Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei
profitti?
Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una
destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?
Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea,
come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano
sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa.
Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione
aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore,
l’opera della nostra Società.
Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor
del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo
nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con
urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale
sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo
e della società moderna.
La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le
regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione
materiale, culturale, sociale del luogo dove fu chiamata a operare, avviando
quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza
sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che
si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una
vita più degna di essere vissuta.
La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza,
crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli
ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora
ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua
fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.
«Notizie Olivetti» N° 26, aprile-maggio 1955, pp. 16-17. (Brano tratto dal
discorso pronunciato per l’inaugurazione dello Stabilimento Olivetti di
Pozzuoli, 23 aprile 1955).
III
Mi piace, forse soprattutto perché tra di noi vi sono molti giovani e molti
sopraggiunti, accolti da poco nella nostra Comunità, mi piace ricordare a
grandi linee i due tratti essenziali della nostra storia più recente.
Fra il 1928 e il 1934, la fabbrica subisce una lunga crisi interna. È una
trasformazione totale dei sistemi direttivi. La fabbrica aveva raggiunto, prima
di quei tempi, un alto equilibrio umano. Erano i tempi di mio Padre e di
Domenico Burzio, un binomio per me inscindibile. Io allora ero molto
giovane e non avevo capito di loro che una parte. Vi era una realtà nel loro
esempio, nel loro modo di affrontare i problemi della fabbrica, che sfuggiva a
un esame razionale, a un esame unitario, a un esame che volesse confrontare
le cose col metro dei raffronti, che volesse paragonare le cose soltanto dai
risultati.
Questo qualcosa, l’ho detto, era invisibile ed era la loro grandissima umanità,
per cui nella loro superiorità, quando discutevano o esaminavano il regime di
vita o il regime di fabbrica, ciascun lavoratore era pari a loro, era un uomo di
fronte a un uomo. Ma allora la fabbrica aveva 600 operai. Il regime
dell’economia, il regime dei mercati, il regime di concorrenza esigevano un
rinnovamento, esigevano di incamminarci su una strada nuova, verso l’idea
di una grande fabbrica.
C’era al di là dell’Atlantico il modello, c’era una spinta quasi inesorabile ad
andare verso un nuovo stato di cose più grande, più efficiente, dove molti più
lavoratori avrebbero trovato ragione di esistenza.
Ma mio Padre esitava, esitava perché – e me lo disse per lunghi anni e per
lunghi momenti – perché la grande fabbrica avrebbe distrutto l’Uomo,
avrebbe distrutto una possibilità di contatti umani, avrebbe portato a
considerare tutto l’ingranaggio umano come un ingranaggio meccanico. Ogni
uomo come un numero.
Ma il cammino aperto si dispiegò ugualmente. La fabbrica aveva la sua
logica e questa logica si sviluppò inesorabilmente. Nel 1934 gli operai
salgono a 1.200, nel 1937 a 2.000, nel 1940 a 3.000.
La macchina scientifica si era messa in moto, gli uffici tecnici si
ingrandivano, nuovi prodotti erano studiati, erano messi in produzione, erano
venduti. Ogni anno gli architetti studiavano degli ingrandimenti. C’era
qualche cosa di bello in questo, c’era un certo orgoglio nel vedere dalla
vecchia fabbrica di mattoni rossi uscire queste grandi vetrate moderne. E a
poco a poco delinearsi la fabbrica come è attualmente.
L’uomo però non era stato completamente dimenticato. Il sistema della
retribuzione standard non era cattivo. Fu in generale accolto bene. Si
dimostrò molto superiore ad altri sistemi che furono in quel tempo impiegati
in Italia, come il tragico sistema Bedaux.
Per lunghi anni assicurò un miglioramento di vita e un regime non
intollerabile, permise alle nostre macchine di essere vendute in Argentina, in
Svezia, in Francia e in decine di altri mercati, contribuendo così al progresso
della nostra industria.
Furono a poco a poco perfezionate le istituzioni di assistenza. Nel 1934 si
sviluppò l’assistenza medica di fabbrica, nel 1935 iniziò nella sua forma
primitiva, ma già sufficiente, l’asilo, nel 1936 sorgeva il Centro Formazione
Meccanici per dare a poco a poco vita a un complesso sistema atto ad
assicurare ai vostri figli il più grande beneficio che dà la ricchezza: la
certezza di un’istruzione conforme al proprio talento e al proprio merito.
Nel 1938 sorge la mensa nella sua primitiva forma. L’ultimo, importante
provvedimento assistenziale fu la creazione dell’ALO [Assistenza Lavoratrici
Olivetti] che abbiamo ripristinato in questi giorni nella sua forma primitiva.
Specialmente in questa forma di solidarietà verso la più alta espressione e il
più alto sacrificio dell’umanità che è la funzione materna, noi esprimiamo col
nostro istituto la nostra intera solidarietà, affinché nessuna madre, e qui
diremo meglio nessuna operaia che sia madre, possa vedere con invidia e con
dolore quelle madri che hanno la gioia di tenere in una casa i primi mesi di
vita del loro bambino.
Brano tratto dal primo discorso tenuto da Adriano Olivetti dopo il rientro
dalla Svizzera (giugno 1945) ai dipendenti della fabbrica di Ivrea, a cura di
Davide Cadeddu, in appendice a: AA.VV., La riforma politica e sociale di
Adriano Olivetti (1942-1945), Tavola rotonda, 1° dicembre 2005, pp. 62-64.
VII
Quando i problemi tecnici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e
il successo finanziario che ne fu principale conseguenza lo permise, fui tratto
a occuparmi della vita di relazione fra gli operai e la fabbrica. Le casse mutue
funzionavano male: l’accentramento era disastroso: un operaio tubercolotico
per essere ricoverato doveva trasmettere le pratiche al capoluogo di
provincia, di là a Roma e perché di nuovo tornassero indietro con un nulla
osta occorrevano talvolta tre mesi. In quel tempo le cure erano generalmente
insufficienti, i medici cambiavano ogni tre mesi, malattie gravissime non
erano contemplate dagli statuti, molti rimedi importanti non considerati, i
familiari non godevano degli stessi vantaggi del lavoratore. Nacque allora il
servizio di assistenza sanitaria con scopi di complemento alle funzioni delle
casse mutue.
E sorsero così, oltre a un convalescenziario, un’infermeria di fabbrica,
completa dei più moderni strumenti di cura, con la presenza permanente di un
medico e di un pediatra e periodica di altri specialisti, per prestare cure
ambulatoriali e domiciliari non solo ai dipendenti ma anche ai loro familiari.
Per i figli dei dipendenti sorse così l’Asilo Nido, per bambini da sei mesi a
sei anni, e le colonie estive marina e montana.
Alle dipendenti in maternità, sia operaie che impiegate, fu concesso un
periodo di conservazione del posto di nove mesi retribuito quasi totalmente.
E infine si costruirono e si continuarono a ampliare dei complessi di edifici
moderni di abitazione per operai e impiegati, mentre per coloro che risiedono
nei centri fuori di Ivrea si è costituita una rete di comunicazioni
automobilistiche.
Un’altra forma di attività densa di insegnamenti preziosi per l’educazione dei
figli degli operai: l’organizzazione di scuole d’insegnamento tecnico e
professionale, la creazione di un meccanismo di borse di studio per
permettere ai giovani più dotati di diventare dei capi-tecnici e degli ingegneri,
l’apertura di una biblioteca di cultura. Imparai la enorme difficoltà affinché
queste istituzioni non diventassero strumenti di paternalismo, fonte di
privilegi, organi di selezione del tutto inadeguati. E quando recentemente la
parte elettiva del Consiglio di Gestione pose la questione della posizione del
complesso assistenziale nei rapporti tra la Società e il lavoratore si addivenne
a una redazione di una carta assistenziale che parte dalla seguente
dichiarazione:
Il Servizio Sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni Lavoratore dell’Azienda contribuisce con il
proprio lavoro alla vita dell’Azienda medesima e quindi a quella degli organismi istituiti nel suo seno
e potrà pertanto accedere all’Istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che questi
possano assumere l’aspetto di una concessione a carattere personale nei suoi riguardi. Mentre eguale
è il diritto potenziale per tutti i Lavoratori all’accesso ai benefici del Servizio Sociale, il godimento
effettivo dei benefici medesimi si determina in rapporto alle particolari condizioni ed esigenze
constatate secondo criteri il più possibile obbiettivi e che dovranno tendere a essere progressivamente
sempre meglio regolamentati in anticipo.
L’anno che si apre dinanzi a noi segna una data importante nella storia della
nostra Società: nel prossimo ottobre si compiranno cinquant’anni da quando
l’ingegner Camillo iniziò nella piccola fabbrica di mattoni rossi lo studio del
primo modello italiano di macchina per scrivere. (…)
Oggi, nell’inviare il mio augurio a tutti coloro che lavorano nelle fabbriche e
negli uffici dell’Organizzazione Olivetti, mi preme ricordare che i successi
fino a ora conseguiti, tra non lievi difficoltà e a prezzo di sacrifici, sono
dovuti certamente all’iniziativa, all’abilità, all’attaccamento dei tecnici, dei
dirigenti, degli impiegati e degli operai, ma per tanta parte sono legati alla
fedeltà a ciò che possiamo chiamare lo Spirito della Fabbrica. Esso può
essere identificato, oltre che nella convergenza armoniosa dei nostri sforzi e
nella somma delle nostre fatiche, anche nella fede in quei valori morali,
culturali, artistici cui abbiamo sempre creduto e che sono parte integrante del
nostro patrimonio, non meno degli sviluppi materiali dell’azienda.
(…)
Pur operando in un ambito, quello della industria moderna, che ha le sue
regole e i suoi limiti precisi, noi ci siamo sforzati di superare l’angustia dei
puri interessi pratici, con una attenzione costante rivolta a salvaguardare la
libertà e la dignità dell’uomo, prezioso e inalienabile bene di ognuno. Così
come abbiamo sempre ritenuto che gli aspetti etici ed economici di ogni
impresa non debbano essere disgiunti da quelli estetici: dove si rivelano e
risiedono nuove dimensioni dell’uomo. E per questo, insieme alle cure che
l’impresa impone alla direzione, essa ha sempre dedicato la sua attenzione e
ha dato incoraggiamento ad altre attività che possono talvolta sembrare
distanti dai fini di un’industria.
«Notizie Olivetti» N° 52, dicembre 1957, pp. 1-2. (Brani tratti dall’augurio
del Presidente a tutti gli appartenenti dell’Organizzazione Olivetti per il
Capodanno 1958).
Crescita della fabbrica e sviluppo del territorio. Olivetti e l’urbanistica in
Italia
Una nuova democrazia. La nuova società farà suo quel che d’eterno vi è
nell’ideale democratico: la fondamentale eguaglianza di tutti gli uomini come
essenze spirituali, cioè come persone, e quindi, sul piano politico, l’eguale
diritto di tutti gli uomini a partecipare al governo della cosa pubblica.
(…)
Nessun dogma quindi d’infallibilità di maggioranze informi e indifferenziate
che escono appena dalle tenebre in cui sono state tenute da un ordine
ingiusto, ma: 1) creazione di una pluralità di sfere di interessi vivi entro le
quali la volontà della maggioranza si determini con minori possibilità di
errore e con più grande libertà; 2) creazione di un sistema articolato di
elezioni dirette e indirette rispettoso di quei due essenziali fattori che sono la
provata competenza specifica dell’eletto e la provata sua preparazione morale
e culturale. Solo così la società, liberata da qualsiasi privilegio di casta o di
censo, avrà istituzioni adeguate alla complessità della sua odierna struttura
differenziata e il principio dell’eguaglianza di tutti gli uomini innanzi a Dio
troverà la sua applicazione terrena nella partecipazione, commisurata alle loro
insopprimibili differenze morali e intellettuali, di tutti gli uomini alla cosa
pubblica.
Il principio dell’eguaglianza di tutti gli uomini, in quanto membri di
quell’entità concreta che è la Comunità, avrà il suo più chiaro riconoscimento
e la sua applicazione più larga nella disposizione secondo cui il presidente
della Comunità sarà eletto a suffragio universale e con procedimento
democratico diretto.
Il nuovo ordinamento giuridico sarà inteso a conseguire un equilibrio
politico e, di riflesso, un equilibrio sociale che, solo affidato al principio
democratico dell’elezionismo, non potrebbe assurgere a quell’«optimum» che
è soltanto di una società in cui ognuno, come personalità umana, raggiunge
nel tempo più opportuno quella posizione, quell’autorità, quegli incarichi che
solo il suo orientamento spirituale e le sue attitudini specifiche, in una parola
la sua vocazione, gli assegnerebbero.
Il metodo democratico, come procedimento elettivo dal basso verso l’alto,
rimane l’elemento insostituibile e preponderante degli svolgimenti superiori
della vita politica.
Nelle democrazie ordinarie è generalmente riconosciuta la necessità di tener
conto dell’esperienza. Ma un tale riconoscimento è affidato a principi
conservatori puri (l’età, la rappresentanza indiretta, la maggiore durata dei
mandati, le designazioni per chiamata) affidati a Senati che nulla hanno di
seriamente democratico.
Lo Stato federale delle Comunità riconoscerà la necessità di alcuni di tali
mezzi, ma considera essenziale associare esperienza a valore.
Se contenuta dalla considerazione dell’esperienza e illuminata dalla
considerazione dei valori personali, la democrazia è il solo mezzo atto ad
assicurare questa circolazione delle élites, quel ricambio equilibrato ed
incessante che è condizione di libertà e vitalità di uno Stato.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 41-42.
XXVI
Dello Stato regionale. Il nuovo Stato che – come vedremo a proposito della
formazione e dell’ordinamento degli organi politici superiori – avrà una
struttura costituzionale estremamente solida, potrà finalmente contemperare i
principi dell’unità statale con quelli del decentramento e dell’autonomia
regionale.
Definita la Comunità come nucleo fondamentale del nuovo Stato, si
stabilisce un collegamento e coordinamento politico e amministrativo fra le
Comunità e lo Stato federale nell’entità storica italiana: la Regione (o gruppi
di regioni là dove ciascuna di esse formerebbe unità di insufficiente
ampiezza).
Il decentramento sarà realizzato con la creazione di organi capaci di
assumere molteplici funzioni dello Stato unitario, e che pertanto potranno
legiferare nei limiti che saranno definiti dalla nuova Carta costituzionale
fondamentale.
I necessari rapporti tra Stati regionali e Stato federale, un opportuno
equilibrio tra autonomia e decentramento, tra decentramento autarchico e
decentramento burocratico, saranno considerati nella loro delicatezza e nella
loro importanza.
Gli Stati regionali saranno determinati, nella grande maggioranza, secondo
criteri storici o economico-geografici e in guisa da costituire unità da tre a
cinque milioni di abitanti circa.
La circoscrizione regionale sarà determinata da coefficienti economici,
tradizionali in parte, da possibilità di comunicazioni e da situazioni di
interdipendenza o complementarità economica.
In Europa infatti hanno dimostrato grande efficienza e sviluppo civile Stati di
un tale ordine demografico di grandezza (Svizzera, Danimarca, Svezia,
Norvegia, Finlandia). Una divisione diversa e più frazionata
comprometterebbe seriamente la riforma dal punto di vista dell’efficienza del
sistema politico-amministrativo proposto e altresì altererebbe l’equilibrio
politico generale del paese.
Lo Stato federale non rinuncerà tuttavia alla sua missione nazionale e
assisterà – almeno temporaneamente – le Regioni più deboli economicamente
o d’arretrato sviluppo, in qualsiasi direzione tale ritardo siasi manifestato.
L’Ufficio federale dei piani, il cui lavoro di coordinamento in un senso
unitario procederà sino a quando le Regioni non saranno capaci di
indipendenza economica, sarà l’adeguato strumento di una tale necessaria
funzione.
Lo Stato regionale, che implica l’abolizione dell’unità amministrativa
provinciale, ha una prima funzione di decentramento autarchico
dell’amministrazione unitaria dello Stato, onde i suoi normali organi saranno
riuniti nel capoluogo dello Stato regionale.
Assumeranno quindi forma unitaria accentrata nella Regione tutti quegli
uffici che attualmente sono disseminati in province, circoli territoriali,
circoscrizioni finanziarie, ispettorati, non sempre organici e completi per ogni
entità amministrativa che ora culmina nella Provincia (Corte d’appello,
Intendenza di Finanza, Delegazioni del Tesoro, ecc.).
La questione della denominazione delle nuove unità costituenti lo Stato
federale può essere risolta nel senso di attribuire al nome stesso di Regione il
significato di quel particolare regime di autonomia e decentramento che
avrebbe luogo nei suoi confini geografici.
Si avrebbe pertanto una Regione piemontese, una Regione siciliana, una
Regione ligure e via dicendo.
Più consono alla tradizione italiana e a somiglianza degli Stati federali
storicamente più importanti, appare il proposito di conferire senz’altro
l’attributo di Stato ai nuovi organismi regionali, anche perché non sarà sicuro
che essi coincidano in tutti i casi con le tradizionali sedici regioni.
Ricordiamo che gli enti politici e amministrativi costituenti il relativo Stato
federale hanno preso o conservato il nome di: Stati, negli Stati Uniti del Nord
America e del Brasile; Stati, nelle Repubbliche sovietiche socialiste
autonome costituenti l’URSS; Stati nelle Repubbliche cantonali svizzere;
Stati provinciali, nella Monarchia federalista olandese.
Poiché gli Stati furono in Italia una realtà storica, nulla si oppone a che le
nuove unità riprendano l’antica denominazione, per ricordare altresì che la
nuova Costituzione federale non è una lustra, ma intende assegnare alle
Regioni una reale sovranità.
Avremo così lo Stato sardo, lo Stato piemontese, lo Stato siciliano, lo Stato
della Toscana, ecc.
Nell’Italia settentrionale appare la divisione tradizionale o storica delle
Regioni come elemento fondamentale per procedere a una divisione dello
Stato unitario.
Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana sembrano senz’altro
costituibili in Stati regionali senza tema di difficoltà o incertezze circa i limiti
territoriali delle nuove unità.
A eccezione delle isole non sembra, invece, che esistano nell’Italia centrale e
meridionale, ove la storia non può essere guida sufficiente e la geografia vi è
complicatissima, linee di demarcazione così definite e così facilmente
accettabili. Giova pertanto esporre brevemente quali potrebbero essere i
criteri informatori di una divisione razionale, poiché i criteri storici o
tradizionali rispondono in parte a situazioni politiche esaurite. (Lo Stato
borbonico o il Dominio temporale dei Papi non possono avere oggi alcuna
attualità; del resto i territori storici sono stati determinati da guerre, da trattati
politici inerenti a guerre tra potenze straniere e da altri fattori che
indubbiamente nulla o pochissimo hanno a vedere con i problemi che si
presentano all’Italia di domani).
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 83-85.
XXVIII
Debolezza dei criteri etnici. Allo scopo di costituire uno Stato regionale, il
criterio etnico o dialettale appare, da solo, insufficiente: basti pensare alla
Confederazione svizzera (le cui dimensioni sono assai più vicine alla Regione
che non allo Stato italiano, popolazione 4.256.000, superficie km2 41.294,5),
e al valore positivo che ha avuto nello Stato unitario italiano lo scambio di
gruppi di abitanti (famiglie di funzionari dello Stato) aventi caratteristiche,
abitudini e attitudini molto differenti; talché l’unità etnica appare più un
difetto che un vantaggio del regionalismo.
Là dove coincide con altri criteri fondamentali, una tale unità può e deve
essere accettata, ma, dopo avere condotto una guerra contro l’idea di una
superiorità razziale, introdurre il criterio esclusivo di dialetto o di stirpe
nell’ambito della nazione italiana appare ridicolo e pericoloso.
Le limitazioni che appaiono frequentemente in questo scritto circa condizioni
di residenza non sono intese a conservare un privilegio di nascita o a
introdurre un esclusivismo regionale, ma sono conseguenza della
fondamentale e democratica necessità per gli elettori di conoscere a fondo gli
uomini cui sono devolute funzioni politiche.
Nella nuova struttura regionale, le norme che regolano i mutamenti di
residenza e l’acquisto dei diritti relativi non differiranno sostanzialmente da
quelle in vigore nello Stato unitario.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, p. 90.
XXX
b) La formazione differenziata e indipendente di ciascuno degli organi tra i quali è diviso l’esercizio
dei tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, deve riflettere l’equilibrio politico rappresentato dal
nucleo originario del Potere.
La libertà non è dunque salvaguardata unicamente dalla separazione e
dall’equilibrio dei poteri, ma anche dall’immissione, entro ciascuno degli
organi costituzionali che tali poteri esercitano, delle diverse forze sociali e
spirituali che caratterizzano uno Stato moderno. Solo così il principio vitale
della libertà, che è coesistenza di forze, impregnerà come una linfa, in tutte le
sue ramificazioni, il grande albero dello Stato.
L’ordine politico delle comunità, 3a ediz., Edizioni di Comunità, Milano
1970, pp. 255-256.
XXXIII
Del capo dello Stato. Il problema del capo dello Stato in una repubblica
democratica non ha sinora trovato soluzioni logiche e coerenti. Siamo ancora
troppo vicini ai tempi in cui l’autorità del re era incontestata e troppo
profondi sono i segni lasciati da una plurisecolare tradizione monarchica
perché sia stato possibile finora esaminare il problema con occhio scevro da
pregiudizi. Laddove uno Stato monarchico si è trasformato in repubblica, non
si è resistito quasi mai alla tendenza naturale di sostituire al re un altro capo
personale, il presidente della Repubblica. Ma le conseguenze di ordine
politico di una tale sostituzione sono assai gravi e raramente sono state
previste dalle costituenti repubblicane.
Nello Stato federale delle Comunità – come nell’Unione Sovietica – non vi
sarà una figura analoga a quella di un presidente di repubblica, ma il
presidente federale sarà il delegato di un collegio che partecipa solidalmente
all’esercizio della sovranità conferitagli dalla Costituzione.
Le ragioni di questa soluzione sono ben note a tutti i teorici del diritto
costituzionale; se tra i politici ciò è ancora oggetto di controversia, si deve
vedere in questo uno dei tanti sfasamenti tra pensiero scientifico e attività
politica.
a) L’accentramento in una sola persona, anziché in un organo collegiale, della suprema potestà dello
Stato trova una sua prima opposizione nel principio di libertà cui si ispira la teoria della separazione
dei poteri. Infatti l’idea che un capo di Stato personale, elettivo e dotato di vasti poteri possa essere,
come un re, al di sopra dei partiti e dei poteri, è un’illusione che la realtà si incarica di smentire fin
troppo presto. Un capo dello Stato personale tende fatalmente a diventare l’espressione di
un’assemblea, di un partito o di determinate forze politiche e sociali. Se, come nelle repubbliche
parlamentari, esso è eletto dalle assemblee legislative, si ha la prevalenza del potere legislativo. Se,
come nelle repubbliche presidenziali, esso è eletto al di fuori dell’assemblea ed ha funzioni, oltre che
di capo dello Stato, di capo del Governo, si ha il predominio dell’esecutivo oppure la stasi politica.
Infine il tentativo di conciliare i due sistemi, distinguendo il capo dello Stato dal capo del Governo e
affidando l’elezione del capo dello Stato direttamente al popolo, conduce a soluzioni (Finlandia,
Repubblica di Weimar) in cui si sommano i difetti piuttosto che i pregi, di ciascun sistema.
b) In realtà nessuna Costituzione democratica è andata a fondo del problema, altrimenti essa avrebbe
riconosciuto che il principio dell’equilibrio dei poteri richiede che ognuno di essi sia adeguatamente
rappresentato in seno all’organo detentore della suprema autorità dello Stato. La suprema autorità
dello Stato non può essere attribuita a una sola persona, ma a un collegio dove mettano capo le
molteplici volontà e capacità del popolo che hanno avuto modo di manifestarsi attraverso una
molteplicità di istituti. La composizione del Consiglio supremo dello Stato federale qui proposta
rappresenta una realizzazione coerente di questo principio ed è intesa anche a impedire che
l’equilibrio di poteri in seno al Consiglio stesso si risolva in una stasi politica. Infatti nei termini
potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario è implicita l’idea della capacità: capacità
legislativa, esecutiva, giudiziaria. Conseguenza di ciò è che il potere deve essere limitato alle funzioni
che a tali capacità corrispondono. Così, nella composizione del supremo organo dello Stato, deve
trovare riconoscimento la necessità di una certa prevalenza della capacità esecutiva alla quale è
affidata, in definitiva, l’azione di governo. Il capo dello Stato è in realtà un organo ambivalente: in
quanto si assume le decisioni più importanti dello Stato, esso non può essere frazionato in tre poteri;
in quanto agente della sovranità, esso appartiene a uno solo di essi, al potere esecutivo. Non ci sembra
inutile a questo punto ricordare come la separazione dei poteri non si possa applicare all’organo
depositario della sovranità dello Stato. Invece di parlare di separazione dei poteri sarebbe più
conveniente parlare della separazione degli organi fra cui sono divise le funzioni dello Stato. La
celebre dottrina di Mentequieu sulla divisione dei poteri domina ancora – e, in parte, giustamente – la
fantasia degli uomini politici, ma essa implica una confusione di concetti che abbiamo del resto già
chiarita là dove abbiamo ben distinto il duplice aspetto del potere esecutivo.
2) Ogni precauzione sarà presa per assicurare alla Corte suprema di giustizia la massima
indipendenza e la massima stabilità, ma poiché una totale separazione tra ordinamento giuridico e
ordinamento politico non è praticamente realizzabile e nemmeno desiderabile, la composizione della
Corte tenderà per maggiore garanzia a realizzare un equilibrio tra i poteri.
L’edificio di una nuova società moderna e libera. L’edificio del nuovo Stato,
e quindi di una nuova società moderna e libera, procede dunque da un piano.
Il lettore che fosse preoccupato dalla difficoltà di attuare una struttura che
appare assai complicata, deve portare la sua attenzione principalmente su
quattro punti:
1. Gran parte delle complicazioni sono proprie di qualsiasi Stato federale e non dello Stato federale
delle Comunità in particolare. L’inefficienza, il disordine, la maggiore corruttibilità dello Stato
unitario ed accentrato, il soffocamento delle libertà e dell’iniziativa cui esso porta inevitabilmente,
giustificano ampiamente una struttura amministrativa che, almeno in apparenza, è più costosa.
2. Non ci sono sacrifici troppo gravi per ottenere un ordine libero e giusto. Inoltre, gli effetti, anche di
carattere materiale, dell’instaurazione di un ordine improntato ai più alti valori spirituali non
tarderebbero a essere benefici. È sufficiente ricordare come i tesori artistici che sono oggi una
ricchezza concreta dell’Italia nacquero come opera della fede, della cultura, del disinteresse. È questa
una conferma delle parole di Matteo apostolo: «Cercate
prima il regno e la giustizia di
Dio, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
3. Si danno piani e piani. Un piano concettualmente errato conduce inevitabilmente al disastro, anche
se studiato con perfezione nei dettagli; ne sia esempio il piano nazista. Quello corporativo era errato
nella concezione ed errato nei dettagli, perciò andò incontro più rapidamente al fallimento. Il piano
sovietico – nei limiti degli scopi che si prefiggeva – era teoricamente esatto, ma fu per molto tempo
errato nei dettagli; perciò gli errori vi furono riparabili e il piano condusse il popolo russo alla vittoria.
Il piano dello Stato federale delle Comunità intende integrare i valori sociali affermati dalla
rivoluzione comunista con quelli di cui è propriamente depositaria la civiltà cristiana, così da tutelare
la libertà spirituale della persona. La nuova coscienza della dignità umana che il Cristianesimo ha
forgiato è difatti l’unica e autentica sorgente di quell’ansia di libertà che muove ormai da secoli
l’Occidente. Una tragica fatalità volle, sino a oggi, che coloro i quali sostennero la lotta per la
liberazione politico-sociale dei popoli non potessero alzare la bandiera cristiana per combattere un
ordine sociale cristallizzato che si fregiava ingiustamente del nome di cristiano, anche quello che
l’etica evangelica vi aveva depositato di più prezioso.
4. È stato, infine, troppo spesso dimenticato che le istituzioni, per quanto s’innestino sulla società,
devono necessariamente avere una struttura loro particolare che non è quella della società. È questo il
primo passo per riconoscere che, se si vuole una società veramente libera e quindi differenziatissima e
progressiva, occorre che la struttura istituzionale dello Stato sia concepita con la perfezione e la
purezza di un cristallo, la cui forma è determinata con rigore geometrico dalla natura. Ogni
imperfezione nella struttura dello Stato si ripercuote nella società in una
mancanza di libertà. Se lo Stato deve rivelare all’analisi la perfezione geometrica della sua
struttura, esso ha pure una vita. È essenziale per la libertà che questa vita proceda dal basso, quasi
che lo Stato sia un grande albero a protezione di un immenso giardino – il consorzio umano – le cui
radici affondino e si estendano nel terreno che le alimenta. Anche la legge secondo cui il grande
albero cresce è la stessa legge di natura che domina il giardino dell’uomo; così albero e giardino
procedono nella vita illuminati da una sola legge superiore, affinché possa un giorno compiersi la
fine, quando saranno «ridotti al nulla ogni principato, ogni podestà ed ogni potenza».
Perché non si unificava? Perché non si poteva creare una nuova unità che assommasse e
comprendesse organicamente i poteri di un Prefetto, l’influenza di un Deputato, il prestigio di un
Senatore, la forza e l’indirizzo dei Partiti, la democratica figura del Sindaco e della sua Giunta, la
volontà di difesa dei Sindacati, la potenza economica e finanziaria delle fabbriche?
Non rifiuto la scala delle conquiste che permettono all’uomo di salire più in alto. Ma non ho punto
confuso il mezzo con lo scopo, la scala e il tempio. È urgente che la scala permetta l’accesso al
tempio, altrimenti esso rimarrà deserto. Ma il tempio, solo, è importante. È urgente che l’uomo trovi
intorno a sé i mezzi di ingrandirsi. Ma non si tratta là che della scala che porta all’uomo. L’anima che
gli forgerò (costruirò) sarà cattedrale, poiché essa è sola importante.