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""assirno Fini

Questo libro contiene tutti gli editoriali che Massimo Fini ha scritto
per il giornale La Voce del Ribelle di cui è il fondatore ed è stato
direttore politico. Si tratta, con tutta evidenza, di alcuni tra gli scritti
più aggressivi pubblicati negli ultimi anni. Il Fini de La Voce del
Ribelle spazia a tutto campo dalla politica alla finanza, dalla guerra
all'immigrazione, dai mass media alla democrazia per arrivare
persino al calcio. Come un pistolero nel far west mette nel mirino,
e spara, non sbagliando un colpo. E si permette anche di dare il suo
"giudizio universale", con tanto di voti, su tantissimi personaggi
pubblici. La postfazione soddisfa le curiosità di molti, perché
Valerio Lo Monaco, che de La Voce del Ribelle è da sempre il
direttore responsabile, racconta cosa significa conoscere
privatamente il giornalista Fini, ma anche l'uomo, con i suoi colpi di
genio, l'ironia, qualche ingenuità, e le sue sregolatezze.

Massimo Fini Scrittore e giornalista, per Marsilio è autore di La Ragione aveva


Torto? (1985, 2009), Elogio della guerra (1989, 2011), Il Conformista (1990,
2011), Il denaro «Sterco del demonio» (1998, 2012), Di[zion]ario erotico.
Manuale contro la donna a favore della femmina (2000), Nietzsche. L'apolide
dell'esistenza (2000, 2009), Il vizio oscuro dell'Occidente. Manifesto
deli'Antimodernità e Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (2002 e 2004;
2004; nuova edizione tascabile in un unico volume 2012), li Ribelle. Dalla A alla
Z (2006), Ragazzo. Storia di una vecchiaia (2008, 2012), Il Dio T hoth (2009), Il
Mullah Ornar (2011), Cna vita. Un libro per tutti. O per nessuno (2015). Per i
«Tascabili Maxi» nel 2013 è uscito Nerone. Duemila anni di calunnie
(c1uindicesima edizione). Valerio Lo Monaco, 1974. Giornalista dal 1997, ha
iniziato a lavorare come inviato nel settore dello sport. Nel 2005 ha fondato e
diretto una delle prime WebRadio in Italia, RadioAI2oZero (radioalzozero.net).
Nel 2008, insieme a Massimo Fini, ha fondato il giornale La Voce del Ribelle
(ilribelle.com) che dirige da allora. Si occupa di media, metapolit:ica e
comunicazione. Nel 2016 ha pubblicato "MoVimento 5 Stelle: e ora?", per
SapiensBook. valeriolomonaco.it

€ 12,99 723.52 9788890405143


l
Massimo Fini

Editoriali

Ribelli
Il Fini-pensiero

più corsaro di sempre

Postfazione di Valeria Lo Monaco


lo, Talebano .......................................................... 8

E sempre siano lodati gli speculatori ..................13

Chi siamo e cosa vogliamo ............� .....................17


Noi e Uvi-Strauss ...............................................21
Elogio della filibusta ........................................... 24

Prezzolini: il vizio inguaribile della indipendenza .


27
][)i�t���iamo i me<li<l ........... ..
........ .................... �<>

Occidente e Afghanistan: tra Viagra


e dIsintorma
. .c
. ti" a ................................................... 33 .

Iran e Israele: di chi avere paura? .39


.....................

Milis! (altro che Noemi...) .................................. 42

La democrazia secondo Gheddafi ...................... 46

Fuori dalla Nato fuori dall'Afghanistan ............. so

Altro che sdegno ................................................. 54


Fukuyama reloaded ............................................58
Immigrati e globalizzazione ................................61

Neurodelirium Found.........................................65
Alì il Chimico, e gli altri ladroni?........................70

�i avvicina l'ora del sangue .................................74


Il 40% se ne fotte ................................................78
25 aprile. La verità .............................................. 81

5
Ridateci il Totocalcio .......................................... 85

Poveri afgani son diventati ricchi....................... 89

Legittima la fucilazione dei "cristiani" ............... 93

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan .... 97


Serbia. Il capro espiatorio .................................105

Giudizio Universale ........................................... 110


AFGHANISTAN .......................................................... 110

PERSONAGGI INTERNAZIONALI ............................ 111

POLITICI EUROPEI ............ . . . . ................... ................. 111

POLITICI ITALIANI ....... ............................................ 112

GIORNALISTI, INTELLETTUALI &AFFINI ............. 113

CALCI0 ........................................................................ 114

Un Paese che non esiste più ..............................115

Libia: imbarazzo e ipocrisia ..............................118


Colonialismo terminale.....................................122
. .
Eeco 1 ven. terronsti" ..........................................126 .

La giustizia dei vincitori....................................130

Al contrario sul tapis roulant ............................134

Democrazia: una truffa da abbattere................138

Postfazione: tenerissima canaglia ....................142

6
Io, Talebano

Perché ci interessa tanto l'Mghanistan? Perché là si


combatte una battaglia decisiva. Che non è geopolitica come
sostengono tutti· coloro che, in Occidente, sono abituati a
pensare solo in termini di potere militare e quindi economico.
Si tratta di una battaglia che, una volta tanto, è davvero lecito
definire epocale, fra le ragioni della Modernità e quelle del
Medioevo. E noi siamo contro la modernità e a favore delle
ragioni del Medioevo. Un Medioevo, ovviamente, riveduto e
corretto, collocato nel Terzo Millennio.

L'Mghanistan è stato invaso e occupato per vari motivi Oa


presenza di Bin Laden era solo un pretesto) perché poteva
costituire un nuovo mercato, sia pur debole e destinato a
rimanere tale nonostante tutti gli stravolgimenti che stiamo
tentando di imporre a quella popolazione e quella cultura. E di
nuovi mercati, per quanto poveri, l'Occidente ha estremo
bisogno perché i suoi sono saturi.

Perché il mullah Ornar si era rifiutato di affidare


all'americana Unocal la costruzione del colossale gasdotto che
partendo dal Turkmenistan e attraversando l'intero
Mghanistan doveva raggiungere il Pakistan e quindi il mare
(un affare plurimiliardario cui era interessata mezza
amministrazione Usa, da Dick Cheney a Condoleeza Rice)
preferendole l'argentina Bridas diretta dall'italiano Carlo
Bulgheroni. Perché il mullah Ornar si era permesso, nel 2000,
di bloccare in Mghanistan la coltivazione del papavero e quindi
la produzione dell'oppio mandando in tilt il mercato degli

8
stupefacenti e mettendo in crisi le grandi organizzazioni
criminali legate, anche, a insospettabili classi dirigenti di
altrettanto insospettabili Paesi Occidentali.

Tuttavia le motivazioni economiche non erano, una volta


tanto, le più importanti nell'aggressione all'Afghanistan. La
ragione principale era un'altra. Il mullah Ornar rappresentava
per l'America e per l'Occidente l'Orrore allo stato puro, l'altro
da sé, l'alieno, il mostro, perché alla Modernità trionfante,
avanzante e conquistante osava proporre un modello del tutto
antitetico, una sorta di "Medioevo Sostenibile", cioè una
società regolata sul piano del costume da leggi arcaiche,
risalenti al VII secolo arabo-musulmano, non alieno però dal
far proprie alcune, mirate e limitate conquiste tecnologiche.

Il progetto, e il sogno, di Ornar, è ben simboleggiato dal


dipinto con cui aveva fatto decorare una parete della camera da
letto della sua cosiddetta villa (sette stanze in tutto, per lui, le
quattro mogli e i figli): un immenso prato verde attraversato da
un'autostrada, con qualche rada ciminiera sullo sfondo.
Un'Arcadia appena un po' ritoccata. Perché una cosa il mullah
l'aveva capita o intuita: che come certi elementi del mondo
occidentale penetrano in una società tradizionale, come quella
afgana, questa ne viene inesorabilmente disgregata e ridotta
alla miseria più nera, materiale e morale: come è regolarmente
avvenuto in tutti i Paesi del Terzo Mondo. In quest'ottica va
vista la distruzione materiale degli apparecchi televisivi e il no
alla musica rock o pop che tanto hanno scandalizzato gli
occidentali (i quali peraltro, almeno sul secondo punto,
avevano poco da far le verginelle: quarant'anni fa il governo di
Israele, che dell'Occidente fa parte a tutti gli effetti, aveva
proibito un concerto di Beatles proprio per la stessa ragione:
temeva che quella musica avesse effetto negativo sui giovani di
quel Paese). Va da sé che, utopico o meno che fosse,

9
l'esperimento talebano, cioè afgano, perché il regime del
mullah Ornar contava sull'appoggio della stragrande
maggioranza della popolazione, aveva pieno diritto. di
esprimersi in base al sacrosanto principio
dell'autodeterminazione dei popoli che è anche uno dei punti
fondanti del "decalogo" di Movimento Zero. Questo
esperimento era ideologicamente intollerabile per gli
occidentali, e poteva diventare anche estremamente pericoloso
se quella visione pauperistica del mondo, basata sui valori e
non sul dominio dell'Economia, del Denaro, della Tecnologia,
avesse contagiato altri popoli, altre menti, altri cuori. Ma
proprio per questo dico che la guerra all'Mghanistan (e non "in
Mghanistan" come ipocritamente la si chiama) è decisiva,
poiché è la lotta fra due visioni del mondo e del vivere
contrapposte e inconciliabili.

Non c'è dubbio che il modello di sviluppo occidentale, nato


a metà del XVIII secolo in Inghilterra con la Rivoluzione
industriale, abbia creato la società più efficiente che si sia mai
conosciuta (anche sotto questo aspetto sta scricchiolando, vedi
la recente crisi finanziaria di Wall Street, tamponata, come
quella del Messico del1996 e delle "piccole tigri" del1997, con
l'ulteriore immissione nel sistema di altro denaro inesistente:
un processo che non può durare all'infinito). Ma non è affatto
detto che sia la più armonica, la più serena, la più vivibile. Al
contrario.

Qualche dato. I suicidi a metà del 1600 erano, in Europa,


2.6 per100 mila abitanti, nel1850, un secolo dopo il "take off'
industriale, erano diventati 6.9: triplicati. Oggi, sempre in
Europa, sono 20 per 100 mila abitanti: decuplicati, con punte
di gran lunga superiori proprio nei Paesi e nelle Regioni che
conoscono il maggior benessere economico. E il suicidio,
ovviamente, non è che la punta dell'iceberg di un malessere

lO
molto più ampio: sono malattie della Modernità. Si affacciano
all'inizio dell'Ottocento, diventano un problema sociale per i
ceti benestanti alla fine del secolo, tanto che nasce la
psicoanalisi (Freud), e oggi coinvolgono, senza distinzione di
classe e di popoli, tutti coloro che vivono nel nostro modello di
sviluppo (in Cina, da quando è scoppiato il ''boom" economico,
cioè da quando ha aderito a questo modello, il suicidio è la
prima causa di morte fra i giovani e la terza per gli adulti).
L'alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Il
fenomeno inarrestabile della droga è sotto gli occhi di tutti. Lo
chiamano il migliore dei mondi possibili, ma noi tutti, ricchi e
poveri, lo viviamo con un disagio acutissimo e sempre
crescente. Per la velocità, le accelerazioni, i ritmi sempre più
forsennati e paranoici che impone, per l'alienazione che induce
nell'uomo separandolo dagli altri uomini e, alla fine, anche da
se stesso, per il fatto che in questo tipo di sistema l'individuo
non può mai raggiungere un momento di equilibrio, di
armonia, di pace. Colto un obiettivo deve inseguirne
immediatamente un altro, salito un gradino farne un altro e
poi un altro ancora e così via fino alla morte (''Produci,
consuma, crepa") per ciò costretto all'ineludibile meccanismo­
ineludibile perché su questo si basa - che lo sovrasta. Questo
modello di sviluppo si fonda sulla frustrazione perenne. Come
ha detto a chiare lettere - ma considerandola cosa positiva
perché economicamente produttiva - Ludwig von Mises, uno
dei più estremi ma anche dei p i ù coerenti teorici
dell'industriai-capitalismo (ma il marxismo non è che l'altra
faccia della stessa medaglia industrialista).

Questo sistema crollerà da solo. Perché si basa sulle crescite


esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura.
Per cui, quando non potrà più crescere - e il momento non è
più tanto lontano - collasserà su se stesso. E poiché si è posto e
imposto come modello planetario la catastrofe sarà planetaria.
11
Dice: ma allora non resta altro che attendere? Non è una
prospettiva allegra. Ma non è l'unica. Noi, noi umani intendo,
possiamo anche riprendere in mano il nostro destino senza
aspettare passivamente l'ineluttabile. Dobbiamo fare molti
passi indietro sulla strada del cosiddetto sviluppo, sfuggendo al
miraggio del futuro orgiastico che ci viene continuamente
agitato davanti come la Terra Promessa e che arretra
costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa
inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di
raggiungerlo. Questo scherzetto atroce è durato anche troppo a
lungo. Non si tratta, ovviamente, di scimmiottare il modello
talebano. Sarebbe grottesco. I popoli tradizionali, quelli tribali,
gli afgani come gli indigeni delle Isole Andemane e gli indios
dell'Amazzonia, come, per altri versi, il mondo islamico, hanno
la loro storia, che va rispettata. E noi occidentali abbiamo la
nostra. Per noi si tratta di sottrarci al predominio
dell'economia e della tecnologia che ci hanno messi al loro
servizio, relegandole al ruolo marginale che avevano prima
della Rivoluzione industriale, e di rimettere l'uomo al centro
del sistema. Al centro di se stesso.

L'Mghanistan, aggredito nel giro di vent'anni dai due


Occidenti, prima quello sovietico (perché Marx è nato a
Treviri, non a Kabul) e poi da quello propriamente detto, è il
simbolo di una possibilità di resistenza al modello egemone.
Per questo, oltre che per l'elementare diritto di un popolo di
opporsi all'occupazione dello straniero, comunque motivato,
noi, pur non essendo Talebani e nemmeno volendo diventarlo,
nella battaglia decisiva che si svolge in quel Paese, stiamo con
loro. Contro L'Occidente.

(ottobre 2008)

12
E sen1pre siano lodati
gli speculatori

Federico Zamboni ha spiegato in modo magistrale, nello


scorso numero, i vari e complessi meccanismi che hanno
portato al collasso del mercato finanziario in tutto il mondo
industrializzato. Tuttavia sarebbe fuorviante attribuire questo
collasso agli speculatori, agli agenti facilitatoci di mutui, alla
"finanza creativa", agli hedge fund, ai derivati, ai future, ai
"titoli tossici". Questo è anzi ciò che stanno cercando di farci
credere tutte le leadership politiche, economiche, intellettuali,
che oggi criminalizzano quella "finanza creativa" e i suoi
protagonisti che fino a ieri avevano tanto esaltato, per
mascherare la realtà: che l'intero nostro modello di Sviluppo è
"tossico". Quanto è successo in quest'ultimo anno non è infatti
che la punta di un iceberg gigantesco che affonda le sue radici
(ammesso che un iceberg abbia delle radici e non galleggi
invece, come il nostro modello, sul vuoto) ben al di là dei
cosiddetti eccessi della "finanza creativa" e va oltre lo stesso
mercato del denaro per arrivare al nocciolo duro e vero di tutta
la questione e cioè al sottostante sistema industriale,
all"'economia reale" come la chiamano. Il capitalismo
finanziario non è che la diretta e inevitabile conseguenza (oltre
che, in qualche modo, la precondizione) di quello industriale.
Ne segue, e non si vede perché non dovrebbe farlo, le stesse
logiche: il profitto, la sua massimizzazione col minimo sforzo,
l'inesausta scommessa sul futuro. Prendersela col capitalismo
finanziario, come fanno certe suorine della sinistra, alla
13
Vivianne Forrester o alla Alain Mino, senza mettere in
discussione l'industrialismo (cosa che le suorine di sinistra non
possono fare perché Marx era un industrialista convinto al pari
di Adam Smith e David Ricardo) è come meravigliarsi che
avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile.

La speculazione non è una prerogativa della finanza. Tutto il


nostro sistema è basato sulla speculazione. In fondo si può dire
che il primo uomo che ha scambiato una merce con un'altra
con fini di guadagno (e perché questo sia possibile bisogna che
esista il denaro come misura del valore dell'una e dell'altra),
uscendo dall'onesto baratto, per cui se io ho del sale e tu del
'
pepe io ti do un po del mio sale e tu un po' del tuo pepe senza
stare a badare (a "speculare") quale dei due vale di più, ha fatto
della speculazione.

Naturalmente fino a quando questo spirito speculativo,


completamente estraneo alle società che noi chiamiamo
"primitive", restò circoscritto ai commerci, in assenza di un
vero e proprio apparato industriale, le sue conseguenze furono
limitate. Qualcuno si sarà fatto più ricco, qualcun altro più
povero, ma la gente continuò a vivere, in buona sostanza, come
aveva sempre vissuto. La società rimaneva fondamentalmente
statica e quindi solida. Fra il "capitalismo commerciale", come
lo chiamava Marx:, che ebbe inizio in Italia fra il Duecento e il
Trecento con l'ascesa dei mercanti fiorentini e piacentini, e
quello industriale c'è infatti una sostanziale differenza di
qualità. n primo opera sull'esistente, su una domanda che c'è
già. E quindi poco o nulla cambia. n secondo dapprima dilata
enormemente l'offerta di beni esistenti producendo su scala e a
minor prezzo ciò che in precedenza era fatto artigianalmente.
In un secondo tempo, col progredire della scienza
tecnologicamente applicata, il capitalismo industriale produce
beni nuovi, stimola o inventa bisogni che prima nessuno

14
sapeva di avere. L'industrialismo, a differenza del commercio,
non si limita a trasferire beni, li crea. E una volta che li ha
creati ha la necessità di smerciarli. Di qui la perenne ricerca di
nuovi mercati, sia in senso verticale (introduzione di sempre
nuovi prodotti), sia in senso orizzontale, geografico,
conquistando, con le buone o con le cattive, a questo modello
di sviluppo altre civiltà, altre popolazioni, altre culture. È per
questo processo, durato due secoli e mezzo, che si è arrivati
all'odierna globalizzazione. Ma tutto ebbe inizio con la
Rivoluzione Industriale. È in quel momento che ciò che noi
chiamiamo Occidente finisce di essere una società tradizionale
per divenire una società "calda" come l'ha definita Lévi
Strauss. Le società tradizionali sono tendenzialmente statiche e
privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito della
competizione, dell'efficienza economica e tecnologica. Quelle
"calde" sono invece dinamiche e scelgono l'efficienza e lo
sviluppo economico a danno però dell'equilibrio dato che
"producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte
politiche, tutte cose contro le quali.. . i "primitivi" si
premuniscono forse in modo più cosciente e sistematico di
quanto non supponiamo" (Lévi Strauss). Ma una società
"calda" ha nel suo stesso dinamismo la propria condanna. Non
solo perché con le sue accelerazioni forsennate (di cui quella
del denaro è solo il prepuzio) richiede agli esseri umani uno
sforzo continuo di adattamento e provoca stress, nevrosi,
depressione, anomia, angoscia, ma perché un modello di
sviluppo che si basa sulla crescita continua, che esiste in
matematica ma non in natura, il giorno che non può più
espandersi, implode, collassa su se stesso.

In quest'ottica l'attuale crisi economica può essere una


doppia chance. Perché è un avvertimento a cambiare rotta, e
presto, e subito, prima che si arrivi a una catastrofe
irreversibile. E perché un modello di sviluppo che ha puntato
15
tutto sull'economia, marginalizzando tutti gli altri valori ed
esigenze dell'essere, e che fallisce anche e proprio
sull'economia, indurrà, io credo, spero, le persone a riflettere
anche sul non-economico, cioè sul tipo di vita insensata e
disumana che conduciamo anche quando non sono' in
circolazione "bolle finanziarie" e minacce di recessione.

Gli speculatori di Wall Street and company, svelando


involontariamente il gioco per un eccesso di ingordigia che in
realtà ci riguarda tutti, non saranno mai ringraziati
abbastanza.

(novembre 2008)

16
Chi sialllo e
cosa voglian1o
"Il vuoto interiore non potrà mai essere riempito con le
scoperte o conquiste materiali esteriori, per quanto
straordinarie, anzi in questo modo non farà che allargarsi".
Così parlava verso la fine del 1400 Girolamo Savonarola. Del
resto nei secoli precedenti la Scolastica (Tommaso d'Aquino,
Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Gabriel Biel, Molina de
Lugo) aveva condotto una lunga, e per molto tempo vincente,
battaglia non solo contro il profitto e l'usura ma anche contro
l'interesse puro e semplice e in quest'ultimo caso con
un'argomentazione assai sottile: il tempo è di Dio, cioè di tutti,
e quindi non può essere oggetto di mercato (se i neocon e i
teodem se ne fossero ricordati forse non saremmo giunti al
crack di oggi). Papa Alessandro VI, non volendo probabilmente
perdere troppo i contatti con i "tempi moderni", condannerà a
morte Savonarola e, con lui, la Chiesa perché nel giro di
qualche secolo l'Occidente sarà completamente desacralizzato.
Quando Nietzsche negli anni '8o dell'Ottocento proclama "la
morte di Dio" constata semplicemente, sia pur con un certo
anticipo, che Dio è morto nella coscienza dell'uomo
occidentale.

Chi nell'attuale galassia antimodernista o della 'decrescita


felice' avanza diritti di primogenitura nella denuncia della
catastrofe, esistenziale, sociale, etica, ecologica, provocata dal
modello di sviluppo occidentale dovrebbe fare professione di
umiltà ricordando le parole di Savonarola. Non siamo vergini.
Se un merito possiamo attribuirci è quello di essere stati fra i

17
primi (ma, anche qui, ci sono precedenti assai più illustri nei
pensatori della 'cultura della crisi') a riprenderei, sia pur
barcollanti, dalla sbornia d'ottimismo e di positivismo indotta
dalla Rivoluzione scientifica e industriale, poi razionalizzata
dall'Illuminismo nelle due sue varianti, !iberista e marxista e
nelle loro successive declinazioni. Ma ci abbiamo messo più di
due secoli. Ciò che Savonarola profetizzava con tanto anticipo è
puntualmente avvenuto. Il consumo ha finito per consumare il
consumatore, ha rotto i nuclei costitutivi più profondi
dell'essere umano, l'ha reso un sacco vuoto o quasi. Se non
portasse sfiga potremmo quindi dire, come dicevano i
comunisti d'antan, che noi antimodernisti 'veniamo da
lontano'.

Tuttavia Movimento Zero di cui La Voce del Ribelle è


un'espressione, non è un movimento religioso. Se non altro
perché una volta che Dio è morto nessuno può resuscitarlo.
Rimaniamo dei razionalisti che denunciano gli orrori della
Ragione illuminista, che assolutizzandosi ha fatto di sé un
nuovo dio, con gli strumenti della ragione, ricordando però che
non esiste solo la Ragione illuminista, ma ne sono esistite
anche altre come quella greca che sapeva coniugare,
soprattutto nei presocratici, in Eraclito e in Parmenide,
razionalità e intuizione. Intuizione che, insieme agli istinti, è
quasi completamente svaporata nell'uomo contemporaneo e
tecnologicizzato. Non siamo nemmeno degli ecologisti 'strictu
sensu', se non nei terniini che diremo fra poco.

Siamo stati spesso accusati d'essere abili nel demolire


l'attuale modello di sviluppo, ma di non avere proposte
alternative (da ultimo Antonio Carioti "Massimo Fini,
Talebano della jihad moderna", Il Corriere della Sera,
01/11/08). Certo distruggere è più facile che costruire, si sa.
Ma i n realtà ciò che vogliamo è semplice, almeno

18
concettualmente: riportare l'uomo al centro del sistema, al
centro di se stesso, relegando economia e tecnologia al ruolo
marginale che avevano sempre avuto prima della rivoluzione
industriale. Come? Con un ritorno 'graduale, limitato e
ragionato' a forme di autoproduzione e di autoconsumo che
passano, necessariamente, per un recupero della terra e un

drastico ridimensionamento dell'apparato industriale e


tecnologico oltre che di quello economico e finanziario (che è
poi quanto sostengono alcune correnti di pensiero americane,
come il bioregionalismo e il neo comunitarismo). Perché è nel
legame con la terra, da cui veniamo e a cui fatalmente
torniamo, e in ambienti circoscritti, limitati, comprensibili
(questo significa autoproduzione e autoconsumo) che l'uomo
può ritrovare se stesso e il rapporto con gli altri nel bene e nel
male, naturalmente.

A differenza di Savonarola e di Rousseau noi non crediamo


che l'uomo nasca naturaliter 'buono'. Non ci interessa l'uomo
buono. Ci interessa l'uomo. Con i suoi istinti, le sue passioni, i
suoi sogni e anche le sue ombre, i suoi vizi, le sue violenze. Ma
vivo, perdio, vivo. Non un automa omologato dal potente
m e c c a n i s m o (''produci, consuma, cr epa" per d i r l a ,
sinteticamente, co n i Klasse Kriminale) che l o sovrasta, lo
asserve a sé, lo avvilisce. Nel 1930 lo scrittore D. H. Lawrence
notava come la seconda fase della Rivoluzione industriale
inglese avesse cambiato, oltre al paesaggio, l'antropologia,
riducendo l'uomo per una metà a un cadavere, ma con l'altra
metà ancora sufficientemente sensibile per rendersi conto del
proprio stato. Un essere tragico e sofferente (se fossimo stati
resi interamente automi, come nel Mondo Nuovo di Aldous
Huxley, non avremmo problemi). Poiché riteniamo che questa
sensibilità resista, nonostante tutto, anche in moltissimi
uomini e donne d'oggi (da qui il disagio acutissimo del vivere
nella società contemporanea) è a loro che ci rivolgiamo, perché
19
si risveglino, perché rifiutino di essere persone a metà, perché
si riprendano la propria integrità. Questo è il nostro sforzo. E
questo è il senso del nostro giornale.

(dicembre 2008)

20
Noi e Lévi-Strauss
Lévi-Strauss ha compiuto cent'anni. Per questo, e oserei
dire solo per questo, dopo decenni di oblio, si è tornati a
parlare di lui. Claude Lévi Strauss, singolare figura di filosofo,
antropologo, strutturalista, linguista, ha infatti la grave colpa,
che condivide con un altro grande pensatore contemporaneo,
anch'esso oscurato, Karl Polanyi, interessato particolarmente
al versante economico, a una società che non sia, da questo
punto di vista, né marxista né !iberista, di non poter essere
catalogato né di destra né di sinistra. Colpa che neanche i suoi
cent'anni hanno potuto lavare se è vero che in questi mesi di
celebrazioni tutto si è detto di lui tranne che fermarsi sulla
parte più eterodossa e attuale del suo pensiero: il relativismo
culturale.

Il relativismo senza aggettivi, filosofico, ha una lunga


tradizione che va da Montaigne a Voltaire a Nietzsche
all'empirio-criticismo .di Mach e Avenarius per arrivare fino
alle ultime conclusioni della fisica moderna. Il primo a
trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico
è stato Oswald Spengler affermando che tutti principi morali e
religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e
per la durata della civiltà che li ha elaborati e praticati.

L'apporto originale di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato


ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni
interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi
logicamente coerenti strettamente collegati fra loro (come in
una lingua), per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi
comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che
non si può cancellare o estrapolare dalle culture "altre" gli

21
aspetti che non ci piacciono - che è l'arrogante pretesa che
domina oggi in Occidente - senza modificare profondamente
tutto il sistema e quasi sempre farne crollare l'impalcatura. E
questo è esattamente il motivo per cui ogni intervento
occidentale nelle società del cosiddetto Terzo Mondo e in
quelle ancor più arcaiche e primitive le ha disgregate
provocando sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e
mostruosi e alla fine ha, di fatto, distrutto quelle civiltà. Come
è avvenuto per l'Islam se, sotto la pressione ideologica e
armata dell'Occidente, il ruolo della donna musulmana fosse
omologato a quello che ha da noi.

Ma Lévi-Strauss rifiuta anche quella particolare forma dello


storicismo che è l'evoluzionismo secondo il quale le società
partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e
andando verso il più complesso, tenderebbero a un unico fine e
a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello
di sviluppo occidentale quale è oggi. È assurdo, dice Lévi­
Strauss, fare di una società «uno stadio dello sviluppo di
un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse,
che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa
soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella
natura umana. Quelle tradizionali sono tendenzialmente
statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito
dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le società
"calde", come le chiama Lévi-Strauss, a cui la nostra
appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo
economico a danno dell'equilibrio dato che «producono
entropia, disordine, collflitti sociali e lotte politiche, tutte cose
contro le quali i "primitivi" si premuniscono e forse in modo
più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».

Ed è qui che il discorso di Lévi-Strauss si fa attualissimo e


diventa per noi particolarmente interessante. Per due motivi,

22
sostanzialmente. Perché, a due secoli e mezzo dalla
Rivoluzione industriale, usiamo constatare quale disagio
acutissimo abbia provocato nelle nostre vite, in termini di
stress, di angoscia, di tenuta nervosa, di depressione, di
anomia, il forsennato dinamismo, l'assurda velocità, del nostro
modello di sviluppo, rompendo oltretutto i rapporti fra gli
uomini e gli stessi nuclei costitutivi dell'essere umano,
privandolo dei suoi istinti, della sua vitalità, della sua essenza.
E questa è la ragione principale del nostro antimodernismo e
della nostra battaglia.

Ma c'è una ragione, per così dire "esterna", che è quasi


altrettanto importante. Per Lévi-Strauss, e per noi, non
esistono "culture superiori". Esistono solo culture diverse,
ognuna col suo proprio senso. Per questo difendiamo con forza
il principio dell'autodeterminazione dei popoli contro la
pretesa dell'Occidente della "reductio ad unum", cioè a se
stesso, dell'intero esistente, col pretesto di una superiorità
culturale che non è che una variante del razzismo classico, di
nazistica memoria, peggiore perché più subdolo, più ipocrita e
più devastante perché non si accontenta di conquistare
territori e popoli, vuole prendere le loro anime (uno degli
slogan con cui l'Occidente tenta di legittimare la sua presenza
armata in Mghanistan è che dobbiamo «conquistare i cuori e le
menti» degli afgani). Ma il rispetto delle altre culture non ha,
per noi, solo radici di principio. L'omologazione del mondo ad
un unico modello sarebbe mortale, nel senso letterale del
termine. Perché come dice la saggezza popolare che abbiamo
perduto «il sale della vita sta nella diversità».

(gennaio 2009)

23
Elogio della filibusta

Sono tornati i pirati. È tornata la "fairy band" della Tortuga.


Anche se la loro base non sta più nella mitica isola delle
Antille, dove ebbero la loro epopea soprattutto nel XVII secolo,
ma nei porti somali di Harardhere, di Ely e di Bossaso. I pirati
infatti sono somali, per lo più ex pescatori, pattugliano il Corno
d'Africa e il Golfo di Aden, individuano la preda e poi
l'attaccano. Questi nuovi pirati si servono di alcuni mezzi
tecnologici, Internet per trattare lo smercio del bottino e i
riscatti, radar per seguire le rotte oltre che di informatori che
hanno su tutta la costa. Ma al momento del dunque si va con i
vecchi metodi. I bucanieri mascherano i loro navigli come
insospettabili navi d'appoggio, poi, all'ultimo momento,
quando sono vicinissimi, calano dei veloci barchini, con non
più di due o tre uomini a bordo, e via all'arrembaggio con
regolare bandana (che ha un significato un po' diverso da
quello ridicolo di mister Berlusconi). Rubano ma non
uccidono. Se si tratta di petroliere, l'obiettivo più ghiotto, le
sequestrano insieme all'equipaggio e chiedono un riscatto. Nel
2008 hanno fatto 167 arrembaggi, catturato più di cento navi, e
nelle loro mani ci sono attualmente 17 petroliere.

Tengono in scacco le marine militari più sofisticate del


mondo. Cinquanta navi da guerra, americane, russe, cinesi,
australiane, incrociano nelle acque del Corno d'Africa ma senza
cavarne un ragno dal buco. Perché i pirati sono rapidissimi
nell'azione D'arrembaggio della Sirius Star, nave Saudita
battente bandiera liberiana, una superpetroliera da 310 mila

24
tonnellate carica di preziosissimo greggio, è durato quindici
minuti) e nello sganciarsi rifugiandosi in porti sicuri.

Adesso la cosiddetta "comunità internazionale" (ma chi è?)


sta cercando di correre ai ripari costituendo una forza di
intervento, a guida americana, chiamata Combined Task Force
151.

Ma intanto importanti compagnie marittime come la danese


Moeller Maersk, una delle più grandi del mondo, hanno
pensato bene di girare al largo riscoprendo il vecchio Capo di
Buona S�ranza e facendo il giro dell'Mrica. Ma evitare il
Canale di Suez comporta un aggravio di spesa del 40% e un
allungamento del viaggio dai cinque ai quindici giorni. Altre
come la Fortline Ltd stanno negoziando il cambio di rotta con
le più importanti compagnie petrolifere, la Chevron, la Bp, la
Shell, la Exxon Mobil. Insomma la pirateria sta mettendo in
crisi il grande business dell'oro nero.

È stupefacente, ma non privo di significato, che nell'era


della globalizzazione, mentre si va allegramente verso un unico
governo mondiale (a guida americana), un'unica polizia
mondiale, la Nato, un unico diritto, con regole uguali per
l'intero pianeta (e, naturalmente, un unico tipo di individuo: il
Grande Consumatore), rinasca la pirateria. Questa è gente che
se ne frega di Stati, regole e razionalizzazioni. Che vuoi vivere a
modo suo. I pirati somali sono assolutamente a-ideologici.
Quando le Corti islamiche gli hanno chiesto di liberare la Sirius
Star in nome della solidarietà musulmana e perché l'Islam
condanna la pirateria, minacciando di intervenire con la forza,
un portavoce dei pirati (perché hanno, come si deve, anche dei
portavoce) ha risposto: «Non ci provate neanche. Siamo pronti
a respingere qualunque blitz. Non abbiamo nulla contro gli
islamici, lo siamo pure noi, e abbiamo il massimo rispetto del

25
sacro regno saudita. Ma la nave catturata è solo una questione
. di affari». I denari che guadagnano li spendono degnamente,
come è d'uso fra i bucanieri di tutti i tempi: a donne.

Poiché per la comunità internazionale è inconcepibile


qualsiasi cosa che esca dalle sue logiche si è avanzato il
sospetto che siano manovrati dal Mossad per permettere alle
armate occidentali di intervenire direttamente in Somalia
contro le odiate Corti islamiche (in precedenza, quando queste
Corti erano legalmente al potere in Somalia, gli americani
hanno usato come testa d'ariete l'Etiopia imponendo il solito
governo fantoccio). Oppure, all'opposto, che siano seguaci del
fantasma di Bin Laden, un misirizzi ormai buono, insieme al
comico Al Zawahiri, per tutti gli usi.

Ma va là. Sono pirati e fanno i pirati. E noi siamo


perdutamente, appassionatamente con loro.

Con la nuova Tortuga. Con i bucanieri. Con la filibusta.


Perché anche noi, sia pur a modo nostro, meno rischioso,
meno romantico e senza bandana, battiamo bandiera corsara.

(febbraio 2009)

26
Prezzolini: il vizio
inguaribile della
indipendenza

Cent'anni da borderline. Cent'anni di solitudine. Questo è


stato Giuseppe Prezzolini (1882-1982). Nonostante abbia
attraversato nei primi decenni del Novecento le più importanti
esperienze culturali, e non solo culturali, italiane ed europee,
da testimone e da protagonista (nel 1903, a 21 anni, fondò,
insieme a Papini, il Leonardo e nel 1908 La Voce da cui uscì il
meglio, dal punto di vista intellettuale, del fascismo e
dell'antifascismo), questo straordinario poligrafo autodidatta,
giornalista, scrittore, editore, traduttore (introdusse per primo
in Italia Stevenson, London, Novalis, Mauriac) e, su tutto,
grandissimo operatore culturale, è stato sempre isolato. Aveva
il vizio inguaribile dell'indipendenza. Che manifestò fin da
giovanissimo, a 17 anni, lasciando da un giorno all'altro il liceo
per protesta contro una frase infelice di un professore. Pur
essendo amico personale di Mussolini, di cui era stato
mallevadore facendolo collaborare a La Voce dove il non
ancora Duce scrisse alcune bellissime inchieste, nel 1929, a
quasi sessant'anni, sentendo puzza di regime si trasferì negli
Stati Uniti pur avendo una scarsissima opinione della
democrazia («è la parificazione degli sporcaccioni con i
galantuomini»). Da Mussolini avrebbe potuto avere tutto ma
non volle dover nulla al fascismo.

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A New York, per un modesto stipendio, insegnò italiano alla
Columbia University. Sfangava una vita durissima in una
"penthouse", caldissima d'estate, fredda d'inverno. Nel
dopoguerra collaborava, sempre per poche lire, al Resto del
Carlino che senza alcun riguardo alla sua età (aveva ormai
quasi ottant'anni) lo mandava in giro per le Americhe e il
Canada come inviato. Ma finché restò in America tenne botta
magnificamente, come fosse un giovane cronista. Quando nel
1962 , dopo la morte della prima moglie, decise di rientrare in
Italia, stabilendosi a Vietri sul Mare, crollò di colpo,
fisicamente. Nei suoi Diari ci sono delle descrizioni impietose
di questa decadenza. L'aria d'Italia, paese, per eccellenza, dei
"furbi", non era fatta per lui. Nel 1968 si trasferì quindi a
Lugano. Quando qualcuno gli chiese le ragioni di questo
secondo espatrio rispose: «Dovete capire che un uomo della
mia età ha bisogno di un luogo dove i sì siano dei sì e i no dei
no, non degli eterni ni».

Ma era da decenni che, tranne qualche eccezione


(Montanelli che lo considerava il suo maestro), era stato
rimosso e dimenticato da tutti. Dalla destra perché aveva
voltato le spalle al fascismo, dalle sinistre perché lo
consideravano un fascista. Nell'orgia di sinistrismo degli anni
Settanta se per caso si accennava a Prezzolini veniva bollato
come "un vecchio arnese fascista". Poco contava per i
"rivoluzionari con la mutua" che avesse abbandonato il regime,
nelle condizioni per lui più favorevoli, per andare a fare una
vita da cenobita. Ma ancora nel1996, ad acque ormai calmate,
il volume Intellettuali italiani del XX secolo (Editori Riuniti),
curato da Eugenio Garin, che cita persino Claudio Petruccioli,
riservava all' "intellettuale più originale e scomodo del
Novecento", come lo definisce Gennaro Sangiuliano nel suo
recentissimo Giuseppe Prezzolini. L'anarchico conservatore Oa
prima biografia, che io sappia, che gli è stata dedicata), al
28
fondatore e animatore della più importante rivista culturale del
secolo, due reticenti paginette.

Fu per questo che quando, in piena orgia sessantottesca,


Papa Paolo VI, in un'omelia in Piazza San Pietro, disse di
punto in bianco: «E aspettiamo ancora Prezzolini» colse tutti
di sorpresa. Prezzolini, chi era costui per meritarsi un simile
riconoscimento dal Papa? Ma non sfuggiva a un uomo dalla
intelligenza finissima come Montini quale preda prelibata
fosse Prezzolini, un agnostico che per tutta la vita aveva cercato
Dio senza trovarlo (un po' come Ingmar Bergman). Ma
Prezzolini declinò. Era un pessimista cronico. Nei suoi Diari
scrive: "A ottantasei anni e mezzo non ne so di più di quando
ne avevo diciannove".

Delle citazioni da Prezzolini mi piace ricordare questa:


«L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano,
pagano e crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia
sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono». Fu
scritta nel 1921 (Codice della vita italiana) ma mi pare
particolarmente attuale.

Negli ultimi anni voleva donare il suo archivio che, in un


secolo di vita, conteneva carteggi con i più importanti
personaggi del Novecento, alla Biblioteca di Firenze, la sua
città d'origine. Ma gli amministratori fiorentini non lo vollero.
Allora Prezzolini lo donò alla Biblioteca di Lugano. Meglio così.
L'Italia non lo meritava. Era un fesso.

(febbraio 2009)

29
Distruggiaino i Inedia

Io credo che se si farà ancora una Rivoluzione in Occidente


non sarà contro le classi politiche, i governi, la finanza, le
Banche. Sarà contro i Media. Contro i mezzi di informazione di
massa. Non intendo qui la cattiva informazione, ma
l'informazione "tout court", l'informazione in quanto tale. La
parola (e ancor più l'immagine) è diventata una barriera fra noi
e la vita. L'occhio che doveva aprirci il mondo ci ha, in realtà,
rinchiusi in casa ridotti in cattività. E questo vale per tutto il
sistema dei media, nelle dimensioni gigantesche che è venuto
via via assumendo, per la 1V, per Internet, per le e-mail, per gli
sms, per i cellulari, per l'iPod, per la radio, per la carta
stampata. Noi viviamo sempre più di resoconti e sempre meno
in prima persona. Sempre più nel virtuale e sempre meno nel
reale.

L'informazione non fa solo da incessante e intollerabile


sottofondo alle nostre vite, se ne è impossessata. TI mondo
virtuale che ci siamo costruiti ha un grande, anche se
apparente, vantaggio su quello reale. Esclude, proprio perché
tale, la sofferenza e il dolore. Le emozioni, i sentimenti e anche
le passioni che può suscitare sono pure esse virtuali. Le lacrime
che versiamo nel virtuale pur essendo vere sono finte. Perché
non ci implicano realmente. Sono quel tipo di lacrime che
generazioni di donne hanno versato vedendo Via col Vento e
immedesimandosi in Rossella O'Hara ma guardandosi bene
dal diventare Rossella O'Hara. L'eliminazione del dolore e
della sofferenza dalla vita la facilitano, annullandola. Non è più

30
la vita ma la sua parodia. Il problema, dicevo, è
nell'informazione in quanto tale. Non però nella sua essenza,
ma nella quantità, nelle dimensioni che è venuta assumendo
fino a schiacciare, soffocare la vita reale che, certo, c'è ancora
ma ha un posto sempre più marginale di fronte alla
sproporzione dei media.

"Ciò che non fa notizia non esiste" lo si è detto tante volte.


Nel mondo delle comunicazioni di massa, nel mondo della
rappresentazione è la realtà ad essere diventata irreale. Come
sempre, come in tutta la storia della tecnica quando si fa di
massa, siamo vittime di un meccanismo che noi stessi abbiamo
creato. Sicuramente c'è stata una fase iniziale in cui l'uomo era
in grado di controllare i media e di utilizzarli ai propri fini. Ma
poi impercettibilmente il rapporto ha cominciato a invertirsi, i
mezzi di comunicazione a rafforzarsi nella misura in cui l'uomo
abbassava di fronte ad essi (e a causa di essi, qui sta
l'infernalità del meccanismo) le proprie difese in un sinistro
processo sinergico che, lento all'inizio, è diventato sempre più
vorticoso. Come la palla di neve, innocua e graziosa in
partenza, prende forza man mano che scende verso valle fino a
diventare valanga inarrestabile, così il potere dei media, e in
generale della tecnica, di cui l'informazione è un prodotto,
forse il più raffinato, certamente il più insidioso, nutrendosi
lungo il suo percorso di menti sempre più indebolite e incapaci
di resistergli, ha preso dimensioni sempre più mostruose ed è
diventato totalitario e assoluto. Il mezzo si è fatto fine, il servo
padrone (è quello che è successo anche con un'altra raffinata
invenzione umana, il denaro).

E tutto questo è awenuto in modo naturale, com'è naturale


una valanga. Nessuna diabolica mente, nessuna Spectre, ha
pianificato di sottomettere, attraverso il gigantismo dei media,
l'uomo per meglio servirsene. È stato l'uomo a mettersi in
31
trappola da solo. Ad assoggettare l'uomo sono stati proprio gli
strumenti che aveva creato per emanciparsi, per potenziarsi,
per liberarsi. La ricerca della conoscenza, per un estremo
paradosso che sempre segue le vicende umane, ha alla fine
ucciso la conoscenza, mentre, in contemporanea, la razionalità
della tecnica snervava e indeboliva l'uomo, ne annullava il
carattere, gli istinti, la vitalità riducendolo a una poltiglia
indistinta. Media e tecnica, insieme, ci hanno sottratto la vita.
n primo passo per invertire il percorso è la distruzione del
potere dei media. Non sarà una rivolta di classe, ma una rivolta
della poltiglia appena avrà ripreso un minimo di coscienza di
sé. Qualcuno, soprattutto fra i lettori de La Voce del Ribelle,
che sono prevalentemente giovani, obietterà che proprio
Internet, uno dei più sofisticati strumenti della tecnologia
dell'informazione, è un mezzo indispensabile per questa presa
di coscienza e quindi per la ribellione. È vero. n movimento No
Global è nato proprio grazie a Internet (anche se si è
trasformato quasi subito, a causa della grancassa del sistema
complessivo dei media, in New Global, cioè nella solita
esportazione nell'universo mondo del modello di sviluppo ,
occidentale, informazione compresa, solo un poco più
umanizzato). Ma internet ci deve servire per cominciare ad
intaccare la filiera dei media sino a distruggerla, distruggendo,
a processo concluso, anche Internet. Per ritornare ad essere
uomini e non spettatori. Finalmente liberi. Di nuovo vivi.

(marzo 2009)

32
Occidente e
Mghanistan: tra Viagra
e disinforinatia

Una volta c'era la "disinformatia" sovietica. Era così palese e


grossolana da diventare ridicola e infatti in Europa e negli Stati
Uniti era materia di un'infinità di barzellette. Oggi la
"disinformatia" è passata all'Occidente, e, quanto a ridicolo,
non ha nulla da invidiare a quella sovietica, anzi riesce ad
essere perfino peggiore. Alla vigilia dell'8 marzo, festa della
donna, la CNN e le televisioni americane, seguite
pedissequamente da quelle europee e, naturalmente, italiane,
hanno dato notizia che in Mghanistan i Talebani avevano
iniziato una campagna di stupri sistematici. Non è solo una
notizia inverosimile, è inventata di sana pianta.

Se i Talebani si sono affermati in Mghanistan, trovando


l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, è
proprio perché misero fine alle prepotenze, ai taglieggiamenti,
alle estorsioni, alle ruberie, agli assassinii e anche agli stupri
perpetrati dai cosiddetti "signori della guerra" e dai loro
seguaci. La carriera di Leader del Mullah Ornar comincia
proprio così. Dopo aver combattuto, giovanissimo (aveva 19
anni) contro i sovietici, Ornar era tornato a vivere nel suo
povero villaggio vicino a .Kandahar. Una di queste bande aveva
rapito due ragazze del posto e se le era portate in un luogo
sicuro per stuprarle in tutta comodità. Ornar a capo di altri

33
"enfants de pays" aveva inseguito e raggiunto i banditi, li aveva
sconfitti liberando le ragazze e, per buona misura ed esempio,
aveva fatto impiccare il capo della banda all'albero della piazza
del suo paese. E si era comportato nello stesso modo quando,
poco dopo, erano state sequestrate altre due ragazze in un
villaggio vicino. Questa era la sua maniera di difendere la
dignità della donna (in Occidente ci riempiamo la bocca con la
"dignità della donna", ma quando una ragazza viene stuprata
in pieno giorno nel centro di una città, gli strenui difensori di
questa dignità si girano dall'altra parte).

Quando nel 2001 gli americani attaccarono l'Afghanistan


appoggiandosi, sul terreno, ai Tagiki di Massud, una
giornalista inglese penetrò in territorio afgano travestita da
uomo. I Talebani la scoprirono e la arrestarono. Avrebbero
potuto farne quel che volevano, usarla a fini di ricatto come
abbiamo visto fare tante volte in Iraq con i civili, stuprarla o
sottoporla a sevizie e umiliazioni anche peggiori, tipo Abu
Ghraib dove la "cultura superiore" ha dato il meglio di sé, o
semplicemente dimenticarsela in prigione perché avevano
altro cui pensare perché erano in una situazione impossibile
avendo di fronte, sul terreno, uomini di pari valentia guerriera
mentre dal cielo gli irraggiungibili B52 americani
bombardavano a tappeto le loro linee. Invece la trattarono con
il rispetto che sempre si deve a un prigioniero, uomo o donna
che sia, la interrogarono e, appurato che non era una spia come
avevano ragione di sospettare, la riportarono al confine e la
liberarono. E lei si converti all'Islam.

Nell'Afghanistan talebano esisteva un "Corpo per la


promozione della Virtù e la punizione del Vizio" il cui compito
era quello di vigilare sulla morale, in particolare quella
sessuale. I Talebani sono degli integralisti religiosi, dei
puritani, dei sessuofobi se si vuole. Possono essere feroci e
34
crudeli ma lo stupro non solo è estraneo alla loro mentalità, lo
considerano un delitto gravissimo, più dell'omicidio, perché
offende la morale e la donna di cui hanno un'alta concezione
anche se in modo diverso dal nostro. Continuamente le
cronache e i reportage occidentali si occupano, lacrimando,
delle disastrose condizioni in cui versa "questo martoriato
Paese" (come se si fosse "martoriato" da solo e non fossimo
stati noi a ridurlo nelle condizioni in cui è): il tasso di
disoccupazione viaggia fra il 40 e il so%, la corruzione, nel
governo, nell'amministrazione pubblica, nella polizia, è
endemica, i "signori della guerra" hanno ripreso a
spadroneggiare e a taglieggiare (un camionista che attraversi
l'Mghanistan deve passare fra i 20 e i 30 posti di blocco,
pagando ogni volta il "pizzo"), la sicurezza non esiste, il
mercato della droga impera, oggi l'Mghanistan produce il 93%
dell'oppio mondiale. Nessun cronista e nessun inviato però si
chiede mai com'era, da questi punti di vista, la situazione
dell'Mghanistan sotto i Talebani. Perché il confronto sarebbe
devastante. La disoccupazione non c'era. Per il semplice fatto
che, come in tutte le realtà tradizionali, ogni famiglia,
contadina o artigiana che fosse, viveva sul suo e del suo.
L'ingresso dell'economia di tipo occidentale l'ha disgregata.
Facciamo un esempio, piccolo ma significativo. Le donne
afgane continuano a portare il burqua. I burqua erano
confezionati da famiglie di artigiani afgani; adesso li fanno i
cinesi. Perché i cinesi, con le loro macchine, fanno in poche ore
decine di burqua là dove una famiglia afgana per
confezionarne uno ci metteva una giornata. Ergo, migliaia di
persone hanno perso il loro lavoro. La corruzione non c'era.
Perché i Talebani facevano impiccare i corrotti allo stadio, cosa
che tanto faceva inorridire gli occidentali. C'era una giustizia
spiccia, ma c'era. Le estorsioni, i taglieggiamenti, i "pizzi" dei
"signori della guerra" non c'erano per la semplice ragione che i

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Talebani, dopo averli sconfitti, li avevano cacciati dal Paese.
L'Mghanistan era un Paese sicuro. Bastava rispettare la dura
l e g g e i m p o s t a d a i T a l e b a n i . G i n o S t r a d a , c h e in
quell 'Mghanistan ci ha vissuto, mi ha raccontato che vi si
poteva girare, in tutta tranquillità, anche di notte. Nel 2001 il
Mullah Ornar impose e ottenne che i contadini non coltivassero
più il papavero da cui si ricava l'oppio. Un risultato
straordinario, quasi miracoloso se si pensa ad altre situazioni
come, per esempio, la Colombia. Ma documentato e
inoppugnabile: se si guardano i diagrammi si vede che nel
200 2 (anno in cui rileva il prowedimento del Mullah preso nel
2001) la produzione di oppio in Mghanistan crolla quasi a
zero. Con la nostra invasione e occupazione abbiamo distrutto
un Paese che, dopo dieci anni di conflitto con l'Unione
Sovietica e sei di guerra civile, aveva trovato un suo equilibrio e
un suo ordine, sia pure un duro ordine.

Se le cose stanno così perché allora continuiamo ad


occupare l'Mghanistan? Dice: perché lì combattiamo il
terrorismo. Quale terrorismo? Bin Laden è scomparso dalla
scena da cinque anni. E del resto il califfo saudita i Talebani se
lo sono trovati in casa e costituiva un problema anche per loro.
Tanto è vero che quando nel 1998 Bill Clinton propose ai
Talebani di farlo fuori questi si dichiararono disponibili. ll
Mullah Ornar inviò a Washington il suo "numero due", il
ministro degli Esteri Watkij, in possesso di un ottimo inglese, il
quale disse al Presidente USA che il governo talebano era
d'accordo a fare questa operazione, sia direttamente sia dando
agli americani le coordinate esatte di dove si trovava Bin
Laden, purché le responsabilità dell'attentato se le
assumessero gli Stati Uniti. Ma all'ultimo momento Clinton,
che pure era l'autore della proposta, si tirò indietro.
Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantomeno
kamikaze, non è nella loro natura e nella loro cultura, sono dei
guerrieri che è cosa diversa. Non c'era un solo afgano nei
commandos che abbatterono le Torri Gemelle e non è stato
trovato un solo afgano nelle cellule, vere o presunte, di Al
Quaeda scoperte dopo l'n settembre. C'erano arabi sauditi,
yemeniti, giordani, marocchini, algerini, tunisini, egiziani, ma
non afgani. Nei dieci anni di durissima guerra di guerriglia
contro il potentissimo esercito sovietico non si registrò
nemmeno un attentato terroristico, né dentro né fuori
l'Mghanistan (e un Aereiflot poco protetta non sarebbe stata
difficile da colpire). E anche oggi che si trovano di fronte a un
nemico che, a differenza dei sovietici, non ha nemmeno la
decenza e la dignità di stare sul campo, ma bombarda con aerei
senza pilota, i Dardo e i Predator, gli atti terroristici dei
Talebani all'interno di una sperequatissima guerra in cui,
diversamente da quanto succedeva nel conflitto con i russi,
non hanno l'appoggio di nessuno, nemmeno dell'Iran che li
vede come dei pericolosi concorrenti ideologici, più "duri e
puri" e più coerenti, sono molto pochi se paragonati a quanto
successo in Iraq, e sempre mirati a obiettivi militari o politici e
mai contro i civili (anche se hanno pure essi degli "effetti
collaterali", comunque infinitamente inferiori a quelli
provocati dagli americani con i loro bombardamenti a casaccio
sui villaggi). E in ogni caso non si può gabellare una guerriglia
che dura da otto anni, con l'evidente e indispensabile appoggio
di buona parte della popolazione, come terrorismo anche se, di
quando in quando, ne fa uso. Negli stessi documenti interni del
Pentagono e della Cia i combattimenti afgani, talebani e non,
sono definiti "insurgents", insorti. Si tratta di una guerra di
liberazione contro l'occupazione dello straniero che non si vede
da quale punto di vista si possa considerare illegittima. C'è da
aggiungere, infine, che se anche i Talebani riprendessero il

37
potere, da cui sono stati spodestati con la violenza, nel loro
Paese, l'Mghanistan non costituirebbe un pericolo per
nessuno. Non è dotato, a differenza del Pakistan, dell'atomica,
non ha mai posseduto, a differenza dell'Iraq, "armi di
distruzione di massa", è armato in modo antidiluviano e nella
sua lunga storia non ha mai aggredito alcun Paese, né vicino né
lontano. Gli afgani si sono sempre fatti gli affari loro.

E allora perché l'Occidente continua ad occupare


l'Afghanistan seminando morte, distruzione, miseria,
disgregazione sociale ed è anzi considerato da mister Obama, il
nero "democratico", il target principale? Semplicemente
perché non ci piacciono i Talebani, non ci piacciono (ne
abbiamo anzi paura) i loro valori, la loro dura legge, la shariah,
le loro idee (che sono una declinazione radicale del pensiero
khomeinista) che vogliamo sostituire, a tutti o costi, con le
nostre leggi, le nostre istituzioni, la nostra democrazia, i nostri
valori, la nostra devastante economia. E per ottenere questo
obiettivo siamo disposti a tutto, a usare, oltre alle bombe, ogni
mezzo e mezzuccio, dalla "disinformatia" in stile sovietico
all'offerta ai capi tribù - ultima, geniale, idea della CIA di-

Viagra gratis. Quando si arriva a questo vuoi dire che si è


proprio raschiato il fondo della botte. E quando una
democrazia, per combattere le idee altrui è costretta a ricorrere
a questi mezzi, infami o ridicoli, vuoi dire che non è più tanto
convinta delle proprie.

(aprile 200 9)
Iran e Israele: di chi
avere paura?

È più grave la posizione dell'Iran, che ha firmato il Trattato


per la non proliferazione delle armi nucleari, ma che viene
sospettato di voler costruirsi la Bomba, o quella di Israele che
questo Trattato non l'ha firmato e l'atomica ce l'ha già? Sono
più pericolose per Israele le dichiarazioni di Ahmadinejad per
cui lo «Stato sionista scomparirà dalle mappe geografiche o
sono più pericolosi per l'Iran i missili atomici israeliani puntati
su Teheran?» Sono più inquietanti le farneticazioni del
presidente iraniano sull'Olocausto o i piani militari di Israele
per attaccare l'Iran, la cui esistenza è nota da tempo ma di cui
ora il Times rivela i dettagli (F-115 e F-116, assistiti da aerei
radar Awacs, aerei cisterna, elicotteri, sono pronti a volare,
violando lo spazio aereo di altri Paesi, fino a1400 chilometri di
distanza, per colpire, anche con atomiche "tattiche", Natanz,
Isfahan, Arak, i siti dove gli iraniani stanno arricchendo
l'uranio, a loro dire per usi civili)? È più preoccupante per il
mondo che l'Iran abbia mandato in orbita un satellite per le
comunicazioni, come li hanno moltissimi Paesi, l'Italia
compresa, o che Bibi Netanyau faccia capire, un giorno sì e uno
no, di voler attaccare l'Iran?

Su questa faccenda del satellite i giornali occidentali hanno


titolato: "Allarme in tutto il mondo. In orbita satellite iraniano"
e Washington ha fatto conoscere la propria "grave
preoccupazione" perché "potrebbe far presagire lo sviluppo di

39
un missile a lungo raggio da abbinare alla realizzazione di un
ordigno atomico. Gli Stati Uniti sono pronti ad usare tutti gli
strumenti della propria potenza nazionale per indurre l'Iran a
e s s e re u n m e m b r o r e s p o n s a b i l e d e l l a c o m u n it à
internazionale". Un doppio processo alle intenzioni, perché, al
momento, c'è solo il satellite e nessun missile a lunga gittata
né, tantomeno, c'è un ordigno atomico. Che, dall'altra parte,
dalla parte di Israele, l'ordigno atomico ci sia e i missili a lunga
gittata pure, non deve invece destare alcuna preoccupazione.

L'intera "questione iraniana" corre sul filo della più pura


illogicità e prepotenza. Quando Teheran apri i suoi siti per
l'arricchimento dell'uranio gli Stati Uniti pretesero e ottennero
dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che all'Iran
fossero imposte della sanzioni. L'unica cosa che il Consiglio di
Sicurezza poteva e doveva chiedere all'Iran, e solo in quanto
firmatario del Trattato di non proliferazione, era la garanzia
che l'arricchimento dell'uranio fosse adibito ad usi civili, cioè
energetici, e non militari, per costruirsi l'atomica, e che quindi
accettasse le ispezioni dell'Aiea, l'Agenzia dell'Onu per
l'energia nucleare. Ma l'Iran fu sanzionato "a prescindere"
nonostante questi siti fossero stati aperti proprio alla presenza
degli ispettori dell'Aiea. E queste ispezioni sono continuate,
con la piena collaborazione di Teheran, tanto che un mese fa
l'Aiea ha inviato all'Onu un rapporto in cui dichiara che, al
momento, l'arricchimento dell'uranio iraniano non è tale da
poter permettere la costruzione dell'atomica. Ma tutti i giornali
occidentali, o quasi, giocando su quel "al momento", hanno
titolato: "L'Iran si sta costruendo la Bomba".

Uno degli argomenti utilizzati dagli occidentali per


giustificare il loro niet al nucleare civile iraniano è questo: ma
che bisogno ha l'Iran di altre fonti energetiche quando ha già il
petrolio? Ma a parte il fatto che la British Petroleum, che se ne
40
intende, ha calcolato che nel 20 4 9 non ci sarà più petrolio nel
sottosuolo, un Paese avrà o no il diritto di diversificare le
proprie fonti di energia senza dover chiedere il permesso agli
americani? È come se noi italiani volessimo riaprire Caorso e
qualcuno pretendesse di impedircelo perché, in teoria, da lì
potremmo arrivare alla Bomba. Questo "doppiopesismo", che
fa infuriare non solo Teheran, che si vede lesa in un suo
legittimo diritto, ma anche buona parte dei Paesi musulmani, e
avvilisce chi in Europa cerca di avere una visione non
totalmente autoreferenziale perché capisce che anche gli altri
popoli possono avere verso di noi le stesse paure che noi
abbiamo verso di loro, si basa sulla convinzione che esistono
degli Stati ''buoni", perché democratici, e quindi "membri
responsabili della comunità internazionale" che mai si
sognerebbero di usare l'atomica, e Stati "cattivi", anzi "Stati
canaglia" (definizione che fa il paio con quella di "Stato
totalmente razzista" affibbiata da Ahmadinejad ad Israele alla
recente Conferenza Onu di Ginevra), perché non democratici e
quindi capaci di ogni avventurismo, anche di sganciare
l'atomica. Beh, il solo Stato che attualmente ha precisi piani di
attacco atomico ad un altro Paese è il democratico Israele e
sarà bene ricordare che gli unici nella Storia che hanno usato la
Bomba sono stati i campioni dei campioni della democrazia, gli
Stati Uniti d'America. Ottantamila morti in un colpo solo, a
guerra finita, e milioni di focomelici semplicemente per far
sapere al nemico di turno, l'Unione Sovietica, che si era in
possesso di quest'arma micidiale.

(maggio 2009)

41
Milis ! (altro
che Noen1i . . . )

All'epoca in cui fu varato il "lodo Alfano", con l'avallo e la


firma di quel Re Travicello che risponde al nome di Giorgio
Napolitano, noto nella quarantennale vita politica che ha
preceduto la sua ascesa al Quirinale, solo per un'inquietante
somiglianza con Umberto di Savoia, scrissi sul Gazzettino che
quella legge infame, che viola in modo sfacciato il cardine
stesso di una liberaldemocrazia, cioè l'uguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla legge, sarebbe servita a Berlusconi fino a
un certo punto. Se infatti il Tribunale di Milano avesse
condannato l'avvocato inglese David Milis per essersi fatto
corrompere con 6oo mila dollari da Berlusconi per rendere
falsa testimonianza in alcuni processi in cui il Cavaliere era
imputato, la posizione del premier sarebbe stata, ovviamente,
quella del corruttore, anche se per il momento non
perseguibile penalmente. È quanto puntualmente avvenuto.

Milis è stato dichiarato corrotto e, implicitamente,


Berlusconi corruttore. Il presidente del Consiglio si è difeso al
suo solito modo. Ha gridato che la sentenza è «una vergogna,
uno scandalo, contraria alla realtà, emessa per giunta da parte
di un giudice ricusato» (dimenticando che la Cassazione ha
rigettato la sua istanza di ricusazione). Si è detto disposto a
giurare la propria innocenza «sulla testa dei miei figli». Ha
parlato di «giustizia a orologeria» perché le motivazioni sono
state depositate prima delle elezioni europee. Ancora: ha
affermato che i magistrati di Milano sono «l'altra faccia di un
42
Paese che ha nei miei confronti solo odio politico e invidia» e
ha minacciato un intervento in Parlamento dove «dirò
finalmente quello che ho da dire su certi magistrati». Un
bagaglio di affermazioni gravissime, nel loro complesso e prese
una per una, quanto illogiche e sconclusionate, cui però il
cittadino italiano non fa quasi più caso tanto vi è abituato. Se
toccasse all'imputato giudicare i propri giudici, e non
viceversa, nessuno sarebbe mai colpevole. Lo stesso se bastasse
giurare la propria innocenza sulla testa dei figli. Solo gli sterili
e gli infecondi avrebbero qualche possibilità di finire in
gattabuia. Se i giudici dovessero tener conto delle infinite
scadenze elettorali italiane non potrebbero mai emettere una
sentenza e in ogni caso i magistrati di Milano hanno depositato
le motivazioni entro i 6o giorni previsti dalla legge. Se ci
avessero messo più tempo - non per il processo Milis
naturalmente, per qualche altro procedimento - sarebbero stati
accusati di essere dei "giudici lumaca" e l'ineffabile ministro di
Grazia e Giustizia Angelino Alfano avrebbe mandato i suoi
ispettori. In quanto alla minaccia di andare in Parlamento "per
dire finalmente quello che ho da dire su certi magistrati"
significherebbe trasformare un processo penale in un processo
politico per autoassolversi (con una sovrapposizione del potere
esecutivo e legislativo su quello giudiziario) come fece
Mussolini all'epoca del delitto Matteotti e come tentò di fare
Bettino Craxi quando fu preso con le mani sul tagliere dai
magistrati di Mani Pulite. Ma Berlusconi ha fatto anche
qualcos'altro, di un poco più astuto, astuzie da magliari
naturalmente: ha accostato il "caso Mills" al "caso Noemi". E la
sinistra e i suoi giornali ci sono cascati immediatamente. Per
giorni e giorni hanno insistito sul "caso Noemi" tralasciando la
sentenza Milis. È come se uno si occupasse di un adulterio
quando c'è di mezzo un omicidio. Una cosa sono infatti i
comportamenti privati del premier che, se non si concretano in

43
reati, dovrebbero essere fatti suoi, come quelli di ogni altro
cittadino, altra è la sentenza di un Tribunale che, sia pur in
primo grado, ha accettato che il presidente del Consiglio ha
corrotto un testimone perché dichiarasse il falso. Questo lo
capisce anche un bambino, purché non sia di sinistra.

La sentenza Mills è devastante non solo in sé, perché ha


accertato che Berlusconi ha commesso un reato gravissimo, ma
perché, attraverso le testimonianze mendaci dell'awocato
inglese il Cavaliere è uscito assolto da una serie impressionante
di reati: corruzione della Guardia di Finanza, violazione della
legge sulle concentrazioni editoriali (caso Telepiù),
finanziamenti illeciti per10 miliardi all'allora segretario del Psi
Bettino Craxi, occultamento di società offshore della Fininvest
con prelievo in contanti di 100 miliardi, in barba al Fisco
italiano, così occhiuto con i comuni mortali. Per molto, molto
meno, per non aver pagato i contributi della colf o per aver
lucrato sulle note spese, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna
uomini politici, che non avevano le responsabilità di
Berlusconi, hanno visto stroncata la loro carriera e ministri
sono stati costretti a dimettersi da un giorno all'altro. Da noi
invece Berlusconi resta al suo posto. E la sinistra preferisce
occuparsi di Noemi. Si dice che lo faccia perché è convinta che
il "caso Noemi" tolga più consensi al Cavaliere del caso Mills. Il
dalemiano Nicola La Torre, capogruppo del Pd al Senato, a
proposito della sentenza Mills ha detto: «C'è il rischio che
quello che Berlusconi ha perso con la storia di Noemi lo
riguadagni ora con questa vicenda». A parte che non si capisce
assolutamente, almeno secondo la logica di un Paese appena
normale, perché un Presidente del Consiglio accusato di
corruzione da un Tribunale dello Stato di cui egli è uno dei
massimi rappresentanti dovrebbe guadagnare consensi invece
di perderli, questo non è un bel modo di ragionare. Non si
tratta qui di giocare al "cui prodest" ma di affermare principi
44
fondamentali e irrinunciabili. Ma questo alla sinistra non pare
interessare. E probabilmente non interessa nemmeno al
popolo italiano che si sta sempre più confermando un popolo
di bacchettoni, di guardoni, di gossippari e, soprattutto, di
sudditi ignoranti che non sanno più distinguere cosa è
importante e cosa non lo è o lo è molto di meno.

(giugno 2009)

45
La den1ocrazia
secondo Gheddafi

n pulpito, lo ammetto, non è dei migliori, ma Muhammar


Gheddafi, nel suo turbinoso viaggio romano, due cose
ineccepibili le ha dette: 1) I partiti non sono la democrazia ma
la sua degenerazione; 2 ) L'alternanza non significa altro che a
un'oligarchia di potere se ne sostituisce un'altra.

La prima affermazione potrebbe essere condivisa da Stuart


Mill e Locke, i padri nobili della liberaldemocrazia, che nelle
loro opere non fanno mai cenno a:i partiti. E Max Weber, nel
1920 , nota come, fino ad allora in nessuna Costituzione
democratica fossero inseriti i partiti. E persino la nostra
Costituzione, che pure nasce da un substrato partitocratico (il
Cln) dedica ai partiti un solo articolo (il 4 9) non fra i primi e,
soprattutto, non compreso fra quei "Principi fondamentali",
inalienabili, che stanno alla base della Carta. La diffidenza,
anzi l'ostilità, dei pensatori liberali nei confronti dei partiti è
facilmente comprensibile. Il pensiero liberale voleva
valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell'individuo, del
singolo, mettendo tutti i cittadini alla pari almeno sulla linea di
partenza (poi vinca il migliore, ma anche qui con alcune
limitazioni in campo economico dove Adam Smith e David
Ricardo bollano l'oligopolio, o peggio il monopolio, come
illiberali e illiberisti in quanto rendite di posizione che falsano
o addirittura impediscono la gara). Ora, il partito, la lobby o
qualsiasi altro tipo di consorteria, lede in radice questo
principio dell'uguaglianza sul nastro di partenza. La scuola
46
elitista italiana dei primi del 'goo, Vùfredo Pareto, Roberto
Michels, Gaetano Mosca, ha detto cose definitive in proposito.

Scrive Mosca in La classe politica "cento che agiscano


sempre d'intesa e di concerto gli uni con gli altri trionferanno
sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun
accordo tra di loro". E qui ci si lega alla seconda affermazione
di Gheddafi. La democrazia rappresentativa non è la
democrazia. È un sistema di "poliarchie" come si esprime
pudicamente Giovanni Sartori o, per dirla col nostro linguaggio
un po' più crudo, di minoranze organizzate, di oligarchie, di
lobbies, di mafie, di aristocrazie mascherate che pretendono
l'obbedienza in cambio di vantaggi e che schiacciano
l'individuo, il singolo, l'uomo libero, che ha ancora coscienza
della propria dignità e non accetta di sottomettersi a questi
umilianti infeudamenti, cioè proprio il soggetto che sarebbe il
cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne
diventa invece la vittima designata. Nota Pareto: "Abbiamo
ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parte,
riproduce la sostanza dell'antica. Ai tempi di questa i signori
radunavano i vassalli per fare la guerra e, se conseguivano
vittoria, li ricompensavano col bottino. Oggi i politicanti
operano nello stesso modo e radunano le loro truppe per le
elezioni, per compiere atti di violenza e per conseguire per tale
modo utili che la parte vittoriosa si gode". Ma fra le aristocrazie
storiche e quelle attuali, mascherate sotto la forma
democratica, ci sono almeno due differenze sostanziali. I nobili
avevano alcuni rilevanti privilegi, non lavoravano, non
pagavano le tasse, avevano un diritto diverso dal resto della
popolazione (esattamente come i nostri parlamentari, i quali
non lavorano, non pagano le tasse su una quota altissima, 100
mila euro, dei loro già rilevanti emolumenti, si sono costruiti di
fatto un diritto proprio - vedi le varie immunità e impunità fino
al culmine del "lodo Alfano" una sottrazione al diritto penale di
47
cui nemmeno il re feudale godeva) a petto dei quali avevano
però anche degli obblighi: a loro spettava la difesa del
territorio, e quindi il mestiere delle armi, inoltre dovevano
amministrare la giustizia nei loro feudi. I politici democratici
hanno i privilegi delle aristocrazie senza averne gli obblighi.

La seconda differenza, ancora più incisiva, è la seguente. Gli


appartenenti alle aristocrazie storiche si distinguono perché
posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma
comunque credute tali dalla comunità, dalle quali traggano la
loro leadership e la legittimità a governare. Nel feudalesimo
occidentale e orientale i nobili sono coloro che sanno portare le
armi, in certe epoche dell'antico Egitto la professione di scriba
conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la
conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della
scrittura era la base della casta dei mandarini, nella Roma
repubblicana il comando, attraverso la trafila delle
magistrature (questore, edile, pretore, console) andava ai
giurisperiti che, in genere, erano anche uomini d'arme, in altre
realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti
particolari per mediare con la divinità oppure l'autorità era
conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori della
saggezza (com'è ancora presso i popoli cosiddetti tradizionali).
E così via. Chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha
qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da
persone che hanno come elemento di distinzione unicamente,
e tautologicamente, quello di fare politica. La loro
legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha
prodotte. Sono i professionisti della politica che vivono di
politica e sulla politica secondo la lucida e spietata analisi di
Max Weber. Poiché non è necessario avere alcuna qualità
prepolitica (che anzi può essere d'ingombro), la selezione della
nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica,
avviene all'interno degli apparati di partito, attraverso lotte
48
oscure, feroci, degradanti e con un ricorso sistematico alla
corruzione per procacciarsi il consenso. Oppure avviene per
cooptazione sulla base della fedeltà canina dell'adepto o per un
qualche capriccio del capobastone. Se quindi, per caso, l'uomo
entrato in politica aveva qualche qualità la perde facendo
politica in questo pantano democratico.

L'oligarca democratico è perciò, necessariamente, un uomo


senza qualità. La sua unica qualità è non averne alcuna. Che
noi cittadini, uomini formalmente liberi, si paghi della gente
perché ci comandi e ci asservisca - perché questa, e non altro, è
la democrazia rappresentativa - è già espressione di un
masochismo abbastanza impressionante che, come notava
Jacques Necker nel 1792, "dovrebbe lasciare stupiti gli uomini
capaci di riflessione". Ma che ci si sottometta ai Frattini agli
Scajola ai Cicchitto alla Carfagna o domani, nell"'alternanza"
denunciata dal colonnello Gheddafi, ai Franceschini, ai
Veltroni o a altre amebe di sinistra, è cosa talmente grottesca e
avvilente che in altri mondi, più virili, provocherebbe
rivoluzioni e bagni di sangue. Ma poiché non siamo più uomini
ma delle femmine felici di prenderlo in ogni orifizio, anche
nelle orecchie, tutto rimarrà così com'è. Almeno per qualche
tempo ancora. Perché prima o poi, come è sempre avvenuto
nella Storia, verrà anche per le democrazie l'ora della resa dei
conti.

(luglio 2009)

49
Fuori dalla Nato
fuori dall'Afghanistan

Per gli europei, almeno quelli che durante la "guerra fredda"


appartenevano al blocco dell'Ovest, ci sono molte buone
ragioni per lasciare l'Afghanistan e una guerra combattuta
senza motivo, senza logica, senza etica e senza onore (mezzi
tecnologicamente sofisticatissimi, aerei, Predator e Dardo,
senza pilota ma muniti di missili assassini, contro uomini
armati quasi solo della loro pelle e del loro coraggio). Ma una
delle ragioni è la stessa per cui gli americani ci vogliono
rimanere a tutti i costi coinvolgendo gli alleati. Ed è che
l'eventuale sconfitta della Nato in Afghanistan significherebbe
la fine della Nato.

E ciò non può che convenire all'Europa. La Nato è stata


infatti per più di mezzo secolo, e ancora lo è, lo strumento con
cui gli americani, forti della vittoria nella seconda guerra
mondiale, hanno tenuto l'Europa in uno stato di minorità, di
sovranità limitata, soggiogandola militarmente, politicamente,
economicamente e, alla fine, anche culturalmente.

Finché è esistita l'Unione Sovietica questa alleanza impari


con gli Stati Uniti era obbligata, perché solo gli americani
possedevano il deterrente atomico per dissuadere l"'orso
russo" dal tentare avventure militari in Europa Ovest. Ma dopo
il crollo del muro di Berlino l'Alleanza atlantica per noi europei

so
non ha più senso. Ne paghiamo tutti i pedaggi, come un tempo,
senza averne, a differenza di un tempo, i vantaggi. Per la verità
dubbi sulla Nato sarebbero dovuti venire già a metà degli anni
Ottanta quando Ronald Reagan in un momento di stanchezza
o di ubriachezza o di inizio di Alzheimer o di brutale sincerità
si lasciò sfuggire che «l'Europa può essere teatro di una guerra
nucleare limitata». Cioè che non era affatto scontato, come
pensavano gli alleati europei, che se l'Urss avesse sganciato
l'atomica su B o n n o su R o m a s a r e b b e r o p a rtiti
immediatamente dagli Stati Uniti dei missili nucleari diretti a
Mosca, ma sarebbero stati indirizzati su Praga o Sofia o
Bucarest, lasciando intoccate le due Superpotenze.

In ogni caso è certamente dal 1989 che l'Europa avrebbe


dovuto cominciare a prendere le distanze dagli Stati Uniti che,
liberatisi del loro principale competitore militare, si sono
lanciati in una politica estera avventurista che, in nome della
pace e della sicurezza o dei "diritti umani", ha già causato
quattro guerre: all'Iraq (1990), alla Serbia e quindi a una parte
dell'Europa, (1999), all'Afghanistan (2001), di nuovo all'Iraq
(2003) e, un giorno sì e uno no, per compiacere l'alleato
israeliano, ne minaccia una quinta, all'Iran.

Con molti anni di ritardo, quasi quindici, alcuni importanti


Paesi europei, come la Germania, la Francia, la Spagna, meno
caninamente servili dell'Italia di Berlusconi, hanno cominciato
perlomeno a tentare di smarcarsi dal pericoloso e inquietante
"amico americano". Francia e Germania non hanno mandato
truppe in Iraq, la Spagna di Zapatero le ha ritirate.

Anche con l'Iran la politica dei Paesi europei è stata molto


più cauta. Agli Stati Uniti, come collante in politica estera,
resta solo l'Afghanistan dove sono riusciti a coinvolgere i Paesi
europei sull'onda dell'emozione suscitata dagli attentati dell'n

51
settembre e della lotta al terrorismo internazionale. Ma oggi, a
otto anni di distanza, l'Afghanistan non c'entra più nulla col
terrorismo, ammesso che ci abbia mai avuto a che fare. Bin
Laden - che, come ho documentato in altra occasione,
costituiva un problema anche per il governo del Mullah Ornar -

è scomparso da tempo. Gli afgani, per loro natura e cultura,


non sono terroristi. Sono dei guerrieri, che è cosa diversa.

Tantomeno sono dei terroristi internazionali. Gli interessa


solo il proprio Paese. Non c'erano afgani nei commandos che
abbatterono le Torri Gemelle. Non un solo afgano è stato
trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte
dopo l'n settembre. C'erano arabi sauditi, giordani, yemeniti,
egiziani, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissima
guerra di guerriglia contro i sovietici non si è registrato un solo
atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né in Afghanistan né
fuori (eppure un'Areoflot poco protetta non era difficile da
trovare).

E se oggi i Talebani si sono decisi a ricorrere, all'interno


della guerriglia, anche ad atti di tipo terroristico (comunque
relativamente pochi se pensiamo all'Iraq e sempre mirati a
obbiettivi militari o politici) è perché si trovano di fronte, a
differenza che con i sovietici, un esercito che non ha nemmeno
la decenza di battersi sul campo, un esercito seminvisibile che
usa i Dardo e i Predator.

Dice: ma i Talebani sono alleati con i terroristi di Al Quaeda.


La Cia ha calcolato che fra i circa so mila guerriglieri talebani
ci sono 350 stranieri. Ma sono ceceni, uzbeki, turchi. Non
arabi. Del resto per escludere che il terrorismo internazionale
si annidi in Afghanistan basta un ragionamento semplice. Che
interesse avrebbero i terroristi internazionali a concentrarsi in
un Paese dove ci sono Bo mila soldati della Nato e non

52
piuttosto nello Yemen, dove sono protetti dal governo, o in
Giordania, in Arabia Saudita, in Egitto dove possono
mimetizzarsi facilmente fra la popolazione per preparare in
tutta tranquillità i loro eventuali attentati?

Bisogna finirla con questa menzogna insostenibile, e quasi


oscena, che gli occidentali sono in ·Mghanistan per fare la
guerra al terrorismo. Non si può gabellare per terrorismo una
resistenza allo straniero che dura da otto anni, che tiene in
scacco il più potente esercito del mondo e che ha, con tutta
evidenza, l'appoggio di buona parte della popolazione senza il
quale non potrebbe esistere.

Il fatto è che gli Mgani, talebani e non, non tollerano di


avere sulla testa gli scarponi chiodati di eserciti stranieri. Lo
hanno dimostrato con gli inglesi nell'Ottocento, con i sovietici
vent'anni fa. E ancor meno sopportano gli occidentali che per
soprammercato, a differenza di inglesi e sovietici, non si
limitano ad occupare ma pretendono di rubargli l'anima (cioè i
loro usi, i loro costumi, le loro tradizioni, il loro sistema di vita,
la loro concezione della famiglia e del ruolo che la donna ha al
suo interno, la loro organizzazione sociale) per sostituirla con
la propria. E non saranno certo le elezioni-farsa del 20 agosto,
mandate in onda dai media italiani con la stessa ottica con cui
valutano gli sconci equilibrismi della politica di casa nostra, a
cambiare questo stato di cose. La guerriglia continuerà. E se
dovesse vincere sarà la fine della Nato e la liberazione
dell'Europa.

(settembre 2009)

53
Altro ch.e sdegno

"Sgomento" e "sdegno" sono stati espressi da molti uomini


politici e commentatori dopo la morte dei sei soldati italiani
caduti in un'imboscata talebana a Kabul. Capisco lo sgomento,
non lo sdegno. Noi italiani abbiamo la curiosa pretesa di fare la
guerra, di avere licenza di uccidere senza però ritenere
legittimo che ci sia resa la pariglia. E invece in guerra la
speciale legittimità di uccidere, che non esiste in tempo di
pace, deriva proprio dal fatto che si può essere, altrettanto
legittimamente, uccisi. Se solo uno può colpire e l'altro solo
subire siamo fuori dal campo della guerra, ma entriamo in un
ambito che, come scrive il polemologo Lewis A Coser, "non si
differenzia dall'attacco dello strangolatore contro la sua
vittima" (Le funzioni del conflitto sociale, Feltrinelli). In un
conflitto armato i caduti, anche se in proporzione diversa, ci
sono da entrambe le parti.

È la legge della guerra. Che gli inglesi conoscono bene e che


noi sembriamo aver dimenticato. Solo nei mesi di luglio e
agosto i britannici hanno perso 31 uomini. Hanno onorato,
com'è giusto, i loro caduti, come è giusto che noi onoriamo i
nostri, ma nessuno ha espresso "sdegno", e per la verità
nemmeno "sgomento", per quanto era accaduto. Sdegnarsi di
che? Che quelli che noi colpiamo cerchino a loro volta di
colpirci, con i mezzi che hanno? Noi possediamo armi
tecnologicamente sofisticatissime, i Talebani quasi solo i loro
corpi.

54
Spiace, ma è doveroso dirlo: l'attacco ai Lince italiani era
perfettamente legittimo perché diretto contro un obbiettivo
militare. Dobbiamo piantarla di negare a chi ci combatte (a chi
combatte un esercito occupante) la legittimità del combattente,
considerandolo semplicemente un criminale (criminali sono i
Talebani, criminali erano gli iracheni, criminale era Milosevic)
e riservando questa legittimità solo a noi.

Peraltro ci sarebbe anche un'altra considerazione da fare. I


guerriglieri (non solo in Mghanistan, ma in ogni guerriglia)
sono stati spesso accusati di usare i civili, fra i quali si
mescolano, come "scudi umani".

Ma lo stesso si potrebbe dire per i mezzi corazzati


occidentali che circolano nelle ore di punta per le strade
principali di Kabul, affollatissime. È quello che ha osservato un
giovane afgano, Siddiquat, che ha un negozietto che si affaccia
sulla strada dove è avvenuto l'agguato: "Perché le truppe Isaf
devono passare proprio da questa strada? Sanno di essere
obbiettivo dei Talebani e dunque perché almeno per viaggiare
non evitano le ore di punta? L'Isaf dimostra di non dare alcun
valore alla vita degli afgani". Evidentemente le forze
occidentali si comportano in questo modo perché pensano che
la presenza della popolazione possa essere un deterrente per i
Talebani che non hanno alcun interesse ad inimicarsela dato
che il suo appoggio è per loro vitale.

Quanto è accaduto a Kabul era inevitabile. Era anzi


annunciato. Fino agli inizi di quest'anno ce l'eravamo cavata
con poco, grazie a un accordo con i Talebani : noi
controllavamo il territorio per modo di dire e loro ci lasciavano
in pace. Accordi del genere li fanno anche gli altri. In alcune
aree del Paese i contingenti occidentali pagano tangenti ai
Talebani in cambio di protezione. ll paradosso dei paradossi

55
che dice quale sia la reale situazione in Mghanistan e chi
controlli il territorio.

Ma il 2 maggio una pattuglia di soldati italiani, con i nervi


evidentemente a fior di pelle, ha sparato contro una Toyota che
procedeva in senso inverso, regolarmente sulla propria corsia,
scambiandola per una macchina di attentatori, e ha ucciso,
decapitandola, una bambina di dodici anni.

L'accordo è saltato. Da quel momento dovevamo attenderci


il peggio. Lo scrissi sul Quotidiano Nazionale in un articolo
intitolato: "I parà in Mghanistan in mezzo a una guerra.
Aspettiamoci il morto" (2/6/2009). È iniziato così uno
stillicidio di attentati molto meno "dimostrativi" di quelli che
c'erano stati fino ad allora. I Lince hanno cominciato a saltare
in aria, pur senza causare vittime. TI 12 giugno sono stati feriti
tre alpini. A metà luglio è stato ucciso Alessandro Di Lisio.
Quindi è arrivato il botto terrificante di Kabul. E il peggio deve
ancora venire.

È ovvio che non dobbiamo lasciare l'Mghanistan perché


abbiamo avuto dei morti. Gli americani sono a oggi
(18/09/2009) a quota Bso, gli inglesi ne hanno persi 216, i
canadesi 131, la Danimarca 26, più del 10% del suo piccolo
contingente di 200 uomini. Ma la domanda "Che cosa ci
stiamo a fare in Mghanistan?" abbiamo pure il diritto di porla
e di porla alle nostre classi dirigenti. È escluso che stiamo
facendo la lotta al terrorismo internazionale perché il
terrorismo internazionale non sta in Afghanistan, la
componente di Al Quaeda, ammesso che ci sia, nella guerriglia
talebana è del tutto marginale e non ha alcuna voce in capitolo.
È escluso che vi si possa e che abbia un senso portarvi la
democrazia, mentre è certo che vi abbiamo portato, rispetto al
periodo talebano, instabilità, insicurezza, disoccupazione,
disagio sociale, corruzione, droga e, diciamolo pure, il nostro
marciume morale. E allora? Le ragioni ce le ha spiegate, senza
vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere della Sera (19/9): gli
americani devono salvare la faccia, i Paesi alleati ritagliarsi una
fetta di prestigio internazionale.

È per la bella faccia delle nostre classi dirigenti che


mandiamo a morire inutilmente i nostri "ragazzi" e
continuiamo ad ammazzare a decine, a centinaia di migliaia,
gente che non ci ha fatto nulla di male, che vive a cinquemila
chilometri di distanza da noi e che non saprebbe nemmeno
della nostra esistenza se non fossimo lì a rompergli i coglioni.

(ottobre 2009)

57
Fukuyaina reloaded
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nel 1989, il politologo
americano di origine giapponese Francis Fukuyama in un libro
intitolato "The End of the History and the Last Man" decretò
perentoriamente che la Storia era finita. Poiché le democrazie
avevano sconfitto, dopo i nazifascismi, anche il loro ultimo
avversario, il comunismo, non c'era più nulla da fare né
obbiettivo da perseguire e l'Occidente poteva godersi
serenamente il suo trionfo per l'eternità.

La tesi di Fukuyama si basava sulla convmz10ne che


esisterebbe una Storia generale dell'umanità valida per tutte le
civiltà, per tutte le culture, per tutti i popoli del mondo che
sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti dalla
logica di un ferreo disegno finalistico verso "la Terra Promessa
della Democrazia, della diffusione di una cultura generale del
consumo, del capitalismo su base tecnologica".

Come si è visto la Storia non è affatto finita col 1989, sotto


certi aspetti si potrebbe anzi dire che era appena cominciata. E
uno che ha scritto le castronerie cosmiche che ha scritto
Fukuyama avrebbe dovuto andare a nascondersi in Nuova
Zelanda sotto una pecora merinos, quelle col pelo lunghissimo,
nutrito con bacche e licheni da qualche pietoso e inconsapevole
Maori. Invece in questi anni Fukuyama ha continuato a
pontificare, è stato consigliere di George W. Bush, con le
conseguenze che abbiamo visto, e adesso riappare bel bello,
come se nulla fosse, sul Corriere della Sera (23/10/09).
Ammette che beh, sì, effettivamente, la Storia non è finita nel
1989, ma si tratta semplicemente di aspettare ancora un po' e
di aiutare, magari con qualche bombetta all'uranio impoverito,

ss
le popolazioni che, per pura maleducazione, non sono ancora
democratiche a diventarlo. È insito in ogni progressismo e
storicismo, di destra e di sinistra, la convinzione che la Storia
umana abbia un fine e quindi, dovendo questo fine essere
prima o poi raggiunto, anche una fine. Tesi paranoica perché la
Storia finirà solo quando anche l'ultimo uomo avrà esalato
l'ultimo respiro, che ha come unico sostegno la nostra
disperazione perché che la Storia non abbia un fine e quindi
l'umanità un senso è un boccone troppo amaro da mandar giù,
ma particolarmente ridicola e infantile se applicata alle
istituzioni politiche e proprio alla luce della Storia. Quasi tutti i
regimi politici si sono pensati come eterni in quanto migliori
degli altri. Anche Hitler profetizzava un "Reich dei mille anni"
e abbiamo visto come è andata a finire. Sembra rendersene
conto persino Fukuyama che in quel libro scriveva: «Anche
altre epoche, meno riflessive della nostra, hanno pensato di
essere le migliori». Poi però lo sciagurato aggiungeva: «Ma noi
siamo arrivati a questa conclusione stanchi, per così dire,
dell'aver cercato alternative che secondo noi dovevano essere
migliori della democrazia liberale» (Devo dire che l'ingenuità
di questo Fukuyama è quasi commovente. Mi ricorda un mio
amichetto d'infanzia, Paolo Mosca, il quale una volta che,
tredicenni, assistevamo alla messa mi disse: «Lo sai che ci
sono anche tante altre religioni oltre la nostra e che ognuna
crede di essere l'unica vera? Pensa come siamo stati fortunati
noi a nascere in quella davvero vera»).

Anche la democrazia liberale, nonostante i deliri di


immortalità dei suoi ultrà, farà la fine che si merita, la fine di
tutte le costruzioni umane che sono per loro natura caduche.
In particolare quelle politiche che si sono dimostrate assai più
fragili e transeunti delle religiose, proprio perché, a differenza
di queste, devono misurarsi con la dura realtà e non con la
metafisica. Scriveva Lord Halifax nel 1684, quando gli uomini,
59
non avendo la Tv, erano più intelligenti: «Niente di più certo
del fatto che tutte le istituzioni umane cambieranno e con esse
le cosiddette basi del governo» . Quindi, tranquilli, non
moriremo democratici.

Ma quello della democrazia e m fondo un problema di


secondo grado. La democrazia rappresentativa è solo
l'involucro legittimante della vera polpa, "la diffusione di una
cultura generale del consumo, del capitalismo su base
tecnologica", vale a dire il modello di sviluppo che a partire
dalla Rivoluzione industriale si è affermato in Occidente, e che
sta cercando di costringere a sé anche tutti gli altri popoli,
basato sul meccanismo produci-consuma-produci che ci ha
ridotti a tubi digerenti, a lavandini, a water che devono
ingurgitare il più velocemente possibile ciò che altrettanto
velocemente producono. Molta gente, molta di più di quanto si
pensi e di quanto traspaia da una pubblicistica interamente
asservita al pensiero che sembra dominante, comincia a
rendersi conto che questo modello, invece di darci non dico la
felicità (parola proibita che non dovrebbe mai essere
pronunciata) èhe stolidamente ci aveva promesso, ma almeno
un poco di serenità, provoca un disagio acutissimo, suicidi
(decuplicati, in Europa, rispetto al XVII secolo) stress, nevrosi,
depressione, alcolismo di massa, droga, che sono tutte malattie
della Modernità, e poiché si fonda su mete che vengono
continuamente spostate in avanti, e quindi di fatto
irraggiungibili, determina in tutti, ricchi o poveri che si sia, ad
un certo momento della vita un senso di intollerabile scacco
esistenziale.

È a queste persone che la nostra Voce vuole dar voce.

(novembre 2009)

6o
ln1rnigrati
e globalizzazione

Che le ondate migratorie delle popolazioni del cosiddetto


Terzo Mondo verso il cosiddetto Occidente provochino
problemi colossali sia nei Paesi verso cui si dirigono, sia in
quelli da cui provengono (ma questo interessa meno, anzi
nulla) è fuori discussione. Lasciando pur perdere l'Italia dove il
dibattito ha raggiunto livelli altissimi con una terminologia
("stronzo") che è perfettamente adeguata alla nostra società,
anche negli altri Paesi occidentali ci si guarda bene
dall'affrontare, almeno concettualmente, le radici profonde del
fenomeno migratorio.

L'immigrazione è figlia della globalizzazione. Questo è


evidente anche a un bambino anencefalo. Ciò che non viene
mai chiarito a fondo è la natura della globalizzazione.

Si tratta dell'espansione del modello di sviluppo occidentale


che, partita dall'Inghilterra a metà del XVIII secolo, ha via via
invaso l'intero pianeta fino a raggiungere, nell'ultimo mezzo
secolo, anche i Paesi di quello che chiamiamo Terzo Mondo.

È la nuova forma che ha assunto il colonialismo occidentale,


non più militare, (salvo casi estremi di Paesi particolarmente
riottosi e maleducati come l'Mghanistan) ma economico. Con
conseguenze molto più devastanti di quelle che aveva
provocato il colonialismo classico. Fra queste due forme di
colonialismo c'è infatti una differenza sostanziale, di qualità. n

61
colonialismo classico, senza per questo volerlo minimamente
giustificare, si limitava a conquistare territori e a rapinare
materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi,
ma poiché le comunità dei colonizzatori e dei colonizzati
rimanevano separate e divise poco cambiava per questi ultimi
che continuavano a vivere secondo la propria storia, tradizioni,
costumi, socialità, economia. Il colonialismo economico,
invece, non conquista territori ma mercati - di cui, anche se
poveri, ha estremo bisogno perché, per quanto il mondo
industrializzato continui a produrre sempre nuove e
meravigliose inutilità, i suoi sono sostanzialmente saturi - e per
farlo deve omologare le popolazioni del Terzo Mondo alla
nostra "way of life'', ai nostri costumi, possibilmente anche alle
nostre istituzioni, per piegarle ai nostri consumi.

Gli abitanti del Terzo Mondo diventano degli sradicati,


eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita
nell'angolo e scontano una pesantissima perdita di identità.

Alcune minoranze, specialmente nel mondo islamico, si


oppongono, per così dire, alla talebana a questa violenza con
tutte le loro forze. Altri si rassegnano a vivere nella miseria con
i materiali di risulta del mondo industrializzato, oppure
migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita
migliore. O semplicemente una vita.

Perché il colonialismo di nuovo conio non scardina solo la


loro identità ma anche le economie di sussistenza
(autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni
avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni.

Privati di quel tessuto di solidarietà, familiare, comunitaria,


cianica, che aveva tenuto in equilibrio il loro mondo e
costituito la loro rete di protezione (così com'era stato per gli
agricoltori europei prima della Rivoluzione industriale),
62
costretti ad integrarsi nel mercato economico mondiale, quei
popoli ora esportano qualcosa, ma le esportazioni non sono
sufficienti a compensare il deficit alimentare che si è così
venuto a creare. E quindi la fame.

Un esempio classico è l'Africa nera. Ai primi del Novecento


l'Mrica era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in
buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha
cominciato ad essere aggredita dall'integrazione economica -
prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco
interessante - le cose sono precipitate. L'autosufficienza è scesa
all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è
successo dopo non sono necessarie statistiche: basta guardare
le immagini che ci vengono dal Continente Nero.

E tutti gli "aiuti" non solo non sono riusciti a tamponare il


fenomeno della fame, in Africa e altrove, come è emerso dal
recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma lo hanno
aggravato. Perché gli "aiuti" alle popolazioni del Terzo Mondo
tendono ad integrarle maggiormente nel mercato economico
mondiale.

Ed è proprio questa integrazione, come dimostra la storia


dell'ultimo mezzo secolo, che le fa ammalare ed esplodere.
Alcuni Paesi ed intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito
per tempo. Una ventina di anni fa, all'epoca del G7 e delle sue
periodiche riunioni, i sette Paesi più poveri del mondo, con alla
testa l'africano Benin, organizzarono un controsummit al grido
di: "Per favore, non aiutateci più".

Oggi per i Paesi del Terzo Mondo è ormai tardi per opporsi.
Sono troppo deboli, politicamente e militarmente, sfiancati,
dilaniati da guerre intestine che noi abbiamo provocato.
La globalizzazione ha continuato a marciare, inesorabile. E
poco importa che attualmente sia la Cina, entrata a pieno titolo
nel modello di sviluppo occidentale, a menare la danza e a
comprare terre grandi come province, come regioni, in Africa o
in altri Paesi terzomondisti. Il risultato non cambia.

Anzi peggiora.

Se l'attuale modello di sviluppo non si arresta e continuerà a


penetrare sempre più profondamente nelle realtà del Terzo
Mondo lo scenario che si delinea è il seguente. Un pugno di
Paesi (o di aree geografiche) ricchissimi, ma con sperequazioni
enormi al loro interno (come gli Stati Uniti) circondati da un
mare di miseria e da masse sempre più imponenti di disperati
che premeranno alle loro frontiere.

E verrà l'ora in cui non ci sarà legge, guardiacoste, fregate,


cannoniere che potranno respingerli. n mare di miseria ci
sommergerà.

(dicembre 2009)
Neurodeliriuin Found

Un giovane genietto di nazionalità per ora sconosciuta, ma


probabilmente di origine napoletana se non di residenza, ha
creato una singolare azienda, per ora piccola ma già fruttuosa,
chiamata "Neurodelirium Found" (NEFO in sigla). Si tratta di
un fondo di psicolabili internazionali, particolarmente
utilizzabili in prossimità delle feste religiose o in estate perché
si sa che questi soggetti in tali periodi perdono anche gli ultimi
freni inibitori, cui Potenti e Potentati della terra, previo un
congruo compenso in nero attinto dalle riserve occulte dei
Servizi, possono attingere quando si trovino in particolari
difficoltà.

Silvio Berlusconi aveva appena finito di fare, in sede


europea, affermazioni talmente gravi e deliranti (anche lui
quando avrà dato definitivamente fuori di matto è candidato
ad entrare nel pacchetto del "Delirium Found", il genietto lo ha
già adocchiato), «il Parlamento è stato occupato dal partito dei
giudici di sinistra, la Consulta ormai non è più organo di
garanzia, ma politico», da costringere persino il Re Travicello,
Giorgio Napolitano, a non fare il solito ammonimento "urbi et
orbi", ma a indirizzarlo al presidente del Consiglio, parlando di
«violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia
volute dalla Costituzione italiana», il presidente della Camera,
Gianfranco Fini, a ricordargli il primo articolo della Carta che
recita: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle
forme e nei limiti della Costituzione» (altrimenti il popolo
potrebbe decidere legittimamente a maggioranza che,
poniamo, tutti quelli che hanno i capelli rossi vanno fucilati),

6s
mentre il pur timorato Casini aveva invocato una "union
sacrée" contro il Cavaliere che andasse dall'Udc a Rifondazione
comunista, Di Pietro incluso. Ed ecco che spunta un Tartaglia
che, alla modica spesa di un naso e due denti rotti,
l'equivalente di un pugno ben assestato, riporta tutti a rigar
dritto. Napolitano ha ripreso a recitare, rosario in mano, la
consueta giaculatoria («abbassare i toni»), la cosiddetta
opposizione ha promesso collaborazione, Casini ha ritirato la
sua proposta, Sabina Guzzanti, davanti all'immagine del
premier insanguinato, è scoppiata in singhiozzi Oe tipe non
dovrebbero fare politica, hanno una sensibilità perennemente
mestruata e la lacrima facile) e Berlusconi ha potuto calarsi
nella parte in cui, nella sua proteiforme personalità, più
eccelle, quella della vittima. Dimentico di tutte le sue
prepotenze e violenze, non solo verbali, si è inventato il
"Partito dell'Amore" contro quello dell'Odio (e già questa è una
manifestazione di odio) e si può star certi che il suo ruolo di
martire gli consentirà di far approvare tutte le leggi che gli
premono: un nuovo "lodo Alfano", il "legittimo impedimento",
il demenziale "processo breve", il divieto di intercettazioni
telefoniche per i reati di "lorsignori", l'abolizione del reato di
"concorso esterno in associazione mafiosa" che, a mio parere, è
giusta ma che sarà riservata solo ai politici e agli
a m m i n i s t r a t o r i p ub b l i c i in o m a g g i o al p r i n c i p i o
dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Perché Benedetto XVI sia voluto quasi cadere per lo


strattone della svizzero-itala Susanna Maiolo, trascinando con
sé l'ottantasettenne cardinal Etchegaray, appartiene ai misteri
vaticani. Berlusconi penserà sicuramente che l'ha fatto per
invidia. Ma i misteri d'oltretevere, da Calvi trovato impiccato
sotto il ponte londinese dei "Black friars" a Marcinkus, sono
sempre così tenebrosi, come si conviene a chi si oppone a

66
Mammona, che è pressoché impossibile trovarne il filo.
Lasciamo quindi questo lavoro ai vaticanisti.

ll più recente sondaggio condotto negli Stati Uniti sulla


guerra in Mghanistan diceva che circa il 6o% degli americani è
contrario. Ed ecco che spunta fuori questo nigeriano di 23
anni, figlio di un banchiere, che con un petardo legato alle
mutande pretende di far saltare un Airbus, così preparato che
un passeggero l'ha preso per il collo e l'ha portato di peso nella
cabina di pilotaggio. Appena acchiappato il mitomane ha
dichiarato: «Sono di Al Quaeda». Ora uno di Al Quaeda
l'ultima cosa che dice, e solo sotto tortura alla Guatanamo, è di
essere di Al Quaeda. Peraltro Al Quaeda non esiste e se esiste è
formata da fannulloni che invece di fare il loro mestiere si
ubriacano tutte le sere, in barba al Corano, e vanno a puttane,
sempre in barba al Corano.

Dovevano esserci, secondo l' "intelligence" americana,


organizzatissime basi di Al Quaeda in 66 Paesi nel mondo. In
otto anni, dopo l'n settembre 2001, non hanno fatto un solo
attentato (quelli ai treni spagnoli e di Londra furono opera di
elementi autoctoni che con Al Quaeda non c'entravano nulla).

Ma il comico tentativo di attentato di Abdul Faruk


Abdulmutallab permetterà al presidente degli Stati Uniti, il
pseudonero e pseudodemocratico Obama Bin Laden, di
affermare che bisogna tenere altissima la guardia contro il
terrorismo internazionale il cui centro è, naturalmente,
l'Mghanistan.

Abbiamo chiarito più volte, su questo giornale e altrove, dati


alla mano, che gli afgani non sono mai stati terroristi,
tantomeno internazionali, tantomeno kamikaze. Sono dei
guerrieri, che è cosa diversa. E se dal 2006, dopo un'aspro
dibattito interno, hanno deciso di ricorrere, nel loro Paese,
67
anche ad atti di terrorismo, sempre comunque mirati a
obbiettivi militari o politici, è perché la Nato, a differenza dei
sovietici (contro i quali non ci fu mai un solo atto di
terrorismo), non ha nemmeno la decenza di stare sul campo,
ma sta chiusa nelle sue basi superblindate e bombarda con
aerei fantasma, senza equipaggio, telecomandati da Nellis nel
Nevada o da Londra e presto, a quanto pare, anche dall'Italia.
Contro un nemico invisibile, contro un combattente che non
combatte, cosa può fare una Resistenza?

I Talebani, e ormai non solo loro ma anche molti altri afgani


che talebani non sono mai stati e che anzi li avversarono,
stanno combattendo una guerra di liberazione contro
l'arrogante occupante straniero. Al Quaeda non c'entra nulla.
La Cia ha calcolato che su so mila combattenti solo 386 non
sono afgani. Ma si tratta di uzbeki, di ceceni, di turchi. Non di
arabi, di salafiti, di wahabiti, cioè di quei fanatici che
vorrebbero portare la jihad contro l'intero mondo occidentale.
Ai Talebani, agli afgani, interessa solo riappropriarsi del
proprio Paese. Ed ho la netta impressione che l'occupazione
occidentale si rivelerà, per quelle popolazioni, molto più
devastante di quella sovietica. Perché i russi si limitarono ad
occupare quel Paese, peraltro loro confinante, ma non
pretesero di cambiarne le strutture sociali, economiche,
istituzionali, non pretesero di cambiare la mentalità, gli usi, le
tradizioni dei suoi abitanti, di "conquistare i cuori e le menti"
degli afgani. Noi invece, con la tremenda e sanguinaria
presunzione delle "buone intenzioni", abbiamo preteso di
portarvi la "civiltà". La nostra. Distruggendo quella altrui.

Ha detto Ashraf Ghani, il più occidentalizzante dei candidati


alle elezioni-farsa di quest'estate, e quindi al di sopra di ogni
sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo la nostra
moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci
68
hanno tolto l'integrità, la fiducia l'uno nell'altro». In realtà la
sola cosa che siamo riusciti a esportare in Mghanistan è il
nostro marciume morale.

(gennaio 2010)
Alì il Chin1ico, e gli
altri !adroni?

ll 25 gennaio è stato impiccato a Bagdad il cugino di


Saddam Hussein, Alì Hassan al-Majid, detto anche "Alì il
chimico" perché in varie occasioni usò le famose "armi di
distruzione di massa". Esecuzione sacrosanta, solo che su
quella forca avrebbero dovuto dondolare, e con maggior
ragione, anche altri pendagli.

E qui bisogna rifare un po' di storia, opportunamente


dimenticata. Nel 1980 Saddam Hussein attaccò l'Iran
ritenendolo indebolito dalla caduta dello Scià, sostenuto dagli
americani benché non rappresentasse che una sottilissima
striscia di borghesia iper ricca (il 2%) in un mare di miseria, e
dall'arrivo di Khomeini. Per cinque anni il cosiddetto
Occidente, e non solo, stette a guardare la "guerra assurda"
ritagliandosi però i suoi guadagni (business is business)
vendendo armi agli uni e agli altri. Nel 1985 dopo sacrifici
immani (erano i basii, con i loro corpi, saltando per aria, a
"ripulire" i campi minati dagli iracheni con ordigni, molto
spesso, di fabbricazione italiana) le truppe iraniane erano
davanti a Bassora e stavano per prenderla. La conquista di
Bassora avrebbe avuto come conseguenza immediata la caduta
del regime di Saddam H ussein definito da Khomeini
"l'impresario del crimine" per la feroce repressione nei
confronti degli sciiti e dei curdi iracheni. A questo punto
intervennero gli americani, gli occidentali, i sovietici e tutte
queste "anime belle" dichiararono che non si poteva
70
permettere, per motivi umanitari, alle "orde iraniane" (nostri
sono eserciti, quelli degli altri "orde") di entrare a Bassora:
sarebbe stata una strage. Questa la motivazione ufficiale. In
realtà perché l'Occidente e i sovietici presero le parti di
Saddam contro Khomeini? In fondo era l'Iran ad essere stato
aggredito e stava vincendo legittimamente una guerra che
l'awersario aveva provocato. Le ragioni sono molteplici.
Saddam Hussein stava perfettamente nella logica del
biimperialismo sovieto-americano: era laico (si sarebbe
inventato campione dell'islamismo all'epoca della prima
Guerra del Golfo) e inserito nel modello di sviluppo globale.
Khomeini invece, che propugnava una "terza via", un modello
di sviluppo compatibile con la tradizione e la cultura islamica,
e quindi né capitalista né marxista, era il pericolo. Gli
americani avevano poi una ragione ulteriore. Saddam gli
serviva in funzione anticurda. Se fosse caduto i curdi iracheni
avrebbero proclamato la propria indipendenza contagiando i
10 milioni di loro confratelli che vivono in Turchia (circa un
sesto della popolazione) . e repressi nel modo più feroce e
sanguinario dal governo di Ankara. E la Turchia, immensa
portaerei naturale, è il grande alleato degli americani nella
regione, molto più importante, ai loro occhi, dell'Europa.

Così mentre all'Iran venivano tolte tutte le forniture militari


Saddam Hussein era rimpinzato di ogni genere di armi,
comprese quelle chimiche, le famigerate "armi di distruzione di
massa", di cui lo dotarono gli americani, i francesi e, via
Germania Est, i sovietici.

Risultato dell'intervento "umanitario" : la guerra che


sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di
morti, durò altri tre anni portando questa tragica conta a un
milione e mezzo, finché Khomeini fu costretto a "bere l'amaro
calice" e firmare la pace. Saddam, invece di essere spazzato via

71
dalla faccia della terra, come meritava, si trovò saldamente in
sella e pieno d'armi. E, per prima cosa, secondo i desiderata
americani, le usò contro i curdi. Nel 1988 "gasò" la cittadina di
Halabya uccidendone tutti i sooo abitanti. Io, che avevo dei
buoni informatori in Iran, lo seppi e pubblicai la notizia su
l'Europeo ma, benché l'Europeo fosse allora un settimanale di
prestigio e di notorietà internazionale, nessun giornale
occidentale, che io sappia, la riprese. Saddam era allora un
alleato dell'Occidente e non "istava bene" far sapere che faceva
queste brutte cose.

Saddam, come dicevo, era pieno zeppo di armi. Cosa fa una


rana con sulla groppa un grattacielo di armi? Le rovescia sul
primo posto che gli capita, che fu il Kuwait. E questo provocò
la prima Guerra del Golfo. Guerra legittima perché era stato
attaccato uno Stato sovrano, anche se dalle dubbie origini
perché fu creato di sana pianta, nel 1960, dagli americani per i
loro interessi petroliferi (del resto anche l'Iraq è un'invenzione
cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre
popolazioni che non si potevano sopportare, curdi, sunniti e
sciiti). Guerra legittima nel principio ma non nei modi. Per non
affrontare fin da subito l'imbelle esercito iracheno, che era
stato battuto anche dai curdi (in quell'occasione fu la Turchia a
salvare Saddam) gli americani bombardarono per due mesi
Bagdad, Bassora e altre città facendo 160 mila morti civili (dati
del Pentagono) fra cui 32195 bambini che non sono meno
bambini dei nostri. Dopo ci fu la gloriosa cavalcata nel deserto
del generale Schwartzkopf che si arrestò però a una
cinquantina di chilometri da Bagdad. Ma come, dopo quella
carneficina, non si andava a prendere il principale
responsabile? No. Saddam serviva sempre in funzione
anticurda e antisciita. E il rais, diligente, questa volta rovesciò
le armi chimiche sulle città sciite di Karbala e Najaf. A questo
punto le aveva esaurite e per questo non furono trovate quando
72
gli americani ne presero pretesto per invadere l'Iraq (seconda
Guerra del Golfo).

Ecco perché a pendere dalla forca il 25 gennaio insieme ad


"Alì il chimico" avrebbero dovuto esserci, almeno in effige, un
paio di presidenti americani, Ronald Reagan e Bush padre.

Ma, come sempre, e come si vedrà presto anche in


Mghanistan, gli americani si sono dati la zappa sui piedi da
soli. Dal 1985, come abbiamo visto, la loro politica nella
regione è in funzione antiraniana. La pseudodemocrazia che
hanno imposto in Iraq non ha portato la sicurezza nel Paese
(proprio nei giorni precedenti l'esecuzione di "Alì il chimico" ci
sono stati due attentati che hanno provocato 120 morti e
centinaia di feriti), in compenso ha consegnato due terzi
dell'Iraq agli sciiti che sono la maggioranza e che sono sotto il
controllo dell'Iran, com'è naturale poiché si tratta della stessa
gente. Proprio quello che gli americani volevano evitare
quando, nel 1985, intervennero per impedire che "le orde
iraniane" entrassero a Bassora.

(febbraio 2010)

73
Si avvicina l'ora
del sangue

Fan tenerezza e pena il "popolo della sinistra" e "il popolo


· della destra" che seguono con grande trepidazione le
scaramucce pre elettorali dei partiti e poi, a seconda del
risultato, l'uno scende in piazza a festeggiare, ballando,
cantando, saltando, agitandosi, senza rendersi conto che col
voto è andato a legittimare, per l'ennesima volta, un regime
che lo ha reso suddito e che la sua unica scelta è stata quella di
indicare da quale oligarchia preferisce essere comandato,
schiacciato, umiliato, e che se avesse vinto la formazione
contrapposta non sarebbe stato diverso.

Questa finzione dell'alternanza (una delle tante "fictio" su


cui si basa la democrazia rappresentativa, un sistema, come io
ho scritto altre volte, assai ingegnoso, per metterlo nel culo alla
gente, e soprattutto alla povera gente, col suo consenso) è
particolarmente evidente in un sistema bipolare o bipartitico,
soprattutto oggi, in una società senza più classi, composta da
un quasi indifferenziato ceto medio, e dove, dopo la caduta del
comunismo, tutti i partiti o poli che dir si voglia, a parte
qualche eccezione senza rilievo, hanno abbracciato quel libero
mercato che, insieme al modello di sviluppo industriai­
finanziario, è il meccanismo reale che detta le condizioni della
nostra esistenza, gli stili, i ritmi, la velocità parossistica della
nostra vita, e di cui la democrazia, su cui si fondano le illusioni
di quei due "popoli", è solo l'involucro legittimante, la carta più
o meno luccicante che ricopre la caramella avvelenata.
74
In mancanza di vere alternative questo enorme ceto medio
si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si
tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter, Sampdoria o Genoa,
per cui quando il "popolo della sinistra" (o della destra)
festeggia una vittoria i vantaggi che ne trae sono puramente
immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, come
son quelli del tifoso, mentre i ricavi reali vanno non a quegli
spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere.

Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che


non è la fazione che l'ha perduta, ma proprio quel popolo
festante, insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare
amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui il primo è
sceso in piazza. Vinca il Milan o l'Inter, la Roma o la Lazio, è
sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo. Quanto ai
giocatori, ai vincenti andrà sicuramente la parte più
consistente del bottino, ma anche ai perdenti non
mancheranno premi di consolazione.

Fra le oligarchie politiche esiste infatti, checché ne strillino


in contrario, un tacito patto per non portare il gioco alle
estreme conseguenze. Non conviene a nessuno. C'è tutta la
vasta area del sottogoverno e del parastato che consente di
ritagliare le giuste prebende per i perdenti, garantendosi così
che alla tornata successiva, a parti invertite, sia ricambiato il
favore. Per quanto in competizione per il potere le oligarchie
sono unite da un interesse comune che prevale su tutti gli altri:
l'interesse di classe.

Quella politica, con i suoi adentellati nella Pubblica


amministrazione e nell'imprenditoria malavitosa, è in pratica
l'unica classe rimasta su piazza. Presa nel suo complesso la
nomenklatura, non è molto diversa da quella sovietica, e il suo
obiettivo primario è l'autoconservazione e il mantenimento del

75
potere e dei vantaggi e dei privilegi che vi sono connessi. E il
nemico mortale di un oligarca non è tanto un altro oligarca, col
quale si può sempre trovare un accordo se non addirittura
mettersi insieme per combinare certi loschi affari bipartisan,
come abbiamo potuto ben vedere, grazie alle indagini della
Magistratura, dal 1992 ai giorni nostri. Perché si fa parte della
stessa classe, si partecipa allo stesso gioco, ci si sbertuccia di
giorno davanti agli schermi della Tv e si va a cena la sera,
strizzandosi l'occhio, quasi increduli per aver fatto il colpo alla
Ruota della Fortuna, e irridendo, come faceva il sindaco di
Milano Pillitteri mentre incassava le tangenti, a «quei pirla che
non hanno capito come va il mondo».

Il nemico è proprio il popolo di cui va vampirizzato il


consenso e il denaro, ma che va tenuto a bada e a debita
distanza sugli arcana del potere democratico perché continui a
credere, o almeno a fingere di credere, al gioco. Scrive apertis
verbis un liberale doc, l'americano John Hertz: «Più una
organizzazione è democratica "sulla carta", cioè "per legge" o
nei suoi intenti, più gli strateghi che sono nelle posizioni chiave
ritengono necessario asserire il loro peso, la loro influenza e la
loro "indispensabilità", al fine di difendersi dal controllo
popolare».

Le democrazie sono, storicamente e statisticamente, i


regimi più corrotti. Poiché i partiti hanno bisogno del consenso
se lo comprano. Con le ruberie, con le tangenti, con gli affari
illegali, con il clientelismo, con le affiliazioni mafiose. I
sostenitori della democrazia affermano che ciò è fisiologico, è il
prezzo da pagare alla libertà. Ma in Italia la corruzione negli
ultimi trent'anni ha superato ogni tollerabile fisiologia ed è
diventata patologia. Anche perché non si vergogna più di se
stessa, agisce con la massima stmdoratezza e protervia, non ha
nemmeno quell'ipocrisia, che come dice La Roche Focauld, «è

76
il pedaggio che il vizio paga alla virtù». In questo senso l'Italia,
Paese da sempre laboratorio (qui, con i mercanti fiorentini e
piacentini, è nata la Modernità, qui si affermò il fascismo padre
di ogni totalitarismo novecentesco) , è estremamente
interessante. Perché con la sua corruzione proterva, esibita,
impudente e imprudente smaschera la vera natura delle
democrazie, anche di quelle che la occultano più abilmente.

Noi italiani subiamo questo sistema da più di mezzo secolo,


pecore da tosare, asini attaccati al basto da far trottare finché
schiattino, irrisi, derisi, vilipesi mentre siamo noi, come i
contadini dell'ancient régime a sostenere, col nostro lavoro, il
peso della Nazione.

Io credo che l'epoca delle parole sia finita. Ne abbiamo usate


tante, inutilmente. Ed è ovvio che sia così, perché la
democrazia è un sistema basato sulle parole e le parole in
malafede prevarranno sempre sulle altre. Così è stato per quasi
sessant'anni con un'accelerazione esponenziale nell'ultimo
quarto di secolo. Le democrazie, così sensibili oggi alla
violenza, che è il tabù dei tabù, sono nate su bagni di sangue (e
al loro esterno continuano a spargere sangue come se fosse un
loro esclusivo diritto: vedi Serbia, vedi Iraq, vedi Afghanistan
e, se non china la testa su un suo diritto indiscutibile, quello di
crearsi, col nucleare civile, un'alternativa energetica, presto
anche l'Iran). È venuta l'ora che siano ripagate con la stessa
moneta.

(marzo 2010)

77
Il 40% se ne fotte

Il lunedì delle elezioni ho seguito, per dovere d'ufficio, lo


Speciale del TG1 condotto da Francesco Giorgino e poi ''Vespa
a Vespa" con la solita compagnia di giro dei Passino, dei La
Russa, dei Bondi, dei Buttiglione, dei Feltri (che quel giorno
era praticamente ubiquo), dei Belpietro, dei Sorgi, dei Folli, dei
Napoletano, dei De Bortoli, dei Sansonetti, dei Minzolini e
compagnia cantante.

Il dato oggéttivamente clamoroso era, con tutta evidenza, la


fortissima astensione. Ed in effetti, almeno nei primi minuti,
anche perché altro non c'era di cui parlare, i coristi han fatto
finta di occuparsene e di preoccuparsene, ma è bastato che
arrivassero le prime proiezioni sul 5% delle schede scrutinate
che è cominciata la solita zuffa su chi avesse vinto e chi perso e
che è andata avanti fino a notte fonda.

L'astensione è stata dimenticata. E invece il dato vero di


queste elezioni è che quasi il 40% degli italiani si è rifiutato di
recarsi alle urne e di legittimare col loro voto le oligarchie
dominanti, di destra e di sinistra, perché possano continuare,
sotto la forma di un'apparente legittimità, i loro abusi, i loro
soprusi, le loro illegalità, la loro arbitraria occupazione dello
Stato e, si può dire, di quasi tutti gli spazi della società. Se a
quel 40% si aggiungono le schede bianche e nulle, che son
anch'esse manifestazione di protesta e che il Viminale si rifiuta
di dare, non certo a caso, con una decente tempestività, ma che
si aggirano di solito fra il milione e il milione e mezzo, i voti
degli apparati dei partiti, nelle Regioni, nelle Province, nei
comuni (un numero enorme), dei clientes, dei favoriti e delle
favorite di tutte le risme, il voto vero, reale, libero, d'opinione
che si sono spartiti le forze politiche, e su cui basano i loro
calcoli, si riduce a ben poca cosa. Del resto lo stesso Norberto
Bobbio, che allo studio della democrazia ha dedicato l'intera
sua lunga vita, sulla cui patente di sincero democratico non è
lecito dubitare, è stato costretto ad ammettere: «Oserei dire
che l'unica vera opinione è quella di coloro che non votano
perché hanno capito, o credono di avere capito, che le elezioni
sono un rito cui ci si può sottrarre senza danni» (N. Bobbio, Il
futuro della democrazia).

Per la verità questo discorso è valido per altro tipo di


democrazie, come quelle scandinave, dove la percentuale di
votanti è sempre piuttosto bassa.

Ma per ragioni inverse a quelle per cm da noi la


partecipazione sta crollando.

I cittadini di quei Paesi si fidano delle proprie Istituzioni e


quindi che a governare sia questo o quello gli può essere anche
indifferente. Il sistema istituzionale li garantisce comunque.
Da noi è vero l'opposto. Le Istituzioni sono una pura forma,
buona per i gonzi che ci vogliono credere, la realtà è un sistema
dominato dai partiti, cioè da lobbies, da camarille, da
associazioni paramafiose che fanno il bello e il cattivo tempo,
che hanno ridotto il cittadino a suddito costretto ad umilianti
infeudamenti, a implorare come favori ciò che gli spetta di
diritto e insomma a dar ragione a quanto Ignazio Silone scrisse
in pieno fascismo in Vino e pane ma che ancora più
drammaticamente vero in questa parodia di democrazia che è
quella italiana: «Non c'è niente da fare, per vivere un po' bene
bisogna vendere l'anima. Non c'è altra via».

79
Sia pur lentamente, anche perché da noi, in anni lontani, la
passione politica è stata una cosa seria, e qualcosa di quel
retaggio rimane, gli italiani stanno capendo quale truffa sia la
democrazia rappresentativa, almeno dalle nostre parti.

E, con l'astensione, hanno mandato un segnale forte. Che se


devo stare ai discorsi ascoltati allo Speciale del TG1 e a "Porta a
Porta", non verrà minimamente recepito. "Passata la festa,
gabbato lo santo", i partiti continueranno tranquillamente
nelle loro soperchierie, nei loro abusi, nei loro soprusi, nelle
loro occupazioni illegittime, la più evidente e clamorosa delle
quali è quella della Rai-Tv. Continueranno a foraggiare,
rubando e taglieggiando, la loro clientela, a trattarci come
pecore da tosare, come asini attaccati al basto che devono
lavorare per mantenerli insieme ai loro privilegi.

Ma stanno ballando sull'orlo del vulcano. Se non capiscono


la lezione della rivoluzione silenziosa e pacifica del 28 e del 29
marzo 2010 questa farà posto, prima o poi, alla violenza.

(aprile 2010)

Bo
25 aprile. La verità

Alla consueta orgia di retorica che, insieme a mai sopite


divisioni, accompagna le celebrazioni del 25 aprile, il
Presidente Giorgio Napolitano ha voluto aggiungere
quest'anno, nel suo discorso alla Scala di Milano, "un tocco in
più", come avrebbe detto Gianni Brera, sostenendo che le
nostre "missioni di pace" all'estero sono una sorta di
prosecuzione della lotta di liberazione. È esattamente il
contrario, almeno in Mghanistan. Qui gli occupanti siamo noi.
Siamo noi, insieme ai nostri alleati, ad aver la parte dei nazisti,
mentre ai Talebani spetta quella dei resistenti. E quando sento
dire, come anche di recente dal molto commendevole esperto
di cose militari Andrea Margelletti, ospite abituale di Bruno
Vespa, che c'è una differenza etica fra gli uomini che uccidono
all'ombra di una divisa, i soldati della Nato, e quelli che divisa
non portano, vorrei replicare che in questo modo si butta a
mare l'intera Resistenza italiana perché i partigiani non
indossavano divise e praticavano, come i Talebani, il
terrorismo (questo, e non altro, fu l'attentano di via Rasella che
è all'origine della rappresaglia tedesca alle Fosse Ardeatine).
Invece noi pretendiamo di celebrare la nostra Resistenza
proprio nel momento stesso in cui neghiamo la legittimità di
quella altrui. E invece se c'è una differenza è che i Talebani
hanno il sostegno di quasi tutto il loro popolo, mentre la
Resistenza fu opera di poche migliaia di donne e di uomini
coraggiosi, e il resto degli italiani, com'è loro costume, restava
alla finestra in attesa di vedere chi vinceva la partita.

81
E il torto non della Resistenza, ma della sua asfissiante
retorica che ci perseguita ormai da più di mezzo secolo, è di
aver ingenerato il pericoloso e non innocente equivoco che
l'Italia si sia riscattata in libertà dalla dittatura e
dall'occupazione nazista in virtù della lotta partigiana e non
grazie alle truppe angloamericane, marocchine, indiane e
persino dei razzisti sudafricani.

Nell'ambito di quel grandioso e tragico evento che fu la


seconda guerra mondiale, la Resistenza ebbe, dal punto di vista
militare, un ruolo del tutto marginale che riscattò moralmente
solo quei pochi che vi presero parte non, come si pretese poi e
ancor più si pretende oggi, facilitati dalla lontananza degli
avvenimenti, il popolo italiano che aveva aderito compatto al
fascismo e anche all'abominio delle leggi razziali, che lo
abbandonò quando cadde, ma stando ben alla larga da chi
combatteva, dall'una e dall'altra parte, per poi scatenarsi, dopo
il 25 aprile, nel più bestiale dei modi con lo scempio di piazzale
Loreto (furono delle brave donne italiane a pisciare sui
cadaveri quando erano ancora distesi a terra e fu una mano
italiana, "pietosa" e pudica, a legare la gonna di Claretta
Petacci con una cinghia perché non le si vedessero le pudenda
quando fu impiccata con gli altri a testa in giù, come se
l'oscenità fosse quella, la nudità di Claretta). Il 25 aprile gli
italiani da tutti fascisti, o quasi, che erano stati si scoprirono di
colpo tutti antifascisti. Ma erano rimasti gli stessi.

Questa è la verità della nostra Storia recente. La retorica è


un'altra cosa. E la retorica, come avvertiva Alberto Savinio in
un preveggente libretto del 1943, Sorte dell'Europa, «è un male
endemico del nostro paese, è il male che inquina la nostra vita,
la nostra politica, la nostra letteratura, e una delle cause
principali, se non addirittura la principale, delle nostre
sciagure».

82
E quel prezioso libretto, se dipendesse da me, lo farei
distribuire nelle scuole al posto di tanti manuali di retorica
della Resistenza e dell'Antifascismo. Savinio scriveva anche:
«TI nostro territorio non siamo stati noi a liberarcelo ma altri
ce lo hanno liberato, la nostra libertà di opinione non ce la
siamo conquistata ma altri ce l'hanno data».

Io ho il massimo rispetto per i partigiani che si batterono e


anche morirono per un'idea di libertà, ma non ho dovuto
aspettare Violante per averne altrettanto per i ragazzi che, in
nome di altri valori, l'onore e la lealtà, andarono a morire per
Salò, ingannati e traditi da Mussolini che, dopo tanta retorica
sulla "bella morte", fu pescato a fuggire travestito da soldato
tedesco, secondo l'ignobile e collaudata tradizione
dell"'armiamoci e partite" che è interna alla storia di viltà della
classe dirigente italiana, dalla borghesia che si squaglia nelle
retrovie, maledicendo i fanti-contadini che a Caporetto si
erano stufati di immolarsi alla tattica omicida dell"'attacco
frontale" del generale Cadorna (si leggano in proposito le
memorabili pagine di Curzio Malaparte ne La rivolta dei santi
maledetti), al Re e Badoglio che abbandonano Roma in balia
dei tedeschi, a Toni Negri, ad Aldo Moro che dalla sua prigione
scrive le lettere che scrive, ad Adriano Sofri, al comportamento
tenuto, in prigione e fuori, da quasi tutti i ladri "eccellenti" di
Tangentopoli, per concludere, per ora, col gradasso e
decisionista Bettino Craxi che, al momento del dunque, scappa
come un coniglio, per paura della galera, negando la legittimità
delle Istituzioni di un Paese di cui pur era stato presidente del
Consiglio, e quindi delegittimando così anche se stesso e però
pretendendo di essere considerato esule, martire, eroe.

La retorica non è mai innocente. Quella della Resistenza ha


consentito agli italiani di far finta di aver vinto una guerra che
invece avevano perso e nel più ignominioso dei modi, e quindi
83
di non fare i conti con se stessi fino in fondo, a differenza dei
tedeschi e dei giapponesi.

Da questo voluto equivoco sono nati molti guai, molte


"sciagure", per dirla ancora con Savinio, che hanno in seguito
funestato la storia del nostro Paese. Dalla retorica della
Resistenza nasce, attraverso il Cnl, la legittimazione della
partitocrazia e della sua occupazione arbitraria dello Stato.
Così è da lì che incuba la lunga stagione del "terrorismo rosso"
di cui oggi si paventa, con la consueta, interessata, retorica,
qualche colpo di coda.

(maggio 2010)
Ridateci il Totocalcio

Ha suscitato qualche mugugno e proteste che prima e


durante la finale Inter-Bayern Monaco della Coppa dei
Campioni (preferisco, anacronisticamente, chiamarla ancora
così quando era effettivamente uno scontro diretto fra i
vincitori dei rispettivi campionati nazionali, non importa se
l'Omonia di Cipro o il Milan, e non partecipavano anche le
seconde, le terze, le quarte di quelli maggiori) tutti gli italiani
di fede non neroazzurra tenessero per la squadra tedesca, come
dimostra anche l'andamento delle quote: quella del Bayern
continuava a scendere nonostante fosse evidente la sua
inferiorità.

Ma a parte che il tifo è tifo, u�a fede, e alla fede non si


comanda (solo Berlusconi è così ipocrita da affermare che lui è
contento «quando vince una squadra italiana», mentre invece
è livido se non è il Milan) anche chi conserva ancora qualche
prurito nazionalistico non si capisce perché dovesse tenere per
l'Inter, una squadra che ha giocato con quattordici stranieri
(nella ripresa sono entrati il serbo Stankovic e il ghanese
Mountari e solo all'ultimo minuto, forse per pudore,
Materazzi) e il cui allenatore è l'itinerante portoghese
Mourinho che l'anno prossimo passerà al Real Madrid
portandosi dietro, probabilmente, il centravanti argentino
Milito, il principale artefice non solo della vittoria in Coppa ma
dell'intera, trionfale, stagione nerazzurra.

ss
La parabola dell'Inter è un buon esempio per capire che
cos'è diventato il calcio, come si è trasformato, come è stato
conciato.

Checché ne pensino gli attuali padroni del vapore il calcio,


prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di
essere sport, è, o meglio era, un rito in cui i valori simbolici,
mitici, sentimentali, identitari e, in definitiva, irrazionali
prevalevano su tutto il resto (il tifo è assolutamente a titolo
gratuito: il tifoso gioisce come un bambino quando la sua
squadra vince e soffre come un cane se perde, ma a lui,
personalmente, non viene in tasca nulla). Era un rito che si
celebrava la Domenica, come la messa, e, oso dire, l'unico
spazio rimasto al sacro in una società, quella occidentale,
completamente materialista.

Da molti anni tutti gli elementi rituali sono stati sacrificati


al business. Partite di A e B "spalmate" su quattro giornate e in
orari diversi per permettere riprese televisive differenziate (con
tanti saluti alla regolarità dei campionati e al subrito della
schedina giocata al bar con gli amici il sabato - e infatti il
Totocalcio è in crisi nera sostituito da lotterie demenziali);
giocatori anche importantissimi (Kakà, Ibrahimovic) che
passano da una squadra all'altra alla fine dell'anno o anche
durante lo stesso campionato; spariti i giocatori-bandiera
(Rivera, Mazzola, Antognoni, Riva che rimanevano in una
squadra per tutta la loro vita calcistica, è rimasto il romano
Totti, "il pupone", ma è a fine carriera); numerazione non più
dall'uno all'undici ma di tipo cestistico; persino le maglie,
almeno in trasferta, vengono cambiate per esigenze degli
sponsor. In questa situazione è sempre più difficile quel
processo di identificazione fra squadra e tifoso che ha fatto la
fortuna del calcio per più di un secolo.

86
Il calcio era anche, per dirla con Gramsci, una grande festa
nazional-popolare, interclassista, con importanti funzioni
sociali. Allo stadio il piccolo e medio imprenditore sedeva
accanto al suo operaio ritrovandosi, magari, nel tifo per la
stessa squadra. Oggi la politica degli abbonamenti e dei prezzi
ha tolto al calcio da stadio il suo connotato interclassista: la
suburra va dietro alle porte, gli altri, a seconda del loro status,
nelle diverse tribune (eppoi ci si lamenta perché una massa di
giovani senza speranza, non più mischiati fra il pubblico ma
concentrati nello stesso spazio, diventa turbolenta e si dà ad
atti di teppismo). Nel frattempo le pay tv e le pay per view
hanno dato il colpo finale al calcio come "festa di tutti", al suo
senso comunitario, sequestrandolo in buona parte a favore dei
più abbienti (e basterebbe questo per legittimare una
rivoluzione).

Quattro o cinque anni fa gli ultras, i terribili ultras, che sono


rimasti gli unici, veri, appassionati, in rappresentanza di 78
società di A, B, C e delle serie minori, fecero, in una domenica
canicolare di giugno, una manifestazione, civilissima, davanti
alla sede della Figc a Porta Romana a Milano, al grido:
«Ridateci il calcio di una volta{». Ma, naturalmente, non
furono nemmeno presi in considerazione. In nome del
business. La stessa Gazzetta dello Sport diede un resoconto
striminzito di quella che a me pareva una notizia perlomeno
singolare. Così dal 1983, l'anno dopo la vittoria della Nazionale
ai Campionati del mondo di Spagna, quando fu introdotto il
terzo straniero, il calcio da stadio ha perso il 40% degli
spettatori. I giovani se ne vanno e preferiscono dirigersi verso
altri sport, come il rugby o l'hockey, dove quegli aspetti rituali
e quei valori identitari esistono ancora, oppure se ne
disinteressano. E anche noi sessantenni, che di calcio, giocato e
visto, abbiamo vissuto perché ai nostri tempi c'era solo quello,
il tennis era roba da ricchi e chi stava in città non sapeva
87
nemmeno cosa fosse lo sci, stentiamo sempre più a
riconoscerei in un calcio così deformato.

Si è preferito fare del calcio uno spettacolo ad uso del


consumatore televisivo, come una qualsiasi . Domenica in, da
fruirsi solipsisticamente a casa. E avendo perso i suoi connotati
specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago,
intercambiabile, che prima o poi svanirà, dirigendosi altrove,
come svanisce inesorabilmente per qualsiasi format televisivo,
per quanto fortunato. Ma c'è anche un'altra ipotesi, più
probabile perché più immediata. Essendosi gonfiato, per
esigenze televisive, come la rana di Esopo, con partite per
quattro giorni alla settimana, trasmissioni ininterrotte,
televisive e radiofoniche, dal lunedì alla domenica, play-off,
play-out, Champion's league a gironi, Coppe, Supercoppe,
nazionali e continentali, Confederation Cup, grotteschi match
anche in agosto in Kuwait o in Giappone, interessi economici
sempre più colossali, scoppierà di botto. Il calcio, come previdi
in un articolo sul Giorno del lontano 1982, morirà per
overdose. Metafora, anche qui, del mondo occidentale.

(giugno 2010)

88
Poveri afgani son
diventati ricchi

Poveri afgani. Adesso gli americani hanno scoperto che


sono ricchi. I geologi assoldati dal Pentagono, studiando certe
vecchie mappe sovietiche, hanno trovato nel sottosuolo di quel
Paese «un forziere di minerali che vale mille miliardi di
dollari» come ci informa, entusiasta, l'inviato del Giornale,
Fausto Biloslavo, che lo ha letto sul New York Times. Oro,
ferro, rame e litio che, fino a poco tempo fa, era un elemento
innocuo, anzi utile per curare certe malattie nervose, ma ora
utilizzato per le batterie dei computer portatili e dei cellulari.
Ancor più entusiasta il generale David Petreus, il macellaio
dell'Iraq, più sanguinario di cento Saddam, ora a capo del
Comando Centrale USA, ha affermato: «Ci sono potenzialità
sensazionali». Per gli afgani? No, per gli americani.

Fino al 2001, prima dell'invasione ed occupazione


americana, l'Afghanistan era un Paese agro-pastorale la cui
popolazio n e , nella stragrande maggioranza, viveva
sostanzialmente di economia di sussistenza: autoproduzione e
autoconsumo più piccoli commerci a dimensione umana (c'era
anche la produzione dell'oppio, attraverso la coltivazione del
papavero, ma, di quel colossale affare al contadino afgano
rimaneva, sì e no, l't%, ragion per cui, nel 2000, il Mullah
Ornar non esitò a stroncarlo - oggi l'Afghanistan "liberato"
dalle truppe Nato produce il 93% dell'oppio mondiale). Non
era il benessere come lo intendiamo noi occidentali, ma come
lo intendono gli afgani e altri popoli "tradizionali": vivere del
89
proprio e sul proprio senza essere costretti ad inneggiare,
come, poniamo, a Pomigliano d'Arco, alla dittatura del mercato
pur di rimediare un lavoro da schiavi.

Cosa accadrà ora agli afgani se gli americani o altri


riusciranno a mettere le mani su quei giacimenti? Quello che
accadde ai contadini europei con la Rivoluzione industriale.
Secondo un insospettabile documento della Fao di qualche
anno fa "il passaggio dall'economia contadina all'economia
industriale e urbana, ha avuto in un primo momento come
conseguenza un aumento delle disuguaglianze» (Bollettino di
nutrizione della Fao, 1974). Del resto di questo fenomeno ci
sono state fornite spiegazioni classiche: l 'ulteriore
impoverimento della povera gente doveva servire a
quell'accumulazione di capitale indispensabile a ogni decollo
industriale, un prezzo obbligato pagato al progresso.
Prendiamo un esempio più recente e forse più calzante: il
Venezuela. n Venezuela è stato distrutto, economicamente e
socialmente, dalla scoperta nel suo sottosuolo del petrolio.
Nell'Ottocento era, insieme all'Argentina, il maggior
produttore di carne e aveva una fiorente agricoltura su cui
viveva tutta la popolazione. Oggi, inserito, a causa del petrolio,
nel gioco delle interdipendenze del mercato globale, è costretto
ad importare più della metà del proprio fabbisogno alimentare.
Per capire che cosa sia oggi il Venezuela, nonostante i tentativi
di riequilibrio sociale di Chavez, basta fare un salto a Caracas:
duemila famiglie, ricchissime, vivono in grattacieli tipo
Manhattan, protette da eserciti personali, intorno tutto il resto
è miseria.

In ogni caso non saranno gli afgani, tranne le cricche che si


sono vendute agli invasori, a trarre profitto dal "forziere
minerario". Gli americani sono stati però bruciati sul tempo
dai cinesi, come avviene in Africa nera dove Pechino sta
90
occupando, economicamente, terre grandi come l'Europa
intera. Pagando 30 milioni di dollari di tangenti al ministro
delle Miniere, Mohammad Ibrahim Abdel, sono riusciti ad
assicurarsi i diritti di sfruttamento dell'enorme giacimento di
rame nella provincia di Lowgar, non lontano da Kabul. Nella
loscaggine la scelta di Abdel aveva almeno un suo senso: i
diritti diamoli a chi non ci sta bombardando e massacrando.
Ma americani e canadesi hanno fatto la voce grossa con Karzai,
per una volta tagliato fuori dal vorticoso giro di tangenti,
enormi, grandi e minime, che son la regola dell'Mghanistan
"liberato" (la famosa "corruzione" di cui gli occupanti
dovrebbero liberare l'Mghanistan e di cui sono invece i primi
protagonisti). Ma come, hanno detto i nordamericani a Karzai,
noi siamo qui a sostenerti, senza la nostra presenza militare
non resteresti in sella un solo giorno, perdiamo anche dei
soldati (più di 1300 fra americani, inglesi e canadesi dall'inizio
dell'occupazione), e tu dai i diritti di sfruttamento del "forziere
minerario" ai cinesi? E il ministro delle Miniere è stato
immediatamente destituito.

Nemmeno i sovietici erano riusciti a combinare in


Mghanistan i disastri che stan facendo gli occidentali. Si erano
limitati ad occupare, militarmente e politicamente, un Paese
loro confinante per motivi strategici e geopolitici, ma non
avevano preteso di cambiarne l'economia, la socialità, la
mentalità, gli usi, i costumi, le tradizioni né, tantomeno, di
conquistare «le menti e il cuore» degli afgani. Noi invece
vogliamo portare l'Mghanistan, per esprimerci con le parole di
Fukuyama (quello che aveva affermato che con la sconfitta
dell'Unione Sovietica si era arrivati alla fine della Storia e che,
nonostante questo, ancora pontifica) «verso la Terra Promessa
del Capitalismo» e i suoi gaudiosi risultati. Mullah Ornar (che
Allah l'abbia sempre in gloria) se ci sei batti un colpo. Anzi

91
molti colpi. E caccia questi infami sporcaccioni dal tuo Paese
prima che lo distruggano definitivamente.

(luglio 2010)

92
Legittiina la fucilazione
dei "cristiani"

Dopo la fucilazione, avvenuta in una remota valle del


Rakhshan (Nord Est dell'Mghanistan) ad opera dei Talebani
del Mullah Ornar e degli uomini di Gulbuddin Hekmatyar, un
tempo loro acerrimo nemico e ora alleato contro gli occupanti
occidentali, di otto operatori sanitari, sei americani, una donna
tedesca e un'altra inglese, alcuni dei quali, come il "veterano"
Tom Little di Delawar (New York), appartenenti alla Ong
International Assistence Mission di religione protestante (il
loro motto è "Dipendenza da Dio"), accusati di essere spie della
Nato e di fare opera di proselitismo perché portavano con sé
Bibbie in lingua dari, si sono lette sui giornali italiani, oltre ai
soliti piagnistei, cose che sarebbero esilaranti se non si
inserissero in un quadro tanto tragico.

Monsignor Fisichella ha dichiarato «La Bibbia non è un


libro che provoca violenza, è parola di pace». Nel secondo
discorso del Deuteronomio sta scritto: «conquistando una città
lontana passa tutti i maschi a fil di spada» (XX, 13), se invece
ne «conquisterai una vicina di quelle che il Signore ti assegna,
tu non lascerai anima viva» (XX, 16), esortazione che i giudei
eseguirono alla lettera nella presa di Gerico: «Uomini e donne,
bambini e vecchi, perfino buoi, pecore e asini, tutto passarono
a fil di spada » (Giosuè, 6, 21). I preti dovrebbero smetterla di
raccontar fa ndonie contando sull ' ignoranza ormai
generalizzata dei cosiddetti Testi Sacri.

93
Sul Corriere della Sera, in un articolo con un lacrimoso
titolo alla Uala: «Quei medici "colpevoli" di amare. Uccisi per
ribadire il potere dell'odio», Andrea Riccardi accusa i Talebani
di «avere una visione del mondo in cui loro rappresentano il
bene e lo difendono con tutti i mezzi contro gli agenti del male,
gli occidentali». lo non so se i Talebani afgani si credano
dawero il Bene, quel che è certo è che noi occidentali li
abbiamo preceduti su questa strada invadendo e occupando
l'Afghanistan proprio perché pensiamo di essere il Bene che si
batte contro il Male, i Talebani, e pretendendo perciò di
sostituire con la nostra cultura e i nostri valori la loro cultura e
i loro valori tanto diversi dai nostri (non migliori né peggiori,
diversi). Del resto non è stato George W. Bush a inventarsi
«l'asse del Male»?

Scrive Yung che non accettando la nostra ombra, cioè il


male che è in noi, anche in noi, tendiamo a proiettarla
sull'awersario. Gli americani, con le loro origini puritane, sono
un'espressione emblematica di questo modo di concepirsi. La
concezione che hanno di sé è, di fatto, teologica. Tutti i discorsi
dei presidenti degli Stati Uniti finiscono con le parole «Dio
protegga l'America» (e perché non, invece, il Madagascar o il
Burkina Faso?).

Sempre sul Corriere Pier Luigi Battista, scimmiottando


Bèrlusconi, parla di "potere dell'odio" e scrive: «Questo è
quello che non vogliono vedere i detrattori dell'intervento in
Afghanistan. Nella strage dei medici missionari cristiani non
c'entra l'avversione all'America, !"'insorgenza" contro
l'occupazione straniera... c'entra l'ostilità assoluta contro i
cristiani».

N o i v o r r e m m o u s c i r e da queste e l u cub r a z i o n i
pseudoreligiose, nient'affatto innocenti, e riportare la

94
questione su una base laica. Durante la seconda guerra
mondiale (l'ultimo conflitto con regole, con formali
dichiarazioni di guerra non mascherate da ambigue e ipocrite
"operazioni di pace") non sarebbe stato nemmeno concepibile
che un'équipe di medici tedeschi animati dalle migliori
intenzioni operasse al di là delle linee inglesi (o viceversa).
Sarebbero stati fucilati o imprigionati come collaborazionisti. E
nessuno si sarebbe scandalizzato. Negli Stati Uniti, sempre
durante la seconda guerra mondiale, decine di migliaia di
italiani, di tedeschi, di giapponesi, anche se residenti negli Usa
da tempo, anche se di cittadinanza americana, furono internati
in campi di concentramento e i loro beni confiscati perché
"spie potenziali" benché il danno che avrebbero potuto
arrecare in una guerra che si svolgeva a diecimila kilometri di
distanza fossero minimi, diversamente da chi, della stessa
nazionalità degli occupanti, opera nel pieno della zona di
guerra, come avviene in Mghanistan.

Dice: ma alcuni degli operatori di International Assistence


Mission erano in Mghanistan da decenni e non avevano mai
avuto noie, nemmeno quando al governo c'erano i Talebani.
Certo, come non le ha avute Emergency di Gino Strada Oe ha
avute dagli americani che hanno chiuso l'ospedale di Lashkar
Gah, benché noi italiani si sia loro alleati, temendo che i medici
della Ong di Strada fossero testimoni "in corpore vivo", o per
meglio dire morto, delle loro stragi di civili nell'offensiva sulla
vicina Kandahar, attualmente in corso). Ma allora non c'era la
guerra. Adesso c'è. E per i Talebani è una questione di vita o di
morte. Che ne può sapere la guerriglia se quei bravi medici che
scorrazzano liberamente per il loro Paese passano o no, magari
involontariamente, magari inconsciamente, notizie vitali ai
propri connazionali in armi? L'ordine del Mullah Ornar di
trattare come collaborazionisti tutti gli stranieri della stessa
nazionalità degli occupanti è quindi, oltre che comprensibile,
95
perfettamente legittimo secondo la logica e le leggi di guerra. E
legittima è la fucilazione degli otto operatori sanitari. Cristiani
o non cristiani.

(settembre 2010)
Come l'Occidente ha
devastato l'Mghanistan

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in


Mghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per
"ricostruire quel disgraziato Paese", per imporre alle donne di
liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in
Mghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può
essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è
una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati
Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro
agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei
propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono
«che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci
battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il
"terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i


talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano
nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo
afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al
Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli
invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo,
tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal
2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad
adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un
aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Ornar, era
contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricadute sui
civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la
97
simpatia e la collaborazione della popolazione sul cui appoggio
si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la
decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi
esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator
senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati
da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran
Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una
resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani,
nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo
affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella
che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita
"vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette
il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata
schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi,
bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera
soprattutto degli americani ma anche quando il caso degli altri
contingenti?

Nel 2001 in Mghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio


degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in
funzione antisovietica. Ma Bin Laden costituiva un problema
anche per il governo talebano, tanto è vero che quando nel
1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah
Ornar, attraverso il suo numero due Waatki inviato
appositamente a Washington dove incontrò due volte il
presidente americano, si disse d'accordo p u r c hé la
responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la
prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta
popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi,
ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello
che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore


dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò

98
risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano
dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in. Mghanistan
non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno
fa, ha calcolato che su so mila guerriglieri solo 359 sono
stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non
waabiti, non appartenenti a quella Jihad internazionale che
odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli
scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai
Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Ornar, come
scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian
nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che
un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come
ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli
occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo,
giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un
occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a
una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad
un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Mghanistan,
nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è
stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli
occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può
costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo


responsabili in Mghanistan bisogna capire perché i Talebani vi
si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i
sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano
combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha
Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una
feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si
trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di
borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più

99
pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un
camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Mghanistan
doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono
la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della
popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della
guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge
nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella
coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla
tradizione di quella gente come invece lo è per noi. In ogni caso
la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e
quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Mghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva


viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha
raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare
con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare
con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una
rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e
infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli
ospedali li chiudono come è awenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Mghanistan non c'era corruzione. Per la semplice


ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le
mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la
stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del
Mullah Ornar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito
due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di
chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro
per farne carne di porco. Ornar, a capo di altri "enfants de
pays", raggiunse il luogo, liberò le ragazze, sconfisse i banditi e
ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese.
Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Mghanistan, la
gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani

100
piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai
dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Ornar aveva proposto alle


Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui
si ricava l'oppio, in cambio del riconoscimento internazionale
del suo governo. Nonostante quella di boicottare la
coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta
dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la
pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il
Mullah Ornar prese autonomamente la decisione di bloccare la
coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo
perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini
afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale,
ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo
talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Ornar il
Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti,
era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio
per prendere una decisione del genere. Una decisione così
efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda
il prospetto del Corriere della Sera 17/6j2oo6).

Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani


avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non
gli fosse andata più bene avrebberò rovesciato il governo del
Mullah Ornar perché in Mghanistan non c'è uomo che non
possieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un
totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare
degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la
storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i
seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o


indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le

101
stime dell'Onu non sono credibili perché una recente inchiesta
ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno
nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti
indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste
ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i
guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non
sono diversi dai nostri. Inoltre in Mghanistan sono tornati a
spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i
peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel
governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle


autorità amministrative è endemica.

Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle


elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di
sopra di ogni sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo
una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è
riversato sull'Mghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha
reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93%


dell'oppio mondiale. Ma c'è di peggio. Armando e addestrando
l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi
abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne
saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una
afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con
suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è
che il buon senso degli afgani prevalga.

Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una


parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I
talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle
nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un
anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe
102
Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra
emissari del Mullah Ornar e del governo Karzai. Ma prima di
iniziare una seria trattativa ufficiale Ornar, di fatto vincitore sul
campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha
impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per
vedersi imporre una "soluzione americana".

E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe


sovietiche che occuparono l'Mghanistan: «Bisogna lasciare che
gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio,
solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da
quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei
popoli.

E allora perché rimaniamo in Mghanistan e anzi il ministro


della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo
dell"'armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di
bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul
Corriere del lo ottobre: perché la lealtà all"'amico americano"
ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli
altri Paesi occidentali.

Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi


ammazzare e di ammazzare, per questioni di prestigio, gli
spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno
che portare la democrazia in Mghanistan, se ne andranno fra
poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa
abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma
fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100
miliardi di dollari l'anno per questa guerra insensata, ingiusta
e vigliacchissima (robot contro uomini).

L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 8oo milioni


l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere
molte situazioni, fra cui quelle di disoccupazione o di
103
sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei
nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi
ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

(ottobre 2010)

104
Serbia. Il
capro espiatorio

Fra le precondizioni che l'Unione europea pone alla Serbia


per il suo ingresso in Europa, c'è la consegna del generale
Mladic, "il boia di Srebrenica", che, protetto dagli antichi
commilitoni e da una parte della popolazione, sfugge da anni
alla cattura che dovrebbe portarlo davanti al Tribunale
internazionale dell'Aja dove sono già finiti Karadzic, il leader
politico dei serbi di Bosnia e Slobodan Milosevic.

Ciò ci offre lo spunto per rievocare la sfilza di ingiustizie e


violenze che sono state perpetrate negli ultimi vent'anni a
danno della Serbia e dei serbi dopo il crollo dell'Unione
Sovietica. Una delle conseguenze del collasso dell'Urss, come
forse il lettore ricorderà, fu la dissoluzione della Jugoslavia.
Nel 1990 Slòvenia e Croazia reclamarono la propria
indipendenza. La Slovenia se ne andò senza colpo ferire. Per la
Croazia ci furono alcuni scontri, di poco conto, con l'esercito
federale jugoslavo. Ma furono sufficienti perché il Consiglio di
sicurezza varasse delle sanzioni contro la Jugoslavia fra le quali
c'era anche il ritiro dal Campionato europeo di Svezia della
squadra di calcio, la meravigliosa squadra degli Stojkovic, dei
Savicevic, dei Bazdarevic, dei Prosinecki, dei Boban, dei
Mihajlovic che aveva vinto tutte le partite del girone di
qualificazione. I giocatori, già arrivati in Svezia, ne furono
cacciati come degli appestati (a consolazione, mia, quel
campionato fu vinto dalla sempre simpatica Danimarca che

105
fece fuori, tra gli altri, l'Olanda del borioso Van Basten che
sbagliò un rigore decisivo).

La Comunità internazionale, su spinta soprattutto della


Germania, del Vaticano e degli Stati Uniti, riconobbe
immediatamente l'indipendenza di Croazia e Slovenia, peraltro
sacrosanta. Allora i serbi di Bosnia reclamarono a loro volta
l'indipendenza dalla Bosnia o la riunione alla madrepatria di
Belgrado. Infatti una Bosnia multietnica, a conduzione
musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia
multietnica che non esisteva più. Ma quello che la Comunità
internazionale aveva accordato agli sloveni e ai croati lo negò ai
serbi di Bosnia. Allora questi scesero in guerra contro le altre
due etnie bosniache, quella croata e quella musulmana. I serbi
e i croati di Bosnia avevano il vantaggio di poter contare su un
retroterra, a differenza dei musulmani (che ricevevano qualche
sporadico aiuto dall'Iran). Ma i serbi stavano vincendo quella
guerra soprattutto perché, a detta di chi si intende di queste
cose, sono, sul terreno, i migliori combattenti del mondo.
Fermarono anche le armate naziste ritardandone di tre
settimane l'invasione dell'Urss, tre settimane decisive perché il
generale von Paulus si trovò impantanato con i suoi carri
armati nel gelido inverno russo (il "generale inverno" che
sconfisse anche Napoleone), dando così un contributo
determinante alla vittoria delle democrazie. Un merito storico
che non è stato ripagato. Furono infatti le democrazie europee
a chiedere agli americani di intervenire per fermare il
"massacro bosniaco" (quando stan vincendo gli altri, si tratti di
serbi o di iraniani o di Talebani, è sempre un "massacro",
quando vincono gli occidentali, dopo aver fatto strame di
centinaia di migliaia di civili, sono operazioni di "peace
keeping"). I vincitori divennero così i vinti e i loro leader e
comandanti militari furono trascinati davanti al Tribunale
dell'Aja mentre il presidente croato Tudj man che ,
106
approfittando dell'intervento americano, è stato autore della
più colossale "pulizia etnica" che sia mai avvenuta nei Balcani,
cacciando in un sol giorno dalle "krajne" 8oo mila serbi, è
morto tranquillo e onorato nel suo letto. Si pretese di fare della
Bosnia uno Stato, pur non essendolo mai stato, uno Stato
tenuto insieme con lo sputo, con tre comunità che si odiano,
pronto a esplodere appena le forze internazionali se ne saranno
andate.

Ma non bastava. Negli anni Novanta era venuta alla ribalta


anche la questione del Kosovo dove gli albanesi, divenuti
maggioranza per ragioni demografiche, avevano creato un
movimento indipendentista, foraggiato e armato dagli
americani, che, come in ogni lotta partigiana, faceva uso del
terrorismo. Dall'altra parte lo Stato· serbo rispondeva con le
maniere forti, con l'esercito, la polizia, le milizie paramilitari
(''le tigri di Arkan") rivendicando il diritto a mantenere la
sovranità su un territorio che era sempre stato suo,
storicamente e giuridicamente, e che era anzi considerato "la
culla della Patria serba" (un po' come per noi il Piemonte).
C'erano due ragioni, entrambe valide, a confronto. Avrebbero
dovuto essere i reali rapporti di forza a decidere la questione
oppure il ricorso a una mediazione delle Nazioni Unite. Gli
americani decisero invece che le ragioni stavano solo dalla
parte degli indipendentisti albanesi. Così la Nato, violando per
la prima volta il suo stesso statuto - poi sarebbe diventata
un'abitudine - perché era stata creata come strumento di difesa
e la Serbia non minacciava nessun Paese dell'Alleanza
atlantica, bombardò, con l'Italia di D'Alema nel poco onorevole
ruolo del "palo" (gli aerei partivano da Aviano), per 72 giorni
una grande capitale europea come Belgrado. Una guerra
contro l'Europa col consenso degli europei. Perché la vera
colpa della Serbia era di essere rimasta l'unico e ultimo Stato
paracomunista d'Europa. E mentre un tempo, quando esisteva
107
ancora l'Urss, per l'intellighentia europea bastava essere
comunisti per avere ragione, adesso era sufficiente per avere
torto. Ma almeno gli americani, anche se Clinton ebbe il suo
bel daffare a far capire, con carta geografica e bacchetta da
maestro, ai suoi connazionali dove mai fosse questo Kosovo,
avevano un obbiettivo: creare un corridoio di musulmanesimo
moderato (Albania+Bosnia+Kosovo) nel centro dei Balcani ad
uso del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Per gli
europei l'unica motivazione era quella di mostrarsi servi fedeli
degli Usa, come oggi in Mghanistan (solo la Grecia, ortodossa,
si rifiutò di partecipare a questo "autodafè" che favoriva quella
componente islamica che solo due anni dopo, con l'n
settembre, doveva creare tanti timori e isterie "Fallaci style").

Ma se questa guerra ingiusta era stolida per i Paesi europei,


era particolarmente "cogliona" per l'Italia come dissi a Ballarò
al presidente D'Alema senza che lui osasse replicare. Noi non
avevamo mai avuto contenziosi con i serbi, caso mai con i
croati per il trattamento riservato agli italiani d'Istria. Anzi con
i serbi avevamo storicamente degli ottimi rapporti che
risalivano alla prima guerra mondiale. Nei primi decenni del
Novecento a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato
Piemonte, perché i serbi che non avevano ancora conquistato
la loro indipendenza vedevano in quella italiana un modello
per la loro. Ma a parte queste ragioni storiche e sentimentali ce
ne erano altre, più attuali e concrete, per giudicare "cogliona"
quella guerra dal nostro punto di vista. Infatti, checché se ne
sia sempre detto e scritto in contrario, il "gendarme Milosevic",
con una Serbia forte alle spalle, era un fattore di stabilità dei
Balcani. Ora in Albania, in Bosnia, in Kosovo, in Montenegro,
in Macedonia, sono concresciute grandi organizzazioni
criminali che vanno a concludere i loro primi affari nel Paese
vicino più ricco. Cioè l'Italia.

108
Infine - ma questo vale per tutti gli Stati occidentali -
pretendendo a tutti i costi di legittimare l'indipendenza del
Kosovo abbiamo creato un precedente molto insidioso. Perché
un territorio non appartiene solo a chi ci vive e a chi ci abita in
quel momento, ma anche alle generazioni che, in passato, ci
hanno abitato, ci hanno vissuto e l'hanno lavorato facendolo
diventare quello che è. Se fra cinquant'anni, in Piemonte, ci
fosse una maggioranza di cittadini musulmani che ne
reclamasse l'indipendenza dall'Italia, con quali ragioni
potremo negare a costoro quello che abbiamo dato,
legittimandolo come un diritto, agli indipendentisti albanesi?
È uno dei tanti "effetti paradosso", e che ci girano
regolarmente nel culo, delle guerre americane e occidentali
degli ultimi vent'anni.

(dicembre 2010)

109
Giudizio Universale
AFGHANISTAN

Obama, Barack (50) Pseudodemocratico e pseudonero.


Ha inviato altri 30 mila uomini in Mghanistan. Peggio di Bush.
Ipocrita. 3

Clinton, Hillary (64) Guerrafondaia più di Condoleeza


Rice e quindi pervertita come donna. Cesso. 2

Petraeus, David, generale (59) Presuntuoso e


imbecille. 4

Biden, Joe, Vicepresidente USA (69) È l'unico


dell'Amministrazione Usa ad aver capito qualcosa
dell'Mghanistan. Ha detto: «I Talebani sembrano dei
nazionalisti piuttosto che degli ideologi della Jihad» .
Purtroppo non conta nulla. 6+

Zaeef, Abdul Salam, ex ambasciatore talebano in


Pakistan (43) Non era un "cuor di leone". Catturato e
torturato dagli americani che da lui volevano sapere una cosa
sola: dove si trovava il Mullah Ornar. In cambio gli offrivano
denaro e libertà. Rispose: «Non ha prezzo la vita di un amico e
di un compagno di battaglia». Come premio è stato mandato a
Guantanamo. ll vero coraggio è superare la propria legittima
paura. 8

Ornar, Mullah (49) Combattente giovanissimo, per la


libertà del proprio Paese, nella guerra contro gli invasori
sovietici, durante la quale ha perso un occhio ed è stato ferito
quattro volte. Combattente contro i "signori della guerra"
110
afgani, a difesa della povera gente vessata e angariata dai
prepotenti di sempre. Da 10 anni tiene in scacco il più potente,
sofisticato e tecnologico esercito del mondo. 10

PERSONAGGI INTERNAZIONALI

Abmadinejad, Mahmud (55) «L'olocausto non è mai


esistito». Non è così. Ma ha avuto un effetto liberatorio come
quando Fantozzi osa dire «La corazzata Potjomkin è una boiata
pazzesca! ». 7

Assange, Julian (40) Col suo Wikileaks ha distrutto


definitivamente la credibilità delle democrazie. 7 1/2

POLITICI EUROPEI

Berlusconi, Silvio (75) Che senso ha diventare uno degli


uomini più ricchi del mondo, violando tutte le leggi, e il
padrone di un Paese per poi finire con un semicesso come la
Daddario facendosela, per soprammercato, pagare ?
Utilizzatore finale. 4

Sarkozy, Nicolas (56) Probabilmente è delinquente come


quello di cui sopra. Ma perlomeno ha sedotto (o si è fatto
sedurre) da una delle donne più affascinanti d'Europa, col più
bel culo d'Europa: 6 t/2

Merkel, Angela (57) Tedesca. Basta la parola. 7

111
POLITICI ITALIANI

Bossi, Umberto (70) È l'unico vero politico comparso


sulla scena italiana negli ultimi vent'anni. 8

Lega Alleandosi con Berlusconi ha perso se stessa. 4

Fini, Gianfranco (59) Dopo 57 anni da coniglio ha fatto


un atto di coraggio. Probabilmente tardivo. 6 t/2

Bocchino, Italo (44) Interessante. Perfetto il suo discorso


alla Camera. 7

Letta, Gianni (76) L'uomo più viscido d'Italia. Probabile


futuro Presidente della Repubblica. Impomatato. 3

Brambilla, Michela (44) Ca.rfagna, Mara (36) and


girls Come chiamarle senza essere querelati? Definiamole, per
carità di patria, "favorite di Regime". 4

Bindi, Rosy ( 6o) Democristiana che interpreta la politica


come "spirito di servizio". 7 t/2

Bersani (6o), Vendola (53) & company. Inesistenti. 4

Benedetto XVI (84) Era più interessante da cardinale


(«<l Progresso non ha partorito l'uomo migliore, una società
migliore e comincia a essere una minaccia per il genere
umano»). Aveva cominciato bene anche da Papa portando il
dibattito ad un alto livello culturale. In poco tempo è diventato
un politico italiano come tutti gli altri. Roma corrompe tutto e
tutti. Anche i Papi. Soprattutto i Papi. Urge Avignone. 5

112
GIORNALISTI, INTELLETTUALI & AFFINI

Lerner, Gad (57) Paraculo senior. 5

Fazio, Fabietto (47) Paraculo junior. 4

Santoro, Michele (6o) Due buone braccia sottratte


all'agricoltura. 4

Vespa, Bruno (67) Inqualificabile. s.v.

Piroso, Antonello (51) TI migliore. Ma lo hanno fatto


fuori. 7

Veneziani, Marcello (56) Nel 1990, parafrasando


Spengler, scrisse Processo all'Occidente. Poi si è messo al
servizio di Berlusconi che è più occidentale di Bush. Nel
Canton Ticino chiamano u n c e rto tipo di verme
particolarmente verminoso "nercio". « Uh, un "nercio"! »
Strillano, schifati, i ragazzini quando sollevando una pietra ne
scovano uno. Il voto glielo dia il lettore.

Panebianco, Angelo (63) Fatte tutte le debite


proporzioni si potrebbe dire di lui quello che Leo Longanesi
disse di Benedetto Croce: «Non capisce niente, ma con grande
autorità». o

113
CALCIO

Mourinho, José (48) Col suo Real Madrid ha preso


cinque pappine a zero dagli eterni rivali del Barcellona.
Quest'anno non vincerà nulla. "Zeru tituli". 4

Iniesta, Andrés (27) Sembra un impiegato di banca,


pallidissimo («Sei pallido come Iniesta» dicono scherzando fra
loro i giocatori del Barca), modesto, di poche parole, antidivo.
Molti lo hanno scoperto perché ha segnato il gol decisivo ai
Mondiali. Ma sono almeno tre anni che Iniesta è il giocatore
determinante del Barcellona, più di Messi, e della Spagna. 9

(gennaio 2011)

114
Un Paese che non
. . '

esiste p1u

In Tunisia sono bastati due giorni di manifestazioni


violente, anche se disarmate ma accettando il rischio, poi
divenuto realtà, che ci fosse qualche morto fra i ribelli, per
cacciar via un dittatore, Ben Alì, O'antico protettore di Bettino
Craxi) che resisteva da 23 anni, fuggito come un coniglio con la
sua moglie parrucchiera portandosi via una parte delle casse
·
dello Stato come fanno sempre questi individui. In Albania è
bastato un giorno di manifestazioni di questo tipo perché il
vicepremier, accusato di corruzione, fosse costretto a
dimettersi. E nel momento in cui scrivo il palazzo del
presidente Berisha, un dittatore in salsa democratica come
Berlusconi, è assediato dai manifestanti. Così come in Egitto è
assediato il palazzo del presidente Mubarak, grande alleato,
come Berisha, degli americani, che non contento di aver
imperato per trent'anni intende di passare le consegne a suo
figlio. In Brasile, qualche anno fa, il presidente Collar De
Mello, eletto direttamente dal popolo, quindi col massimo
della legittimazione democratica, fu costretto a dimettersi da
quello stesso popolo, infuriato perché De Mello era accusato -
solo accusato - dalla magistratura del suo Paese di corruzione e
di evasione fiscale e i brasiliani, che fino a poco tempo fa noi
consideravamo gente da Terzo Mondo, non tolleravano di
avere un premier corrotto e evasore.

In Italia basterebbe una spallata del genere di quelle che si


sono viste nei giorni scorsi in Tunisia, in Albania, in Egitto e,
115
meno recentemente, in Brasile, una spallata cioè condita con
un po' di necessaria e sacrosanta violenza («Un po' di violenza
non fa mai mal, leggi un romanzo di Mike Spillane» diceva un
vecchio refrain degli anni Cinquanta) per abbattere il
traballante, politicamente,.penalmente ed esteticamente, Silvio
Berlusconi che riassume in sé le pecche di Berisha, di Ben Alì,
di Mubarak e Collar De Mello.

Ma il Cavaliere può dormire sonni tranquilli abbracciato a


qualche bambola gonfiabile. L'Italia è un Paese svuotato, oltre
che di qualsiasi valore che non sia il Dio Quattrino e che quindi
si riconosce perfettamente in Berlusconi che rappresenta al
meglio il peggio degli italiani, anche di ogni energia. Se capita
qualche volta che uno stupro tentato nel pieno centro di una
città o una rapina vengano sventate dall'intervento di
qualcuno, questo qualcuno è, di solito, un albanese, un
rumeno, un rom. Gli italiani si voltano dall'altra parte, fingono
di non vedere, subiscono. Perché albanesi, romeni, rom, slavi
hanno conservato una vitalità che noi abbiamo perduto nella
grascia del benessere. Questo è un Paese in cui nessuno è più
disposto non dico a correre dei rischi fisici affrontando un
malfattore, ma nemmeno a inzaccherarsi le scarpe. Un paio di
scarpe firmate valgono più dell'onore. E se mafia, camorra,
'ndrangheta, Santa Corona Unita spadroneggiano in questo
Paese è anche perché, bisogna pur dirlo, hanno più energia,
sono più vitali del resto della popolazione che non è che sia più
onesta ma è in grado di compiere solo quei reati di denaro,
tipici dei "colletti bianchi", dove non si corre nessun rischio.

Se un nostro soldato, superarmato e superprotetto, muore


in Afghanistan combattendo contro uomini che sono armati
quasi solo del loro corpo e del loro coraggio, i funerali durano
tre giorni, alla presenza del Presidente della Repubblica, del
presidente del Senato, del presidente della Camera, del

n6
ministro della Difesa, del ministro degli Esteri, e i lamenti
vanno avanti per una settimana. In Mghanistan gli inglesi
hanno perso, a tutto il 2010, 347 uomini e li hanno onorati,
com'è giusto che sia, ma con molta maggiore sobrietà. Il nostro
è un Paese che ha perso il senso della dignità, del decoro, del
pudore dove ognuno si sente autorizzato a rovesciare le proprie
viscere, i propri sentimenti più intimi, in pubblico, purché sia
davanti a una telecamera.

L'Italia è un Paese vecchio. L'età media è di 43 anni, in


Tunisia di trenta. Negli ultimi dieci anni gli ultracentenari sono
triplicati, gli over 85 sono il 2,8 per cento della popolazione, gli
over 65 il 20, 3, i ragazzi intorno ai vent'anni sono soo mila,
meno dell'un per cento. Continuiamo ad avere il più basso
tasso di natalità al mondo e non tanto per motivi economici ma
perché l'antico "latin lover" non ha più nemmeno l'energia per
scopare. Sono più di tre milioni gli italiani maschi che, in
un'età in cui si dovrebbe essere nel pieno vigore, hanno
problemi di erezione. E non può essere solo una questione di
jeans troppo stretti.

Un Paese di vecchi pensa vecchio. E costringe a pensar


vecchio anche i suoi pochi giovani. Così siamo ancora ancorati
a categorie politiche, destra e sinistra, che hanno due secoli e
mezzo di vita, perennemente intrappolati da polemiche
catacombali, sulla Resistenza, il fascismo, l'antifascismo, il
comunismo, l'anticomunismo, il Sessantotto. Mentre non
passa giorno senza che il nostro 85 enne Presidente della
Repubblica ci ammonisca a celebrare degnamente i 150 anni
dell'Unità d'Italia. Un Paese che non esiste più.

(febbraio 2011)

117
Libia: in1barazzo
• • •

e lpOCflSla

Se non si trattasse di una tragedia sarebbero quasi


divertenti la strizza al culo e l'imbarazzo da cui sono state colte
le cosiddette democrazie occidentali di fronte alle rivolte
popolari in Tunisia, in Egitto, in Algeria, in Libia. L'imbarazzo
è doppio perché i grandi vessilliferi della democrazia
universale, i difensori professionisti dei "diritti umani", che
hanno occupato l'Mghanistan per imporre alle donne di
liberarsi del burqua, provocando 6o mila vittime civili, che
quando c'è di mezzo un Paese che non gli garba, poniamo
l'Iran, sono pronti a scatenare una mobilitazione
internazionale delle "anime belle" perché una donna che ha
accoppato il marito sia "subito libera", non possono dirsi ostili
a delle rivolte popolari contro dei dittatori patentati e d'altro
canto nemmeno negare che quei pendagli da forca, che
rispondono al nome di Ben Alì, testé fuggito con la cassa di
fronte al furore del proprio popolo, di Mubarak, di Boutetlika e
dell'ultimo Gheddafi, ridiventato "potabile" da quando si è
messo in affari con l'Occidente, li hanno sostenuti proprio loro,
le democrazie occidentali. Valga un esempio per tutti. Nel 1991
si svolsero in Algeria le prime elezioni libere dopo trent'anni di
dittatura di generali tagliagole. Le vinse, col 78% dei consensi,
il Fis (Fronte Islamico di Salvezza). Con l'appoggio dell'intero
Occidente i generali annullarono le elezioni, misero in galera i
dirigenti del Fis e col pretesto che avrebbero instaurato una
dittatura, in quel momento del tutto ipotetica, ribadirono la

n8
legittimità di quella imperante, del tutto reale. Fu una bella
pedagogia per i popoli arabi e di tutto il mondo: la democrazia
vale solo se le elezioni le vinciamo noi o i nostri amici,
altrimenti son meglio i dittatori, purché proni ai nostri voleri.

La strizza al culo viene dalla consapevolezza che le rivolte


tunisine, egiziane, libiche e anche quelle in Marocco e nel
piccolo Bahrein (dove c'è la solita base americana) cambiano
l'intero quadro mediorientale. Segnano l'inizio della fine
dell'Impero americano, e occidentale, in quelle regioni. Perché
i popoli di Tunisia, dell'Egitto, della Libia, una volta liberatisi
dei propri dittatori finiranno, prima o poi, per liberarsi anche
dei loro protettori o, quantomeno, per prenderne le distanze.

Gli americani stanno già correndo ai ripari. In Egitto sono


riusciti, almeno per il momento, a trasformare una rivolta
popolare in un golpe militare da parte di quell'esercito che per
decenni ha sostenuto la dittatura di Mubarak e che veniva
finanziato dagli Usa (e probabilmente lo è ancora) con tre
miliardi di dollari l'anno. Ma è dubbio che questo gioco delle
tre tavolette gli riesca a lungo. È difficile che il popolo egiziano,
dopo aver lasciato sul terreno alcune centinaia di morti, accetti
qualche altro presidente burattino i cui fili vengano tirati da
oltreoceano. Sulla Libia Obama ha tergiversato a lungo per
vedere come evolveva la situazione, adesso proclama che
«Gheddafi se ne deve andare» (non si vede in base a quale
autorità e legittimità, non sono affari suoi) e offre il suo aiuto
ai rivoltosi, che, pur in inferiorità militare rispetto ai mezzi di
cui dispone il rais di Tripoli, lo hanno rifiutato dichiarando che
non accetteranno «interferenze straniere, di nessun tipo».
Vogliono essere liberi di decidere il proprio destino senza
pelose supervisioni occidentali, tantomeno yankee. È evidente
che alle cosiddette democrazie occidentali andava benissimo lo
"statu quo" che gli permetteva di controllare e governare
119
geopoliticamente la regione e di ruminare in tutta tranquillità i
propri sporchi affari. Se poi questo avveniva al prezzo della
schiavizzazione di milioni di persone, alle cosiddette
democrazie non gliene poteva fregar di meno.

La preoccupazione dell'intero Occidente è ora concentrata


sulla domanda: «Che cosa succederà dopo?». Particolarmente
significativo è un contorto articolo di Pierluigi Battista
(Corriere della Sera, 26/2/2011) che, seguendo senza saperlo il
pensiero di Eraclito che riteneva che l'umanità fosse destinata
a peggiorare costantemente, ricorda come tutte le rivoluzioni
hanno partorito regimi peggiori di quelli che avevano
abbattuto. Anche se è curioso che Battista se ne rammenti
proprio in questo momento, c'è del vero. Peccato che Battista,
nel suo excursus, si dimentichi di citare in questo senso
deteriore la rivoluzione che ha partorito la più disumana di
tutte le dittature: la dittatura del mercato. Vale a dire la
rivoluzione borghese a cui Battista è tenacemente avvinghiato
e alla quale non riconosce gli effetti regressivi e perversi delle
altre rivoluzioni come se, per qualche privilegio divino, uscisse
dalla regola generale che egli stesso ha posto. Marx ed Engels,
che ammiravano la borghesia proprio per il suo ruolo
rivoluzionario, nel Manifesto del Partito comunista fanno,
senza volerlo, intendendolo come un passaggio necessario in
funzione di una successiva palingenesi, il più spietato ritratto
degli esiti della rivoluzione borghese che tanto piacciono a
Battista e a tutti i Battista del mondo e che sono quelli che, da
due secoli e mezzo, viviamo sulla nostra pelle: «La borghesia
ha avuto nella storia una funzione sommamente
rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte
le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha
lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società
avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato
fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse e lo
120
spietato "pagamento in contanti" ... Ha fatto della dignità
personale un semplice valore di scambio, e in luogo delle
innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate,
ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli, in una
parola al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e
politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudore,
diretto e arido. La borghesia ha spogliato della loro aureola
tutte quelle attività che per l'innanzi erano considerate degne
d'ammirazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il
giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.
La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimento che
awolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice ·

rapporto di denaro».

(marzo 2011)

121
Colonialisn1o tern1inale

Il colonialismo ha conosciuto, finora, tre fasi: il


colonialismo classico, il colonialismo economico e il
colonialismo che stiamo vivendo adesso che è una sorta di mix
dei primi due.

Fra colonialismo classico e colonialismo economico corre


una differenza sostanziale. Il primo, che è stato agito in modo
sistematico dalle grande Potenze europee, soprattutto
Inghilterra e Francia, nell'Ottocento proprio pochi anni dopo
che la Rivoluzione francese aveva pronunciato le sacre parole
libertè, egalitè, fraternitè (che evidentemente non valevano nei
confronti dei popoli che si andava ad assoggettare) conquistava
territori, imponeva protettorati, rapinava materie prime di cui
spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché, proprio
per il razzismo dichiarato dei colonizzatori, le due comunità,
quella dei conquistatori e quella dei conquistati, rimanevano
sostanzialmente separate, gli indigeni continuavano a vivere
come avevano sempre vissuto, secondo la propria economia,
socialità, cultura, tradizioni, costumi e quindi, a parte il fatto di
averci quegli stronzi sulla testa, poco per loro cambiava.

Il colonialismo economico, che si sviluppa a pieno regime a


partire dalla metà degli anni Sessanta quando finisce la fase di
ricostruzione del dopoguerra, è stato molto più devastante. A
differenza del primo rispetta formalmente la sovranità degli
Stati, non conquista territori ma ha un estremo bisogno di
conquistare me rcati perché i suoi, a causa della
iperproduzione, stanno diventando rapidamente saturi. E per

122
far questo deve omologare la mentalità, la socialità,
l'economia, le tradizioni, i costumi, possibilmente anche le
"
istituzioni e, insomma, la way of life" dei popoli indigeni alla
nostra per poterli piegare ai nostri consumi.

Questa sottile violenza ha due conseguenze che sono


entrambe all'origine delle migrazioni bibliche cui stiamo
assistendo negli ultimi decenni. Non parlo delle attuali
migrazioni di tunisini, di libici, di egiziani che sono dovute a
motivi contingenti e che quindi si esauriranno con essi, parlo
di cause profonde che non solo non si esauriranno ma
produrranno spostamenti colossali di masse umane rispetto ai
quali quelli di oggi sono solo un pallido fantasma.

1) Rese eccentriche rispetto alla propria cultura, che non


esiste più o è stata ridotta ai margini, costrette a vivere dei
materiali di risulta dell'Impero (si vada a Nairobi, a Lagos, a
Karachi) queste popolazioni tendono a venire verso il centro
dell'Impero per trovarvi una vita migliore. 2) Se la prima
conseguenza è esistenziale, la seconda è crudamente materiale.
L'intrusione del modello di sviluppo occidentale nei Paesi del
Terzo Mondo ha sradicato le economie di sussistenza
(autoproduzione e autoconsumo con ricorso minimo al denaro
ma semmai al baratto) su cui questi popoli avevano vissuto, e a
volte prosperato, per secoli e millenni, costringendoli a
integrarsi nel mercato globale dove si trovano in una posizione
di totale debolezza. Non solo perché sono gli ultimi arrivati ma
perché a molta di questa gente manca la cultura della
kunkurenzkampf di tipo occidentale. Oggi questi Paesi
esportano qualcosa ma il ricavato di tali esportazioni non è
sufficiente a colmare, neanche lontanamente, il deficit
alimentare che si è venuto a creare. E quindi la fame. Un
esempio classico è l'Africa Nera, subsahariana. Era
praticamente autosufficiente (al g8%) dal punto di vista
123
alimentare nel 1961, ma dieci anni dopo, quando si cominciò a
considerarla un mercato interessante per quanto povero (il
modello di sviluppo occidentale era già costretto a raschiare il
fondo del barile) l'autosufficienza era scesa all'89% e al 78%
nel 1978. Poi le cose sono precipitate. Per sapere quel che è
successo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le
immagini che ci vengono dal Continente Nero.

n terzo colonialismo, quello attuale, prende dal primo


l'aggressione a mano armata e dal secondo le motivazioni
economiche. L'esigenza essenziale oggi per il modello di
sviluppo imperante, in cui sono entrate anche Cina e India Oa
Russia c'era già da tempo, ma sub specie marxista, cioè di un
industrialismo inefficiente) non è più, come nell'Ottocento, di
accaparrarsi le materie prime o preziose (rame, ferro, 'zinco,
oro, diamanti e così via) ma le fonti di energia, petrolio e gas,
per sostenere e aumentare la sua iperproduttività. Di qui il
primo conflitto del Golfo (1991), l'invasione e l'occupazione
dell'Mghanistan del 2001 (gasdotto), la riduzione dell'Iraq a
neoprotettorato (2003) e ora l'attacco alla Libia. E da certi
movimenti che si notano in Siria si capisce benissimo che il
prossimo obiettivo sarà l'Iran.

Poiché l'Occidente, campione di morale, rappresentante del


Bene contro il Male, che oltretutto conta nelle sue file
nientemeno che un "popolo eletto da Dio", non può ammettere
di fare delle guerre di conquista cerca di salvarsi l'anima
chiamandole con altri nomi: operazioni di polizia
internazionale, operazioni di "peace keeping", missioni a difesa
dei "diritti umani". Ma non salverà l'anima e nemmeno la
pelle. Quasi certamente l'attuale modello di sviluppo, di cui gli
Stati Uniti sono la punta di lancia, riuscirà a occupare e
omologare a sé l'intero esistente. Ma, raggiunto il suo scopo,
crollerà. Non tanto perché, come teme, verranno meno le fonti
124
di energia, la Tecnologia può sempre trovare qualche soluzione
alternativa. Ma perché la sua iperproduttività gli cadrà
letteralmente sui piedi. Dopo aver preteso dalle popolazioni del
Primo e del Terzo Mondo disumani sacrifici umani, in termini
di lavoro, di fatica, di stress, di angoscia, di nevrosi, di
depressione, di infelicità, non saprà più a chi vendere ciò che
produce. E un sistema che si basa sulle crescite esponenziali,
che esistono in matematica ma non in natura, nel momento in
cui non potrà più crescere imploderà su se stesso. Sarà uno
Tsunami economico planetario. Si salveranno gli indigeni delle
Isole Andemane, che già se la cavarono senza un morto né un
ferito nello tsunami marino di qualche anno fa, che hanno
continuato a vivere di caccia, di pesca, di agricoltura,
impegnandosi moderatamente perché non hanno il concetto e
l'ansia dell'accumulo, e passando il molto tempo che gli rimane
in feste, danze, balli, canti, amoreggiamenti e scherzetti osceni
perché le loro donne hanno belle e protuberanti chiappe. Tra
l'altro gli Andemanensi sono l'unico popolo al mondo a non
avere un culto religioso né, tantomeno, un Dio. Cosa, anche
questa, che dovrebbe farci riflettere. Se ne fossimo ancora
capaci.

(aprile 2011)

125
Ecco i veri terroristi

Quando a Exit, il programma della brava e bella Ilaria


D'Amico su La7, ho detto che i veri terroristi internazionali
erano gli alleati della Nato, americani in testa, che dell'Alleanza
Atlantica sono i padroni, in studio si è creato un gelo fra il
pubblico in studio e gli ospiti. Persino Vauro, che aveva
tuonato fin lì contro la guerra in libia, è sembrato sorpreso.
Sembrava che avessi detto una bestemmia in Chiesa. Eppure
parlano i fatti. Da quando è crollata l'Unione Sovietica, che
faceva da contrappeso, gli americani e la Nato hanno
inanellato cinque guerre a fila.

Nel 1990 il primo conflitto del Golfo poteva avere una


giustificazione. L'Iraq di Saddam Hussein aveva invaso il
Kuwait. È vero che il Kuwait è uno stato per modo di dire,
essendo stato creato nel 1960 dagli Americani per i loro
interessi petroliferi. Del resto anche l'Iraq è un'invenzione.
Degli inglesi questa volta che nel 1930 misero insieme
cervelloticamente tra comunità, curdi, sunniti e sciiti, che non
avevano nulla a che vedere fra loro. Solo un dittatore feroce
come Saddam poteva tenerle insieme. E infatti adesso che
Saddam è stato eliminato in Iraq infuria una spietata guerra
civile fra sunniti e sciiti, con decine e a volte centinaia di morti
quasi ogni giorno di cui la stampa occidentale non dà neppure
più notizia (infatti, essendo abituali, non fanno notizia) a meno
che non vi rimanga coinvolto qualche cristiano. Comunque,
fasullo o meno, il Kuwait era uno Stato rappresentato all'Onu
(come peraltro lo è la Libia) e la guerra a Saddam Hussein
poteva considerarsi giusta. Ma bisogna anche vedere come le si
126
fanno, le guerre. Per non affrontare fin da subito, correndo il
rischio di perdere qualche soldato, l'imbelle esercito iracheno,
che persino i curdi avevano battuto (in qualche caso Saddam
era stato salvato dalla Turchia, alleato strategico degli Stati
Uniti nella regione).

Gli Americani avevano bombardato per tre mesi le grandi


città irachene facendo 159 mila vittime civili: 86164 uomini,
39612 donne e 32195 bambini. Dati del Pentagono e quindi al
di sopra di ogni sospetto. n bello è (si fa per dire) che questa
carneficina non servì a nulla perché le truppe del glorioso
generale Schwarzkopf che, dopo i bombardamenti, volarono
nel deserto a Bo all'ora si fermarono a cinquanta chilometri da
Bagdad. Non andarono cioè a prendere il principale
responsabile dell'invasione del Kuwait, Saddam Hussein.
Come mai? Perché Saddam, munito delle 'armi chimiche' che
gli stessi americani, i francesi e, via Germania est, i sovietici gli
avevano fornito, gli serviva in funzione anticurda e antisciita. I
curdi iracheni sono infatti ritenuti pericolosi perché
potrebbero innescare l'indipendentismo dei loro 12 milioni di
confratelli che vivono in Turchia, trattati come bestie che non
hanno diritto di parola e nemmeno di chiamarsi curdi. Nel
1989 Saddam ne aveva 'gasati' 5000 ad Halabya nel silenzio
della stampa occidentale perché a quell'epoca il rais di Bagdad
era ancora nostro alleato in funzione antikhomeinista.

Nel 1999 la Nato, con l'Italia di D'Alema nel poco onorevole


ruolo del 'palo', aggredì la Serbia per la questione del Kosovo.
Nel Kosovo si era creata questa situazione: nella regione, da
sempre storicamente e giuridicamente serba, gli albanesi erano
diventati maggioranza in virtù di immigrazione e di
riproduzione e, foraggiati dagli americani, conducevano una
lotta di indipendenza non disdegnando di servirsi di attentati
terroristi, come fa ogni Resistenza, mentre l'esercito e le milizie

127
paramilitari serbe ('le tigri di Arkan') difendevano, con metodi
brutali e in un caso con un eccidio di civili (Rakak, 205 morti),
una terra che era sempre stata loro. Erano quindi di fronte
come spesso succede, due ragioni: quella dei serbi non erano
minori di quelle degli indipendentisti albanesi. Un territorio
infatti non appartiene solo a chi ci vive in quel momento, ma
alle generazioni che per secoli lo hanno lavorato e reso quello
che è. Ma gli americani decisero che la ragione stava solo dalla
parte degli albanesi e, contro la volontà dell'Onu (che è come la
pelle dei coglioni, va su e giù: l'Onu diventa fondamentale e le
sue risoluzioni fan legge quando dà il suo assenso, se non lo dà,
anzi è contraria, chissenefrega), bombardarono per 72 giorni
una grande capitale europea come Belgrado facendo ssoo
morti, di cui soo proprio fra quegli albanesi che si pretendeva
di difendere. Per gli Usa si trattava di costituire un cuneo di
musulmanesimo moderato (Albania+ Bosnia+ Kosovo) nei
Balcani ad uso del loro alleato turco. Nei Balcani fu favorita, a
danno della Serbia, paracomunista ma pur sempre cristiana e
ortodossa, quella componente islamica che oggi provoca le
isterie Fallaci-Allam-style. In compenso oggi in Kosovo c'è la
più grande base americana nel mondo.

Nel 2001, col pretesto di prendere un uomo, Osama Bin


Laden, che è stato preso e ucciso solo due settimane fa in
Pakistan, la Nato ha invaso l'Mghanistan che occupa
militarmente da dieci anni. I morti civili, per non parlar
d'altro, sono stati 6o mila, la maggior parte dei quali, secondo
un rapporto Onu del 2009, provocato dai bombardieri Nato.

Nel 2003 gli americani, con l'appoggio di alcuni Paesi Nato,


hanno invaso e occupato l'Iraq col pretesto delle 'armi di
distruzione di massa' di cui Saddam sarebbe stato in possesso.
In effetti il rais quelle armi le aveva avute, gliele avevano date,
come si è detto, proprio gli occidentali e i sovietici, ma dal
128
momento dell'attacco americano non le aveva più perché le
aveva già usate sui curdi e sui soldati di Khomeini (il quale
invece aveva proibito alle sue truppe di farne uso perché
contrarie alla morale del Corano). I morti fra i civili sono stati
170 mila. Il calcolo è stato fatto, in modo molto semplice, da
una rivista medica inglese confrontando i decessi degli anni di
Saddam con quelli degli anni dell'invasione Usa.

Adesso c'è la Libia. Un intervento che viola almeno due


principi di diritto internazionale: 1) La non ingerenza militare
negli affari interni di uno Stato sovrano 2) Il principio
dell'autodeterminazione dei popoli solennemente sancito a
Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del
mondo. Non si capisce che senso abbia intervenire per salvare i
civili libici dai bombardamenti di Gheddafi per poi ammazzare
i civili rimastigli fedeli. Né mi risulta che la risoluzione Onu
autorizzasse ad assassinare i figli e i nipotini del rais.
Comunque i calcoli delle vittime civili provocate dall'intervento
della Nato li faremo alla fine. Rimaniamo al certo. Le cinque
guerre americane-Nato hanno causato circa 400 mila morti
civili. Il terrorismo internazionale (attentati alla ambasciata
americana in Kenya e Tanzania, Torri Gemelle, attentati di
Londra e ai treni spagnoli) circa 3500. Un rapporto di 110 a
uno. E allora chi è il terrorista?

(maggio 2011)

129
La giustizia dei vincitori

È molto probabile, per non dir certo, che Mladic si sia reso
responsabile di violenze che esulano dallo 'ius belli', anche se
. dopo l'abbattimento di quasi tutti i principi di diritto
internazionale da parte dell'Occidente non si sa più bene quale
sia questo 'ius', cioè quel particolare diritto che vige in tempo
di guerra. Man mano che l'egemonia delle democrazie
occidentali, a guida americana, diventa totalitaria, lo 'ius belli'
tende a coincidere sempre più con la forza. La forza del più
forte. Ciò che era illecito, per esempio l'ingerenza negli affari
interni di uno Stato sovrano, è diventato lecito, basta
chiamarlo "missione di pace" (vedi Libia e, prima ancora, la
stessa Serbia). Ciò che era lecito è diventato illecito se
commesso dai vinti (una delle accuse a Mladic è di aver
assediato per tre anni Sarajevo, ma quando mai, in guerra, è
stato considerato illecito l'assedio di una città?).

Anche se Mladic si fosse macchiato di 'crimini di guerra', io


non credo alla giustizia dei vincitori. Credo che non abbia nulla
a che fare con la giustizia.

Tutto cominciò con i processi di Norimberga e di Tokyo


quando, per la prima volta nella Storia, i vincitori non si
accontentarono di essere più forti dei vinti, ma pretesero di
esserne anche moralmente migliori e quindi tali dal poterli
giudicare. In questo modo la morale e il diritto, che ne è la
formalizzazione, coincidono con la forza, la forza del vincitore.
Ma questo è esattamente il contrario del diritto. Scriveva
l'americano Rustem Vambery, docente di diritto penale, sul

130
settimanale The Nation del 1 dicembre 1945= "Chiunque
conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti
millenni ci sono voluti per affermare la forza del diritto contro
il diritto della forza". E Benedetto Croce in un discorso tenuto
all'Assemblea Costituente il 24 luglio 1947, affermava: "Segno
inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri
(bisogna pur avere il coraggio di confessarlo) i tribunali che
senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito
per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali
di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti,
abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, ove un
tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne
chiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e
concludendo con ciò la guerra". Erano principi liberali,
espressi da grandi liberali, quando i liberali esistevano ancora.

Nei processi dei vincitori le sentenze sono già scritte. Sono


quindi una farsa, un balletto ipocrita. Il Tribunale
internazionale dell'Aja ha poi questa curiosa particolarità: che
possono esservi giudicati tutti, almeno in teoria, tranne gli
americani. Questi si sono infatti sempre rifiutati di
riconoscere, per quanto li riguarda, l'autorità del Tribunale
dell'Aja e quindi la sua potestà a giudicare eventuali 'crimini di
guerra' delle proprie truppe. Che è, direi, una concezione
berlusconiana del diritto portata a livello internazionale.

Del resto non si sono mai visti vincitori alla sbarra. In


Bosnia la 'pulizia etnica', che è una delle accuse di cui deve
rispondere Ratko Mladic, l'hanno praticata tutti, serbi, croati,
musulmani. Peraltro era difficile fare diversamente poiché in
ogni villaggio di quella regione c'è una chiesa cattolica, una
ortodossa e un minareto. Non per nulla gli occupanti
occidentali sono stati costretti a formalizzare questa 'pulizia'
dividendo quello Stato fasullo che è la Bosnia, divenuta di fatto
13 1
un loro protettorato nel bel mezzo dell'Europa, in tre parti: una
musulmana, una croata e una serba. In ogni caso davanti al
Tribunale dell'Aja è finita l'intera gerarchia politico-militare
serbo-bosniaca, mentre quelle croate e musulmane sono
rimaste indenni, tranne qualche scartina, tanto per salvare la
faccia. Il presidente croato Tudjman, autore della più colossale
'pulizia etnica' dei Balcani (8oo mila serbi cacciati in un solo
giorno dalle 'krajne') è morto tranquillamente nel suo letto.
Nessuno si è mai sognato di portarlo davanti al Tribunale
dell'Aja. Faceva parte del circolo dei vincitori. Per la verità
Tudjman così come il leader musulmano Izetbegovi?, quella
guerra l'aveva persa. L'avevano vinta i serbi. Fu l'intervento
americano, per la verità su richiesta della Germania e del
Vaticano dove allora regnava Papa Wojtyla, 'santo subito', a
cambiare il verdetto del campo di battaglia. Ciò ebbe come
ulteriore conseguenza che la responsabilità della guerra di
Bosnia fu accollata solo ai serbi-bosniaci. Ma le cose non
stanno esattamente così. Quando, dopo il crollo dell'Urss,
Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza dalla
Jugoslavia - cosa sacrosanta - la comunità internazionale fu
pronta a riconoscergliela, come fu pronta a riconoscere
l'indipendenza della Bosnia che, a differenza di Croazia e
Slovenia, non era mai stata, nemmeno prima della formazione
della Jugoslavia, uno Stato, ma solo una regione dei Balcani. A
questo punto i serbo-bosniaci chiesero a loro volta
l'indipendenza dalla Bosnia o di potersi riunire alla
madrepatria di Belgrado. E anche questa richiesta era
sacrosanta. Perché una Bosnia multietnica, a guida
musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia
multietnica che non esisteva più. Ma ciò che la comunità
internazionale aveva accordato agli sloveni, ai croati, ai
musulmani bosniaci lo negò ai serbi. Che scesero in guerra in
nome di un diritto, l'autodeterminazione dei popoli, che solo a

132
loro era negato. Se quella guerra l'avessero vinta, come
l'avevano già vinta se non ci fosse stata la solita intromissione
occidentale nelle guerre altrui in nome dei 'diritti umani' (solo
le guerre che facciamo noi sono 'giuste', quelle degli altri sono
sempre 'criminali'), oggi Ratko Mladic, invece di sedere,
pallido ectoplasma dell'uomo che fu, sui banchi del Tribunale
dell'Aja, sarebbe un eroe nazionale serbo. Ma l'attuale
presidente Tadic, che ha ridotto la Serbia a un protettorato
americano, se lo è venduto per avere il lasciapassare per
entrare nella Unione Europea. Che, visti gli esiti in Grecia e i
traballamenti di altri Paesi europei, Italia inclusa, non si
capisce nemmeno quali vantaggi porti.

(giugno 2011)

1 33
Al contrario sul
tapis roulant

Allora è deciso: la trapanazione della Val di Susa si farà, per


permettere ai treni ad Alta Velocità di congiungere il più
rapidamente possibile Torino con lione, e più in generale, il
Nord dell'Italia con la Francia del Sud. Tutte le forze politiche,
di maggioranza e di opposizione (con l'eccezione della Sei di
Vendola) sono d'accordo, nonostante la fortissima ostilità della
stragrande maggioranza dei valligiani e dei sindaci che non
vogliono che il loro paesaggio ne esca inevitabilmente
deturpato e soprattutto temono che venga sconvolto il loro
quieto vivere di montanari. Perché una simile determinazione
bipartisan incuranti anche di tafferugli molto vicini alla
guerriglia? La risposta è : "l'Alta Velocità è necessaria,
indispensabile, ineludibile. Molti Paesi l'hanno adottata, altri si
stanno attrezzando per farlo, rinunciarvi, in Val di Susa come
altrove, significa perdere in competitività e finire rapidamente
sugli ultimi gradini dei Paesi sviluppati. Dobbiamo stare al
passo degli altri". Il che è ineccepibile. Se gli altri vanno a mille
all'ora non si può competere andando a cento, ma qui sorge
una prima questione. Se tutti vanno a mille all'ora è come se
tutti stessero fermi. È come camminare su un tapis roulant in
senso contrario, per quanto ci si agiti si resta sempre allo
stesso punto. Nel frattempo però, uscendo di metafora, si è
massacrata la vita di tutti i popoli che partecipano a questa
folle corsa.

134
Non è una semplice, e sia pur importante, questione di
passaggio, ma di costi economici e umani. E la Val di Susa
serve solo da esempio. L'interrogativo infatti è globale e non
riguarda solo, e tanto, la paradossale immobilità relativa di un
mondo che va sempre più veloce, ma il senso di questa
continua accelerazione, nelle comunicazioni, reali e virtuali,
nella produzione, nei consumi, nell'inseguimento del mito
moderno della crescita indefinita. Dove ci porta questo mito?

A sbattere, prima o poi, e ormai molto più prima che poi, da


qualche parte. Nel 1985 ne "La Ragione aveva torto?" scrivevo:
"Se si guardano le cose non a mesi, ad anni ma con un minimo
di prospettiva non c'è dubbio che al fondo di questa folle corsa
c'è la catastrofe e, quel che è peggio, che la catastrofe non può
essere evitata perché la corsa non può più essere fermata. Io
vedo l'uomo tecnologico scendere una ripidissima strada in
sella a una splendente bicicletta senza freni: all'inizio era stato
piacevole per chi aveva pedalato sempre in salita e con
immane, penosa fatica, lasciarsi andare all'ebrezza e alla
facilità della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare
e si è fatta insostenibile, finché a una curva finiremo fuori. A
un certo punto la natura si libererà con uno scrollone di quel
tumore del creato che è diventato l'uomo".

Qualche anno dopo, nel 1989, per un'inchiesta che stavo


facendo per l'Europeo, andai a Ginevra per porre questa
questione a Carlo Rubbia che in quegli anni lavorava al Cern
alla ricerca del neutrino. Rubbia non ne voleva sapere. Diceva
che ero un apocalittico, che non mi avrebbe concesso più di
cinque minuti. "Ma vengo apposta da Milano" dissi io, alla
disperata. Rubbia mantenne il suo atteggiamento sdegnoso. Ad
un certo punto, a mia volta spazientito, gli dissi: "Senta, lei è
un fisico e le faccio una domanda per la quale pretendo una
risposta da fisico: andando a questa velocità, e continuando ad

135
aumentarla, non è che stiamo, inevitabilmente, accorciando il
nostro futuro?". "Ah, ma lei è un filosofo" disse lui, sorpreso. E
con questo cadde defi n itiva m e n t e nella già poca
considerazione che avevo per lui, perché la domanda mi pareva
ovvia.

Comunque si rabbonì e mi fornì l'immagine del treno che ho


usato tante volte, perfezionandola, nei miei scritti: "Capisco la
sua angoscia. Noi siamo su un treno che va a mille all'ora e che
per sua coerenza interna non solo non si può fermare, ma
nemmeno rallentare, deve continuamente aumentare la
propria velocità. Sul treno non c'è alcun guidatore e se mai c'è
s'illude di controllare i comandi. In realtà il meccanismo va
ormai, da tempo, per conto suo. E oltretutto non sappiamo se
abbiamo già superato il punto di "non ritorno". Se cioè anche
frenando di colpo eviteremmo il crash finale".

Noi non dovremmo aumentare la nostra velocità ma


diminuirla. Non dovremmo aumentare la produzione ma
ridurla. Non dovremmo aumentare la crescita ma decrescere.
Ma, come mi disse Rubbia, ormai è troppo tardi. Tra l'altro da
quei discorsi sono passati vent'anni, vent'anni in cui la
globalizzazione ha accelerato tutti i processi. Né le elites
mondiali che pretendono di comandarci e di guidarci hanno la
minima intenzione di invertire la rotta. Come dei dischi rotti
continuano a ripetere i vecchi talmud: velocità, crescita,
modernizzazione.

Ilari, col sole in fronte, incatramati delle nostre incrollabili


certezze stiamo andando incontro alla nostra rovina, che ci
siamo preparati con le nostre mani. Probabilmente questa era
la sorte, inevitabile, di quell'arrogante specie animale che è
l'uomo. La piece Cassandra ispirata al mio pensiero, che la
grande attrice di teatro Elisabetta Pozzi sta portando in giro
per l'Italia in questi mesi estivi, si conclude con queste
agghiaccianti ma profetiche parole di Friedrich Nietzsche: "In
un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso
infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali
intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più
tracotante e più menzognero della storia del mondo: ma tutto
ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura,
la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.
Quando per loro tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di
notevole.

(luglio 2011)

137
Dentocrazia: una truffa
da abbattere

Non è più il tempo delle parole. È venuto quello della


violenza. Non intendo, naturalmente, la violenza terroristica.
Del terrorismo ne abbiamo avuto abbastanza, in Italia, negli
anni Settanta e nei primi Ottanta, un terrorismo favorito
dall'inerzia e a volte dalla complicità, soprattutto di una parte
del Partito socialista, della classe dirigente che non fece nulla
per combatterlo finché uccideva gli stracci, agenti di custodia,
vigili urbani, operai, baristi, e si svegliò solo dopo il sequestro e
l'assassinio di Aldo Moro quando si rese conto che anche i
propri esponenti, e non solo cittadini comuni, potevano
esserne colpiti. Oltretutto quel terrorismo cavalcava
un'ideologia morente, il marxismo-leninismo, che si sarebbe
dissolto di lì a pochi anni col crollo dell'Unione Sovietica. In
ogni caso il terrorismo, oltre a rafforzare le classi dirigenti che
dice di voler combattere, non è moralmente accettabile se non
quando si rivolge contro truppe straniere che occupano il
territorio nazionale, come avviene in Afghanistan e come fu
quello della resistenza italiana peraltro ininfluente, a
differenza di quella afgana, dal punto di vista militare.

La violenza di cui parlo qui è quella di massa, non armata


ma disposta a lasciare sul terreno qualche morto, com'è stata
quella tunisina che nel giro di due soli giorni ha spazzato via il
dittatore Ben Alì.
La violenza di massa, di popolo, è giustificata, anzi resa
necessaria, da tre elementi. n primo è generale. Gli altri due
riguardano precisamente l'Italia.

1) La democrazia rappresentativa, come credo di aver


dimostrato in "Sudditi. Manifesto contro la democrazia", non è
la democrazia, ma un sistema di oligarchie, politiche ed
economiche, che schiacciano il singolo, colui che conserva quel
tanto di rispetto di sé, dal rifiutare gli umilianti infeudamenti a
una di queste mafie, e che sarebbe il cittadino ideale di una
democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima
designata.

2) Nelle altre democrazie occidentali questa sostanza di


fondo viene mascherata con un rispetto delle forme della
democrazia. Non è molto, ma è perlomeno qualcosa perché,
come diceva La Rochefoucauld, "l'ipocrisia è il prezzo che il
vizio paga alla virtù". In Italia sono saltate anche le forme della
democrazia. Si accetta, come cosa naturale, che delinquenti,
criminali, troie siano i nostri cosiddetti rappresentanti. E la
nostra libertà si riduce a scegliere, ogni cinque anni, da quale
delinquente o puttana preferiamo essere comandati. Che
questa classe dirigente, di maggioranza ma anche di
opposizione, non faccia più nemmeno finta di occuparsi del
bene collettivo ma pensi solo ad autoperpetuarsi lo si è visto
con chiarezza in questa crisi economica. È stato tutto un
azzuffarsi per scaricarsi l'un l'altro responsabilità che sono, sia
pur in misura diversa, di tutti e per ritagliarsi ulteriori
microfettine o macrofettone di potere.

Mentre agli italiani, anche e soprattutto a quelli che hanno


lavorato onestamente tutta una vita, si chiedevano altri
sacrifici, costoro si tenevano ben stretti i propri privilegi. Noi,
per questa classe di parassiti profumatamente pagati per non

139
fare assolutamente nulla, come i nobili dell'ancien régime, non
siamo che asini al basto, pecore da tosare.

3) Poi c'è il fenomeno Berlusconi. Un presidente del


Consiglio che definisce il Paese che ha governato per dieci anni
"un Paese di merda" non lo si era ancora mai visto, sotto
nessuna latitudine. Ci aspettavamo quindi un sussulto, un
soprassalto di dignità da parte degli italiani. Non per un
malinteso senso di orgoglio nazionale, ma perché ,
quell'espressione offende tutti noi, uomini e donne,
singolarmente presi, dandoci dei "pezzi di merda". Ci
aspettavamo quindi che gli italiani scendessero in strada, non
per il solito e inconcludente sciopero alla Camusso, ma per
dirigersi, con bastoni, con randelli, con mazze da baseball, con
forconi verso la villa di Arcore o Palazzo Grazioli o qualsiasi
altro bordello abitato dall'energumeno, per cercare di sfondare
i cordoni di polizia e l'esercito privato da cui, come un
signorotto feudale, si fa proteggere, per dargli il fatto suo.
Invece la cosa, di una gravità inaudita, è passata come se nulla
fosse. Anzi sul sito del Corriere della Sera Pierluigi Battista ha
difeso Berlusconi affermando che dire che "l'Italia è un Paese
di merda" non è reato.

Che c'entra? Non tutte le cose che hanno rilevanza politica


sono reati. Se un premier dicesse "da oggi tutti gli stipendi
sono dimezzati" nemmeno questo sarebbe un reato, ma non
per ciò i cittadini perderebbero il diritto di difendersi.

Fino a quando tollereremo che questo mitomane schizoide,


questa faccia di bronzo, questa faccia di palta, questa faccia di
merda, questo corruttore di magistrati, (nessuno crederà, sul
serio, che Previti abbia pagato in proprio il giudice Metta per
"aggiustare" il Lodo Mondadori a favor di Fininvest) ,
corruttore di testimoni (Milis), corruttore della Guardia di

140
Finanza, concussore della polizia (caso Ruby), creatore di
colossali "fondi neri", campione dell'evasione e dell"'elusione",
ci insulti impunemente e altrettanto impunemente violi quelle
leggi che noi cittadini siamo chiamati invece a rispettare?

Ma, in fondo, Berlusconi è utile. Perché, con la sua


arroganza, con la mancanza di qualsiasi prudenza, smaschera
la sostanza della democrazia, di qualsiasi democrazia:
impunità per i membri delle oligarchie dominanti, "in galera
subito e buttare via le chiavi" per i reati da strada che son
quelli commessi dai povericristi.

la solita, vecchia, cara, schifosa giustizia di classe.

Le democrazie rappresentative vanno quindi abbattute. E


non è affatto necessario, come le oligarchie dominanti vogliono
far credere per poter continuare a ruminare in tranquillità i
propri privilegi, che siano seguite da dittature. Si può pensare a
sistemi comunitari, a una sorta di feudalesimo senza feudatari,
o ad altro.

Comunque cominciamo a liberarci di questo sistema. Ciò


che verrà dopo si vedrà. Quello che non è più possibile
tollerare è continuare a star seduti, come se nulla fosse, su una
truffa che dura da due secoli.

(settembre 2011)

14 1
Postfazione: tenerissin1a
canaglia

Aver avuto la possibilità di conoscere e frequentare


Massimo Fini è stato un privilegio. E uno spasso. È stato, ed è,
sicuramente anche un beneficio di elevazione professionale e
spirituale, sia per la vicenda relativa al suo giornale, La Voce
del Ribelle, fondata nel 2008 e che ho l'onore di dirigere da
allora, sia per tutto il resto. Quel resto che - Massimo mi
perdonerà, spero - vorrei raccontare in questa breve nota, a mo
di diario, di pagine bagnate dal sale del mare estivo in cui mi
obbligava a bagnarmi. Sì perché il dottor Fini - così lo
chiamano da quelle parti - d'estate divide le sue ferie in due
villeggiature ben precise. Un rito che si ripete ogni anno. La
Corsica indipendentista e il radical chicchismo di Talamone.
Lo stesso video di presentazione del nuovo giornale che
sarebbe nato di lì a poco è stato girato lì. Praticamente sul
faraglione di Capo D'Uomo.

Ogni tanto passava tra le sdraio di quella spiaggetta privata


qualche vecchia signora di una nobiltà che fu, e gli diceva
«l'ultimo tuo libro non mi è piaciuto per niente» (suppongo
riferendosi a "Ragazzo, storia di una vecchiaia"). E lui
sorrideva sornione masticando una sigaretta spenta. Poi si
ritirava in camera, una camera la cui vista domina il
Mediterraneo, e nel pomeriggio scriveva gli articoli da
mandare ai giornali, rigorosamente con macchina da scrivere
meccanica.
Quando la giornata stava per volgere al termine iniziava lo
strazio. Per me. Perché lui al tramonto - altro rito - voleva fare
il bagno al Cannone. Una insenatura di Talamone del tutto
priva di sole, a quell'ora. E di gente. Con un mare nero così.
Tutto per sé. Scendevamo l'infinito sentiero che porta all'acqua
e poi facevamo il bagno nella solitudine più assoluta. Io che
detesto fare il bagno. Poi risalivamo a stento, scogli e rami e
spine ovunque, e tornavamo su quasi sempre con qualche
ferita sui piedi e sulle gambe. D rito di Massimo era concluso e
anche il mio nei suoi confronti. Sangue incluso, per non farci
mancare nulla.

Ma insomma è di lui che voglio dire. A Talamone lo


raggiungevo per parlare di politica. Di giornalismo. Di donne e
di libri. E di calcio, quando lì, davvero, diventava serissimo e si
infervorava. Non ho mai capito come faccia a ricordarsi a
memoria delle azioni di gioco di partite disputate anche
decenni prima, raccontando fin nei minimi particolari uno stop
al volo, un dribbling, un assist o una rovesciata, lui che già ci
vedeva non troppo dieci anni addietro.

E poi i suoi eroi. In tanti anni, in centinaia e centinaia di


telefonate per parlare di tutto, per scegliere un titolo di un
pezzo che avremmo pubblicato nel mensile, per farsi fare una
ricerca su qualche fatto di cronaca, o per stroncare qualcosa
che avevo scritto, solo una volta mi chiamò sul serio
preoccupato. O forse eccitato: Van Nistelrooj sembrava
dovesse venire a giocare nella Roma. L'operazione poi sfumò,
ma passammo un pomeriggio intero a parlare di quel
campione. Sul calcio, sul serio, con Massimo non si scherza.
Guai a chiamarlo in prossimità di una partita di Coppa dei
Campioni (giammai dire "di Champions"), di qualunque
squadra (figuriamoci il sacrilegio di farlo durante il suo
svolgimento). Guai a chiamarlo subito dopo una sconfitta del

143
suo Torino (figuriamoci, per me, dopo una sconfitta in un
Roma-Torino). Al massimo lo si può fare a campionato quasi
finito, e solo se il toro è ormai ampiamente in zona salvezza.

Una volta fu invitato a una conferenza proprio a Torino. Io


lo andai a prendere a Milano e guidai sino a lì. La sera stessa ci
sarebbe stata una inutile partita di precampionato che
avrebbero trasmesso in una emittente televisiva di
quart'ordine. Ci perdemmo per la strada mentre stavamo
andando. Ce la svignammo a conferenza finita e ci perdemmo
di nuovo nel fare ritorno verso Milano. Eravamo sul filo di
lana. Non appena entrati in città mi illustrò il suo piano e mi
diede istruzioni: tu mi lasci al portone di casa e vai a
parcheggiare nel garage, in quel mazzo di chiavi ci · dovrebbe
essere quella giusta; io intanto salgo e preparo tutto. Eseguii
alla lettera, lui scese come un gatto e come un ladro sì infilò nel
suo portone mentre io guadagnavo in auto l'ingresso carrabile.
Salendo le scale di casa trovai la sua porta aperta. Era nel suo
salone, con due telecomandi, uno giusto e uno sbagliato in una
mano, e con una bottiglia di vino - bianco, fermo - nell'altra, e
la partita era iniziata da un solo minuto. A giocare non era il
suo Torino, ma la mia Roma, per dire. Mentre mi sedetti mi
guardò con un ghigno e mi disse: «poi dimmi che non ti ho
trattato bene». Solo tre ore prima aveva parlato di
bioregionalismo, femmine e Nietzsche davanti a una folla in
deliquio.

Sono stato spesso ospite a casa di Massimo, per ovvi motivi


di necessità giornalistica, visto che il giornale lo decidevamo
assieme ogni mese, e anche per motivi meno ovvi. E molto più
divertenti. Ad esempio per alleviargli la solitudine metafisica di
agosto, dove Milano si trasforma in una città fantasma e lui
non riesce a trovare i suoi toast a pranzo perché ogni suo luogo
abituale è chiuso. Oppure per frequentare qualcuna delle sue

144
cricche, dei suoi clan. Perché Massimo, oltre ai vari, eventuali,
e onnipresenti rompicoglioni che gli girano attorno per i motivi
più disparati ma con l'unico evidente obiettivo di trarne
qualche vantaggio, ha delle cerchie più ristrette dove davvero si
sente a suo agio (per il resto, temo, a suo agio non si sente
altrove quasi mai, salvo nei bar e nelle osterie dove parla con
chiunque, anzi ascolta chiunque). Una di queste cricche è
quella del teatro, che creò assieme a Eduardo Fiorillo in
occasione dello spettacolo Cyrano, attraverso il quale tornò in
orbita dopo un periodo piuttosto lungo di esclusione mediatica
per via degli anatemi che gli sono stati lanciati qui o là,
soprattutto dopo aver pubblicato "il Vizio O scuro
dell'Occidente". Poi c'è quella dei giornalisti. Li conosce tutti,
lo conoscono tutti, qualcuno in pubblico fa finta di non
conoscerlo, ma lui ne apprezza veramente pochissimi. E si
tratta, spesso, di giornalisti semi-sconosciuti alle masse.

A casa di Massimo si muore di caldo. E si cammina a stento.


Ci sono diverse decine di migliaia di libri. E ci sono alcune
dozzine di pile di giornali per terra in modo permanente che
pur cambiando di volta in volta sono ormai parte integrante
del pavimento. C'è un divano sgangherato dove si è seduta,
negli anni, la creme de la creme dell'intellighenzia intellettuale
italiana. Diversi politici, persone di spettacolo, svariate donne.
E anche un tipo che non conta nulla e che dopo aver letto i suoi
libri decise un giorno di farla finita con tutte le velleità da
inviato e da cronista del nulla per andarsi a rovinare, forse
salvando l'anima, in quel sottobosco dei giornalisti davvero
indipendenti. Che sarei io.

Ma insomma al di là di questo, d'estate veramente si


boccheggia da lui, peraltro con delle zanzare grosse così. Altro
che Milano da bere.

145
Ha un condizionatore Massimo, ma non lo ha mai acceso.
Proprio mai. «Mi sono deciso a metterlo più per precauzione
che per altro. Il solo fatto di sapere di poterlo accendere mi
rassicura. Ma non saprei neanche comefare». Gli credo, visto
che vive da solo fatta eccezione per una anziana signora
gentilissima che va lì ogni mattina, che lui chiama
"governante" ma che secondo me è più che altro una perpetua.
Que sta signora praticamente gli cura ogni aspetto
dell'esistenza materiale, dalla spesa al cibo alle bollette da
pagare. Per il resto devo dire che ho l'impressione che
Massimo viva in una sorta di mondo parallelo. Totalmente
refrattario all'attualità da televisione. Ogni tanto gli chiedo
cosa ne pensi di questo o quell'altro tizio, che in qualche modo
è arrivato alla ribalta delle cronache, e lui mi risponde «e cosa
sarebbe questo?». Non cosa, ma chi, Massimo. Comunque.
Altre volte mi sorprende chiedendo a me cose attualissime, che
qualche sua amica giovanissima gli ha raccontato, e delle quali
sono io a non sapere nulla. Un mondo tutto suo, un filtro tutto
suo, come se perdendo mano a mano la vista abbia sviluppato
ben altri sensi, oltre alla capacità visionaria che gli
riconosciamo da decenni. E comunque Massimo è del tutto
estraneo al benché minimo afflato per il consumo di oggetti, di
vestiti e di qualsiasi altra diavoleria della modernità. Per dire:
ha un computer Appie, a casa. Che a memoria d'uomo nessuno
ha mai visto acceso, tranne forse la sua segretaria che gli cura
un po' di operazioni di routine, come leggere le email che gli
arrivano dal suo sito. «Ho fatto una sola volta l'errore di
rispondere direttamente, e privatamente, a un lettore che mi
aveva scritto. Se l'è presa perché non ho più risposto alle sue
lettere successive e mi ha dato dello stronzo». Ecco, questa è
una cosa che mi rendo conto sia difficile da capire e da
accettare lì fuori: il rapporto tra uno come Massimo e un
lettore è sì di fedeltà, nei fatti di condivisione e se vogliamo di
complicità, ma non può essere un rapporto "uno a uno". Per il
semplice motivo che Massimo è uno mentre gli altri sono
"molti". Da qui dunque l'impossibilità di poter instaurare un
rapporto privato con tutti, o con molti. E da qui, pertanto, la
necessità assoluta di mettere a punto dei limiti. Non per
divismo, ma proprio per mera sopravvivenza. Ho ricevuto io
stesso una infinità di richieste da inoltrare a Massimo nel corso
degli anni. Chi per una risposta specifica, chi per una
conferenza, chi per una intervista. Chi per delle proposte
veramente oscene. Un giorno mi chiama un ragazzino che
aveva iniziato a collaborare col Ribelle, alle prime armi
(giornalistiche) e con tanta ambizione di scalare, e
rapidamente, le vette del nostro mestiere, a qualsiasi costo e
con qualsiasi mezzo. TI tipetto - occhio che è ancora un
circolazione - molto semplicemente mi chiese il numero di
telefono di Massimo perché voleva chiedergli di scrivere la
prefazione a un suo libro che stava per (auto) pubblicare. O al
massimo, mi disse, per fargli fare la presentazione in pubblico
una volta stampato. «Ma se vuole lo pago anche eh, diglielo».
Con quel tono, poi.

Dunque Massimo avrebbe dovuto scrivere la prefazione a


un libro autopubblicato da un autore sconosciuto, e un po'
incauto e presuntuoso, o quanto meno presentarlo. Dietro
pagamento, s'intende.

E qui, per forza, devo rivelare una cosa di un certo rilievo:


Massimo Fini è di una ingenuità disarmante. Fa veramente
tenerezza. Almeno per alcune cose. Come queste appunto. No,
non scrisse quella prefazione né ovviamente si scomodò a
presentare quel libro. Senonché partecipò ad alcune
conferenze organizzate dalla stessa persona. Salvo rendersi
conto poi che si trattava proprio di quella. «Che vuoi che ti
dica: è abile quel ragazzo. Non avevo capitofosse lo stesso».
147
Ecco, la sue storie più assurde, che mi guardo bene dal
rivelare, provengono tutte da questa ingenuità. Spesso non ha
idea di chi lo chiami per cosa, di quale luogo sia quello dove lo
invitano a presentare i libri, a parlare al pubblico. Ed è
probabilmente il motivo per il quale è accaduto talvolta che a
metà serata si sia alzato e se ne sia andato senza dare
spiegazioni.

Accadde una cosa del genere, anzi molto di più e molto più
divertente, a Bologna, in una giornata freddissima di qualche
anno addietro. L'idea che preludeva a quell'incontro era
veramente buona: Massimo Fini, Maurizio Pallante e Giulietto
Chiesa, più qualche altro di secondo e terzo piano, che
finalmente avevano deciso di iniziare a discutere di un
soggetto, di un movimento, di un polo mediatico di un certo
rilievo, che sarebbe potuto nascere proprio nel momento in cui
in Italia iniziavano ad accumularsi macerie sociali, economiche
e morali in modo veramente ingente. Vale a dire, in estrema
sintesi, giornalismo e visione del mondo, decrescita e nuova
economia, ed esteri finalmente affrontati con uno sguardo
geopolitico e meta comunicativo superiori. Da gente tosta. E
indipendente. Le premesse per qualcosa di veramente
innovativo, dal punto di vista giornalistico e dal punto di vista
politico, c'erano proprio tutte.

L'errore degli organizzatori fu quello di aprire i lavori in


corso e di renderli non solo pubblici, ma condivisi e partecipati
in ogni ordine e grado. Il che si trasformò in una riunione
fiume di un giorno intero, in una specie di aula magna
universitaria, dove tutti potevano prendere la parola e dire la
propria. L'evento richiamò gente di ogni tipo, probabilmente
alcune migliaia di persone, animate, immagino, dalle migliori
intenzioni, ma del tutto incapaci di capire come doveva essere
condotta una cosa del genere. Massimo dopo tre ore di ascolto

148
di improbabili discorsi da figli dei fiori fuori stagione, da
anarchici di vario tipo, reietti pseudo-rivoluzionari, trombati
del passato in cerca di riciclo e praticanti new age in cerca di
qualche anestetico, non ne poteva già più. Non ne potevo più
neanche io, a dire il vero, ma insomma me la ricordo come
fosse adesso la sua insostenibilità. E suppongo che se la
debbano ricordare anche Pallante e Chiesa pur, forse, più
adattabili a situazioni del genere. L'irreparabile si compì dopo
due ultimi interventi di un certo spessore, diciamo: il primo
sosteneva che il nuovo soggetto dovesse nascere rispettando le
radici cristiane dell'Italia; il secondo che dovesse farlo solo
richiamandosi alla Costituzione. Il resto fu l'inevitabile,
immediato, epilogo: Massimo prese la parola e disse che della
religione e della costituzione non gliene fregava un cazzo, e che
se una cosa del genere doveva nascere, ebbene essa avrebbe
potuto nascere solo se vi fosse stato un vertice, almeno nelle
fasi iniziali, a decidere per gli altri. Quindi si alzò e andammo
via.

Nello sdegno di tutti, del momento e dei giorni seguenti, ne


pagammo le conseguenze proprio con il nostro giornale, con
varie operazioni di denigrazione che arrivarono sul nostro sito,
su quello di Massimo e su tanti altri siti, blog e giornaletti di
sedicente contro-informazione. Eravamo bollati: il nostro
giornale era stato fondato da un estremista. Che nella realtà è
di una mansuetudine avvilente. Tranne che in un caso di cui
sono stato testimone: dovetti salvarlo dalle ire di un tassista
cui aveva dato un pugno in testa. Era venuto a Roma per
andare non ricordo più in quale trasmissione. E mi dette
appuntamento dalle parti di Porta Pia. Lui sarebbe arrivato in
taxi, e poi io lo avrei accompagnato agli studi televisivi. Ebbene
- mi disse dopo - il tassista sarebbe stato reo di avergli fatto
fare un giro inutile e di avergli fatto mille storie ,
sgarbatamente, per accompagnarlo esattamente dove gli aveva
149
chiesto di fare. Scendendo dal taxi gli rifilò dunque un pugno,
da dietro. E io dovetti usare tutta la mia romanità, col tassista,
per evitare di farlo reagire. Massimo, te lo posso dire oggi: per
salvarti allora dissi al tassista che eri un disadattato fuori di
testa. Che poi non è che sia cosa troppo lontana dalla realtà.
Comunque.

Tornando alla storia di Bologna, come spessissimo accade


Massimo ci prese, nonostante la rudezza delle parole
pronunciate, tanto che di lì a poco sarebbe nato il MoVimento
5 Stelle. Con tanto di vertice e di decisioni blindate, altro che
"uno vale uno". Poi il fatto che il M5S sia cosa totalmente
differente rispetto a quello che invece sarebbe potuto essere
quell'"Uniti e diversi" di cui si tentava di parlare allora è un
altro discorso. E anche questa oramai è storia.

Ma insomma, La Voce del Ribelle, e Massimo Fini a livello


politico, per esempio con il Movimento Zero che pure fondò
dopo l'esperienza di Cyrano, difficilmente sarebbero potuti
andare lontano ed espandersi. Perché la maggior parte dei
nostri lettori, pur apprezzando il giornale, che aveva e ha delle
caratteristiche davvero inedite, bramavano dal far diventare il
tutto qualcosa di politico. Qualcosa di pratico. Che non era - e
non è - nelle nostre intenzioni. Non direttamente almeno.
Tanto che poi non appena nacque il Fatto Quotidiano
moltissimi dei nostri lettori si spostarono in massa su quel
giornale. E sul Movimento 5 Stelle (sui vantaggi di tali
spostamenti ognuno la pensi come crede).

Massimo a suo tempo non era così sicuro di andare a


scrivere sul nascente Fatto di Travaglio & Padellaro, che pure
gli avevano fatto la proposta - e la preghiera - di
collaborazione. Me ne parlò a lungo, quando allora scriveva
ancora per n Gazzettino e per n Resto del Carlino (giornali non

150
proprio di grande diffusione dunque). Tempo prima aveva
rinunciato a una proposta monstre fattagli da Il Giornale.
Qualcosa come una cifra dieci volte superiore al normale:
«Non volevano la mia collaborazione. Berlusconi facendomi
quell'offerta voleva proprio la mia testa. Figurati se avrei
potuto accettare».

Tornando a Il Fatto Quotidiano, la sua perplessità derivava


dal motivo che quel giornale sarebbe stato fatalmente
acquistato da un tipo di lettore molto distante dal Fini­
pensiero. E proprio questo fu il punto con il quale, almeno
credo, quel giorno io contribuii a convincerlo ad accettare.
È invece proprio la cosa giusta da fare, gli dissi, perché i tuoi
lettori già ti conoscono e ti seguiranno ovunque, mentre al
Fatto finalmente raggiungerai una platea nuova, che necessita
di conoscerti. Come siano andate le cose lo sappiamo: al di là
di qualche suorina, come le chiama lui, che ogni tanto si
contorce a leggere i suoi pezzi, la mente di tanti lettori è stata
davvero aperta come con un apriscatole.

Devo però dire di una questione che mi pesa personalmente


non poco, sarei ipocrita a non affrontarla. E che riguarda
proprio Massimo e il suo giornale, cioè La Voce del Ribelle.
Suo nel senso che quel giornale, da lui stesso fondato, non
sarebbe nato se non dalla volontà di alcuni giornalisti che
avevano assorbito totalmente il suo pensiero nei libri più densi
della sua produzione intellettuale e che volevano dare
espansione e seguito al suo lavoro. illtimo dei quali, all'epoca
della nascita del giornale, "Il Ribelle dalla A alla Z".

Dunque, chi ha letto il suo ultimo libro, cioè "Una vita", che
è una autobiografia, si sarà accorto del fatto che Massimo
mette a nudo parti di sé sino a ora del tutto sconosciute. Cose
anche difficili da raccontare. E si sarà accorto che, ovviamente,

151
la sua biografia non può prescindere dal racconto della sua
carriera sia come giornalista sia come autore. Nel libro
Massimo racconta di tutto, di una infinità di giornali e di
giornalisti con i quali ha collaborato. Ma non cita mai, neanche
una volta, il suo giornale. Cioè quello che era nato proprio
perché esisteva un signore chiamato Massimo Fini. Ecco: La
Voce del Ribelle non è citata neanche una volta, neanche di
sfuggita. Ci sono rimasto malissimo. Non perché andassi in
cerca di chissà quale attestazione di stima personale per me o
per gli altri giornalisti che ci hanno lavorato e ci lavorano, ma
proprio perché fu Massimo stesso, in diverse circostanze, a
parlarmi del Ribelle come di un qualcosa di cui andava
veramente fiero. Anche a livello meramente editoriale, nel
senso che, conteggiati i risultati ottenuti, a un certo punto
constatò che neanche La Voce di Prezzolini era riuscita ad
avere una diffusione tanto grande (circa 3000 abbonati alla
sua massima espansione). Insomma oltre ad averci investito
tempo e denaro, ad averci scritto quelli che io reputo tra i
migliori suoi editoriali degli ultimi anni, e che tutti avete letto
in questo libro che ne è la raccolta, a Massimo la rivista piaceva
eccome. Almeno questo ciò che mi diceva. D'accordo, lui ne è
stato il fondatore e il direttore politico, lasciando a me le rogne
quotidiane, pratiche e legali della direzione responsabile del
tutto(«Mi piace fare il direttore politico, perché decido tutto
ma in pratica non faccio un cazzo», come diceva lui), ma la
realtà è che in quel giornale c'è moltissimo di lui, oltre che dei
collaboratori che lo hanno realizzato. E tuttavia nella sua
autobiografia la cosa non ha meritato menzione alcuna.

Avevo pensato a lungo di chiedergliene il motivo, o prima o


poi. Ma alla fine ho ritenuto che sarebbe stata una richiesta
superflua, perché il motivo è naturaliter facile da immaginare.
Delle due l'una: se lo è dimenticato, oppure non lo ha reputato

152
degno di nota. In entrambi i casi, la risposta è implicita.
Dunque inutile stare a chiedere.

Eppure a dire il vero, con il Ribelle ci siamo divertiti. Ci


siamo battuti, e abbiamo avuto anche le nostre soddisfazioni
professionali. Occorre pure ammetterlo, andando a rileggere
oggi ciò che abbiamo scritto in quegli anni: non esiste
praticamente una sola riga, un solo concetto, un solo tema che
abbiamo sollevato e che abbiamo spiegato anticipandone la
diffusione, che non si sia poi puntualmente verificato. Molto
semplicemente, e senza finta modestia, il Ribelle ci ha preso
praticamente su tutto.

Capitava spesso che mi chiamasse per chiedere conto di un


titolo che avevo sbagliato, o per correggere qualcosa che aveva
visto nelle bozze che gli inviavo prima della stampa. Ma
qualche volta se ne usciva con frasi tipo: «Certo che Federico
Zamboni è veramente un fuoriclasse». Oppure riguardo ad
Alessio Mannino: «Che migliora di numero in numero». O
riguardo a Ferdinando Menconi: «Che ha una cultura
sterminata».

Questo apprezzamento per il lavoro che svolgevamo tuttavia


non gli rese possibile superare alcuni suoi limiti, o meglio
alcune sue caratteristiche - per le quali a dire il vero lo
apprezzo ancora di più - che però avrebbero potuto dare, ove
forzate un po', qualche possibilità in più alla crescita del
giornale. Per dirne una: Massimo è del tutto incapace di auto
promuoversi e di promuovere cose in cui pure crede. E tra
queste, all'epoca, La Voce del Ribelle.

Già aveva difficoltà quando andavamo in giro per delle


conferenze a presentare il nuovo giornale. Parlavamo della
testata, ma finivamo fatalmente a parlare al pubblico di
tutt'altro. Una volta lo accompagnai da Antonello Piroso, a
153
La7. Che oltre a essere uno dei pochi giornalisti sul serio
brillanti, tanto che lo hanno tolto dalla circolazione, è anche un
vero e proprio fan di Massimo. Piroso preparò la trasmissione
con Massimo con la stessa cura che si mette di solito nelle cose
personali. Erano presenti su un tavolo tutti i suoi libri, proprio
le copie private di Antonello. E anche i primi numeri de La
Voce del Ribelle, argomento sul quale tentò più volte di
spostare il discorso. Io osservavo il tutto dietro le quinte.
Massimo alzò la rivista davanti a sé una volta sola, per appena
una frazione di secondo, visibilmente imbarazzato nel
mostrare qualcosa di suo e riponendola immediatamente sul
tavolo che aveva di fronte. Ma in quel momento la telecamera
inquadrava altrove. Fine della promozione, abortita. Un'altra
volta andammo da Mentana, il . quale intervistò Massimo
tenendo proprio in mano uno dei primi numeri della rivista.
Niente da fare: Massimo, de Il Ribelle, non fece menzione.
Insomma: come uomo marketing, Fini è praticamente una
nullità. Grazie a dio.

È stato del tutto impossibile anche tentare di fargli capire,


non dico accettare, ma solo capire, come il mondo del
giornalismo e dei nuovi media abbia cambiato radicalmente il
modo di fare il nostro mestiere. Per dirne un'altra, quando già
erano più di cinque anni che avevamo aperto il sito della
rivista, e che lo intervistavo in diretta sulla WebRadio che alla
rivista era collegata, ogni tanto mi chiamava per ripetermi una
domanda, sempre la stessa: «Ma dove cazzo si sente la
trasmissione che abbiamofatto?».

Ad ogni modo, il motivo principale per il quale quel giornale


non ha avuto la diffusione che pure avrebbe meritato è uno
solo: non eravamo cooptabili e non avevamo altro obiettivo di
fare ciò che stavamo facendo. Avessimo frequentato alcuni
salotti, avessimo avuto qualche volontà di sbocco politico o
154
movimentista, ci sarebbero stati seguito e risorse. Invece
abbiamo praticato sempre e solo rigore giornalistico. E analisi
e opinioni libere da qualsiasi altro motivo che non fosse quello
legato al patto di onestà stipulato con i nostri lettori. Ci hanno
dato dei comunisti, dei fascisti, dei leghisti, degli anarchici.
Una volta un fenomeno ci ha scritto appellandoci come
trotskysti di destra. Conservo gelosamente tutta la galleria
degli orrori. E conservo gelosamente un biglietto scritto a
mano, di suo pugno, e inviatoci in redazione da Guido
Ceronetti, veramente uno degli ultimi grandi intellettuali
italiani:

"Leggo al minimo. Il Tempo divora gli


occhi e il resto. Ma "La Voce del Ribelle"
merita di vivere. Qualcuno... Chissà".

Era il to marzo del 2009.

Di fatto, oggi, un giornale come quello non esiste. E a mio


avviso, non solo mio ovviamente, ce ne è un disperato bisogno.
Ci fosse qualcuno in ascolto... Noi quel giornale, quel media
che manca, lo abbiamo in testa in modo preciso. Chi ci
dovrebbe collaborare anche, così come abbiamo in testa il
modo con il quale andarlo a fare. Perché oggi partiremmo da
una semplice, si fa per dire, considerazione: posti i temi, i
criteri e gli intenti, così come l'impianto intellettuale di questo
nuovo soggetto, se si dovesse partire oggi, a disegnare e a
realizzare un media, lo si farebbe come un media si
immaginava e realizzava dieci anni addietro? Ovviamente no,
lo faremmo sul serio diverso. In un panorama dove invece,
soprattutto in Italia, i giornali e i media sembrano tutti - tutti -
sterili e inefficaci residuati della preistoria, peraltro di una
omologazione prodigiosa.

155
Grazie a Massimo Fini ho potuto inserire nel mio
c u r r i c u l u m p e r s o n a l e u n a c o s a d e l l a quale vado
particolarmente fiero: sono stato arrestato. Insieme a lui per
giunta. Eravamo a Piazza del Popolo, per guardare da vicino
una manifestazione fiume contro l'ennesima guerra di Bush.
Una manifestazione mostruosa, un corteo enorme. Con tanto
di circo da centri sociali, arcobaleni di vario tipo e un numero
molto consistente di black bloc perfettamente riconoscibili,
eppure lasciati indisturbati all'interno del corteo, sino a
quando, in modo del tutto improvviso e non prevedibile, poco
dopo piazza Venezia, iniziarono a fare il puntuale pandemonio
in Corso del Rinascimento. Con tanto di vetrine rotte, molotov
e automobili incendiate. Invece io e Massimo camminavamo a
braccetto, fuori dal corteo. A braccetto perché Massimo non è
che ci vedesse benissimo tra i sampietrini di Roma. A un certo
punto, mentre i black bloc facevano il pandemonio solo
cinquecento metri dopo, degli incredibili agenti della Digos di
Roma pensarono bene di prendersela con una sparuta mini­
pattuglia di Movimento Zero, che partecipava al tutto, e anche
un po' in disparte, esponendo uno striscione evidentemente
troppo fine da comprendere dai piani alti dell'intelligence della
Polizia italiana. Lo striscione recitava una frase unicamente a
favore dell'autodeterminazione dei popoli. Ce lo volevano .
togliere. Non tolsero le mazze ai black bloc, né i loro caschi né i
loro scudi né i loro anfibi, e invece strapparono lo striscione
dalle mani di un gruppo di ragazzi innocui. Io e Massimo,
sempre a braccetto, ci avvicinammo per chiederne il motivo al
commissario girardi di servizio. Venimmo presi per il collo,
letteralmente, e infilati a forza dentro una camionetta blindata.
Assieme a una altra ventina di persone. Quando venne la volta
di prendere le nostre generalità mostrammo i tesserini da
giornalista all'agente. Che ci guardò laconica, e imbarazzata ci
chiese: «E voi che ci fate qui?». Glielo chieda al commissario,
le dissi. E pensi che glielo avevo pure detto, come fossi un
Marchese del Grillo qualsiasi. La cosa non finì lì. Cioè: lì finì la
nostra permanenza in cattività. Ma poche ore dopo raggiunsi
Massimo nell'albergo dove risiedeva a Roma in quei giorni. Era
seduto nella hall, con un bicchiere di vino - bianco, fermo - e
aspettava che gli raccontassi, e tentassi di fargli vedere, sul mio
computer, le cronache nazionali dove l'Ansa aveva
immediatamente riportato la non notizia: "Massimo Fini
arrestato a Roma assieme ad alcuni fedelissimi del suo
Movimento estremista". E vai, col giornalismo d'assalto.

Un'altra volta invece ho rischiato di ucciderlo. Sul serio.


Eravamo a Roma e stavamo cenando in una osteria dalle parti
di Viale delle Milizie. Che io avevo accuratamente scelto. Mi
auguravo che saremmo rimasti tr;mquilli, ma come accadeva
spesso ciò non fu possibile neanche in quella circostanza.
Massimo viene riconosciuto spesso, in giro. Essendo l'antidivo
per antonomasia, non si sottrae mai ad alcun contatto. Un po'
incuriosito, un po' intimorito (credo), perché in realtà non si sa
mai se chi si avvicina lo fa per un complimento, uno scambio di
battute, o un vaffanculo. Anzi, spesso, quando viene avvicinato
da qualcuno mentre è seduto a un tavolo, non esita a farlo
sedere con lui e ad ascoltare le sue storie.

Quella volta fu per la firma di una copia di un suo libro.


Caso stranissimo: osteria qualunque, serata qualunque, eppure
si fa avanti un tizio con una copia di "La ragione aveva torto" in
mano. Serata fortunata: per il tizio. Per Massimo un po' meno:
stava mangiando una tagliata e aveva davanti un bicchiere di
vino - bianco, fermo - e il tipo che si era appena avvicinato ci
aveva preso un po' alla sprovvista. Soprattutto a Massimo, che
non lo aveva visto arrivare e si era un po' spaventato. Io mi
. alzai di scatto. E lui, preso di soppiatto con un pezzo di tagliata
in bocca, non riuscì a inghiottire e il tutto gli si incastrò in gola.

157
Non respirava più. Per un tempo infinitamente lungo. Riuscì a
liberarsi solo dopo diversi nostri tentativi di battergli il petto e
la schiena, e solo con un colpo di tosse mostruoso risolse la
questione. Una cosa del genere è accaduta anni addietro a
Bush Junior, con un bretzel, fatto di cronaca che Massimo a
suo tempo liquidò con un «è proprio un coglione». Se quella
sera le cose fossero andate diversamente non me lo sarei mai
perdonato, visto che luogo e cibo li avevo scelti io.

Un anno fa è arrivata la brutta notizia: Massimo non può


più scrivere perché la sua cecità è andata molto avanti. Mi
disse, all'epoca dell'annuncio, di sentirsi con le "ruote a terra",
ma che non poteva farci nulla, e lo disse con la naturalezza e la
spietatezza con la quale parla sempre della vita e della morte.
Io gli replicai che per un suo lettore come lo sono io, che
ancora ritaglia e conserva in un archivio ogni suo editoriale, il
fatto di non poterlo più leggere è una oscenità ben superiore a
quella di saperlo morto. Pensa un po'. E gli suggerii alcuni
stratagemmi per farlo continuare a esprimere. Metodi che si è
poi convinto a utilizzare.

Nessuno conosce il futuro, per fortuna. Ma, credetemi, di


una cosa sono certo: siccome Massimo vive di passioni, e
sappiamo quale sia la sua, se veramente vi fosse la possibilità
di iniziare qualcosa di nuovo non impiegherebbe un secondo a
essere nuovamente ingaggiato con la veemenza di un Talebano.

Giugno 2016,

Valerio Lo Monaco

valeriolomonaco.it

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Prima edizione 6/2016

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