde va dispersa nell’anarchia e
nel disordine.
La gioia del lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori
dell’industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire allorquando il
lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio – che
pur sempre sarà sacrificio – è materialmente e spiritualmente legato a una
entità nobile ed umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare
poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, viva, reale,
tangibile, laddove egli ed i suoi figli hanno vita, legami, interessi.
Ma le soluzioni, su cui si sono appuntati sinora i critici del sistema
capitalista, le nazionalizzazioni, risolvono l’indispensabile fine di adeguare il
lavoro ai complessi moventi psicologici dell’uomo? La nostra risposta è
negativa.
Abbiamo letto ancor ieri che gli operai impiegati nelle fabbriche
nazionalizzate non si sentono spiritualmente molto più liberi di quelli
impiegati in talune fabbriche a carattere familiare dove la personalità e la
dignità del lavoratore possono essere ancora oggetto di considerazione,
mentre l’operaio di una fabbrica di Stato si sentirà pur sempre numero
disperso, cartellino di busta paga. Il lavoratore a profitto di uno Stato lontano
e onnipotente attraverso la mediazione di una burocrazia non sempre
avveduta, può considerarsi una meta provvisoria, ma non un ideale definitivo.
E allora sorge il bisogno di intravedere una soluzione nuova, la cui forma
giuridica, quella che noi abbiamo chiamato nell’Ordine Politico delle
Comunità, l’industria sociale autonoma o Isa, sarà la tipica espressione della
fabbrica comunitaria.
(…)
La partizione del governo delle industrie fra gli interessati, le Comunità e le
Regioni, risolve praticamente le difficoltà che sorgono quando si voglia dare
una soddisfacente soluzione al passaggio della proprietà privata a quella di
diritto pubblico.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 46-47, 48.
IV

Un’industria può essere concepita dal Consiglio d’Amministrazione come


uno strumento atto a realizzare degli utili, ma è noto ai sociologi e agli
economisti che le migliori organizzazioni industriali hanno preso
un’apparenza e una consistenza più umana e completa quando il capo è stato
mosso non da tali motivi economici ma dall’ambizione di realizzare un’opera
di alto valore sociale o tecnico o che soddisfi entrambe tali esigenze. Esempio
eminente, quello della Fondazione Zeiss.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p. 24.
V

Un modello estremamente efficiente di industria autonoma il cui governo


venne affidato al binomio cultura-democrazia è rappresentato dalla fabbrica
di strumenti ottici Zeiss di Jena. Nel 1896 il fondatore Abbe conferì il suo
patrimonio azionario a una Fondazione che divenne proprietaria totale
dell’industria. Il Consiglio di Amministrazione della Fondazione era
nominato dal Dipartimento del granducato di Sassonia-Weimar dal quale
dipendeva l’Università di Jena. Si stabilì in tal modo una comunità di
interessi tra l’industria, il piccolo Stato e i relativi istituti scientifici che
assicurarono per mezzo secolo alla fabbrica un primato tecnico e sociale.
Movimento Comunità, Tempi nuovi metodi nuovi, Edizioni di Comunità,
Milano 1953, p. 31.
Le strutture interne dell’impresa: organi di consultazione mista introducono
e consolidano la democrazia nella vita aziendale

Adriano Olivetti realizza a Ivrea una forma di ‘stato sociale’ avanzato e


onnicomprensivo. E si tratta di realizzazioni concrete, molte delle quali
anticipano in Italia i tempi migliori dell’età del welfare, del diritto del lavoro
e della piena occupazione che contrassegneranno il trentennio tra il 1950 e il
1980.
I criteri cui Olivetti si ispira nel gestire la grande azienda di Ivrea muovono
dal presupposto che l’impresa stessa e l’imprenditore debbano agire avendo
di mira non le sole scelte microeconomiche (elevata efficienza aziendale, alti
tassi di innovazione di prodotto e di processo, alti profitti), ma un disegno
globale in cui l’azienda, in quanto organismo efficiente e produttore di
innovazioni, diventi motore di progresso per tutta la collettività in cui si
inserisce. Anche l’avvio di un processo di partecipazione dei lavoratori alla
gestione dell’impresa deve, nelle intenzioni di Olivetti, orientare la fabbrica
di Ivrea a divenire in prospettiva il prototipo dell’industria sociale
autonoma.
In tema di assistenza sociale la Olivetti vanta una storia che inizia poco
dopo gli esordi stessi della società, quando Adriano è ancora un ragazzo. Le
prime iniziative a carattere mutualistico risalgono al 1909; nel 1926 hanno
luogo le prime assegnazioni di case ai dipendenti; nel 1932 il ‘Fondo
Domenico Burzio’, dal nome del primo capo officina, garantisce ai
dipendenti una sicurezza sociale al di là dei limiti assicurativi ancora troppo
ristretti in Italia. L’assistenza si amplia poi a partire dagli anni Trenta con
l’inaugurazione degli asili di fabbrica, con la creazione di scuole materne,
colonie, ambulatori anche per i famigliari dei lavoratori, centinaia di unità
abitative in diversi quartieri organici di Ivrea e dintorni, con l’istituzione del
servizio mensa e di un servizio di trasporti per i dipendenti che copre tutte le
valli del Canavese, con la formazione di una scuola per periti e meccanici
specializzati.
Nei dichiarati intenti dell’Ingegner Adriano, è di fondamentale importanza
che i destinatari di questo organico sistema di servizi sociali li sottraggano a
una logica di tipo meramente assistenziale e ne considerino la fruizione alla
stregua di diritti acquisiti una volta per sempre, e non di occasionali
concessioni paternalistiche.
Olivetti pensa seriamente all’azionariato operaio. Nel 1958 i dipendenti
percepiscono 22.000 lire come «premio di partecipazione agli utili».
Quanto alla partecipazione del personale (operai e impiegati) alla vita e
all’attività dell’impresa, è degna di speciale rilievo l’istituzione di comitati
misti destinati a controllare e regolare determinati ambiti di attività della
fabbrica. Ci si riferisce qui, in particolare, al consiglio di gestione la cui
messa in opera – con lo statuto entrato in vigore nel novembre 1950 – porta
l’azienda ad assumere un carattere del tutto nuovo: infatti, per la prima volta
in Italia viene creato un organismo diretto dai lavoratori con il compito di
gestire sovranamente i servizi sociali aziendali, con poteri vincolanti circa la
ripartizione delle somme destinate alle varie forme dei servizi erogati. Ci si
riferisce, inoltre, alla commissione paritetica tempi, che costituisce negli
anni Cinquanta l’unico esempio in Italia di organo di consultazione mista
con funzioni di controllo e di regolamentazione del settore tempi e metodi di
lavoro.
Grazie alla progressiva assegnazione del potere di controllo a tali comitati
misti, si intensifica nella Olivetti il processo di democratizzazione della vita
aziendale.
VI

Mi piace, forse soprattutto perché tra di noi vi sono molti giovani e molti
sopraggiunti, accolti da poco nella nostra Comunità, mi piace ricordare a
grandi linee i due tratti essenziali della nostra storia più recente.
Fra il 1928 e il 1934, la fabbrica subisce una lunga crisi interna. È una
trasformazione totale dei sistemi direttivi. La fabbrica aveva raggiunto, prima
di quei tempi, un alto equilibrio umano. Erano i tempi di mio Padre e di
Domenico Burzio, un binomio per me inscindibile. Io allora ero molto
giovane e non avevo capito di loro che una parte. Vi era una realtà nel loro
esempio, nel loro modo di affrontare i problemi della fabbrica, che sfuggiva a
un esame razionale, a un esame unitario, a un esame che volesse confrontare
le cose col metro dei raffronti, che volesse paragonare le cose soltanto dai
risultati.
Questo qualcosa, l’ho detto, era invisibile ed era la loro grandissima umanità,
per cui nella loro superiorità, quando discutevano o esaminavano il regime di
vita o il regime di fabbrica, ciascun lavoratore era pari a loro, era un uomo di
fronte a un uomo. Ma allora la fabbrica aveva 600 operai. Il regime
dell’economia, il regime dei mercati, il regime di concorrenza esigevano un
rinnovamento, esigevano di incamminarci su una strada nuova, verso l’idea
di una grande fabbrica.
C’era al di là dell’Atlantico il modello, c’era una spinta quasi inesorabile ad
andare verso un nuovo stato di cose più grande, più efficiente, dove molti più
lavoratori avrebbero trovato ragione di esistenza.
Ma mio Padre esitava, esitava perché – e me lo disse per lunghi anni e per
lunghi momenti – perché la grande fabbrica avrebbe distrutto l’Uomo,
avrebbe distrutto una possibilità di contatti umani, avrebbe portato a
considerare tutto l’ingranaggio umano come un ingranaggio meccanico. Ogni
uomo come un numero.
Ma il cammino aperto si dispiegò ugualmente. La fabbrica aveva la sua
logica e questa logica si sviluppò inesorabilmente. Nel 1934 gli operai
salgono a 1.200, nel 1937 a 2.000, nel 1940 a 3.000.
La macchina scientifica si era messa in moto, gli uffici tecnici si
ingrandivano, nuovi prodotti erano studiati, erano messi in produzione, erano
venduti. Ogni anno gli architetti studiavano degli ingrandimenti. C’era
qualche cosa di bello in questo, c’era un certo orgoglio nel vedere dalla
vecchia fabbrica di mattoni rossi uscire queste grandi vetrate moderne. E a
poco a poco delinearsi la fabbrica come è attualmente.
L’uomo però non era stato completamente dimenticato. Il sistema della
retribuzione standard non era cattivo. Fu in generale accolto bene. Si
dimostrò molto superiore ad altri sistemi che furono in quel tempo impiegati
in Italia, come il tragico sistema Bedaux.
Per lunghi anni assicurò un miglioramento di vita e un regime non
intollerabile, permise alle nostre macchine di essere vendute in Argentina, in
Svezia, in Francia e in decine di altri mercati, contribuendo così al progresso
della nostra industria.
Furono a poco a poco perfezionate le istituzioni di assistenza. Nel 1934 si
sviluppò l’assistenza medica di fabbrica, nel 1935 iniziò nella sua forma
primitiva, ma già sufficiente, l’asilo, nel 1936 sorgeva il Centro Formazione
Meccanici per dare a poco a poco vita a un complesso sistema atto ad
assicurare ai vostri figli il più grande beneficio che dà la ricchezza: la
certezza di un’istruzione conforme al proprio talento e al proprio merito.
Nel 1938 sorge la mensa nella sua primitiva forma. L’ultimo, importante
provvedimento assistenziale fu la creazione dell’ALO [Assistenza Lavoratrici
Olivetti] che abbiamo ripristinato in questi giorni nella sua forma primitiva.
Specialmente in questa forma di solidarietà verso la più alta espressione e il
più alto sacrificio dell’umanità che è la funzione materna, noi esprimiamo col
nostro istituto la nostra intera solidarietà, affinché nessuna madre, e qui
diremo meglio nessuna operaia che sia madre, possa vedere con invidia e con
dolore quelle madri che hanno la gioia di tenere in una casa i primi mesi di
vita del loro bambino.
Brano tratto dal primo discorso tenuto da Adriano Olivetti dopo il rientro
dalla Svizzera (giugno 1945) ai dipendenti della fabbrica di Ivrea, a cura di
Davide Cadeddu, in appendice a: AA.VV., La riforma politica e sociale di
Adriano Olivetti (1942-1945), Tavola rotonda, 1° dicembre 2005, pp. 62-64.
VII

Quando i problemi tecnici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e
il successo finanziario che ne fu principale conseguenza lo permise, fui tratto
a occuparmi della vita di relazione fra gli operai e la fabbrica. Le casse mutue
funzionavano male: l’accentramento era disastroso: un operaio tubercolotico
per essere ricoverato doveva trasmettere le pratiche al capoluogo di
provincia, di là a Roma e perché di nuovo tornassero indietro con un nulla
osta occorrevano talvolta tre mesi. In quel tempo le cure erano generalmente
insufficienti, i medici cambiavano ogni tre mesi, malattie gravissime non
erano contemplate dagli statuti, molti rimedi importanti non considerati, i
familiari non godevano degli stessi vantaggi del lavoratore. Nacque allora il
servizio di assistenza sanitaria con scopi di complemento alle funzioni delle
casse mutue.
E sorsero così, oltre a un convalescenziario, un’infermeria di fabbrica,
completa dei più moderni strumenti di cura, con la presenza permanente di un
medico e di un pediatra e periodica di altri specialisti, per prestare cure
ambulatoriali e domiciliari non solo ai dipendenti ma anche ai loro familiari.
Per i figli dei dipendenti sorse così l’Asilo Nido, per bambini da sei mesi a
sei anni, e le colonie estive marina e montana.
Alle dipendenti in maternità, sia operaie che impiegate, fu concesso un
periodo di conservazione del posto di nove mesi retribuito quasi totalmente.
E infine si costruirono e si continuarono a ampliare dei complessi di edifici
moderni di abitazione per operai e impiegati, mentre per coloro che risiedono
nei centri fuori di Ivrea si è costituita una rete di comunicazioni
automobilistiche.
Un’altra forma di attività densa di insegnamenti preziosi per l’educazione dei
figli degli operai: l’organizzazione di scuole d’insegnamento tecnico e
professionale, la creazione di un meccanismo di borse di studio per
permettere ai giovani più dotati di diventare dei capi-tecnici e degli ingegneri,
l’apertura di una biblioteca di cultura. Imparai la enorme difficoltà affinché
queste istituzioni non diventassero strumenti di paternalismo, fonte di
privilegi, organi di selezione del tutto inadeguati. E quando recentemente la
parte elettiva del Consiglio di Gestione pose la questione della posizione del
complesso assistenziale nei rapporti tra la Società e il lavoratore si addivenne
a una redazione di una carta assistenziale che parte dalla seguente
dichiarazione:
Il Servizio Sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni Lavoratore dell’Azienda contribuisce con il
proprio lavoro alla vita dell’Azienda medesima e quindi a quella degli organismi istituiti nel suo seno
e potrà pertanto accedere all’Istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che questi
possano assumere l’aspetto di una concessione a carattere personale nei suoi riguardi. Mentre eguale
è il diritto potenziale per tutti i Lavoratori all’accesso ai benefici del Servizio Sociale, il godimento
effettivo dei benefici medesimi si determina in rapporto alle particolari condizioni ed esigenze
constatate secondo criteri il più possibile obbiettivi e che dovranno tendere a essere progressivamente
sempre meglio regolamentati in anticipo.

Con la redazione di questo documento un primo importante passo per


l’autonomia di questa attività sociale e il suo razionale distacco dall’azione
volontaria da cui trasse origine è compiuto. L’azione volontaria riconoscendo
la natura giuridica del nuovo diritto e in definitiva la naturale partecipazione
del Lavoro alla creazione di quella ricchezza da cui trasse prima origine, ha
cancellato quel senso di inferiorità e degradazione che il gesto più generoso
finisce per provocare negli animi delle persone diritte.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 8-10.
I dirigenti. La loro formazione va impostata in modo che siano consapevoli
di esercitare una «funzione pubblica»

Adriano Olivetti attribuisce una rilevanza del tutto particolare al problema


della formazione e selezione dei dirigenti: formazione che, a suo modo di
vedere, deve tenere conto del fatto che la moderna impresa industriale è un
centro di progettazione e produzione di beni e servizi all’interno del quale, e
attorno al quale, si sviluppano complesse reti di relazione e di convivenza
sociale.
Non è certo un caso che l’Ingegner Adriano svolga un ruolo determinante
nel volere e nel dare vita a Torino, nel 1952, all’Ipsoa (Istituto
postuniversitario di studi e organizzazione aziendale), strutturato secondo i
parametri della Harvard Business School, con l’intento di preparare alla vita
aziendale dirigenti dotati di una formazione professionale di tipo nuovo,
diversa da quella molto empirica, improvvisata sul campo, ancora in auge
nell’Italia degli anni Cinquanta.
La Olivetti diventa l’impresa italiana che investe con maggiore convinzione
nella creazione di scuole per la formazione, nella ricerca e sviluppo e nella
collaborazione con le Università attraverso progetti di ricerca condivisi,
donazioni e borse di studio.
L’Ingegner Adriano pensa che la formazione dei dirigenti non possa in ogni
caso esaurirsi nel perfezionamento della loro preparazione tecnica e
culturale, ma debba mirare anche all’affinamento delle doti umane essenziali
a un esercizio corretto della funzione direttiva. E poiché, nel perseguimento
dei suoi fini, l’impresa esercita un impatto sul contesto ambientale più o
meno ampio entro il quale opera, è molto importante che i dirigenti siano
consapevoli della natura «pubblica» della loro funzione.
Adriano Olivetti e Bruno Segre. Torino, 5 maggio 1956
VIII

Tutte le soluzioni omogenee o unilaterali (la proprietà ai Sindacati, la


proprietà allo Stato, la proprietà al Comune) determinano conflitti irrisolvibili
o presentano lacune difficilmente colmabili e nemmeno possono garantire, da
sole, una soluzione soddisfacente al problema fondamentale dell’industria:
una direzione competente.
(…)
L’ultimo, essenziale privilegio caratteristico della società capitalistica e che
non ha nessuna relazione con i diritti naturali dell’uomo, è la trasmissione
ereditaria del Potere. La trasmissione della ricchezza costituisce una
ingiustizia sociale evidente, sebbene legata a un istinto non facilmente
riducibile; ma ancor più la sottomissione di uomini ad altri uomini in virtù del
privilegio di nascita costituisce ormai nell’economia capitalista occidentale
un ostacolo gravissimo al progredire dell’industria. La capacità direttiva non
è ereditaria e i figli dei grandi capitani d’industria sono oggi nel migliore dei
casi nella posizione di monarchi costituzionali, costretti ad affidare il potere a
un primo ministro di loro fiducia, un amministratore ormai posto
nell’acrobatica ed equivoca situazione di mediatore tra capitale e lavoro.
Il potere di dirigere il lavoro altrui deve essere conseguenza di meriti o
legato a eminenti capacità superiori; per altro verso, la non eliminabile
disuguaglianza fra gli uomini conduce a una gerarchia di competenze e di
valori che costituiscono un ordine naturale ed umano nella società.
Lavoratori, specialisti, tecnici, dirigenti costituiscono nell’industria una tale
gerarchia. Essi insorgono contro l’ingiustizia di un sistema ove le grandi e le
piccole decisioni che interferiscono continuamente sulla loro vita individuale
non provengono da una tale gerarchia di valori, ma da una potenza ormai
dissociata dai reali meriti dai quali essa trasse una remota origine.
(…)
Ogni soluzione che non desse esclusiva autorità e responsabilità a uomini di
altissima preparazione è da considerarsi un deplorevole inganno. L’operaio
direttore di fabbrica è un romantico ma anacronistico ricordo dei primi tempi
della rivoluzione sovietica, mentre l’operaio membro di un consiglio di
amministrazione è una tragica finzione retorica della repubblica sociale
fascista.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 48, 51-52,
53.
IX

Quando partii per l’America nel 1925 mi proposi di studiare il segreto


dell’organizzazione, per poi vederne i riflessi nel campo amministrativo e
politico. Imparai la tecnica dell’organizzazione industriale, seppi capire che
per trasferirla nel mio Paese doveva essere adattata e trasformata;
(…)
L’ambiente in cui mi trovai, a venticinque anni, ad affrontare il problema
difficile e complesso di trasformare una industria fondata su sistemi semi-
artigiani in una impresa di più grandi dimensioni e modernamente intesa, era
largamente dominato dalla figura originalissima di mio padre e della piccola
città dove eravamo nati.
Mio padre era dotato di un geniale talento economico, ma disprezzava la
struttura capitalista, il sistema bancario, la finanza, la borsa, i titoli. (…) Era
dominato dall’idea dell’indipendenza, del non dover niente a nessuno, di non
essere soggetto a controlli o a legami di qualsiasi sorta. Perciò procedeva con
estrema cautela e prudenza, adeguando lo sviluppo dell’azienda alle proprie
risorse finanziarie e alla personale attività organizzativa.
Quando entrai nella fabbrica, la direzione tecnica della produzione era il
dominio di un selfmade man, di un capo proveniente dalle file operaie,
versatile, attivissimo, eclettico, di uno stampo difficilmente riproducibile.
Più tardi compresi ancor meglio il valore umano di quell’antico collaboratore
che insieme a mio padre governava la fabbrica con dei principi insoliti: la
bontà e la tolleranza.
In quel tempo regnava nella fabbrica un’atmosfera di pace e di armonia, fra
capi e personale. Molti anni più tardi, compresi quanto era difficile riprodurre
quell’atmosfera in mutate circostanze storiche e in dimensioni dieci volte più
grandi.
L’idea fondamentale che guidò la trasformazione tecnica fu l’introduzione
nell’attività industriale, in tutti i suoi rami, di uomini di elevato livello di
preparazione scientifica.
I vecchi capi, provenienti dalla “gavetta” cui la fabbrica doveva l’inizio, lo
sviluppo, i maggiori sacrifici degli anni difficili, si dovettero mettere in
disparte; entrarono in officina i cento e lode della scuola politecnica. Io avevo
dovuto giudicare le cose e gli uomini sotto un profilo razionale: se servivano
o non servivano alla trasformazione che ritenevo indispensabile.
Oggi il dissidio fra il “pratico” e il “teorico” è finalmente composto, in una
valutazione obbiettiva dei reali meriti degli uni e degli altri.
(…)
Mio padre e il suo braccio destro tecnico avevano dunque guidato prima di
me l’officina con un occhio all’intelligenza ed una mano sul cuore. Erano i
tempi in cui il direttore, con infaticabile energia, con paziente umanità,
assumeva lui i ragazzi che avevano fama, nella parrocchia, di essere
volenterosi e capaci. Egli soleva dedicare almeno un’ora al giorno ad
ascoltare l’operaio che chiedeva l’assunzione della moglie o della cognata,
che chiedeva un prestito per comperarsi la mobilia o pagare un piccolo
debito, (…) Per tutti egli trovava, quando poteva, un rimedio, una soluzione,
un provvedimento.
Questo tocco personale, introdotto da un uomo di cuore, era andato in parte
inevitabilmente perduto con l’ingrandirsi della fabbrica. Mio padre lo
comprese assai prima di me e quando nel 1932 venne a mancare il Burzio
(ché tale era il nome del suo primo direttore tecnico), creò per sua memoria e
per continuare l’opera il Fondo che ancora porta il suo nome. Questo avrebbe
servito, come infatti servì, come serve tuttora, a garantire all’operaio una
sicurezza sociale al di là del limite delle assicurazioni, in Italia ancor troppo
ristretto. (…) Gli orfani e le vedove vennero largamente assistiti, nessun
convalescente fu chiamato a lavorare ancor debole; imparai organizzando
questi servizi (non sempre perfetti) a conoscere l’intimo nesso tra l’assistenza
sanitaria e l’assistenza sociale. Imparai a conoscere quanto scarsa sia la
sensibilità a questi problemi da parte di coloro che non li soffrono, o che sono
distratti da obbiettivi concreti, verso la tragica marcia per l’‘efficienza’ e il
‘profitto’, e che infine solo una parte di tali problemi può essere affidata a un
‘piano’ anche se generoso e ben congegnato, poiché l’azione volontaria,
come l’ha definita Beveridge, non può essere sottovalutata.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 4-8.
X

Per assicurare lo sviluppo in estensione e l’aumento di efficienza generale di


una data industria, è necessario che l’attività complessiva individuale del
gruppo dei dirigenti principali sia superiore per capacità o per numero alle
esigenze immediate dell’industria, in modo che la loro attività non sia
assorbita completamente dall’esplicazione delle attività normali, ma sia reso
possibile lo studio, la preparazione e la realizzazione di esigenze nuove. A
tale condizione occorre adeguare il quadro dell’organizzazione.
Il quadro generale dell’organizzazione, estratto da L’Organizzazione
Scientifica del Lavoro, VI (5), 1928, p.11.
XI

Quando un fabbrica è compiuta spetta ai dirigenti quasi tutta la responsabilità


di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di
ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e
partecipe, infine, della vita dell’uomo che trarrà dal nostro stesso progresso
alimento economico e incentivo di elevazione sociale.
«Notizie Olivetti» N° 26, aprile-maggio 1955, p.17. (Brano tratto dal
discorso pronunciato per l’inaugurazione dello Stabilimento Olivetti di
Pozzuoli, 23 aprile 1955)
XII

L’anno che si apre dinanzi a noi segna una data importante nella storia della
nostra Società: nel prossimo ottobre si compiranno cinquant’anni da quando
l’ingegner Camillo iniziò nella piccola fabbrica di mattoni rossi lo studio del
primo modello italiano di macchina per scrivere. (…)
Oggi, nell’inviare il mio augurio a tutti coloro che lavorano nelle fabbriche e
negli uffici dell’Organizzazione Olivetti, mi preme ricordare che i successi
fino a ora conseguiti, tra non lievi difficoltà e a prezzo di sacrifici, sono
dovuti certamente all’iniziativa, all’abilità, all’attaccamento dei tecnici, dei
dirigenti, degli impiegati e degli operai, ma per tanta parte sono legati alla
fedeltà a ciò che possiamo chiamare lo Spirito della Fabbrica. Esso può
essere identificato, oltre che nella convergenza armoniosa dei nostri sforzi e
nella somma delle nostre fatiche, anche nella fede in quei valori morali,
culturali, artistici cui abbiamo sempre creduto e che sono parte integrante del
nostro patrimonio, non meno degli sviluppi materiali dell’azienda.
(…)
Pur operando in un ambito, quello della industria moderna, che ha le sue
regole e i suoi limiti precisi, noi ci siamo sforzati di superare l’angustia dei
puri interessi pratici, con una attenzione costante rivolta a salvaguardare la
libertà e la dignità dell’uomo, prezioso e inalienabile bene di ognuno. Così
come abbiamo sempre ritenuto che gli aspetti etici ed economici di ogni
impresa non debbano essere disgiunti da quelli estetici: dove si rivelano e
risiedono nuove dimensioni dell’uomo. E per questo, insieme alle cure che
l’impresa impone alla direzione, essa ha sempre dedicato la sua attenzione e
ha dato incoraggiamento ad altre attività che possono talvolta sembrare
distanti dai fini di un’industria.
«Notizie Olivetti» N° 52, dicembre 1957, pp. 1-2. (Brani tratti dall’augurio
del Presidente a tutti gli appartenenti dell’Organizzazione Olivetti per il
Capodanno 1958).
Crescita della fabbrica e sviluppo del territorio. Olivetti e l’urbanistica in
Italia

Non vi è dicotomia, per Adriano Olivetti, fra l’attività dell’imprenditore e la


sua azione pubblica. Vige per l’Olivetti imprenditore il principio secondo il
quale l’impresa deve agire avendo di mira non le sole scelte
microeconomiche, ma un disegno globale in cui l’impresa stessa, in quanto
organismo efficiente e produttore di innovazioni, diventi motore di progresso
per tutta la collettività al cui interno essa opera.
Olivetti è convinto della necessità di programmare uno sviluppo del
territorio che oggi definiremmo ‘sostenibile’, e lotta contro il disordine
urbanistico. Lo studio dei problemi di crescita dell’industria, e la scoperta
delle relazioni e dei legami territoriali ed economici tra crescita aziendale e
ambiente circostante, lo portano a comprendere come la contraddizione tra
sviluppo economico e ‘alienazione’ del lavoro salariato, parcellizzato e
ripetitivo, possa trovare soluzione non soltanto, ma anche e soprattutto,
all’esterno della fabbrica. Questa lenta elaborazione del rapporto tra
fabbrica e comunità circostante e dei temi relativi alla pianificazione
territoriale trovano un primo sbocco concreto, verso la fine degli anni
Trenta, nella promozione degli studi per un Piano regolatore della Valle
d’Aosta.
Il bando per questo Piano è del 1936. L’Ingegner Adriano decide di
concorrere (si tenga presente che Ivrea, sotto il regime fascista, fa parte
della provincia di Aosta); e in tal modo il richiamo di Olivetti ai principi
dell’organizzazione razionale del lavoro fuoriesce per la prima volta
dall’ambito strettamente aziendale per proiettarsi sul territorio e proporsi
quale fattore risolutivo dei problemi e dei conflitti esistenti sul piano sociale
e politico. La visione dell’Ingegner Adriano, che l’accompagnerà per tutta la
vita ed è rintracciabile come un filo rosso in molti dei suoi scritti, individua
nell’urbanistica una disciplina diversa e superiore alle altre perché capace
di organizzare attorno a sé tutti gli altri indirizzi disciplinari: architettonici,
ambientali, sociologici, demografici.
La provincia di Aosta, cui il regime fascista ha inflitto interventi
architettonici per nulla rispettosi delle peculiarità locali, soffre di problemi
sociali molto gravi (con una popolazione in condizioni di vita estremamente
misere) e territoriali (mancanza di strade, disordine idrico, disboscamento).
A collaborare alla stesura del Piano regolatore vengono invitati da Olivetti
professionisti che egli stesso coordina, e che compongono una squadra
comprendente alcuni dei maggiori esponenti della giovane cultura
architettonica funzionale, attivi allora in particolare a Milano come il
famoso gruppo BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi,
Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers): una squadra che affronta con
coraggio, per la prima volta in Italia, una pianificazione su scala regionale
offrendo al concetto stesso di pianificazione contenuti nuovi, collegabili con
prospettive di carattere politico, economico e sociale che preannunziano
quella visione comunitaria di cui Olivetti proporrà una formulazione
compiuta soltanto negli anni a venire.
Il Piano, la cui vera importanza sta nella sua impostazione metodologica,
intende sovrapporre alle forze del caso e dell’improvvisazione un ordine
superiore e razionale. Il modello cui fin d’allora Olivetti guarda con
interesse è la TVA (Tennessee Valley Authority) – istituita negli Stati Uniti
sotto la presidenza Roosevelt a partire dal 1933 –, cioè un potere
geograficamente circoscritto, dotato di strumenti atti a promuovere e a
pianificare lo sviluppo di una specifica regione in tutti i suoi aspetti.
Come è costume di Olivetti, egli mette in moto una ricerca creativa
destinata, secondo le parole di Geno Pampaloni, a costituire «uno dei pochi
episodi non superficiali che si siano svolti durante il ventennio fascista al di
fuori della cultura crociana». Il gruppo di lavoro trae vantaggio da un
ventaglio ricchissimo di studi preliminari, che forniscono le indicazioni di
massima circa i diversi aspetti della regione: fisico, sociale, economico,
igienico, sanitario, edile; e in tal modo i pianificatori possono articolare il
proprio lavoro in una serie di piani particolareggiati, che avendo anche una
funzione di stimolo per analisi successive, mirano nel campo urbanistico a
organizzare i luoghi destinati all’abitazione, alla produzione, alla
distribuzione, alla vita collettiva, allo svago, al riposo.
Le linee direttrici e il nuovo approccio che questo primo esercizio di
pianificazione territoriale va proponendo caratterizzeranno tutta l’azione
successiva di Olivetti nel settore urbanistico, contribuendo a dare ai diversi
interventi da lui sollecitati a enti pubblici o privati un carattere coerente e
unitario. La guerra impedirà che molte delle proposte avanzate da Olivetti
per la Valle d’Aosta giungano all’attuazione. Il testo stesso del Piano vedrà
la luce, come pubblicazione, soltanto nel 1943. Il progetto di un nuovo
quartiere a Ivrea, curato negli anni Trenta da Luigi Figini e Gino Pollini,
confluirà poi nella redazione del Piano regolatore cittadino, steso nel 1942,
prima dell’entrata in vigore della legge urbanistica. Questo piano
regolatore, non essendo stato adottato dal Comune, sarà in piccola misura
realizzato dalla stessa società Olivetti con la costruzione di due quartieri
residenziali per i dipendenti.
Terminata la guerra, l’Ingegner Adriano riprende a impegnarsi per
riaffermare il valore del metodo scientifico nel campo dell’architettura e
dell’urbanistica, soprattutto contribuendo al riordino dell’Istituto Nazionale
di Urbanistica, del quale sarà nominato presidente nel 1950. Negli anni della
presidenza di Olivetti, dal 1950 sino alla sua morte nel 1960, l’Inu conduce
una lunga battaglia perché si giunga a un’organica regolamentazione
legislativa edilizia e urbanistica in sostituzione della legge urbanistica del 17
agosto 1942, incentrata sui piani comunali, e quindi ormai manifestamente
inadeguata. Per Olivetti la pianificazione territoriale in Italia deve poter
spaziare oltre i confini storici dei comuni e delle stesse regioni; il piano deve
dunque condurre a una diversa strutturazione del territorio, articolata
secondo criteri funzionali, e a una delimitazione degli spazi regionali che
coincida con un nuovo assetto delle funzioni di rappresentanza politica. È
compito cioè dell’urbanistica “ricreare”, con i suoi strumenti tecnici, il
territorio e dettare le linee guida della sua corretta gestione. L’urbanistica,
secondo Olivetti, assolve a una funzione di essenziale importanza nel quadro
della moderna civiltà industriale, in cui certe antinomie fondamentali quali
quelle tra città e campagna, la rarefazione dei rapporti primari e la carenza
di solidarietà che caratterizza la vita dell’umanità contemporanea sono da
annoverare fra le conseguenze più evidenti del processo di
industrializzazione.
Come è ovvio, gli orientamenti programmatici che Olivetti definisce al
momento di assumere la presidenza dell’Inu non tarderanno a urtare contro
le resistenze delle burocrazie presenti nelle istituzioni, centrali e periferiche,
inclini alla realizzazione di riforme parziali grazie alle quali il loro potere
decisionale rimanga inalterato, e quindi avverse all’assunzione integrale dei
programmi urbanistici. Per parte sua Olivetti muove dalla convinzione che il
disordine edilizio altro non sia se non il riflesso del disordine economico e
della mancanza di ideali sociali, arrivando a concludere che «l’urbanistica o
è comunitaria o non è affatto urbanistica».
Proprio per questo negli anni Cinquanta, in continuità storica con il Piano
per la Valle d’Aosta, Olivetti ritorna sull’idea di un piano che possa servire
da modello per tutto il Paese. Viene così avviato il Piano Regolatore
Generale di Ivrea che, progettato sul finire del 1951, verrà messo a punto,
dalla fase delle ricerche a quella delle redazioni, nel biennio 1952-1954. «La
nostra Società – scrive Olivetti in una lettera dell’ottobre 1951 a Giacomo
Ottello, sindaco di Ivrea – è disposta ad assumersi la spesa di redazione del
Piano stesso in conformità con le tariffe professionali vigenti».
Questa volta, rispetto al Piano per la Valle d’Aosta l’Ingegner Adriano non
intende essere coinvolto in prima persona ma preferisce che, nella cabina di
regia, operi un Gruppo Tecnico per il Coordinamento Urbanistico del
Canavese (Gtcuc) la cui responsabilità viene affidata agli architetti Nello
Renacco, Ludovico Quaroni e Annibale Fiocchi. Le finalità e i motivi
ispiratori sono sempre gli stessi che animavano già le operazioni per il piano
degli anni Trenta, ma questa volta l’impianto metodologico e la cultura
urbanistica messi in campo sono decisamente più maturi e articolati.
I problemi per i professionisti del Gtcuc si affollano immediatamente:
problemi di amministrazione corrente (come procedere al rilevamento della
situazione di fatto per gli edifici, i servizi e così via; come raccogliere dati
economici, storici, demografici e così via); e problemi di natura più delicata,
quali: come ottenere la massima collaborazione possibile dalla popolazione;
come collegare subito il Piano Regolatore di Ivrea con i comuni coerenti
(apertura verso un Piano intercomunale); come realizzare un’atmosfera
attiva e creativa all’interno di un gruppo tecnico composto di persone spesso
molto diverse per tendenze, ideologie, impostazioni urbanistiche.
Grazie al coinvolgimento di una cerchia via via allargata di ricercatori e
operatori con le competenze più varie (dall’architettura alla pedagogia,
dalla demografia alla sociologia), lo straripante materiale elaborato nel giro
di un biennio offre dell’Ivrea degli anni Cinquanta una radiografia mirabile
per chiarezza: il quadro lucido di una città di diciottomila abitanti e del suo
territorio, gravitante attorno a una fabbrica d’avanguardia che impiega da
sola seimila persone, provenienti per lo più da una cintura di comuni a
economia ancora prevalentemente rurale, con segnali di perdurante diffuso
sottosviluppo.
Nell’insieme delle pubblicazioni curate dal Gtcuc – una collana che il
Congresso di Genova dell’Inu (ottobre 1954) accoglie con calorosi consensi
– prende corpo un progetto di sviluppo dell’intera comunità canavesana,
formulato sulla base di un ampio ventaglio di ipotesi di intervento, suffragate
da solide ricerche economiche, sociali, urbanistiche. Ma il progetto, che
incontra l’ostilità concentrica del Comune di Ivrea a maggioranza
democristiana e dell’opposizione di sinistra, sarà destinato a rimanere sulla
carta.
La carica di presidente dell’Inu apre peraltro a Olivetti, su un altro
versante, le porte dell’Unrra-Casas: un ente pubblico nei cui organismi
direttivi egli entra nel 1950 come membro della giunta e nel gennaio 1959
come vicepresidente (essendo presidente il ministro dei Lavori pubblici in
carica). L’Unrra-Casas (Comitato amministrativo soccorso ai senzatetto) era
nato all’indomani della seconda guerra mondiale, nel 1946, con lo scopo di
provvedere nell’Italia peninsulare alla ricostruzione delle abitazioni distrutte
dalla guerra. Negli anni precedenti l’ingresso in giunta di Olivetti, l’ente
aveva operato realizzando piccole unità di abitazione comprendenti al
massimo quattro appartamenti, dotate di un minuscolo appezzamento di
terreno.
Sin dall’inizio l’azione che l’Ingegner Adriano conduce all’interno dell’ente
mira a superare gli interventi isolati e sporadici attuati con l’unico scopo di
fornire una modesta abitazione e un piccolo orto ai danneggiati dalle
operazioni belliche. Sotto lo stimolo della concezione olivettiana, l’Unrra-
Casas riesce a realizzare interi quartieri abitativi in cui gli assegnatari
possano inserirsi in un contesto sociale organico, e a estendere il proprio
intervento al risanamento abitativo di alcune zone dell’Italia centro-
meridionale. Ne sono testimonianza il borgo Cutro in Calabria e il quartiere
di San Basilio a Roma.
Ma di quella felice stagione dell’Unrra-Casas, l’esperienza più significativa
rimane il risanamento della zona dei Sassi di Matera. Negli anni del
dopoguerra, più della metà della popolazione di Matera, in larga
maggioranza contadina, continua a vivere un’esistenza trogloditica nei Sassi,
e la mortalità infantile supera il 40 per cento. Nel 1952, sulla base dei rilievi
e dei censimenti delle abitazioni materane effettuati dall’Unrra-Casas, viene
approvata la legge sul risanamento del rione dei Sassi, provvedimento che
prevede tre fasi operative: il trasferimento della popolazione in nuova sede,
il restauro degli ambienti suscettibili di risanamento, la costruzione di borghi
rurali. Il programma per la creazione di duecento alloggi si concreta nella
progettazione del borgo residenziale di La Martella. Affidato a Ludovico
Quaroni, Piero Maria Lugli, Federico Gori e Michele Valori, il progetto
risulta essere intimamente funzionale all’ideologia olivettiana in quanto mira
a superare la millenaria dicotomia tra valori urbani e rurali, tipica di tutta la
storia del Mezzogiorno, innestando nelle forme spontanee della tradizione
popolare i contenuti tecnici espressi dall’architettura moderna.
La Martella ha la dimensione tipica del villaggio contadino del Meridione
d’Italia (due-trecento famiglie), che giustifica i servizi comuni; sta in mezzo
ai campi che gli abitanti devono lavorare, consentendo loro di evitare i
tradizionali spostamenti con i muli in ore notturne o antelucane; è collegato
con Matera da corse di autobus. Date queste premesse progettuali
largamente innovative, si capisce come la realizzazione del borgo La
Martella incontri serie difficoltà. Il progetto è mal sopportato dai ministri a
Roma nonché, in particolare, dall’Ente riforma fondiaria, favorevole per
parte sua a una soluzione di case sparse e centri di servizio, sia perché più
consona all’ideologia meridionalistica espressa dal potere centrale
democristiano, sia perché diretta a evitare un accentramento di potere
nell’Unrra-Casas. Ci si spinge addirittura a incaricare gruppi di studiosi
progressisti di estrazione diversa, come i sociologi del Mulino, di redigere un
loro studio, per poi contrapporlo a quello patrocinato da Olivetti.
La sistematica demolizione morale del lavoro compiuto da Quaroni e dagli
altri professionisti vicini all’Ingegner Adriano, oltre a un subdolo
boicottaggio in sede di realizzazione dei fabbricati, fanno sì che La Martella,
unico borgo residenziale agricolo mai attuato in Italia, rimanga un’opera
incompiuta, secondo un destino ricorrente di tutte le proposte di cui Olivetti
si fa interprete come presidente dell’Inu, e anche come membro della giunta
e poi come vicepresidente dell’Unrra-Casas. Altri borghi rimarranno
soltanto sulla carta.
Tacciato spesso di utopia a motivo di questi e di altri suoi insuccessi,
Olivetti è per contro un autentico realista, acuto nell’analisi dei problemi,
instancabile nell’elaborare proposte e nel dare concreta attuazione a esempi
vivi e vitali delle possibilità di incidere con una metodologia nuova nel
tessuto sociale, economico, culturale dell’Italia del suo tempo. Quella che
sicuramente gli manca è la duttilità del politico politicante, disponibile ai
compromessi di potere, spesso deteriori.
XIII

L’umano progresso di cui riteniamo l’urbanistica sia attivissimo strumento,


si svolge non già attraverso un processo continuo ma su un cammino sovente
interrotto da crisi e da soluzioni di continuità. Sono queste crisi, d’altronde,
che segnano il riaffermarsi dello spirito creativo sulle forze negative che
tendono a infrangerlo. Siamo ora in uno di questi momenti. Nella situazione
attuale disponiamo di taluni strumenti essenziali della pianificazione, ne
abbiamo cioè completa padronanza tecnica: alludo all’unità residenziale
autosufficiente, alla borgata rurale, al piano paesistico. Fino a oggi questi
strumenti sono stati però troppo spesso scarsamente o malamente usati
attraverso parziali e dispendiosi tentativi di innestare iniziative nuove su
vecchie e inadeguate strutture.
(…)
Una condizione essenziale di progresso risiede nel coordinamento armonico
tra il dispositivo urbanistico e le fonti di vita economica.
Quest’indispensabile coordinamento è invece considerato ancor oggi come
fattore secondario. Prima procedono le industrie a costruire o a ingrandire
fabbriche senza una visione precisa delle conseguenze urbanistiche delle loro
attività; poi, sotto la pressione del disordine sociale, si cercano rimedi quando
le soluzioni organiche sono ormai divenute impossibili.
(…)
Sappiamo quanto sia arduo oggi il coordinamento delle attività degli enti
pubblici a raggio nazionale e come il fine si faccia ancor più difficilmente
raggiungibile quando ci si riferisca a enti ed aziende privati. Un tale
coordinamento ravvicinato potrà trovare la via della sua realizzazione
soltanto quando si sia determinato il suo optimum dimensionale e la natura
degli organi atti a dirigerlo.
Una direzione avrà autorità e prestigio solo se vigile interprete dei bisogni e
delle aspirazioni del luogo ove sarà chiamata a operare, se avrà forza ed
iniziativa, se saprà conciliare il tecnico con l’umano, i valori estetici e
naturali con quelli sociali. In realtà, questa sintesi creativa è solo possibile se
opera di un ristretto gruppo di uomini di alta e differenziata cultura, i quali
abbiano avuto il tempo ed il modo di assimilare profondamente i problemi
della comunità e di far scaturire dalle sue fonti storiche e sociali una nuova e
più felice espressione.
Noi pensiamo a un ambito vitale né troppo grande né troppo piccolo,
ordinato e proporzionato alle dimensioni dell’uomo: un luogo più felice ove i
campi, le fabbriche, cioè la natura e la vita ricondotti a unità, ritrovino quella
compiuta armonia che alberga soltanto nella pace e nella libertà.
Se poniamo l’idea di una nuova civiltà non possiamo dimenticare che questa
riposa su una sintesi di valori umani: sociali, economici, estetici. Questa
sintesi – la storia lo proverebbe – è avvenuta soltanto in unità ridotte, di cui
furono esempio, non ancora rinnovato, le città-stato della Grecia antica.
(…)
Tra politica e urbanistica esiste un nesso così intimo ed evidente che i due
termini si identificano, poiché essi esprimono lo stesso concetto di stato,
costituzione, città.
E da queste considerazioni nasce un’altra esigenza: quella che a ogni
elaborazione di piani sia premessa una lunga ed estesa azione di studio, volta
a ritracciare storicamente il passato, ad analizzare le condizioni sociali
presenti delle comunità e a definire i caratteri obbiettivi dell’ambiente entro
cui si svolge la loro vita; azione di studio che sarà appunto tanto più
approfondita e funzionale quanto meglio sarà dimensionata.
«Comunità» N° 16, Anno VI, Dicembre 1952, p. 36. (Brani tratti dal discorso
pronunciato in qualità di Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica in
apertura del IV Congresso di Urbanistica, Venezia 1952).
XIV

Negli anni successivi al 1926 furono create diverse province nuove in


relazione alle quali furono necessari nuovi uffici. La città di Aosta, in seguito
a un grande sviluppo dell’industria siderurgica, aveva subito un preoccupante
sovraffollamento onde la costruzione di case era diventata urgente. Quel
Comune, elevato a capoluogo della nuova Provincia provvide a bandire un
concorso per il piano regolatore ma, ancora prima che questo venisse
approvato, l’Amministrazione delle Poste faceva ricostruire i propri uffici con
un progetto che veniva dalla Capitale, redatto da architetti che probabilmente
non avevano mai visto il luogo. L’Istituto delle Case Popolari dava mano alla
costruzione di case per una ingente mole di lavoro; i piani relativi e l’aspetto
esterno non avevano nessun rapporto né riferimento con le altre abitazioni
che nello stesso tempo la grande industria di Stato ivi localizzata si dava a
fabbricare per i propri dipendenti. Il ministero della Guerra costruì imponenti
gruppi di caserme, l’Opera Maternità e Infanzia la propria sede; l’Ordine di
San Maurizio e Lazzaro un grande ospedale, il Ministero delle Finanze i
propri uffici; l’Educazione Nazionale un nuovo Liceo Ginnasio. Ognuno
operò con criteri estetici differenti e senza collegamento. Il Genio Civile a cui
era affidata una gran parte dell’esecuzione di questi lavori, non aveva certo il
potere di modificare i singoli progetti che provenivano separatamente da
Roma o di preparare il piano che spettava al Comune. Il risultato generale fu
la trasformazione della vecchia città fondata da Augusto su un piano
urbanistico coerente e ancora non priva della suggestione di un suo
particolare carattere, nella più disordinata accozzaglia di fabbricati di gusto
contrastante. Una Comunità organizzata avrebbe potuto affidare a una unica
Autorità la predisposizione di queste opere onde dar luogo con lo stesso
dispendio a un modello estetico e urbanistico. Né questo è da considerarsi un
particolare esempio della disorganizzazione corporativa poiché l’attuale
democrazia non dimostra nemmeno l’intenzione di superare quei modesti
tentativi di soluzioni organiche intrapresi dal fascismo a Littoria e a Sabaudia.
La situazione, oggi, non appare dunque sostanzialmente mutata, né altrimenti
potrebbe essere poiché il coordinamento ai fini di soluzioni organiche,
presuppone l’esistenza di un solo potere, di un’unica autorità, di un nuovo
organismo istituzionale avente i mezzi e le capacità per elaborare ed attuare
un piano innegabilmente più complesso di un piano regolatore comunale.
Potrebbe forse, in virtù delle leggi esistenti, il Sindaco di un Comune
importante obbligare le industrie a decentrarsi, l’Istituto delle Case Popolari
ad accordarsi con il piano Fanfani, con l’IINCES e infine con una pluralità di
Enti centralizzati: Ministeri, Aziende autonome, vari Istituti di Previdenza
Sociale e via dicendo, al fine di attuare un unico piano organico e
stilisticamente coerente? Quel Sindaco illuminato, dotato di un’autentica
preparazione culturale e carico di fervore urbanistico, dopo estenuanti corse a
Roma, finirebbe con ogni probabilità per rinunciare al suo programma,
ovvero ad accettare una serie di compromessi tali da limitare o alterare la
coerenza della soluzione proposta. Del resto, i piani regionali comunali, così
come sono previsti e concepiti, invecchiano più rapidamente del tempo
necessario per la loro approvazione.
Una giusta direzione delle cose sarà realizzata unicamente dalla
comprensione che la nuova civiltà delle Comunità darà ai problemi
dell’architettura, la quale ponendosi al servizio sociale, diventando cioè
urbanistica, costituirà la base formale di ogni rinnovamento.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 74-75.
XV

Il nostro ragionamento ci porta ora a esaminare quali sono i rapporti tra


piano economico e piano urbanistico. Si è insufficientemente considerato,
sembra a noi, che i cambiamenti che avvengono nell’economia e i
provvedimenti sociali dello Stato si attuano con una serie di operazioni
edilizie: le cifre dei bilanci si trasformano in gran parte in terreno, mattoni,
pietre, cemento, ferro, vetro. L’aumento di produzione industriale significa
ampliamento di fabbriche o impianti di nuove unità di produzione. Ogni anno
le nuove generazioni entrano nell’invisibile esercito del lavoro e in
proporzione migliaia di metri quadrati di opifici devono apprestarsi a
preparare nuovi posti di lavoro.
I piani di protezione sociale moderni presuppongono una rete di servizi
(ospedali, cliniche, ambulatori, dispensari, cliniche specializzate,
convalescenziari, ecc.); ma essi, parimenti alle fabbriche, malamente si
inseriscono nella vecchia città. Anche un piano di incremento culturale,
scuole di ogni tipo e di ogni grado, biblioteche, gallerie d’arte e via dicendo
non trovano nella maggioranza dei casi né una ubicazione conveniente, e
neppure lo spazio adeguato per consentire quelle soluzioni complete e
moderne che allievi, docenti e studiosi urgentemente reclamano: silenzio,
verde, classi all’aperto, attrezzature ausiliarie, eccetera. E ciò vale tanto per il
Politecnico di Torino quanto per la scuola comunale di Montemurro in
Lucania.
La vecchia città è una forma esaurita, spesso orribile, sempre anti igienica,
incapace di contenere il nuovo nella sua giusta proporzione. Il borghese si
avvede della sua decrepitezza solo quando la sua automobile è ferma in coda
a lunghe file nella circolazione ormai ostruita ovvero quando non trova più
spazio per il parcheggio. Non sa che era già vecchia per l’operaio che non
trova casa che a due ore di distanza dal luogo del proprio lavoro in topaie
grigie della periferia o in abitazioni desolate costruite da una classe dirigente
che non voleva una parità umana tra l’operaio e il borghese e perciò le
caratterizzava in una degradante forma: la casa popolare, in cui appena era
evidente un miglioramento delle condizioni igieniche elementari, ma che
lasciava, e spesso ancora lascia, insoddisfatte molteplici esigenze umane. La
casa e la strada sono l’elemento sostanziale e appariscente di una civiltà onde
l’attuale disordine edilizio è il simbolo più appariscente della sua crisi.
Una lungimirante politica economica per il pieno impiego della mano
d’opera (sia essa sorgente dallo Stato ovvero dalle Comunità stesse o per
iniziativa di entrambi) si trasformerà anch’essa in una serie di costruzioni;
siano esse strade, autostrade, alberghi, case dighe, canali, fognature,
acquedotti; o botteghe d’artigiani, laboratori sperimentali, nuove fabbriche o
ampliamenti di grandi stabilimenti industriali.
Esse tutte presuppongono una reciprocità, una interdipendenza, una vita di
relazione che richiede, nella sua espressione moderna, un complesso e
completo piano territoriale urbanistico.
Per queste ragioni non è più ormai possibile dissociare la pianificazione
economico-sociale dalla pianificazione urbanistica. «Questa divisione»,
scrivevamo nell’Ordine Politico delle Comunità, «va respinta come un
ostacolo alla creazione di una vera civiltà che, ripetiamo, è armonia tra vita
privata e vita pubblica, tra lavoro e abitazione, tra centri di consumo e centri
di produzione, tra abitazioni e centri ricreativi, culturali, ospitalieri,
assistenziali, educativi. Solo l’Urbanistica che si costituisca in dottrina avente
una tradizione scientifica di studi ed esperienze, può dare forma a un piano
economico».
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 77-79.
XVI

Il tipo di pianificazione democratica realizzato negli Stati Uniti con la


politica sociale iniziata con il New Deal del Presidente Roosevelt e che ha
avuto la maggiore espressione nelle esperienze del Tennessee Valley
Authority Act (Tva), ci ha dato degli insegnamenti la cui importanza non va
sottovalutata nel nostro Paese che si accinge da varie parti a tentare per la
redenzione del Mezzogiorno delle esperienze pianificatrici di grande portata.
Sfortunatamente i partiti e le organizzazioni volontarie che finora hanno
delineato dei programmi per il Mezzogiorno hanno dimenticato uno dei
principi necessari allo sviluppo di un piano efficiente: una autorità unica
capace di operare il coordinamento e di superare quelle difficoltà iniziali e
quei problemi particolari che si frappongono al raggiungimento di una
stabilizzazione permanente di un’area arretrata.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 83.
XVII

All’urbanistica come disciplina dell’Architettura (estetica utilitaria al


servizio di fini sovraindividuali) compete l’organizzazione e la redazione di
piani riflettenti integralmente la vita della Comunità. Essa è quindi chiamata a
operare il coordinamento delle iniziative che servano gli scopi differenziati e
indipendenti di tutte le attività pubbliche e private.
Affidato alla Divisione Urbanistica della Comunità il Piano prenderà quella
forma, più o meno perfetta, più o meno ordinata, che la volontà e il gusto
degli uomini – urbanisti e architetti – che saranno chiamati a comporlo,
detteranno. La sua ricchezza sarà in gran parte la conseguenza della
laboriosità e dello spirito di invenzione e di iniziativa dei suoi figli; il suo
valore rispecchierà il grado di cultura dei dirigenti la Comunità. La
Provvidenza potrà donare alle singole Comunità degli uomini di talento e
d’ingegno. Ma quel giorno soltanto, essi potranno trovare un valido
strumento in virtù del quale la loro potenza creativa potrebbe manifestarsi e
degnamente operare. Ogni Piano, rispecchiando la particolare armonia e i
valori propri di ciascuna Comunità, ridarà finalmente vita a quella
differenziazione e a quella composizione umana che, laddove la
«meccanizzazione ha preso il comando», è andata irrimediabilmente perduta.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 86-87.
Torino, 5 maggio 1956
Un piano nazionale organico per lo sviluppo del Mezzogiorno

Negli anni Cinquanta l’Italia conosce la più massiccia migrazione interna


della sua storia e vede una quota consistente della sua popolazione
contadina, concentrata in particolare nel Meridione, lasciare i campi e le
stalle per dirigersi verso le officine e gli uffici, che sono presenti
prevalentemente nel Nord.
Se il problema italiano più urgente è il pieno impiego della manodopera,
esso può essere avviato a soluzione, secondo Olivetti, soltanto quando venga
operato un autentico sviluppo del Mezzogiorno, e tale sviluppo venga
inquadrato in un piano organico nazionale: quel «piano industriale
organico» che deve trasferire risorse e investimenti al Sud attraverso una
rapida accelerazione del processo di accumulazione del sistema economico
italiano nel suo complesso.
Proprio mentre l’Italia centro-settentrionale sta registrando uno sviluppo
economico particolarmente intenso e promettente, il Mezzogiorno presenta, a
parere di Olivetti, invitanti possibilità di intervento pubblico e sociale, e può
avviare i suoi secolari problemi a soluzione mediante i metodi della ricerca e
dell’organizzazione e con la compenetrazione tra pianificazione territoriale e
pianificazione economica.
Non si tratta, da parte di Olivetti, di affermazioni generiche. Lo studio sui
Sassi di Matera e il borgo La Martella non sono iniziative isolate. All’inizio
degli anni Cinquanta, nel quadro della politica di ristrutturazione aziendale
tesa all’aumento della produttività e all’impostazione di relazioni industriali
di tipo nuovo, l’Ingegner Adriano decide di costruire a Pozzuoli, nel centro
«di uno dei più bei panorami del mondo», uno stabilimento la cui prima
pietra viene posta nel 1951 e che, inaugurato il 23 aprile 1955, sarà per
molti anni un simbolo di efficienza. L’insediamento di questa fabbrica – il
primo impianto industriale che nel secondo dopoguerra una grande industria
meccanica del Nord abbia ritenuto di far nascere nel Mezzogiorno – mira a
porsi come fattore di propulsione di una nuova dinamica dello sviluppo, in
grado di abbattere l’arretratezza e il ristagno dell’Italia meridionale,
riproponendo nel suo tessuto socio-economico il medesimo approccio
gestionale e gli stessi rapporti uomo-fabbrica già sperimentati a Ivrea.
Il progetto dello stabilimento di Pozzuoli è opera di Luigi Cosenza, un
brillante architetto napoletano che Olivetti aveva già contattato ai tempi del
piano regolatore della Valle d’Aosta. Cosenza persegue la concezione di un
fabbricato che segua le linee dell’incantevole paesaggio, e perciò disegna
una facciata a curva leggermente concava, che sembra modellarsi sulle
forme del golfo di Napoli. Lo studio delle officine e di tutti gli altri edifici che
compongono il complesso di produzione prevede che la distanza tra ciascun
posto di lavoro e il più vicino punto luce non superi i sette metri. «Nulla è
stato evitato – può dichiarare con orgoglio l’azienda – per mantenere viva
nel lavoratore la convinzione della propria dignità, per servirlo nei suoi
bisogni, per agevolarlo nei suoi compiti».
Come s’è detto, Olivetti è il primo grande imprenditore del Nord a costruire
uno stabilimento nel Mezzogiorno. Eppure nel giorno del taglio del nastro,
forse a causa del fatto che l’azienda ha sistematicamente cestinato le
quarantamila lettere di raccomandazione indirizzatele, le autorità invitate si
dichiarano per gran parte impegnate in ‘improrogabili impegni istituzionali’.
Il fatto è che il meridionalismo di Olivetti propone un approccio che è
profondamente alternativo rispetto a quello portato avanti dallo Stato
italiano, in particolare con le strategie della Cassa del Mezzogiorno,
caratterizzate dall’accentramento ministeriale coniugato a interventi
indiscriminati a pioggia. La politica governativa è tale da disgregare la
specificità meridionale sotto un urto che viene dall’esterno e non risulta
riscattato da un’adeguata strategia culturale e dalla partecipazione delle
comunità interessate. Ai piani predisposti dal governo, che in un diffuso
clima di sperpero e inefficienza finiranno per prevalere dando luogo alle
cattedrali nel deserto, Olivetti contrappone una strategia di progresso, tesa a
un’industrializzazione diffusa ma regolata, basata su aziende di medie
dimensioni con esperimenti di partecipazione.
Il pensiero di Olivetti, orientato a rivivificare i connotati e i valori
tradizionali della civiltà contadina del Sud all’interno dell’indispensabile
processo di industrializzazione – puntando su una sintesi di civiltà fra Sud e
Nord – è schematizzato con chiarezza in quello che egli chiama il «piano
industriale organico», da lui presentato (siamo sul finire del 1955) nella
risposta al questionario di Prospettive Meridionali: un mensile di tendenza
democristiana che ha avviato una sua inchiesta sull’industrializzazione del
Mezzogiorno.
La risposta di Olivetti non intende costituire l’indicazione di una soluzione
completa dei problemi del nostro Meridione, ma tracciare le linee generali di
un paradigma che si trova già delineato nel capitolo «La lotta per la
stabilità» in Società Stato, Comunità. La sua prospettiva, per nulla mitica
bensì razionale, volta ad attuare un’industrializzazione regolata, capace di
salvare le specificità del mondo contadino, non riuscirà vincente. Adriano
Olivetti, il profeta disarmato, morirà ancora giovane nel febbraio 1960. E
dopo la sua scomparsa prevarranno nel Mezzogiorno gli interventi
demagogici, costosi e clientelari di un’industrializzazione disorganica e
distruttiva del tessuto sociale, che andranno ad aggravare, anziché
risolverle, talune piaghe secolari quali “cosa nostra”, “camorra’”e
“‘ndrangheta”.
XVIII

1. L’industrializzazione del Mezzogiorno potrà essere intensificata, e


raggiungere lo sviluppo indispensabile a che il problema italiano n. 1 – il
pieno impiego della mano d’opera – sia avviato a soluzione, solo se il
Mezzogiorno stesso verrà a far parte di un piano organico nazionale. I
provvedimenti sinora escogitati dal Governo, sebbene abbiano portato a un
lodevole interesse degli industriali del Nord verso il problema meridionale –
interesse che può considerarsi senza dubbio incoraggiante (vedi il convegno
del Cepes a Palermo) – non possono considerarsi ancora adeguati.
2. La redazione di siffatto piano, che potrebbe essere chiamato Piano
Industriale Organico, affidata a un piccolo numero di persone di larga
esperienza industriale assistite da uno ‘staff’ di tecnici, economisti, statistici,
sarebbe relativamente facile. La messa in opera del piano richiederebbe
invece l’azione coordinata dei pubblici poteri, dell’Iri (che dovrebbe avere
parte rilevante nell’operazione) e delle aziende industriali private partecipanti
al piano. Infine dovrebbe essere stabilito un dispositivo di coordinamento al
vertice e su scala locale (vedasi il Punto 5). Il Piano Industriale Organico
dovrebbe: a) Considerare la struttura organizzativa delle 300–400 imprese
che (salvo conferma di statistiche approfondite) impiegano oltre un terzo dei
lavoratori occupati nell’industria. b) Mettere in azione un grande piano di
concentrazione industriale in modo da aumentare la produttività delle
industrie di cui sopra; produttività che, come è noto, è determinata anche
dalle dimensioni degli organismi industriali e dalla quantità della produzione.
c) Dar vita a un organismo ‘ad hoc’ adatto a reimpiegare in loco la mano
d’opera resa disponibile dall’operazione b). d) Localizzare un numero
definito di comunità depresse del Mezzogiorno aventi sufficiente omogeneità
geografica e demografica (approssimativamente 150). e) Trasferire al Sud
una quota elevata dell’aumento potenziale produttivo delle industrie
settentrionali, da enuclearsi in dimensioni sufficienti a garantire un alto
livello produttivistico. L’operazione potrebbe essere realizzata col
trasferimento e il raggruppamento di una molteplicità di industrie piccole,
ovvero con l’enucleazione di cicli produttivi organici da industrie complesse
accentrate. Un’azione complementare di grande importanza dovrebbe inoltre
consistere nel ricercare, facilitare, promuovere gli investimenti privati
stranieri nelle varie attività là dove l’industria settentrionale risulti inadeguata
o per nuovi prodotti interessanti anche la esportazione in aree da stabilire
(Europa mediterranea, Africa del Nord, Medio Oriente). Tale azione
dovrebbe essere condotta attraverso una molteplicità di organismi di
promozione e iniziativa decentrati, mentre un unico ufficio centrale
vaglierebbe le conseguenze economiche dei nuovi impianti, non potendosi
tollerare gli sprechi derivanti da inutili duplicazioni. Inoltre dovrebbero
essere messi in atto dispositivi e correttivi capaci di eliminare i danni ormai
ben conosciuti della politica autarchica.
3. La strumentazione del Piano, pur mantenendo sostanzialmente le
caratteristiche dell’economia di mercato industriale italiana, dovrebbe
prevedere incentivi psicologici ed economici. Questi dovrebbero promuovere
una politica industriale nuova e dinamica, fatta di entusiasmo creativo, del
tipo di quella che il Presidente Roosevelt insieme con taluni organismi
industriali (il Committee for Economic Development presieduto da Paul
Hofmann) seppe iniziare e attuare negli Stati Uniti con la politica del
‘New Deal’. Le industrie cooperatrici dovrebbero raggiungere obiettivi
economici in conseguenza: a) della concentrazione industriale, facilitata dai
coerenti provvedimenti legislativi; b) di massicci investimenti provenienti
dall’estero a tassi minori di quelli oggi esistenti (l’atmosfera di fiducia
derivante da siffatto piano li renderebbe attuabili); c) della crescente domanda
di beni provocata dall’aumentato potere di acquisto nazionale; d) del
continuo, raffinato processo di perfezionamento delle strutture tecnico-
operative già in atto nelle industrie più progredite;
e) di una più audace corrente esportatrice; f) di provvedimenti di
coordinamento tra produzione, esportazione e importazione al fine di
diminuire per il produttore i costi di distribuzione, e al contempo garantire al
consumatore il livello di qualità e i prezzi vigenti nel mercato internazionale.
4. La politica dei sindacati e la solidarietà di questi nella marcia del piano è
essenziale. Tuttavia essa da sola non potrebbe raggiungere gli obiettivi senza
il massiccio intervento del potere dello Stato e della sua politica economica.
La politica salariale dovrebbe essere lo strumento n. 1 del Piano, poiché in
una prima fase essa dovrebbe essere rivolta a portare i salari minimi e medi
nelle industrie meno progredite al livello di quelli dei gruppi industriali a più
alto livello di remunerazione. La concorrenza in Italia non opera, con le sue
severe leggi eliminatrici, data la possibilità concessa a operatori economici
scadenti di rimanere nel gioco in virtù di bassi salari. La seconda fase, nella
quale dovrebbero essere raggiunti più alti livelli salariali, proporzionati agli
aumenti produttivistici, sarebbe atta a creare una situazione di crescente
dinamismo, con effetti d’insospettata rilevanza. Gli aspetti sociali del Piano
resterebbero affidati alla cooperazione dei lavoratori e a congrui strumenti di
rappresentanza democratica, ai quali spetterebbe in primo luogo il controllo
affinché il finalismo economico-sociale del Piano non venga a essere tradito.
Le nuove strutture democratiche, evitando le nazionalizzazioni le quali
tendono ad aumentare il potere dello Stato e a diminuire le garanzie di libertà,
sarebbero volte a introdurre la partecipazione effettiva di Istituti scientifici,
Università, Enti territoriali, Fondazioni a finalità scientifiche culturali e
sociali.
5. L’esperienza della Tva dovrebbe essere largamente imitata, adattata,
perfezionata. Il concetto dovrebbe essere quello di conferire a singole autorità
pianificatrici aventi giurisdizione sulle zone di cui alla lettera d) del Punto 2 il
coordinamento in loco tra le singole attività che i singoli Ministeri, gli Enti, i
privati, svolgono separatamente. Tale era il compito primitivo dei Prefetti.
Ma in un secolo le condizioni sono cambiate talmente che è assurdo ritenere
che un tale coordinamento si possa attuare con i vecchi organi e senza nuove
tecniche. Le autorità locali di pianificazione, sottoposte a controllo
democratico, se attuate, finirebbero per dar vita a una nuova, moderna
struttura amministrativa la cui mancanza risulta ormai troppo evidente.
Inoltre la concentrazione degli sforzi in territori di dimensioni ridotte
permetterebbe di considerare il problema integrale di vita di una comunità in
quanto potrebbero essere portati a un livello più alto i fattori sociali e i fattori
economici, dando luogo a una stabilizzazione permanente della comunità. È
inutile risolvere il problema dell’irrigazione se gli altri problemi
dell’agricoltura non saranno risolti. È inutile risolvere i problemi
dell’agricoltura se quelli dell’istruzione professionale non sono stati
affrontati. È inutile creare industrie se contemporaneamente i dispositivi
igienico-sanitari e la stessa cultura generale non sono portati a un nuovo più
alto livello. Tutto questo è possibile ottenere in aree ridotte, con l’enorme
vantaggio di poter dimostrare la validità del metodo in impianti-pilota ed
estenderlo, dopo l’esperimento, ad altri territori.
6. Gli impianti-pilota destinati ad avviare il Piano, dimostrarne la validità in
attesa che il dispositivo prepari la classe professionale, i quadri dirigenti e gli
strumenti per il Piano organico di intervento totale, dovrebbero essere posti
in azione prevalentemente (ma non esclusivamente) da una apposita sezione
dell’IRI organizzata e strutturata ai fini dei nuovi compiti. Altre aziende
private cooperatrici dovrebbero essere invitate ad aiutare la prima fase del
Piano Organico che potrebbe limitarsi a operare in una trentina di aree
particolarmente depresse o in situazioni particolarmente adatte. Dovrebbe
essere eliminato il criterio economicamente assurdo del livellamento, cioè di
operazioni parziali e inadeguate su territori troppo vasti. Il piano di intervento
iniziale dovrebbe esaminare taluni gruppi organici di industrie e operare in
stretto collegamento con gli Enti per l’edilizia popolare. L’edilizia non
potrebbe essere che parte integrante del Piano. Per non moltiplicare gli Enti si
potrebbe utilizzare un Ente esistente, quale l’Unrra Casas, ovvero creare una
sezione speciale dell’Ina Casa non legata alla legge costitutiva, ma che si
giovasse delle notevolissime positive esperienze dell’Ente stesso.
7. Gli strumenti educativi e culturali dovrebbero avere una funzione
complementare di grande rilievo. Bisognerebbe puntare, in modo speciale,
sulla creazione di organismi, oggi largamente insufficienti nella struttura
educativa italiana, e in particolare di: 1°) Scuole universitarie di business
administration o direzione degli affari tipo Ipsoa (Istituto Post Universitario
per lo Studio dell’Organizzazione Aziendale) a indirizzo rigoroso e
scientificamente valido. Il Paese ne avrebbe bisogno di almeno una in ogni
Regione; ma occorre guardarsi da soluzioni inadeguate. 2°) Scuole
professionali di 1° e 2° grado a indirizzo moderno per la formazione di
specialisti (meccanici, cronometristi, fotografi, incisori, ceramisti, ebanisti,
tipografi, trattoristi, frutticultori, orticultori, agronomi ecc.). Le nuove scuole
dovrebbero avere un livello qualitativo assai più elevato di quelle attualmente
in atto, modellandosi sulle scuole cantonali svizzere e su taluni esempi validi
italiani. 3°) Scuole di Arte Applicata e Disegno Industriale. Queste
dovrebbero rappresentare un grande aiuto all’artigianato e alla piccola
industria. Costruite per incoraggiare le virtù artistiche del popolo italiano,
dovrebbero avere nuova vita e vigore stilistico, mercé la direzione, guida,
cooperazione dei migliori artisti e architetti italiani. 4°) Istituti regionali di
psicologia vocazionale atti a vagliare le attitudini dei giovani e facilitare gli
studi, gli impieghi, il perfezionamento dei migliori quando le condizioni
sociali e gli strumenti di selezione scolastica non siano sufficienti alla loro
affermazione. In una parola, la ricchezza di valori umani latente nel
Mezzogiorno e troppo spesso inespressa per la povertà o mancanza di cultura,
deve essere con tutti i mezzi scoperta, esaltata. 5°) Scuole di pianificazione
per amministratori locali. I piani regolatori comunali, intercomunali e
provinciali saranno strumenti indispensabili di una situazione socialmente più
evoluta, artisticamente più consapevole, culturalmente più completa. I nuovi
amministratori (funzionari ed elettivi) dovranno conoscere le tecniche più
progredite. Il ricco patrimonio naturale e artistico proprio delle città e borghi
meridionali, non deve essere minacciato dalle nuove tecniche, ma difeso,
potenziato e ampliato.
8. Le linee generali tracciate vogliono indicare a grandi segni un piano
organico di rinnovamento basato sull’industrializzazione come mezzo, ma
senza dimenticare il fine: la promozione di una civiltà fondata sull’armonia
dei valori, sul rispetto delle libertà democratiche, sull’autonomia della
persona. Un piano impostato su meri fattori economici potrebbe fallire o
portare conseguenze negative per la società suggerendo involuzioni
corporative, stataliste, individualistiche. Il piano prenderà forma e ampiezza
dal valore, esperienza, entusiasmo e integrità degli uomini a esso preposti e
dalla misura della collaborazione che essi riceveranno dai responsabili della
politica economica nazionale.
«Comunità» N° 34, Anno IX, novembre 1955, pp. 1-3. (Articolo
originariamente pubblicato sulla rivista «Prospettive meridionali» con il
titolo Un piano per l’Industrializzazione del Mezzogiorno).
Il progetto istituzionale: L’ordine politico delle comunità (1945)

Dell’azione pubblica e parapubblica di Olivetti – mi riferisco alla redazione


del piano regolatore della Valle d’Aosta, all’attività svolta nell’Inu e
nell’Unrra-Casas, all’attuazione del consiglio di gestione nell’azienda, al
riconoscimento operativo della responsabilità sociale dell’impresa – non si
colgono pienamente il significato e la portata innovativa senza rifarsi a
L’ordine politico delle comunità. Le garanzie di libertà in uno stato socialista:
l’opera sua maggiore, che costituisce a un tempo la sintesi del suo pensiero e
la cornice teorica entro la quale gli interventi pubblici dell’autore traggono
coerente ispirazione.
Desideroso, ben prima dell’atteso passaggio dell’Italia dal fascismo alla
democrazia, di offrire un contributo significativo al dibattito che a tempo
debito andrà ad aprirsi attorno ai possibili futuri scenari costituzionali,
Adriano Olivetti si impegna con L’ordine politico a ridisegnare le istituzioni
della democrazia, elaborando idee e proposte utili a un suo buon
funzionamento. La prima traccia del libro risale alla fine del 1942. La prima
edizione a stampa vede la luce durante il temporaneo esilio in Svizzera (per i
tipi dell’Engadin Press Co. di Samedan) tra la fine del 1944 e i primi mesi
del 1945, con l’indicazione editoriale: Nuove Edizioni Ivrea 1945. Una
seconda edizione verrà stampata a Ivrea nel 1946 con il nuovo sottotitolo
Dello Stato secondo le leggi dello spirito, e una terza uscirà in coincidenza
con il decimo anniversario della scomparsa dell’autore (a cura di Renzo
Zorzi, Edizioni di Comunità, Milano 1970).
L’ordine politico delle comunità si presenta come un libro di ‘ingegneria
istituzionale’, che intende costruire e proporre un disegno organico dei
vincoli giuridici che la nuova struttura del corpo sociale e l’evoluzione delle
tecniche produttive e del sistema economico richiedono affinché la società
umana possa continuare a svilupparsi facendo salvi i criteri dell’efficienza e
offrendo contemporaneamente garanzie di libertà.
L’assunto dell’opera viene chiarito già nell’Introduzione, là dove Olivetti
afferma che per superare le gravi difficoltà della società contemporanea – la
cui crisi è originata «dal persistere, in un mondo profondamente mutato, di
strutture politiche inadeguate» – occorre non sentirsi costretti a scegliere tra
il socialismo di Stato e il liberalismo. Si tratta, infatti, di una scelta erronea e
ingannevole, alla quale l’autore contrappone (indicandolo come «una terza
via») un piano di riforme ispirato alla «concezione di una nuova società che,
per il suo orientamento, sarà essenzialmente socialista ma che non dovrà mai
ignorare i due fondamenti della società che l’ha preceduta: democrazia
politica e libertà individuale». Tra i principali fattori che contribuiscono a
rendere «inadeguate» le strutture politiche, Olivetti indica la dissociazione
tra etica e cultura e tra cultura e tecnica; le deformazioni e l’incapacità dello
Stato liberale di tutelare i diritti materiali e spirituali della Persona contro il
potere diretto e indiretto del denaro; la mancanza di educazione politica.
«Il presente scritto – dichiara più avanti Olivetti – ha origine da disparate
esperienze ed umane vicende: prima di essere costruzione teorica fu vita.
Esso è soprattutto il frutto dei molti anni di lavoro, dolore, fatica, di tutti
coloro che hanno affrontato il durissimo travaglio che fu, sul piano spirituale
e sul piano tecnico, la preparazione necessaria al mondo che nasce». Una
matrice culturale fondamentale del libro è rappresentata dalle letture
personali che Olivetti compie nel corso degli anni Trenta e dei primi anni
Quaranta, soprattutto nell’ambito della filosofia politica espressa dallo
spiritualismo di area francese: «Il pensiero politico contemporaneo –
afferma l’autore – è grandemente debitore a scrittori come Jacques Maritain,
Emmanuel Mounier, Denis de Rougemont per il loro sforzo di portare al
centro dell’attenzione politica i rapporti fra la Persona e le comunità
differenziate in cui si esprime la società umana».
Il libro risulta frutto di uno sforzo sistematico che, oltre a realizzare
un’accurata indagine di diritto pubblico comparato, si richiama, in termini
espliciti o impliciti, ai contributi di un amplissimo ventaglio di sociologi e
riformatori, di filosofi e giuristi, di storici del diritto e di critici della politica.
Olivetti dà consistenza all’impianto teorico del proprio lavoro grazie ad
assidue riflessioni su opere ed esperienze complesse e spesso molto lontane
tra loro, quali la pianificazione sovietica e l’intervento in aree arretrate
operato dall’amministrazione Roosevelt mediante l’esperienza della
Tennessee Valley Authority, la costituzione della Repubblica di Weimar e La
nuova economia di Walther Rathenau, il federalismo svizzero e quello
americano: e, criticamente valutate dall’autore, tutte tali opere ed esperienze
concorrono ad arricchire con suggerimenti e possibilità di verifica un nucleo
originale che è compiutamente olivettiano.
L’ordine politico delle comunità non è pertanto l’opera eclettica di un
geniale dilettante, ma una costruzione ‘totalizzante’, tesa a dare precisa
fisionomia a uno Stato di tipo nuovo in cui sia possibile ricomporre l’unità
dell’uomo, produttore e cittadino. Alla base e al centro della sua costruzione,
Olivetti pone la Comunità, come superamento dell’individuo liberale e dello
Stato collettivista; ma aggiunge l’aggettivo «concreta» poiché nello spazio
territoriale, sociale, istituzionale della Comunità hanno sede insieme l’unità
economica, quella amministrativa e quella politica.
Di dimensione ottimale compresa tra i 75 e i 150mila abitanti, la «Comunità
concreta» si raggruppa attorno a una grande unità produttiva o a una serie
di unità produttive minori. La Comunità è più del Comune e meno della
Provincia. Fondata «su di un presupposto di carattere sociale e sulla
concezione di una ‘misura umana’», la Comunità è un’unità amministrativa
intermedia tra Regione e Comune, «assai simile al Cantone svizzero, la cui
vitalità ed efficienza sono accertabili». Nell’autogoverno che la
contraddistingue ed entro una cornice di federalismo integrale, la Comunità
sostituisce e annulla il governo dei prefetti.
La grande città è il caos, è il disordine urbanistico, è il luogo delle
diseguaglianze sociali più stridenti. Essa va dunque suddivisa in una serie di
Comunità, cioè in sezioni destinate a inglobare zone industriali e zone
agricole: un’operazione che «implica un vasto, progressivo rivolgimento
urbanistico». Esistono Comunità di tipo diverso: amministrative, industriali,
agricole, miste. A ogni Comunità spettano specifici compiti: un’integrazione
tra città e campagna; politiche sociali di istruzione e assistenza;
un’economia di intervento nell’azionariato e nella dirigenza delle aziende.
Tali compiti vanno assolti in maniera diretta, attiva e trasformatrice.
La Comunità si pone come «diaframma indispensabile fra l’individuo e lo
Stato». La ricomposizione [all’interno della Stato comunitario], che è «di
natura federalista», palesa superiorità in virtù della «elevata efficienza che
viene [a ogni Comunità] dalla competenza territoriale ridotta […] e dalla
grande facilità con la quale i cittadini possono entrare in contatto con i suoi
organi e controllarli». La regione, anzi lo Stato regionale sarà formato, per
esempio il Piemonte, al massimo da 35 Comunità (la Toscana da 30);
l’Italia, a sua volta, sarà scomposta in 400-500 Comunità e, a partire da
esse, ricomposta su base federale. Dalle Comunità si passa, salendo, agli
Stati regionali, che avranno da tre a cinque milioni di abitanti, il che
significa che le regioni di dimensioni minori andranno raggruppate. Dagli
Stati regionali si passa allo Stato federale e poi, come ulteriore scalino, allo
Stato mondiale: con un’attenuazione delle funzioni a mano a mano che dalla
base si sale al vertice della piramide, in modo tale che la Comunità rimanga
il luogo e il momento privilegiato dell’autogoverno e i gradini superiori si
limitino ad assicurare il coordinamento al livello regionale, o il quadro
generale al livello dello Stato.
La costruzione istituzionale proposta da L’ordine politico delle comunità si
fonda su un ulteriore pilastro, che è costituito dagli «ordini politici» che
danno il nome allo stesso libro e che corrispondono a un’idea di politica
proiettata verso il progetto, radicata nei valori, fatta da uomini di visione. Si
tratta di organismi che fanno riferimento a sette funzioni politiche essenziali:
affari generali o amministrazione, giustizia, lavoro, cultura, assistenza,
urbanistica, economia, funzioni presenti già a partire dalle unità minori e
periferiche, cioè dalle Comunità, e che daranno vita ad altrettanti ordini
nazionali.
Per certi versi, gli ordini politici sono simili agli ordini professionali, ma ne
differiscono in quanto un membro di questi ultimi vi appartiene per una
durata pari a quella della sua vita lavorativa. Per contro, il membro di un
ordine politico ne fa parte solo fino a quando egli eserciti la funzione e sia
investito della responsabilità politica che è la ragione stessa della sua
appartenenza. Il Senato sarà formato da rappresentanti degli ordini, e il suo
compito sarà quello di dare corso alla legislazione in settori specializzati,
mentre la Camera sarà espressione delle Comunità concrete. In tal modo la
proposta olivettiana, con l’istituire un legame tra il principio territoriale e il
principio funzionale, getta le basi di quella «democrazia organica e
funzionale» nella quale si mediano i tradizionali meccanismi del consenso
popolare indifferenziato (come il suffragio universale) con sistemi di
rappresentanza funzionale, che hanno lo scopo di assicurare l’intervento
nella politica di specifiche competenze, nate dalle attività produttive e dalla
cultura.
Il tema della conciliazione della libertà politica con la competenza propria
della classe al potere viene articolato da Olivetti nella descrizione minuziosa
di un sistema misto di rappresentanza, che combina le elezioni a suffragio
universale con quelle di secondo grado, accanto alle cooptazioni e anche alle
nomine per concorso a titoli. Olivetti precisa che «contrariamente a ogni
sistema tecnocratico o corporativo, solo i criteri politici stabiliranno la
competenza specifica per ogni funzione che abbia un significato generale
umano e non costituisca una semplice specializzazione di carattere tecnico o
di certificazione professionale».
Nella Comunità concreta, i rappresentanti sono eletti in parte con liste
politiche generali, in parte con liste sindacali, in parte sono esponenti del
mondo culturale e della pubblica amministrazione. L’elezione del Presidente
della Comunità è intesa a «salvaguardare il principio democratico»;
viceversa le altre cariche politiche e amministrative derivano, anche al
livello di Comunità concreta, da riconoscimenti di rappresentatività e
competenze, ossia per designazione o per concorso, «con severe procedure».
La sovranità popolare, insomma, convive per un versante con la democrazia
del lavoro (soltanto i lavoratori votano per alcune funzioni) e, sul versante
opposto, con il principio aristocratico che vale soprattutto per le espressioni
politiche della cultura e della scienza. Aristocrazia nell’aristocrazia sono gli
urbanisti, ai quali viene affidata l’organizzazione e la redazione dei piani
comunitari. Attraverso un dettagliato e complicato sistema di elezioni,
pertanto, emergono dal basso le varie «magistrature nazionali», le cui
funzioni sono, a un tempo, deliberative ed esecutive. L’ordine politico delle
Comunità recupera insomma e rivaluta in modo del tutto originale il
decentramento e il federalismo, intesi non già secondo la concezione
tradizionale di decentramento puramente territoriale e di federalismo
regionale, ma come decentramento organico, caratterizzato da
un’articolazione di organismi capaci di generare un continuo afflusso di
linfa politica dalle unità minori e periferiche – cioè dalle Comunità concrete
– alle unità maggiori e onnicomprensive: unità maggiori che trovano in
quelle minori la loro legittimazione e i loro stessi «magistrati», attraverso
una sorta di costruzione piramidale che parte e cresce dal basso, a
cominciare dalla base stessa della piramide.
Nel ridisegnare le istituzioni della democrazia, Olivetti non può ovviamente
trascurare il tema della democrazia in ambito economico. Il punto di
riferimento costante è la fabbrica, che deve diventare «il luogo di lavoro ove
alberga la giustizia, ove domina il progresso, ove si fa luce la bellezza».
«Socializzare senza statizzare» è il fine dichiarato ed è anche il metodo per
superare il dilemma tra proprietà individuale e proprietà nazionalizzata dei
mezzi di produzione. Nella nuova struttura economica comunitaria, destinata
a far sopravvivere e a far coesistere forme di proprietà individuale con forme
cooperativistiche, le industrie più importanti e le proprietà terriere di
maggiori dimensioni vanno trasformate in enti di diritto pubblico. Lo
strumento sono le Industrie Sociali Autonome (ISA), dove lavoratori (operai
e tecnici), Comunità, università partecipano insieme alla proprietà e alla
gestione, secondo uno schema che differenzia profondamente l’impresa
comunitaria sia dall’impresa ‘pubblica’ degli Stati a economia di mercato,
sia dall’impresa ‘collettiva’ degli Stati a economia di piano. In agricoltura,
l’analogo delle ISA sono le Associazioni Agricole Autonome (AAA), anche se
si prevedono forme intermedie come le cooperative fra piccoli proprietari.
Attraverso il riconoscimento del principio che il potere di dirigere il lavoro
altrui deve dipendere dal merito e dal possesso di acclarate competenze
tecniche, la soluzione comunitaria mira a fornire alle imprese la garanzia di
una direzione al livello del crescente impegno produttivo richiesto da
un’economia in costante evoluzione organizzativa e tecnologica.
XIX

La libertà. La libertà, che non è arbitrio, implica l’esistenza di leggi


che reprimano le offese dell’uomo alla società e della società
all’uomo e la soluzione della «crisi della libertà» consiste appunto
nello scoprire i nuovi vincoli giuridici che la nuova struttura della
società ha reso indispensabili.
Stabiliti questi vincoli – e l’atmosfera rivoluzionaria conseguente
alla tragedia della guerra ne faciliterà l’accettazione – la personalità
umana sarà finalmente libera di manifestarsi entro l’ambito di una
collettività che restituisca interamente all’uomo il diritto di
esprimere la propria opinione, qualunque essa sia e con qualunque
mezzo.
Libertà significa scelta di iniziative economiche, di carriera, di
professione, diritto di trasferire la sede della propria attività senza
incontrare limiti ingiusti, non fondati sul generale interesse e
consenso.
Libertà significa ampia possibilità di raffronto di particolari
risultati culturali, tecnici, economici, con quelli altrove ottenuti. Il
liberalismo economico arriva a un tale risultato grazie al metodo
della concorrenza. La nuova società non manterrà tale metodo in
modo esclusivo e non gli riconoscerà il merito di essere il solo che
possa garantire il progresso culturale e tecnico, ma accetterà anche
altri sistemi che raggiungano lo stesso scopo con minori sacrifici da
parte dell’uomo.
Libertà, infine, è un atteggiamento dello spirito che intuisce e
accoglie sino in fondo ogni imprevedibile esigenza umana.
In mezzo, tra il «non giudicate» del Vangelo e l’amore della verità,
vive la Libertà.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p. 4.
XX

L’idea di una Comunità concreta. L’idea fondamentale della nuova società è


di creare un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che svolgono
la loro vita sociale ed economica in un conveniente spazio geografico
determinato dalla natura o dalla storia.
La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che
nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano
fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato di una determinata zona ove gli
uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e
priva di elementi di solidarietà.
Le Comunità, creando un superiore interesse concreto, tendono a comporre
detti conflitti e ad affratellare gli uomini.
(…)
Il territorio di una Comunità coinciderà normalmente con una unità
geografica tradizionale che potrà essere il Circondario, la Diocesi, il
Distretto, il Collegio elettorale. A esso saranno apportate gradualmente le
correzioni necessarie a creare unità che abbiano nella natura il loro
fondamento e nell’uomo i loro limiti.
(…)
La «misura umana» di una Comunità è definita dalla limitata possibilità che
è a disposizione di ogni persona per dei contatti sociali.
(…)
Gli eletti di una Comunità non potranno certo conoscere personalmente i
centomila componenti della Comunità stessa. Viceversa costoro conoscono
assai bene le vicende private di quelli, i tratti del loro carattere, la loro
competenza generale o specifica. A sua volta l’eletto potrà trattare in seno
alla Comunità analiticamente e mediante contatti e sopralluoghi diretti tutti i
casi importanti o che eccedono l’ordinaria amministrazione relativi alla
propria competenza e alla propria responsabilità.
Tutti i problemi, in una Comunità, entrano in limiti semplici e facilmente
controllabili: il raggiungere un campo sperimentale, un reparto autonomo di
una officina, una clinica per fanciulli, un cantiere edile, uno studio d’architetti
o di un pittore, è possibile usando mezzi umani o naturali.
La Comunità sarà il dominio dell’uomo, la Regione è controllabile soltanto
col mezzo di un autoveicolo, lo Stato col mezzo di un aereo o di una ferrovia.
Unica, completamente umana, è solamente la Comunità.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 11-12.
XXI

Persona e Comunità. Conviene ricordare che la Persona nasce da una


vocazione, dalla consapevolezza cioè del compito che ogni uomo ha nella
società terrena, e che come tale essa si traduce in un arricchimento dei valori
morali dell’individuo. In virtù di ciò, la Persona ha profondo il senso, e
quindi il rispetto, sostanzialmente e intimamente cristiani, della dignità altrui,
sente profondamente i legami che l’uniscono alla Comunità cui appartiene, ha
vivissima la coscienza di un dovere sociale; essa in sostanza possiede un
principio interiore spirituale che crea e sostiene la sua vocazione
indirizzandola verso un fine superiore.
L’individuo riposa sugli elementi materiali e dalla materia è individualizzato
e limitato. Esso quindi si muove secondo la risultante di un puro urto di forze
in un piano in cui le leggi spirituali non spiegano la loro invisibile potenza.
Se il mondo che nasce vuole evitare nuove catastrofi e volgere verso mete
superiori, occorre creare una società in cui la Persona abbia la possibilità
immediata di esplicare la propria umanità e spiritualità.
È solo in una Comunità né troppo grande né troppo piccola che una concreta
solidarietà può esplicarsi.
La società individualista, egoista, che riteneva che il progresso economico e
sociale fosse l’esclusiva conseguenza di spaventosi conflitti di interessi e di
una continua sopraffazione dei forti sui deboli, la società polverizzata in
atomi elementari o spietatamente accentrata nello Stato totalitario, è distrutta.
Sulle sue rovine nasce una società umana, solidarista, personalista: quella di
una Comunità concreta.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p.19.
XXII

La Comunità è la cellula base dello Stato federale. Lo Stato prenderà il


nome di Stato federale delle Comunità.
L’aggettivo «federale» è stato prescelto perché a esso corrisponderà un
sistema di decentramento e autonomia, fondato sulla Regione e sulla
Comunità.
Il nucleo fondamentale dello Stato, la Comunità, informa delle sue
caratteristiche tutta la nuova vita politica. Perciò si parla di Stato federale
delle Comunità e non di Federazione di Stati regionali, come apparentemente
consiglierebbe l’importanza legislativa che, vedremo, sarà affidata a questi
ultimi.
Lo Stato federale delle Comunità accetterà con piena e assoluta parità di
diritti politici e sociali quelle persone nate in quegli Stati che avranno
accettato e integralmente applicato un analogo sistema politico sociale, e ciò
indipendentemente dalla razza o religione cui appartengono i popoli di detti
Stati, purché l’ordinamento giuridico dello Stato di provenienza abbia come
fondamento i diritti e la dignità della persona umana.
La cittadinanza potrà essere conferita a tutti gli stranieri, senza distinzione
dello Stato da cui provengono, in virtù di una decisione di quella Comunità
ove, per un determinato periodo, lo straniero avrà stabilito la sua residenza.
Gli elementi di decisione saranno esclusivamente quelli morali.
Un controllo su tali decisioni sarà esercitato dalla Stato regionale. In questa
materia, l’interessato o l’autorità regionale potranno fare appello all’autorità
federale che è competente – come quella regionale – a conferire la nazionalità
motu proprio.
La nomina, da parte di un istituto qualificato universitario, di uno straniero a
titolare di una cattedra conferisce automaticamente la cittadinanza.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p. 20.
XXIII

La legge superiore della Comunità è illuminata dal Vangelo. La legge


superiore della Comunità è illuminata dal Vangelo. Per esso non solo non vi
saranno discriminazioni di razza o nazionalità, ma ogni atto della Comunità
dovrà informarsi, in caso di dubbio, a tale legge morale superiore.
Poiché essa può essere accettata da cattolici e non cattolici, da credenti e da
non credenti, i figli della Comunità cresceranno nella conoscenza che i beni
superiori dell’umanità sono la verità e l’amore. L’idea della libertà dell’uomo
ne sarà una mera conseguenza.
Senza una rinnovata educazione morale fondata sul Vangelo, ogni
rivolgimento politico sarà insufficiente e le cause profonde della catastrofe
mondiale, la propaganda di odio, le divisioni, non si spegneranno.
Né si tema dal nuovo spirito della Comunità un umanitarismo inconsistente o
compreso di debolezze, ché niente è più forte e violento, nei giusti, che il
risentimento contro l’ingiustizia.
Nulla sarà più semplice che individuare e condannare nella vita della
Comunità, così umana che tutto vi è visibile e individuabile, un falso
cristianesimo che si estinguesse in un omaggio formale e ipocrita: l’opera e il
carattere degli uomini saranno concretamente giudicati.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 21-22.
XXIV

Una società pluralistica e libera. Nella società delle Comunità è pienamente


osservato il principio pluralistico delle umane attività: si considerano
autonome e indipendenti sia le attività individuali, sia quelle collettive: così la
Scienza dovrà progredire attraverso l’opera di università libere, l’Arte vi è
parimenti indipendente, le organizzazioni economiche si costituiscono in
complessi autonomi aventi statuto giuridico differenziato, i sindacati sono
organizzati dal basso fuori da qualsiasi intervento o influenza statale, e via
dicendo.
Ma nelle Comunità, le manifestazioni di queste attività, nella misura in cui
acquistano un preciso significato sociale, tendono a integrarsi in una unità
sottoposta ad armonici vincoli giuridici.
Il complesso di vincoli giuridici, aderente com’è alla vita dell’uomo,
consente la realizzazione di un’armonia propria e particolare a ogni
Comunità.
Così mentre i canoni dell’indipendenza e del disinteresse presiederanno allo
svolgersi dell’attività scientifica degli istituti universitari, questi ultimi
saranno parallelamente posti al servizio delle esigenze tecniche della vita
economica. I pittori potranno, senza disciplina di sorta, dipingere e vendere i
quadri che vogliono, ma la scelta di un affresco per un edificio pubblico non
può essere lasciata alle decisioni di una giunta politica, ma viene affidata a un
corpo di specialisti. Il possesso di una casa privata sarà incoraggiato, ma il
suo aspetto dovrà armonizzare con una certa tradizione artistica,
dinamicamente evolutiva, ma caratteristica del luogo, e la sua ubicazione sarà
altresì subordinata alle esigenze della collettività. Nuove iniziative
economiche sorgeranno, ma il loro regime sarà sottoposto a vincoli più o
meno rigidi di natura sociale.
Tale, in brevi accenni, appare il duplice aspetto di ogni attività umana, che è
caratterizzato da un suo proprio sdoppiamento: da una parte esso si risolve in
una manifestazione interamente libera e dall’altra in una manifestazione
radicata nell’organismo sociale.
Solo a queste condizioni una società pluralistica e libera è creatrice di
un’autentica civiltà, elimina il disordine, le sperequazioni, la rottura tra il
sociale e l’economico, tra il bello e l’utile, tra il giusto e l’umano.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 29-30.
XXV

Una nuova democrazia. La nuova società farà suo quel che d’eterno vi è
nell’ideale democratico: la fondamentale eguaglianza di tutti gli uomini come
essenze spirituali, cioè come persone, e quindi, sul piano politico, l’eguale
diritto di tutti gli uomini a partecipare al governo della cosa pubblica.
(…)
Nessun dogma quindi d’infallibilità di maggioranze informi e indifferenziate
che escono appena dalle tenebre in cui sono state tenute da un ordine
ingiusto, ma: 1) creazione di una pluralità di sfere di interessi vivi entro le
quali la volontà della maggioranza si determini con minori possibilità di
errore e con più grande libertà; 2) creazione di un sistema articolato di
elezioni dirette e indirette rispettoso di quei due essenziali fattori che sono la
provata competenza specifica dell’eletto e la provata sua preparazione morale
e culturale. Solo così la società, liberata da qualsiasi privilegio di casta o di
censo, avrà istituzioni adeguate alla complessità della sua odierna struttura
differenziata e il principio dell’eguaglianza di tutti gli uomini innanzi a Dio
troverà la sua applicazione terrena nella partecipazione, commisurata alle loro
insopprimibili differenze morali e intellettuali, di tutti gli uomini alla cosa
pubblica.
Il principio dell’eguaglianza di tutti gli uomini, in quanto membri di
quell’entità concreta che è la Comunità, avrà il suo più chiaro riconoscimento
e la sua applicazione più larga nella disposizione secondo cui il presidente
della Comunità sarà eletto a suffragio universale e con procedimento
democratico diretto.
Il nuovo ordinamento giuridico sarà inteso a conseguire un equilibrio
politico e, di riflesso, un equilibrio sociale che, solo affidato al principio
democratico dell’elezionismo, non potrebbe assurgere a quell’«optimum» che
è soltanto di una società in cui ognuno, come personalità umana, raggiunge
nel tempo più opportuno quella posizione, quell’autorità, quegli incarichi che
solo il suo orientamento spirituale e le sue attitudini specifiche, in una parola
la sua vocazione, gli assegnerebbero.
Il metodo democratico, come procedimento elettivo dal basso verso l’alto,
rimane l’elemento insostituibile e preponderante degli svolgimenti superiori
della vita politica.
Nelle democrazie ordinarie è generalmente riconosciuta la necessità di tener
conto dell’esperienza. Ma un tale riconoscimento è affidato a principi
conservatori puri (l’età, la rappresentanza indiretta, la maggiore durata dei
mandati, le designazioni per chiamata) affidati a Senati che nulla hanno di
seriamente democratico.
Lo Stato federale delle Comunità riconoscerà la necessità di alcuni di tali
mezzi, ma considera essenziale associare esperienza a valore.
Se contenuta dalla considerazione dell’esperienza e illuminata dalla
considerazione dei valori personali, la democrazia è il solo mezzo atto ad
assicurare questa circolazione delle élites, quel ricambio equilibrato ed
incessante che è condizione di libertà e vitalità di uno Stato.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 41-42.
XXVI

La cultura come elemento spirituale integrativo. La cultura, nel suo


autentico significato di ricerca disinteressata di verità e di bellezza, sarà
l’elemento caratteristico della nuova società e a tale fine le istituzioni
sanzioneranno concretamente l’esigenza culturale.
(…)
La cultura, accanto all’ideale democratico e alle forze del lavoro, costituirà
un terzo fattore di equilibrio politico nel nuovo Stato, capace di determinare
uno stato di cose generale sensibilissimo alle esigenze spirituali e a quelle
aspirazioni superiori senza le quali la libertà stessa dell’uomo, che è
affermazione di un’intima vocazione, non potrebbe pienamente esprimersi.
(…)
Nell’ordinamento che verrà proposto, risulteranno evidenti le cautele
affinché la cultura, nella sua manifestazione politica, non sia tradita, come fu
nel passato, da atteggiamenti spirituali deformi, retrivi o servili.
Questi sono intimamente legati alla personalità morale dei suoi esponenti. Il
giudizio democratico, sempre presente nella formazione del nuovo Stato, è
l’unico mezzo consentito alla società per giudicare il valore morale di coloro
ai quali vengono affidate responsabilità politiche.
La Comunità è l’ambiente adatto alla formazione di un tale giudizio, perché
nessuno vi può condurre vita corrotta, né operare con bassezza senza che la
pubblica opinione venga, tosto o tardi, ad averne esattissima informazione, e
non ci può essere nessuno che accompagnando a grande sapere magnanimità
di sentimenti non venga debitamente apprezzato.
Invece il livello delle conoscenze teoriche può soltanto essere accertato
obiettivamente grazie a una procedura affidata alle tradizioni scientifiche
delle università o di altri istituti scientifici superiori.
Il riconoscimento del fattore «cultura» nella struttura politica, nella sua
funzione complessa, integrativa, assumerà manifestazioni prudenti, molteplici
(esperienza preliminare, successivi controlli democratici, speciali titoli di
studio per l’esercizio di determinate funzioni politiche, ecc.).
(…)
Non si confonda la manifestazione scientifica e artistica, autonoma, libera,
individuale, con le attività relative a quella particolare struttura organizzata
della società che si chiama Stato, costituito per necessità di cose in funzioni
politiche. Queste, poiché in definitiva hanno influenza diretta e indiretta sulle
attività libere dell’uomo, debbono soggiacere a vincoli e accertamenti di cui
le prime non necessitano affatto.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 44-46.
XXVII

Dello Stato regionale. Il nuovo Stato che – come vedremo a proposito della
formazione e dell’ordinamento degli organi politici superiori – avrà una
struttura costituzionale estremamente solida, potrà finalmente contemperare i
principi dell’unità statale con quelli del decentramento e dell’autonomia
regionale.
Definita la Comunità come nucleo fondamentale del nuovo Stato, si
stabilisce un collegamento e coordinamento politico e amministrativo fra le
Comunità e lo Stato federale nell’entità storica italiana: la Regione (o gruppi
di regioni là dove ciascuna di esse formerebbe unità di insufficiente
ampiezza).
Il decentramento sarà realizzato con la creazione di organi capaci di
assumere molteplici funzioni dello Stato unitario, e che pertanto potranno
legiferare nei limiti che saranno definiti dalla nuova Carta costituzionale
fondamentale.
I necessari rapporti tra Stati regionali e Stato federale, un opportuno
equilibrio tra autonomia e decentramento, tra decentramento autarchico e
decentramento burocratico, saranno considerati nella loro delicatezza e nella
loro importanza.
Gli Stati regionali saranno determinati, nella grande maggioranza, secondo
criteri storici o economico-geografici e in guisa da costituire unità da tre a
cinque milioni di abitanti circa.
La circoscrizione regionale sarà determinata da coefficienti economici,
tradizionali in parte, da possibilità di comunicazioni e da situazioni di
interdipendenza o complementarità economica.
In Europa infatti hanno dimostrato grande efficienza e sviluppo civile Stati di
un tale ordine demografico di grandezza (Svizzera, Danimarca, Svezia,
Norvegia, Finlandia). Una divisione diversa e più frazionata
comprometterebbe seriamente la riforma dal punto di vista dell’efficienza del
sistema politico-amministrativo proposto e altresì altererebbe l’equilibrio
politico generale del paese.
Lo Stato federale non rinuncerà tuttavia alla sua missione nazionale e
assisterà – almeno temporaneamente – le Regioni più deboli economicamente
o d’arretrato sviluppo, in qualsiasi direzione tale ritardo siasi manifestato.
L’Ufficio federale dei piani, il cui lavoro di coordinamento in un senso
unitario procederà sino a quando le Regioni non saranno capaci di
indipendenza economica, sarà l’adeguato strumento di una tale necessaria
funzione.
Lo Stato regionale, che implica l’abolizione dell’unità amministrativa
provinciale, ha una prima funzione di decentramento autarchico
dell’amministrazione unitaria dello Stato, onde i suoi normali organi saranno
riuniti nel capoluogo dello Stato regionale.
Assumeranno quindi forma unitaria accentrata nella Regione tutti quegli
uffici che attualmente sono disseminati in province, circoli territoriali,
circoscrizioni finanziarie, ispettorati, non sempre organici e completi per ogni
entità amministrativa che ora culmina nella Provincia (Corte d’appello,
Intendenza di Finanza, Delegazioni del Tesoro, ecc.).
La questione della denominazione delle nuove unità costituenti lo Stato
federale può essere risolta nel senso di attribuire al nome stesso di Regione il
significato di quel particolare regime di autonomia e decentramento che
avrebbe luogo nei suoi confini geografici.
Si avrebbe pertanto una Regione piemontese, una Regione siciliana, una
Regione ligure e via dicendo.
Più consono alla tradizione italiana e a somiglianza degli Stati federali
storicamente più importanti, appare il proposito di conferire senz’altro
l’attributo di Stato ai nuovi organismi regionali, anche perché non sarà sicuro
che essi coincidano in tutti i casi con le tradizionali sedici regioni.
Ricordiamo che gli enti politici e amministrativi costituenti il relativo Stato
federale hanno preso o conservato il nome di: Stati, negli Stati Uniti del Nord
America e del Brasile; Stati, nelle Repubbliche sovietiche socialiste
autonome costituenti l’URSS; Stati nelle Repubbliche cantonali svizzere;
Stati provinciali, nella Monarchia federalista olandese.
Poiché gli Stati furono in Italia una realtà storica, nulla si oppone a che le
nuove unità riprendano l’antica denominazione, per ricordare altresì che la
nuova Costituzione federale non è una lustra, ma intende assegnare alle
Regioni una reale sovranità.
Avremo così lo Stato sardo, lo Stato piemontese, lo Stato siciliano, lo Stato
della Toscana, ecc.
Nell’Italia settentrionale appare la divisione tradizionale o storica delle
Regioni come elemento fondamentale per procedere a una divisione dello
Stato unitario.
Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana sembrano senz’altro
costituibili in Stati regionali senza tema di difficoltà o incertezze circa i limiti
territoriali delle nuove unità.
A eccezione delle isole non sembra, invece, che esistano nell’Italia centrale e
meridionale, ove la storia non può essere guida sufficiente e la geografia vi è
complicatissima, linee di demarcazione così definite e così facilmente
accettabili. Giova pertanto esporre brevemente quali potrebbero essere i
criteri informatori di una divisione razionale, poiché i criteri storici o
tradizionali rispondono in parte a situazioni politiche esaurite. (Lo Stato
borbonico o il Dominio temporale dei Papi non possono avere oggi alcuna
attualità; del resto i territori storici sono stati determinati da guerre, da trattati
politici inerenti a guerre tra potenze straniere e da altri fattori che
indubbiamente nulla o pochissimo hanno a vedere con i problemi che si
presentano all’Italia di domani).
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 83-85.
XXVIII

La Regione come federazione autonoma di Comunità. Avendo definito la


Comunità come elemento fondamentale dell’autonomia politica, lo Stato
regionale assumerà il carattere di federazione di Comunità.
Coerentemente, l’Assemblea regionale sarà formata, come vedremo, dalla
riunione di due Consigli distinti, uno costituito dai rappresentanti diretti delle
Comunità e l’altro da rappresentanti l’intera Regione.
Una tale sistemazione costituzionale trova qualche riscontro nella
Confederazione svizzera, intesa come federazione di Cantoni. La Comunità
rappresenta una razionalizzazione del Cantone svizzero, il suo adattamento
alla tradizione italiana, un suo perfezionamento atto ad affrontare i complessi
compiti di una società moderna.
Razionalizzazione, in quanto il Cantone svizzero ha origini esclusivamente
storiche, le quali non tengono sempre conto delle esigenze dell’economia e
neppure di una logica divisione amministrativa.
È quanto ritennero avvedutamente gli uomini politici del Risorgimento
quando si opposero al federalismo al momento della costituzione del Regno.
In base alla soluzione storica, gli Stati federati avrebbero corrisposto alle
divisioni politiche e amministrative di quel tempo, soluzione che oggi
nessuno accetterebbe, come allora non fu accettata.
L’unificazione amministrativa cui ha provveduto lo Stato nazionale dal 1860
a oggi ci permette ora di scegliere soluzioni di gran lunga migliori.
L’adattamento alla situazione italiana si rileva considerando che la
Comunità, pure avendo l’ampiezza media di un Cantone, deve coincidere,
nella massima parte dei casi, con unità tradizionali che sono state indicate
nella diocesi, nel collegio elettorale, nelle circoscrizioni distrettuali, nei
circondari, dando luogo a unità che presentano una notevole uniformità
dimensionale.
L’errore di prospettiva di assimilare la Regione italiana al Cantone svizzero
potrebbe portare alla nuova Costituzione italiana nocumento e confusione
pericolosa.
L’ordinamento di una nazione di quarantacinque milioni di abitanti implica
problemi che sono risolvibili mediante una duplice delegazione di
responsabilità, esigenza che in un Paese di minor popolazione e di minor
territorio è appena sentita. Giova, a questo riguardo, ricordare che non
mancano nemmeno in Svizzera proposte concrete intese a raggruppare i
Cantoni, in vista di particolari funzioni, in dipartimenti regionali intermedi
ove troverebbero sede razionale uffici di pianificazione urbanistico-
economica.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 89-90.
XXIX

Debolezza dei criteri etnici. Allo scopo di costituire uno Stato regionale, il
criterio etnico o dialettale appare, da solo, insufficiente: basti pensare alla
Confederazione svizzera (le cui dimensioni sono assai più vicine alla Regione
che non allo Stato italiano, popolazione 4.256.000, superficie km2 41.294,5),
e al valore positivo che ha avuto nello Stato unitario italiano lo scambio di
gruppi di abitanti (famiglie di funzionari dello Stato) aventi caratteristiche,
abitudini e attitudini molto differenti; talché l’unità etnica appare più un
difetto che un vantaggio del regionalismo.
Là dove coincide con altri criteri fondamentali, una tale unità può e deve
essere accettata, ma, dopo avere condotto una guerra contro l’idea di una
superiorità razziale, introdurre il criterio esclusivo di dialetto o di stirpe
nell’ambito della nazione italiana appare ridicolo e pericoloso.
Le limitazioni che appaiono frequentemente in questo scritto circa condizioni
di residenza non sono intese a conservare un privilegio di nascita o a
introdurre un esclusivismo regionale, ma sono conseguenza della
fondamentale e democratica necessità per gli elettori di conoscere a fondo gli
uomini cui sono devolute funzioni politiche.
Nella nuova struttura regionale, le norme che regolano i mutamenti di
residenza e l’acquisto dei diritti relativi non differiranno sostanzialmente da
quelle in vigore nello Stato unitario.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p. 90.
XXX

L’urbanistica come funzione politica. L’edilizia è un’attività così varia che a


volerla classificare in una sola categoria, e includerla in una sola funzione,
molto male ne deriverebbe.
Le costruzioni sono come le cellule strutturali dell’organismo sociale e
pertanto, come le cellule, pertinenti in modo differenziato a tutte le funzioni.
Vi è un’edilizia privata soggetta alle norme dei piani regolatori delle
Comunità, un’edilizia pubblica che riguarda la costruzione degli uffici delle
amministrazioni statali, un’edilizia sociale che si occupa delle case dei
lavoratori, un’edilizia assistenziale che riguarda cliniche, ospedali,
orfanotrofi, asili, ricoveri; un’edilizia scolastica e culturale che vorrà asili
all’aperto, scuole modello, biblioteche pubbliche; un’edilizia penitenziaria
che dovrà fare moderne case di pena, colonie agricole e altre tristezze
perfettibili della società imperfetta, e via dicendo.
L’esperienza italiana tendeva ad accentrare tutte queste attività nel grande
Ministero dei lavori pubblici. Questo caso ci serve, nella sua evidenza, a
distinguere ancora specializzazione da funzionalizzazione.
Infatti il Ministero dei lavori pubblici deve considerarsi, da un punto di vista
teorico, un organo specializzato e non funzionale. Un ordinamento che
conservi a esso il carattere di funzione autonoma, lasciandogli i più estesi
poteri per la creazione di un’edilizia che serva i fini più disparati, non può
che portare a risultati paragonabili agli sviluppi deformi e ipertrofici di
cellule che si sottraggono al controllo dei centri nervosi.
Perché un organo specializzato diventi organo politico funzionale, occorre
contenga innanzitutto un caratteristico attributo spirituale. Questo potrà
essere rivendicato non già dai Lavori pubblici, ma dall’Urbanistica la quale è
architettura (estetica utilitaria) al servizio di fini sopra-individuali e perciò
etici. A essa competerà dare determinate direttive ed esercitare un controllo
sulle iniziative che servono gli scopi particolari di altre funzioni.
Accenneremo infine alla diffusa tendenza generale a distinguere tra
pianificazione economica e pianificazione urbanistica. Questa divisione va
respinta come un ostacolo alla creazione di una vera civiltà che, ripetiamo, è
armonia tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e abitazione, tra centri di
consumo e centri di produzione, tra abitazioni e centri ricreativi, culturali,
ospedalieri, assistenziali, educativi.
Solo l’urbanistica, che si è costituita in dottrina avente una tradizione
scientifica di studi ed esperienze, può dare forma a un piano economico.
Perciò l’Ufficio federale dei piani, pur essendo da considerarsi, sotto certi
riguardi, un organo di coordinamento interministeriale, deve avere sede
presso il Dicastero dell’Urbanistica.
Non accentramento ma decentramento, non avocazione di tutte le costruzioni
ma controllo indiretto, non imposizione ma limiti: l’argomento è complesso e
deve fare parte di uno studio apposito.
Anticipando qualche conclusione, diremo che la soluzione corretta del
problema esige una quadruplice condizione: a) autonomia regionale nel
campo delle costruzioni e della legislazione urbanistica spinta sino ai limiti
compatibili con l’unità federale; b) decisioni di carattere generale, riguardanti
anche i costi – nei limiti finanziari del proprio bilancio –, attribuite a ciascuna
funzione interessata; c) coordinamento delle decisioni adottate in piani
federali, regionali e delle Comunità; d) piano esecutivo stabilito sempre dalla
Comunità ove ha luogo la costruzione.
È come un sistema di lenti e il suo unico fuoco. Da tutti i punti delle lenti
partono raggi, ma nel fuoco sono tutti riuniti. Solo in questo modo le
premesse ideologiche delle Comunità, che sono armonica sintesi spirituale e
manifestazione libera e individualizzata, potranno realizzarsi. Se così non
fosse predisposto, il mondo moderno con le sue case in serie, con le sue
costruzioni standardizzate, con piani studiati fino nei dettagli a grande
distanza dai luoghi ove saranno eseguiti, continuerà a opprimere
materialmente e spiritualmente la Persona.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 143-145.
XXXI

La separazione della capacità legislativa dalla capacità esecutiva. Una


prima indispensabile garanzia della separazione dei poteri sarà introdotta
dallo Stato federale delle Comunità inibendo ai membri del Parlamento – sino
a che dura il loro mandato – di entrare a far parte del Gabinetto. Questa
garanzia, come vedremo, non implica la creazione di compartimenti stagni,
ma è intesa ad assicurare che la necessaria circolazione di uomini tra
Parlamento e Governo avvenga ordinatamente e dopo una permanenza,
nell’uno o nell’altro organo, abbastanza prolungata per costituire una seria
esperienza e fornire una prova evidente di capacità. La separazione assoluta
dei poteri deve essere considerata altrettanto nefasta quanto la loro
confusione. Il regime parlamentare confonde nello stesso organo – il
Parlamento – funzioni legislative, funzioni di controllo sul governo e il potere
stesso di creare il governo. In un tale regime viene a mancare quel minimo di
rigidità che è garantito in altri regimi rappresentativi (Svizzera, Stati Uniti) da
un mandato esecutivo avente una durata fissa. Nelle forme degenerate del
regime parlamentare non si equilibra nemmeno il principio della
responsabilità ministeriale con rigorose norme riguardanti la dissoluzione del
Parlamento da parte dell’esecutivo o con clausole limitative quali le
maggioranze qualificate e il quorum di presenza.
Il sistema parlamentare inglese presuppone un regime di equilibrio tra
legislativo ed esecutivo e una certa indipendenza di quest’ultimo che gli
proviene specialmente dal diritto di sciogliere il Parlamento. Ma nessuna
delle costituzioni europee previde una norma giuridica che consacrasse la
consuetudine di capitale importanza, affermatasi in Inghilterra dal 1867 al
1931, secondo la quale la Camera dei Comuni non può dare vita a un nuovo
governo dopo un voto di sfiducia senza che esso sia confermato dall’intero
corpo elettorale. (In Inghilterra il potere che determina l’esistenza e la caduta
del Governo è infatti progressivamente passato dalla Corona ai Comuni e dai
Comuni al popolo).
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 229-230.
XXXII

Delle garanzie della libertà. La libertà deve trovare la sua garanzia in un


equilibrio di forze sociali e spirituali giuridicamente definito.
La democrazia parlamentare, non riconoscendo i grandi mutamenti che
hanno radicalmente trasformato durante gli ultimi cento anni la fisionomia
del corpo sociale – e di conseguenza le funzioni dello Stato – affida in gran
parte alla moralità e al costume politico la tutela della libertà. Una simile
tutela, nel quadro di un regime che postula la libertà anche a favore delle
forze che intendono distruggerla, è del tutto insufficiente. La democrazia
parlamentare ha quindi ben limitate possibilità di dar vita a un ordine stabile e
giusto e tende piuttosto a diventare un semplice ponte di passaggio verso
regimi che consacrano un nuovo assolutismo.
La libertà può e deve essere salvata e salvaguardata soltanto attraverso una
trasformazione istituzionale completa, la quale presuppone una visione
esattissima della natura delle istituzioni e una nozione non meno esatta dei
loro rapporti con la realtà del corpo sociale.
In queste istituzioni dovranno essere inserite, e spiegare tutta la loro potenza,
le forze spirituali.
Nello Stato federale delle Comunità il nuovo equilibrio politico sarà
rappresentato da quello che abbiamo definito come il nucleo originario del
Potere. Tale equilibrio viene perciò ad assumere una precisa forma giuridica.
Avevamo già detto come il problema centrale che deve essere risolto dalla
Costituzione fosse quello di estendere lo stesso equilibrio politico che
caratterizza il governo della Comunità a tutti gli organi fra i quali è diviso
l’esercizio dei tre poteri nello Stato federale. Potremmo quindi concludere:
a) La libertà è garantita quando si stabilisca giuridicamente un nuovo equilibrio tra le forze sociali e
spirituali che vivono in uno Stato moderno. Questo equilibrio, che abbiamo già analizzato nelle sue
tre componenti, è rappresentato nelle singole Comunità dal nucleo originario del Potere.

b) La formazione differenziata e indipendente di ciascuno degli organi tra i quali è diviso l’esercizio
dei tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, deve riflettere l’equilibrio politico rappresentato dal
nucleo originario del Potere.
La libertà non è dunque salvaguardata unicamente dalla separazione e
dall’equilibrio dei poteri, ma anche dall’immissione, entro ciascuno degli
organi costituzionali che tali poteri esercitano, delle diverse forze sociali e
spirituali che caratterizzano uno Stato moderno. Solo così il principio vitale
della libertà, che è coesistenza di forze, impregnerà come una linfa, in tutte le
sue ramificazioni, il grande albero dello Stato.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 255-256.
XXXIII

Del capo dello Stato. Il problema del capo dello Stato in una repubblica
democratica non ha sinora trovato soluzioni logiche e coerenti. Siamo ancora
troppo vicini ai tempi in cui l’autorità del re era incontestata e troppo
profondi sono i segni lasciati da una plurisecolare tradizione monarchica
perché sia stato possibile finora esaminare il problema con occhio scevro da
pregiudizi. Laddove uno Stato monarchico si è trasformato in repubblica, non
si è resistito quasi mai alla tendenza naturale di sostituire al re un altro capo
personale, il presidente della Repubblica. Ma le conseguenze di ordine
politico di una tale sostituzione sono assai gravi e raramente sono state
previste dalle costituenti repubblicane.
Nello Stato federale delle Comunità – come nell’Unione Sovietica – non vi
sarà una figura analoga a quella di un presidente di repubblica, ma il
presidente federale sarà il delegato di un collegio che partecipa solidalmente
all’esercizio della sovranità conferitagli dalla Costituzione.
Le ragioni di questa soluzione sono ben note a tutti i teorici del diritto
costituzionale; se tra i politici ciò è ancora oggetto di controversia, si deve
vedere in questo uno dei tanti sfasamenti tra pensiero scientifico e attività
politica.
a) L’accentramento in una sola persona, anziché in un organo collegiale, della suprema potestà dello
Stato trova una sua prima opposizione nel principio di libertà cui si ispira la teoria della separazione
dei poteri. Infatti l’idea che un capo di Stato personale, elettivo e dotato di vasti poteri possa essere,
come un re, al di sopra dei partiti e dei poteri, è un’illusione che la realtà si incarica di smentire fin
troppo presto. Un capo dello Stato personale tende fatalmente a diventare l’espressione di
un’assemblea, di un partito o di determinate forze politiche e sociali. Se, come nelle repubbliche
parlamentari, esso è eletto dalle assemblee legislative, si ha la prevalenza del potere legislativo. Se,
come nelle repubbliche presidenziali, esso è eletto al di fuori dell’assemblea ed ha funzioni, oltre che
di capo dello Stato, di capo del Governo, si ha il predominio dell’esecutivo oppure la stasi politica.
Infine il tentativo di conciliare i due sistemi, distinguendo il capo dello Stato dal capo del Governo e
affidando l’elezione del capo dello Stato direttamente al popolo, conduce a soluzioni (Finlandia,
Repubblica di Weimar) in cui si sommano i difetti piuttosto che i pregi, di ciascun sistema.

b) In realtà nessuna Costituzione democratica è andata a fondo del problema, altrimenti essa avrebbe
riconosciuto che il principio dell’equilibrio dei poteri richiede che ognuno di essi sia adeguatamente
rappresentato in seno all’organo detentore della suprema autorità dello Stato. La suprema autorità
dello Stato non può essere attribuita a una sola persona, ma a un collegio dove mettano capo le
molteplici volontà e capacità del popolo che hanno avuto modo di manifestarsi attraverso una
molteplicità di istituti. La composizione del Consiglio supremo dello Stato federale qui proposta
rappresenta una realizzazione coerente di questo principio ed è intesa anche a impedire che
l’equilibrio di poteri in seno al Consiglio stesso si risolva in una stasi politica. Infatti nei termini
potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario è implicita l’idea della capacità: capacità
legislativa, esecutiva, giudiziaria. Conseguenza di ciò è che il potere deve essere limitato alle funzioni
che a tali capacità corrispondono. Così, nella composizione del supremo organo dello Stato, deve
trovare riconoscimento la necessità di una certa prevalenza della capacità esecutiva alla quale è
affidata, in definitiva, l’azione di governo. Il capo dello Stato è in realtà un organo ambivalente: in
quanto si assume le decisioni più importanti dello Stato, esso non può essere frazionato in tre poteri;
in quanto agente della sovranità, esso appartiene a uno solo di essi, al potere esecutivo. Non ci sembra
inutile a questo punto ricordare come la separazione dei poteri non si possa applicare all’organo
depositario della sovranità dello Stato. Invece di parlare di separazione dei poteri sarebbe più
conveniente parlare della separazione degli organi fra cui sono divise le funzioni dello Stato. La
celebre dottrina di Mentequieu sulla divisione dei poteri domina ancora – e, in parte, giustamente – la
fantasia degli uomini politici, ma essa implica una confusione di concetti che abbiamo del resto già
chiarita là dove abbiamo ben distinto il duplice aspetto del potere esecutivo.

c) Sostituire un capo dello Stato rappresentativo a un monarca implica un’ulteriore difficoltà. La


figura del re vela infatti il dualismo tra l’ordinamento politico e l’ordinamento giuridico. In una
repubblica democratica, invece, la tutela della libertà esige che i due ordinamenti siano separati.

L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano


1970, pp. 256-259.
XXXIV

La limitazione del potere. Al fine di affermare solennemente e


concretamente la validità di determinati precetti morali che devono ispirare
l’ordinamento giuridico positivo, la fondazione dello Stato federale delle
Comunità, come è avvenuto per altre repubbliche democratiche, dev’essere
accompagnata dalla proclamazione di una Carta fondamentale dei diritti della
persona.
Riconoscere e tutelare determinati diritti della persona significa ammettere
l’esistenza di un elemento soprannaturale nelle istituzioni umane.
Questo punto di contatto tra legge divina e legge umana è chiaramente
simboleggiato nella tradizione giudeo-cristiana da Mosè, che, prima di dare la
legge al suo popolo, ascolta la voce di Dio. Se nella monarchia la sovranità
scaturiva da un patto tra Dio e il re, in una repubblica democratica la
sovranità ha una duplice sorgente che corrisponde al duplice rapporto che
unisce la persona a Dio e alla società terrena.
Se si ammette, come qui si fa, che il fine ultimo di ogni uomo trascende
l’ambito della società terrena, ne consegue che lo Stato dovrà garantire il
libero perseguimento di tale fine – o, per dire la stessa cosa con altre parole,
dovrà tutelare la dignità della persona umana – riconoscendo concretamente i
diritti di ogni uomo e tutelandoli a mezzo di una Corte suprema di Giustizia.
Poiché nella società la manifestazione della vocazione ultraterrena dell’uomo
è la comunità dei fedeli, questa dovrà essere rappresentata in seno agli organi
cui sarà affidata la formulazione della Carta dei diritti e la sua difesa.
La difesa della Carta dei diritti spetterà a una Corte suprema federale di
Giustizia. Quest’organo, per la stretta connessione tra Carta costituzionale e
Carta dei diritti, sarà anche competente a giudicare delle violazioni arrecate
alla Costituzione e sarà composto dalle più alte personalità del diritto e della
Magistratura.
Tanto la formulazione della Carta dei diritti quanto la creazione del supremo
organo di controllo costituzionale dovranno essere soggette a grandissime
cautele democratiche, affinché la difesa dei diritti della persona non sia un
pretesto alla conservazione di un ordinamento sociale non corrispondente agli
interessi dei più e alla coscienza che di questi interessi hanno gli spiriti più
liberi e chiaroveggenti.
In conclusione:
1) La Carta dei diritti rappresenterà l’espressione della più alta coscienza morale. Affinché abbia una
reale efficacia, dovrà essere formulata con una certa ampiezza di dettagli e, affinché non diventi uno
strumento di cristallizzazione sociale, dovrà essere soggetta – come la Carta costituzionale – a
eventuali nuove formulazioni, attuate con un procedimento che garantisca la partecipazione alla
nuova elaborazione di quei corpi cui è affidata la tutela della Carta stessa. Si avranno pertanto due
organi costituenti: il primo capace di apportare modifiche alla struttura politico-amministrativa, e il
secondo capace di modificare la Carta dei diritti. Essi tuttavia non potranno grandemente differire, e il
secondo risulterà dall’aggregazione al primo di elementi complementari particolarmente atti a tutelare
il principio spirituale insito nella persona umana.

2) Ogni precauzione sarà presa per assicurare alla Corte suprema di giustizia la massima
indipendenza e la massima stabilità, ma poiché una totale separazione tra ordinamento giuridico e
ordinamento politico non è praticamente realizzabile e nemmeno desiderabile, la composizione della
Corte tenderà per maggiore garanzia a realizzare un equilibrio tra i poteri.

L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano


1970, pp. 263-265.
XXXV

Dell’importanza delle norme di dettaglio. Nell’esposizione che andiamo


formulando delle caratteristiche dell’ordinamento delle Comunità, si dà
un’importanza fondamentale a norme che appaiono secondarie o di dettaglio:
determinazione di durata di mandati, composizione di commissioni, richieste
di titoli di studio specifici, condizioni di residenza o di natività (alle quali
converrà aggiungere la necessità di fissare i limiti di età minimi per la
candidatura a presidente di Divisione).
È troppo naturale che talune di queste disposizioni siano puramente
indicative, ma si vuole affermare che senza un’applicazione intransigente dei
principi a cui esse sono ispirate, in virtù della loro forma giuridica
costituzionale, non sarà possibile in alcun modo realizzare i presupposti
fondamentali di una nuova società.
Gli ostacoli rigidissimi posti in ogni direzione all’incompetenza, alla
superficialità di preparazione, all’inesperienza, all’improvvisazione, sono
indispensabili, e la loro intransigente applicazione e comprensione sono un
indice della loro moralità e della maturità politica di un popolo.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp.77-78.
XXXVI

L’edificio di una nuova società moderna e libera. L’edificio del nuovo Stato,
e quindi di una nuova società moderna e libera, procede dunque da un piano.
Il lettore che fosse preoccupato dalla difficoltà di attuare una struttura che
appare assai complicata, deve portare la sua attenzione principalmente su
quattro punti:

1. Gran parte delle complicazioni sono proprie di qualsiasi Stato federale e non dello Stato federale
delle Comunità in particolare. L’inefficienza, il disordine, la maggiore corruttibilità dello Stato
unitario ed accentrato, il soffocamento delle libertà e dell’iniziativa cui esso porta inevitabilmente,
giustificano ampiamente una struttura amministrativa che, almeno in apparenza, è più costosa.

2. Non ci sono sacrifici troppo gravi per ottenere un ordine libero e giusto. Inoltre, gli effetti, anche di
carattere materiale, dell’instaurazione di un ordine improntato ai più alti valori spirituali non
tarderebbero a essere benefici. È sufficiente ricordare come i tesori artistici che sono oggi una
ricchezza concreta dell’Italia nacquero come opera della fede, della cultura, del disinteresse. È questa
una conferma delle parole di Matteo apostolo: «Cercate
prima il regno e la giustizia di
Dio, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
3. Si danno piani e piani. Un piano concettualmente errato conduce inevitabilmente al disastro, anche
se studiato con perfezione nei dettagli; ne sia esempio il piano nazista. Quello corporativo era errato
nella concezione ed errato nei dettagli, perciò andò incontro più rapidamente al fallimento. Il piano
sovietico – nei limiti degli scopi che si prefiggeva – era teoricamente esatto, ma fu per molto tempo
errato nei dettagli; perciò gli errori vi furono riparabili e il piano condusse il popolo russo alla vittoria.
Il piano dello Stato federale delle Comunità intende integrare i valori sociali affermati dalla
rivoluzione comunista con quelli di cui è propriamente depositaria la civiltà cristiana, così da tutelare
la libertà spirituale della persona. La nuova coscienza della dignità umana che il Cristianesimo ha
forgiato è difatti l’unica e autentica sorgente di quell’ansia di libertà che muove ormai da secoli
l’Occidente. Una tragica fatalità volle, sino a oggi, che coloro i quali sostennero la lotta per la
liberazione politico-sociale dei popoli non potessero alzare la bandiera cristiana per combattere un
ordine sociale cristallizzato che si fregiava ingiustamente del nome di cristiano, anche quello che
l’etica evangelica vi aveva depositato di più prezioso.

4. È stato, infine, troppo spesso dimenticato che le istituzioni, per quanto s’innestino sulla società,
devono necessariamente avere una struttura loro particolare che non è quella della società. È questo il
primo passo per riconoscere che, se si vuole una società veramente libera e quindi differenziatissima e
progressiva, occorre che la struttura istituzionale dello Stato sia concepita con la perfezione e la
purezza di un cristallo, la cui forma è determinata con rigore geometrico dalla natura. Ogni
imperfezione nella struttura dello Stato si ripercuote nella società in una
mancanza di libertà. Se lo Stato deve rivelare all’analisi la perfezione geometrica della sua
struttura, esso ha pure una vita. È essenziale per la libertà che questa vita proceda dal basso, quasi
che lo Stato sia un grande albero a protezione di un immenso giardino – il consorzio umano – le cui
radici affondino e si estendano nel terreno che le alimenta. Anche la legge secondo cui il grande
albero cresce è la stessa legge di natura che domina il giardino dell’uomo; così albero e giardino
procedono nella vita illuminati da una sola legge superiore, affinché possa un giorno compiersi la
fine, quando saranno «ridotti al nulla ogni principato, ogni podestà ed ogni potenza».

L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano


1970, pp. 294-296.

Adriano Olivetti. Torino, 5 maggio 1956


L’impegno diretto nella politica: il Movimento Comunità (1947-1958)

Insofferente di ogni conformismo, alieno dall’accettazione passiva di


schemi, di ortodossie e soprattutto di limiti, Adriano Olivetti inizia
precocemente, già negli anni Trenta, a farsi promotore di iniziative che
contrastano con il greve clima di autarchia culturale e di nazionalismo
intollerante imposto in Italia dal regime fascista. È del gennaio 1937 il
lancio della rivista «Tecnica e Organizzazione», con un ambizioso
programma interdisciplinare che include l’analisi dell’organizzazione
interna ed esterna dell’azienda; le tecniche della produzione; l’architettura
industriale, ma anche l’assistenza sociale e la formazione professionale: temi
che la rivista affronta con un approccio assolutamente nuovo nel panorama
culturale italiano. Nel febbraio 1942 nascono le Nuove Edizioni Ivrea (Nei)
con l’intento di mettere a disposizione dell’élite nazionale – come chiarisce
lo stesso Olivetti in una lettera privata, scritta in quel periodo – un
campionario editoriale «ecumenico», che è cosa ben diversa da
«autarchico».
Superate le sconvolgenti vicende dell’estate del 1943 (con il temporaneo
arresto a Regina Coeli nelle settimane tra la caduta del regime fascista e
l’armistizio dell’8 settembre), e dopo la fuga e i lunghi operosi mesi trascorsi
nel rifugio in Svizzera, Olivetti rientra in Italia, nel 1945, animato dalla
volontà di fare breccia nella cultura e nel sistema politico del Paese
elaborando proposte riformiste capaci di dare concreta attuazione al disegno
istituzionale di impianto federalista consegnato alle pagine dell’Ordine
politico delle comunità.
Nel marzo 1946 esce a Roma il primo numero del periodico «Comunità»,
con cadenza inizialmente mensile, e poco dopo nascono, sempre a Roma, le
Edizioni di Comunità che, nelle intenzioni di Olivetti, sono destinate a
«contribuire alla ripresa culturale dell’Italia (…) in un dialogo senza
frontiere (…) e a promuovere una conoscenza critica dei temi del pensiero
contemporaneo e delle esperienze politiche e sociali di maggiore rilievo e di
motivato avvenire». Il primo libro pubblicato, attorno alla fine del 1946, è Il
mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa di Erik Peterson. Circa altri
centoventi titoli vedranno la luce prima della morte dell’Ingegner Adriano.
Tanto la rivista quanto la casa editrice vanno chiaramente collocandosi al
centro di un’articolata operazione che non tarderà a tradursi in un soggetto
politico: il Movimento Comunità. Va detto che la speranza, coltivata da
Olivetti, di riuscire a promuovere in Italia una radicale rifondazione
dell’ordinamento costituzionale trova nell’immediato dopoguerra ben scarsa
risonanza, se non addirittura infastidita ostilità all’interno dei partiti, i cui
dirigenti sono per lo più assorbiti, dopo le elezioni del 2 giugno 1946, dai
lavori dell’Assemblea Costituente, che stanno procedendo in tutt’altra
direzione. Olivetti si propone di collaborare – nell’ambito del Psiup (Partito
socialista di unità proletaria) – con l’Istituto di studi socialisti presieduto da
Rodolfo Morandi e diretto da Massimo Severo Giannini. Il suo intendimento
è quello di far accogliere nei programmi politici dei socialisti almeno alcuni
degli spunti più significativi della proposta comunitaria. Ma i suoi tentativi si
rivelano di corto respiro: nel 1947, vincolatasi una parte cospicua dei
socialisti in un rapporto di pesante alleanza-sudditanza con i comunisti,
Olivetti si rende conto che i propri suggerimenti in chiave innovativa, miranti
fra l’altro a superare il dilemma ‘socialismo di Stato-liberalismo’, non
suscitano nei maggiori partiti un interesse apprezzabile, e che è ormai giunto
per lui il tempo di percorrere una strada diversa.
Nasce così il Movimento Comunità che, fondato nel giugno 1947 dopo uno
sfortunato tentativo di accordi con il piccolo partito cristiano-sociale di
Gerardo Bruni, si presenta quale formazione di tipo inedito che, prendendo
le distanze dalla politica ‘politicante’, offre alla società italiana un
approccio culturale e un orizzonte di nuova civiltà; sceglie quindi
deliberatamente di non assumere la rigida struttura burocratica dei partiti ed
evita, nella fase iniziale, di misurarsi direttamente sul terreno elettorale,
rivendicando quale sua specifica vocazione un’azione metapolitica sul
modello della Fabian Society. Il Movimento si pensa strutturato come una
federazione di gruppi autonomi, di associazioni culturalmente orientate a
proporre l’idea di Comunità quale strumento valido di autogoverno, e
risolute nel propugnare la validità di tale idea a ogni possibile livello del
corpo sociale. Il carattere di movimento è sancito dallo statuto, e in
particolare dalla clausola della doppia appartenenza, in virtù della quale si
può aderire a Comunità pur conservando contemporaneamente la tessera di
un partito politico.
Ben presto sorge l’esigenza di prefigurare quella che dovrà essere la
Comunità realizzata, e in questa prospettiva Ivrea e il Canavese vanno
trasformandosi in una sorta di laboratorio sperimentale, così da fungere da
esempio che tutti possano osservare e giudicare. Nei locali della sede
primogenita del Movimento, a Ivrea, circolano nei primi tempi persone di
ogni tendenza politica, dai comunisti ai democristiani: persone che danno
corpo a una loro inusitata ‘militanza metapolitica’ mettendo in pratica la
clausola statutaria della doppia appartenenza.
Alla ricerca di un suo seguito e di un suo spazio, a partire dal 1949 il
Movimento si espande dando luogo a una rete sempre più ampia e fitta di
Centri comunitari, che aprono i battenti nei paesi più sperduti del Canavese
ma anche, un po’ per volta, in Piemonte e nel resto d’Italia. Nelle località
minori i Centri, che si definiscono «la piazza coperta» del paese,
organizzano corsi professionali di buon livello, conferenze, mostre,
manifestazioni artistiche e ricreative, dibattiti sulle questioni di ordine
locale. Al centro di ogni Centro sta la biblioteca con libri, riviste, quotidiani
di ogni colore e tendenza politica. Gli scaffali e i tavoli di lettura offrono un
assortimento dovizioso di quanto di più nuovo e stimolante viene prodotto
dall’editoria italiana di quel periodo.
Anno dopo anno, con ritmo crescente i Centri comunitari vanno
moltiplicandosi. Sono 7 nel 1951, 25 nel 1952, e raggiungono nel 1958 il
picco di 72 Centri nel Canavese, oltre a un’altra quindicina disseminata dal
Nord al Sud: nel Veneto, in Liguria, Emilia, Toscana, Lazio, Campania,
Basilicata, Puglia, le due isole maggiori. Nel Mezzogiorno «Comunità»
risveglia l’interesse di diverse figure di intellettuali, convincendoli a
impegnarsi in prima persona: si tratta di giovani continuatori della
tradizione del meridionalismo salveminiano, di alcuni profeti del mondo
contadino, di sostenitori della programmazione decentrata.
A Torino sono particolarmente attivi tre Centri culturali, mentre a Roma si
segnalano, per il loro livello molto elevato, le iniziative promosse dal Centro
di via di Porta Pinciana, nelle cui stanze cattolici e laicisti, democristiani e
socialcomunisti riescono con profitto ad abbozzare e tenere aperti ponti di
dialogo: un fatto più unico che raro nel clima gelido imposto, anche
nell’Italia dei primi anni Cinquanta, dalla guerra fredda. Non a caso lì, a via
di Porta Pinciana, si svolge nel 1954 il convegno nazionale «Abolire la
miseria» (sottotitolo «Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il
bisogno») ideato e organizzato con l’intento di avviare un’ampia riflessione
sui dati che le due recenti inchieste parlamentari sulla disoccupazione e sulla
miseria in Italia hanno fatto emergere. E in quella circostanza il Movimento
Comunità, proprio in virtù del suo essere slegato dalla tattica dei partiti,
dimostra d’essere nella condizione ideale per ospitare intellettuali e tecnici
di due culture ‘antagoniste’, quella socialista e quella cristiana, invitandoli a
non mettere in campo le profonde, insuperabili discordanze ideologiche per
gettare piuttosto le basi di un comune «fronte nazionale per le riforme»,
capace di infondere, come scrive Umberto Serafini, «spirito di iniziativa
autonoma e volontà di elevamento materiale e morale alle comunità ove
l’estrema miseria ha tolto lo stesso desiderio della libertà».
Risale all’anno precedente, gennaio 1953, il momento per certi versi più
significativo dell’attività del Movimento, allorché l’intero stato maggiore
comunitario, che raggruppa una decina di intellettuali autorevoli, sottoscrive
assieme a Olivetti un documento di notevole spessore, frutto di
un’elaborazione prolungata e faticosa: la Dichiarazione Politica, intitolata
Tempi nuovi, metodi nuovi. Il testo è redatto a opera di Geno Pampaloni,
che lo compone sviluppando uno schema predisposto e concordato tra i
firmatari; il titolo è quello suggerito da Riccardo Musatti.
«Secondo la natura e gli scopi del Movimento Comunità – vi si legge in
apertura –, che non è impegnato, al modo dei partiti, nella tattica del giorno
per giorno, ma è volto, con i suoi organi di studio e con quelli più
propriamente politici, al riesame e al rinnovamento delle strutture stesse del
regime democratico, la presente dichiarazione affronta i problemi della vita
italiana con una prospettiva molto ampia, in senso che potremmo chiamare
strategico o radicale. Un simile impegno non è certamente volontario
astrattismo, ma al contrario fa parte integrante del nostro programma
politico». Uno dei temi dei quali il testo della Dichiarazione chiarisce
l’importanza è la valorizzazione della «politica della cultura», cioè di quel
discorso politico che gli uomini di cultura, gli studiosi, i ricercatori
sviluppano per fare salve le istanze di libertà del proprio lavoro culturale, in
contrapposizione alla «politica culturale», intesa come la
strumentalizzazione degli intellettuali che i partiti sono soliti operare in
omaggio ai propri meri fini politici, e senza alcun riguardo per le libere e
autonome espressioni del lavoro intellettuale.
Preoccupati di tradurre in proposte i principi enunciati nell’Ordine politico
delle comunità, gli autori della Dichiarazione Politica affrontano con
coraggio e con singolare preveggenza temi di politica globale, a raggio
mondiale, dimostrando una singolare capacità di sottrarsi alle logiche di
schieramento nelle quali la guerra fredda sembrerebbe in quegli anni
ingabbiare i discorsi dei vari partiti. «Il Movimento Comunità si inserisce
per sua natura nella cultura occidentale, ma non accetta le premesse
dell’attuale schieramento di Stati che prende il nome, appunto, di
occidentale. (…) Quello che fu chiesto con drammatica evidenza per il
mondo comunista, l’ habeas animam, non è certamente acquisito nella
società capitalistica e in gran parte degli Stati democratici. I delitti
tradizionali del mondo capitalistico, il pauperismo, la disoccupazione
endemica, lo sfruttamento in nome del privilegio, si accompagnano oggi in
molti Stati con una mortificazione crescente della stessa democrazia formale,
della libertà di stampa, di riunione, di espressione con il diminuito rispetto
per le minoranze religiose e razziali, ecc. Inoltre, l’insorgere delle lotte
coloniali e il risvegliarsi alla coscienza politica di larghe masse popolari di
oriente è, storicamente, uno dei fatti centrali del nostro tempo e non può
essere risolto in alcun modo nel quadro semplicistico della contrapposizione
oriente-occidente, ove ‘occidente’ si identificherebbe con democrazia».
Nel testo figurano tre distinti paragrafi dedicati rispettivamente a «Popoli
coloniali e aree depresse», «L’Ordine internazionale» e «Federazione
europea». La visione ‘lunga’ e aperta a trecentosessanta gradi che
contraddistingue molte parti di questa Dichiarazione Politica va sicuramente
attribuita al contributo personale di Olivetti: è tra l’altro sua, con ogni
probabilità, la messa in guardia contro un federalismo sovrannazionale
realizzato tra Stati centralizzatori, cioè tra Stati che non abbiano dato corpo
a una struttura di tipo federale anche al proprio interno.
La decisione di prendere parte fin dal 1952 alle elezioni amministrative in
alcune località del Canavese lascia intendere che al vertice del Movimento,
ossia nella mente di Olivetti e degli altri membri della Direzione politica, sta
maturando la convinzione che Comunità non possa mantenersi
indefinitamente vincolata al modello metapolitico della Fabian Society, ma
che si debba organizzare come vera e propria forza politica onde misurarsi
direttamente, in prima battuta, con i gravi nodi presenti nello stesso contesto
socio-economico canavesano, e poi sappia anche assumere, in prospettiva, il
ruolo di un protagonista politico nazionale, disposto a confrontarsi con i
partiti tradizionali sul loro stesso terreno.
Alle elezioni politiche del 7 giugno 1953 Olivetti si candida al Senato in
collegamento con Unità Popolare: un movimento nato, insieme con altre
forze minoritarie, principalmente per iniziativa di Ferruccio Parri con
l’intento di impedire che si applichi la famigerata ‘legge truffa’ grazie alla
quale verrebbe attribuito, in termini di seggi, un forte premio agli
apparentamenti che raggiungessero il 50 per cento dei voti. A urne aperte il
premio di maggioranza non scatta perché la Democrazia Cristiana e i partiti
a essa apparentati non raggiungono la soglia del 50 per cento dei voti. Dal
punto di vista del consenso alla persona, Olivetti ottiene un risultato
lusinghiero, ma non tale da consentirgli di essere eletto.
Apparentemente più fortunata è la partecipazione di Comunità alle elezioni
comunali del maggio 1956. Olivetti diventa sindaco di Ivrea alla testa di una
giunta monocolore comunitaria, ma nel ruolo di sindaco rimarrà soltanto per
breve tempo – dall’estate 1956 all’inverno 1957 – perché, puntando a
condizionare con maggiore efficacia il potere romano, egli intende
accelerare il salto del Movimento Comunità da forza prevalentemente
regionale a forza politica nazionale.
È degno di nota il fatto che, proprio poco prima che s’apra la campagna
elettorale per le amministrative del 1956, Comunità compie un primo
sistematico sondaggio presso il Partito repubblicano, il Partito sardo
d’azione, i Radicali e Unità Popolare per un esame della situazione politica e
delle reciproche posizioni. Dopo anni di solido potere della Democrazia
Cristiana, affiancata, alla testa di governi di centro, da alcuni partiti minori
d’ispirazione laica, nel panorama politico italiano incominciano a circolare
per la prima volta espressioni quali «apertura a sinistra», «alternativa
socialista» e simili. Vi sono avvisaglie di un possibile ingresso del Partito
socialista nell’esecutivo; aria nuova, insomma, sembra spirare nei cieli del
Paese; forse sta lentamente maturando una svolta di notevole rilievo, nella
quale Olivetti intravvede quello storico incontro tra cristianesimo e
socialismo che solo può consentire alla collettività nazionale di affrontare i
pesanti problemi che le stanno di fronte. Per Comunità, quell’incontro fra
culture storicamente antagoniste costituisce, secondo Olivetti, un
appuntamento da non mancare, perché proprio all’interno di esso il
Movimento è in grado, meglio di altri, di dare risposte, di enucleare
programmi, cioè di formulare proposte non ideologiche e generiche, ma
politiche e concrete.
Un segnale eloquente di questa particolare temperie politico-culturale si
trova in un lungo editoriale non firmato, scritto probabilmente da Renzo
Zorzi (responsabile della redazione) in apertura del numero di «Comunità»
del dicembre 1955. In quell’articolo il Movimento proietta fuori di sé, forse
per la prima volta, un’immagine diversa da quella di una scuola o di
un’accademia culturale, per presentarsi con un elenco puntiglioso dei punti
essenziali, «irrinunciabili», del programma minimo di una forza politica
dotata di una propria capacità realizzatrice. L’elenco è il seguente:
«Polemica contro la partitocrazia, contro la prevalenza degli organi
burocratici di partito sulle istituzioni democratiche di base. Lotta quindi
contro la degenerazione del sistema parlamentare, contro la rappresentanza
proporzionale, a favore di una effettiva divisione tra potere legislativo e
potere esecutivo. Rafforzamento perciò dell’esecutivo democratico formato
autonomamente attraverso l’ordinamento regionale (unica salvaguardia
contro le avventure e velleità autoritarie).
«Lotta per le autonomie, per l’attuazione dell’Ente Regione, per la
realizzazione della piccola provincia democratica e parallela articolazione
delle metropoli in comunità democratiche.
«Progressiva utilizzazione della nuova comunità provinciale e del suo corpo
di governanti democratici come base prevalente nella formazione del potere
politico regionale e nazionale (in contrapposizione del governo di partito).
«Completa autonomia del potere giudiziario fino a far partecipare il
Consiglio superiore della Magistratura insieme al Parlamento alla scelta del
Guardasigilli incaricato del coordinamento e della collaborazione fra potere
esecutivo e potere giudiziario.
«Indicazione dell’Iri come “strumento-guida” della politica economica e
sociale italiana e suo riordinamento anche in vista di una oculata
regionalizzazione della sua struttura e dei suoi interventi.
«Parallela revisione dell’organizzazione e delle metodologie della Cassa del
Mezzogiorno, degli Enti di Riforma ecc. in stretto legame con il
decentramento burocratico statale e l’attuazione delle autonomie locali.
«Lotta contro i monopoli: a) trasformandoli in Regie autonome con la
partecipazione delle finanziarie IRI; b) promuovendo, con una decisa
politica di integrazione europea, la costituzione di un mercato comune molto
più ampio di quello attuale italiano.
«Una legislazione urbanistica moderna intimamente legata allo sviluppo
economico.
«Prosecuzione della riforma agraria, dando valore preminente – nella tutela
della persona del contadino – non alle attribuzioni di proprietà, ma al tipo di
insediamento umano, oltre che alla economicità di conduzione e al sufficiente
reddito del fondo.
«Piano straordinario di finanziamento della scuola e dell’educazione
(tenendo presenti precipuamente la scuola di base, l’istruzione professionale
e tecnica, la ricerca scientifica, l’assistenza scolastica, la selezione degli
insegnanti, l’educazione degli adulti).
«Legislazione democratica sull’assistenza e sul servizio sociale; legislazione
particolare sulle scuole di servizio sociale.
«Impulso alla politica federalista europea, da considerare come un precetto
costituzionale e come il complemento organico di ogni politica interna di
riforma democratica e di incremento economico.
«Prefigurazione della politica degli Stati Uniti d’Europa come politica di
pace, anticolonialistica, amica alle giovani e rinnovate democrazie asiatiche
ed africane.
«Critica all’attuale situazione sindacale, per un sindacalismo autonomo, che
promani dalla fabbrica e dalla comunità territoriale, dotato di quadri più
consapevoli del processo economico e più preparati nei riguardi dei
problemi della produzione moderna.
«Laicismo moderno, aperto a credenti e non credenti, cattolici e non
cattolici, inteso come metodo di lavoro e non come una «religione laica», nel
rispetto dei valori spirituali contenuti nel Vangelo.
«Immissione della cultura viva nella vita politica e della tecnica al servizio
delle forze popolari.
«Politica autonoma, fondata sulle forze e sui gruppi di ogni ceto (ma
prevalentemente operai, contadini, impiegati) nei quali si esprime l’esigenza
spontanea delle posizioni e degli orientamenti sopra elencati».
Sul piano della politica locale canavesana, dopo alcune incoraggianti sortite
elettorali nelle amministrative del 1952 e 1953, e in vista del turno elettorale
in agenda per il 1956-57, Comunità mette a punto un ventaglio molto ampio
di strumenti che utilizza per promuovere sul territorio iniziative di sviluppo
economico, per dare forma e continuità a un rapporto di integrazione tra la
fabbrica e il territorio, per dare sostanza al lavoro culturale nei sempre più
numerosi Centri comunitari, per infondere efficienza all’azione
amministrativa degli enti locali.
In quest’ultimo ambito l’Ingegner Adriano rivolge nel febbraio 1953 a tutti i
sindaci del Canavese l’invito a promuovere un’associazione ispirata ai
principi di un moderno autonomismo, indirizzata soprattutto a qualificare
dal punto di vista tecnico-amministrativo l’azione degli organi comunali di
governo, creando condizioni tali da superare i limiti che la legislazione
vigente pone alla cooperazione intercomunale e coordinare, quindi, le
attività comunali su scala comunitaria.
Nasce così la Lega dei Comuni del Canavese, alla quale aderiscono in breve
tempo 72 comuni retti da giunte di tutte le appartenenze partitiche, anche se
il nucleo principale è costituito dai 42 comuni in cui, nelle elezioni del 1956-
57, Comunità si afferma come forza maggioritaria. Obiettivo principale della
Lega è quello di fornire assistenza giuridica e tecnica alle amministrazioni
associate, affiancandole nella realizzazione di lavori pubblici e nel disbrigo
di pratiche amministrative complesse.
Movendosi in una vera e propria giungla legislativa che, all’epoca,
contempla ben ventisei tributi comunali diversi, nel breve arco di tempo della
sua operatività la Lega avvia una difficile razionalizzazione delle procedure
di imposizione e riscossione tributaria. Alla luce dell’urgenza dei bisogni dei
comuni del Canavese – una zona del Piemonte che, nei primi anni
Cinquanta, presenta ancora in più parti i segni di un pesante sottosviluppo –
la Lega assiste i comuni nell’affrontare in via prioritaria i problemi delle
infrastrutture essenziali: strade, scuole, asili, acquedotti, fognature, cimiteri,
opere di illuminazione pubblica e di diffusione della telefonia. Inoltre facilita
il costituirsi di comunità montane e di consorzi di servizi per opere
pubbliche, avvia gli studi per un piano regolatore intercomunale
comprendente Ivrea e una dozzina di centri minori limitrofi, e promuove il
Consorzio per il bacino imbrifero montano della Dora Baltea, uno dei primi
consorzi istituiti tra i comuni dell’arco alpino, il primo in assoluto in
Piemonte con competenze generalizzate di sviluppo economico,
infrastrutturale e sociale.
Ma fra i vari strumenti che il Movimento Comunità mette in campo per
incentivare lo sviluppo dell’economia canavesana e arginare i rischi sin
troppo evidenti di un profondo squilibrio territoriale e settoriale fra città e
campagna e fra industria e agricoltura, la realizzazione più originale è senza
dubbio l’Istituto per il rinnovamento urbano e rurale (Irur) del Canavese. Sin
dalla costituzione nel dicembre 1954, Adriano Olivetti ne assume la
presidenza con il duplice fine di promuovere nuove attività diversificate e
decentrate rispetto alla ‘fabbrica’ di Ivrea, e di garantire la sopravvivenza
delle attività produttive non collegate direttamente con il ciclo industriale
della Olivetti. «Una fabbrica in ogni valle» è la formula che sintetizza il
pensiero dell’Ingegnere, chiaramente preoccupato di assicurare possibilità
concrete di occupazione alle popolazioni delle località anche più distanti da
Ivrea, e di non lasciare che nel Canavese trionfi il modello di un’economia
mono-industriale.
Concepito in forma di associazione senza fini di lucro, l’Irur è un istituto che
investe in termini di capitali e di consulenza tecnica gratuita con il compito
di promuovere e coordinare, in collaborazione con enti pubblici e privati, lo
sviluppo economico e sociale locale, sia nel settore dell’industria
manifatturiera sia in quello agricolo. Secondo le indicazioni statutarie, l’Irur
è chiamato a sollecitare la creazione ed eventualmente a gestire imprese
manifatturiere, artigianali e agricole, soprattutto nelle zone in cui è
maggiormente presente il fenomeno della disoccupazione. I fondi dell’Istituto
sono costituiti dai contributi dei soci, dalle sovvenzioni degli enti aderenti e
dai proventi derivanti dalle attività promosse, create o gestite dall’Istituto
stesso. L’Irur non distribuisce utili: all’atto dell’adesione i soci, pubblici o
privati, rinunciano a ripartirsi dividendi e ogni altra eventuale sopravvivenza
attiva. La ricchezza prodotta deve essere interamente reinvestita per il
conseguimento delle finalità statutarie.
Nel periodo compreso tra il 1955 e il 1958, gli interventi dell’Irur nel settore
manifatturiero sono diretti a creare i presupposti strutturali per la
formazione nel territorio di piccole e medie unità produttive, vuoi
complementari all’industria Olivetti, vuoi operanti in ambiti merceologici
diversificati. Degni di menzione sono soprattutto il laboratorio di Vidracco in
Val Chiusella per la produzione di valigette per macchine da scrivere
portatili e, in un secondo tempo, di mobili destinati ad alloggiare apparecchi
radio, giradischi e televisori; lo stabilimento di Sparone nell’alta Valle
dell’Orco per la produzione di trafilati in gomma e materie plastiche; la
Olyvia Revel di Ivrea per la produzione in serie di abiti per l’infanzia. Di
questi tre interventi i primi due, con produzioni legate in larga misura al
ciclo produttivo della Olivetti, sono localizzati in zone profondamente
sottosviluppate e appaiono perciò chiaramente orientati a frenare il continuo
deprecato spopolamento della montagna.
Nelle intenzioni dell’Ingegner Adriano le imprese manifatturiere dell’Irur
non devono però limitarsi a offrire opportunità occupazionali (alla fine degli
anni Cinquanta il numero dei lavoratori impiegati nelle aziende promosse
dall’Istituto sfiora le 500 unità), ma devono anche costituire vere e proprie
comunità di lavoro, nuclei di autonomo sviluppo economico e strumenti di
consapevole progresso sociale, organizzati e gestiti secondo criteri di più
equa redistribuzione del reddito, tanto nei confronti del personale dipendente
quanto nei confronti della collettività insediata sul territorio. La morte
prematura di Olivetti impedirà a simili sviluppi progettuali di assumere
forma concreta.
Nel settore dell’agricoltura l’Irur si fa promotore e coordinatore di svariate
iniziative cooperativistiche, quali una cantina sociale, una cooperativa
avicola, un consorzio fra i viticultori che producono un vino di pregio,
cooperative per l’utilizzo di macchine agricole. Fra i diversi interventi
dell’Irur in questo ambito spicca la costituzione della Cooperativa agricola
di Montalenghe: una realizzazione che ben presto, a giudizio dei competenti,
viene annoverata fra gli esperimenti cooperativistici più interessanti mai
realizzati in Italia. A Montalenghe, località a mezza via tra Ivrea e Torino, la
popolazione, in gran parte contadina, ha remote tradizioni socialiste
largamente venate di spirito libertario e individualistico. Ma da tempo
immemorabile l’agricoltura del villaggio è povera e priva di slancio, afflitta
dalla penuria d’acqua e dall’eccessivo frazionamento delle proprietà. Nel
novembre 1956, su iniziativa dell’Irur settantanove anziani capi-famiglia
mettono in comune l’80 per cento delle loro proprietà – di dimensioni non
superiori, per lo più, a un ettaro – cedendole in affitto alla cooperativa da
loro creata. I terreni, per un complesso di circa 130 ettari formanti un’entità
abbastanza omogenea, vengono lavorati dai soci secondo i suggerimenti
offerti dai tecnici che l’Irur mette a disposizione dell’azienda collettiva.
Conseguita così la dimensione di un’unità produttiva economicamente
valida, la cooperativa si configura come un centro agricolo autosufficiente,
dotato di stalle per varie decine di bovini, rimesse per le macchine, un
moderno sistema di irrigazione e vari altri impianti fissi. Accanto ai
coltivatori è attivamente presente la direzione tecnica, offerta dall’Irun, che
si fa carico di pianificare la produzione sulla base di una valutazione
tecnico-economica approfondita sia delle capacità produttive dell’azienda,
sia degli orientamenti e delle esigenze del mercato, mettendo così i
cooperatori in condizione di collocare e vendere opportunamente la loro
produzione.
Ma anche questo esperimento cooperativistico audace e innovativo non
vivrà a lungo dopo la scomparsa di Olivetti e dopo l’uscita di scena di molti
fra gli anziani che la cooperativa agricola hanno fondato. Fra le spiegazioni
possibili di questa troppo precipitosa conclusione, che sono varie, ve n’è una
che mi sembra abbastanza convincente. Negli anni Cinquanta e Sessanta,
cioè negli anni in cui l’Italia vive il cosiddetto boom economico, il mondo dei
contadini più giovani, soprattutto nelle regioni del Nord, avverte con vigore
il fascino della trionfante civiltà industriale. A Montalenghe i cooperatori di
seconda generazione, trovandosi dopo la scomparsa dei soci fondatori nella
condizione di poter scegliere tra il lavoro in agricoltura e un’occupazione
alla Olivetti o alla Fiat, privilegiano con tranquilla coscienza questa seconda
opzione, lasciando senza rimpianti che la cooperativa vada incontro a una
rapida e sicuramente immeritata messa in liquidazione.
Olivetti, per contro, pensa al valore sociale di iniziative di questo genere,
all’aiuto che possono dare allo sforzo di miglioramento della qualità di vita
della popolazione delle campagne. È questa l’idea comunitaria che egli
coltiva nel Canavese e che vorrebbe trasferire nel resto del Paese: nei
comprensori di riforma agraria, nei centri di nuovo insediamento, ovunque
l’iniziativa pubblica è chiamata a pianificare la trasformazione
dell’ambiente onde predisporre per le nuove generazioni un’esistenza
materialmente e spiritualmente più ricca.
Il cauto sondaggio avviato tra il 1955 e il 1956 dal Movimento Comunità
presso il Partito repubblicano, il Partito sardo d’azione, i Radicali e Unità
Popolare non approda a risultati apprezzabili, dato il rigido arroccamento di
ciascun gruppo sulle proprie posizioni. Dopo d’allora, per qualche tempo il
Movimento guarda con interesse alla possibilità che tra i due tronconi
separati del socialismo italiano prenda consistenza la riunificazione,
continuamente ventilata. Infatti la maggioranza dei dirigenti comunitari è
convinta che il programma del Movimento sia nelle grandi linee compatibile
con l’indirizzo nuovo che il Partito socialista unificato dovrebbe adottare.
Ma tale processo di riunificazione tarda a prendere corpo, lasciando
chiaramente intendere che i tempi non sono ancora maturi per
collaborazioni organiche e politicamente significative.
Cosicché nel 1958, allorquando Olivetti decide di tentare da solo
l’avventura per la Camera e il Senato, tale decisione imprime ai tempi del
Movimento una drammatica accelerazione, cogliendolo praticamente isolato
e, forse, intimamente impreparato. Sta di fatto che l’Ingegnere non si
rassegna all’idea che i problemi di fondo della vita italiana si trascinino
insoluti di legislatura in legislatura, accantonati da una classe dirigente
manifestamente impreparata ad affrontare ogni serio rinnovamento. E poiché
la prospettiva di presentarsi come indipendente nella lista di un qualche
partito non gli interessa, Olivetti si getta nella mischia elettorale con la
disperata speranza di raggiungere quel minimo di forza politica che gli
consenta di negoziare con chi governerà il Paese talune di quelle riforme che
il Paese stesso attende da anni.
Nell’illusione di raccogliere un numero maggiore di suffragi, patteggia con
il Partito sardo d’azione e con il Partito dei contadini la formazione di una
mini-coalizione delle autonomie, ossia di un ‘cartello elettorale’ chiamato ad
affrontare la prova del voto nazionale sotto il motto ambizioso di «Comunità
della cultura, degli operai e dei contadini d’Italia».
Inizia così «la massacrante partecipazione alle elezioni politiche», cioè la
«generosa follia del ‘58», come la chiamerà Umberto Serafini: una frenetica,
faticosissima campagna elettorale nel corso della quale Olivetti si spinge a
prevedere che otterrà mezzo milione di voti, con tre seggi a Palazzo Madama
e fra i sette e i nove seggi a Montecitorio. Le elezioni si concludono invece
con il risultato magrissimo di un solo seggio alla Camera dei deputati, quello
di Olivetti, ottenuto grazie alla spinta del suffragio espresso dai fedelissimi
canavesani. Alla conta dei voti, in tutta Italia Comunità ne raccoglie appena
170 mila, poco più della metà dei 300 mila voti che servirebbero per far
scattare l’utilizzo dei resti nel collegio nazionale.
Prima che l’annus horribilis 1958 giunga alla fine, le pressioni dei famigliari
inducono Olivetti a smantellare gran parte delle principali strutture di
Comunità. Sul Movimento, dunque, e su molte delle sue realizzazioni, il
fallito successo elettorale cade come un pesantissimo colpo di maglio.
Rimane, nella sua solitaria presenza alla Camera, Olivetti quale unico
deputato comunitario eletto.
Sotto la macchina schiacciasassi della prova del voto Adriano Olivetti –
leader sfortunato di una formazione minoritaria di opinione – getta senza
risparmio non solo tutte le sue risorse fisiche e psicologiche, ma anche tutte
le sue sostanze personali. Nulla, tuttavia, porta a pensare che la sconfitta sul
terreno della politica politicante lo induca a rinunziare mai, negli ultimi anni
della sua breve esistenza, a quel bagaglio variegato di propositi e di
speranze, di progetti realizzati e di sogni rimasti incompiuti al quale si
devono la ricchezza e il fascino irresistibile del suo modo di guardare al
mondo e del suo tendere verso una civiltà «a misura d’uomo». Di ciascun
uomo, l’Humana Civilitas.
Proprio alla luce di quel mirabile bagaglio, ci appare un po’ meno
misterioso il crescente interesse che in questi ultimi anni la figura e l’opera
di Olivetti vanno suscitando presso un pubblico sempre più eterogeneo e
vasto.
XXXVII

Come nasce un’idea

Perché non si unificava? Perché non si poteva creare una nuova unità che assommasse e
comprendesse organicamente i poteri di un Prefetto, l’influenza di un Deputato, il prestigio di un
Senatore, la forza e l’indirizzo dei Partiti, la democratica figura del Sindaco e della sua Giunta, la
volontà di difesa dei Sindacati, la potenza economica e finanziaria delle fabbriche?

Nell’estate del 1942 cominciarono a circolare in tutta Italia, di fronte allo


sfacelo evidente della costruzione corporativa e fascista sotto la pressione
della disfatta militare incombente, i programmi che i movimenti politici
clandestini preparavano per l’indomani. Preparazione che fu troncata nel
periodo più fertile e virile dell’antifascismo italiano: durante il periodo in cui
esso creò la resistenza. Circolavano dunque in quel tempo i primi manifesti, i
primi programmi.
Da quei manifesti, da quei programmi il nostro Paese, il nostro popolo
attendeva una ricostruzione e una resurrezione. Ma essi non costituivano
niente di nuovo, contenevano ancora delle vaghe affermazioni, delle
intenzioni, un omaggio, in verità serio e sincero, alle tradizioni di
democrazia, di libertà, di socialismo alle quali anche noi teniamo e crediamo.
Ma la strada, la strada per realizzare il socialismo e democrazia e libertà
rimaneva ancora oscura e densa di pericoli. Se da secoli, da decenni, da anni i
popoli di Europa chiedono libertà, sperano nel socialismo, vivono nella
democrazia e ancora per tutta la Penisola miseria, sofferenza, ingiustizia sono
tragicamente visibili, ha da esservi seria e grave ragione. I nostri improvvisati
politici non seppero dare al nostro popolo una parola nuova.
Fu appunto allora, in quella fine tormentata del 1942, in quel tempo, in cui
l’alterna vicenda della guerra, la sua durezza, tra aumentati sacrifici
preparava un periodo ancor più tragico, quello dell’occupazione tedesca, in
quella dura vigilia compresi che occorreva fare uno sforzo, bisognava
condensare in una unica formula tutte quelle esperienze e conoscenze
politiche e non politiche che alternative continue fra il lavoro, la vita e lo
studio mi avevano concesso di esplorare.
Sapevo che era inutile, vano e pericoloso occuparsi della politica nazionale,
se non si avessero compiute delle minori esperienze nella vita del Comune e
della Provincia, se non si avesse visto da vicino come ne funzionassero gli
organi, se non si avesse compreso quale era il modo con cui lo Stato
esplicava la sua autorità e le sue funzioni nella vita di tutti giorni per tutti i
cittadini.
Mi sembrò quindi che il metodo più adatto a formulare delle soluzioni nuove
alla crisi politica e alla crisi sociale potesse partire non già da un vasto e
nebuloso programma teorico, ma da un esame circostanziato, da un esame
sperimentale, da un vaglio fatto ufficio per ufficio, casa per casa, persona per
persona in tutti quegli strumenti di vita associata che l’esperienza politica
aveva consegnato al Paese: il Comune, la Provincia, i Sindacati, i Partiti;
senza peraltro perdere di vista la sorgente ricchezza moderna: la fabbrica e la
sua potenza.
Mi accorsi ben presto che la situazione più confusa derivava dai limiti errati
e non omogenei delle circoscrizioni in cui si esplicava l’Autorità, il Potere: in
una parola la Provincia era sempre troppo grande e il Comune era, nella
maggioranza dei casi, troppo piccolo. Perché non si concentravano questi due
Poteri: l’autorità del Comune e l’autorità del Prefetto in un nuovo strumento
politico-amministrativo? Esaurite le necessità dello Stato di polizia che
facevano delle Prefetture uno strumento di Governo, non si avrebbe avuto più
ragione di sottrarre al dominio di un corpo liberamente eletto quel necessario
organo intermediario fra il Comune e lo Stato, costituito dell’attuale
Provincia.
I pubblici poteri assolvevano delle funzioni utili e necessarie, ma il loro
coordinamento era terribilmente difficile e spesso mancava del tutto, talché
questi organi che sembravano esser fondati per il bene e il comune interesse
tendevano a essere il teatro di interessi particolari e, nella confusione
esistente, gli uomini di buona volontà erano, quasi sempre, avulsi, straniati,
sopraffatti dai furbi, dai disonesti, dagli incompetenti. Le fabbriche
producevano una ricchezza che non serviva che in piccola misura a integrare i
bisogni della collettività, e questa ricchezza che era profusa, andava dispersa,
lontana, atomizzata, incontrollata.
Perché non si unificava? Perché non si poteva creare una nuova unità che
assommasse e comprendesse organicamente i poteri di un Prefetto,
l’influenza di un Deputato, il prestigio di un Senatore, la forza e l’indirizzo
dei Partiti, la democratica figura del Sindico e della sua Giunta, la volontà di
difesa dei Sindacati, la potenza economica e finanziaria delle fabbriche?
Si avrebbe avuto un’unica circoscrizione, un unico potere, degli uffici bene
organizzati, un’amministrazione vigile, umana, vicino agli interessi del
popolo, facilmente controllabile, dove tutte quelle entità e quelle forze che
agiscono separatamente, Provincia, Comune, Partiti, Sindacati, Fabbriche,
avrebbero trovato una sola espressione, un solo ordinamento, una nuova e
organica unità.
Nasceva così, empiricamente espressa, la prima idea, l’introduzione all’idea
di una Comunità concreta.
Questo concetto così semplice e così elementare che è alla base
fondamentale e insopprimibile della nostra ideologia, quello di far coincidere
su di un solo territorio l’unità amministrativa, l’unità politica e l’unità
economica, fu dapprincipio propriamente una modesta scoperta, ma il suo
valore si dimostrò più tardi: poiché essa si dimostrò feconda di sviluppi
pratici e teorici. Essa nel pensiero e negli scritti si venne più tardi precisando,
affermando e perfezionando, quando si trattò di presentare lo schema di un
organo molto complesso, interiormente vitale, un congegno estremamente
adatto a risolvere la molteplicità dei problemi della vita moderna.
La nostra concezione della Comunità fu dunque da principio una concezione
politico-amministrativa. La Comunità è un organo della Regione e dello
Stato: si trasforma poi, essendo fondato su un’entità naturale, in un organo
economico e via via in un mezzo di affermazione morale e spirituale. Il
disegno non appare immediatamente evidente e potrà essere chiaro soltanto
quando si comprenderà che solo partendo da questo dispositivo unitario si
possono risolvere i grandi e insoluti problemi politici: una nuova libertà, una
nuova democrazia, una nuova struttura sociale.
Era d’uopo indicare e definire quello che in quel piccolo e minuscolo Stato,
nella Comunità avrebbe dovuto essere il Potere, l’Autorità. Come doveva
essere costituito? Doveva essa venire dall’alto, come nel regime dei Prefetti?
Doveva essa essere lasciata al mediocre e alterno dominio del suffragio
universale? La soluzione scaturì da un lungo sforzo inteso a congegnare e
costruire un ordine politico in cui si trovassero armonicamente operanti
quelle forze e trovassero luogo quelle esigenze che insieme all’esperienza
tradizionale e i nuovi problemi che sorgono nella vita moderna reclamano per
la libera ascesa di una Società ancora incompiuta e che deve muoversi verso
un profondo rivolgimento, una sostanziale trasformazione.
Su tre principi fondamentali – e sulla loro collaborazione – doveva fondarsi
l’ordine politico. Il principio della sovranità popolare, del sindacalismo, dei
valori essenziali della cultura e della scienza, una scienza non disgiunta da un
fine etico, poiché quando questo mancasse, scienza e tecnica sottomettono
l’uomo al dominio della macchina e di congegni che egli non è più in grado
di controllare onde potrebbero portare la civiltà verso la propria distruzione.
Urgeva definire la democrazia in modo assai più vasto e più consono agli
interessi dei più di quanto la democrazia ordinaria non possa pretendere e non
possa garantire. Non era sufficiente integrarla, l’ordinaria democrazia, con
quelle forme autentiche di aristocrazia che sono l’esperienza, la cultura, il
valore. Urgeva obbligare la democrazia a essere più vigile interprete dei reali
bisogni delle masse e del popolo il quale è facilmente tratto in inganno dalle
incaute promesse di presuntuosi pastori; bastava a questo scopo immettere
con il suo formidabile valore – mediante organi diretti e coerenti – nella
democrazia il peso della classe lavoratrice.
Nacque pertanto una delle idee fondamentali dell’Ordine Politico delle
Comunità, l’idea del nucleo originario del Potere: un’associazione trinitaria;
tre persone costituiscono il nucleo centrale dell’autorità di una Comunità: un
Presidente democratico, eletto cioè a suffragio universale da tutti i cittadini
della Comunità; un Vice-Presidente eletto soltanto dai lavoratori, rappresenta
i Sindacati; infine un rappresentante della cultura, di quella cultura politica
che è una cultura specializzata e che senza gravissimi inconvenienti non può
essere affidata a uomini improvvisati, ma è frutto, come ogni altra scienza o
arte, di profondi studi specializzati e di una autentica vocazione.
Da questo nucleo originario il Potere si svilupperà, ripetendosi, ampliandosi,
arricchendosi fino a costruire l’esecutivo della Comunità che ne costituisce il
suo minuscolo governo, dotato di tutti gli organi della Regione e dello Stato.
Molto più tardi, questa semplificazione astratta, il nucleo originario del
Potere, prenderà una forma più complessa, ma concreta. La democrazia si
identificherà nei centri comunitari radicati capillarmente nei rioni e nei
villaggi, i Sindacati prenderanno vita dalle Comunità di Fabbrica e della
Terra, la cultura si ordinerà nei Centri Comunitari Culturali. La strada sarà
aperta alla propaganda e alla costruzione.
Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 17-22.
XXXVIII

Il cammino della Comunità (1956)

Non rifiuto la scala delle conquiste che permettono all’uomo di salire più in alto. Ma non ho punto
confuso il mezzo con lo scopo, la scala e il tempio. È urgente che la scala permetta l’accesso al
tempio, altrimenti esso rimarrà deserto. Ma il tempio, solo, è importante. È urgente che l’uomo trovi
intorno a sé i mezzi di ingrandirsi. Ma non si tratta là che della scala che porta all’uomo. L’anima che
gli forgerò (costruirò) sarà cattedrale, poiché essa è sola importante.

Antoine de Saint-Exupéry, Citadelle

Il movimento nacque a Torino nell’autunno 1948 quando insieme a due


amici scomparsi che avevano appartenuto a correnti della sinistra cristiana,
Giuseppe Rovero e Giovanni Cairola, decidemmo di costituire un nuovo
organismo – una nuova forza – che fosse a un tempo una protesta e una
testimonianza. Protesta contro il regime dei partiti, ma insieme una
testimonianza atta a dimostrare che è possibile dar vita a un nuovo sistema
capace di dar finalmente libertà e benessere a tutti gli italiani, di interpretare
le più profonde, naturali umane aspirazioni del nostro popolo.
La nostra protesta contro il regime dei partiti accusava la decadenza del
regime parlamentare e si rivelò, purtroppo di anno in anno, di una crescente
evidenza. Domani, perdurando l’inefficienza di questi sistemi, potrebbe
essere fatale alla sopravvivenza della democrazia e della libertà.
La crisi politica si approfondisce nell’immobilismo dell’azione di governo,
nel vano e contraddittorio agitarsi delle correnti, nell’annientarsi di ogni
possibilità di rinnovamento, di risanamento, perché il potere non è più in
mano dell’esecutivo e cioè del governo, ma in mano alle segreterie dei partiti
ed in mano a una burocrazia scoraggiata, sprovveduta di esperienza tecnica
che non ebbe modo di acquistare.
Il vecchio regime, monarchia e fascismo, furono spazzati via, dieci anni or
sono dalla Resistenza.
Ed ecco che, ancora oggi, dopo dieci anni dalla riconquista delle libertà
nominali, i partiti, i loro uomini, i loro condottieri non hanno corrisposto che
in misura assai limitata alle grandi speranze che si appuntavano su di loro.
Così all’alba di un mondo che speravamo nuovo, in tempi difficili e duri,
molte illusioni sono cadute, molte occasioni sfuggite perché i nostri
legislatori hanno guardato al passato e hanno mancato di coerenza e di
coraggio.
Riconosciamo francamente una mancanza di idee, una carenza di uomini,
una crisi di partiti.
Simone Weil, cattolica francese, morta a 33 anni di fatica nell’ansia di
servire la Resistenza e la verità, scrisse delle pagine roventi, per noi
profetiche intorno alla decadenza ed alla soppressione dei partiti politici.
«Non abbiamo mai conosciuto niente che assomigli – ella scrive – anche di
lontano a una democrazia. In ciò che chiamiamo con questo nome, il popolo
non ha né l’occasione né il mezzo di influire seriamente sulla vita pubblica e
tutto ciò che sfugge agli interessi dei singoli è lasciato alle passioni collettive,
le quali vengono sistematicamente e ufficialmente incoraggiate.
«Un partito politico è una macchina per fabbricare passioni collettive.
«Il primo scopo, e, in ultima analisi, l’unico scopo dei partiti politici è il loro
potenziamento (dimenticando e tradendo con ciò gli ideali che li mossero)».
Siamo all’apogeo dunque della forza dei grandi partiti organizzati, onde il
regime politico attuale prende il nome, non a torto, di partitocrazia, retto da
un occulto e complesso ingranaggio di interessi e di personalismi. È l’apogeo,
è l’inizio della decadenza.
È sorprendente come questa situazione sia tipica delle democrazie
parlamentari in Francia e in Italia e in taluni altri paesi europei e, in modo
minore perfino negli stati federali.
Walter Lippman, il noto scrittore politico americano, in un recente suo libro
dal titolo La pubblica filosofia denuncia con estremo vigore e rigore
scientifico la crisi del governo democratico.
La devitalizzazione del potere di governo – egli scrive – è la malattia degli
stati democratici. Nella misura in cui questa malattia cresce, il potere
esecutivo cioè il Governo, diventa estremamente suscettibile all’interferenza
se non addirittura all’usurpazione da parte delle assemblee elettive, cioè del
potere legislativo. Il potere esecutivo è sottoposto a pressioni e tormentato dal
mercanteggiare dei partiti, da rappresentanti di interessi organizzati, e dai
portavoce dei settari e degli ideologhi. Può trattarsi di una malattia fatale, e di
una malattia mortale alla sopravvivenza dello Stato come libera società se,
quando le gravi e difficili questioni della guerra e della pace, della sicurezza,
della rivoluzione e dell’ordine debbono essere decise, i poteri esecutivi e il
giudiziario, con i loro funzionari ed i loro tecnici, hanno perduto la autorità di
decidere».
Questa situazione non c’era sfuggita quando dieci anni or sono, scrivevamo
«l’Ordine Politico delle Comunità» perché sapevamo che l’Esecutivo delle
nuove democrazie, l’esecutivo repubblicano non era ancora stato creato e che
l’Assemblea Costituente dando la prevalenza al Legislativo contro l’assioma
politico dell’equilibrio dei tre poteri, avrebbe cacciato il parlamento e il Paese
in una crisi inevitabile.
Qualunque sia il nostro giudizio, l’attuale macchinoso e ben disordinato
processo, non potrebbe di necessità risolvere dei problemi che stanno nei
campi, nelle officine, nelle scuole, nelle università, negli uffici, a stretto
contatto dell’uomo e che rappresentano la vera vita in cui noi viviamo così
lontana dagli schemi che i politici accentratori ci sono infatti dei nostri
problemi e di quelli degli uomini che lavorano ogni giorno al nostro fianco.
Milioni di italiani attendono con ansia crescente un rinnovamento materiale e
morale. Sebbene questo possa dirsi in cammino per i vari segni che le forze
dei giovani ci indicano riempiendoci di speranza, esso trova innanzi a sé
forze negative di cui conosciamo ormai fin troppo bene la struttura cancerosa,
la volontà testarda, la natura corrotta.
C’è in questo mondo inquieto un’atmosfera di vigilia, si profilano in un
mondo ancora pesante nella sua massiccia indifferenza e nella sua paurosa
povertà, delle luci di un mondo che nasce.
La soluzione è una sola, difficile, ancora isolata ed incompresa: far sì che le
nuove forze materiali – quelle stesse che hanno dato vita al mondo moderno –
diventino valido e potente strumento di finalità spirituali.
Un Nord industrialmente progredito e un Sud straordinariamente povero e
depresso, un regime democratico in sostanza debole, appena ieri rinato da una
lunga parentesi di oppressione totalitaria, fanno dell’Italia di oggi un Paese le
cui condizioni si prestano a preziose possibilità come a tragici eventi, intorno
all’essenza della democrazia e della stessa libertà, perché l’Italia potrebbe
diventare – nessuno lo può dire – un campo sperimentale per una nuova e più
alta società al di là del capitalismo e del socialismo o ricadere in forme di
totalitarismo più o meno evidenti.
Dopo sette anni dalla dichiarazione e approvazione della nuova Costituzione
del dopoguerra, si discute oggi al Parlamento italiano se si debba applicare o
no la Costituzione stessa, in talune questioni delicate, come la difesa delle
libertà individuali o la messa in vigore della Corte Costituzionale.
E si discute ancora se l’autonomia prevista dalla Costituzione debba essere
limitata a 4 su 19 Regioni o debba essere definitivamente sepolta.
Se non siamo ancora propriamente oppressi da un regime totalitario, non
possiamo fare a meno di constatare come taluni temibili, allarmanti sintomi
premonitori di involuzione, sono presenti ovunque: la scomparsa quasi totale
di una stampa indipendente dai gruppi monopolistici, la decadenza delle
istituzioni universitarie, la povertà e il letargo delle associazioni culturali, il
monopolio governativo della radio e della televisione, dei grandi enti
economici dello Stato, quattro milioni di famiglie con reddito nullo o
lontanissimo dal minimo vitale di esistenza, migliaia di persone sfrattate che
non trovano abitazioni perché gli appartamenti disponibili sono soltanto
quelli costruiti per le classi privilegiate.
Lo straniero passa, non vede la miseria delle campagne e dei sobborghi e
osserva con ammirazione l’intreccio delle automobili di lusso e il rapido
elevarsi dei palazzi di cristallo e di marmo. Terreno fertile, condizioni ideali
per l’insediarsi di nuovi esperimenti di autoritarismo e di soppressione delle
libertà fondamentali.
Ben altro volevamo! In tutta l’azione dello Stato, noi vediamo con
preoccupazione crescente ragioni di avversità di fronte agli sforzi organizzati
che gli uomini di cultura italiani intendevano condurre al servizio del Paese e
del suo progresso. Gli amministratori, i tesorieri ciechi nella contemplazione
e nell’adorazione delle cifre e dei numeri, hanno ripreso il comando
dimenticando le persone. Ma il denaro che queste cifre rappresentavano era
pur destinato a dare finalmente lavoro e a sprigionare con il lavoro nuova vita
a un popolo nuovo. Lo sforzo tecnico dello Stato è ancora importante, ma
esso non vede la vita sociale dell’uomo, quella che potrebbe strapparlo
all’isolamento e a ogni forma di decadimento morale, e in definitiva farne un
uomo nuovo, conferendogli nuova dignità.
Ma c’è un’altra ragione che ci fa riporre le nostre speranze e quelle del
popolo italiano in un’azione diversa, in un’azione autonoma; gli è che la
società nuova si crea solo attraverso delle formule nuove che sono
personalistiche e comunitarie e il personalismo comunitario non si attua
aggiungendo una croce, sia pure quella di Cristo, alle bandiere rosse della
rivoluzione proletaria, ma si attua creando giorno per giorno i nuovi
organismi, nelle comunità, nelle fabbriche, nelle regioni.
Nuovi organismi che siano la espressione di un cristianesimo sociale
intimamente sentito e che tragga dalle sue premesse teoriche adeguate
conseguenze pratiche.
Perché, altrimenti, andando di questo passo lo Stato diventa attraverso i
Partiti, l’arbitro assoluto dei destini dell’individuo poiché esso tratta gli
individui come mezzi per raggiungere dei fini.
Ogni uomo, anche il più povero, il più debole, non può appartenere allo
Stato.
Affinché la persona sia libera e riesca a possedere un valore spirituale
assoluto, infinitamente più importante e infinitamente più alto di ogni valore
dell’ordine economico e politico, occorre che lo Stato esista per l’uomo e non
già l’uomo per lo Stato.
Questa necessità è l’inverso dei sistemi congegnati e intrapresi dagli uomini
della politica. Essi vorrebbero risanare la situazione e trovare la soluzione
dall’alto, attraverso la macchina della burocrazia centrale e la penombra delle
commissioni, e la potenza occulta degli apparati di partito.
Il largo intervento dello Stato negli anni recenti ha forse portato a stabilire un
uomo nuovo? Si è dato, è vero, a migliaia di contadini della terra e una casa.
Si è dato a migliaia di operai un’abitazione spesso molto migliore di quella
che prima occupavano. Ma tutto questo è rimasto estraneo alla vita interiore,
perché a questi pur nuovi organismi, connessi con la bonifica, la riforma,
l’edilizia popolare, non si è dato un cuore affinché gli animi potessero pulsare
fiduciosi verso un comune ideale.
L’uomo sembra insediarsi come ospite provvisorio, non partecipa in forme
democratiche nuove, in forme esemplari di vita associata alla sua
emancipazione e alla sua liberazione.
Il disordine edilizio non è che un riflesso del disordine economico, della
mancanza di ideali sociali. In una parola è il simbolo più appariscente della
crisi della civiltà contemporanea, che ancora si attarda a scegliere tra Iddio e
Mammona. La nostra Società ipocritamente mostra di voler servire ambedue,
quando invece è venuto il tempo di una scelta impegnativa. Ecco perché la
città si espande in modo disorganico per fini unicamente egoistici,
materialistici, speculativi, senza un vero piano derivante da una visione
generale della vita. E non potrà smentirci la presenza, spesso incompiuta, di
qualche quartiere modello, di qualche casa esemplare, perché essi rimangono
come campi arati ai margini di una foresta incolta.
Troppo spesso in questa società decadente, la cultura – distaccata da una vera
coscienza morale – si riduce a quella sanzionata dai diplomi e dalle lauree,
senza possibili incisioni sul modo di pensare e sul modo di vivere. Eppure se
la religiosità e la cultura dello spirito non giungeranno a ispirare la totalità
della vita finiranno per essere travolte.
Solo un movimento sostanzialmente nuovo nel suo modo di essere, non nella
sua etichetta, che presentasse nella sua azione politica una molteplicità di
valori ormai da tutti reclamata, potrebbe garantire alla vita politica italiana
l’innesto di forze nuove, suscitare l’entusiasmo dei giovani, essere lievito di
vera rinascita.
Il popolo italiano ha dato milioni di voti alla Democrazia Cristiana e milioni
di voti ai partiti marxisti. Ma milioni di voti sono stati dati al cristianesimo,
milioni di voti sono andati al socialismo e non alle loro particolari forme e
strutture di partito. Onde il significato è chiaro: il popolo italiano è socialista
ed è cristiano. Potrebbe anche semplicemente dirsi socialista perché
naturalmente cristiano.
Al di fuori di questi due sentimenti che vivissimi albergano nell’inconscio
del popolo non c’è né vita, né vitalità. I tentativi per conciliare le due
ideologie non potevano avere successo, perché il segreto del futuro si trova
soltanto rendendo ai valori spirituali la loro supremazia. Per ritrovare le fonti
ispiratrici di un’autentica civiltà occorreva abbandonare le concezioni
materialistiche della storia e illuminare l’azione politica degli insostituibili
valori del cristianesimo.
Occorreva trovare una formulazione ideologica nuova, occorreva che da
questa formula scaturissero organicamente fusi e praticamente attuabili quei
principi di solidarietà e umanità che accomunano socialisti e cristiani.
Perciò la nostra ansia di riscattare ha preso una forma e un nome nuovo
«Comunità».
«Comunità», il nome lo dice e il programma lo riafferma, è un movimento
che tende a unire, non a dividere, tende a collaborare, desidera insegnare,
mira a costruire. Non siamo venuti dunque per dividere, ma per esaltare i
migliori, per proteggere i deboli, per sollevare gli ignoranti, per scoprire le
vocazioni.
Noi ci adoperiamo affinché tra di noi aleggi il motto che animò il Concilio di
Trento: «Nelle cose necessarie unità, nel dubbio libertà, in tutte le cose
tolleranza».
Noi crediamo che le divisioni ideologiche abbiano intralciato il cammino
della civiltà seminando l’odio e ingenerando il fanatismo. «Perché chi odia il
suo fratello è nelle tenebre e cammina nelle tenebre e non sa dove egli vada
perché le tenebre gli hanno accecato gli occhi».
La nostra comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una comunità
né troppo grande, né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti
poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento,
quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e
dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori.
Una comunità troppo piccola è incapace di permettere uno sviluppo
sufficiente dell’uomo e della comunità stessa: all’opposto le grandi metropoli
nelle loro forme concentrate e monopolistiche atomizzano l’uomo e lo
depersonalizzano: fra le due si trova l’optimum.
Tecnica e cultura conducono verso il decentramento, verso la federazione di
piccole città, dalla vita intensa ove sia armonia, pace, verde, silenzio, lontano
dallo stato attuale delle metropoli sovraffollate, come dall’isolamento e dallo
sgomento dell’uomo solo.
Le campane che da secoli suonano in alto, dai campanili delle Cattedrali, le
verità del Vangelo e della Chiesa potranno finalmente illuminare della stessa
luce, delle stesse verità le campane dei comuni che vi chiamano alle civili
obbligazioni e alle civiche responsabilità. Ma siano rese a Cesare le cose che
appartengono a Cesare, e a Dio le cose che appartengono a Dio. E il sovrano,
Cesare è oggi il popolo al quale soltanto spetta il giudicare nei riguardi delle
qualità degli uomini, delle persone chiamate a reggere la cosa pubblica.
E la verità politica non può essere, amici e cittadini, non può essere il
monopolio di nessuno e tanto meno di un solo partito.
Noi chiediamo adunque, in tutta Italia la costituzione di nuove unità
organiche politiche e amministrative: le Comunità concrete.
E ciò perché nelle attuali e diverse strutture della società non può esistere
unità di interessi e di sentimenti. Solo nelle comunità l’intelligenza sarà
veramente al servizio del cuore, ed il cuore potrà finalmente portarsi al
servizio dell’intelligenza. Ed ecco perché la difesa di una piccola patria,
quella dove sono nati i vostri figli, quella dove avete passato la vostra
infanzia, dove avete trascorso anni di sofferenza, come anni di letizia e di
pace, il suo avvenire è un compito ben degno al quale si accinge in piena
solidarietà con i singoli Centri e i singoli Comuni l’intero Movimento di
Comunità. La natura, il paesaggio, i monti, i laghi, il mare, creano con i nostri
fratelli i limiti della nostra Comunità.
Affezionandoci a essa ci sentiamo più vicini al luogo migliore della nostra
anima, ci sentiamo più vicini al mondo dello spirito, al silenzio dell’eterno.
Ma la nuova comunità, imperniata sulla libertà dell’uomo, sull’autonomia
della persona, sulla dignità della vita umana, presuppone un mondo liberato
dall’asservimento, dalla forza, dallo strapotere del denaro.
Noi non siamo rivoluzionari rispetto ai metodi, perché non crediamo nell’uso
della forza, non crediamo nella violenza. Perché il male in politica è l’uso
della forza contro il diritto, è l’uso della forza contro il consenso e l’uso della
menzogna contro la verità. È in definitiva l’anticristianesimo o il non
cristianesimo in atto.
Perciò i nostri mezzi riposeranno sulla pace, ripudieranno la violenza,
escluderanno lo spirito di vendetta. Ci sforzeremo di agire con gli strumenti
che non tradiscono: la verità e la scienza, lo sforzo individuale, le attività, il
sacrificio, la dedizione alla causa.
Crediamo profondamente nella forza illuminata del popolo poiché questa
saprà distinguere chi lo guida verso la sua emancipazione, chi lo trascina
sulle strade delle inutili illusioni o delle avventure senza ritorno.
La nostra speranza consiste in una vita in cui la lotta non sia per il denaro o il
potere, ma in uno sforzo per il bene della comunità, per la vita e
l’affermazione dei suoi figli migliori, nella fabbrica di una autentica civiltà. E
ciascun uomo saprà di essere parte di un corpo più grande di lui.
Il nostro Movimento crede nei fini spirituali che sono le cose della scienza,
crede nelle cose dell’arte, crede nelle cose della cultura, crede infine che gli
ideali di Giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora
ineliminate tra capitale e lavoro.
Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di
elevazione e di riscatto.
La nostra resurrezione potrebbe solo attuarsi giorno per giorno, riformando e
rifacendo le strutture dello Stato, dando nuova responsabilità e moralità alle
industrie, dando vigore e autonomia ai sindacati, sottraendo, in una parola, il
Paese a quel decadimento e torpore morale verso il quale sta insensibilmente
avviandosi.
È quindi solo riorganizzando l’intera società italiana in vista dell’educazione
e del bisogno, dandole un nuovo spirito e un vigore nuovo che la tragica
malattia mortale della disoccupazione e della miseria potrebbe finalmente
esaurirsi.
Se non si andranno formando nel prossimo decennio nuove autorità
largamente decentrate e seriamente democratiche, responsabili e animatrici
delle multiformi espressioni dell’ingegno e della cultura, la società italiana
rischierà una rapida involuzione, soggiacendo inespressa al dominio
onnipotente dello Stato il quale può continuare a ingannare sé stesso e il
Paese facendo credere indispensabile e necessario che ogni progetto nasca e
sia controllato dalla Capitale.
Contro lo Stato non ho bisogno di spendere troppe parole. Lo Stato è troppo
lontano fisicamente e moralmente dai nostri problemi e dai nostri interessi.
Per decidere, sovvenzionare, attuare un lavoro relativamente semplice come
quello di costruire un ospedale o aprire nuovi corsi professionali nelle scuole,
finanziare una cooperativa, bisogna ricorrere a Roma, cercare avvocati
difensori, mediatori, onorevoli, senatori, ministri, insistere, correre da un
ufficio a un altro.
Quanto più semplice sarebbe per i cittadini se le costruzioni di acquedotti,
ospedali, ambulatori, biblioteche, asili, scuole, bonifiche, case, fossero
decise, finanziate, attuate dall’Ente Regione.
La Regione, la Provincia, il Comune possono contendere e sottrarre allo
Stato, gran parte del suo potere. Lo stato decentrato, in cui i Consigli dei
Comuni, delle Province, delle Regioni siano organi dotati di vasti poteri è
uno Stato seriamente democratico, che voi tutti potete toccare con mano,
perché ne conoscete gli attori, i protagonisti, li potete meglio scegliere,
diffidare, sostituire.
E la Comunità sarà un valido, nuovo strumento di autogoverno, essa nascerà
come un consorzio di Comuni. E le Comunità federate, daranno luogo, esse
sole, alle Regioni e allo Stato.
Capovolgendo le situazioni tradizionali, ove i partiti dominano i sindacati,
ove i partiti creano le cooperative e le sfruttano, ove i deputati sono nominati
da liste manipolate dalle direzioni dei partiti, la lotta politica, in una
situazione in cui lo Stato prende forma e vita dalla Comunità, non si
annullerà. Ma essa sarà originata esclusivamente nell’ambito delle Comunità.
Il popolo è inorganizzato, perciò l’espressione della sua volontà è una
mistificazione perché i suoi organizzatori, i suoi mediatori – i partiti – hanno
perso il contatto con il popolo.
Le Comunità sono invece un ordine concreto, ben radicato nella vita, nella
cultura, nel lavoro.
Fino a che esse non saranno create, i partiti continueranno, attraverso leggi
complicate, in cui il valore dell’uomo, che non è misurabile in cifre, è
sottoposto ad assurde manipolazioni aritmetiche, i partiti continueranno a
ingannare il popolo nel nome suo e della sua conclamata sovranità.
Nello schema della Comunità, i centri comunitari – che sono le cellule
democratiche – la cultura organizzata, le forze del lavoro, creano, insieme, le
Comunità: le Comunità daranno luogo allo Stato; la politica si svolgerà
nell’interno delle istituzioni. Non vi saranno altri poteri a contestarne e
contenderne la sovranità.
Sapevamo che nessuno ci avrebbe aiutato a vincere la nostra battaglia contro
le forze organizzate dei partiti e del potere. La nostra battaglia poteva essere
soltanto vinta da uomini nuovi, consapevoli del loro destino, della loro
volontà di lotta e di sacrificio.
E bisognava cominciare dal piccolo e dal basso. Non diversamente da come
sarà lo Stato delle Comunità, organizzato partendo dai Comuni, dai Centri
Comunitari, dalle Comunità di fabbrica, dai centri culturali.
Noi lotteremo anche su altri fronti, ma non dimenticheremo mai che solo
nelle piccole Comunità vive l’autentico spirito del popolo e la sorgente di una
autentica democrazia.
Per rafforzare i vincoli di solidarietà tra i contadini e gli operai del Canavese
nacquero verso il 1949 i primi Centri Comunitari. Essi si dimostrarono
rapidamente essenziali strumenti nel faticoso cammino della comunità.
Gradualmente, come una macchia di olio, crebbero tre nel 1950, sette nel
1951, 25 nel 1952, 32 nel 1953 e saranno oltre 50 alla fine di quest’anno: i
centri di Comunità promossi dal «Comitato per la Comunità del Canavese»
formano ora una particolare esperienza che una intelligente consapevole
delegazione di Terracinesi ha già potuto visitare e studiare.
Cosa sono, cosa rappresentano i Centri Comunitari?
Essi prendono forma, esistenza, attività dalle particolari condizioni in cui
nacquero, talché i centri comunitari del nostro Movimento hanno un
fisionomia che li distingue dai centri comunitari esistenti in quegli altri Paesi,
in America, in Canadà, in India, in Israele, ove furono già attuati. Essi
nacquero attraverso un lavoro paziente, tenace di alcuni pionieri e attraverso
il loro sacrificio personale. I nostri amici si recavano la sera nelle piccole e
primitive comunità di contadini e di operai e parlavano per primi della
necessità di trovare nelle loro forze, nelle loro menti, nel loro animo la strada
per la risurrezione, la strada per un principio di solidarietà e di un principio di
attuazione di vera democrazia che si attua non già attraverso la propaganda,
gli obblighi, le costrizioni, gli indirizzi, il conformismo insomma, ma
attraverso la lenta formazione di una coscienza personalista e comunitaria.
Affinché questo fosse possibile era necessario anzitutto elevare il grado di
cultura di quegli uomini sperduti che, dopo il fugace contatto della
giovinezza con il maestro elementare e più tardi le avventure dei giornali a
fumetti, avevano completamente perduto il contatto con la forza liberatrice
della cultura.
Perciò, il primo passo del lavoro sociale intrapreso dai centri comunitari fu la
istituzione di biblioteche e la notevole circolazione di riviste tecniche e
culturali, completamente mancanti in quei villaggi sperduti.
Il lavoro non fu semplice: talvolta mancavano le sedi, spesso si presentavano
persone inadatte, o intriganti, o politici a ingarbugliare le cose. Ma a poco a
poco i Centri si organizzarono, le biblioteche si arricchirono, si dette vita a
corsi di cultura popolare, a manifestazioni, sportive, ricreative; si iniziò il
servizio sociale, si diede mano al servizio di assistenza tecnica nel campo
della agricoltura e dell’industria.
Si trattava in sostanza di portare gradatamente in tutti i piccoli villaggi – cioè
nell’intera comunità – il piano di assistenza sociale, culturale, educativa,
ricreativa, più completo, quale si trova nelle nazioni più progredite.
Nel contempo, attraverso elezioni, dibattiti e numerose esperienze, rafforzare
nelle loro radici i valori democratici che si fondano nei singoli centri sulla
collaborazione di molteplici persone investite dai loro compagni di fiducia e
di responsabilità.
Poiché in ogni Centro si procede a libere elezioni di un presidente, di un
addetto culturale, di un addetto ai servizi sociali, di un addetto ai servizi
sportivi.
Col progresso delle Comunità e perfezionando questi servizi si aggiunsero le
sezioni economiche, l’ufficio e le attività sindacali, un osservatorio
urbanistico e, per i piccoli Comuni, una sezione di collegamento e assistenza
tecnica.
Noi siamo all’inizio di un esperimento di politica nuova, in cui le sane forze
di autonomia si sostituiscono all’inerzia degli organi dell’amministrazione
centrale per tentare di risolvere i problemi più gravi della collettività su scala
comunitaria. È una politica sulla cui strada incontreremo non pochi ostacoli,
ma che con lo sforzo consapevole dei nostri associati riusciremo a realizzare.
Gli organi indipendenti e specializzati che ispirano consigliano aiutano
questo intenso lavoro sono l’Istituto Italiano per i Centri Comunitari, Irur, la
Lega dei Comuni del Canavese, la lega delle Comunità di fabbrica, presente
nelle Commissioni Interne di tutto il territorio. Questi organi e questi istituti
hanno già aiutato e aiuteranno in sempre più larga misura il formarsi e il
potenziarsi delle comunità consorelle nelle altre regioni d’Italia. Perché
questa indispensabile solidarietà avvenga in modo ancora più intenso, occorre
che la nostra Comunità del Canavese raggiunga sempre maggiore potenza.
Così procedendo passo passo, in anni di lavoro abbiamo cominciato a
intravvedere nella sua integrità e nella sua bellezza, una Comunità concreta.
Perché in quei cinquanta Comuni del Canavese si sta manifestando una
preziosa, nuova unità di sentimenti e di intenti.
Un successo nella lotta contro la disoccupazione in uno dei comuni operato
da uno dei nostri istituti è fonte di allegrezza per tutti i comuni della
comunità.
Un nuovo centro comunitario, una nuova iniziativa, è fonte di orgoglio per
tutti nella Comunità. Ma se in qualche piccolo comune di montagna o anche
più vicino a noi nelle strade più povere del capoluogo di inverno si muore di
fame, è tutta la Comunità che deve soffrire e prepararsi a fare dei sacrifici.
Quando nacque il Movimento, trovammo i primi iscritti nella massa del
proletariato più povero del mio paese. Non vale discutere se tutti i diseredati,
i disoccupati, i modesti operai che costituirono il primo mezzo migliaio di
iscritti e formano ancora l’anima principale della nostra base, furono mossi da
simpatia personale o da altri motivi. Non posso tuttavia credere che in piccola
parte all’influenza di un fattore personale, ma credo soprattutto all’ingenua
spontaneità del nostro popolo che non teme il nuovo e che non esita a
credere, con fede e consapevolezza, al rinnovamento profondo che l’idea di
una Comunità concreta potrebbe portare alla società. Per i nostri operai e
contadini Comunità è simbolo di un socialismo nuovo, di un ideale di
giustizia sociale e da noi il Movimento Comunità ha ovunque preso il posto
del vecchio movimento socialista.
I nostri primi Centri nacquero così per la fede, la simpatia, il sacrificio dei
primi amici.
Ci piace ricordare che le nostre piccole comunità passarono per fasi iniziali
difficili, talvolta incontrammo insuccessi, impiegammo anni a dar loro
consistenza ed ancora oggi ne conosciamo le insufficienze, le
manchevolezze, i bisogni.
Tuttavia, oggi non solo in Piemonte, ma da molte parti d’Italia, uomini di
buona volontà, operai, studenti, agricoltori, talvolta dei sacerdoti, ci scrivono
chiedendo la istituzione di un Centro comunitario o della «Comunità» come
piace ai nostri identificarla. Quei paesi attendono con impaziente orgoglio un
nostro segno di vita.
Così le insegne del Movimento si sono alzate in altre province, a Treviso
come a Mestre, a Potenza come a Matera, a Palermo come a Messina, a
Roma come a Milano e Genova e ancora a Parma, Alessandria, Pontedera,
Biella, Latina e infine a Santo Lussurgiu, nostra sentinella avanzata in
Sardegna.
Gli ingegni più puri, i giovani migliori guardano al Movimento con nuova
speranza di libertà e di azione.
Potremo insieme dire di aver compiuta la nostra opera quando questi semi,
sparsi ormai in tutta Italia, saranno cresciuti in piante più robuste, in
organismi più numerosi e complessi.
Ma avremo costruito il tessuto connettivo della nuova società, sul quale,
finalmente, le energie nuove della cultura, e le forze del lavoro potranno
armoniosamente e degnamente operare.
Il nostro cammino sarà accelerato e moltiplicato dai successi iniziali, anche
limitati e modesti che possono diventare decisivi quando i rappresentanti
delle prime e più consapevoli comunità getteranno tutto il peso della loro
esperienza, tutte le loro forze a orientare e determinare in sede nazionale
ordinamenti, programmi, strutture veramente libere e giuste.
Ora il Movimento, dopo anni di lavoro ordinato e paziente, volge verso
nuove vie di più ampio respiro; non posso dunque dimenticare che a dar vita
alla prima Comunità del Canavese furono dei semplici e modesti operai.
Primo fra tutti Genesio Berghino di Palazzo, piccolo, ridente paese di
settecento abitanti, disteso fra faticati vigneti nelle colline della Serra.
Il suo centro comunitario è un centro modello, costruito in mezzo al paese,
senza fasti retorici in uno stile modesto e accogliente che si accompagna alle
case di ognuno.
Palazzo diventa nella storia del nostro Movimento un episodio significativo
ed importante. Primo perché è nato da un sacrificio individuale: Genesio
Berghino ha preso tutti i suoi risparmi e ha donato alla sua comunità e denari
e terreno. Secondo, i comunitari di Palazzo hanno lavorato tutti i giorni di
festa per due interi anni, per costruirlo pietra su pietra, mattone su mattone.
Esso è quindi sorto per la loro libera volontà ed edificato con la loro fatica.
Genesio Berghino dedicando la sua vita e la sua opera alla nascita e al
potenziamento di quella prima comunità, non ha costruito né sul vuoto, né
invano. «Perché – gli venne chiesto un giorno –perché fai questo?» Genesio
Berghino ha risposto: «Perché ci credo e perché mi fa bene pensare queste
cose: e poi ciascuno canta quello che vuole, quello che sente nell’anima».
Non sapeva egli forse quanta virtù, quanto fervore, quanta speranza nella
umanità e nell’avvenire del mondo, di un mondo nuovo, fosse nelle sue
parole pur così semplici.
Per la prima volta nella storia della democrazia una piccola comunità
aggiunge alle sue forze tradizionali un elemento nuovo. Perché laggiù a
Palazzo si è formato in maniera inequivocabile un potere comunitario, la
Chiesa, il Comune, il nostro Centro formano insieme una vera comunità
perché in essi si esprimono le forme organizzate di un’autentica civiltà. La
Chiesa simbolo riconosciuto e rispettato del potere spirituale e della sua
supremazia, il Comune costituito dallo stato organizzato immobile
nell’ordine delle sue leggi e nella limitazione dei suoi poteri, tuttavia Comune
democratico e libero. E infine, il Centro Comunitario, espressione di una
civiltà più dinamica e più libera, dell’ansia di rinnovamento delle possibilità
di influire lo Stato, come cellula pulsante di una nuova democrazia.
A Palazzo tre famiglie su quattro appartengono al Movimento Comunità,
come gli operai che vi abitano e che lavorano a Ivrea appartengono alla
Comunità di fabbrica.
In altri cinquanta comuni del Canavese abbiamo raggiunto l’unità morale di
quelle popolazioni dove rimangono fuori di noi soltanto coloro che non ci
hanno ancora potuto comprendere.
Così ci avviamo a dare un esempio palpitante di com’è possibile, attraverso
l’idea, la forza, l’organizzazione del Movimento Comunità raggiungere una
pace operosa, dinamica in un unico programma concreto fondato sull’amore
della propria terra e sull’amore tra gli uomini.
Noi siamo fermamente convinti che una civiltà è solo possibile in piccole
unità territoriali. Le molteplici ragioni naturali ed umane in favore di questo,
che per noi è assioma di scienza politica, sono state ampiamente prospettate
nel programma fondamentale del nostro Movimento: l’idea di una Comunità
concreta.
Dovremmo tendere a ricomporre quella perduta unità che esisteva nella città-
stato della Grecia antica e fu ricompiuta sotto molti aspetti nella storia
medievale con il Comune. In taluni periodi aurei della democrazia di Atene,
delle Repubbliche italiane, la città si era costituita in unità organica alla cui
esistenza dobbiamo taluni aspetti veramente esemplari del concetto di civiltà.
Ma la città non poté fin da allora costituirsi in Comunità perché a essa
mancavano due attributi fondamentali: un’etica sociale e un fine comune.
Oggi l’ansia di un mondo nuovo e le illimitate risorse della scienza ci fanno
scorgere una possibilità senza precedenti: il passaggio dal Comune alla
Comunità.
Affinché un Comune si trasformi in una Comunità, occorre – non esito ad
ammetterlo – la presenza di condizioni eccezionali. Tuttavia queste, e queste
soltanto, possono esserci guida sicura, poiché fuori di esse si marcia
ciecamente verso il disordine e la distruzione della civiltà.
Nelle nostre piccole comunità si può ritornare a vedere ed amare il popolo
per la visione circostanziata delle sue pene, delle sue ansie, dei suoi timori e
dei suoi sacrifici, ma anche della sua speranza e della sua certezza di un
domani più alto, più degno di essere vissuto.
Lungo il nostro difficile sentiero dobbiamo trovare gli strumenti di
espressione, nella realtà democratica, nel rispetto della competenza, le
istituzioni capaci di coordinare i bisogni della comunità e gli uomini
responsabili più capaci più degni.
La soluzione di certi problemi urgenti che nessuno strumento scientifico
potrà misurare, rimarrà sempre affidata all’intuizione intelligente e sensibile
di un consiglio di uomini che una comunità pensosa e vigile avrà posto al
proprio governo. Perché attraverso nessun mezzo scientifico si potrebbe
decidere se è meglio incoraggiare un cittadino a emigrare o condannarlo a
vivere una vita materialmente meschina nella casa che lo vide nascere, se è
meglio costruire una scuola o una fabbrica, un teatro o un ricovero per
vecchi, se una casa vecchia e malsana deve essere distrutta o, con lo stesso
prezzo, si debbano comprare dei pacchi-viveri per una popolazione
sofferente.
Queste sono le scelte che una comunità depressa e povera deve affrontare.
Ed essa diventa una vera comunità proprio quando giunge a sentire a pieno
l’importanza di queste scelte, quando si fa sensibile per la ricchezza delle sue
comunicazioni, degli organi di servizio sociale che affondano le loro ricerche
casa per casa, famiglia per famiglia nelle più lontane comunità disperse sui
monti, come nei quartieri più desolati e poveri della città.
Quando il Sindaco di Firenze, in una lotta drammatica e appassionante riesce
a impedire la chiusura di uno stabilimento e con ciò sottrae alla
disoccupazione migliaia di operai, alla miseria migliaia di famiglie, alla
sofferenza migliaia di bambini, compie un processo che è sulla via della
Comunità, perché quella città si è arricchita – da quel momento – di un
altissimo autentico valore spirituale. Quando, al rovescio, una impresa
industriale pur non sottraendosi ai suoi impegni economici pone la sua
potenza finanziaria e la sua raffinata tecnica al servizio disinteressato, al
progresso sociale e culturale del territorio ove opera, essa ancora si trova
impegnata in un principio comunitario. Quando una città costruisce senza
l’aiuto dello Stato qualcosa di importante, di socialmente importante, per
sopperire a urgenti necessità o alla carenza dello Stato, un ospedale, una
scuola, una strada, quella città è anch’essa sulla via di diventare una nuova
Comunità.
Noi non dimenticheremo, nell’assillo dei problemi di ogni giorno, la
responsabilità di operare nelle comunità secondo le leggi che ci furono
comandate. Perché nel mondo ci sono due principi che tendono a prevalere
l’uno sull’altro anziché conciliarsi: la giustizia contro la carità. Chi opera
secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso. Chi opera secondo
carità segue l’impulso del cuore e fa altrettanto bene, ma non elimina le cause
del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia.
Noi non dimenticheremo i poveri e i diseredati, perché tale è l’impegno e la
legge per il Regno di Dio; ma solo procedendo insieme con la verità, la
giustizia e l’amore potranno costruire attraverso uno strumento nuovo, una
comunità concreta, costruire un mondo nuovo, eliminare le cause maggiori
della miseria, dell’indigenza, dell’ignoranza, dell’intolleranza, in una parola
del male e del suo pauroso terrore.
Abbiamo scritto nelle proposizioni fondamentali del Movimento che il
nuovo Stato sarebbe organizzato secondo leggi spirituali, e la nostra
affermazione non è rimasta cosa astratta.
Per la prima volta nella storia dei programmi politici si fa un riferimento
preciso, non solo ai valori spirituali e alla loro potenza, ma al modo stesso,
alla forma, alle forze in cui questi si esplicano nella società terrena, anzitutto,
e nell’amministrazione delle cose pubbliche in particolare.
Giacché nella nostra visione il problema centrale della politica consiste nel
creare uno speciale rapporto fra la società e lo Stato, rapporto che tenga conto
e sviluppi le forze e le forme dello spirito.
Quando l’azione politica cristiana è legata solo apparentemente alle forme
spirituali e non si risolve in un corpo organizzato, in una comunità concreta,
nel suo ordinamento che si svolge in ordini spirituali, a nulla varranno gli
sforzi isolati degli uomini di buona volontà.
Non ci sono sacrifici troppo gravi per ottenere un ordine libero e giusto.
Inoltre gli effetti, anche di carattere materiale, dell’instaurazione di un ordine
improntato ai più alti valori spirituali non tarderebbero a esser manifesti. È
sufficiente ricordare che i tesori artistici che sono oggi una ricchezza concreta
dell’Italia, nacquero come opera della fede, della cultura, del disinteresse. È
questa una conferma delle parole di Matteo apostolo: «Non siate con ansietà
solleciti della vita vostra, di quel che mangerete o di quel che berrete, né per
il vostro corpo di ciò che vi vestirete: osservate gli uccelli dell’aria che non
seminano non mietono e non raccolgono nei granai; eppure il Padre Nostro
Celeste li nutre. Ora, non siete voi molto più di essi? Considerate come
crescono i gigli del campo, essi non lavorano e non filano, tuttavia vi dico
che neppure Salomone, con tutto il suo splendore fu mai vestito come uno di
essi. Se dunque Dio riveste così l’erba del campo che oggi è e domani viene
buttata nel forno, quanto a maggior ragione vestirà voi.
Non vogliate dunque preoccuparvi dicendo cosa mangeremo? Oppure cosa
berremo? O di che ci vestiremo? Sono i pagani che cercano tutto ciò, mentre
il Padre Vostro sa che ne avete bisogno. Cercate prima il Regno di Dio e la
sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta».
E questa ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia non può essere
raggiunta senza mezzi adeguati, senza sacrifici, senza uno strumento preciso,
una Comunità concreta, fondata su leggi umane e naturali, fondata sulla
ricerca integrale della verità e un’applicazione altrettanto integrale della
giustizia.
Non saremo traditi, non tradiremo perché gli strumenti che avremo creato,
quella Comunità di cui ci è dato intravvederne in bellezza le forme spirituali,
appartiene, circa il tempo della loro vita, a un disegno che non è dato a
ciascuno di noi predeterminare, ma che ci conviene seguire come servitori di
Dio.
La civiltà occidentale si trova oggi nel mezzo di un lungo e profondo
travaglio, alla sua scelta definitiva. Giacché le straordinarie forze materiali
che la scienza e la tecnica moderna hanno posto a disposizione dell’uomo
possono essere consegnate ai nostri figli, per la loro liberazione, soltanto in
un ordine sostanzialmente nuovo, sottomesso ad autentiche forze spirituali le
quali rimangono eterne nel tempo ed immutabili nello spazio da Platone a
Gesù; l’amore, la verità, la giustizia, la bellezza. Gli uomini, le ideologie, gli
Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici non potranno
indicare a nessuno il cammino della civiltà. Se le forze materiali si
sottrarranno agli impulsi spirituali, se l’economia, la tecnica, la macchina
prevarranno sull’uomo nella loro inesorabile logica meccanica, l’economia, la
tecnica, la macchina non serviranno che a congegnare ordigni di distruzione e
di disordine. «L’ordine è certamente di potenza divina, perché solo per opera
sua può manifestarsi il bello nel numero e nella qualità». Ma il disordine
ancora prevale. Ne siamo colpevoli quando incontriamo – e la tristezza ci
avvince – il diseredato, il disoccupato, quando nei rioni delle nostre città e nei
borghi vediamo giocare in letizia nugoli di bimbi che hanno soltanto a loro
difesa il sole – caldo e materno – e nulla sappiamo del loro avvenire: è ancora
disordine quando vediamo le nostre città crescere senza piani, senza spazi
verdi, nel rumore e nella bruttezza.
Noi sogniamo una comunità libera, ove la dimora dell’uomo non sia in
conflitto né con la natura, né con la bellezza e ove ognuno possa andare
incontro con gioia al suo lavoro e alla sua missione.
Le nostre Comunità estendendosi a poco a poco dalle Alpi alla Sicilia,
decideranno una questione più grande, iniziando un dibattito più alto,
poseranno la prima pietra di un nuovo edificio.
Questo edificio ha nome «Comunità» e il suo simbolo è la campana. Essa vi
chiama a raccolta per dirvi che non siete soli, che non sarete soli a lottare per
un mondo più giusto e che senza un lavoro comune, senza l’idea e lo spirito
di Comunità non vi sarà nel mondo né ordine, né progresso, né pace.
Humana civilitas, civiltà umana è scritto sul nastro che avvolge la campana.
Perché noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e
durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto
sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume
dell’intelligenza, non sarà dato a ognuno con estrema abbondanza e con
amorosa sollecitudine.
Noi attendiamo il riscatto dell’uomo. Da un uomo nuovo plasmato
dall’esperienza e dal dolore, finalmente consapevole della sua libertà intesa
come un compito immenso che egli offre a Dio.
Perciò, ognuno di noi può suonare senza timore e senza esitazione la nostra
campana. Essa suona soltanto per un mondo libero, materialmente più
fascinoso e spiritualmente più elevato, essa suona soltanto per la parte
migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la
violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio
contro l’acquiescenza, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza
contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro
l’indifferenza.
Se ciascuno di noi saprà chiedere al proprio fratello che cosa lo divide da
noi; se ciascuno di noi saprà infondere al proprio vicino la propria certezza;
se ciascuno di noi saprà sollevare una sola persona dall’incomprensione o
sottrarla all’indifferenza, suonerà per noi tutti e per tutti la nostra campana.
L’idea di Comunità è in cammino; ma richiede grandissima pazienza, molta
tenacia, molti sacrifici.
E soprattutto fede, fede non nella mia persona, ma nella redenzione
dell’uomo, nell’ascesa verso una comunità più libera spiritualmente e
materialmente più alta, in un mondo più degno di essere vissuto.
Il cammino della Comunità, Movimento Comunità, Ivrea 1956, pp. 5-30.
XXXIX

Il voto di «Comunità» a favore del Governo deve essere accompagnato da


alcune raccomandazioni, alcuni rilievi, alcuni suggerimenti che mi sembrano
indispensabili a chiarire il senso della nostra circostanziata adesione. Me ne
dà il diritto non certo questo unico seggio e nemmeno, forse, i 170 mila voti
che esso rappresenta, ma le forze culturali e spirituali a cui «Comunità» si
ispira.
(...)
In sostanza, il nostro giudizio politico è che il tentativo dell’onorevole
Fanfani abbia i requisiti necessari per essere messo alla prova sul terreno dei
fatti. (...) Sarebbe tuttavia mancare al nostro dovere se (...) io celassi le serie
preoccupazioni su alcuni aspetti di questo Governo. Nel corso della sua
formazione, ad esempio, è ancora emersa l’indifferenza della nostra
democrazia parlamentare verso il criterio delle competenze. Il concetto ormai
tradizionale che vede nei ministri segretari di Stato dei semplici «orientatori»
del settore loro affidato, è un concetto approssimativo che rende ragione delle
ricorrenti crisi del parlamentarismo europeo. In conformità di una più
aggiornata dottrina, noi riteniamo che i ministri debbano, insieme con il
legislatori, promuovere un’autentica mediazione tra la politica e
l’amministrazione.
Questa difficile mediazione, che è la sola creativa, non ha luogo nei due
opposti e simmetrici casi: il caso dei ministri esclusivamente tecnici e il caso
dei ministri esclusivamente politici.
Camera dei deputati, Atti parlamentari. Seduta di sabato 19 luglio 1958, III
legislatura, Discussioni in Assemblea, p. 545.

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