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80
I edizione: settembre 2009
DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita 27
00198 Roma
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ISBN 978-88-89969-77-9
Karl Marx
Il capitalismo e la crisi
Scritti scelti
a cura di Vladimiro Giacché
L’equilibrio stesso – dato il carattere
primitivo di questa produzione – è un caso
5
Karl Marx e le crisi del XXI secolo
Vladimiro Giacché
7
guardi soltanto le cerchie ristrette degli addetti ai lavori. Molte delle
certezze su cui erano state edificate la visione del mondo e la filoso-
fia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi decenni sem-
brano oggi – se non proprio in frantumi – quantomeno incrinate.
Per capire i motivi del rinnovato interesse nei confronti di Marx bi-
sogna partire da qui: da queste certezze che non sono più tali.
1. M. Valsania, Fed: ‘Non abbiamo salvato Bear Stearns ma i mercati, «Il Sole 24 Ore», 4 apri-
le 2008; G. Soros, Questa crisi figlia dell’ideologia, «Il Sole 24 Ore», 6 aprile 2008; D. Sini-
scalco, Mercato, addio al dogma, «la Stampa», 23 marzo 2008; P. Samuelson, Tutta colpa
della Fed e di Bush, «il Mondo», 28 marzo 2008; E. Mauro, Il nuovo disordine mondiale, «la
Repubblica», 2 ottobre 2008; U. Beck, «I convertiti allo Stato interventista», «la Repubbli-
ca», 29 marzo 2008.
8
mito dell’autosufficienza del mercato, allorché aveva suggellato la
decisione di lasciar fallire Lehman Brothers con una solenne affer-
mazione: «è il mercato che deve prendersi cura del mercato»2. E
tutte le borse del mondo all’unisono avevano risposto cosa ne pen-
savano: crollando.
È entrato in crisi il modello di deregulation dei mercati che era
stato avviato da Reagan a partire dagli anni Ottanta. Emerge ora, e
viene anche detto pubblicamente, quello che molti già sapevano:
che l’autoregolamentazione dei mercati ha sempre significato as-
senza di regolamentazione. Persino sul Financial Times si può leg-
gere che l’invito a «lasciar fare al mercato» ha ormai perso ogni
credibilità. E anche Tommaso Padoa Schioppa ora denuncia «la
crisi di una visione ideologica dell’economia, quella secondo cui i
mercati hanno sempre e comunque ragione e non hanno bisogno
di interventi»; e sostiene che «la crisi nasce dall’incapacità del mer-
cato di compiere, giorno per giorno, “giuste” valutazioni». La teo-
ria dei mercati efficienti è ormai pubblicamente sbugiardata su
libri e giornali. A questa e ad altre teorie economiche influenti si
addebita ora, e con ragione, di aver fornito «una fondazione appa-
rentemente scientifica a preferenze ideologiche»3.
Ma è più in generale alla razionalità del mercato che non sem-
bra più credere nessuno. Non è un caso, insomma, che la metafo-
ra antropomorfica del mercato come soggetto razionale, uno dei
pezzi forti dell’ideologia neoliberale degli scorsi decenni, abbia ce-
duto il passo a inquietanti metafore teratologiche. Come quella
adoperata dal presidente tedesco, Horst Köhler (già direttore ge-
nerale del Fondo Monetario Internazionale): «i mercati finanziari
si sono sviluppati a tal punto da diventare dei mostri che ora devo-
no essere domati»4.
9
In parallelo al crescere della necessità di un intervento dello
Stato nell’economia, in proporzioni superiori a quelle dell’epoca
della Grande Depressione, si profila insomma una vera e propria
crisi di legittimità del mercato. La gravità di questa crisi di legittimità
è tale da aver indotto la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» a dedica-
re un editoriale molto preoccupato alla «crisi di fiducia nell’econo-
mia di mercato». Non a caso è ampiamente circolato il paragone tra
il crollo del Muro di Berlino e il crollo di Wall Street. Lo stesso An-
thony Giddens, tra i padrini teorici di Tony Blair e del new labour, af-
ferma che «siamo all’inizio di una nuova era, un po’ come nel 1989,
alla caduta del muro di Berlino». Il «Financial Times» è giunto a
pubblicare uno struggente editoriale «in lode dei liberi mercati», e
perfino a ospitare una pagina, pagata dalla John Templeton Foun-
dation, sull’avvincente tema: Il libero mercato corrode la tempra mo-
rale?. Ovviamente la risposta degli «esperti» interpellati è negativa,
ma la pagina è decisamente un segno dei tempi. E a questo punto
non riusciamo a stupirci neppure della lettera pubblicata sullo stes-
so quotidiano con un titolo redazionale decisamente ardito: Il capi-
talismo non può essere considerato un dogma in ogni circostanza5.
In realtà, il punto è proprio questo: mercato sta per capitalismo.
Quando gli ideologi neoliberali parlano di mercato, non parlano in
prima istanza né di libero scambio delle merci, né di libera concor-
renza. Parlano di titolarità dei diritti di proprietà: di proprietà priva-
ta, e più in particolare di proprietà privata dei mezzi di produzione.
Cioè di capitalismo. Questa è la traduzione di espressioni appare-
rentemente neutre quali: società di mercato, ordine economico
del mercato, sistema economico di mercato, sistema di mercato e,
soprattutto, economia di mercato. Non siamo i soli ad affermarlo:
anche il presidente di una delle principali banche italiane ha parla-
to anni fa del «sistema economico dominante – prima chiamato ca-
pitalismo, oggi di mercato»6.
I motivi tutt’altro che innocenti di questa ridefinizione del capi-
talismo attraverso il mercato li aveva spiegati molto chiaramente
in uno dei suoi ultimi saggi John Kenneth Galbraith. «A suo
nanza, per «imbrigliare il mostro»: cfr. l’intervista di W. Hutton, Paul Krugman’s fear for
lost decade, «the Observer», 14 giugno 2009.
5. H. Steltzner, Nach dem Untergang, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 19 settembre
2008; E. Silva, intervista ad A. Giddens, «Il Sole 24 Ore», 19 ottobre 2008; In praise of
free markets, «Financial Times», 26 settembre 2008; Does the free market corrode the
moral character?, «Financial Times», 28 ottobre 2008; Robert McDowell, Capitalism
can’t be considered sacrosanct in all circumstances, «Financial Times» 12 novembre 2008.
6. G. Bazoli, Mercato e democrazia più vicini, «Il Sole 24 Ore», 13 ottobre 2004. Corsivi
miei.
10
tempo – ricordava Galbraith – “capitalismo” non era solo la defini-
zione accettata del sistema economico vigente; nella parola era im-
plicito il riferimento a coloro che esercitavano il potere economico
e di conseguenza politico. Si parlava di capitalismo mercantile, ca-
pitalismo industriale, capitalismo finanziario». Poi, dopo la se-
conda guerra mondiale, negli Stati Uniti «prese piede il termine
market system, sistema di mercato. Sarebbe stato difficile escogita-
re un’espressione più anodina. Proprio per questo ebbe successo.
Il riferimento al mercato come alternativa benevola al capitalismo
è un’operazione cosmetica, fiacca e insipida, destinata a coprire
una scomoda realtà». Per essa «nessuno domina il mercato, né i
singoli né le imprese. Nessuna forma di supremazia economica è
mai invocata. (...) C’è solo l’impersonalità del mercato»7.
Sta di fatto che oggi è proprio questo mercato «impersonale» a
essere sotto accusa. Intendiamoci: non sono mancate le difese
ideologiche basate sull’assunto che i problemi siano nati dalle im-
perfezioni del mercato. Talvolta si giunge a negare che i mercati che
hanno creato problemi meritino il nome di «mercati». Così, un
importante finanziere europeo ha scritto: «La mia opinione è che
chiamiamo «mercati finanziari» un insieme di alvei di transazioni
che, per almeno tre quarti, è un’accozzaglia di domini artificial-
mente segmentati e totalmente opachi di poche grandi banche oli-
gopoliste che devono la loro posizione alle distorsioni del too big to
fail». Secondo questa tesi sarebbe addirittura «vergognoso» chia-
mare questi alvei «mercati»8. A maggior ragione, in crisi non sa-
rebbe il capitalismo, ma al massimo un modello di capitalismo. Per
chi segue questa impostazione, da un lato ci sono i meccanismi di
mercato, dall’altro le loro degenerazioni. Da un lato l’ideale del
mercato perfettamente concorrenziale, dall’altro ciò che ne impe-
disce il pieno dispiegarsi. La nostra – questa è la tesi – costituisce
senz’altro una società di mercato: quindi è sulla strada giusta, ma
deve superare ancora molte imperfezioni. A qualcuno questo
schema propagandistico potrà risultare familiare. E in effetti, se si
sostituisce «società socialista» a «società di mercato», si ha preci-
samente uno dei principali dispositivi retorici in uso nell’Urss
brezneviana per celebrare la superiorità del socialismo. Da questo
punto di vista, gli odierni apologeti del capitalismo reale non sem-
brano molto innovativi.
7. J.K. Galbraith, Un nuovo nome per il sistema, cit. in V. Giacché, La fabbrica del falso, cit.,
pp. 88-89.
8. Cit. in M. Vitale, Tutti i fondamentalismi da battere, «Il Sole 24 Ore», 2 novembre
2008. Il principio «too big to fail» (troppo grandi per fallire) è stato il criterio ispiratore
di molti salvataggi bancari attuati dall’inizio della crisi.
11
Un’ulteriore linea di difesa attua un curioso rovesciamento del-
l’uso eufemistico del mercato. Quando, ad esempio, Joseph Stiglitz
afferma che «la caduta di Wall Street è per il fondamentalismo di
mercato quello che la caduta del Muro di Berlino è stata per il comu-
nismo», è evidente intanto che abbiamo a che fare con un parallelo
asimmetrico (perché non parlare di capitalismo così come si parla
di comunismo?); ma è evidente soprattutto che qui è il mercato a es-
sere adoperato in un contesto dispregiativo, pur di salvare il capita-
lismo. In questo caso il capitalismo viene messo al riparo dai suoi
critici potenziali semplicemente non menzionandolo. Qualcuno
ha fatto di meglio: il premier francese Fillon ha sostenuto che quel-
lo che è successo sui mercati finanziari a opera dei «protagonisti
della finanza» statunitensi ha comportato uno «sviamento del capi-
talismo»9. In questo caso, pur di salvare il capitalismo, il mercato
viene abbandonato. Il prestanome è lasciato al suo destino. Come la
spia di un romanzo di Le Carré: troppo esposta e quindi bruciata.
Difese a parte, una cosa è ormai certa: dobbiamo andare avanti
«senza la narrazione che ha sostenuto con successo per tre decenni
le società occidentali: che il mercato veda più lontano dello Stato»10.
La brutalità della crisi mette impietosamente in questione i presup-
posti di cui si è nutrita in questi anni l’ideologia dominante, divenu-
ta così pervasiva e trasversale agli stessi schieramenti politici da
poter essere definita il «pensiero unico»11. Si pensi alla presunta
maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto a quella pubblica.
Non esiste alcuna ricerca empirica che dimostri tale superiorità, ma
essa è diventata senso comune12. Quando però negli Usa, nel Regno
Unito, in Germania e altrove vengono nazionalizzate le banche, e sia
pure per socializzare le perdite, è il presupposto stesso della superio-
rità della proprietà privata dei mezzi di produzione a essere posto de
facto in discussione. Più in generale, è il mito del mercato capitalisti-
co quale miglior sistema di allocazione delle risorse a essere confu-
tato di fatto dalla crisi attuale: come si può parlare di efficienza del
mercato in una situazione in cui viene distrutta ricchezza per decine
9. J. Stiglitz, The fall of Wall Street is to market fondamentalism what the fall of the Berlin
Wall was to communism, in www.huffingtonpost.com/nathan-gardels/stiglitz-the-fall-
of-wall_b_126911.html . Discorso di F. Fillon all’università estiva del PPE-DE, Fiuggi,
18 settembre 2008.
10. M. Skapinker, Dangers in a world of disillusionment, «Financial Times», 31 marzo 2009.
11. La paternità della definizione è di Ignacio Ramonet: vedi La pensée unique, «Le
Monde Diplomatique», gennaio 1995.
12. In merito vedi: G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto interna-
zionale, Università degli Studi di Milano, Dipartimento Economia Politica e Aziendale,
Working Paper n. 23, dicembre 2001; V. Giacché, Parlar male di Garibaldi, in R. Martu-
fi, L. Vasapollo, Vizi privati… senza pubbliche virtù, Cestes-Proteo, Roma 2003, pp. 1-5.
12
di migliaia di miliardi di euro, e nel giro di pochi mesi nel mondo i
disoccupati diventano 230 milioni? Che efficienza è mai questa?
Come è possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse
umane e materiali? E, soprattutto, cosa si deve fare per evitarlo?
13. P. Kennedy, Read the big four to know capital’s fate, «Financial Times», 13 marzo
2009; L Panitch, Thoroughly Modern Marx e J.B. Judis, Confessions of a True Believer, in
«Foreign Policy», May/June 2009 (in copertina: Marx, Really? Why He Matters Now);
Marx, «Le Point hors série», giugno-luglio 2009; Marx factor, «il venerdì di Repubbli-
ca», 22 maggio 2009.
14. Intervista a P. Steinbrück di Th. Toma, W. Reuter, In einen Abgrund geblickt, «der
Spiegel», 29 settembre 2008.
15. Così nel testo noto come Introduzione del 1857: vedi K. Marx, F. Engels, Werke vol. 42,
Dietz Verlag, Berlin 1983, p. 42; tr. it. in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. 29, Edi-
tori Riuniti, Roma, 1986, p. 41 (d’ora in avanti citati rispettivamente come MEW e
MEOC seguiti dal numero del volume e delle pagine). Nella più sintetica esposizione
del «sistema dell’economia borghese» contenuta nelle prime righe della prefazione del
1859 al Per la critica dell’economia politica resterà il solo riferimento al mercato mondia-
le: cfr. MEW 13.7 = MEOC 30.297. In merito si vedano comunque già la lettera di Marx
13
però contenute in manoscritti pubblicati soltanto dopo la sua
morte, e in qualche caso soltanto pochi anni fa: in particolare nei
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, nelle
Teorie sul plusvalore e nei lavori preparatori per il secondo e terzo
libro del Capitale. Di particolare importanza sono le pagine del
manoscritto marxiano per il terzo libro del Capitale, in cui è conte-
nuta la più organica e dettagliata esposizione della legge della ca-
duta tendenziale del saggio di profitto, fondamentale per intende-
re la concezione marxiana della crisi. Queste pagine, da cui Frie-
drich Engels ha tratto i capitoli 13-15 della edizione a stampa del
terzo libro del Capitale edita nel 1894, sono di grande interesse:
leggerle significa entrare nel laboratorio di Marx, verificare in vivo
la sua impressionante capacità deduttiva e il suo continuo appro-
fondimento dei concetti di fondo della teoria economica.
14
che, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza». Sono
parole tratte dall’articolo Pauperismo e libero scambio, pubblicato
sul «New-York Daily Tribune» del 1° novembre 1852 (p. 65)17.
Tre anni dopo, questa volta in un articolo per la «Neue Oder-
Zeitung», Marx avrebbe ribadito analoghi concetti, in un’invettiva
che sembra rivolta a certi odierni apologeti della globalizzazione,
prontamente trasformatisi in fustigatori degli eccessi che a loro
dire avrebbero condotto alla crisi attuale: «la crisi commerciale e
industriale (…) dal settembre scorso aumenta ogni giorno in vee-
menza e universalità. La sua ferrea mano ha subito tappato la
bocca agli apostoli superficiali del libero scambio che andavano
predicando da anni che dopo la revoca delle leggi sul grano, la sa-
turazione dei mercati e le crisi sociali erano per sempre bandite
nel regno delle ombre del passato. I mercati sono saturi, e adesso a
gridare più forte sulla mancanza di prudenza che ha impedito ai
fabbricanti di limitare la produzione sono quei medesimi econo-
misti che ancora 5 mesi fa insegnavano con dogmatica infallibilità
che non è mai possibile produrre troppo»18.
Quello che vale per gli economisti, vale a maggior ragione per i
giornalisti di cose economiche. Anche in questo caso, l’esultanza per
il buon andamento degli affari cede facilmente il passo, quando le
cose non vanno più bene, all’indignazione morale. A fare le spese del
sarcasmo di Marx a tale proposito è il «London Times», con le sue in-
vettive contro le «bande di speculatori e falsificatori di cambiali
senza scrupoli» che infestavano la City di Londra e, più in generale,
contro un «ceto degli affari marcio sino al midollo». Marx commen-
ta: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decen-
nio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca delle crisi commer-
ciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del Libero
Commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente
da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno»
(p. 70). Ma il punto che sta a cuore a Marx è un altro: «Se la specula-
zione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale
come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenti-
care che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del
ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e
non la ragione ultima e la sostanza del processo» (ibidem).
Marx individua qui, nella ricerca moralistica del colpevole della
17. I numeri di pagina riportati direttamente in testo si riferiscono alle pagine della pre-
sente edizione.
18. K. Marx, La Costituzione britannica, «Neue Oder-Zeitung», n. 109, 6 marzo 1855,
MEW 11.96 = MEOC 14.53-54 (cfr. anche MEOC 14.59-60).
15
crisi (lo speculatore), l’altra faccia della medaglia della fede ingenua
nell’evitabilità delle crisi. Tale fede riposa sulla convinzione che la
crisi sia qualcosa di estraneo al normale funzionamento dell’econo-
mia capitalistica. Secondo questa illusione ideologica, la crisi viene
sempre da fuori, è una patologia esterna al sistema. Quindi è dovu-
ta a errori o colpe specifiche di qualcuno. Ma a questo riguardo
Marx ha gioco facile nell’osservare che «proprio il ripetuto insorge-
re di crisi a intervalli regolari nonostante tutti i moniti del passato
smentisce l’idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate
nella mancanza di scrupoli di singoli individui» (ibidem)19.
Venendo ai giorni nostri, è facile osservare come proprio la ricer-
ca del colpevole abbia rappresentato uno degli sport preferiti di poli-
tici, economisti/opinionisti e giornalisti. Nel nostro caso, vista la
gravità e complessità della crisi stessa, l’elenco degli accusati è molto
lungo. Senza pretesa di completezza, si possono citare: i mutui sub-
prime, le obbligazioni strutturate, i derivati sui crediti (credit default
swaps), l’avidità dei banchieri, le società di rating colluse con i ban-
chieri, l’orientamento al profitto di breve termine (short-termism), la
creazione di veicoli finanziari fuori bilancio (lo shadow banking sy-
stem), l’inefficacia del risk-management, i buchi nella regolamenta-
zione, la politica monetaria della Federal Reserve, l’eccesso di consu-
mo degli Stati Uniti, l’eccesso di risparmio della Cina; con il passare
del tempo (e l’aggravarsi della crisi) si sono inoltre tirati in ballo la
perdita di fiducia (che creerebbe o aggraverebbe la crisi), la crisi fi-
nanziaria (che avrebbe contagiato l’economia reale), il fallimento di
Lehman Brothers (che avrebbe creato una crisi mondiale).
Ma vediamo più da vicino almeno le cause citate più di frequen-
te. La prima in ordine di tempo sono stati gli ormai celebri mutui
subprime. Però, strano a dirsi, l’entità complessiva di questi mutui è
enormemente inferiore alle perdite che essi avrebbero provocato20.
Poi è stata la volta dell’avidità dei banchieri. Si tratta senz’altro
della causa che ha goduto di maggiore popolarità. Ne ha parlato
anche Barack Obama nel discorso inaugurale della sua presidenza.
Peccato che sino a pochi mesi prima la stessa caratteristica fosse lo-
data e chiamata in un modo diverso: «capacità di creare valore». La
verità è che la spasmodica tensione verso i profitti, quando le cose
19. All’epoca in cui Marx scriveva queste righe effettivamente le crisi avvenivano ad «in-
tervalli regolari» di dieci anni l’una dall’altra: cfr. Ch. P. Kindleberger, Storia delle crisi fi-
nanziarie, 2a. ed. 1989, tr.it. di F. Grossi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 17.
20. Si vedano i dati riportati nel miglior testo sulla crisi oggi disponibile in Italia: A. Bur-
gio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 41. Vedi anche
I. Fender, M. Scheicher, The pricing of subprime mortgage risk in good times and bad: Eviden-
ce from the ABX.HE indices, BIS Working Papers, marzo 2009, in particolare il graph 1.
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vanno bene viene lodata, quando non vanno più bene viene rimpro-
verata come un vizio. In questi casi si rimprovera al capitalismo pro-
prio quello che sino a ieri era visto come la ragione della sua superio-
rità sugli altri sistemi sociali: cioè il suo trovarsi in sintonia con quel-
la caratteristica della natura umana che spinge gli individui alla
ricerca del proprio utile21. In tempi di crisi le prospettive si ribaltano.
E allora anche il quotidiano-simbolo della finanza internazionale va
alla ricerca di un «capitalismo meno egoistico»22. Ricerca senz’altro
meritoria, ma le cui probabilità di successo purtroppo non si disco-
stano granché dalla possibilità di trovare il Santo Graal.
Lo stesso discorso vale per le critiche allo short-termism e alla ve-
duta corta, che ora anche Tommaso Padoa Schioppa rimprovera
più in generale alla società contemporanea. Giusto rilievo, che sa-
rebbe ingiusto non apprezzare per il fatto che esso giunge nel bel
mezzo di una crisi, e non è giunto prima. Il problema però è che
non si tratta di un vizio contingente, ma di una caratteristica strut-
turale del nostro sistema economico: per il semplice motivo che il
modo di produzione capitalistico è per sua natura orientato verso
il conseguimento della massima valorizzazione del capitale nel
minor tempo possibile.
Immancabile, poi, come in tutte le crisi, il forte richiamo all’eti-
ca e l’individuazione dell’elemento fondante della crisi nella man-
canza di moralità. Sino a vere e proprie prediche da parroco di cam-
pagna. Come questo imbarazzante programma di governo enun-
ciato dal primo ministro inglese Gordon Brown: «il nostro
obiettivo è ora allineare il sistema finanziario ai valori tipici di una
famiglia». Nelle spiegazioni della crisi non sono mancati e non
mancano neppure accenti mistico-religiosi: a sorpresa, anche sul
«Financial Times» si è potuto leggere che a causare questa crisi
altro non era stato se non la «fragilità umana». Rispetto a questo
sperpero di buoni sentimenti risulta un salutare bagno di reali-
smo l’affermazione del patriarca di Venezia, Angelo Scola, il quale
ha rammentato che «la crisi attuale si è manifestata dopo un de-
cennio caratterizzato dal fiorire di discorsi sull’etica degli affari e
della finanza e dalla pratica adozione di codici etici»23.
Sul piano delle pseudo-spiegazioni tecniche, la più gettonata è
stata senz’altro l’inefficacia del risk-management. In realtà si tratta di
21. Su questo vedi M. Siemons, Gier, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 12 maggio 2009.
22. R. Layard, Now is the time for a less selfish capitalism, «Financial Times», 12 marzo 2009.
23. L. Mais, Appello del premier inglese per una nuova etica finanziaria», «Il Sole 24 Ore»,
1 aprile 2009. R. Thaler, C. Sunstein, Human frailty caused this crisis, «Financial
Times», 12 novembre 2008. A. Scola, Il sonno della ragione genera crisi, «Il Sole 24 Ore»,
27 maggio 2009.
17
una tautologia vestita da spiegazione: se si materializzano dei ri-
schi è ovvio che la gestione dei rischi non è stata ottimale. Ciò no-
nostante, questa teoria ha avuto autorevoli seguaci. A cominciare
da Alan Greenspan, che da ex governatore della Federal Reserve ha
buttato tutto il peso della sua autorevolezza nell’asserire grave-
mente che «nell’agosto del 2007 è saltato il sistema di risk-manage-
ment». Prima, quando era governatore della Fed, diceva cose un
po’ diverse. Come questa: «una regolamentazione del mercato dei
credit default swaps non soltanto non è necessaria, ma potrebbe
fare danni»24. Insomma, mentre prima la deregulation era conside-
rata il modo migliore per far funzionare i mercati, oggi si scopre
che c’è stato un insufficiente controllo sui rischi assunti. Ma chi
avrebbe dovuto controllare i rischi, se si partiva dal presupposto
che il mercato fosse il miglior regolatore e controllore di se stesso?
Quelli citati sono soltanto alcuni degli esempi di cause della
crisi a cui ci si è rivolti per spiegarla a posteriori. Una cosa è certa:
nessuna, ma proprio nessuna di queste presunte cause sembra in
grado di originare una perdita di ricchezza che secondo le stime
della Banca Asiatica di Sviluppo a inizio 2009 ammontava a oltre
50.000 miliardi di dollari (l’intero prodotto interno lordo mondia-
le di un anno)25. E tanto meno il crollo della produzione a livello
mondiale e la brusca caduta del commercio internazionale.
Ma niente paura. Anche per questo c’è un rimedio: può sempre
soccorrerci la teoria secondo cui si tratta di una crisi finanziaria che
ha contagiato l’economia reale. Circa le spiegazioni della crisi, ci sono
pochi dubbi che proprio questa sia l’ultima frontiera. Sostenuta
anche molto autorevolmente: Carlo Azeglio Ciampi, ad esempio,
ha parlato di una «crisi durissima figlia delle distorsioni della finan-
za ma che ha contagiato i gangli nevralgici dell’economia reale».
Non diversamente, l’avvocato d’affari Guido Rossi dalle colonne del
«manifesto» ammonisce: «i banchieri, … questi moderni animal
spirits, senza alcun controllo, hanno spinto l’economia mondiale
sull’orlo del più grande disastro degli ultimi decenni»; coerente-
mente, lo stesso Rossi ravvisa la soluzione in una «authority inter-
nazionale sui mercati finanziari». Francamente, rispetto ai proble-
mi che si vedono in giro, ci sembra un po’ poco...26
24. A. Greenspan, We need a better cushion against risk, «Financial Times», 27 marzo
2009. La seconda affermazione è del 30 luglio 1998: cfr. G. Braunberger, Das Produkt,
das die Finanzkrise verschärfte, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 3 aprile 2009.
25. C.M. Loser, Global financial turmoil and Emerging Market Economies: Major Conta-
gion and a shocking loss of wealth?, ADB, marzo 2009, p. 7.
26. C.A. Ciampi, La sfida che l’Europa non può perdere, «Il Messaggero», 1 aprile 2009.
Intervista di B. Perini a G. Rossi, «Le belve moderne? I banchieri», «il manifesto», 12
marzo 2009.
18
Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben
nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all’eccesso di spe-
culazioni e all’abuso del credito» (p. 66). Precisamente questa spie-
gazione delle crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata
dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi
del 1857-8. A questo Marx ribatteva che «la speculazione di regola si
presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso.
Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e
proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la vi-
rulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della specula-
zione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non
la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo
un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’os-
servatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto
della produzione non appare come conseguenza necessaria della
sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo
del crollo della speculazione» (p. 61). In termini analoghi Marx si sa-
rebbe poi espresso nel primo libro del Capitale: «la superficialità del-
l’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espan-
sione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei pe-
riodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi» (p. 99).
Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi crediti-
zie e monetarie sono senz’altro radicati in alcune caratteristiche di
fondo del modo di funzionamento dell’economia capitalistica. Ma
le crisi non sono in primo luogo creditizie e monetarie: alla loro
base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci.
19
La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze pro-
duttive e rapporti di produzione si manifesta e, al tempo stesso, il
mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accu-
mulazione del capitale: «le crisi sono sempre soluzioni violente
soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni
violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato» (p. 154). Pro-
fitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distru-
zione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupa-
zione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi con-
centrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali,
macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini
di profitto per chi li mette in opera.
Ma vediamo più da vicino i due lati della contraddizione tra svi-
luppo delle forze produttive e rapporti di produzione.
Per un verso abbiamo la tendenza del capitale a superare ogni
barriera: «il capitale (…) è l’impulso illimitato e smisurato a oltrepas-
sare il suo limite» (p. 80). Esso quindi tende a riprodursi su scala
sempre più ampia e a esportare i propri rapporti di produzione e di
scambio sul mondo intero. Da questo punto di vista, dice Marx, «la
tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel
concetto del capitale stesso»; «il capitale tende a trascendere sia le
barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il sod-
disfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti deter-
minati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un
vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo e
agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte
le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espan-
sione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento
e lo scambio delle forze della natura e dello spirito» (pp. 80, 83).
Di contro, l’«universalità» alla quale il capitale tende irresisti-
bilmente «trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livel-
lo del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso è l’ostacolo
massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al
suo superamento» (p. 83). Queste parole dei Lineamenti sono rie-
cheggiate nel manoscritto del terzo libro del Capitale, dove Marx
adopera una formulazione più tagliente: «il vero limite della pro-
duzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la
sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto
di arrivo, come fine della produzione» (p. 155).
La crisi è, appunto, il momento in cui si manifestano le con-
traddizioni del capitalismo e i limiti allo sviluppo del capitale che
sono connaturati al capitale stesso.
20
Da un punto di vista formale, la possibilità delle crisi è già insita
nella duplice natura che la merce assume nella società capitalistica.
Da un lato la merce ha la proprietà di essere utile, di soddisfare bi-
sogni umani: è valore d’uso. Dall’altro essa è depositaria del valore
di scambio, ossia ha la proprietà di potere essere scambiata con
altre merci, e in particolare col denaro. Per il venditore la merce ha
un valore di scambio, mentre il compratore la acquista per il suo
valore d’uso. Solo dopo aver venduto, il venditore – con il denaro
che gli è stato pagato per la vendita della merce – potrà a sua volta
comprare un’altra merce che rappresenti per lui un valore d’uso. Il
processo di scambio che ha luogo nel modo di produzione capita-
listico differisce quindi dallo scambio diretto e immediato dei pro-
dotti che si ha, ad esempio, nel baratto. Esso è infatti mediato dal
denaro (passaggio merce-denaro-merce). Marx definisce tale pro-
cesso come la metamorfosi della merce. «Il processo di scambio si
compie in due metamorfosi opposte e integrantisi reciprocamen-
te: trasformazione della merce in denaro e retrotrasformazione
del denaro in merce (…): vendita, scambio della merce con denaro;
compera, scambio del denaro con merce»27. La metamorfosi di
ogni singola merce rappresenta l’anello di una catena di metamor-
fosi connesse tra loro. Quando tutto va bene, questa metamorfosi
ha luogo senza intoppi. Ma è sempre aperta la possibilità che essa
si interrompa, e in particolare che la merce non riesca a trasfor-
marsi in denaro, in quanto il venditore non trova compratori che
abbiano la possibilità o l’intenzione di acquistare la merce che
vende. In questo senso Marx afferma che «la forma semplice della
metamorfosi include la possibilità della crisi» (p. 90). Quando la
metamorfosi della merce si interrompe risulta impossibile per il
capitalista realizzare il valore delle merci creato nel processo di
produzione: in tal caso si interrompe il «processo complessivo di
riproduzione del capitale», che è «l’unità della sua fase di produ-
zione e della sua fase di circolazione» (p. 95). Se questa interruzio-
ne si verifica su larga scala, abbiamo la crisi.
A questo punto erompe anche la contraddizione insita nel de-
naro nella sua funzione di mezzo di pagamento. Il denaro, in una
situazione normale, ossia non di crisi, funziona «solo idealmente,
come denaro di conto, ossia misura dei valori». Ma quando si veri-
ficano turbamenti generali di questo meccanismo, quale che sia
l’origine di essi, il denaro improvvisamente si trasforma: «da figu-
27. Il capitale, libro I, sez. I, cap. 3: MEW 23.120; tr.it. di D. Cantimori, Roma, Editori
Riuniti, 1968, 19809, p. 138 (d’ora in avanti i tre volumi di questa edizione saranno cita-
ti con ER seguito dal numero di volume e di pagina).
21
ra solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro-contante. Non
è più sostituibile con merci profane». Esso si autonomizza, viene
tesaurizzato in quanto tale anziché venire scambiato con merci,
diviene «merce assoluta». Si produce in tal modo «quel momento
delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama
crisi monetaria» (pp. 102, 101).
Ma cosa fa sì che la semplice possibilità della crisi si trasformi
in realtà? Cosa innesca le crisi effettive? Un fattore essenziale se-
condo Marx è rappresentato dalla capacità di consumo dei lavora-
tori. Questa capacità è a suo avviso strutturalmente limitata. Per un
motivo ben preciso: il valore di ogni merce è determinato dal lavo-
ro impiegato in media per produrla, e i profitti del capitalista deri-
vano dal plusvalore, ossia dal fatto che al lavoratore è pagato non
l’equivalente dell’intero valore prodotto, ma soltanto una parte di
esso (cioè non l’intera giornata lavorativa effettivamente lavorata,
ma soltanto una sua parte).
È questa estorsione di valore supplementare che, secondo Marx,
determina i profitti del capitalista ma al tempo stesso anche i limiti
della capacità di consumo dei lavoratori. Questo perché «i produtto-
ri, i lavoratori, possono consumare un equivalente per il loro prodot-
to, soltanto finché producono più di questo equivalente – il plusvalo-
re o plusprodotto. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, pro-
durre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o
compratori entro i limiti del loro bisogno» (p. 84). E qualora il plusva-
lore non ci sia (o non sia realizzato sul mercato, perché la merce pro-
dotta non viene venduta), il lavoratore viene licenziato e quindi non
riceve neppure la quantità di denaro necessaria per i suoi consumi.
Per Marx è caratteristico del modo di produzione capitalistico
che la produzione non avvenga «tenendo conto dei limiti esistenti
del consumo», ma sia al contrario «limitata solo dal capitale stesso»
(p. 85): ossia dalla capacità produttiva e al tempo stesso dalla neces-
sità per il capitalista di conseguire un profitto. La produzione capi-
talistica infatti non ha lo scopo di soddisfare i bisogni, ma quello di
conseguire un profitto: la produzione di merci che soddisfano biso-
gni è soltanto un mezzo per conseguire questo fine. Per questo mo-
tivo i bisogni al cui soddisfacimento si rivolge la produzione capita-
listica sono soltanto quelli solvibili, cioè soltanto quelli di chi può
pagare per soddisfarli: non la domanda in genere, ma soltanto la
domanda pagante. Si produce in tal modo il caratteristico parados-
so per cui si può avere sovrapproduzione di merci (che in quanto
tali sono destinate esclusivamente alla domanda pagante) mentre,
allo stesso tempo, molti bisogni sociali restano insoddisfatti.
22
Questo induce Marx a fare una precisazione di carattere lessi-
cale: «il termine sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i
bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddi-
sfatti o lo sono solo i suoi bisogni immediati, naturalmente non si
può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti –
nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in
rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire al contrario che in questo
senso, in base alla produzione capitalistica, si sottoproduce conti-
nuamente» (p. 85). È quindi corretto affermare che la sovrappro-
duzione è sempre relativa e mai assoluta: relativa, cioè, ai rapporti
di produzione e di scambio che caratterizzano il modo di produ-
zione capitalistico. «Non vengono prodotti troppi mezzi di sussi-
stenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne
producono troppo pochi per soddisfare in modo decente e umano
la massa della popolazione» (p. 164). Il punto è un altro: «vengono
prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzio-
ne e nei rapporti di consumo peculiari della produzione capitali-
stica, realizzare il valore e plusvalore in esse contenuti e riconver-
tirli in nuovo capitale» (ibidem).
Sono insomma i rapporti di produzione (e quindi quelli di distri-
buzione e di consumo) che caratterizzano la società capitalistica a
rappresentare il principale ostacolo allo sviluppo delle forze pro-
duttive. Infatti – dice Marx – «la causa ultima di tutte le crisi effetti-
ve è pur sempre da un lato la povertà delle masse, dall’altro l’impul-
so del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze pro-
duttive come se la capacità di consumo assoluta della società ne
rappresentasse il limite» (p. 87). Quando si dice che «le crisi pro-
vengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di
consumatori in grado di pagare», si enuncia un’assoluta ovvietà.
Ma attenzione: quando si pensa di porre rimedio al problema asse-
rendo che «la classe lavoratrice riceve una parte troppo piccola del
proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando
essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse
il suo salario», si pecca di ingenuità. Perché questo – oltre un certo
limite – è strutturalmente impossibile fintantoché perdura il modo
di produzione capitalistico: il problema, infatti, è il mantenimento
delle condizioni di profittabilità del capitale, e queste «solo mo-
mentaneamente consentono una relativa prosperità della classe
operaia» (pp. 87-88)28. Nel contesto dei rapporti capitalistici di pro-
23
duzione, ogni politica redistributiva incontra prima o poi dei limiti
insormontabili: essa può infatti essere posta in atto solo fintanto-
ché non intacchi la profittabilità del capitale.
24
prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro» (ibidem). La
diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale
costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto - ossia il
rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella
produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) - di-
minuisca. Questa, in sintesi, la legge della «caduta tendenziale del
saggio di profitto».
Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa
tendenza è riscontrabile oppure no? La risposta è senz’altro affer-
mativa. E questo vale per un ampio arco di tempo.
Nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil
pro capite è stato di poco superiore alla metà del saggio di crescita
registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la
Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi29. E all’interno di
questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare
degli anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata media-
mente inferiore a quella dei decenni precedenti30. Tra il 1960 e il
1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto a un ritmo inferiore al
4%; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto a un ritmo superio-
re al 4%, ed è invece quasi sempre risultato molto inferiore31.
E per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto? La
più approfondita ricerca recente in materia dimostra una tendenza
generale al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo
convergere su livelli simili nei principali Paesi dell’Occidente indu-
strializzato, sia pure con andamenti tra loro non uniformi. Partico-
larmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia,
che evidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi
anni Sessanta e i primi anni di questo decennio32. Per quanto ri-
guarda specificamente l’Italia, il governatore della Banca d’Italia,
Mario Draghi, ha recentemente potuto affermare che «negli ultimi
vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi
investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte»33. Il Giappone,
che muoveva da livelli relativamente più elevati del saggio di profit-
29. A. Kliman, «The Destruction of Capital» and the Current Economic Crisis, 15 gennaio
2009 (reperibile su http://akliman.squarespace.com/crisis-intervention/ ).
30. In proposito vedi i dati riportati in J. Halevy, «Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippo-
americana e Cina», in L. Vasapollo (a cura di), Lavoro contro capitale. Precarietà, sfrutta-
mento, delocalizzazione, Jaca Book, Milano 2005, pp. 181 sgg.
31. A. Freeman, In our lifetime: long-run growth and polarisation since financial liberalisa-
tion, intervento per il convegno For Historical Materialism, dicembre 2006.
32. M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study
of the long-term movement of the profit rate in the capitalist world economy, «Journal of
World-Systems Research», vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. pp. 38-40.
33. Considerazioni finali, Banca d’Italia, 29 maggio 2009, p. 19.
25
to, evidenzia una diminuzione ancora maggiore dal 1970 ai primi
anni del decennio in corso. Stati Uniti e Gran Bretagna, che muove-
vano invece da livelli più bassi, sembrano evidenziare una relativa
ripresa a partire dagli anni Ottanta34. Come vedremo più avanti, le
cause che hanno reso possibile questa ripresa hanno molto a che
fare anche con la crisi mondiale attualmente in corso.
Comunque sia, a dispetto di pregiudizi molto diffusi, negli ul-
timi decenni neppure gli Stati Uniti hanno conosciuto un boom
dei profitti. Tutt’altro. Se si considerano i profitti medi delle impre-
se americane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva una costan-
te diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di profitto era del 28%,
dal 1957 al 1980 è stato del 20%, per scendere ancora al 14% nel
periodo 1981-200435. Nell’ultimo di questi periodi il livello di uti-
lizzo degli impianti industriali negli Stati Uniti è sempre stato in-
feriore all’82%, ed è sceso al 78% nel 200536 – cioè due anni prima
dello scoppio della crisi.
5. Fattori di controtendenza
I dati riportati sopra sono eloquenti. Ma la caduta del saggio di
profitto è in verità una tendenza alla diminuzione e non un crollo –
tantomeno un crollo improvviso.
Questo perché la diminuzione del saggio di profitto può essere
in parte controbilanciata da altri fattori, a cominciare dalla concen-
trazione dei capitali. A causa di tale concentrazione, pur calando la
proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un
numero maggiore di lavoratori lavora per un singolo capitalista:
aumenta quindi la massa del plusvalore e questo fa sì che «la
massa dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la
caduta del saggio di profitto» (p. 119). Inoltre le rendite di monopo-
lio che si possono conseguire attraverso la concentrazione dei ca-
pitali permettono il mantenimento di margini di profitto signifi-
cativi. È appena il caso di ricordare, a questo riguardo, che il pro-
cesso di concentrazione dei capitali ha fatto progressi da gigante
negli ultimi decenni. Basti pensare che già nel 2000 il valore delle
fusioni tra imprese a livello mondiale aveva raggiunto i 5.000 mi-
liardi di dollari, un valore pari a 10 volte quello delle fusioni tran-
snazionali nel 1990. Si sono così formati dei veri e propri colossi (a
New York hanno creato anche un indice di borsa apposta per loro:
26
i Global Titans). Per avere un’idea delle dimensioni di queste im-
prese basti pensare alla multinazionale petrolifera Exxon Mobil:
nel 2008 questa società ha realizzato oltre 45 miliardi di dollari di
profitti, pari grosso modo al Pil di 150 Stati messi assieme37. In
certi settori la concentrazione è così avanzata da creare situazioni
di semi-monopolio da parte di una singola impresa: si è ad esem-
pio calcolato che oltre l’80% dei computer del mondo giri sui siste-
mi operativi della Microsoft.
Ma la concentrazione dei capitali non è sufficiente a invalidare
gli effetti della legge. In effetti – osserva Marx – «se si considera
l’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale anche
soltanto degli ultimi 30 anni rispetto a tutti i periodi precedenti, se
si considera soprattutto l’enorme massa di capitale fisso che entra
nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al
macchinario propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si
sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale spiegazione dare
della caduta del saggio di profitto, subentra quella opposta: come
si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande o più rapi-
da?». La risposta di Marx è questa: entrano in gioco «fattori di con-
trotendenza, che frenano e contrastano l’efficacia della legge gene-
rale, dandole il carattere di una semplice tendenza» (pp. 127-128).
Ripercorrere i fattori di controtendenza individuati da Marx
ponendoli a confronto con gli sviluppi economici dei nostri ultimi
30 anni è piuttosto istruttivo.
37. L. Davi, Utili recordo per Exxon e Chevron, «Il Sole 24 Ore», 31 gennaio 2009.
27
mento del plusvalore relativo), essa si verifica ogni qual volta
un’innovazione di processo aumenta la produttività del lavoro,
ossia incrementa la quantità di merci prodotte dalla medesima
forza-lavoro in uno stesso intervallo di tempo.
28
dei salari medi negli ultimi decenni è rappresentato dalla crescita
della disuguaglianza sociale. Facciamo parlare le cifre, a cominciare
da quelle che riguardano gli Stati Uniti. Tra il 1973 e il 2002 i reddi-
ti del 90% più povero della popolazione statunitense sono scesi del
9% in termini reali. Quelli dell’1% più ricco sono cresciuti del 101%,
e quelli dello 0,1% più ricco addirittura del 227%. Risultato: nel
2005 il reddito dopo le tasse del quinto più povero della popolazio-
ne era di 15.300 dollari annui, quello del quinto mediano di 50.200
dollari, mentre quello dell’1% più ricco era superiore al milione di
dollari. Negli anni tra il 1993 e il 2006 all’1% più ricco della popola-
zione americana è andata quasi la metà della crescita del reddito
complessiva (proporzione che cresce a tre quarti se si considerano
soltanto gli anni tra il 2002 e il 2006). Nel 2005, secondo dati del-
l’US Census Bureau, l’indice della disuguaglianza tra i redditi ha
raggiunto il massimo storico. Nel 2006 la quota di reddito che an-
dava al 10% più ricco delle famiglie americane era il 49,6% del tota-
le, la quota più elevata dal 1917 in poi. Nel 2007 l’1% più ricco della
popolazione statunitense si appropriava di circa il 16% del reddito
nazionale (nel 1980 tale percentuale era «appena» dell’8%)40. La
stessa divaricazione tra i redditi si registra in Gran Bretagna, dove la
tendenza si è accentuata dopo l’ascesa al potere dei laburisti di Blair
nel 1997: anche qui, secondo dati governativi pubblicati nel maggio
2009, la forbice della disuguaglianza è la più alta di sempre41.
Ma la riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai
salari, e per contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una
tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha
evidenziato una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazio-
nali: in Italia, ad esempio, dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno
perso 8 punti percentuali di reddito, andati in maggiori profitti
(che infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale)42. E la
40. T. Piketty, E. Saez, Income inequality in the United States 1913-1998, in «The Quarterly
Journal of Economics», n. 1/2003, passim; E. Saez, Striking it richer: the Evolution of Top In-
comes in the United States (Update using 2006 Preliminary Estimates), 15 marzo 2008; T. Pi-
ketty, E. Saez, How Progressive is the US Federal Tax System? An Historical and International
Perspective, CEPR Discussion Paper n. 5778, CEPR, London, 2006; J. Plender, Mind the
gap. Why business may face a crisis of legitimacy, «Financial Times», 8 aprile 2008. Vedi
anche i dati OCSE citati in R. Artoni, C. Devillanova, Dal 1929 al 2008, Università Bocco-
ni, Centre for Research on the Public Sector, Short note n. 5, novembre 2008, p. 4.
41. Sulla situazione britannica vedi M. Kelly, Povera middle class, «il manifesto», 15 giu-
gno 2008, e M. Engel, A Faustian pact that backfired spectacularly, «Financial Times», 26
maggio 2009.
42. L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International
Settlements, luglio 2007. La ricerca è stata ripresa in un ottimo articolo di M. Ricci, Il
declino degli stipendi, «la Repubblica», 3 maggio 2008. Vedi anche M. Mucchetti, Torna
il tema della redistribuzione, «Corriere della Sera», 24 agosto 2008.
29
stessa Commissione Europea nello studio Employment in Europe
2007 ha dovuto ammettere: «nella maggior parte dei Paesi UE la
quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco nella seconda
metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, successivamen-
te riducendosi a livelli inferiori a quelli antecedenti il primo shock
petrolifero». Infine, secondo una ricerca dell’Organizzazione In-
ternazionale del Lavoro, i salari medi mondiali nel 1995-2007
sono rimasti al di sotto della crescita del Pil. Nella maggior parte
dei Paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente
nel 2001-2007 rispetto al periodo 1995-2000. Nell’intero periodo
considerato essa è diminuita rispetto ai profitti43.
43. Global Wage Report 2008/9, International Labour Organization, Ginevra, novembre
2008. Si vedano in particolare le pp. xiii, 20, 59. Ma tutta la ricerca è di estremo interesse.
44. Come si è visto sopra, in molti casi è stata sufficiente la minaccia di spostare le pro-
duzioni in quei paesi.
30
di salariati disponibili, o messi in esubero», a loro volta determina-
ti dalla sovrappopolazione relativa di lavoratori, vi sia il fatto che «in
molti rami della produzione perdura la sussunzione più o meno
meramente formale del lavoro sotto il capitale, e perdura più a
lungo di quanto il livello generale dello sviluppo a prima vista ren-
derebbe possibile» (p. 133). Questo significa produzioni più arretra-
te e a maggiore intensità di lavoro di quanto in astratto sarebbe con-
sentito dallo sviluppo tecnologico, dovute al fatto che il basso prez-
zo della forza-lavoro le rende comunque convenienti. A questo
proposito è interessante osservare, ad esempio, che il tanto decan-
tato ruolo dei servizi nel creare occupazione negli Stati Uniti dei
tardi anni Novanta va ricondotto in massima parte a occupazione a
bassi salari e bassa produttività del lavoro, resa possibile dalla di-
sponibilità di molta manodopera in eccedenza45. E un discorso ana-
logo deve essere fatto in relazione alla riluttanza di molti industria-
li nostrani a investire in innovazione tecnologica.
45. Sul punto vedi N. Colajanni, Il miracolo americano: un modello per l’Europa?, Sper-
ling & Kupfer, Milano 2000, p. 30 sgg.
31
paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese
più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché
più a buon mercato dei paesi concorrenti» (p. 134). A questo ri-
guardo va osservato che, per quanto riguarda i paesi a capitalismo
avanzato, questo aspetto – che per un lungo periodo ha giocato un
ruolo molto importante, dando origine a molte teorizzazioni sullo
«scambio ineguale» come elemento permanente del dominio dei
paesi del «centro» capitalistico rispetto a quelli della «periferia» –
ha perso relativamente peso negli ultimi anni, grazie agli impres-
sionanti progressi tecnologici compiuti da paesi quali India, Cina
e altri stati del sud-est asiatico.
In terzo luogo, «per quanto d’altro lato riguarda i capitali inve-
stiti in colonie», Marx osserva che «essi possono fruttare saggi di
profitto più elevati, perché in quei paesi il saggio di profitto è in ge-
nerale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo
(…) vi è un maggiore sfruttamento del lavoro» (p. 135). È facile ve-
dere come questo aspetto si applichi perfettamente a molti odierni
investimenti diretti esteri effettuati in paesi emergenti.
Tutto questo vale per il breve periodo. Gli effetti di medio-lungo
periodo del commercio estero, invece, non sono così favorevoli al
saggio di profitto. Infatti, come Marx rileva con chiaro riferimento
all’Inghilterra dei suoi tempi, «lo stesso commercio estero svilup-
pa il modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in
patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce
d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha di
nuovo alla lunga l’effetto opposto» (ibidem).
Qui va però sottolineata una peculiarità della situazione attua-
le. Negli ultimi decenni l’ampliamento del commercio è certa-
mente stato considerevole innanzitutto in termini di estensione
spaziale (si pensi cosa ha significato l’apertura di mercati prima
chiusi quali quelli dell’est europeo). Esso deve tuttavia essere con-
siderato anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera
del commercio, ossia di ciò che è commerciabile e viene messo a pro-
fitto. Tra le concrete contromisure alla caduta del saggio di profitto
vi è stata infatti la messa a profitto dei beni comuni, ossia di valori
d’uso in precedenza gratuiti che si è cercato e si cerca di trasforma-
re in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e l’amplia-
mento di ciò che è coperto da brevetto (a questo riguardo si spazia
ormai dal genoma, a determinati tipi di piante, alla proprietà intel-
lettuale). Da questo punto di vista, negli ultimi decenni si è mani-
festata con prepotenza la tendenza alla colonizzazione di ogni ambi-
to dell’esistenza da parte del capitale.
32
6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Questo fattore, al
quale Marx accenna al termine della propria trattazione dei fattori
di controtendenza, consiste nella destinazione di una parte cre-
scente del capitale a capitale produttivo d’interesse, ossia all’inve-
stimento in obbligazioni o azioni (più in generale, in attività credi-
tizie e finanziarie). L’importanza assunta da questo fattore negli
ultimi decenni è stata notevolissima, e probabilmente assai supe-
riore a quanto Marx stesso avrebbe ritenuto possibile. Essa è stata
consentita da specifiche circostanze storiche e ha larga parte,
come vedremo, nella relativa ripresa dei profitti negli Stati Uniti e
in Gran Bretagna, che è stata per l’appunto drogata da un abnorme
sviluppo delle attività finanziarie e da un’altrettanto spropositata
espansione del credito. Particolarmente eclatante il caso degli
Stati Uniti, in cui nei primi anni Ottanta il settore finanziario van-
tava il 10% dei profitti totali, proporzione salita al 40% nel 200746.
Capire quale sia la dinamica sottesa a questo sviluppo è essenzia-
le anche per comprendere i motivi scatenanti della crisi in corso.
46. Murray E.G. Smith, Causes and consequences of the Global Economic Crisis: A Marxist-
Socialist Analysis, novembre 2008
(www.countdownnet.info/archivio/analisi/world_economy/579.pdf ).
47. D. Farrell, New Thinking for a New Financial Order, «Harvard Business Review», set-
tembre 2008.
48. J. Bellamy Foster, H. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 7.
33
misura sempre maggiore il livello generale di attività economica
(…) viene sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da
parte del governo e da parte di enti privati»49.
In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della
leva creditizia, cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della se-
conda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non avevano cono-
sciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 1945-
1971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie50. Da allora le crisi
finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il
1975 e il 1997 il Fondo Monetario ne conterà più di 20051.
Ma cosa succede nel 1971 di così importante? Gli Stati Uniti de-
nunciano gli accordi di Bretton Woods, ponendo fine alla converti-
bilità del dollaro in oro e decretando così la fine del gold-exchange
standard. Ma non per andare nella direzione che all’epoca auspica-
va il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold stan-
dard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato diretta-
mente all’oro. Per andare nella direzione opposta, quella del dollar
standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiducia-
ria. Una moneta il cui valore è ormai esplicitamente privato di ogni
riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma
che resta, ciò nondimeno, il perno del sistema monetario interna-
zionale. Il mondo comincia a essere inondato di dollari: erano 30
miliardi nel 1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 200452.
Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera
del 1973, in quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambia-
to in dollari. Da questo momento il dollaro diventa «moneta mon-
diale» – il ruolo che Marx attribuiva all’oro – e quindi assume
anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie
che periodicamente scuotono altri paesi, e in particolare i paesi del
Terzo Mondo. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta si susseguo-
no le crisi del debito in molti di questi paesi. A seguito di ciascuna
di esse gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato
il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale.
Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di ca-
pitale e, a partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a
49. H. Magdoff e P.M. Sweezy, La fine della prosperità in America [1977], tr. it. Editori
Riuniti, Roma 1979, p. 190.
50. H. P. Minsky, Finance and Stability: The Limits of Capitalism, relazione al convegno
«The Structure of Capitalism and the Firm in Contemporary Society», Milano 1993, p. 6.
Vedi anche F. Allen, Financial Crises, Princeton University 2003 , p. 4 (http://PU-CRI-
SES-SEC1.pdf ).
51. A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, cit., p. 150.
52. L. Goldner, «The ‘Dollar’ Crisis, and Us»: http://home.earthlink.net/~lrgoldner .
34
smantellare il sistema normativo che era stato costruito dopo la
crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività
bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta). Ad
esempio, viene ampliato il tipo di asset finanziari che possono es-
sere acquisiti dalle casse di risparmio americane (le saving & loans
associations): il risultato, alla fine di quello stesso decennio, è il fal-
limento di 745 casse di risparmio. Soltanto massicci salvataggi
pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico dello
Stato) riescono a impedire che la crisi divenga sistemica53. In com-
penso esplode il debito pubblico.
All’inizio degli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria del
Giappone, che entra in una stagnazione destinata a durare oltre
un decennio, e nel 1997 vanno in crisi anche i Paesi del sud-est
asiatico; nel 1998 a essere colpita è la Russia. Anche in questi casi,
enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla spe-
culativa della new economy (1999-2000). Già in questi anni non
mancano analisti finanziari che lanciano segnali d’allarme riguar-
do ad «un ciclo mondiale del credito le cui origini posso essere rin-
tracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai prossimo alla matu-
rità» (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la «ec-
cessiva creazione di credito» a cui fanno riscontro «decisioni di
investimento sbagliate»; si sostiene, in particolare, che «la spiega-
zione principale della rapida crescita del Pil e della produttività
negli anni recenti, in particolare negli Stati Uniti, consiste nel pa-
rossistico ciclo del credito»54.
Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. Anche l’esplo-
sione della bolla della new economy viene riassorbita in modo rela-
tivamente rapido, e la stessa recessione americana iniziata nel
marzo del 2001 risulta di breve durata, soprattutto grazie alle
enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo l’11 set-
tembre e al ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40
anni (di fatto negativi, cioè inferiori al tasso d’inflazione). Questa
politica è resa possibile da due presupposti: in primo luogo da
bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi
delle merci importate dai Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla
compressione dei salari; in secondo luogo dallo status di valuta in-
ternazionale di riserva del dollaro, dal suo continuare a essere
«moneta mondiale» a dispetto di una bilancia commerciale in pas-
35
sivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così a lungo consu-
mato più di quanto produceva (è questo il significato del passivo
della bilancia commerciale), avrebbe pagato una politica moneta-
ria così espansiva con una crisi del debito simile a quelle patite
negli anni da molti Paesi emergenti.
I bassi tassi di interesse alimentano il credito e più in particola-
re la bolla del mercato immobiliare: sia i prezzi delle case che l’am-
montare dei mutui contratti dalle famiglie americane raddoppiano
dal 2000 al 200555. Nel 2006 i prezzi delle case cominciano a scen-
dere. Si manifesta un evidente eccesso di offerta, cioè una crisi da
sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano le in-
solvenze di chi aveva contratto mutui. Dalla prima metà del 2007 i
titoli legati ai mutui subprime cominciano a essere colpiti dalle ven-
dite. Scoppia la crisi. All’inizio ben pochi economisti e commenta-
tori intendono che la crisi dei subprime è legata a un eccesso di cre-
dito molto più generale56. I più assumono dapprima un atteggia-
mento minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle «cause»
della crisi, adducendo – come abbiamo visto sopra – le più svariate.
Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza della crisi57.
55. A. Kliman, «The Destruction of Capital» and the Current Economic Crisis», cit., p. 6.
56. Tra i pochi a inquadrare direttamente il problema è N. Roubini, Are we at the peak of
a Minsky credit cycle?, 30 luglio 2007, in www.rgemonitor.com .
57. Per un’istruttiva e divertente rassegna delle sciocchezze che sono state dette sulla
crisi da molti degli economisti più in auge vedi M. Cobianchi, Bluff. Perché gli economisti
non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente, Orme, Milano 2009; il testo
contiene anche una buona cronologia degli avvenimenti dal 2007 alla fine del 2008.
36
della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni
Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche rea-
zioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una
così larga parte dell’economia del mondo sviluppato»58. Così il «Fi-
nancial Times» commentava i dati che abbiamo citato più sopra
sul calo dei redditi da lavoro negli ultimi decenni. Ma subito spie-
gava l’arcano: il motivo dell’assenza di reazioni va ricercato nel
fatto che il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha co-
minciato a essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito
da lavoro. La politica monetaria espansiva e di bassi tassi di interes-
se della Federal Reserve ha alimentato il credito al consumo e la
bolla immobiliare, consentendo a famiglie a basso reddito dicon-
trarre debiti relativamente a buon mercato. La fertile fantasia dei
grandi istituti di credito americani, per parte sua, ha escogitato
prodotti rivolti anche a chi non aveva né reddito né lavoro né pote-
va offrire garanzie patrimoniali, come i cosiddetti «mutui Ninja»
(no income, no job, no asset). Questi e altri mutui ad alto rischio co-
stituiscono gli ormai famosi mutui subprime.
La crescita dei valori immobiliari ha in effetti creato per diversi
anni un senso di ricchezza crescente (qualcosa di simile, ma su
scala minore, era successo alla fine degli anni Novanta con la bolla
borsistica della new economy), e ha reso possibile rinegoziare i
mutui e anche accendere ipoteche di secondo grado sulla casa a
garanzia di prestiti finalizzati al consumo. È il fenomeno che è
stato definito come home equity extraction. Come ha scritto Stiglitz,
«la bolla immobiliare ha alimentato i consumi, si tiravano fuori
soldi dalla casa come da un bancomat a ritmo frenetico, mentre i
tassi di risparmio delle famiglie precipitavano»59. Giulio Sapelli ha
parlato di «consumo illimitato basato sull’indebitamento»60. Il ri-
sultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un
lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma come e
più di prima. E va detto che a essere soddisfatti erano in molti, a co-
minciare da Paesi esportatori come la Germania, la Cina, il Giap-
pone, la stessa Italia.
Una costruzione perfetta, salvo due piccoli particolari: da un
lato, una crescita fortissima dell’indebitamento delle famiglie
58. J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, «Financial
Times», 8 aprile 2008.
59. Vedi: J. Sapir, From Financial Crisis to Turning Point. How the US «Subprime Crisis»
Turned into a Worldwide One and Will Change the Global Economy, «Internationale Poli-
tik und Gesellschaft», 1/2009, pp. 29, 35; J. Stiglitz, La follia dei mercati e il sonno delle
autorità, «la Repubblica», 6 maggio 2008.
60. G. Sapelli, La crisi economica mondiale, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 24.
37
americane, che nel 2007 ha raggiunto il 100% del Pil (dal 61,4% di
appena dieci anni prima)61; dall’altro, il fatto che tutto questo ca-
stello di carte poteva stare in piedi soltanto se il valore degli immo-
bili continuava a crescere. Ma la cosa ovviamente non poteva anda-
re avanti all’infinito. E infatti – come sappiamo – il mercato immo-
biliare statunitense alla fine è crollato.
38
Adolf Merckle (la quinta persona più ricca della Germania, secon-
do «Forbes»). Questo signore, proprietario della multinazionale
farmaceutica Phoenix Pharmahandel e detentore di una forte par-
tecipazione azionaria in Kassböhrer e in Heidelberg Cement
(molto svalutata in seguito alla crisi), ha perso un miliardo di euro
scommettendo con la finanziaria di famiglia sul ribasso delle azio-
ni Volkswagen nel giorno in cui queste hanno toccato il loro mas-
simo storico. Ha quindi chiesto aiuto a un consorzio di 40 banche
e allo Stato per ristrutturare i propri debiti. E alla fine, quando ha
inteso che avrebbe dovuto smembrare il suo impero economico e
venderlo a pezzi, si è suicidato64. Si tratta del caso estremo di un fe-
nomeno assai più generale: l’effettuazione di attività speculative
per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili. Sono iniziati-
ve che possono avere successo (e in questo caso in genere non fini-
scono sui giornali) oppure no (come nella vicenda considerata). In
ogni caso, nulla di nuovo sotto il sole: già per Marx «tutte le nazio-
ni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una
vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del
processo di produzione». Si tratta di un fenomeno descritto, poco
prima della crisi del 1929, anche dal marxista Henryk Gros-
smann, il quale considerava la speculazione di borsa come una
sorta di esportazione di capitali verso l’interno, del tutto parallela
all’«esportazione dei capitali all’estero», e con al fondo lo stesso
motivo: la crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di
attività65. Negli ultimi anni una gran parte delle stesse aziende ma-
nifatturiere ha ottenuto profitti tramite operazioni finanziarie. Al-
cune grandi multinazionali, come la General Electric, hanno
messo in piedi un ramo di azienda separato per questo tipo di atti-
vità. Negli anni precedenti la crisi, da questo ramo di attività, GE
Capital, la General Electric ha tratto più del 50% dei suoi profitti.
In effetti, se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si
osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività
finanziarie cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo
ogni rapporto tanto con l’andamento del Pil quanto con i profitti
provenienti da altre attività66.
64. D. Schäfer, German billionaire Merckle hit by VW bet e German Tycoon makes plea for
state bail-out, «Financial Times» del 17 e 18 novembre 2008; Der Fall Merckle. Das Ende
eines Milliardärs, «der Spiegel», 12 gennaio 2009.
65. K. Marx, Il Capitale. Libro II, cap. 1, § IV, MEW 24.62; tr. it. di R. Panzieri, ER 2.58-59.
H. Grossmann, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Sy-
stems (Zugleich eine Krisentheorie), Hirschfeld, Leipzig 1929; ristampa Verlag Neue Kritik,
Frankfurt a.M. 1970, p. 546.
66. Vedi Chart 1 in J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit.,
p. 7.
39
8. Credito e crisi in Marx – e oggi
Se ora ritorniamo alla concezione marxiana del credito, possia-
mo osservare che in essa è presente una determinazione di grande
importanza in relazione a quanto abbiamo visto: per Marx il credi-
to è uno dei principali strumenti attraverso cui il capitale tenta di
superare i propri limiti.
Infatti, grazie al credito i «limiti del consumo vengono allarga-
ti dalla intensificazione del processo di riproduzione, che da un
lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capi-
talisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo
produttivo» (p. 98). Inoltre il credito «spinge la produzione capita-
listica al di là dei suoi limiti» anche nel senso di porre a disposizio-
ne della produzione «tutto il capitale disponibile e anche potenzia-
le della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamen-
te investito»: ossia non soltanto il capitale del capitalista, ma anche
quello – altrimenti inutilizzato – di terzi67.
È precisamente per questi motivi, osserva Marx, che il credito
appare come la causa della sovrapproduzione: «se il credito appare
come la leva principale della sovrapproduzione e dell’iperattività e
della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade soltanto perché
il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui
forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché
una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che
non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa
dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera
con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato» (p. 97). A
questo riguardo è interessante notare come un aspetto contro cui
puntano il dito alcuni critici odierni della finanza, ossia il fatto che
essa utilizza il denaro di altri, per Marx non sia una patologia ma
una caratteristica di fondo del sistema creditizio68.
Però, proprio per il fatto di accelerare «lo sviluppo delle forze
produttive e la creazione del mercato mondiale», il sistema credi-
tizio al tempo stesso «accelera le crisi, le violente eruzioni di que-
sta contraddizione e quindi gli elementi della dissoluzione del vec-
chio modo di produzione» (ibidem). Grazie al credito si può ben
spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia dell’effet-
tiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi
si incarica di dimostrarci che quel limite è invalicabile. Le merci
restano invendute, cominciano i ritardi nei pagamenti, la circola-
67. K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, sez. 5, cap. 36, MEW 25. 620-621 = tr. it. di M. L.
Boggeri in ER 3.2.705.
68. Vedi ad es. L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009.
40
zione si arresta in più punti, e tutto il meccanismo entra in stallo.
Ecco come Marx descrive la situazione: «Fino a che il processo
di riproduzione fluisce normalmente (…) questo credito si mantie-
ne e si amplia, e questo ampliamento è fondato sull’ampliamento
del processo stesso della riproduzione. Non appena subentra un
ristagno provocato da ritardo dei rientri, da saturazione dei merca-
ti, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale
persiste sempre, ma in una forma che non gli permette di adem-
piere alla sua funzione. Massa di capitale-merce, ma invendibile.
Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a causa del rista-
gno della riproduzione» (p. 98).
A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e
la richiesta di pagamenti in contanti contribuiscono a conferire
alla crisi la sua apparenza di crisi creditizia e monetaria. «Il fatto
che, laddove l’intero processo poggia sul credito, non appena il cre-
dito venga improvvisamente a mancare e ogni pagamento possa
essere effettuato solo in contanti debba subentrare una crisi credi-
tizia e la mancanza di mezzi di pagamento – è ovvio, come lo è il
fatto che la crisi nel suo complesso debba quindi presentarsi prima
facie come crisi creditizia e monetaria». La realtà è un’altra: emer-
gono «transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono
alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e
fatte con il denaro altrui»; ed emerge soprattutto il fatto che le
merci restano invendute e perdono il loro valore (Marx parla a que-
sto proposito di «capitali merci che si sono svalorizzati»), che i
profitti attesi «non possono più essere realizzati» (pp. 75-76).
Dietro la crisi «creditizia e monetaria» (oggi si direbbe finan-
ziaria), oltre al fallimento di speculazioni nate nel momento di
massima espansione del credito, c’è insomma una crisi di sovrap-
produzione e di realizzazione del capitale. Questo è vero in gene-
rale, ed è vero anche per quanto riguarda la crisi scoppiata nel
2007. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’Organizzazione per
la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel maggio del 2009,
che evidenzia come la produttività del lavoro fosse in rallentamen-
to già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria69. Nel settore
delle costruzioni Usa il calo inizia tra i due e i quattro anni prima
della crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in
69. Siccome la produttività è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavo-
ratore, un suo calo (soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della
produzione a seguito di sovrapproduzione, o – come oggi si preferisce dire – di excess
supply, eccesso di offerta: in tal caso infatti le merci rimaste invendute inducono a dimi-
nuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva.
41
tale settore segna un –12%. Alla base c’è quindi, afferma la stessa
ricerca OCSE, «un problema di eccesso di offerta». Per un certo
periodo è sembrato che «una forte spinta alla domanda attraverso
un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensa-
re i problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare
pegno all’economia reale». Anche in Europa e in Giappone tra il
2006 e il 2007 vi è un stato chiaro rallentamento della produttivi-
tà. La conclusione della ricerca, sia pur espressa in termini diplo-
matici, è piuttosto chiara: «rispetto all’assunto che il deteriora-
mento dell’economia reale sia stato semplicemente causato dalla
crisi finanziaria, i dati danno sostegno a una relazione più com-
plessa»70. Che «la caduta degli investimenti delle imprese sia al-
meno in larga misura dovuta a un eccesso di capacità produttiva»
è oggi sostenuto anche da Paul Krugman71.
Insomma: la crisi, una classica crisi da sovrapproduzione, è
precedente lo scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l’ha
prima mascherata e poi, esplodendo, ha creato l’illusione di esser-
ne la causa.
A questo punto, proprio per il fatto che l’eccesso del credito nel
settore immobiliare statunitense era solo la punta dell’iceberg di
un fenomeno molto più generale, si è prodotta una drammatica
accelerazione della crisi, a cui hanno contribuito le massicce sva-
lutazioni di titoli finanziari dovute a vendite a qualsiasi prezzo pur
di onorare i propri debiti (infatti molti investimenti in titoli erano
stati effettuati per mezzo di debito, che si contava di ripagare –
come era avvenuto in precedenza – grazie alla crescita di prezzo di
quegli stessi titoli). Si è innescato quel meccanismo di avvitamen-
to – che può condurre a una vera e propria spirale deflattiva – de-
scritto con precisione nel secolo scorso da Hyman Minsky e prima
di lui, in relazione alla crisi del 1929, da Irving Fisher72.
70. The real economy and the crisis: revisiting productivity fundamentals, 30 aprile 2009, cor-
sivi miei; la ricerca è scaricabile dal sito internet ufficiale dell’OCSE: www.oecd.org/docu-
ment/30/0,3343,en_2649_34251_42579358_1_1_1_1,00.html . La ricerca è stata ripub-
blicata in forma poco diversa dai suoi autori: D. Brackfield, J. Oliveira Martins, Productivi-
ty and the crisis: Revisiting the fundamentals, 11 luglio 2009:
http://www.voxeu.org/index.php?q=node/3760 . La necessità di «facilitazioni creditizie»
per coprire l’offerta di case spiega il ricorso crescente ai mutui subprime, passati dal 10%
dei nuovi mutui nel periodo 1998-2003 al 40% nel 2006: i dati sono riportati in L. Spa-
venta, The crisis: a survey, cit., p. 33.
71. Paul Krugman’s fear for lost decade, cit.
72. Di H. Minsky vedi ad es. Finance and Stability: The Limits of Capitalism, cit., p. 16. Su
Minsky e Fisher vedi R. Bellofiore, Introduzione a H. Minsky, Keynes e l’instabilità del ca-
pitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. xxiv sgg. Di «vendite per pagare» aveva
parlato lo stesso Marx (cfr. p. 101).
42
Nella crisi, puntualmente, si è interrotto il ciclo di trasforma-
zione della merce in denaro e si è prodotta quella caratteristica «ca-
restia di denaro» che trasforma il denaro stesso, da semplice
mezzo di circolazione del capitale, in «merce assoluta», in «forma
autonoma del valore» superiore e contrapposta alle singole merci:
«in periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure
cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in asso-
luto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica
forma di esistenza del valore» (p. 103). Anche in questa crisi, in pa-
rallelo all’assottigliarsi dei flussi finanziari e al diminuire del pro-
cesso di conversione delle merci in denaro, è aumentata la richie-
sta di mezzi di pagamento, quali le banconote, e si sono verificati
rilevanti fenomeni di tesaurizzazione73. È il processo definito da
Keynes come «trappola della liquidità»: quella situazione in cui,
per quanto possano essere abbassati i tassi di interesse, il denaro
non viene speso e soprattutto non viene investito a fini produttivi.
Un caso da manuale di «trappola della liquidità» si è avuto dopo il
fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, allorché la
circolazione del capitale è sembrata interrompersi e gli stessi pre-
stiti interbancari si sono per qualche tempo letteralmente paraliz-
zati su scala mondiale.
73. Al riguardo è interessante notare che la richiesta di banconote da 100 e 500 euro è
risultata particolarmente elevata nell’ultimo trimestre del 2008. In particolare, rispetto
all’anno precedente è cresciuta del 17% la quantità di banconote da 500 euro, che – se-
condo quanto dichiarato da un report della Banca Centrale Europea – «sono adoperate
in larga misura a fini di tesaurizzazione»: vedi R. Atkins, Lehman collapse led to euro note
‘hoarding’, «Financial Times», 22 aprile 2009.
43
nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che
marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale». In
tutti questi casi «le condizioni di produzione esistenti… non vengo-
no messe in funzione», e quindi si perde tanto il loro valore d’uso
quanto il loro valore di scambio (p. 104). Questo aspetto della crisi
«si risolve in una diminuzione reale della produzione, del lavoro
vivo – allo scopo di ristabilire la giusta proporzione tra lavoro ne-
cessario e pluslavoro, su cui in ultima istanza tutto si fonda»74. Tale
proporzione può essere ristabilita in quanto la crisi comporta li-
cenziamenti di massa e la creazione di un esercito industriale di ri-
serva: da questo discende una diminuzione del potere contrattua-
le dei lavoratori, e pertanto un aumento della quota del lavoro non
pagato e del saggio del plusvalore.
Un secondo aspetto della distruzione di capitale è rappresenta-
to dalla «caduta rovinosa dei prezzi delle merci». In questo caso «non
viene distrutto nessun valore d’uso. Ciò che perde l’uno, guadagna
l’altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito
di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti
fanno bancarotta», in quanto non solo non riescono a valorizzare
il capitale anticipato per produrre quelle merci, ma le devono ven-
dere al di sotto del loro valore. Allo stesso modo, nelle crisi «una
gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di
scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, ben-
ché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore
d’uso, possa favorire molto la nuova riproduzione» (ibidem). Marx
insiste in particolare sul fatto che «la caduta di capitale semplice-
mente fittizio, titoli di Stato, azioni ecc.», in se stesso comporta
«un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’al-
tra», ma non una distruzione reale di capitale, a meno che esso
non porti «alla bancarotta dello Stato e della società per azioni»,
rallentando in tal modo la riproduzione (p. 105).
Entrambi i tipi di distruzione di capitale considerati da Marx
sono oggi ben visibili. Nei soli Stati Uniti il valore dei patrimoni
(finanziari e immobiliari) detenuti dalle famiglie è diminuito di
11.300 miliardi di dollari (il 14,7%) tra la fine del 2007 e la fine del
2008. Quanto alla distruzione di capitale reale, essa si sta manife-
stando in un calo del Pil a livello mondiale del 2,9% (il primo dalla
fine della seconda guerra mondiale), in un crollo del commercio
internazionale del 10%, in un tasso di utilizzo degli impianti infe-
riore al 70% in molti paesi, in un’enorme crescita delle bancarotte
74. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-8, MEW
42.360; tr. it. di G. Backhaus in MEOC 29.383.
44
(+35% su scala mondiale) e in una crescita della disoccupazione
nel mondo di 50 milioni di unità nel 200975.
La vera domanda da porsi a questo riguardo è: questa distruzio-
ne di capitale sarà sufficiente a ripristinare condizioni più elevate
di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumu-
lazione del capitale? Non è facile rispondere. Ma è lecito ritenere
che oggi si rischi uno scenario depressivo assai peggiore delle re-
cessioni dei primi anni Settanta, quando la distruzione di capitale
necessaria per far ripartire i profitti fu evitata anche in quanto po-
liticamente insostenibile (per la presenza di una concorrenza tra
sistemi, che vedeva un blocco socialista ancora agguerrito), con la
conseguenza di decenni di crescita stentata.
75. Vedi Global Development Finance. Charting a Global Recovery, The World Bank, Wa-
shington 2009, pp. 12, xi, 1, 9 (table 1.1.), 12. Sulle bancarotte attese cfr. B. Hall, Ban-
kruptcies expected to soar by 35%, «Financial Times», 4 giugno 2009. Sull’aumento della
disoccupazione vedi Unemployment, working poor and vulnerable employment to increase
dramatically due to global economic crisis, International Labour Organization, press re-
lease, 28 gennaio 2009.
76. Così J. Rogers (ex socio di Soros nel Quantum Fund) in un’intervista a CNBC Euro-
pe l’8 settembre 2008. Per il video vedi http://www.cnbc.com/id/26603489/ .
45
commerciale e scontare delle cambiali che non sono più altro che
il controvalore delle bancarotte altrui. In altre parole, il patrimonio
dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe ripianare
le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere di comuni-
smo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, esercita una
certa attrattiva sui capitalisti europei» (p. 72).
Che dire? Sono passati oltre 150 anni, ma il fascino che misure
di questo genere esercitano sui capitalisti è vivo come allora. E che
giudizio dare degli alfieri della deregolamentazione nell’ambito
dei diritti sindacali e del lavoro, i quali – «Economist» in testa – ora
invocano l’aiuto pubblico alle grandi banche e imprese in crisi per
«salvare il sistema»77? Anche qui, niente di particolarmente
nuovo, almeno stando a questa lettera scritta da Marx a Engels l’8
dicembre 1857: «È proprio bello che i capitalisti, che gridano tanto
contro il “diritto al lavoro”, ora pretendano dappertutto “pubblico
appoggio” dai governi, e ad Amburgo, a Berlino, a Stoccolma, e Co-
penaghen e nella stessa Inghilterra (nella forma di sospensione
della legge) facciano insomma valere il “diritto al profitto” a spese
della comunità» (p. 76). Insomma: la tendenza a invocare la socia-
lizzazione delle perdite e uno statalismo a geometria variabile – ri-
fiutato con sdegno quando pretende di porre vincoli legislativi al
mercato del lavoro, ardentemente desiderato quando impegna il
denaro pubblico per salvare imprese private – sembra vecchia
come il capitalismo e destinata a morire con esso.
77. Il titolo di copertina dell’«Economist» del 9 ottobre 2008 recitava appunto: Saving
the system.
46
«l’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di
riproduzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che
ora una banca (per es. la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a
tutti gli speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le
merci al loro vecchio valore nominale» (p. 76). Insomma: il riac-
quisto titoli effettuato dalle banche centrali degli Stati Uniti, del-
l’Unione Europea e del Giappone nel corso della presente crisi non
avrebbe potuto annoverare Marx tra i suoi fautori più entusiasti.
Anche Engels ebbe parole di critica nei confronti di provvedi-
menti anti-crisi quali la proroga amministrativa delle scadenze dei
pagamenti e più in generale nei confronti dell’adozione di una po-
litica monetaria espansiva. «Le proroghe delle cambiali – scrisse
in una lettera a Marx del 1858 sulla crisi francese – provocheranno
perdite enormi. Un mezzo siffatto per superare una crisi può ser-
vire soltanto quando la ripresa degli affari è effettiva anche nell’in-
dustria; ma il semplice easy money-market78 non serve a chi non
ha credito; e io credo che ora in Francia non si dia più credito se
non come proroga di quello precedentemente concesso»79.
In generale, sia Marx che Engels ritenevano che la crisi non po-
tesse essere risolta da interventi di politica monetaria né da leggi ad
hoc o interventi pubblici a garanzia e copertura del debito privato.
Anzi, in una lettera a Engels riferita agli sviluppi della crisi che allo-
ra imperversava in Francia, Marx accennò al fatto che questi ultimi
interventi, lungi dal risolvere la crisi, potevano portare alla banca-
rotta anche lo Stato: «quando scoppia la vera e propria crisi france-
se, il mercato finanziario e la garanzia di questo mercato, cioè lo Stato,
se ne vanno al diavolo»80. Si tratta di un accenno evidentemente rife-
rito a una situazione molto lontana dall’attuale e per molti aspetti
non confrontabile con quanto accade ai nostri giorni. Ma forse, a
ben vedere, non si tratta di un’affermazione priva di interesse in re-
lazione alla situazione odierna. Non è difficile capire perché.
Oggi lo Stato viene direttamente in soccorso delle grandi corpo-
rations private – in primis finanziarie – con interventi di entità
senza precedenti nella storia. Il sostegno delle banche centrali e
degli Stati ammontava già nel dicembre 2008, secondo alcune
47
stime, a qualcosa come 10.000 miliardi di dollari81. In realtà biso-
gna distinguere tra gli impegni di spesa sparati sui titoli dei gior-
nali (per massimizzare l’effetto-annuncio al fine di infondere «fi-
ducia» e ottenere consenso), o comunque gli impegni pluriennali,
e quanto è stato effettivamente già speso. Ma anche volendosi li-
mitare a queste ultime cifre stiamo pur sempre parlando in media
del 5,8% del Pil delle economie più avanzate, del 7,5% di quello
statunitense e del 18,9% di quello della Gran Bretagna. Probabil-
mente non è che l’inizio, se consideriamo la necessità di sempre
maggiori ammortizzatori sociali, anche per ripianare il disastro
delle prestazioni sociali privatizzate: basti pensare che i fondi pen-
sione privati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna nel 2008 hanno
accusato perdite pari, rispettivamente, al 22 e al 31% del Pil82.
Allo stato attuale quell’intervento – a dispetto delle metafore
escogitate per convincerci dell’esistenza di «germogli» di ripresa e
delle patetiche grida di gioia a ogni accenno di rialzo degli indici
borsistici –, se ha probabilmente evitato un meltdown globale e un
disastro sistemico, non sembra avere sortito gli effetti sperati.
Anzi. Le prospettive appaiono tanto poco rosee da far dire a un no-
tista del «Financial Times»: «le probabilità sono equamente ripar-
tite tra una depressione mondiale e un ritorno a uno stato di semi-
stagnazione»83. Gli stessi confronti con il decorso della crisi del
1929 sono tutt’altro che confortanti: la produzione industriale ri-
calca quella della Grande Depressione, il volume del commercio
mondiale è crollato in misura ancora maggiore per il crollo della
domanda di prodotti industriali e le Borse hanno perso molto di
più di allora nello stesso intervallo di tempo84. Le previsioni sul calo
del prodotto interno lordo mondiale nel 2009 elaborate dalla
Banca Mondiale sono poco meno che catastrofiche, con una media
di calo dei paesi ad alto reddito del 4,2% (-4,5% la media nell’euro-
zona, -6,8% il Giappone); ma anche i paesi emergenti, se si eccet-
tuano Cina e India, vedranno il loro Pil calare di un –1,6%. La do-
manda di beni di investimento nel primo trimestre 2009 è letteral-
48
mente crollata negli Stati Uniti (-37,3%), in Giappone (-27,5%) e in
Germania (-28,6%)85. Quanto al settore bancario, le principali 31
banche commerciali europee avevano a fine 2008 una leva finan-
ziaria di 43,3, ossia più di 43 euro di debiti per ogni euro di capitale.
La stessa Banca Centrale Europea ha stimato in 283 miliardi di dol-
lari le ulteriori perdite attese da queste banche tra il 2009 e il
201086. Quanto all’attività industriale, basti dire che a maggio
2009 negli Stati Uniti il tasso di utilizzo degli impianti è sceso al
68,3%87. La disoccupazione in Europa e negli Stati Uniti è già sali-
ta oltre il 9,5%, e nel mondo gli affamati in più saranno 100 milio-
ni, superando per la prima volta nella storia umana il miliardo di
persone; a differenza di quanto accaduto in passato, questo incre-
mento non è dovuto a carestie, ma alla crisi88.
85. Vedi Global Development Finance. Charting a Global Recovery, cit., pp. 9 (table 1.1.), 11
(table 1.2.),
86. M. Mucchetti, Banche, il ritorno della parola «divieto», «Corriere della Sera», 16 giu-
gno 2009; I. Bufacchi, BCE alza il prezzo della crisi, «Il Sole 24 Ore», 16 giugno 2009.
87. Il tasso di utilizzo degli impianti del settore automobilistico statunitense, in com-
penso, è risultato pari al 59%: vedi i dati del PWC’s Automotive Institute riportati in Car
industry capacity, «Financial Times», 10 giugno 2009.
88. Eurozone jobless reach 10-year high, «Financial Times», 3 giugno 2009; M. El-Erian,
American jobs data are worse than we think, «Financial Times», 3 luglio 2009; 1.02 billion
people hungry, FAO, press release, 19 giugno 2009.
49
alla situazione del 2007, con un debito medio al 114% del Pil. Rap-
porto che potrebbe salire al 150% del Pil nel caso – tutt’altro che da
escludere – di un rallentamento economico molto prolungato89.
Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco. Resterebbe
soltanto lo Stato-gendarme, come nei migliori sogni liberistici, a
mantenere con mezzi coercitivi un ordine che non potrebbe più
essere mantenuto col consenso, o lo Stato-comunicatore a indiriz-
zare la disperazione delle masse – come già accaduto in Italia e
Germania negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – verso
l’obiettivo sbagliato: il «nemico interno» (allora il comunista e
l’ebreo, oggi l’immigrato, il diverso in genere) o il «nemico ester-
no» (la Cina? La Russia?).
Non sembrino riferimenti fuori luogo. In fondo, non si ricor-
derà mai abbastanza che dall’ultima crisi di entità paragonabile al-
l’attuale, quella del 1929, si uscì soltanto con una guerra mondia-
le: furono infatti le immani distruzioni della seconda guerra mon-
diale e la gigantesca mobilitazione di capitale funzionale al
sostegno dello sforzo bellico degli Stati Uniti – e non le opere pub-
bliche di Roosevelt – a far riprendere l’economia, e con essa il sag-
gio di profitto90.
È possibile che l’entità della distruzione di capitale necessaria
per far ripartire i profitti sia meno drammatica, e che quindi le mi-
sure adottate risultino efficaci per rilanciare l’accumulazione del
capitale con una contestuale riduzione del ricorso al debito. Ma co-
munque in tal modo verrebbe meno il pilastro che ha sostenuto i
profitti negli ultimi decenni (o che in ogni caso ha reso socialmen-
te più tollerabile il loro declinare). E quindi in tal caso – come è
stato scritto – «la prognosi è di un’economia che, anche dopo lo sta-
bilizzarsi della immediata crisi da svalutazione degli assets, sarà
nel migliore dei casi caratterizzata per molto tempo da una cresci-
ta minima, nonché da alta disoccupazione, sottoccupazione ed ec-
cesso di capacità produttiva»91.
89. Vedi Fiscal implications of the global economic and financial crisis, cit., pp. 3, 22 (table
5.1.), 25 e 26 (table 5.2.), 29 (figure 5.6.), 39 sgg.. In Germania il tema della possibile ban-
carotta dello Stato campeggia già sulle copertine dei settimanali: vedi ad es. Der geplünder-
te Staat. Wie viel Opel darf sich Deutschland noch leisten?, «Der Spiegel», 8 giugno 2009.
90. In argomento vedi A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché, Escalation. Anatomia della
guerra infinita, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 126-127. A. Kliman, On the Roots of the
Current Economic Crisis and Some Proposed Solutions, aprile 2009, pp. 3, 6 (http://mar-
xisthumanistinitiative.org/2009/04/17/on-the-roots-of-the-current-economic-crisis-
and-some-proposed-solutions/). Sul miracolo economico del dopoguerra spiegato
come periodo di ricostruzione postbellica vedi F. Janossy, La fine dei miracoli economici,
1966; tr. it. Editori Riuniti, Roma 1974.
91. J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 15.
50
Nessuno dei due scenari ipotizzati è particolarmente confor-
tante. Chi scrive ritiene che non si possa escludere neppure il
primo e peggiore tra essi. In ogni caso, una imponente distruzio-
ne di capitale (con il carico di sofferenze umane che porta con sé)
appare inevitabile e necessaria per far riprendere il business e per
far ripartire la macchina dei profitti. Insomma – per dirla con
Marx – per far «ricominciare tutto il giro» (p. 161).
51
omicidi sul lavoro vengano perseguiti, che la fiscalità sia realmen-
te progressiva, che i profitti d’impresa non finiscano nelle tasche
della famiglia dell’imprenditore ma vengano almeno in parte rein-
vestiti. Il risultato facilmente verificabile è una regressione dram-
matica dei redditi da lavoro e contemporaneamente della competiti-
vità di sistema. Sarà compito degli storici del futuro ravvisare in
questi dati strutturali la base della regressione culturale e civile a
quel tribalismo razzistico che impesta sempre più le nostre città
rendendole ostili agli «altri» e tristi per tutti, come pure stabilire
istruttivi raffronti tra questa regressione e altre già vissute in un
passato neppure troppo lontano.
Il nostro compito è diverso. Si tratta di intendere una volta per
tutte che la crisi attuale non è un incidente di percorso. Che non è
venuta da Marte né da qualche mutuatario insolvente del Wiscon-
sin; che la sua paternità non va attribuita né all’avidità di un pugno
di banchieri né all’algoritmo non ben compreso di qualche deriva-
to. Questa crisi fa parte integrante del funzionamento normale del
modo di produzione capitalistico. Come ogni crisi, essa non è in sé
un problema per il capitalismo, ma il modo attraverso cui, periodi-
camente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Non nasce da im-
perfezioni del mercato, ma è uno dei più potenti e perfetti prodot-
ti del mercato stesso.
Chiunque faccia proprio questo punto di vista, non potrà ritene-
re risolutivo della crisi il miglioramento dell’efficienza dei mercati e
neppure il rilancio della domanda aggregata. E sarà invece portato a
ritenere, con Marx, che la sola vera soluzione della crisi può venire
dall’intendere che il capitalismo è il problema, e dall’operare di con-
seguenza: ossia per il superamento di questa «ultima configurazio-
ne servile assunta dall’attività umana» (p. 105), con l’obiettivo di far
sì che i produttori assoggettino la produzione – che oggi li sovrasta
come una «legge cieca» – al «loro controllo comune come intelletto
associato» (p. 163). Questo oggi può significare solo una cosa: ri-
prendere e rilanciare i grandi obiettivi dell’autogoverno dei produt-
tori e della pianificazione dell’economia92. Sulla base degli sviluppi
del capitalismo contemporaneo e imparando dagli errori che
hanno reso fallimentari i tentativi del secolo passato.
È facile oggi tacciare una posizione del genere di astratto utopi-
smo, come impone l’ideologia tuttora dominante – anche se ovvia-
mente sarebbe altrettanto facile ribaltare tale accusa contro i culto-
92. Credo di poter interpretare in questo senso anche quanto argomentato da A. Mi-
nucci, La crisi generale tra economia e politica. Una previsione di Marx e la realtà di oggi,
Voland, Roma 2008, p. 26.
52
ri della religione dei mercati efficienti o contro i (più rari) seguaci
dell’utopia redistributiva socialdemocratica.
Intendiamoci: è senz’altro possibile che il progetto marxiano di
«fare della proprietà privata individuale una verità trasformando i
mezzi di produzione, la terra e il capitale, ora principalmente
mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici
strumenti di un lavoro libero e associato»93 – insomma l’idea di
una regolazione dell’economia da parte dei produttori associati –
non trovi attuazione. Non è un’eventualità auspicabile. È estrema-
mente probabile, infatti, che in tal caso la «fine della storia» va-
gheggiata anni fa da alcuni ideologi finirebbe con il realizzarsi per
davvero: ma nelle forme della stagnazione economica, della cata-
strofe ambientale e della guerra.
Si darebbe così ragione, ancora una volta, all’amara constata-
zione di Karl Kraus: «nel mondo è accaduto di tutto perché il
mondo aveva una troppo bassa considerazione di se stesso»94.
Il mondo dovrebbe migliorare la stima che ha di sé. Anche noi.
93. K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione
internazionale dei lavoratori, 1871, in MEW 17.342; tr. it. di V. Morfino in MEOC 22.300
(con questo volume, pubblicato da La Città del Sole, Napoli 2008, è finalmente ripresa
la pubblicazione in lingua italiana delle Opere complete di K. Marx e F. Engels).
94. K. Kraus, Dritte Walpurgisnacht, 1933; ed. Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, p. 22.
53
NOTA AI TESTI
Criteri di citazione
Le fonti dei testi tradotti in questo volume sono indicate tra parentesi quadra
sotto il titolo dei testi, che è redazionale.
Vengono sempre indicati titolo ed edizione originali dell’opera da cui è tratto
il testo tradotto, e a seguire titolo ed edizione italiana, nonché il nome del tra-
duttore. Nei casi in cui la traduzione è stata riveduta dal curatore del presente
volume la cosa è esplicitamente indicata.
Per le edizioni delle opere di Marx ed Engels più frequentemente citate ven-
gono utilizzate le seguenti abbreviazioni:
MEW Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin, 1956-
1990. Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il nume-
ro del volume, eventualmente quello del tomo, infine il numero
di pagina.
MEGA Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe (MEGA), Dietz Ver-
(poi Akademie Verlag) lag, Internationales Institut für Sozialgeschichte, Berlin e Am-
sterdam, 1975 a oggi. Questa edizione è citata riportando, dopo la
sigla, il numero della sezione in numeri romani, e, in numeri
arabi, numero del volume, numero del tomo e numero di pagina.
MECW Karl Marx, Frederick Engels, Collected Works, Progress Publi-
shers, Lawrence & Wishart, International Publishers, Moscow,
London and New York 1975-2005. Questa edizione è citata ripor-
tando, dopo la sigla, il numero del volume e il numero di pagina.
MEOC Karl Marx, Friedrich Engels, Opere Complete, Editori Riuniti,
Roma 1972-1990 (l’edizione delle opere è stata ripresa nel 2008
dall’editrice La Città del Sole con la pubblicazione del vol. 22).
Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero del
volume e il numero di pagina.
ER Karl Marx, Il capitale, tr. it. di D. Cantimori (libro I), R. Panzieri
(libro II), M.L. Boggeri (libro III), Editori Riuniti, Roma 1968 (più
volte ristampato). Questa edizione è citata riportando, dopo la
sigla, il numero del volume, eventualmente quello del tomo, infi-
ne il numero di pagina.
Criteri generali
parole che nel testo originale erano scritte in lingua diversa (generalmen-
te inglese o francese) da quella in cui è scritto il testo marxiano. In questa
edizione, al fine di rendere la lettura più scorrevole, si è scelto di tradurle
in italiano nel testo portando il lemma originale in nota;
55
Contenuto delle diverse sezioni
56
fronto con l’edizione engelsiana del III libro del Capitale, tali titoli sono stati
mantenuti nella presente edizione ma posti tra parentesi quadre e, ove ritenu-
to necessario, utilizzando termini diversi da quelli adoperati nell’edizione di
Engels e conseguentemente nelle traduzioni italiane condotte su di essa.
Segni grafici
Note sulla traduzione del manoscritto del III libro del Capitale
57
Marx a insistere sul carattere di semplice «tendenza» (Tendenz),
per di più non lineare, della legge sulla caduta del saggio di profit-
to. Infine, il sostantivo Fall (al pari dell’aggettivo corrispondente) in
tedesco ha un significato che non è riducibile alla caduta improvvi-
sa, ed infatti nel testo marxiano è spesso usato in modo interscam-
biabile con il sostantivo Abnahme (diminuzione) e col relativo ag-
gettivo (abnehmend), che indicano un processo graduale.
Productionsweise in genere è reso con «modo di produzione». In un caso esso
ha però il significato di «metodo di produzione» (poco oltre nel
testo di Marx troviamo, con lo stesso significato, il termine Pro-
ductionsprocedur: cfr. p. 241-2 del manoscritto, MEGA II/4.2.339).
Productivkraft è stato tradotto, a seconda dei contesti, con «forza produttiva» o
«produttività» (ad esempio nell’espressione Productivkraft der Ar-
beit); va notato che in quest’ultimo significato Marx adopera
anche Productivität. Il plurale Productivkräfte è stato invece inva-
riabilmente tradotto con «forze produttive».
Schranke questo termine (e il plurale relativo) è stato reso con «limite», più
raramente con «confine» (altrove è reso anche con «ostacolo» e
«barriera»).
Umfang questo termine, presente anche in composti (ad esempio Werthum-
fang, Massenumfang, Gesammtumfang), è stato tradotto a seconda dei
contesti con «entità» e «volume», più raramente con «estensione».
Verhältnis questo termine è stato tradotto, a seconda dei contesti, con «rap-
porto», «rapporto proporzionale», «proporzione». Nel primo si-
gnificato Marx usa anche Proportion (ma in qualche caso l’aggetti-
vo corrispondente proportionell deve invece essere tradotto con
«relativo»). In un caso si è ritenuto opportuno tradurre il compo-
sto Verwerthungsverhältnisse con «condizioni di valorizzazione»
(p. 242 del manoscritto, MEGA II/4.2.340).
Ringraziamenti
58
Cronache della crisi
1. La speculazione come causa apparente della crisi
[1.1.] Gli anni 1843-1845 furono gli anni della prosperità industriale
e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi
ininterrotta dell’industria negli anni 1837-42. Come sempre, con la
prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La spe-
culazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzio-
ne è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei
canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi
e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel
campo della speculazione e solo successivamente passa a quello
della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspecula-
zione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, ap-
pare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della
crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come con-
seguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma
come semplice contraccolpo del crollo della speculazione.
61
glesi del XVI secolo. Gli uni fornirono i materiali, gli altri apporta-
rono la forma universale che rese possibile la diffusione del Dei-
smo nell’intero mondo civilizzato del XVIII secolo. Gli Inglesi
sono inclini a rallegrarsi del fatto che il centro della speculazione
si è spostato dalla loro isola libera e sobria al continente europeo,
caotico e dominato da despoti: in questo modo però dimenticano
la grande inquietudine con cui seguono il rapporto mensile della
Banca di Francia, per le sue ripercussioni sulle riserve d’oro custo-
dite nel Sancta Sanctorum della Banca d’Inghilterra; dimenticano
che in massima parte inglese è il capitale che riempie di nettare di-
vino le arterie del Crédit Mobilier a livello europeo; dimenticano
che il «sano» parossismo del commercio e la «sana» sovrapprodu-
zione inglesi, che ora lodano a causa di esportazioni che hanno
raggiunto la bella cifra di circa 110.000.000 di sterline, sono la di-
retta conseguenza dell’«insana» speculazione che rimproverano
al continente, così come la loro politica liberale dal 1854 al 1856 è la
conseguenza del colpo di stato1 di Bonaparte. Non si può negare,
tuttavia, che essi non abbiano alcuna colpa nel covare questa biz-
zarro intruglio di socialismo imperiale, speculazione azionaria
saint-simonistica e imbroglio filosofico di cui si compone ciò che
va sotto il nome di Crédit Mobilier. La speculazione inglese, in stri-
dente contrasto con questa raffinatezza continentale, è tornata alla
sua più grossolana e primitiva forma della truffa, alla truffa nuda e
cruda, senza alcun infingimento. La truffa era il segreto di Paul,
Strahan & Bates, della Tipperary Bank di sadleiriana memoria,
delle grandi operazioni di Cole, Davidson & Gordon nella City; e
nella parola «truffa» si compendia la triste, ma semplice storia
della Royal British Bank di Londra2.
[2.1.: The European Crisis, in «New-York Daily Tribune», n. 4878 del 6 dicembre
1856, ora in MECW15.136-138; La crisi in Europa, tr. it. di V. Giacché; 2.2.: The
Bank Act of 1844 and the Monetary Crisis in England, in «New-York Daily Tribune»,
n. 5176 del 21 novembre 1857, in MECW 15.383; Il Bank Act del 1844 e la crisi
monetaria in Inghilterra, tr. it. di V. Giacché; 2.3.: Pauperism and Free Trade. The
Approaching Commercial Crisis, in «New-York Daily Tribune», n. 3601, 1° novem-
bre 1852, in MECW 11.363; Pauperismo e libero scambio. La crisi commerciale in-
combente, tr it. di E. Fubini, MEOC 11.375]
1. coup d’état
2. [Si tratta di episodi di bancarotta e di truffa avvenuti tra il 1855 e il 1857 in Inghilterra e
Irlanda, che ebbero grande risonanza all’epoca. Il fallimento della Tipperary Bank, avve-
nuto nel febbraio del 1856, fece particolare scalpore per il fatto di coinvolgere uno dei più
prominenti politici irlandesi dell’epoca, John Sadleir, che in seguito al crack si suicidò].
62
[2.1.] Le notizie che hanno recato con sé i due piroscafi giunti in
settimana dall’Europa sembrano chiaramente rinviare il crollo de-
finitivo della speculazione e dei giochi in borsa che gli uomini sui
due lati dell’oceano istintivamente prevedono come nell’attesa ti-
morosa di una rovina inevitabile. Nonostante il rinvio, questo crol-
lo è certo; infatti il carattere cronico che ha assunto l’attuale crisi fi-
nanziaria non fa che annunciarne un esito ancora più violento e
distruttivo. Quanto più a lungo si protrae la crisi, tanto più salato
sarà il conto. In questo momento l’Europa si trova nella situazione
di un uomo sull’orlo della bancarotta, che è costretto a portare
avanti tutte le iniziative che lo hanno rovinato e al tempo stesso ad
appigliarsi disperatamente a tutti i mezzi possibili con i quali
spera di rinviare ed evitare l’ultimo, terribile fallimento. Si eserci-
tano nuove richieste di pagamento3 di azioni di società che per la
maggior parte esistono solo sulla carta. Grandi somme di denaro
contante vengono investite in speculazioni dalle quali non potran-
no mai essere ritirate, mentre l’elevato tasso d’interesse – attual-
mente quello della Banca d’Inghilterra è al 7% – è in certo qual
modo il nunzio severo del giudizio imminente.
È impossibile, anche se andassero completamente a buon fine
le ingegnerie finanziarie che ora si tenteranno, che le innumere-
voli speculazioni di borsa sul continente possano essere portate
avanti ancora per molto. Nella sola Prussia renana vi sono settan-
tadue società minerarie con un capitale azionario di 79.797.333
talleri. Proprio ora il Crédit Mobilier austriaco, o per meglio dire il
Crédit Mobilier francese in Austria, incontra enormi difficoltà nel
tentativo di ottenere il pagamento della seconda rata sulle sue
azioni, dal momento che è paralizzato dalle misure del governo
austriaco tese a ripristinare il pagamento in contanti. Il denaro da
versare al Tesoro imperiale per l’acquisto di ferrovie e miniere
deve, per contratto, essere pagato in moneta metallica, la qual cosa
ha per conseguenza un deflusso delle risorse finanziarie del Cré-
dit Mobilier di oltre 1.000.000 di dollari al mese sino al febbraio
1858. D’altra parte i problemi di liquidità dei concessionari delle
ferrovie in Francia sono così gravi che la ferrovia Grand Central si
è vista costretta a licenziare cinquecento impiegati e quindicimila
operai sulla tratta di Mulhouse, e la società ferroviaria Lione e Gi-
nevra ha dovuto limitare o addirittura interrompere le sue attività.
Il quotidiano «Indépendance belge» è stato sequestrato due volte
in Francia, perché aveva spifferato questi fatti. Vista la suscettibili-
tà del governo francese a ogni rivelazione dell’effettiva situazione
3. calls
63
del commercio e dell’industria francesi sono degne di nota queste
parole, sfuggite di bocca al Sig. Petit, Rappresentante del Procura-
tore Generale, in occasione della recente apertura della sessione
dei Tribunali di Parigi:
[2.2.] Questa crisi si trova oltre la portata del potere dei governi.
Non appena le prime notizie della crisi americana hanno rag-
giunto le coste dell’Inghilterra, gli economisti inglesi hanno enun-
ciato una teoria che, se non può avanzare alcuna pretesa di genia-
64
lità, può almeno ambire all’originalità. Si è detto che il commercio
inglese era sano, ma – ahimé! – i suoi clienti, e in particolare gli
yankees, erano malati. La sana situazione di un commercio, che è
in buona salute da uno solo dei suoi lati – ecco un pensiero degno
di un economista inglese4. Si dia uno sguardo all’ultima relazione
semestrale pubblicata dal ministero inglese del commercio per il
1857, e si scoprirà che, dell’export totale di prodotti e merci indu-
striali, il 30% è andato negli Stati Uniti, l’11% nelle Indie Orientali
e il 10% in Australia. Ora, mentre il mercato americano è chiuso e
lo sarà per molto tempo, quello indiano, che negli ultimi due anni
è stato saturato, sarà ridotto in misura notevole per i contraccolpi
della rivolta5, e il mercato australiano è talmente inondato di pro-
dotti che ora merci inglesi di ogni tipo sono vendute più a buon
mercato ad Adelaide, a Sydney e Melbourne che a Londra, Man-
chester o Glasgow.
4. [Lo stesso concetto viene espresso da Marx nella lettera a Engels del 20 ottobre 1857:
«I pianti dei pennivendoli inglesi sul fatto che il loro commercio sarebbe sano, ma i loro
clienti all’estero malsani, sono originali e spassosi»: cfr. MEW 29.198; tr. it. di M. Mon-
tinari in MEOC 40.208 (traduzione riveduta)]
5. [All’inizio del 1857 scoppiò in India una sollevazione diretta in particolare contro il
potere della Compagnia britannica delle Indie Orientali, la compagnia privata che al-
l’epoca amministrava l’India per conto della Gran Bretagna. La rivolta fu denominata
«Rivolta dei Sepoj», dal nome dei militari indiani di cui la Compagnia si serviva per
mantenere il proprio potere in India. L’insurrezione, che ebbe termine a metà 1858, è
ricordata in India come la Prima Guerra d’Indipendenza.]
6. [Frederick John Robinson, noto anche come Lord Goderich (1782-1859). Fu cancel-
liere dello scacchiere dal 1823 al 1827 e primo ministro del Regno Unito dal 1827 al
1828.]
65
3. Chi ha colpa della crisi?
[da: 3.1.: British commerce and finance, in «New-York Daily Tribune» n. 5445, 4 ot-
tobre 1858, ora in MECW 16.33-36; Commercio e finanza in Gran Bretagna, tr. it.
di L. Formigari in MEOC 16.34-37; 3.2.: The Trade Crisis in England, in «New-York
Daily Tribune», n. 5196 del 15 dicembre 1857, in MECW 15.400-401; La crisi
commerciale in Inghilterra, tr. it. di V. Giacché]
[3.1.] Eccoci dunque alla domanda: quali sono state le vere cause
della crisi? La commissione7 afferma di aver accertato «con compia-
cimento che la recente crisi commerciale del paese, come pure
quella dell’America e dell’Europa settentrionale, fu dovuta princi-
palmente all’eccesso di speculazioni e all’abuso del credito». Il valo-
re di questa conclusione sicuramente non è per nulla sminuito dal
fatto che il mondo non ha aspettato, per arrivarci, la commissione
parlamentare, e che tutto il vantaggio che la società può trarre dalla
rivelazione dev’essere ormai assolutamente scontato. Accettata per
vera l’affermazione (e noi siamo ben lungi dal contestarla), essa ri-
solve forse il problema sociale, o semplicemente cambia i termini
della questione? Perché venga fuori un sistema di credito fittizio ci
vogliono sempre due parti in causa: chi prende e chi dà in prestito.
Che la prima fra le due parti sia sempre desiderosa di lavorare con i
capitali altrui, e cerchi di arricchirsi con l’altrui rischio, sembra una
tendenza così straordinariamente ovvia che il caso contrario costi-
tuirebbe una sfida alla nostra intelligenza. Il problema è piuttosto
di capire come mai, presso tutte le moderne nazioni industriali, la
gente sia presa, per cosi dire, da smanie periodiche di dar via quel
che possiede cedendo ai più trasparenti inganni e a dispetto di so-
lenni ammonimenti ripetuti a intervalli decennali. Quali sono le
circostanze sociali che riproducono, quasi regolarmente, queste
stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e credito
fittizio? Se si riuscisse a individuarle una volta per tutte, si avrebbe
un’alternativa molto semplice: o sono circostanze controllabili dalla
società, oppure sono intrinseche all’attuale sistema produttivo. Nel
primo caso la società potrebbe scongiurare le crisi; nel secondo, fin-
ché permane il sistema, bisogna sopportarle, come, in natura, i
cambiamenti di stagione.
Ci sembra che il difetto essenziale, non solo del recente rappor-
to parlamentare, ma anche del «Rapporto sulla crisi commerciale
del 1847» e di tutti gli altri simili che li hanno preceduti, sia questo:
che trattano ogni nuova crisi come fosse un fenomeno a sé stante,
7. [La commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di indagare e redigere
un rapporto sulla crisi del 1857-8.]
66
che compare per la prima volta sull’orizzonte sociale, e che dev’es-
sere perciò spiegato con avvenimenti, moventi e agenti del tutto
particolari, o presunti tali, propri del periodo intercorso fra l’ulti-
mo sconvolgimento e il precedente. Se i filosofi della natura aves-
sero proceduto con lo stesso metodo puerile, il mondo sarebbe
colto di sorpresa dal semplice riapparire di una cometa. Nel tenta-
tivo di mettere a nudo le leggi che regolano le crisi del mercato
mondiale, bisogna spiegare non solo il loro carattere periodico,
ma anche le date esatte della loro periodicità. Inoltre, i tratti distin-
tivi propri di ciascuna nuova crisi commerciale non devono mette-
re in ombra gli aspetti a tutte comuni. Trascenderemmo i limiti e
gli scopi del nostro attuale proposito se tracciassimo sia pure le
linee sommarie d’una ricerca siffatta. Una cosa è però fuori di-
scussione: che la commissione parlamentare, ben lungi dal risol-
vere la questione, non l’ha neppure posta nei suoi giusti termini.
I fatti su cui la commissione si dilunga, nell’intento d’illustrare
il sistema di credito fittizio, mancano, naturalmente, di ogni inte-
resse di novità. Il sistema stesso fu fatto funzionare in Inghilterra
con un meccanismo molto semplice. Il credito fittizio veniva crea-
to per mezzo di cambiali di comodo. Queste venivano scontate
principalmente da banche ordinarie della provincia, che le sconta-
vano poi a loro volta presso agenti londinesi. Gli agenti londinesi,
che badavano alla girata della banca e non ai titoli in se stessi, a loro
volta non fidavano sulle proprie riserve ma sulle facilitazioni offer-
te loro dalla Banca d’Inghilterra. I principi ispiratori degli agenti
londinesi si possono desumere dal seguente aneddoto, raccontato
alla commissione da Dixon, ex direttore generale della Borough
Bank di Liverpool:
67
La Borough Bank di Liverpool, la Western Bank of Scotland di
Glasgow, la Northumberland and Durham District Bank, le tre
banche sul cui operato la commissione ha intrapreso la più severa
indagine, sembrano recare la palma della cattiva amministrazio-
ne. La Western Bank di Glasgow, che aveva 101 filiali sparse per la
Scozia e rapporti in America che si facevano figurare a solo uso e
consumo della commissione, alzò i dividendi, nel 1854, dal 7 all’8
per cento, nel 1856 dall’8 al 9 per cento e dichiarò un dividendo del
9 per cento ancora nel giugno del 1857, quando la maggior parte
del suo capitale era bell’e andato. I suoi sconti, che nel 1853 erano
di 14.987.000 sterline, erano saliti nel 1857 a 20.691.000. I ri-
sconti della banca a Londra, che ammontavano a 407.000 sterline
nel 1852, erano saliti a 5.407.000 nel 1856. Poiché l’intero capitale
della banca era di 1.500.000 sterline, all’atto del suo fallimento nel
novembre 1857, la somma di 1.603.000 risultò dovuta soltanto dai
quattro garanti McDonald, Monteith, Wallace e Pattison. Una
delle operazioni principali della banca consisteva nel fare prestiti
su «interessi»: vale a dire che si fornivano a imprenditori capitali
la cui garanzia stava nell’eventuale vendita del prodotto che doveva
essere creato per mezzo del prestito anticipato. La leggerezza con
cui venivano condotte le operazioni di sconto risulta dal fatto che
le cambiali di McDonald furono accettate da centoventisette diver-
se persone, su trentasette delle quali soltanto s’erano assunte in-
formazioni, e su ventuno di queste le informazioni erano state in-
soddisfacenti o addirittura decisamente cattive. Pure, il buon
nome di McDonald non ne fu scalfito. Fin dal 1848, era stata ap-
portata una modifica sui libri contabili della banca, per cui i debiti
erano diventati crediti, e le perdite attivi. Scrive il rapporto:
« II modo in cui poté essere operato questa specie di travesti-
mento risulterà forse meglio comprensibile se si spiega come ci si
liberò di un debito chiamato debito Scarth, inserendolo sotto una
diversa voce nell’attivo. Quel debito ammontava a 120.000 sterli-
ne e avrebbe dovuto figurare tra le cambiali protestate. Invece fu
diviso fra quattro o cinque conti di credito aperti, intestati a coloro
che avevano accettato le cambiali di Scarth. A questi conti fu adde-
bitato un importo pari all’ammontare delle cambiali da ciascuno
accettate, e si stipulò un’assicurazione sulla vita dei debitori pari a
75.000 sterline. Su queste assicurazioni, 33.000 sterline sono
state pagate come premio dalla banca stessa. Tutto ciò risulta ora
all’attivo sui libri contabili».
Da ultimo, esaminando la questione, si scopri che 988.000
sterline erano dovute alla banca dai suoi stessi azionisti.
68
L’intero capitale della Northumberland and Durham District
Bank ammontando a sole 600.000 sterline, circa 1.000.000 fu
dato da essa in prestito all’insolvente Derwent Iron Company. Jo-
nathan Richardson, l’animatore della banca, quello che in realtà
amministrava tutto, era, se non direttamente socio della Derwent
Iron Company, largamente interessato in quella poco prometten-
te impresa, poiché deteneva i diritti sul minerale che essa lavorava.
Questo caso presenta dunque la peculiare caratteristica dell’intero
capitale d’una banca per azioni divorato con la sola mira di favori-
re le speculazioni private di uno dei suoi direttori amministrativi.
Questi due stralci delle rivelazioni contenute nel rapporto della
commissione riflettono una luce alquanto squallida sulla moralità
e in generale sulla condotta delle società per azioni. È evidente che
queste imprese, la cui influenza rapidamente crescente nell’eco-
nomia delle nazioni può essere difficilmente sopravvalutata, sono
ben lontane dall’avere elaborato un loro proprio statuto. Meccani-
smi possenti nello sviluppo delle forze produttive della società
moderna non hanno ancora creato, come avevano fatto le corpora-
zioni medievali, una coscienza collettiva che sostituisca quella re-
sponsabilità individuale che, in forza della stessa loro organizza-
zione, si sono sforzati di creare.
Ciò che provoca i maggiori disastri è il processo corruttivo perseguito per gli
otto o dieci anni di prosperità che precedono la resa dei conti. Il veleno viene
versato goccia a goccia, allevando bande di speculatori e falsificatori di cam-
biali privi di scrupoli, ed elevandoli a modelli esemplari di spirito imprendito-
riale inglese di successo, cosicché viene scoraggiata la fiducia nel lento arric-
chimento fondato sull’onesta operosità. (…) Ogni focolaio di corruzione in tal
modo forma una cerchia che si allarga sempre più.
9. [Si intende: negli Stati Uniti, dove era pubblicato il «New-York Daily Tribune».]
69
Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un de-
cennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca delle crisi
commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del
Libero Commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvi-
samente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento
moderno. La seguente tabella, che è stata di recente presentata ad
assemblee di creditori in Scozia, potrà tuttavia servire da commen-
to fattuale circa il carattere «sano» del commercio inglese.
10. [Marx si riferisce qui all’articolo The British revulsion, pubblicato nel novembre 1857:
vedi MECW 15.390.]
70
4. La crisi si propaga. Interventi pubblici e socializzazione
delle perdite
[da: 4.1.: The Financial Crisis in Europe, in «New-York Daily Tribune», n. 5202 del
22 dicembre 1857, MECW 15.404-408; La crisi finanziaria in Europa, tr. it. di V.
Giacché; 4.2.: Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5, p. 344 = MEGA
II/4.2.543; tr. it. di V. Giacché; 4.3.: Lettera a Engels, 8 dicembre 1857, MEW
29.223-224; tr. it. di M.A. Manacorda in MEOC 40.236]
11. Unione di disconto e garanzia [Si tratta di un consorzio che controgarantiva cambiali
e note di credito emesse da imprese, una sorta di prestatore di ultima istanza dell’epoca]
12. [Il «marco banco» era la moneta di conto tradizionalmente adoperata ad Amburgo e
dalla Lega Anseatica e corrispondeva a una determinata quantità di metalli preziosi, in
particolare argento.]
71
vane invocazioni di aiuto che precedono l’inabissarsi di una nave.
La garanzia del Disconto-Verein, come emerse con chiarezza, abbi-
sognava essa stessa di una nuova garanzia, e gli anticipi dello Stato,
limitati nel loro importo e anche quanto a generi di merci su cui
erano praticati, proprio a seguito delle condizioni a cui erano pre-
stati risultarono tanto più inutili, quanto più i prezzi crollavano. Per
tenere su i prezzi, e quindi per allontanare la vera causa del disa-
stro, lo Stato dovrebbe pagare i prezzi in vigore prima dello scoppio
del panico commerciale e scontare delle cambiali che non sono più
altro che il controvalore delle bancarotte altrui. In altre parole, il pa-
trimonio dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe
ripianare le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere di
comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, eser-
cita una certa attrattiva sui capitalisti europei.
Il 29 novembre fallirono venti grandi ditte commerciali di Am-
burgo oltre a numerose imprese di Altona; lo sconto delle cambia-
li fu soppresso, i prezzi delle merci e dei titoli divennero puramen-
te nominali, e il corso degli affari si bloccò. Dall’elenco delle banca-
rotte si rileva che cinque di esse avvennero a causa di operazioni
bancarie con Svezia e Norvegia, con debiti della ditta Ulberg &
Cramer che ammontavano a 12.000.000 di marchi banco; cinque
bancarotte si verificarono nella rivendita di generi coloniali, quat-
tro nei traffici sul mar Baltico, due nell’esportazione di beni indu-
striali, due interessarono società assicurative, una la borsa, una le
costruzioni navali. La Svezia dipende così completamente da Am-
burgo come esportatore, agente di cambio e banchiere, che la sto-
ria del mercato di Amburgo coincide con quella del mercato di
Stoccolma. In conseguenza di ciò, due giorni dopo il crollo un tele-
gramma informò che la bancarotta di Amburgo aveva causato
bancarotte a Stoccolma e che anche qui il sostegno da parte del go-
verno si era dimostrato inefficace. Ciò che vale a questo riguardo
per la Svezia, vale a maggior ragione per la Danimarca, il cui cen-
tro commerciale, Altona, non è che un sobborgo di Amburgo13. Il
1° dicembre molte imprese chiusero i battenti; tra le altre, due ditte
molto antiche: la ditta Conrad Warneke, attiva nel commercio co-
loniale, in particolare di zucchero, che vantava un capitale di
2.000.000 di marchi banco e aveva estese relazioni con Germa-
nia, Danimarca e Svezia, e l’impresa Lorent am Ende & Co. che
commerciava con Svezia e Norvegia. Un armatore e grossista si
suicidò a causa delle proprie difficoltà economiche.
13. [La città di Altona all’epoca faceva ancora parte della Danimarca; fu annessa alla
Prussia pochi anni dopo, nel 1866, assieme allo Schleswig-Holstein.]
72
Le grandi proporzioni assunte dal commercio di Amburgo
possono essere facilmente desunte dal fatto che al momento sono
in giacenza nei magazzini e nel porto merci di tutti i tipi del valore
di circa 500.000.000 di marchi banco per conto di commercianti
di Amburgo. La repubblica di Amburgo ora fa uso dell’unico stru-
mento di cui ancora dispone contro la crisi, esonerando i suoi cit-
tadini dal dovere di pagare i propri debiti. Probabilmente sarà
emanata una legge che consentirà la proroga di un mese di tutte le
cambiali in scadenza. Per quanto riguarda la Prussia, i giornali
non prendono neppure nota della grave situazione dei distretti di
fabbrica della Renania e della Westfalia, siccome essa non ha anco-
ra provocato fallimenti su vasta scala; le bancarotte per ora sono ri-
maste limitate agli esportatori di grano di Stettino e Danzica e a
circa quaranta fabbricanti di Berlino. Il governo prussiano è inter-
venuto consentendo alla Berliner Bank di concedere anticipi su
merci stoccate e ha eliminato le leggi anti-usura. La prima di que-
ste due misure si dimostrerà vana a Berlino come lo è stata a Stoc-
colma e ad Amburgo, la seconda si limita a porre la Prussia sullo
stesso piano di altri paesi che esercitano il commercio.
Il crac di Amburgo dà una risposta conclusiva a quelle menti
fantasiose le quali ritengono che la crisi attuale nasca dal rialzo ar-
tificiale dei prezzi dovuto alla carta moneta. Per quanto riguarda la
circolazione monetaria, Amburgo in effetti rappresenta il polo op-
posto rispetto al nostro Paese14. Infatti vi circola soltanto moneta
d’argento. Non vi è alcuna circolazione di cartamoneta, e anzi ci si
vanta di avere soltanto denaro puramente metallico quale mezzo
di circolazione. Nondimeno, il panico attuale vi infuria con grande
forza; non solo: fin dal comparire delle crisi commerciali generali,
la cui scoperta non è antica quanto quella delle comete, la città di
Amburgo è divenuta la loro piazza preferita. Durante l’ultimo
terzo del XVIII secolo ha offerto in due casi uno spettacolo come
l’attuale, e, se si differenzia da altri grandi centri commerciali del
mondo per qualche segno distintivo, è per la frequenza e la violen-
za delle oscillazioni del tasso d’interesse.
Se da Amburgo ci volgiamo all’Inghilterra, troviamo che il
clima del mercato monetario di Londra è costantemente migliora-
to dal 27 novembre al 1° dicembre, quando è di nuovo subentrata
una tendenza contraria. Il 28 novembre il prezzo dell’argento in
realtà è caduto, ma dopo il 1° dicembre si è risollevato e probabil-
mente continuerà a crescere, dal momento che ne servono grandi
quantità per Amburgo. In altre parole, viene nuovamente ritirato
73
oro da Londra per comprare argento sul continente, e questo ripe-
tuto deflusso di oro richiederà un nuovo intervento da parte della
Banca d’Inghilterra. Oltre alla crescita improvvisa della domanda
ad Amburgo incombe, in un futuro non troppo lontano, il prestito
indiano, al quale il governo deve necessariamente far ricorso per
quanto possa sforzarsi di procrastinare il giorno della resa dei
conti. Il fatto che si siano verificati nuovi episodi di bancarotta dal
primo giorno di questo mese ha contribuito a spazzare via l’illusio-
ne che sul mercato monetario il peggio sia passato. Lord Oversto-
ne (il banchiere Loyd)15 ha osservato nella sessione di apertura
della Camera Alta:
15. [Samuel John Loyd (1796-1883), nominato barone Overstone nel 1850, fu tra i mag-
giori e più influenti banchieri inglesi del suo tempo.]
74
causa della rivolta, ha permesso al mercato indiano di smaltire le
merci inglesi che si erano ammassate e lo ha reso addirittura in
grado di ricevere nuove spedizioni a prezzi superiori. In circostan-
ze normali un avvenimento del genere avrebbe rinvigorito in mi-
sura straordinaria l’industria di Manchester. Oggi, a quanto abbia-
mo appreso da corrispondenza privata16, non ha provocato un rial-
zo neppure dei prezzi degli articoli più richiesti; al contrario ha
condotto a una tale concentrazione della capacità produttiva in
cerca di utilizzo nella fabbricazione di tali specifici articoli, che sa-
rebbe sufficiente a sommergere di merci a brevissimo termine
non una, ma tre Indie. L’aumento generale della forza produttiva
che si è verificato nei distretti industriali inglesi nel corso degli ul-
timi dieci anni è stato di tale portata che anche lo stesso lavoro, già
ridotto a meno di due terzi del suo volume precedente, può essere
conservato dai proprietari di fabbrica soltanto in quanto essi am-
mucchiano nei loro magazzini una grande eccedenza di merci. La
ditta Du Fay & Co. scrive nel suo rapporto commerciale mensile da
Manchester che «in questo mese si è avuta una interruzione del
commercio; sono stati portati a termine pochissimi affari e i prez-
zi sono stati generalmente bassi. Il numero complessivo di affari
conclusi in un mese non è mai stato in precedenza così basso
come a novembre».
16. [Marx si riferisce qui alla sua corrispondenza con Friedrich Engels, che era proprie-
tario di un’impresa a Manchester]
17. [Pagina corrispondente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale edita da En-
gels nel 1894: MEW 25.507 = ER 3.2.576]
18. selfevident
19. Convertibility
20. [Ossia alla compra-vendita e conseguente trasformazione della merce in denaro.
Nella crisi le merci restano invendute e quindi non si trasformano in denaro. Vedi più
oltre, i testi alle pp. 88-91, 93-97, 101-104].
21. selfevident
75
debba quindi presentarsi prima facie come crisi creditizia e moneta-
ria. Ma in realtà non si tratta unicamente della «convertibilità» delle
cambiali in denaro. Un’enorme massa di queste cambiali non rap-
presenta nulla più che transazioni truffaldine, che ora sono scop-
piate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni
andate male e fatte con il denaro altrui; infine capitali merci che si
sono svalorizzati o profitti22 che non possono più essere realizzati.
L’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di ri-
produzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che ora
una banca (per es. la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a tutti gli
speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le merci al loro
vecchio valore nominale.
22. returns
23. droit au travail 24. droit au profit
76
Contraddizioni del capitale
e forme della crisi
1. Il capitalismo e le crisi
[K. Marx-F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, 1848, MEW 4.467-468;
Manifesto del partito comunista, tr. it. di P. Togliatti, MEOC 6.491-492]
[K. Marx, Grundrisse del Kritik der politischen Ökonomie 1857-8, MEW 42.252-
79
253, 321-324; Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it.
di G. Backhaus in MEOC 29.262, 339-342 (traduzione riveduta)]
1. Schranke
2. Grenze 5. Grenze
3. Schranke 6. Naturschranke
4. at once 7. au fond
80
Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. [Il capitale
tende] anzitutto a subordinare ogni momento della produzione
stessa allo scambio, e a sopprimere la produzione di valori d’uso
immediati che non entrano nello scambio, ossia appunto a sostitui-
re la produzione fondata sul capitale ai modi di produzione prece-
denti e, dal suo punto di vista, primitivi. Qui il commercio non si pre-
senta più come funzione che ha luogo tra le produzioni autonome
per lo scambio dell’eccedenza, bensì come presupposto sostanzial-
mente universale e momento della produzione stessa.
Ovviamente8 ogni produzione diretta al valore d’uso immedia-
to diminuisce sia il numero dei soggetti di scambio che la somma
dei valori di scambio in generale che vengono immessi in circola-
zione, e soprattutto la produzione di valori eccedenti9. Di qui la
tendenza del capitale 1) a estendere continuamente il perimetro
della circolazione; 2) a trasformarla in tutti i punti in produzione
capitalistica10.
D’altro canto la produzione di plusvalore relativo, ossia la produ-
zione di plusvalore fondata sull’aumento e sviluppo delle forze
produttive, richiede produzione di nuovo consumo; richiede cioè
che il circolo del consumo all’interno della circolazione si allarghi
allo stesso modo in cui prima si allargava il circolo della produzio-
ne. In primo luogo: espansione quantitativa del consumo esisten-
te; in secondo luogo: creazione di nuovi bisogni mediante la diffu-
sione di quelli esistenti in una cerchia più ampia; in terzo luogo:
produzione di nuovi bisogni e scoperta e creazione di nuovi valori
d’uso. In altri termini essa esige che il pluslavoro realizzato non ri-
manga un’eccedenza11 puramente quantitativa, ma che al tempo
stesso la cerchia delle differenze qualitative del lavoro (e quindi del
pluslavoro) sia costantemente ampliata, resa più varia e differen-
ziata in se stessa. In seguito al raddoppiamento della forza produt-
tiva basta ad esempio impiegare un capitale di 50 solamente dove
in precedenza ne occorreva uno di 100, sicché ||19| per il capitale e
il lavoro liberati occorre un nuovo ramo di produzione qualitativa-
mente diverso, che soddisfa e produce nuovo bisogno. Il valore
della vecchia industria viene conservato [con] la creazione di un
fondo di finanziamento12 per una nuova industria dove il rapporto
del capitale con il lavoro13 si pone in una forma nuova. Dunque
8. Of course
9. Surpluswerthen carried on by capital.
10. Hence the tendency of capital 1) to conti- 11. Surplus
nually enlarge the periphery of circulation; 2) 12. fund
to transform it at all points into production 13. labour
81
esplorazione dell’intera natura per scoprire nuove proprietà utili
delle cose; scambio universale dei prodotti di tutti i climi e paesi
stranieri; rielaborazioni14 (artificiali) degli oggetti naturali me-
diante le quali si conferiscono loro nuovi valori d’uso. {Il ruolo che
il lusso ha presso gli antichi a differenza che presso i moderni, è
cosa a cui accennare15 in seguito.} L’esplorazione della terra in tutte
le direzioni per scoprire sia nuovi oggetti utili, sia nuove proprietà
utili dei vecchi; come pure nuove proprietà che essi hanno come
materie prime ecc.; quindi lo sviluppo delle scienze naturali al suo
punto più alto; come pure scoperta, la creazione e il soddisfaci-
mento di nuovi bisogni procedenti dalla società stessa; la forma-
zione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la produzione di esso
come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di
qualità e di relazioni – la sua produzione come prodotto sociale
possibilmente totale e universale (giacché per avere un’ampia
gamma di godimenti dev’esserne capace, ossia colto in alto grado)
– tutto ciò è altresì condizione della produzione fondata sul capita-
le. Ciò non è soltanto divisione del lavoro, creazione di nuovi rami
di produzione, ossia di tempo eccedente 16 qualitativamente
nuovo; è invece la repulsione da se stessa17 della produzione deter-
minata, come lavoro che ha un nuovo valore d’uso; lo sviluppo di
un sistema in costante espansione e sempre più globale di tipi di
lavoro, di tipi di produzione, ai quali corrisponde un sistema sem-
pre più ampio e ricco di bisogni.
Se da un lato la produzione fondata sul capitale crea l’industria
universale, – ossia pluslavoro, lavoro che crea un sistema di sfrutta-
mento18 generale delle qualità naturali e umane, un sistema dell’uti-
lità generale il cui portatore appare essere tanto la scienza quanto
l’insieme di tutte le qualità fìsiche e spirituali, mentre nulla di più
elevato in sé, di giustificato per se stesso appare al di fuori di questo
circolo della produzione e dello scambio sociali. Cosi è dunque il
capitale soltanto a creare la società borghese e l’appropriazione uni-
versale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa
da parte dei membri della società. Di qui la grande influenza civiliz-
zatrice del capitale19; la sua produzione di un livello sociale rispetto
al quale tutti i livelli precedenti appaiono soltanto come sviluppi lo-
cali dell’umanità e come idolatria della natura. La natura diviene qui
per la prima volta puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità:
82
cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa cono-
scenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come
un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del
consumo sia come mezzo della produzione. In conformità con
questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i
pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfaci-
mento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determina-
ti, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un vecchio
modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo e agisce
nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le bar-
riere20 che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansio-
ne dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e
lo scambio delle forze della natura e dello spirito.
Dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come osta-
colo e quindi idealmente lo ha superato, non consegue però in alcun
modo che esso lo abbia superato realmente; e poiché ciascuno di
questi ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione
si muove tra contraddizioni costantemente superate ma altrettanto
costantemente poste. E non è tutto. L’universalità alla quale esso
tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a
un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso
è l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spin-
gono al suo superamento attraverso esso stesso.
[Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.519-521; Teorie sul plusvalore, II, cap.
17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.567-569 (traduzione riveduta)]
20. Schranken
83
Ciò che gli operai di fatto producono è plusvalore. Finché lo
producono, lo devono consumare. Non appena questo termina,
cessa il loro consumo perché cessa la loro produzione. Ma in nes-
sun modo essi hanno da consumare perché producono un equiva-
lente per il loro consumo. Piuttosto, non appena essi producono
semplicemente tale equivalente, cessa il loro consumo, non
hanno da consumare alcun equivalente. Il loro lavoro viene arre-
stato o accorciato o in tutti i casi il loro salario viene abbassato. Nel-
l’ultimo caso – se il grado di produzione resta lo stesso – essi non
consumano alcun equivalente per la loro produzione. Ma allora
questi mezzo21 mancano loro non perché essi non producono ab-
bastanza, ma perché ricevono in appropriazione troppo poco del
loro prodotto.
Dunque, quando si riduce il rapporto semplicemente a quello
fra consumatori e produttori, si dimentica che l’operaio salariato
che produce e il capitalista che produce sono due produttori di ge-
nere del tutto diverso, anche a prescindere dai consumatori che
non producono affatto. L’antitesi viene nuovamente negata perché
si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzio-
ne. Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista implica:
1. che la maggior parte dei produttori (gli operai) non sono con-
sumatori (compratori) di una grandissima parte del loro prodotto,
cioè dei mezzi di lavoro e del materiale di lavoro;
2. che la maggior parte dei produttori, gli operai, possono
consumare un equivalente per il loro prodotto soltanto finché pro-
ducono più di questo equivalente – il plusvalore22 o il plusprodot-
to23. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al di là
del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro
i ||718| limiti del loro bisogno.
Per questa classe di produttori, dunque, l’unità fra produzione
e consumo risulta già a prima vista24 in ogni caso falsa.
Quando Ricardo dice che l’unico limite della domanda25 è la
produzione stessa, e questa è limitata dal capitale, ciò di fatto, se i
presupposti erronei vengono eliminati, non significa altro se non
che la produzione capitalistica trova la sua misura solo nel capita-
le, dove però contemporaneamente per capitale s’intende insieme
la capacità lavorativa26 incorporata al capitale (da esso acquistata)
come una delle sue condizioni di produzione. Ci si chiede appun-
84
to se il capitale come tale sia anche il limite per il consumo. In ogni
caso questo limite è negativo, cioè non può essere consumato più
di quanto venga prodotto. Ma la questione [è] se esso [è] positivo, se
– in base alla produzione capitalistica – può e deve essere consu-
mato tanto quanto viene prodotto. La tesi di Ricardo analizzata
correttamente dice proprio il contrario di ciò che deve dire – cioè
che la produzione non avviene tenendo conto dei limiti esistenti
del consumo, ma è limitata solo dal capitale stesso. E ciò è caratte-
ristico appunto di questo modo di produzione.
[4.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.528-530; Teorie sul plusvalore, II,
cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.576-578 (traduzione riveduta); 4.2.: Mano-
scritto del III libro del Capitale, cap. 5, III), in MEGA II/4.2.540; tr. it. di V. Giacché;
4.3.: Das Kapital, Band II, MEW 24.409-410; Il capitale, libro secondo, sez. 3, cap.
20, tr. it. di R. Panzieri, ER 2.429-430]
85
|| 722 | Ricardo vide dalle tesi di Smith da lui citate, approvate
e perciò ripetute, che i «desideri»29 smisurati di ogni specie di va-
lori d’uso sono sempre soddisfatti in base a una situazione in cui
la massa dei produttori resta più o meno limitata a «cibo» e «beni
di prima necessità»30, al necessario, che questa grandissima
massa di produttori resta dunque più o meno esclusa dal consu-
mo della ricchezza – in quanto esso supera l’ambito dei beni di
prima necessità.
Ciò avviene certo e in misura ancor maggiore nella produzione
antica fondata sulla schiavitù. Ma gli antichi non pensavano neppu-
re a trasformare il plusprodotto31 in capitale. Per lo meno solo in
scarsa misura. (L’estesa presenza presso di loro della tesaurizzazio-
ne vera e propria mostra quanto plusprodotto restasse del tutto in-
fruttifero.) Essi trasformavano una gran parte del plusprodotto in
spese improduttive per opere d’arte, opere religiose, lavori pubbli-
ci32. Ancor meno la loro produzione era indirizzata a uno scatena-
mento e a uno spiegamento delle forze produttive materiali – divi-
sione del lavoro, macchinario, applicazione di forze naturali e scien-
za alla produzione privata. In complesso essi di fatto non
oltrepassarono mai il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi
creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare
grande solo perché ammucchiata in poche mani, che del resto non
sapevano che farsene. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era
presso gli antichi sovraconsumo dei ricchi, che negli ultimi tempi di
Roma e della Grecia eruppe in spreco pazzesco. I pochi popoli mer-
cantili in mezzo a loro vivevano in parte a spese di tutte queste nazio-
ni sostanzialmente33 povere. Sono l’incondizionato sviluppo delle
forze produttive e perciò la produzione in massa sulla base della
massa di produttori chiusi nella sfera dei beni di prima necessità34
da un lato, il limite costituito dal profitto dei capitalisti dall’altro che
[costituiscono] il fondamento della moderna sovrapproduzione.
Tutte le difficoltà che Ricardo e altri sollevano contro la sovrap-
produzione ecc., poggiano sul fatto che essi considerano la produ-
zione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste
differenza fra compra e vendita – baratto immediato – o come pro-
duzione sociale tale che la società, come secondo un piano, riparti-
sca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e
nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro di-
versi bisogni, cosi che a ogni sfera di produzione tocchi la quota
86
parte35 del capitale sociale richiesta al soddisfacimento del bisogno
al quale essa corrisponde. Questa finzione scaturisce in generale
dall’incapacità di comprendere la forma specifica della produzione
borghese e quest’ultima a sua volta dall’essere sprofondati nella
produzione borghese intesa come la produzione senz’altro36. Così
come un tipo che crede a una determinata religione, vede in essa
semplicemente37 la religione e fuori di essa solo false religioni.
Al contrario sarebbe piuttosto da chiedere: in base alla produ-
zione capitalistica, dove ognuno lavora per sé e il lavoro particolare
deve contemporaneamente rappresentarsi come il suo contrario,
come lavoro astrattamente generale, e in questa forma deve rappre-
sentarsi come lavoro sociale, la perequazione e l’omogeneità neces-
sarie delle diverse sfere di produzione, la misura e la proporzione
fra le medesime, come saranno possibili se non mediante un conti-
nuo superamento di una continua disarmonia? Questo è ancora
ammesso quando si parla delle perequazioni38 della concorrenza,
perché queste perequazioni presuppongono sempre che qualcosa
sia da perequare, che quindi l’armonia sia sempre un risultato del
movimento del superamento della disarmonia esistente.
35. Quotum [in corsivo nel testo] 40. [Nel manoscritto di Marx si trova ihrer
36. schlechtin («loro») riferito ai capitalisti. Nel testo a
37. schlechtin stampa Engels ha esplicitato il significato
38. Ausgleichungen del testo, correggendo in «impiegati nella
39. [Pagina corrispondente nell’edizione produzione»]
a stampa del III libro del Capitale edita da 41. [Engels ha aggiunto al testo in questo
Engels nel 1894: MEW 25.501 = ER punto «e limitazione di consumo» (und
3.2.569] Konsumtionsbeschränkung)]
42. limit
87
sumo all’infuori del consumo pagante, eccettuate quella del pove-
ro43 o quella del «mariuolo». Il fatto che merci siano invendibili
non significa altro se non che non si sono trovati per esse dei com-
pratori in grado di pagare, cioè consumatori (sia che le merci in ul-
tima istanza vengano comprate per consumo produttivo ovvero
individuale). Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di
maggior approfondimento col dire che la classe operaia riceve una
parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe
quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e
di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto
che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in
cui il salario in generale cresce e la classe operaia in realtà44 riceve
una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al
consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi
cavalieri del sano e «semplice» buon senso – dovrebbe allontanare
la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica comprenda
delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che
solo momentaneamente consentono quella relativa prosperità
della classe operaia, e sempre solo come procellaria di una crisi.
[5.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.500-501; Teorie sul plusvalore, II,
cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.547-548 (traduzione riveduta); 5.2.: Theorien
über den Mehrwert, MEW 26.2.508-511; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di
L. Perini, MEOC 35.556-558 (traduzione riveduta)]
88
fronte all’altra. Ora, tuttavia, poiché esse sono congiunte, il farsi in-
dipendenti di momenti congiunti può manifestarsi solo violente-
mente come processo distruttivo. È appunto la crisi in cui si realizza
la loro unità, l’unità dei distinti. L’indipendenza che questi momen-
ti – che appartengono l’uno all’altro e che si completano a vicenda –
assumono l’uno rispetto all’altro, viene violentemente distrutta. La
crisi, dunque, manifesta l’unità di momenti fattisi indipendenti
l’uno di fronte all’altro. Nessuna crisi avrebbe luogo senza questa in-
terna unità dei due momenti apparentemente45 indifferenti l’uno al-
l’altro. Ma no, dice l’economista apologeta. Siccome ha luogo l’unità,
non può aver luogo nessuna crisi. Il che a sua volta nient’altro signi-
fica se non che l’unità di opposti esclude l’antitesi.
Per dimostrare che la produzione capitalistica non può portare
a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e le determina-
zioni di forma, tutti i principi e le caratteristiche distintive46, in
breve la stessa produzione capitalistica, e di fatto viene mostrato che
se il modo di produzione capitalistico, anziché essere una forma
specificamente sviluppata, peculiare della produzione sociale,
fosse un modo di produzione rimasto al di sotto delle sue più
rozze origini, le sue peculiari antitesi e contraddizioni, e perciò
anche il loro esplodere nelle crisi, non esisterebbero.
89
tisi nel tempo e nello spazio, separabili e separate l’una dall’altra. La
possibilità della crisi è insita quindi solo nella separazione fra ven-
dita e compra. È solo nella forma della merce che la merce ha qui da
attraversare la difficoltà. Non appena possiede la forma del denaro,
ne è al di là. Ma poi anche il denaro si risolve nella separazione di
vendita e compra. Se la merce non potesse ritirarsi dalla circolazio-
ne nella forma del denaro o non potesse differire la sua riconversio-
ne in merce – come nel baratto immediato –, se compra e vendita
coincidessero, svanirebbe la possibilità della crisi nei presupposti
fatti. Perché è presupposto che la merce sia valore d’uso per altri pos-
sessori di merci. Nella forma del baratto immediato, la merce non
[è] scambiabile solo nel caso che essa non sia un valore d’uso oppu-
re anche che non [ci siano], dall’altra parte, altri valori d’uso per
scambiar[si] con essa. Quindi solo a tutte e due le condizioni: o
quando da una parte fosse prodotto qualcosa senza utilità o dall’altra
niente di utile da scambiare come equivalente contro il primo valo-
re d’uso. In ambedue i casi, però, non avrebbe luogo, in generale,
nessuno scambio. Ma in quanto uno scambio avesse luogo, i suoi mo-
menti non si separerebbero. Il compratore sarebbe venditore, il
venditore compratore. Il momento critico che risulta dalla forma
dello scambio – in quanto esso è circolazione –, verrebbe quindi a
cadere e se noi diciamo che la forma semplice della metamorfosi
include la possibilità della crisi, diciamo solo che in questa forma
stessa sta la possibilità della lacerazione e della separazione di mo-
menti che essenzialmente si integrano.
Ma ciò concerne anche il contenuto. Nel baratto immediato, il
grosso della produzione è indirizzato da parte del produttore al
soddisfacimento del suo proprio bisogno o, con uno sviluppo un
po’ più ampio della divisione del lavoro, al soddisfacimento di biso-
gni a lui noti dei suoi coproduttori. Ciò che va scambiato come
merce è eccedenza47 e resta secondario che questa eccedenza venga
o no scambiata. Nella produzione di merci è condizione necessaria48
la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita. La produzione
immediata per il bisogno proprio viene a cessare. Con la non ven-
dita si verifica una crisi. La difficoltà di trasformare la merce – il pro-
dotto particolare di lavoro individuale – in denaro, il suo opposto,
[in] lavoro astrattamente generale, sociale, sta nel fatto che il dena-
ro non appare come prodotto particolare di lavoro individuale, nel
fatto che colui il quale ha venduto e quindi possiede la merce nella
forma del denaro, non è costretto a ricomprare subito, a trasforma-
re di nuovo il denaro in un prodotto particolare di lavoro individua-
90
le. Nel baratto non c’è questa antitesi. Non può esservi nessun ven-
ditore che non sia compratore e nessun compratore che non sia
venditore. La difficoltà del venditore – presupponendo che la sua
merce abbia un valore d’uso – discende semplicemente dalla facili-
tà del compratore di differire la riconversione del denaro in merce.
La difficoltà di trasformare la merce in denaro, di vendere, discen-
de semplicemente dal fatto che la merce deve essere trasformata in
denaro, ma il denaro non immediatamente in merce, quindi vendi-
ta e compra possono separarsi. Abbiamo detto che questa forma in-
clude la possibilità della crisi, cioè la possibilità che momenti che ap-
partengono l’uno all’altro, che sono inseparabili, si separino e per-
ciò vengano uniti violentemente, che la loro connessione venga
ottenuta attraverso la violenza che viene fatta alla loro reciproca
indipendenza || 714 |. E inoltre la crisi non è altro che il violento
farsi valere dell’unità di fasi del processo di produzione che si sono
fatte indipendenti l’una di fronte all’altra.
Possibilità generale, astratta della crisi – nient’altro significa
che la forma più astratta della crisi, senza contenuto, senza un mo-
vente significativo della medesima. Vendita e compra possono se-
pararsi. Esse sono quindi una crisi in potenza49 e il loro coincidere
resta sempre un momento critico per la merce. Ma esse possono
trapassare l’una nell’altra fluidamente. Resta dunque che la forma
più astratta della crisi (e quindi la possibilità formale della crisi) è la
stessa metamorfosi della merce in cui è contenuta, solo come movi-
mento sviluppato, la contraddizione, inclusa nell’unità della
merce, fra valore di scambio e valore d’uso, e poi fra denaro e
merce. Ma la via attraverso la quale questa possibilità della crisi di-
venta crisi, non è contenuta in questa forma stessa; vi è contenuto
solo che esiste la forma per una crisi.
E questo è l’importante nell’esame dell’economia borghese. Le
crisi del mercato mondiale devono essere concepite come il com-
pendio reale e la compensazione50 violenta di tutte le contraddizio-
ni dell’economia borghese. Dunque, i singoli momenti che si con-
centrano in queste crisi devono quindi emergere ed essere svilup-
pati in ogni sfera dell’economia borghese, e, quanto più ci
inoltriamo in essa, da un lato devono essere sviluppate nuove de-
terminazioni di questo contrasto, dall’altro devono essere mostra-
te le forme più astratte del medesimo come ricorrenti e contenute
in quelle più concrete.
Si può dunque dire: la crisi nella sua prima forma è la stessa
metamorfosi della merce, la separazione di compra e vendita.
91
6. La contraddizione insita nel denaro come mezzo di pagamento
[Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.511-512; Teorie sul plusvalore, II, cap.
17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.558-560 (traduzione riveduta)]
51. capital constant [cioè la parte del capitale investita in mezzi di lavoro]
92
coltivatore di lino, fabbricante di macchine, fabbricante di ferro e di
legname, produttore di carbone ecc. Questi ultimi, nella misura in
cui producono capitale costante che entra solo nella produzione del
capitale costante senza entrare nella merce finita, il tessuto, si sosti-
tuiscono mediante scambio di capitale le loro condizioni di produ-
zione. Ora, il || 715 | tessitore venda il tessuto al mercante per 1000 £,
ma su una cambiale, così che il denaro figura come mezzo di paga-
mento. Il tessitore52 da parte sua vende la cambiale al banchiere, pres-
so il quale, poniamo, paga con essa un debito o che anche gli sconta
la cambiale. Il coltivatore di lino ha venduto al filatore su una cam-
biale, il filatore al tessitore, del pari il fabbricante di macchine al tes-
sitore, del pari il fabbricante di ferro e di legname al fabbricante di
macchine, del pari il produttore di carbone al filatore, al tessitore, al
fabbricante di macchine, al produttore di ferro e di legname. Inoltre
i produttori di ferro, di carbone, di legname, di lino si sono pagati
l’un l’altro con cambiali. Ora, se il commerciante non paga, il tessito-
re53 non può pagare la sua cambiale al banchiere.
Il coltivatore di lino ha spiccato una tratta al filatore, il fabbri-
cante di macchine al tessitore e al filatore. Il filatore non può paga-
re, perché il tessitore non [può] pagare, ambedue non pagano il
fabbricante di macchine, questo non paga il produttore di ferro, di
legname, di carbone. E a loro volta tutti questi che non realizzano
il valore della loro merce, non possono sostituire la parte che sosti-
tuisce il capitale costante54. Così nasce una crisi generale. Questa
non è assolutamente nient’altro che la possibilità della crisi svilup-
pata col denaro come mezzo di pagamento, ma noi vediamo già
qui, nella produzione capitalistica, una connessione dei crediti e
delle obbligazioni reciproci, delle compre e delle vendite, dove la
possibilità può svilupparsi in realtà.
[Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.512-514; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17;
tr. it. di L. Perini, MEOC 35.560-562 (traduzione riveduta)]
52. Weber [nel manoscritto marxiano: «Ora, se il tessitore non paga al commer-
«commerciante» (Kaufmann)] ciante, questi» (Zahlt nun der Weber dem
53. Zahlt nun der Kaufmann nicht, so kann Kaufmann nicht, so kann dieser)]
der Weber [nel manoscritto marxiano: 54. capital constant
93
tale che i crediti si compensano, quindi non si attua la contraddizio-
ne esistente in sé nel denaro come mezzo di pagamento –, [se] dun-
que queste due forme astratte della crisi non appaiono realmente55
come tali, non esiste alcuna crisi. Non può esistere crisi senza che
compra e vendita si separino l’una dall’altra ed entrino in contraddi-
zione o che le contraddizioni contenute nel denaro come mezzo di
pagamento si manifestino, senza che quindi la crisi emerga con-
temporaneamente nella forma semplice – nella contraddizione di
compra e vendita, nella contraddizione del denaro come mezzo di
pagamento. Queste, però, sono anche semplici forme – possibilità
generali delle crisi, quindi anche forme, forme astratte della crisi
reale. In esse l’esistenza della crisi appare come nelle sue forme più
semplici e nel suo contenuto più semplice, in quanto questa forma
stessa è il suo contenuto più semplice. Ma non è ancora un conte-
nuto fondato. La circolazione semplice del denaro e anche la circola-
zione del denaro come mezzo di pagamento – e ambedue compaio-
no molto prima della produzione capitalistica, senza che compaia-
no crisi – sono possibili e reali senza crisi. Perché dunque queste
forme mettano in mostra il loro lato critico, perché la contrad-
dizione in esse contenuta in potenza56 si manifesti in atto57 come
tale, non si può spiegare con queste forme soltanto.
Dunque si vede l’enorme insulsaggine degli economisti i quali,
poiché non potevano più negare con i loro ragionamenti il feno-
meno della sovrapproduzione e delle crisi, si tranquillizzano col
fatto che in quelle forme è data solo la possibilità che sopravvenga-
no crisi, è quindi casuale che esse non sopravvengano e con ciò che
il loro sopravvenire stesso appare come un semplice caso.
Le contraddizioni sviluppate nella circolazione delle merci, e
più ampiamente nella circolazione del denaro – quindi le possibi-
lità della crisi – si riproducono da sé nel capitale, poiché di fatto
solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di
merci e di denaro.
Ora però si tratta di seguire lo sviluppo ulteriore della crisi po-
tentia – la crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento
reale della produzione capitalistica, concorrenza e credito – in
quanto essa risulta dalle determinazioni formali del capitale che
gli sono peculiari come capitale e non sono incluse nella sua sem-
plice esistenza come merce e denaro.
|| 716 | II semplice processo di produzione (immediato) del capi-
tale non può in sé aggiungere qui niente di nuovo. Affinché esso in
55. realiter
56. potentia 57. actu
94
generale esista, le sue condizioni sono supposte. Perciò nella prima
sezione, sul capitale – sul processo immediato di produzione – non
sopravviene nessun nuovo elemento della crisi. Vi è contenuto in
sé, perché il processo di produzione è appropriazione e perciò pro-
duzione di plusvalore. Ma nel processo stesso di produzione questo
non può manifestarsi, perché in esso non si tratta della realizzazio-
ne del valore non soltanto riprodotto, ma di plusvalore.
La cosa può farsi manifesta solo nel processo di circolazione, che
in sé e per sé [è] contemporaneamente processo di riproduzione. […]
II processo complessivo di circolazione o il processo comples-
sivo di riproduzione del capitale è l’unità della sua fase di produ-
zione e della sua fase di circolazione, un processo che si svolge at-
traverso i due processi in quanto sue fasi. In questo è insita una
possibilità ulteriormente sviluppata o forma astratta della crisi.
Gli economisti che negano la crisi si attengono quindi solo all’uni-
tà di ambedue queste fasi. Se esse fossero solo separate, senza es-
sere una cosa sola, allora non sarebbe possibile appunto nessun ri-
stabilimento violento della loro unità, nessuna crisi. Se esse fosse-
ro solo una cosa sola, senza essere separate, allora non sarebbe
possibile nessuna separazione violenta, il che è di nuovo la crisi.
Essa è il violento ristabilimento dell’unità fra [momenti] fattisi in-
dipendenti e il violento farsi indipendenti di momenti che essen-
zialmente sono una cosa sola. | 716 ||
[Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.514-516; Teorie sul plusvalore, II, cap.
17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.562-563 (traduzione riveduta)]
58. rückgängig
95
merce non può essere venduta che in un determinato spazio di
tempo, anche se il suo valore non cambiasse, il denaro non può fun-
zionare come mezzo di pagamento, perché deve funzionare come
tale in un lasso di tempo59 determinato, presupposto. Ma poiché qui la
stessa somma di denaro funziona per una serie di transazioni e di
obbligazioni reciproche, sopravviene qui un’incapacità di paga-
mento non solo in uno, ma in molti punti, e quindi la crisi.
Queste sono le possibilità formali della crisi. La prima è possi-
bile senza la seconda – cioè crisi senza credito, senza che il denaro
funzioni come mezzo di pagamento. La seconda però non è possi-
bile senza la prima, senza, cioè, che compra e vendita si separino.
Ma nell’ultimo caso la crisi sopravviene non solo perché una
merce è invendibile, ma perché non è vendibile in un determinato
spazio di tempo, e la crisi nasce e deriva il suo carattere non solo dal-
l’invendibilità della merce, ma anche [dal]la non realizzazione di
un’intera serie di pagamenti che poggiano sulla vendita di questa de-
terminata merce in questo determinato lasso di tempo. Questa [è]
la forma vera e propria delle crisi monetarie.
Dunque, se sopravviene una crisi perché compra e vendita si
separano, essa allora si sviluppa come crisi monetaria, non appena
il denaro è sviluppato come mezzo di pagamento, e questa seconda
forma delle crisi s’intende da sé non appena sopravviene la prima.
Nella ricerca del perché la possibilità generale della crisi diventi real-
tà, nella ricerca delle condizioni della crisi è dunque assolutamen-
te superfluo curarsi della forma delle crisi che scaturiscono dallo
sviluppo del denaro come mezzo di pagamento. Appunto perciò gli
economisti amano addurre a pretesto questa forma ovvia come
causa delle crisi. (In quanto lo sviluppo del denaro come mezzo di
pagamento è connesso con lo sviluppo del credito e dell’eccesso di
credito60, si devono, certo, spiegare le cause di questo ultimo, il che
non è qui ancora opportuno.)
2. In quanto le crisi risultano da variazioni di prezzo e da rivo-
luzioni di prezzo che non coincidono con le variazioni di valore
delle merci, esse non si possono naturalmente spiegare nell’esa-
me del capitale in generale, in cui si presuppongono prezzi identi-
ci ai valori delle merci.
3. La possibilità generale delle crisi è la metamorfosi formale del
capitale stesso, la separazione temporale e spaziale di compra e
vendita. Ma questa non è mai la causa della crisi. Perché non è altro
che la forma più generale della crisi, quindi la crisi stessa nella sua
espressione più generale. Non si può però dire che la forma astratta
96
della crisi sia la causa della crisi. Se si cerca la sua causa, si vuole ap-
punto sapere perché la sua forma astratta, la forma della sua possi-
bilità, da possibilità diventa realtà.
4. Le condizioni generali delle crisi, in quanto sono indipenden-
ti dalle oscillazioni di prezzo (siano queste connesse o no col credi-
to) – in quanto diverse dalle fluttuazioni di valore – devono essere
spiegate dalle condizioni generali della produzione capitalistica. |
770 a ||
[K. Marx, Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5, MEGA II/4.2.505; tr. it. di V.
Giacché]61
97
pare l’arricchimento mediante lo sfruttamento di lavoro altrui,
fino al più puro e colossale sistema imbroglio e di gioco d’azzardo,
nonché lo sfruttamento della ricchezza sociale da parte di pochi,
d’altro lato il suo costituire le forme di transizione a un nuovo
modo di produzione, ecco ciò che conferisce ai principali araldi del
sistema del credito, da Law a Isaac Péreire68, quella loro [caratteri-
stica] gradevole mistura di ciarlatano e il profeta.
[10.1.: Das Kapital, Band III, MEW 25.499-500; Il capitale, libro III, sez. 5, cap.
30, tr. it. di M.L. Boggeri, ER 3.2.568-9 (traduzione riveduta); 10.2.: Das Kapital,
Band I, MEW 23.662; Il capitale, libro I, sez. 7, cap. 23, tr. it. di D. Cantimori, ER
1.693]
68. [John Law (1671-1729), finanziere scozzese trapiantato in Francia, dove tra l’altro
fonda Banque Génerale e la Compagnia delle Indie; è nominato controllore generale
delle finanze prima di essere travolto dal fallimento delle sue società. Isaac Péreire
(1806-1880), banchiere e fondatore del Crédit Mobilier, banca potentissima sotto Na-
poleone III e posta in liquidazione nel 1871.]
69. [M.L. Boggeri (ER 3.2.568) e B. Maffi (Il capitale, Utet, Torino 1987, rist. 2009,
3.609) nelle loro traduzioni rendono con «riflussi» e «riflusso» il termine Rückfluß
presente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale curata da Engels. Nel mano-
scritto di Marx (MEGA II/4.2.539) si trova la parola inglese returns, che ha un significa-
to molto più ampio (incassi, redditi, profitti, rientri). In questo caso essa indica il flusso
del denaro ricavato dalla vendita delle merci prodotte.]
70. [Anche in questo caso nel manoscritto marxiano troviano returns, come nel luogo
indicato nella nota precedente, ma nel significato di «rientri»]
98
duzione. II credito si contrae: 1) perché questo capitale è inattivo,
ossia ristagna in una delle fasi della sua riproduzione, perché non
può compiere la sua metamorfosi; 2) perché è infranta la fiducia
nella fluidità del processo di riproduzione; 3) perché diminuisce la
domanda di questo credito commerciale. Il filandiere che restrin-
ge la sua produzione e ha in magazzino una grande quantità di filo
invenduto, non ha bisogno di acquistare del cotone a credito; il
commerciante non ha bisogno di acquistare delle merci a credito,
avendone a disposizione più del necessario.
Quando subentra quindi una perturbazione in questa espan-
sione o anche soltanto nella normale intensità del processo di ri-
produzione, si verifica contemporaneamente una mancanza di
credito; diventa più difficile acquistare merci a credito. La richiesta
di pagamento in contanti e la cautela nella vendita a credito sono
tuttavia fenomeni particolarmente caratteristici nella fase del ciclo
industriale che segue una crisi. Durante la crisi stessa, quando
ognuno ha da vendere ma non può vendere ed è tuttavia costretto
a vendere per far fronte ai pagamenti, è la massa non del capitale
inattivo in cerca di investimento, ma del capitale ostacolato nel suo
processo di riproduzione, che raggiunge il suo massimo proprio
quando anche la mancanza di credito raggiunge il suo culmine (e
quindi il saggio di sconto per il credito bancario raggiunge il suo
massimo). Il capitale già investito si trova infatti inattivo in grandi
quantità, perché il processo di riproduzione ristagna. Le fabbriche
rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti fini-
ti saturano il mercato di merci. Non vi è quindi nulla di più errato
che attribuire tale stato di cose a una mancanza di capitale produt-
tivo. Si ha, al contrario, una sovrabbondanza di capitale produtti-
vo, sia in rapporto alla scala normale, ma momentaneamente con-
tratta della riproduzione, sia in rapporto al consumo paralizzato.
99
11. Le contraddizioni del capitale esplodono nella crisi
[11.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.535; Teorie sul plusvalore, II, cap.
17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.583-584 (traduzione riveduta); 11.2.: Das Kapital,
Band II, MEW 24.80-81; Il capitale, libro secondo, sez. 1, cap. 2, tr. it. di R. Pan-
zieri, ER 2.77-78]
71. average
100
da) dei lavoratori, poiché esso è introdotto e mediato dal consumo
produttivo. Così la produzione di plusvalore e con essa anche il con-
sumo individuale del capitalista può crescere, l’intero processo di
riproduzione trovarsi nelle condizioni più fiorenti, e tuttavia una
gran parte delle merci essere entrata solo in apparenza nel consu-
mo, in realtà invece giacere invenduta nelle mani dei rivenditori, di
fatto, dunque, trovarsi ancora sul mercato. Flusso di merci segue
ora flusso di merci, e finalmente viene alla luce il fatto che il flusso
precedente solo in apparenza è stato inghiottito dal consumo. I ca-
pitali-merce si contendono reciprocamente il loro posto sul merca-
to. Per vendere, gli ultimi arrivati vendono al di sotto del prezzo. I
flussi precedenti non sono ancora stati resi liquidi, mentre scadono
i termini di pagamento. I loro possessori devono dichiararsi insol-
venti, ovvero vendere a qualunque prezzo, per pagare. Questa ven-
dita non ha assolutamente nulla a che fare con lo stato reale della
domanda. Essa ha a che fare solo con la domanda di pagamento, con
l’assoluta necessità di trasformare merce in denaro. Allora scoppia
la crisi. Essa diventa visibile non nella immediata diminuzione
della domanda di consumo, della domanda per il consumo indivi-
duale, ma nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale,
del processo di riproduzione del capitale.
[12.1.: Das Kapital, Band I, MEW 23.151-152; Il capitale, libro I, sez. 1, cap. 3, tr.
it. di D. Cantimori, ER 1.170-171; 12.2.: Das Kapital, Band III, MEW 25.531-532;
Il capitale, libro III, sez. 5, cap. 32, tr. it. di M.L. Boggeri, ER 3.2.604-605 (tradu-
zione riveduta)]
72. La crisi monetaria, come è definita nel testo quale fase particolare di ogni crisi gene-
rale di produzione e di commercio, deve essere distinta da quel genere speciale di crisi che
viene chiamata anch’essa crisi monetaria, che può però presentarsi per conto proprio,
101
a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro
compensazione. Quando si verificano turbamenti generali di que-
sto meccanismo, quale che sia l’origine di essi, il denaro si cambia
improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale della
moneta di conto, eccolo denaro-contante. Non è più sostituibile
con merci profane. Il valore d’uso della merce è senza valore e il
suo valore scompare dinanzi alla propria forma di valore. Il bor-
ghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illumi-
nistica derivata dall’ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota
illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rin-
trona il grido : «Solo il denaro è merce!». Come il cervo mugghia in
cerca d’acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l’unica ric-
chezza73. Nella crisi, l’opposizione fra la merce e la sua figura di va-
lore, il denaro, viene fatta salire fino alla contraddizione assoluta.
Perciò qui è indifferente anche la forma fenomenica del denaro.
La carestia di denaro rimane la stessa, sia che i pagamenti debba-
no esser fatti in oro o moneta di credito, p. es. banconote.
in modo da operare solo di rimbalzo sull’industria e sul commercio. Queste sono crisi
il cui centro di movimento è il capitale-denaro; quindi la loro sfera immediata è costitui-
ta dalla banca, dalla Borsa, dalla finanza (Nota di Marx alla terza edizione).
73. «Questo subitaneo trapasso del sistema creditizio a sistema monetario aggiunge il
terrore teorico al panico pratico, e gli agenti della circolazione rabbrividiscono dinanzi
al mistero impenetrabile dei loro propri rapporti» (Karl Marx, Per la critica dell’economia
politica [1859, MEW 13.123; tr. it di E. Cantimori Mezzomonti, MEOC 30.414]). «I pove-
ri non lavorano perché i ricchi non hanno più denaro per dar loro occupazione, benché
questi continuino a possedere gli stessi terreni e gli stessi operai di prima per provvede-
re vettovaglie e vestiti;... le quali cose fanno la vera ricchezza d’una nazione, e non il de-
naro» (John Bellers Proposals far raising a Colledge of Industry, Londra, 1696, pp. 3, 4)
(Nota di Marx).
102
ste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno in
mente soltanto quelle persone che posseggono obbligazioni ga-
rantite da merci74, o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà
di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori
falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste
una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di pa-
role, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile
in seguito alla sovra-importazione e alla sovrapproduzione, oppu-
re si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito
che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo
ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari, e
pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale
perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro spe-
culazioni fraudolente.
È un principio fondamentale della produzione capitalistica che
il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del va-
lore, ossia che il valore di scambio deve assumere nel denaro una
forma autonoma, e ciò è possibile unicamente quando una merce
determinata diventa la materia al cui valore si devono commisura-
re tutte le altre merci, cosicché proprio per ciò diventa la merce
universale, la merce per eccellenza75 in contrapposizione a tutte le
altre merci. Ciò si deve manifestare – soprattutto presso le nazioni
capitalistiche sviluppate, che sostituiscono il denaro in grandi
quantità – in due modi: da un lato mediante operazioni di credito,
dall’altro mediante moneta di credito. In periodi di depressione,
quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro im-
provvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale
unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valo-
re. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi
l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma pu-
ramente fantastica. In secondo luogo, la moneta di credito stessa è
denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto,
nell’importo del suo valore nominale, il denaro effettivo. Con il de-
flusso dell’oro la sua convertibilità in denaro, ossia la sua identità
con l’oro reale, diventa problematica. Di qui misure coercitive, au-
mento del saggio dell’interesse ecc. al fine di assicurare le condi-
zioni di questa convertibilità. Ciò può essere più o meno portato a
eccessi mediante un’errata legislazione fondata su errate teorie del
denaro e imposta alla nazione nell’interesse di trafficanti di dena-
ro, tipo Overstone e compagni. Ma la causa prima si trova nel fon-
damento stesso del sistema di produzione.
103
13. Crisi e distruzione di capitale
[13.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.496-497; Teorie sul plusvalore, II,
cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.542-543 (traduzione riveduta); 13.2.: Grun-
drisse del Kritik der politischen Ökonomie 1857-8, MEW 42.641-642; Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus in MEOC
30.136-137 (traduzione riveduta)]
104
questa al tempo stesso un’epoca in cui i capitalisti monetari76 si
arricchisce a spese dei capitalisti industriali77. Ora, per ciò che con-
cerne la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato,
azioni ecc. – nella misura in cui essa non porta alla bancarotta
dello Stato e della società per azioni e cosi non viene in generale
rallentata la riproduzione, in quanto il credito dei capitalisti indu-
striali che detengono tali titoli ne viene scosso – si tratta di un sem-
plice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra e in
complesso agirà favorevolmente sulla riproduzione, in quanto i
nuovi ricchi, nelle cui mani queste azioni o titoli cadono a buon
mercato, per lo più sono più intraprendenti dei vecchi possessori.
105
Sviluppo del capitalismo
e caduta del saggio di profitto
[Das Kapital (Ökonomisches Manuskript 1863-1865), Drittes Buch, Drittes Kapi-
tel. Gesetz des tendenziellen Falls der allgemeinen Profitrate im Fortschritt der ka-
pitalistischen Produktion, in MEGA II/4.2.285-340; Il capitale (Manoscritto econo-
mico 1863-1865), libro terzo, terzo capitolo. Trad. it. di V. Giacché]
Se capitale costante
100
= 100 allora p’ = 200 = 50 %.
100
= 200 p’ = 300 = 331/3%.
100
= 300 p’ = 400 = 25 %.
100
= 400 p’ = 500 = 20%.
100
= 500 p’ = 600 = 162/3 %
ecc. ecc.
109
Lo stesso saggio del plusvalore, restando invariato il grado di
sfruttamento del lavoro, si esprimerebbe quindi in un saggio di
profitto decrescente, a causa dell’entità del valore del capitale costan-
te, e perciò del capitale complessivo, che cresce assieme al suo volu-
me materiale (benché non nella stessa proporzione, rappresen-
tando una massa di mezzi di lavoro maggiore).
|204| Se inoltre si suppone che quel graduale cambiamento
nella composizione del capitale non abbia luogo in sfere particolari
della produzione, ma che esso indichi piuttosto cambiamenti nella
composizione del capitale complessivo che appartiene a una deter-
minata società, cioè cambiamenti nella composizione organica media
del capitale della società, ne conseguirebbe di necessità una caduta
graduale del saggio di profitto generale a saggio del plusvalore inva-
riato o con un grado costante di sfruttamento del lavoro da parte del
capitale. Si è però mostrato che è una legge del modo di produzione
capitalistico, che con il suo sviluppo abbia luogo una diminuzione re-
lativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in
rapporto al capitale complessivo messo in movimento. Questo in altre
parole significa soltanto che lo stesso numero di lavoratori (la stessa
forza-lavoro), messo in movimento da un capitale della medesima en-
tità di valore, da un capitale variabile di una data grandezza di valore,
in conseguenza dei particolari metodi di produzione che si svilup-
pano nel modo di produzione capitalistico, mette in movimento, o
consuma in maniera produttiva, adopera nello stesso periodo di
tempo una massa sempre crescente di strumenti di lavoro, materie
prime, ausiliarie, macchine e capitale fisso di ogni tipo, e quindi
anche un capitale costante di sempre maggiore entità in termini di
valore). Questa progressiva diminuzione relativa del capitale varia-
bile in relazione a quello costante e quindi al capitale complessivo,
equivale alla progressiva più elevata composizione organica del ca-
pitale sociale, alla più elevata composizione organica media del ca-
pitale. Essa è a sua volta un’altra espressione dello sviluppo progres-
sivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio
in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari,
capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in
prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro. A questa crescente
entità di valore del capitale costante corrisponde – benché essa rappre-
senti solo lontanamente la crescita nella massa reale dei valori d’uso
in cui consiste materialmente4 il capitale costante – una crescente
diminuzione di prezzo5 del prodotto; quest’ultimo, ciascun singolo
prodotto per sé considerato, contiene una somma minore di lavoro
4. materialiter 5. Verwohlfeilerung
110
oggettivato e vivente (come si è mostrato più sopra) che in stadi
meno elevati della produzione, nei quali il capitale investito in lavo-
ro è molto maggiore rispetto a quello investito in mezzi di produzio-
ne. Perciò il caso proposto a mo’ di ipotesi all’inizio di questo capito-
lo rappresenta l’effettiva tendenza della produzione capitalistica.
Essa produce, con la progressiva diminuzione relativa del capitale
variabile rispetto a quello costante, una composizione organica del ca-
pitale complessivo sempre più elevata, che ha per immediata conse-
guenza che il saggio del plusvalore, ove il grado di sfruttamento del
lavoro resti costante o anche aumenti, trova espressione in un saggio
generale di profitto in costante diminuzione. (Più avanti si mostrerà
perché questa caduta non si presenti in questa forma assoluta, ma
piuttosto come una tendenza alla caduta progressiva)6. La tendenza
progressiva alla caduta del saggio generale di profitto è soltanto una
espressione peculiare al modo di produzione capitalistico dello svi-
luppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, in presen-
za di un grado di sfruttamento del lavoro costante o anche crescente
(da un punto di vista intensivo o estensivo). Questo non significa
che il saggio di profitto non possa temporaneamente diminuire
|205| anche per altri motivi, ma con ciò si deduce dalla natura stessa
del modo di produzione capitalistico e come una evidente necessità,
quindi si dimostra, il fatto che nel suo sviluppo il saggio generale del
plusvalore deve tradursi in un saggio generale di profitto decrescente.
Emerge molto semplicemente che, dal momento che la massa del
lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente rispetto alla
massa del lavoro oggettivato da esso messo in movimento, [cioè] ri-
spetto ai mezzi di produzione consumati in maniera produttiva,
anche la parte di questo lavoro vivo che non viene pagata e che si
esprime nel plusvalore deve costituire una proporzione in costante
diminuzione rispetto al volume di valore del capitale complessivo
impiegato. Questo rapporto del plusvalore rispetto al valore del ca-
pitale complessivo impiegato costituisce però il saggio di profitto,
che perciò deve costantemente diminuire.
Per quanto questa legge appaia semplice dopo le spiegazioni
sin qui sviluppate, tuttavia, come si vedrà da uno dei successivi ca-
pitoli, l’intera economia politica sino a oggi non è riuscita a sco-
prirla. Essa ha visto il fenomeno e si è affannata intorno a tentativi
contraddittori di spiegarlo. Data però la grande importanza che
questa legge riveste per la produzione capitalistica, si può afferma-
re che essa rappresenti il mistero alla cui soluzione si è rivolta l’in-
tera economia politica da A. Smith e che la differenza tra le diverse
111
scuole da A. Smith in poi consista nei diversi tentativi fatti per
giungere a tale soluzione. Se però d’altra parte si considera che si-
nora l’economia politica è andata cercando a tentoni la differenza
tra capitale costante e variabile, ma non le è mai riuscito di formu-
larla con chiarezza7; che essa non ha mai separato il plusvalore dal
profitto, né ha mai esposto il profitto in forma pura, distinto dai di-
versi suoi elementi resisi reciprocamente indipendenti – quali
profitto industriale, profitto commerciale, interesse, rendita fon-
diaria; che non ha mai indagato a fondo le differenze nella compo-
sizione organica del capitale, e quindi altrettanto poco la formazio-
ne del saggio generale di profitto; se si considera tutto questo, il
fatto che non sia riuscita a dare soluzione a questo enigma cessa di
essere sorprendente.
Esponiamo di proposito questa legge prima di esporre la scom-
posizione del profitto in diverse categorie reciprocamente indi-
pendenti. L’indipendenza della sua esposizione da questa suddivi-
sione del profitto in parti diverse, che spettano a diverse categorie
di persone, dimostra da subito l’indipendenza di questa legge,
nella sua universalità, da quella divisione e dai rapporti delle cate-
gorie di profitto separate, quali interesse ecc., l’una con l’altra. Il
profitto, di cui parliamo in questa sede, non è che un altro nome del
plusvalore stesso, solo [che esso è qui] presentato in rapporto al ca-
pitale complessivo invece che al capitale variabile dal quale scatu-
risce. La caduta del saggio di profitto esprime dunque la propor-
zione decrescente del plusvalore stesso rispetto al capitale comples-
sivo anticipato, ed è quindi indipendente da qualsivoglia
ripartizione di questo plusvalore tra diverse categorie.
Si è visto che a un livello dello sviluppo capitalistico in cui il ca-
pitale variabile è = 100 e il plusvalore è 100, un saggio del plusvalo-
re del 100%, se il capitale costante è = 50, si esprime in un saggio
di profitto del 66 2/3%; e che a un livello superiore, in cui il capita-
le costante = 400, lo stesso saggio del plusvalore si esprimerebbe
in un saggio di profitto del 20%. Ciò che vale per i diversi stadi di
sviluppo che si susseguono all’interno di un paese, vale per i diver-
si stadi di sviluppo che sussistono contemporaneamente l’uno ac-
canto all’altro in diversi paesi. Nel paese non sviluppato, dove [si ha]
la prima composizione del capitale, il saggio generale di profitto
sarebbe = 66 2/3%, mentre sarebbe = 20% nel paese al secondo e
molto più avanzato stadio di sviluppo. {La differenza tra i due
saggi nazionali di profitto //206/ potrebbe scomparire o capovol-
gersi nel caso che, ad esempio, nel paese meno sviluppato il lavoro
7. bewußt
112
fosse più improduttivo, quindi una maggiore quantità di lavoro si
traducesse in una minore quantità di valore d’uso, una maggiore
quantità di valore di scambio in una minore quantità di valore
d’uso8, e perciò a causa della minore forza produttiva del lavoro il
lavoratore dovesse impiegare una parte maggiore del proprio
tempo per la riproduzione dei propri mezzi di sussistenza o del
loro valore e una parte minore per la produzione del plusvalore, e
quindi fornisse meno pluslavoro. Se ad esempio il lavoratore nel
paese meno sviluppato lavorasse per il capitalista soltanto per 1/3
della giornata lavorativa, anziché per la metà come nei paesi svi-
luppati, in base alle ipotesi di cui sopra la stessa forza lavoro sareb-
be pagata con 133 1/3 e fornirebbe un’eccedenza9 di appena 66 2/3.
A questo capitale variabile di 133 1/3 corrisponderebbe un capitale
costante di 50. Il capitale anticipato complessivo ammonterebbe
quindi a 183 1/3 e il plusvalore a 66 2/3. Questo darebbe un saggio
di profitto di 66 2/3 : 183 1/3, cioè qualcosa più del 36%.}10
Poiché sinora non abbiamo ancora esaminato i diversi elemen-
ti in cui si suddivide il profitto, e perciò per noi essi non esistono an-
cora, è al solo scopo di evitare fraintendimenti che si anticipa quan-
to segue. Nel confrontare paesi a diversi stadi di sviluppo – ad esem-
pio quelli a produzione capitalistica sviluppata e quelli in cui non vi
è ancora sussunzione reale11 del lavoro sotto il capitale, anche se il
lavoratore è realmente12 sfruttato dal capitalista – {come ad esempio
in India, dove il ryot lavora come contadino indipendente, quindi la
sua produzione non è realmente13 sussunta sotto il capitale, anche
se l’usuraio può estorcergli sotto forma di interesse non soltanto il
suo intero pluslavoro14, ma anche una parte del suo salario (per
dirla in modo conforme ai rapporti capitalistici)} – sarebbe sbaglia-
tissimo ad esempio misurare la differenza dei saggi nazionali di
profitto in base alla differenza dei tassi nazionali di interesse. Quel-
l’interesse comprende [infatti] il profitto e più del profitto, anziché
esprimere una quota parte15 del plusvalore complessivo. D’altra
parte qui il tasso d’interesse è determinato prevalentemente da rap-
porti (anticipi16 ai Grandi, i detentori della rendita fondiaria), che
non hanno nulla a che fare col profitto, ma indicano piuttosto in
quale misura l’usuraio si appropria della rendita fondiaria.
113
In paesi a un diverso stadio di sviluppo della produzione capi-
talistica e quindi della composizione organica del capitale, il sag-
gio del plusvalore (quindi il fattore17 determinante del saggio di
profitto) può essere più elevato nel paese in cui la giornata lavora-
tiva normale è più breve che in quello in cui è più lunga (più gran-
de). In primo luogo: se la giornata lavorativa inglese di 10 ore a
causa della sua maggiore intensità è = a una giornata lavorativa au-
striaca di 14 ore, a pari ripartizione della giornata lavorativa 5 ore di
plusvalore18 in Inghilterra possono rappresentare sul mercato
mondiale un valore più elevato che 7 ore in Austria. In secondo
luogo, nel primo caso può creare valore eccedente19 una parte della
giornata lavorativa maggiore che nel secondo caso.
La legge del saggio decrescente del profitto, in cui si esprime un
saggio del plusvalore pari o anche crescente, significa in altre paro-
le che, data una certa quantità di capitale medio sociale, ad esem-
pio un capitale di 100, una parte sempre maggiore di esso è rap-
presentata da strumenti di lavoro e una parte sempre minore di
esso da lavoro vivo: perciò, poiché il lavoro vivo supplementare
complessivo20 diminuisce, anche la parte non pagata e la parte di
valore che lo rappresenta diminuisce in rapporto al valore del capi-
tale complessivo investito; ovvero: una parte sempre più piccola
del capitale complessivo si converte in lavoro vivo e quindi in rap-
porto alla sua grandezza assorbe sempre meno pluslavoro21, ben-
ché la proporzione della parte non pagata del lavoro impiegato
possa al tempo stesso aumentare rispetto alla sua parte pagata. La
riduzione del capitale variabile e l’aumento di quello costante, ben-
ché entrambe le parti crescano, è soltanto una diversa espressione
dell’aumentata produttività del lavoro. Poniamo ad es. che in un
capitale di 100 siano anticipati 4/5 in capitale costante, ||207| e 1/5
(=20) in capitale variabile (=20 lavoratori). Il saggio del plusvalore
sia = 100%, cioè gli operai lavorano mezza giornata per sé, mezza
giornata per il capitalista. [Supponiamo che] nel paese meno svi-
luppato sia anticipato 1/5 (=20) in capitale costante e sia necessario
un numero 4 volte superiore di lavoratori per mettere in movi-
mento questo capitale costante di 4 volte inferiore. Ma questi lavo-
ratori hanno bisogno di 2/3 della giornata lavorativa per sé e lavora-
no per il capitalista soltanto per 1/3 della giornata lavorativa, anzi-
ché per 1/2. Essi producono, come prima, un valore di 120
(ipotizzando la stessa giornata lavorativa) (così come i 20 un valo-
17. dieser eine Factor
18. Mehrwerth [Appare però corretta la so- 19. surplus
stituzione operata da Engels: Mehrarbeit 20. gesammte lebendige Zusatzarbeit
(pluslavoro)] 21. Surplusarbeit
114
re di 40). Ma abbisognano per sé di 2/3 di questo 120 e ne lasciano
al capitalista soltanto 1/3. In questo caso le cose stanno così:
20c+80v+40pv. E quindi il saggio di profitto è = 40%. Il saggio di
profitto ammonta anche nell’ultimo caso alla stessa cifra assoluta
che nel primo caso, benché nel primo caso il saggio del plusvalore
sia = 100% e nel secondo soltanto 50%. In compenso un capitale
della stessa grandezza si appropria però nel primo caso soltanto
del pluslavoro di 20 lavoratori, mentre nel secondo di quello di 80.
Tuttavia il grado di sfruttamento del lavoro è molto maggiore nel
primo caso che nell’ultimo.
In termini esatti, la composizione [organica] sarebbe nel primo
caso c80 v20 e nel secondo c15+15/19 v84+4/19. Un plusvalore di 100 [%] dà
nel primo caso un profitto del 20%, e un plusvalore del 33 1/3% dà22
Un esempio migliore, in quanto non contiene frazioni, è que-
sto. Supponiamo che23 c80 v20, pv = 20, pv’ = 100%. I 20 siano = 20
lavoratori. Ora poniamo che 60 lavoratori siano necessari per met-
tere in movimento 20 c. Il loro prodotto complessivo, per lo stesso
tempo di lavoro dei 20 [di prima], è = 120. Ma essi lavorano soltan-
to per 1/3 per il loro padrone24, e per 2/3 per sé. Perciò abbiamo 80v
e 40pv. La composizione è c20 v80 e il pv = 40, pv’ = 50%. Nel primo
caso il p’ = 20%, nel secondo il p’ = 40%. Il saggio di profitto quin-
di nel secondo caso è il doppio che nel primo, benché nel primo
caso il saggio del plusvalore sia il doppio che nel secondo. Ma la
massa del plusvalore è maggiore dove 1/3 della giornata di 60 lavo-
ratori viene accaparrata da un capitale di pari grandezza di quello
che nell’altro caso ingoia 1/2 della giornata di 20 lavoratori. Suppo-
niamo una giornata lavorativa = 12 ore. Quindi 1/2 = 6 ore e 1/3 = 4
ore. 20 x 6 =120 ore, però 60 x 4 = 240, esattamente il doppio. Per-
ciò, benché il grado di sfruttamento del lavoro sia molto maggiore
nel caso I che nel caso II, tuttavia il saggio di profitto è il doppio nel
caso II rispetto al caso I. Il grado di sfruttamento nel caso I è =
100%, nel caso II è = 50%25.
La legge della caduta progressiva del saggio di profitto, o [della ca-
duta progressiva] della massa di pluslavoro appropriata rispetto alla
massa del lavoro oggettivato messo in movimento da essa, non
esclude26 in alcun modo che la massa assoluta del lavoro messa in
movimento e sfruttata dal capitale sociale, e quindi anche la massa
assoluta del pluslavoro da esso appropriata, cresca; tanto meno
115
esclude che i capitali al comando dei singoli capitalisti comandino
una massa crescente di lavoro e quindi di pluslavoro, e questo27
anche se non cresce il numero degli operai da essi comandati.
|208| Si prenda una data popolazione operaia, ad es. di 2 milio-
ni; si considerino inoltre dati estensione e intensità della giornata
lavorativa media; si considerino infine come dati il salario e con
ciò il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro. Tanto il lavoro
complessivo di questi 2 milioni, quanto il loro pluslavoro che si
traduce nel plusvalore, producono sempre la stessa grandezza di
valore. Ma il rapporto proporzionale di questa grandezza di valore
con la massa crescente del capitale costante (fisso e circolante) che
essa mette in movimento decresce rispetto al valore di questo capi-
tale, valore che cresce con la massa, sebbene non nella stessa pro-
porzione di tale massa. Questa proporzione28, e con essa il saggio di
profitto, diminuisce, benché il capitale comandi la stessa massa di
lavoro vivo di prima e assorba la stessa massa di pluslavoro. Il rap-
porto proporzionale tende a ridursi29, non perché diminuisca la
massa del lavoro vivo, ma perché cresce la massa del lavoro ogget-
tivato da essa messa in movimento. La diminuzione è relativa, non
assoluta, e in realtà non ha nulla a che fare con la grandezza assolu-
ta del lavoro e del pluslavoro messi in movimento. La caduta del
saggio di profitto scaturisce da una diminuzione relativa, e non as-
soluta, della quota variabile del capitale complessivo rispetto alla
sua quota costante.
Quello che vale per una data massa di lavoro e di pluslavoro,
vale anche per un numero crescente di lavoratori e quindi, alle pre-
messe date, per una massa crescente di lavoro comandato in gene-
rale e della parte non pagata di esso, il pluslavoro, in particolare. Se
la popolazione operaia sale da 2 a 3 milioni, se inoltre il capitale co-
stante che metteva in movimento i 2 milioni era = 4 milioni, men-
tre il capitale costante che i 3 milioni mettono in movimento è = 15
milioni, allora, alle condizioni date che la giornata lavorativa e la
sua ripartizione in lavoro necessario e pluslavoro rimangano co-
stanti, la massa del plusvalore cresce di 1/2, ossia del 50%, in quan-
to cresce da 2 a 3 [milioni], e cresce nella stessa proporzione la
massa del pluslavoro, la massa del plusvalore. Ciò nonostante, mal-
grado questa crescita del 50% della massa assoluta del pluslavoro e
quindi del plusvalore, la proporzione di questa massa cresciuta 1)
del capitale variabile in rapporto a quello costante, 2) del plusvalo-
27. selbst letztres 29. Das Verhältnis ist ein abnehmendes [En-
28. Proportion gels ha modificato in un più neutro ändert
sich (cambia)]
116
re rispetto al capitale complessivo, scenderebbe, il primo da 2:4
ossia 1:2 a 3:15 ossia 1:5, e il secondo, con un pluslavoro = 100%, da
2:6 a 3:18. Malgrado questa proporzione decrescente del capitale
variabile rispetto a quello costante, e del plusvalore rispetto al capi-
tale complessivo investito, la massa assoluta del plusvalore assor-
bito dal capitale sociale complessivo sarebbe cresciuta del 50%
con la popolazione operaia. Il profitto (che va distinto dal saggio di
profitto), calcolato rispetto al capitale [complessivo] della società, è
però soltanto una categoria diversa per il plusvalore e la massa del
profitto, la sua grandezza assoluta è quindi, considerata dal punto di
vista della società, pari alla grandezza assoluta del plusvalore. La
grandezza assoluta del profitto o la massa assoluta del profitto –
sarebbe quindi cresciuta del 50%, nonostante un’enorme diminu-
zione nel rapporto tra questo profitto e il capitale complessivo an-
ticipato o malgrado l’enorme diminuzione del saggio generale di
profitto. Il numero dei lavoratori messi in movimento dal capitale,
||209| perciò la massa assoluta del lavoro messo in movimento,
perciò la massa assoluta del pluslavoro da esso assorbito e appro-
priato, perciò la massa del plusvalore da esso prodotto, perciò la
grandezza assoluta o la massa del profitto da esso prodotto possono
quindi aumentare, crescere e crescere progressivamente malgrado
la progressiva caduta del saggio di profitto. Questo non soltanto può
avvenire. Questo deve avvenire – eccettuate alcune temporanee
oscillazioni – sulla base del modo di produzione capitalistico.
Il processo di produzione capitalistico è per essenza, al tempo
stesso, processo di accumulazione. Si è dimostrato come, col progre-
dire della produzione capitalistica, il valore, che viene semplice-
mente riprodotto (conservato), cresce sempre più, anche se la forza
lavoro impiegata resta costante. Ma cresce ancor più, con lo svilup-
po della forza produttiva sociale del lavoro, la massa dei valori d’uso
prodotti, di cui i mezzi di produzione costituiscono una parte. E il la-
voro aggiuntivo, la cui appropriazione consente di riconvertire in
capitale questa ricchezza addizionale, non dipende dal valore, ma
dalla massa di questi mezzi di produzione (inclusi i mezzi di sussi-
stenza), poiché l’operaio nell’effettivo processo lavorativo non ha a
che fare col valore, ma col valore d’uso dei mezzi di produzione. La
stessa accumulazione, e la concentrazione del capitale che con essa
si realizza, sono però esse stesse un mezzo materiale dell’accresci-
mento della forza produttiva, del suo potenziamento. Ma questo in-
cremento dei mezzi di produzione presuppone un incremento
della popolazione operaia, la creazione di una sovrappopolazione30
30. Surplusbevölkerung
117
di lavoratori che corrisponde al capitale supplementare31 e che anzi
nel complesso ne travalica il fabbisogno. Una momentanea ecce-
denza del capitale addizionale32 rispetto alla popolazione addizio-
nale33 da esso comandata avrebbe un duplice effetto: 1) da un lato,
attraverso un accrescimento del salario, attenuazione delle circo-
stanze che decimano e annientano la prole degli operai e incentivo
ai matrimoni34; 2) attraverso l’applicazione dei metodi che creano il
plusvalore relativo, creazione di una artificiale eccedenza di popola-
zione35, che anch’essa a sua volta – dal momento che la miseria crea
popolazione nel contesto della produzione capitalistica36 – è l’hu-
mus37 di un effettivo incremento della popolazione. Dalla natura
del processo di accumulazione capitalistico – che è un momento del
processo di produzione capitalistico – consegue perciò in maniera
spontanea che la massa accresciuta di mezzi di produzione desti-
nati a essere trasformati in capitale trova pronta per l’uso38 e sempre
a portata di mano per essere sfruttata una popolazione operaia in
quantità cresciuta in proporzione, e anzi addirittura in eccesso. Col
progredire del processo di produzione e di accumulazione quindi
la massa del pluslavoro39 di cui il capitale può impadronirsi ed effet-
tivamente si impadronisce deve crescere, e con essa la massa assolu-
ta del profitto accaparrato dal capitale sociale. Ma queste stesse leggi
dell’accumulazione e della produzione aumentano, assieme alla
massa, il valore del capitale costante in una progressione sempre
più rapida rispetto a quello della parte del capitale variabile o con-
vertita e scambiata con lavoro vivo. Le stesse leggi producono quin-
di una massa assoluta del profitto crescente per il capitale sociale, e as-
sieme una diminuzione del saggio di profitto.
In questa sede si trascura del tutto il fatto che la stessa grandezza
di valore, col progredire della produzione capitalistica e dello svilup-
po a essa corrispondente della forza produttiva del lavoro sociale e
del moltiplicarsi dei rami di produzione e quindi dei prodotti, forse
con l’eccezione dei soli mezzi primari di sussistenza, rappresenta
una massa progressivamente crescente di valori d’uso e godimenti.
|210| Dal momento che lo sviluppo del processo capitalistico di
produzione e di accumulazione [presuppone] che il lavoro si svolga
su scala progressivamente sempre maggiore e quindi comporta –
tra le sue condizioni materiali e tra i risultati da esso stesso prodotti
– una crescente concentrazione dei capitali (che al tempo stesso è
118
accompagnata, sia pure in misura minore, dall’incremento dei capi-
talisti, o dall’incremento di questi luoghi di raccolta) e di pari passo,
in azione reciproca con quel processo, procede la progressiva
espropriazione dei produttori più o meno immediati, si capisce
perciò facilmente, riguardo ai singoli capitalisti, che essi comandi-
no su eserciti sempre crescenti di lavoratori (benché anche per loro
la quota del capitale investito in salari, del capitale variabile, dimi-
nuisca in rapporto a quello investito in mezzi di lavoro, al capitale
costante), e che la massa del plusvalore che si appropriano e quindi la
massa dei profitti40 cresca contemporaneamente e nonostante la ca-
duta del saggio di profitto. Sono queste stesse cause e fattori41, che
riuniscono (centralizzano) la massa degli eserciti di lavoratori sotto
il comando di singoli capitalisti e che fanno ingrossare la massa dei
macchinari utilizzati, immobili, capitale fisso in generale, e delle
materie prime, ausiliarie ecc. in proporzione relativamente cre-
scente rispetto alla massa del lavoro vivo utilizzato.
È qui inoltre appena il caso di osservare che, con una popola-
zione operaia costante (data), al crescere del saggio di plusvalore,
sia attraverso il prolungamento o l’intensificazione della giornata
lavorativa, sia attraverso l’abbassamento del salario a seguito dello
sviluppo della forza produttiva del lavoro, crescerà la massa assolu-
ta del plusvalore e quindi la massa assoluta dei profitti, quale che sia
la diminuzione relativa del capitale variabile scambiato con forza
lavoro rispetto al capitale costante esistente nella forma di capitale
fisso e circolante, ecc.42
Lo stesso sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, le
stesse leggi che si presentano nella diminuzione relativa del capi-
tale variabile rispetto al capitale complessivo e dell’accumulazione
in tal modo accelerata, mentre d’altro lato l’accumulazione diviene
a sua volta43 il punto di partenza dello sviluppo della produttività
del lavoro e di un’ulteriore diminuzione relativa del capitale varia-
bile rispetto a quello costante o rispetto al capitale complessivo, lo
stesso sviluppo si esprime, a prescindere da oscillazioni tempora-
nee, nella crescita progressiva della forza lavoro utilizzata, nella
crescita progressiva della massa assoluta del plusvalore e quindi
della massa assoluta o grandezza del profitto.
In quale forma deve ora esprimersi questa legge ancipite, ma
che nasce dalle stesse cause, della diminuzione del saggio di profitto
119
e della contemporanea crescita della massa assoluta del profitto? Una
legge fondata su questo, che alle condizioni date la massa accapar-
rata del pluslavoro, e quindi del plusvalore, cresce, ma se si consi-
dera il capitale complessivo, o il capitale singolo come semplice
porzione del capitale complessivo, profitto e plusvalore restano
grandezze uguali?
Prendiamo la quota parte del capitale su cui calcoliamo il sag-
gio di profitto, ad es. 100 se la calcoliamo in percentuali. Questi
100 rappresentano la composizione complessiva, la sua composi-
zione media, c80 v20 o simili, e nel secondo capitolo44 di questo libro
abbiamo effettivamente visto come il saggio medio di profitto nei
diversi rami della produzione non sia determinato dalla particola-
re composizione del capitale in queste sfere, bensì dalla sua com-
posizione sociale media.
Con la diminuzione relativa della parte variabile del capitale ri-
spetto alla parte costante e quindi rispetto al capitale complessivo
di 100, il saggio di profitto cade, ovvero scende – a grado di sfrutta-
mento del lavoro invariato o anche crescente – la grandezza relati-
va 45 del plusvalore, cioè la sua proporzione 46 rispetto al valore del capi-
tale complessivo anticipato di 100. Ma questa ||211| grandezza relati-
va non è l’unica a scendere. La grandezza del plusvalore o del profitto,
che il capitale complessivo di 100 produce (si appropria), cala in
termini assoluti. Se la composizione era c60 v40, con un saggio del
plusvalore del 100% la massa del plusvalore e quindi del profitto
era 40. Non appena la composizione è divenuta c70 v30, la massa del
plusvalore e del profitto – a saggio di plusvalore o grado di sfrutta-
mento del lavoro invariati – è scesa di 10, cioè 1/4 di 40, cioè del
25%; e quando la composizione è divenuta c80 v20, rispetto al capi-
tale di partenza, a queste stesse condizioni, [la massa del plusvalo-
re o del profitto] è scesa da 40 a 20, cioè di 1/2 o del 50%. Questa di-
minuzione riguarda le masse del plusvalore e quindi del profitto, ed
è la conseguenza del fatto che, siccome il capitale complessivo di
100 mette in movimento in generale meno lavoro vivo a grado di
sfruttamento invariato, mette in movimento anche meno plusla-
voro e pertanto produce meno plusvalore, che non è altro se non
pluslavoro materializzato. Presa come unità di misura (standard)
per misurare il plusvalore una qualsiasi quota parte del capitale so-
ciale, ossia del capitale di composizione sociale media – ed è quel-
lo che accade in ogni calcolo del profitto, e questo [modo di] calco-
120
lare corrisponde alla natura del profitto – quindi preso ad es. un ca-
pitale di composizione sociale media come tale unità di misura del
calcolo percentuale del profitto – in generale la diminuzione relati-
va del plusvalore e la sua diminuzione assoluta sono identiche. Il sag-
gio di profitto negli esempi di cui sopra cala dal 40% al 30% al
20%, perché in realtà la massa di plusvalore prodotta dal capitale,
e quindi il profitto, scendono in termini assoluti da 40 a 30 a 20.
Poiché la grandezza di valore del capitale su cui è calcolato il plu-
svalore, costante e data, è = 100, una diminuzione della proporzio-
ne del plusvalore rispetto a questa grandezza invariata può soltan-
to risultare identica a, o essere soltanto un’altra espressione per, la
diminuzione della grandezza assoluta del plusvalore e del profitto.
Questa in realtà è una tautologia. Il fatto però che avvenga tale di-
minuzione, deriva, come si è dimostrato, dalla natura dello svilup-
po del processo di produzione capitalistico.
D’altra parte però le stesse cause che producono una diminu-
zione assoluta del plusvalore e quindi del profitto su un capitale di-
ciamo di cento, e quindi del tasso di profitto calcolato percentual-
mente, generano [anche] una crescita della massa assoluta del plu-
slavoro, del plusvalore e quindi del profitto prodotti e appropriati
dal capitale sociale (o anche dai singoli capitalisti). Come deve ora
esprimersi questo fatto, in quali condizioni può esprimersi o quali
condizioni sono implicite in questa apparente contraddizione?
Se ogni quota parte pari a 100 del capitale sociale – e quindi
ogni 100 di capitale di composizione sociale media – è una gran-
dezza costante e, con il diminuire della parte variabile di questa
grandezza costante, diminuiscono in termini assoluti il plusvalo-
re e quindi il profitto – ossia se diminuzione del saggio di profitto
e grandezza assoluta del profitto qui coincidono, precisamente
perché il capitale su cui sono misurati è una grandezza costante –,
al contrario la grandezza complessiva del capitale sociale, come
pure il capitale che si trova in possesso dei singoli capitalisti, è una
grandezza variabile, che, per corrispondere alle condizioni ipotiz-
zate, deve variare in una data proporzione inversa rispetto alla
parte variabile di una porzione di capitale di grandezza data, ad
esempio di un capitale di 100.
Ad esempio. Quando la composizione di 100 era c60 v40 il plu-
svalore o profitto su di essa era 40 e quindi il saggio di profitto
40%. Supponiamo che il capitale complessivo a questo livello di
composizione sia stato = 1 milione. Il plusvalore complessivo,
quindi il profitto complessivo, ammontavano perciò a 400.000.
Se adesso la composizione diventa c80 v20, il plusvalore e il profitto
121
su ogni 100 sarà = 20, a grado invariato di sfruttamento del lavoro.
Poiché però il plusvalore o profitto, come si è dimostrato, quanto a
massa assoluta, pur in presenza di questo saggio di profitto in di-
minuzione o di questa produzione di plusvalore in diminuzione
da un capitale di 100, cresce, per es. di 1/10, quindi cresce da
400.000 a 440.000 (la proporzione numerica è qui del tutto in-
differente e quindi la supposizione è fatta ad arbitrio), questo è
possibile soltanto grazie al fatto che il capitale complessivo, che si
è formato contemporaneamente al formarsi di questa nuova com-
posizione, [è cresciuto] sino a 2.200.000. La ||212| massa del capi-
tale complessivo messo in movimento è aumentata sino al 220%,
mentre il saggio di profitto è diminuito del 50%. Se il capitale si
fosse soltanto raddoppiato, sarebbe risultato impossibile poter
produrre una massa del plusvalore e del profitto più grande in ter-
mini assoluti. Infatti 2 milioni al [saggio di profitto] del 20% fanno
soltanto 400.000, e quindi non più di quanto producesse 1 milio-
ne al [saggio del] 40%. Se il capitale fosse cresciuto di meno che
del doppio, avrebbe prodotto meno plusvalore e profitto che [un
capitale di] 1 milione al 40%. Quest’ultimo, per far crescere il suo
plusvalore da 400.000 a 440.000, aveva soltanto bisogno di cre-
scere da 1 milione a 1.100.000.
Riappare qui la legge già sviluppata in precedenza, secondo cui
con la diminuzione relativa del capitale variabile, quindi con lo svi-
luppo della forza produttiva sociale del lavoro, è necessaria una
massa sempre crescente di capitale complessivo per mettere in movi-
mento la stessa forza lavoro o per assorbire la stessa massa di plusla-
voro, per sfruttare la stessa massa di lavoro. Nella stessa proporzio-
ne in cui perciò si sviluppa la produzione capitalistica, si sviluppa
la possibilità di una sovrappopolazione relativa di lavoratori, e non
perché la forza produttiva del lavoro sociale diminuisca, ma per-
ché essa cresce: perciò non a causa di una sproporzione assoluta
tra lavoro e mezzi di sussistenza o strumenti per la produzione di
questi mezzi di sussistenza, ma a causa di una sproporzione, data
dallo sfruttamento capitalistico del lavoro, tra la crescita del capita-
le e il suo fabbisogno di popolazione crescente. Se il saggio di pro-
fitto cade del 50%, si tratta di una caduta da 1 a 1/2. Quindi affinché
la massa del profitto resti invariata un capitale di 100 deve raddop-
piarsi, in quanto 100 ! 1 = 200 ! 1/2. Il moltiplicatore che indica la
crescita del capitale complessivo deve essere = al divisore che indi-
ca la diminuzione del saggio di profitto. Quando un fattore è mol-
tiplicato per lo stesso numero per il quale l’altro è diviso, il prodot-
to resta invariato. Se il saggio di profitto diminuisce da 40 a 20, al-
122
lora il capitale complessivo dovrà crescere in senso inverso da 20 a
40 affinché il prodotto resti invariato. Il numero 40 è diviso per 2
e il capitale è moltiplicato per 2. Se la diminuzione è da 40 a 30, al-
lora il capitale dovrà crescere in proporzione inversa da 30 a 40,
cioè di 1/3, di fatto da 1 milione a 1.333.333 1/3. Se la diminuzione
fosse da 40 a 8, allora il capitale avrebbe dovuto crescere nella pro-
porzione inversa di 8/40, ossia di 5 volte. Un capitale di 1 milione
con un rendimento del 40% produce 400.000, e un capitale di 5
milioni con un rendimento dell’8% produce parimenti 400.000.
Questo è necessario affinché il prodotto (il risultato) resti lo stesso.
Se invece esso deve crescere, allora il capitale dovrà crescere in
proporzione inversa maggiore di quanto diminuisca il saggio di
profitto o il plusvalore o profitto prodotto per 100 (a seguito della
più elevata composizione del capitale medio o – ciò che è lo stesso
– della proporzione calante del capitale variabile calcolato pro rata
su 100). In altre parole: affinché la componente variabile del capi-
tale complessivo non soltanto resti la stessa, ma cresca, benché la
parte del capitale variabile che entra in una quota parte di 100 del
capitale complessivo diminuisca, il capitale complessivo deve non
soltanto crescere inversamente nella stessa proporzione in cui il
capitale variabile su 100 diminuisce, ma in proporzione maggio-
re. Deve crescere così tanto da aver bisogno non soltanto del vec-
chio capitale variabile, ma di una quantità maggiore di esso, in
conformità alla proporzione della nuova composizione [organica].
Se la parte variabile diminuisce da 40 a 20, allora il capitale com-
plessivo dovrà crescere non soltanto da 100 a 200, ma a più che
200 per aver bisogno di un capitale variabile > 40.
|213| Anche nel caso in cui la massa sfruttata della popolazione
operaia rimanesse costante e aumentassero soltanto intensità ed
estensione della giornata lavorativa, la massa del capitale impiega-
to dovrebbe crescere, perché, in presenza di una mutata composi-
zione del capitale, essa deve crescere addirittura per utilizzare la
stessa massa con i vecchi rapporti di sfruttamento.
Dunque: lo stesso sviluppo della forza produttiva sociale del la-
voro, che col progredire del modo di produzione capitalistico si
esprime in una tendenza alla progressiva diminuzione del saggio di
profitto, si esprime nella crescita costante della massa assoluta del
plusvalore o del profitto di cui [il capitale] si appropria, cosicché nel-
l’insieme alla diminuzione relativa del capitale variabile corri-
sponde la sua crescita in termini assoluti. Questo duplice47 effetto,
come si è mostrato, può presentarsi soltanto in un incremento del
47. doppelseitige
123
capitale complessivo con una progressione più rapida e inversa alla
diminuzione del saggio di profitto. Per utilizzare un capitale varia-
bile accresciuto in termini assoluti, in presenza di una composi-
zione più elevata, ossia di una diminuzione del capitale variabile
raffrontato con quello costante, il capitale complessivo deve cre-
scere [anche] in proporzione alla più elevata composizione. (Di
qui discende la facilità con cui di recente48 si produce la sovrappopo-
lazione, siccome, a seguito della crescente forza produttiva del la-
voro, è necessario sempre più capitale per impiegare la stessa
forza lavoro, e ancora di più per impiegare forza lavoro crescente.)
Se il capitale variabile rappresenta soltanto 1/6 del capitale com-
plessivo, mentre prima ne rappresentava 1/2, allora, per impiegare
la stessa forza lavoro, ossia per utilizzare un capitale variabile della
stessa grandezza di prima, il capitale complessivo ad es. di 200
deve crescere a 600, cioè triplicarsi; e se si deve impiegare il dop-
pio del vecchio capitale variabile, allora il capitale complessivo
deve crescere a 1200, mentre prima allo stesso scopo era sufficien-
te che crescesse a 400.
La teoria economica invalsa sino a oggi, che non ha saputo
spiegare la legge della diminuzione del saggio di profitto, reca la
massa crescente del profitto, la crescita della grandezza assoluta del
profitto, sia per il singolo capitalista, sia per il capitale sociale, come
una sorta di motivo di conforto, che però riposa a sua volta su sem-
plici tautologie49 e [mere] possibilità.
Che la massa del profitto sia determinata da 2 fattori, in primo
luogo il saggio di profitto e in secondo luogo la massa del capitale
che è impiegata al saggio di profitto dato, è una tautologia. Che per-
ciò esista la possibilità che la massa del profitto cresca benché al
tempo stesso il saggio di profitto diminuisca, è solo un’espressione
di questa tautologia, e non è affatto una prova a favore della necessi-
tà di questa correlazione50; infatti è altrettanto possibile che il capi-
tale cresca senza che cresca la massa del profitto ed è addirittura
possibile [che ciò accada anche] quando questa diminuisce. 100 al
25 per cento fa 25; 500 al 5% fa ancora 25, benché il capitale ora sia
quintuplicato e 1000 al 2 per cento fa 20, quindi 1/5 di meno dell’ori-
ginaria massa di profitto, benché il capitale ora sia decuplicaton). Ma
48. die neue Leichtigkeit
49. truisms
50. Zusammenhangs
n). Cfr. Ricardo.
‹Dato il saggio di profitto, la massa del profitto complessiva [gross amount of profit] di-
pende dalla grandezza del capitale anticipato, e lo stesso vale per l’accumulazione, in
quanto essa è determinata dal saggio di profitto. Data la somma del capitale, la massa
del profitto complessiva dipende dal livello del saggio di profitto. Un piccolo capitale
124
con un saggio di profitto elevato può quindi fruttare un profitto complessivo maggiore
che un capitale più grande con un saggio di profitto inferiore. Facciamo queste ipotesi:
1)
Capitale Saggio di profitto Massa del profitto
100 10% 10
! 2) 200 10 = 5% 10
2
! 3) 300 10 = 5% 15
2
! 1 1/2) 150 = 5% 7 1/2
2)
Capitale Saggio di profitto Massa del profitto
100 10 % 10
2 ! 100 (200) 10
21/2 = 4% 8
2 1/2 ! 100 (250) 4% 10
3 ! 100 (300) 4 12
3)
Capitale Saggio di profitto Massa del profitto
500 10% 50
10 x 500 = 5000 1 50
3000 1 30
10 000 100
Se il moltiplicatore del capitale e il divisore del saggio di profitto sono pari, se cioè la
grandezza del capitale aumenta nella stessa proporzione in cui il saggio di profitto di-
minuisce, allora la massa complessiva del profitto resta invariata. 100 al 10% = 10 e 200
ai 10/2 o al 5 % = 10. Quindi: se il saggio di profitto diminuisce nella stessa proporzione
in cui il capitale si accumula (cresce), allora la massa del profitto resta invariata.›
Se il saggio di profitto diminuisce più rapidamente di quanto il capitale cresca, la somma
del gross profit diminuisce. 500 al 10% = 50. Ma 6 x 500 = 3.000 a 10/10 o 1% = 30.
Infine se il capitale cresce più rapidamente di quanto il saggio di profitto diminuisca,
allora la massa del profitto cresce anche se il saggio di profitto diminuisce. 100 al 10%
= 10, ma 3 x 100 al 4% = 12.
«Sebbene il saggio di profitto del capitale possa diminuire in seguito all’accumulazione di
capitale nella terra e all’aumento dei salari, ci attenderemmo un incremento dell’ammon-
tare complessivo dei profitti. Così, supponendo che, per effetto di ripetute accumulazioni
di 100.000 sterline, il saggio del profitto debba scendere dal 20% al 19, al 18, al 17, su-
bendo così una diminuzione costante, ci attenderemmo che il profitto complessivamen-
te ottenuto dai successivi possessori di capitale avesse un incremento costante: che per
un capitale di 200.000 sterline esso fosse maggiore che per uno di 100.000, quindi
maggiore ancora per uno di 300.000, e che seguitasse così ad accrescersi, pur diminuen-
do il saggio, a ogni aumento del capitale. Questa progressione, però, è vera soltanto per un
certo periodo di tempo: difatti, il 19% su 200.000 sterline è più del 20% su 100.000,
come il 18% su 300.000 è più del 19 su 200.000. Ma, dopo che il capitale è stato accu-
mulato in considerevole quantità e che i profitti sono diminuiti, l’ulteriore accumulazione
diminuisce la somma totale del profitto. Così, se l’accumulazione è di 1.000.000 di sterline
e il profitto è del 7%, l’ammontare complessivo del profitto sarà di 70.000 sterline; ora,
se a quel milione si aggiungono 100.000 sterline di capitale e il profitto scende al 6%, i
possessori del capitale otterranno 66.000 sterline, ossia subiranno una diminuzione di
4000 sterline, benché il capitale, sia complessivamente aumentato da 1.000.000 a
1.100.000 sterline ». (D. RICARDO, Principles of Political Economy, cap. VI, p. 124 sg. [Prin-
cipi di economia politica, tr. it. di L. Occhionero, Isedi, Milano 1976, p. 84, trad. riveduta]).
125
se le stesse cause che provocano la diminuzione del saggio di profit-
to favoriscono l’accumulazione, cioè la creazione di capitale addi-
zionale, e se ogni capitale addizionale mette in movimento lavoro
addizionale con nuovo pluslavoro51 e produce plusvalore addiziona-
le; se d’altra parte il semplice calare del saggio di profitto presuppo-
ne che il vecchio capitale sia cresciuto in proporzione dell’incre-
mento del capitale costante, allora tutto questo processo cessa di es-
sere misterioso; e vedremo più avanti a quali intenzionali
falsificazioni di calcolo si faccia ricorso per far scomparire la possibi-
lità della diminuzione52 della massa del profitto in parallelo con la di-
minuzione del saggio di profitto.
|214| Abbiamo mostrato come le stesse cause che producono una
diminuzione tendenziale del saggio generale di profitto (= diminuzione
relativa del capitale variabile in rapporto al capitale complessivo = di-
minuzione relativa del plusvalore in rapporto al valore del capitale
anticipato), determinino un’accelerata accumulazione del capitale e
quindi la crescita della grandezza assoluta o della massa complessiva
del pluslavoro – plusvalore – profitto di cui esso si appropria. Nella
concorrenza e nella coscienza degli agenti della concorrenza ogni
cosa si presenta capovolta, e questo vale anche per questa legge, cioè
per questo nesso immanente e necessario tra due fenomeni appa-
rentemente contraddittori. È evidente che (tenendo sempre a mente
le proporzioni spiegate prima)53 un capitalista che disponga di un
grande capitale ottiene un profitto maggiore, cioè più denaro (inteso
qui soltanto come espressione autonoma di valore)54 di un piccolo ca-
pitalista, che in apparenza ottiene profitti «elevati»b). La più superfi-
In realtà qui si suppone che il capitale aumenti da 1.000.000 a 1.100.000, cioè del
10%, mentre il saggio del profitto diminuisce da 7 a 6 ossia di 1/7 oppure del 14 2/7%.
Hinc illae lacrimae. [Di qui quelle lacrime (Terenzio)] [Nota di Marx]
51. Surplusarbeit, zusätzliche Arbeit
52. Abnahme [Engels ha sostituito il termine con Zunahme (aumento). Si tratta di una
soluzione ragionevole]
53. always not forgetting the proportions before explained
54. independent expression of value
b). ‹Dato il saggio di profitto [rate of profit], la massa dei profitti [amount of profits] dipen-
de in generale dalla grandezza dei capitali anticipati. Questa è soltanto un’applicazione
del principio secondo cui – presupposto il livellamento dei saggi di profitto su un sag-
gio di profitto generale, – capitali di pari grandezza fruttano profitti di pari grandezza,
ossia un capitale più grande frutta un profitto maggiore di un capitale più piccolo. Il
fatto però che il saggio di profitto in generale sia alto o basso dipende dalla quantità to-
tale del lavoro impiegato dal capitale complessivo della società, dalla quantità relativa di
lavoro non pagato impiegato e, infine, dal rapporto tra il capitale impiegato in lavoro e
il capitale semplicemente riprodotto quale condizione della produzione [total quantity
of labour employed by the aggregate capital of society, from the proportional quantity of un-
paid labour employed, and, lastly, from the proportion between the capital employed in la-
bour, and the capital merely reproduced as a condition of production.]› [Nota di Marx]
126
ciale considerazione della concorrenza inoltre mostra che, a deter-
minate condizioni55, quando il capitalista più grande vuole farsi largo
sul mercato e soppiantare quelli più piccoli, come in periodi di crisi
ecc., questo principio è utilizzato in pratica dal capitale più grande
per mettere fuori gioco il più piccolo, attraverso la deliberata riduzio-
ne del proprio saggio di profitto. Soprattutto il capitale commerciale,
del quale tratteremo in seguito più in dettaglio, presenta dei fenome-
ni che fanno apparire la diminuzione del profitto come una conse-
guenza dell’espansione del volume d’affari, e quindi del capitale ecc.
(Daremo più avanti l’espressione propriamente scientifica di questa
falsa concezione ‹A. Smith con la sua diminuzione del saggio di pro-
fitto derivante dalla crescente competizione tra i capitali, che provie-
ne dalla loro accumulazione ecc.56)› Considerazioni superficiali si-
mili emergono dal raffronto tra i saggi di profitto che vengono otte-
nuti in settori particolari57, a seconda che siano soggetti a un regime
di libera concorrenza o di monopolio. [Si veda] la rappresentazione
completamente piatta – la stessa che vive nelle teste degli agenti della
concorrenza – del prof. Roscher, per cui questa riduzione del saggio
di profitto sarebbe «più accorta e più umana»a). La diminuzione del
saggio di profitto appare qui come conseguenza dell’aumento del ca-
pitale e del calcolo – a esso legato – dei capitalisti secondo cui con un
saggio di profitto minore la massa di profitto che intascheranno ri-
sulterà maggiore. Il tutto (a parte58 A. Smith, di cui diremo più oltre)
è fondato sull’assoluta incomprensione di cosa sia il saggio generale
del profitto e sulla soggiacente volgare rappresentazione secondo cui
i prezzi sarebbero in realtà determinati dall’aggiunta di una quota ar-
bitraria di profitto al valore reale delle merci. Per quanto siano volga-
ri, queste concezioni sorgono tuttavia necessariamente dal modo ca-
povolto in cui le leggi immanenti del modo di produzione capitalisti-
co si presentano nell’ambito della concorrenza.
127
precedenti, se si considera soprattutto l’enorme massa di capitale
fisso che entra nel processo di produzione sociale complessivo in
aggiunta al macchinario propriamente detto, al posto della diffi-
coltà in cui si sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale spie-
gazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra quella op-
posta: come si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande
o più rapida? Se ad esempio supponiamo una composizione in cui
il capitale variabile costituisca 1/8 del capitale complessivo e un
saggio del plusvalore del 100%, abbiamo c87 1/2 v12 1/2 e pv = 12 1/259. Il
saggio di profitto (inclusi interesse, rendita e tutte le altre forme
del plusvalore) = 12 1/2%. Devono entrare in gioco fattori di contro-
tendenza60, che frenano e contrastano l’azione61 della legge genera-
le, dandole il carattere di una semplice tendenza, ragion per cui
anche noi abbiamo definito la caduta del saggio generale di profit-
to come una caduta tendenziale. Le più generali di queste cause
sono le seguenti:
128
tempo di lavoro, questa invenzione dell’industria moderna, che au-
menta la massa del pluslavoro accaparrato, senza mutare sostan-
zialmente il rapporto della forza lavoro impiegata con il capitale
costante da essa messo in movimento, e che in realtà provoca piut-
tosto una relativa riduzione di quest’ultimo. – D’altronde si è già
dimostrato – e la cosa costituisce l’autentico segreto della caduta
tendenziale del saggio di profitto – che i procedimenti per la crea-
zione di plusvalore relativo perlopiù (nell’insieme) tendono da un
lato a trasformare quanto più possibile di una data massa di lavoro
in pluslavoro, dall’altro a impiegare in generale quanto meno lavo-
ro possibile in rapporto al capitale anticipato: cosicché le stesse
cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del la-
voro impediscono di sfruttare con lo stesso capitale complessivo
tanto lavoro quanto prima. Lo stesso numero di lavoratori viene sfrut-
tato di più, ma lo stesso capitale sfrutta un numero minore di lavora-
tori. Sono queste le tendenze contraddittorie62 che, mentre agisco-
no nel senso di un aumento del saggio del plusvalore, agiscono
anche in direzione di una caduta della massa del plusvalore prodot-
to da un dato capitale e quindi del saggio del profitto. – Vale la pena
di menzionare qui anche il lavoro femminile e minorile in quanto
con esso l’intera famiglia è costretta a fornire al capitale una massa
di pluslavoro maggiore di prima, anche se aumenta la somma com-
plessiva del salario che le viene corrisposto, cosa ben lontana dal-
l’avvenire sempre. – [Produce lo stesso effetto] tutto ciò che favori-
sce la produzione del plusvalore relativo attraverso il semplice mi-
glioramento (come nell’agricoltura) dei metodi con cui è impiegato
uno stesso capitale. Qui la massa del prodotta cresce in rapporto alla
forza lavoro impiegata, non però il capitale costante impiegato in
rapporto al capitale variabile, in quanto si consideri quest’ultimo
come indice della forza lavoro (del numero di lavoratori). Lo stesso
avviene quando la forza produttiva del lavoro {sia che il suo prodot-
to entri nel salario, sia che entri negli elementi del capitale costante}
viene liberata da vincoli, ostacoli alla circolazione63, restrizioni ar-
bitrarie (o divenute di ostacolo col passare del tempo) e così via,
senza che sulle prime con ciò sia modificato il rapporto tra il capi-
tale variabile e quello costante. ||216| Ci si potrebbe domandare se
gli aumenti del plusvalore al di sopra del livello generale, tempora-
nei ma continui, che emergono ora in questo ora in quel ramo
della produzione e così via, di cui si giova il capitalista che utilizza
invenzioni ecc. prima che il loro uso sia generalizzato, siano da an-
noverare tra le cause che rallentano la caduta del saggio di profitto,
129
anche se in ultima analisi sempre a essa debbono tendere. In effet-
ti, le cose stanno proprio così.
La massa del plusvalore, che un capitale di una massa data pro-
duce, è determinata da 2 fattori: dal saggio del plusvalore moltiplica-
to per il numero dei lavoratori, che sono occupati al saggio dato;
essa perciò dipende, a un saggio del plusvalore dato, dal numero dei
lavoratori e, a un numero di lavoratori dato, dal saggio del plusvalo-
re; ossia dal rapporto composto tra la grandezza assoluta del capita-
le variabile e il saggio del plusvalore, o dal rapporto tra la parte paga-
ta e quella non pagata del lavoro. Ora si è mostrato che in media le
stesse cause che aumentano il saggio del plusvalore relativo riduco-
no la massa della forza lavoro impiegata. È chiaro però che qui inter-
viene un più o un meno, a seconda del rapporto determinato in cui
interviene questo movimento contrario, e che la tendenza a una ri-
duzione del saggio di profitto è indebolita soprattutto dall’accresci-
mento del saggio del plusvalore assoluto, fondato sul prolunga-
mento del tempo di lavoro.
Mentre la massa del plusvalore è essa stessa determinata da 2 fat-
tori, grandezza assoluta del capitale variabile (numero dei lavorato-
ri) e saggio del plusvalore (ripartizione della massa del lavoro in pa-
gato e non pagato), il saggio di profitto è determinato dal rapporto
della massa del plusvalore con il valore del capitale complessivo anti-
cipato, quindi in sostanza dal rapporto relativo del capitale variabi-
le – a un dato saggio del plusvalore – con quello costante e quindi
con il capitale complessivo.
A proposito del saggio di profitto si è trovato in generale che al
calo del saggio corrisponde l’aumento della sua grandezza assoluta o
massa (a motivo della massa crescente del capitale complessivo
impiegato). Se si considera il capitale variabile complessivo che la
società impiega, il plusvalore da esso prodotto è = al profitto prodot-
to. Perciò qui si verifica un doppio fenomeno: crescita della massa
assoluta e del saggio del plusvalore, in primo luogo poiché il nu-
mero assoluto dei lavoratori impiegati dalla società è cresciuto, e
in secondo luogo – perché è cresciuto il loro grado di sfruttamen-
to. Ma con riferimento a un capitale di grandezza data, ad es. 100,
il saggio del plusvalore cresce, mentre la massa in media diminuisce,
poiché il saggio è determinato dalla proporzione in cui la parte va-
riabile del capitale si valorizza, mentre la massa è invece determi-
nata dalla grandezza proporzionale di questa parte variabile rispet-
to al capitale complessivo.
La crescita del saggio del plusvalore – soprattutto perché essa ha
luogo anche in presenza di circostanze in cui, come si è visto sopra,
130
non ha luogo una crescita del capitale costante, o tale crescita non è
proporzionale rispetto a quello variabile – cioè [in presenza di] un
crescente grado di sfruttamento del lavoro – è un fattore da cui è de-
terminata la massa del plusvalore e quindi il saggio di profitto. [Tale
fattore] non elimina la legge generale. Ma fa sì che essa agisca più
come tendenza, cioè come una legge la cui completa realizzazione è
paralizzata, frenata, rallentata, indebolita da circostanze che agi-
scono in senso opposto64. Siccome però ||217| le stesse cause che ac-
crescono il saggio del plusvalore (lo stesso prolungamento del
tempo di lavoro è un risultato della grande industria) tendono a ri-
durre la forza lavoro impiegata da un capitale dato, le stesse cause
tendono quindi alla riduzione del saggio di profitto e a rallentare la di-
namica di questa diminuzione. Se si costringe una sola persona a
compiere il lavoro che razionalmente dovrebbe essere compiuto da
non meno di due, e se questo avviene in circostanze per cui quella
persona ne sostituisce tre, questa persona fornirà altrettanto plu-
slavoro di quello che prima era fornito da due persone, e quindi il
saggio del plusvalore risulta raddoppiato. Ma non ne fornirà tanto
quanto prima ne fornivano tre, e quindi la massa del plusvalore è
caduta. La sua caduta è però compensata o limitata dalla crescita del
saggio del plusvalore. Se il numero complessivo dei lavoratori è im-
piegato a un tasso accresciuto del plusvalore, cresce la massa del
plusvalore, anche se la popolazione [operaia] resta la stessa; questo
vale a maggior ragione se la popolazione cresce e, sebbene questo
sia connesso a una diminuzione relativa di questa forza lavoro in
proporzione al capitale complessivo impiegato, questa diminuzio-
ne sarà ridotta o frenata dall’accresciuto saggio del plusvalore.
Prima di lasciare questo § 1), va ancora una volta sottolineato
che, con un capitale dato, il saggio del plusvalore può crescere,
benché la sua massa diminuisca, e viceversa la sua massa può cre-
scere, benché il suo saggio diminuisca, perché la massa del plu-
svalore è = saggio ! numero dei lavoratori, ma il saggio non è mai
calcolato sul capitale complessivo anticipato, ma soltanto sul capi-
tale variabile anticipato, e in realtà soltanto su una giornata lavora-
tiva alla volta. Per contro, con un capitale dato di valore dato, il sag-
gio di profitto non può mai crescere o diminuire, senza che cresca
o diminuisca la massa del plusvalore.
131
di altri che dovrebbero essere menzionati in questa ricerca, non ha
nulla a che fare con l’analisi generale del capitale, e sarebbe piutto-
sto pertinente a una esposizione – che in quest’opera non viene
trattata – della concorrenza ecc. Ma proprio questa è una delle
cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del
saggio di profitto.
132
Si dimostra qui di nuovo come le stesse cause che producono la
tendenza alla caduta del saggio di profitto, moderino la realizzazio-
ne di questa tendenza.
72. Carrière
73. to a greater or lesser degree paralyses
74. [F. Engels semplifica il testo, in primo luogo riducendo i «due elementi del saggio
di profitto» al semplice «saggio di profitto», e inoltre suggerendo un’azione diretta del
commercio mondiale, che fa sì che da un lato il saggio del plusvalore «aumenti» (hebt),
dall’altro il capitale costante «diminuisca» (senkt): cfr. MEW 25.247 = ER 3.1.289. I due
133
nerale in questa direzione in quanto consente di allargare la scala
della produzione. Ma è proprio agendo in questo senso che esso
opera altresì a favore della diminuzione del capitale variabile ri-
spetto a quello costante, e perciò a favore della caduta del saggio di
profitto – ma così facendo accelera anche l’accumulazione. Pari-
menti, l’ampliamento del commercio estero che durante l’infanzia
del modo di produzione capitalistico ne costituiva la base, col suo
progredire ne rappresenta il prodotto, il prodotto creato da esso
per via della necessità di un mercato sempre più esteso che è im-
manente a questo modo di produzione. Qui, ancora una volta, si
mostra la stessa ambivalenza di azione75. (Ricardo ha totalmente
trascurato questo aspetto del commercio estero)76.
Un’ulteriore questione, che a dire il vero per il suo carattere pe-
culiare esula dai confini della nostra indagine – è la seguente: il
saggio generale di profitto viene accresciuto dal più elevato saggio
di profitto realizzato dal capitale investito nel commercio estero o
nel commercio coloniale?77
|219| I capitali investiti nel commercio estero possono fruttare
un saggio di profitto superiore, in generale, perché qui in primo
luogo si concorre con merci che sono prodotte da altri paesi con
condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più pro-
gredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a
buon mercato dei paesi concorrenti. Fino a che il lavoro del paese
più progredito viene valorizzato come lavoro di più elevato peso
specifico – così come accade in patria quando un produttore utiliz-
za un’invenzione il cui utilizzo non è ancora stato generalizzato –,
il saggio di profitto aumenta, in quanto il lavoro, che non è stato
pagato come lavoro di qualità speciale78, è venduto come tale. Lo
stesso rapporto può verificarsi nei confronti del paese da cui si im-
portano e verso cui si esportano merci, cioè che questo dia in cam-
bio79 più lavoro di quanto riceva e tuttavia anche così riceva la
merce più a buon mercato di quanto costerebbe se la producesse
esso stesso; così come il produttore, che adopera una nuova inven-
verbi sono assenti dal testo marxiano, e le righe successive del testo non sembrano con-
fortare l’interpretazione di Engels. Si è quindi preferito mantenere l’ambivalenza con-
tenuta nel manoscritto di Marx, traducendo steigernd (letteralmente «potenziando»)
con «facendo leva su»]
75. Zwieschlächtigkeit der Wirkung
76. Foreign Trade
77. [La questione «esula dai confini della presente indagine» in quanto Marx intendeva
trattarla nel libro sul commercio estero, quinto tra i sei del progetto originario del Capi-
tale (in argomento cfr. MEGA II/4.2., Apparat, p. 1251)]
78. spezifische [Engels riformula, correttamente, in: qualitativ höhere]
79. in return [come pagamento]
134
zione, vende la sua merce più a buon mercato dei suoi concorren-
ti e tuttavia al di sopra del suo valore individuale, cioè valorizza la
specifica maggiore forza produttiva del lavoro che ha impiegato
come pluslavoro80. In tal modo realizza un sovrapprofitto. Per
quanto d’altro lato riguarda i capitali investiti in colonie ecc., essi
possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei paesi il
saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore svi-
luppo e in secondo luogo, grazie all’impiego di schiavi ecc., vi è un
maggiore sfruttamento del lavoro. Non si vede proprio perché i
più elevati saggi di profitto, che i capitali in tal modo investiti in de-
terminati rami rimpatriano81, non debbano qui – se non si scontra-
no con l’ostacolo rappresentato da monopoli – rientrare nel livella-
mento generale del saggio generale di profitto e quindi non debba-
no elevarlo in proporzione82 (A. Smith qui ha ragione contro
Ricardoa)); soprattutto non se ne vede il perché quando quei rami
di impiego del capitale sono sottoposti alla legge della libera con-
correnza. Ciò che Ricardo invece ha in mente è soprattutto questo:
il fatto che le merci – in cui è realizzato un profitto superiore –
siano vendute in patria, è un fatto che al massimo può comportare
un temporaneo vantaggio per queste sfere della produzione favo-
rite rispetto alle altre. Ma questa parvenza svanisce non appena si
prescinde dalla forma monetaria83. Il paese favorito riceve più lavo-
ro in cambio di meno lavoro, anche se questo «più»84, come avvie-
ne in generale nello scambio tra lavoro e capitale, è intascato da
una determinata classe85. Ma in quanto il saggio di profitto è più
elevato, perché in generale è più elevato nel paese coloniale, esso –
in presenza di condizioni naturali favorevoli – può accompagnarsi
a prezzi delle merci più bassi. Si verifica un livellamento, ma non
un livellamento al vecchio livello, come pensa Ricardo.
Ma lo stesso commercio estero sviluppa il modo di produzione
capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale variabile
rispetto a quello costante e produce d’altro lato sovrapproduzione in
rapporto all’estero, perciò alla lunga ha di nuovo l’effetto opposto.
E così si è visto, in generale, che le stesse cause che producono la
caduta del saggio generale di profitto provocano reazioni, che frenano,
rallentano e in parte paralizzano questa caduta. Non eliminano la
80. Mehrarbeit
81. nach home abwerfen vorita scenderanno rapidamente al livello
82. pro tanto generale» (RICARDO, Principles, pp. 132,
a). «Essi sostengono che il pareggiamento 133 [tr. it. cit., p. 89]). [Nota di Marx]
dei profitti sarà determinato dall’aumento 83. Geldform
generale dei profitti stessi, mentre io sono 84. mehr
dell’opinione che i profitti dell’attività fa- 85. is pocketed by a certain class
135
legge, ma ne indeboliscono l’azione. Se così non fosse, sarebbe in-
comprensibile non la caduta del saggio di profitto, ma al contrario
la proporzione relativamente modesta di questa caduta. In tal
modo la legge opera soltanto come tendenza, la cui azione si mani-
festa soltanto in determinate circostanze e nel lungo periodo86.
|220| Prima di procedere, per evitare malintesi vogliamo fissa-
re più nettamente due principi già ripetutamente sviluppati:
Primo: Lo stesso processo che nel corso dello sviluppo del
modo di produzione capitalistico produce la diminuzione del
prezzo delle merci, produce un mutamento nella composizione
organica del capitale sociale impiegato per la produzione delle
merci, cioè la caduta del saggio di profitto. Quindi la diminuzione
del costo relativo della singola merce, anche della parte di questo
costo che comprende l’usura del macchinario ecc., non deve esse-
re identificata con il valore crescente del capitale costante rispetto a
quello variabile, benché viceversa ogni diminuzione nel costo rela-
tivo del capitale costante, a volume invariato o crescente degli ele-
menti materiali dei quali è costituito, agisca sull’accrescimento del
saggio di profitto, cioè sulla diminuzione pro tanto del valore del ca-
pitale costante rispetto al capitale variabile che viene impiegato in
proporzioni decrescenti.
Secondo: La circostanza che il lavoro vivo addizionale contenuto
nelle singole merci, la cui totalità costituisce il prodotto del capita-
le, sta in proporzione decrescente rispetto al materiale di lavoro in
esse contenuto e ai mezzi di lavoro in esse consumati, il fatto che
in esse sia materializzata una quantità decrescente di lavoro vivo addi-
zionale, poiché con lo sviluppo della forza produttiva sociale del la-
voro esse richiedono per la loro produzione meno lavoro, [questa
circostanza] non altera il rapporto in cui questo lavoro vivo che in
esse è contenuto si ripartisce in lavoro pagato e non pagato. Al con-
trario. Benché la quantità complessiva del lavoro vivo addizionale
in esse contenuto diminuisca, la parte non pagata cresce in pro-
porzione a quella pagata, sia per via della diminuzione assoluta87,
sia per via della diminuzione relativa88 della parte pagata, in quan-
to lo stesso metodo di produzione che riduce la massa complessi-
va del lavoro vivo addizionale in una merce si accompagna al cre-
scere del plusvalore relativo o assoluto. Il calo tendenziale del sag-
gio di profitto è legato a una crescita tendenziale del saggio del
plusvalore, cioè del grado di sfruttamento del lavoro. Nulla di più
stupido, quindi, dello spiegare il calo del saggio di profitto per
136
mezzo della crescita del saggio del salario, benché un caso del ge-
nere possa eccezionalmente presentarsi. La statistica sarà posta in
grado di effettuare delle vere analisi del saggio del salario in diver-
se epoche e in diversi paesi solo attraverso la comprensione dei
rapporti che costituiscono il saggio di profitto. Il saggio di profitto
cade, anche se il saggio del plusvalore89 resta identico e cresce, per-
ché il capitale variabile decresce con lo sviluppo delle forze produt-
tive del lavoro in rapporto a quello costante e quindi al capitale
complessivo. Quindi cade non perché il lavoro diventi più impro-
duttivo, ma perché diventa più produttivo. Non perché il lavoro sia
sfruttato di meno, ma perché è sfruttato di più, sia che cresca il
tempo eccedente assoluto90, sia che cresca quello relativo.
137
[3. Sviluppo delle contraddizioni interne della legge]
138
tribuirlo non al modo di produzione, ma alla natura (nella teoria
della rendita). L’importante, nel loro horror di fronte alla caduta
del saggio di profitto, è però la sensazione che il modo di produzio-
ne capitalistico nello sviluppo delle forze produttive incontri dei li-
miti99, che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produ-
zione della ricchezza, e questo limite peculiare testimoni la limita-
tezza e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione,
e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto per la pro-
duzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio entra in
conflitto con il proprio sviluppo ulteriore.
(Ricardo ecc. comunque prendono in considerazione soltanto
il profitto industriale (in cui è incluso l’interesse). Ma anche il sag-
gio della rendita [ fondiaria] diminuisce del pari, anche se il suo va-
lore assoluto cresce e se il suo valore può crescere in proporzione
anche rispetto al profitto industriale. (Vedi Edward West, che si è
occupato della legge della rendita fondiaria prima di Ricardo.) pv C
,
cioè p’, il saggio di profitto, diminuisce benché pv e p crescano, ma
tuttavia diminuendo relativamente a C che cresce molto più rapi-
damente (C qui è considerato come capitale complessivo sociale);
non vi è quindi alcuna contraddizione nel fatto che pv = p (p profit-
to industriale) + i (interesse) + r (rendita), quindi pv C =
p+1+r
C
, che
p i r
tutti e 3 i rapporti C , C e C diminuiscano, anche se r cresce rispet-
to a i e p, oppure anche p rispetto a i, ciò che del pari accade. Il rap-
porto tra le parti del pv può cambiare in termini di grandezza rela-
tiva dell’una rispetto alle altre, ma il fatto che cambino le rispettive
proporzioni di p, i e r, gli elementi costitutivi di pv, non può mai far
sì che con ciò il rapporto pv C
diminuisca. Se pv cresce, p, i e r posso-
no crescere anche se pv C
diminuisce, a causa della diminuzione re-
lativa di pv rispetto a C, e in secondo luogo questa diminuzione re-
lativa di pv rispetto a C può essere accompagnata da un mutamen-
to100 nella grandezza relativa di Cp , Ci e Cr , che alternativamente
possono crescere o diminuire l’uno nei confronti dell’altro. Se il
tasso di profitto diminuisce dal 50[%] al 25%, se per es. il capitale101
– con un [saggio del] plusvalore del 100% – muta102 da c50 v50 a c75
v25, allora nel primo caso un capitale di 1000 darà 500 e [nel secon-
do caso] un capitale di 4000 darà 1000. Pv o p è raddoppiato, p’ è
diminuito della metà. E se del 50% di prima 20 è profitto, 10 inte-
p i r
resse, 20 rendita, allora C = 20%, C = 10%, C = 20%. Se nella tra-
139
p
sformazione in 25% le proporzioni restano le stesse, allora C =
i r p i
10%, C = 5% e C = 10%. Se adesso p’ (ossia C ) calasse all’8%, i’ C al
4, allora r’ crescerebbe al 13%. La grandezza relativa di r’ sarebbe
cresciuta rispetto a p’ e i’, ma tuttavia p’ sarebbe rimasto uguale. In
entrambe le ipotesi la somma di p, i e r risulterebbe aumentata, dal
momento che è calcolata su un capitale 4 volte maggiore. D’altron-
de, l’assunto di Ricardo, secondo cui originariamente il profitto in-
dustriale (+ l’interesse) assorbirebbe interamente il plusvalore, è
un’assurdità103, sia dal punto di vista storico che da quello concet-
tuale. È invece il progresso della produzione capitalistica che 1) dà
direttamente ai capitalisti industriali e commerciali l’intero profit-
to per un’ulteriore ripartizione e 2) riduce la rendita all’eccedenza
sul profitto. Su questa base capitalistica torna poi a crescere la ren-
dita che è una parte del profitto (cioè del plusvalore considerato
come prodotto del capitale complessivo), ma non la specifica parte
del profitto che il capitalista intasca[++].
|222| Dati i mezzi di produzione necessari, cioè [adeguata] ac-
cumulazione di capitale, la creazione di plusvalore non trova altro
limite che la popolazione operaia, se è dato il saggio del plusvalore
(il grado di sfruttamento del lavoro), e non trova altro limite che il
grado di sfruttamento del lavoro, se è data la popolazione operaia.
E il processo di produzione capitalistico consiste essenzialmente
nella produzione di plusvalore, rappresentato nel plusprodotto o
nella quota parte delle merci prodotte in cui è materializzato lavoro
non pagato. Non bisogna mai dimenticare che la produzione di
questo plusvalore – e la riconversione di una parte di esso in capi-
tale, ossia l’accumulazione, costituisce parte integrante della pro-
duzione di plusvalore – è lo scopo immediato e il motivo determinan-
te della produzione capitalistica. Perciò questa non va mai rappre-
sentata per quello che non è, ossia come produzione
immediatamente orientata – come se questo fosse il suo scopo – al
godimento o produzione di mezzi di godimento per il capitalista,
che è il produttore, il capo della produzione. In tal modo si astrae
140
del tutto dal suo carattere specifico, che è invece palese in tutta la
sua struttura interna e fondamentale104.
Il conseguimento di questo plusvalore costituisce il processo di
produzione immediato, che, come si è detto, non ha altri limiti che
quelli sopra menzionati. Non appena la quantità di pluslavoro che è
possibile estorcere si sia materializzata in merci, è prodotto il plusva-
lore, la cui massa assoluta è limitata soltanto dal numero di lavorato-
ri a disposizione del capitale. Ma con questa produzione del plusva-
lore è finito soltanto il primo atto del processo capitalistico di produ-
zione, il processo di produzione immediato. Il capitale ha succhiato
una certa quantità di lavoro non pagato. Con ciò il suo processo con il
lavoro vivo – e questo forma il processo di produzione immediato –
è terminato. Con lo sviluppo del processo che si esprime nella cadu-
ta del saggio di profitto, la massa del plusvalore così prodotto si gon-
fia a dismisura e a questo punto l’intera massa delle merci, il prodot-
to totale105, tanto la parte che rimpiazza il capitale costante e il capita-
le variabile, tanto quella che rappresenta il plusvalore, deve essere
venduta. Se questo non avviene, o avviene solo in parte o a prezzi in-
feriori ai prezzi di produzione, il lavoratore è bensì sfruttato, ma il
suo sfruttamento non si realizza come tale per il capitalista, può es-
sere legato a una perdita totale o parziale del suo capitale o a una solo
parziale realizzazione del plusvalore estorto. Le condizioni dello
sfruttamento immediato e della sua realizzazione non coincidono.
Sono separate tra loro non soltanto nel tempo e nello spazio, ma
anche dal punto di vista concettuale. Le une sono limitate soltanto
dalla forza produttiva della società; le altre dalla proporzionalità dei
diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo106 della società.
Ma quest’ultima poi non è determinata della forza produttiva asso-
luta né dalla capacità di consumo107 assoluta; è determinata invece
dalla capacità di consumo sulla base di rapporti di distribuzione anta-
gonistici, che costringe la grande base della società a un consumo
minimo – entro confini più o meno stretti. È inoltre limitata dalla
spinta all’accumulazione, dall’impulso all’aumento del capitale e
alla produzione di plusvalore su scala allargata. Questa, per la pro-
duzione capitalistica, è una legge data dai continui rivoluzionamen-
ti degli stessi metodi di produzione, dalla connessa continua svalo-
rizzazione108 del capitale esistente, dalla generale lotta di concorren-
za, e dalla necessità vitale109 di migliorare la produzione e di
ampliarne la scala, anche solo come mezzo di conservazione. Perciò
141
il mercato deve essere ampliato continuamente, cosicché i suoi
nessi assumono sempre più la forma di una legge di natura indi-
pendente dai produttori, divengono incontrollabili. L’interno anta-
gonismo110 cerca una compensazione nell’estensione del campo
esterno della produzione. Ma quanto più si sviluppa la forza produt-
tiva, tanto più essa entra in contraddizione con la base ristretta su
cui poggiano i rapporti di consumo. Su questa base contraddittoria
non vi è niente di contraddittorio nel fatto che l’eccesso di capitale111
sia connesso a una crescente sovrappopolazione112 relativa; infatti,
benché la combinazione di entrambe farebbe crescere la massa del
plusvalore prodotto, con ciò stesso crescerebbe anche la contraddi-
zione tra le condizioni alle quali questo plusvalore viene prodotto e
le condizioni alle quali esso viene realizzato.
| 223| Dato un determinato saggio di profitto, il gross profit, la
massa del profitto dipende sempre dalla grandezza del capitale an-
ticipato. Ma l’accumulazione è allora determinata dalla parte di
questa massa che viene riconvertita in capitale. Però questa parte,
essendo = profitto lordo meno il reddito113 consumato dal capitali-
sta, non dipenderà soltanto dal valore di questa massa, bensì dal
buon prezzo delle merci che il capitalista può acquistare con essa;
in parte dal prezzo a buon mercato delle merci che entrano nel suo
consumo, nel suo reddito, in parte dal prezzo a buon mercato delle
merci, che entrano nel capitale costante. Il salario è qui presuppo-
sto come dato, al pari del saggio di profitto.
La massa del capitale che il lavoratore mette in movimento, e il
cui valore egli con il suo lavoro conserva e riproduce, è assoluta-
mente diversa dal valore che egli aggiunge – il plusvalore114. Se la
massa del capitale è = 1000 e il lavoro aggiunto =100, allora il capi-
tale riprodotto è = 1100. Se la massa è = 100 e il lavoro aggiunto =
20, allora il capitale riprodotto è = 120. Il saggio di profitto nel
primo caso è = 10%, nel secondo = 20%. Tuttavia a partire da 100
si può accumulare di più che a partire da 20. E così la corrente del
capitale (prescindendo dalla sua svalutazione a seguito dell’au-
mento della forza produttiva), ovvero la sua accumulazione, avan-
za impetuosa – in proporzione all’impeto che già possiede, e non
al livello del saggio di profitto. Un elevato saggio di profitto, in
quanto poggi su un elevato saggio del plusvalore, è possibile:
quando si lavora molto a lungo, benché il lavoro sia improduttivo.
È possibile poiché i bisogni dei lavoratori – e quindi i salari medi115
142
– sono molto modesti, benché il lavoro sia improduttivo. Alla mi-
seria del minimo [salariale] corrisponderà la mancanza di energia
dei lavoratori. In entrambi i casi il capitale [si] accumula lentamen-
te, nonostante l’elevato saggio di profitto. La popolazione è sta-
gnante e il tempo di lavoro che il prodotto costa sarà notevole,
anche se il salario che viene pagato al lavoratore è modesto.
Il saggio di profitto cade non perché l’operaio sia sfruttato
meno, ma perché in generale viene impiegato meno lavoro in pro-
porzione al capitale impiegato.
Se un capitale di 1000 = C500 V500, e pv’ = 50%, allora pv = 250 e
p’ = 25%.
Se un capitale di 1000 = C750 V250, e pv’ = 50%, allora pv = 125 e p’
= 12 1/2%. Ma nel secondo caso il lavoro vivo impiegato, confron-
tato con il primo [è inferiore]; se supponiamo che il salario per 1 la-
voratore = 25 £ per anno – nel primo caso 500 £ = 20 lavoratori; nel
secondo caso il salario = 250 £ = 10 lavoratori. Lo stesso capitale
impiega 20 lavoratori nel primo caso e soltanto 10 nell’altro. Nel
primo caso il rapporto tra la massa del capitale e il numero dei
giorni di lavoro è = 1000 : 20, nel secondo è = 1000 : 10. A ciascu-
no dei 20 lavoratori tocca nel primo caso un capitale impiegato
(costante e variabile) di 50 £ (poiché 20 ! 50 = 2 ! 500 = 1000). Nel
secondo caso a ciascun lavoratore un capitale impiegato = 100 £
(poiché 100 ! 10 = 1000). Tuttavia in entrambi i casi la quota116 del
capitale che si risolve in salari117 per il singolo lavoratore è la stessa.
‹ È la stessa cosa se dico che per 1 lavoratore il capitale impiega-
to è = 50, in un caso, e 100 C nell’altro, e quindi per 1/2 lavoratore
soltanto è 50 di capitale; o se dico che in un caso tocca 50 C a 1 lavo-
ratore e nell’altro 50 x 2 = 100 C a 1 lavoratore ›
Se, come si è mostrato, un saggio di profitto in diminuzione
coincide con una massa del profitto in aumento (perché l’accumu-
lazione del capitale è più veloce della caduta del saggio di profit-
to)118, allora dal capitalista viene appropriata una parte maggiore
del prodotto annuo del lavoro sotto la categoria di capitale, e una
parte relativamente più piccola sotto la categoria di profitto. Da qui
la fantasticheria del prete Chalmers, per cui la quantità di profitto
inghiottita dal capitalista sarebbe tanto maggiore, ||224| quanto
minore la massa del prodotto annuo da esso speso come capitale;
dopodiché la chiesa di Stato119 li aiuta a provvedere al consumo –
anziché alla capitalizzazione – di una grossa parte del plusprodot-
115. average wages
116. Prorata quicker than the fall in the rate of profit
117. wages 119. established church [cioè la chiesa angli-
118. because the accumulation of capital cana]
143
to120. Il prete maledetto confonde causa ed effetto. D’altronde, la
massa del profitto cresce, [anche] a saggio più basso, con la gran-
dezza del capitale anticipato. Cresce inoltre la quantità dei valori
d’uso che rappresenta questa minore proporzione. Questo tutta-
via determina al tempo stesso una centralizzazione del capitale,
poiché adesso le condizioni di produzione richiedono l’utilizzo di
grandi masse di capitale121. Ciò fa sì che i piccoli capitalisti siano
mangiati da quelli più grandi, e determina la «decapitalizzazione»
dei primi. Si tratta ancora una volta, ma alla seconda potenza, della
separazione delle condizioni di lavoro dai produttori (che presso i
capitalisti più piccoli significa ancora lavoro in prima persona122; il
lavoro del capitalista in generale sta in una proporzione inversa ri-
spetto alla grandezza del suo capitale, cioè rispetto al grado123 in cui
egli è capitalista. Questo processo condurrebbe presto la produ-
zione capitalistica alla sua fine124 se accanto alla forza centripeta
tendenze contrastanti125 non agissero sempre di nuovo in senso
contrario alla centralizzazione dei capitali126); e tale separazione
costituisce il concetto del capitale e dell’accumulazione originaria,
che in seguito si manifesta come processo continuo nell’accumula-
zione del capitale e che qui infine si esprime come centralizzazio-
ne in poche mani di capitali già esistenti e decapitalizzazione di molti
(in ciò si trasforma ora l’espropriazione).
‹Accumulazione originaria del capitale = Include la centralizza-
zione delle condizioni di lavoro. È autonomizzazione delle condi-
zioni di lavoro rispetto ai lavoratori e al lavoro stesso. Sua azione127
storica = atto di nascita storico del capitale. Il processo storico di
separazione, che trasforma le condizioni di lavoro in capitale e il
lavoro in lavoro salariato. Con ciò è data la base della produzione
capitalistica.
Accumulazione del capitale sulla base del capitale stesso, pre-
suppone quindi i rapporti di capitale e lavoro salariato. Riproduce
su scala sempre più ampia la separazione e autonomizzazione
della ricchezza oggettuale128 rispetto al lavoro.
Concentrazione dei capitali. Accumulazione dei grandi capitali
attraverso la distruzione dei capitali più piccoli. Attrazione. Deca-
pitalizzazione = dissoluzione dei nessi intermedi129 tra capitale e
lavoro. È soltanto l’ultimo grado e forma del processo, che [prima]
trasforma le condizioni di lavoro in capitale, in seguito moltiplica
144
e riproduce su scala allargata il capitale, infine separa i capitali co-
stituiti in molti punti della società dai loro proprietari e li centraliz-
za nelle mani dei capitalisti maggiori. Con questa forma estrema
di opposizione, la produzione diventa sociale, sia pure in forma
estraniata. Lavoro sociale e comunanza degli strumenti di produ-
zione nel processo di produzione reale. I capitalisti, in quanto fun-
zionari del processo che accelera questa produzione sociale e con
ciò al tempo stesso lo sviluppo delle forze produttive, diventano
superflui nella misura stessa in cui sono usufruttuari per procura
della società130 e si danno arie da proprietari di questa ricchezza so-
ciale e comandanti131 del lavoro sociale. Accade a loro come ai signo-
ri feudali, le cui prerogative, nella misura in cui col sorgere della
società borghese le loro funzioni erano divenute superflue, si tra-
sformarono in meri privilegi anacronistici e inopportuni e ne ac-
celerarono la fine. ›
|225|132 La legge secondo cui la caduta del saggio di profitto provo-
cata dallo sviluppo della forza produttiva è accompagnata da una
crescita nella massa del profitto si esprime nel fatto che la caduta del
prezzo delle merci prodotte dal capitale è accompagnata da una
crescita delle masse di profitto in esse contenute e realizzate attra-
verso la loro vendita.
Poiché lo sviluppo della forza produttiva e la più elevata compo-
sizione del capitale a essa corrispondente mettono in movimento
una maggiore quantità di mezzi di produzione attraverso una mi-
nore quantità di lavoro, ogni quota parte del prodotto complessivo,
ogni singola merce o ogni singola quantità determinata della massa
complessiva prodotta assorbono meno lavoro vivo, e allo stesso
modo l’usura133 del capitale fisso impiegato contiene meno lavoro
oggettivato ‹ del mezzo di lavoro e del lavoro vivo che sostituisce (al
cui posto subentra) sommati.› La singola merce contiene perciò
una somma minore di lavoro oggettivato e di lavoro vivente aggiun-
to ex novo134. Pertanto il prezzo della singola merce diminuisce. La
massa di profitto che è contenuta nella singola merce può crescere
se aumenta il saggio del plusvalore, assoluto o relativo. Essa contie-
ne meno lavoro aggiunto ex novo, ma la parte non pagata di esso
cresce rispetto a quella pagata. Tuttavia ciò accade entro certi limiti,
e con la diminuzione assoluta della somma del lavoro vivo aggiunto
ex novo – diminuzione cresciuta enormemente nel corso dello svi-
145
luppo della produzione –, anche la massa assoluta della parte non
pagata di questo lavoro, il pluslavoro in esso contenuto, è destinata
a diminuire, per quanto abbia potuto crescere in termini relativi,
ossia in rapporto alla parte pagata del lavoro. La massa di profitto su
ogni singola merce diminuisce molto con lo sviluppo della forza
produttiva del lavoro, e allo stesso modo la caduta del saggio di pro-
fitto, nonostante la crescita del saggio del plusvalore, può essere
soltanto rallentata dalla diminuzione di prezzo degli elementi del
capitale costante e dagli altri motivi addotti nel capitolo I di questo
libro135, che aumentano il saggio di profitto in presenza di un saggio
del plusvalore dato e anche calante.
Il fatto che il prezzo delle singole merci della cui somma è com-
posto il prodotto complessivo del capitale diminuisca, significa
soltanto che una determinata quantità di lavoro si realizza in una
maggiore massa di merci, e quindi che ogni singola merce ne con-
tiene una quantità inferiore. Così avviene anche se il prezzo di una
delle parti del capitale costante, materie prime, ecc., aumenta. A
eccezione di singoli casi (ad es. quando la forza produttiva del lavo-
ro rende uniformemente meno costosi tutti gli elementi del capitale
costante e di quello variabile), il saggio di profitto calerà, nonostan-
te l’accresciuto saggio del plusvalore, 1) perché anche una maggio-
re parte non pagata della minore somma complessiva del lavoro
aggiunto ex novo è più piccola di quanto non fosse una minore
quota di lavoro non pagato della maggiore somma complessiva del
lavoro aggiunto ex novo, 2) perché nella singola merce la più eleva-
ta composizione del capitale si esprime nella diminuzione della
parte di valore in cui in generale si presenta il lavoro aggiunto ex
novo rispetto alla parte di valore che si presenta in materie prime,
materie ausiliarie e usura del capitale fisso. Questo cambiamento
(variazione) nella proporzione dei diversi elementi del prezzo
della singola merce, la diminuzione della parte del prezzo in cui si
presenta il lavoro vivo aggiunto ex novo e l’aumento delle parti del
prezzo in cui si presenta lavoro precedentemente oggettivato – è la
forma in cui si esprime nella singola merce la diminuzione del ca-
pitale variabile rispetto a quello costante, [diminuzione] che, presa
per una data quantità di capitale, supponiamo ad es. 100, è assolu-
ta, ed è assoluta per ogni singola merce – intesa come quota parte
in cui si presenta il capitale riprodotto. Tuttavia il saggio di profit-
to, calcolato in base agli elementi di prezzo e quindi dal punto di
vista della singola merce, si presenterebbe più elevato di quanto in
realtà non sia136. Infatti nella singola merce ||226| il capitale costan-
146
te figura soltanto come usura137: non [ figura cioè] la parte impiega-
ta di esso, ma soltanto quella consumata. E la somma delle merci
prodotte contiene soltanto la somma dell’usura del capitale co-
stante in esse contenuta. ‹ Se si definisce tale usura, intesa come la
parte per cui il valore del capitale costante si è ridotto (o che è en-
trato nel prodotto), ∆C, per distinguerla da C, che è pari a ∆C + la
parte di C impiegata nel processo di produzione ma non consu-
mata (C – ∆C = C’), l’effettivo saggio di profitto si presenta come
pv pv pv
∆C + C’ + V e quindi = ∆C + c’ + v = C (C essendo il capitale com-
plessivo (costante e variabile) anticipato)138, mentre esso, ove si
considerassero soltanto la massa delle merci e i loro prezzi, si pre-
senterebbe come ∆c + v o come C - c’ .›
pv pv
147
massa di profitto può soltanto essere pari alla massa di profitto o di
plusvalore contenuta nella massa delle merci e da realizzare attra-
verso la loro vendita.
Se la produttività dell’industria aumenta, il prezzo della merce
singola cade. In essa è contenuto meno lavoro, meno [lavoro] pa-
gato e non pagato. Lo stesso lavoro produce ad es. un prodotto 3
volte maggiore; perciò a ogni singolo prodotto spettano 2/3 di lavo-
ro in meno. E poiché la massa di profitto può costituire soltanto
una parte di questa massa di lavoro contenuta nella singola merce,
la massa di profitto per singola merce deve diminuire (anche se il
saggio del plusvalore aumenta. E questo in realtà accade, come si è
osservato sopra, entro certi limiti143). In ogni caso la massa di profit-
to sulla somma delle merci singole o sul prodotto complessivo non
cadrà al di sotto della massa di profitto originaria, fintantoché il ca-
pitale impieghi la stessa massa di lavoratori di prima (lo stesso può
accadere anche se vengono impiegati meno lavoratori, ma con
giornate lavorative prolungate e con un maggiore pluslavoro.) In-
fatti, nella stessa proporzione in cui diminuisce la massa di profit-
to sul singolo prodotto, crescerà il numero dei prodotti. La massa
di profitto resta la stessa, fintantoché il saggio di sfruttamento resta
lo stesso e viene occupata la stessa massa di lavoratori, per quanto
questa massa si ripartisca entro la massa delle merci (somma delle
merci); ciò non cambia nulla né per quanto riguarda la massa, né
per quanto riguarda la ripartizione di questa massa tra lavoratore e
capitalista. La massa di profitto può aumentare soltanto se la stes-
sa massa di lavoro viene impiegata in presenza di un’aumentata
grandezza relativa del pluslavoro (cosicché a massa del lavoro in-
variato la parte non pagata di essa aumenti; la qual cosa può sino a
un certo punto144 mantenere costante o addirittura far aumentare
la massa del pluslavoro anche con una massa del lavoro comples-
sivo calante in termini assoluti), oppure se – a grado di sfrutta-
mento invariato – aumenta il numero dei lavoratori impiegati. O
per il combinarsi di entrambi i fattori145. In tutti questi casi – che
però come da premessa ||227| presuppongono il crescere del capi-
tale costante rispetto a quello variabile e una grandezza crescente
del capitale complessivo impiegato – la singola merce contiene
una massa di profitto minore (e il saggio di profitto cala, anche se
calcolato soltanto sulla merce stessa); una data quantità di lavoro
vivo addizionale si presenta in una maggiore quantità di merci; il
prezzo della singola merce cala, al pari della massa di profitto in essa
148
contenuta. {In astratto, il saggio di profitto può restare lo stesso
anche con la diminuzione del prezzo della singola merce, in segui-
to all’aumentata forza produttiva del lavoro e quindi al contempo-
raneo aumento del numero di queste merci a minor prezzo146, ad
es. qualora l’aumento della produttività del lavoro agisca in modo
uniforme e contemporaneamente su tutte le parti costitutive147 delle
merci – cosicché il prezzo complessivo della merce diminuisca in
modo proporzionale all’aumentare della produttività del lavoro – e
d’altra parte il rapporto tra le diverse parti costitutive del prezzo
della merce resti lo stesso (costante); [il saggio di profitto può] cade-
re, come abbiamo visto sinora, [e potrebbe] crescere, nel caso in cui
all’aumento del saggio del plusvalore si unisse un significativo de-
prezzamento dei componenti costanti del capitale148}.
(Se si considera soltanto il prezzo delle singole merci per sé prese
o ci si limita a misurare il lavoro rispetto alla quantità di merce da
esso prodotta149, l’indagine andrà sempre storta. Tutto dipende
dalla grandezza della somma complessiva del capitale anticipato.
Si analizzi il prezzo di una singola merce, ad es. se il prezzo di un
cubito [di tessuto] cade da 3 sc. a 1 2/3; se si sa che 1 sc. = filo ecc., 1/3
sc. = salario, e 1/3 sc. = profitto, con questo non si sa se la massa di
profitto complessiva sia rimasta invariata oppure no. Questo di-
pende dall’incremento della grandezza del capitale anticipato o dal
suo rimanere invariato).
Il fenomeno, derivante dalla natura del modo di produzione ca-
pitalistico, per cui, con l’aumentare della forza produttiva del lavo-
ro, il prezzo della singola merce o di una data quantità di merci
cala, il numero delle merci aumenta, la massa di profitto sulla sin-
gola merce e il saggio di profitto su di essa in generale cala, ma la
massa di profitto sulla somma complessiva delle merci cresce, –
questo fenomeno apparentemente significa soltanto: diminuzio-
ne della massa di profitto sulla singola merce, diminuzione del
suo prezzo, crescita della massa di profitto sull’aumentato nume-
ro complessivo delle merci che il capitale sociale150 – o anche il sin-
golo capitalista per sé considerato – producono. Questo viene inte-
so nel senso che il capitalista, a suo piacimento, gravi la merce sin-
gola di un minore profitto, ma sia risarcito attraverso l’accresciuto
numero delle merci che produce. Questa concezione151 si fonda
sull’idea152 del «profitto da alienazione»153; che è a sua volta ricavata
149
per astrazione dal modo di intendere il capitale del commerciante o
del capitale commerciale154.
Si è visto precedentemente, nel Libro I, cap. VI155, che la massa
di merci che cresce assieme alla forza produttiva del lavoro, come
pure la diminuzione di prezzo della singola merce, non incidono
in quanto tali (fintantoché le merci non entrino in misura deter-
minante nel prezzo della forza lavoro156) sulla proporzione di lavoro
non pagato e lavoro pagato all’interno della singola merce, nono-
stante il calo del prezzo di essa.
Poiché nella concorrenza tutto si presenta in modo falso, e cioè
capovolto, il singolo capitalista può immaginarsi:
1) di ridurre il proprio profitto sulla singola merce riducendone
il prezzo, ma di fare un profitto maggiore a causa della maggiore
massa di merci che vende (qui tra l’altro egli equivoca sulla maggio-
re massa di profitto che proviene dall’aumento del capitale impie-
gato anche a saggio di profitto inferiore);
2) di fissare il prezzo della merce singola e di ottenere per mol-
tiplicazione il prezzo del prodotto complessivo; mentre il processo
originario è quello di una divisione (vedi Libro I, cap. VI), e la mol-
tiplicazione è corretta solo in seconda istanza, ossia sul presuppo-
sto di quella divisione. In realtà l’economista volgare non fa altro
che tradurre le strane idee157 del capitalista impegnato nella con-
correnza in un linguaggio apparentemente più teorico e genera-
lizzante, e si ingegna a dimostrare la correttezza di quelle idee.
In realtà la diminuzione dei prezzi delle merci e la crescita della
massa di profitto sulla massa accresciuta delle merci divenute
meno care è soltanto un’altra espressione della legge [qui] svilup-
pata della caduta del saggio di profitto, accompagnata da una cresci-
ta della massa del profitto. {Perciò questo punto sui prezzi delle
merci può essere collocato anche subito dopo lo sviluppo di tale
legge, come una mera diversa sua forma di espressione.}
Ricercare fino a che punto un saggio di profitto calante possa
152. Vorstellung Manuskript 1863-1865, MEGA II/4.1.; Ri-
153. «Profit upon alienation» sultati del processo di produzione immedia-
154. Kaufmanns- oder Handelscapitals to, tr. it. di M. Di Lisa, prefazione di N. Ba-
155. [Il riferimento è al capitolo VI del I daloni, Editori Riuniti, Roma 1984]
libro del Capitale, non incluso da Marx 156. Arbeitsvermögen [letteralmente: «fa-
nell’edizione a stampa del I libro del Capi- coltà di lavoro». Nei testi marxiani questo
tale e rimasto inedito sino al 1933. Nel- termine sarà progressivamente sostituito
l’ediz. del III libro curata da Engels il rife- da Arbeitskraft, «forza-lavoro». Al riguar-
rimento è sostituito da quelli alla IV e VII do si veda W. Wygodski, Der Platz des Ms.
sezione del I libro (vedi in particolare «Lohn, Preis und Profit» im ökonomischen
MEW 23.337 = ER 1.356). Per il Capitolo Nachlass von K. Marx, in «Marx-Engels-Ja-
VI inedito si veda K. Marx, Resultate des hrbuch», vol. 6 (1983), pp. 211-227]
unmittelbaren Produktionsprozesses, in 157. queer notions
150
coincidere con prezzi in aumento è tanto poco pertinente qui quan-
to ciò che è stato trattato in precedenza a proposito del plusvalore
relativo. Il capitalista, che impiega metodi di produzione perfezio-
nati, vende al di sotto del prezzo di mercato, ma al di sopra del pro-
prio ||228| prezzo individuale di produzione (così per lui il saggio di
profitto cresce fino a quando la concorrenza non lo ha riportato su
un livello medio158; nel periodo di tempo in cui ha luogo questo livel-
lamento viene a emergere al tempo stesso il secondo requisito, la
crescita del capitale anticipato. Se quindi all’inizio il capitale non
fosse abbastanza grande per occupare l’intera massa precedente
dei lavoratori o una massa superiore alle nuove condizioni, se quin-
di in altre parole il capitale complessivo non fosse cresciuto a suffi-
cienza per generare questa massa di profitto o una più elevata, que-
sto tuttavia accade per i motivi che abbiamo indicato159.
158. ausgeglichen
159. [Qui termina la parte del manoscritto vedi MEW 25.257 sgg. = ER 3.1.299 sgg.]
anticipata da Engels alla fine del cap. 13 160. Arbeitsvermögens [in questo caso si è
(cfr. MEW 25.241 = ER 3.1.281). Riprende preferito tradurre «capacità di lavoro»,
quindi quella collocata al cap. 15, sotto il ti- perché il termine «forza lavoro» (Arbeit-
tolo redazionale de II. Conflitto tra esten- skraft) ricorre poco dopo nel testo in una
sione della produzione e valorizzazione: diversa accezione]
151
plusvalore
svalore, il saggio di profitto = capitale complessivo anticipato . Però il plu-
svalore, come importo complessivo, è determinato in primo luogo
dal suo saggio, in secondo luogo dalla massa del lavoro contempora-
neamente impiegato a questo saggio, ovvero, il che è la stessa cosa,
dalla grandezza del capitale variabile. Per un verso cresce il saggio
del plusvalore, per l’altro diminuisce (relativamente o in termini as-
soluti) il fattore del numero [di lavoratori] per il quale questo saggio
è moltiplicato. Lo sviluppo delle forze produttive, nella misura in cui
riduce la parte pagata del lavoro impiegato, accresce il plusvalore,
poiché [ne aumenta] il saggio; in quanto però riduce la massa com-
plessiva del lavoro impiegato da un dato capitale, riduce il fattore del
numero per cui il saggio è moltiplicato, quindi la sua massa. Il plu-
svalore è determinato tanto dal saggio in cui è espresso il rapporto
tra pluslavoro e lavoro necessario, quanto dal numero delle giornate
lavorative impiegate. Quest’ultimo [ fattore] però con lo sviluppo
delle forze produttive diminuisce in termini relativi rispetto al capi-
tale anticipato. Due lavoratori non possono fornire la stessa massa di
plusvalore di 24, ognuno dei quali lavori soltanto 2 ore, anche se i
primi potessero vivere d’aria e quindi non dovessero affatto lavorare
per se stessi. La sostituzione del numero di lavoratori attraverso l’ac-
crescimento del grado di sfruttamento dei lavoratori stessi ha perciò
dei limiti161 invalicabili, e quindi può frenare, rallentare la caduta del
saggio di profitto, ma non eliminarla.
Si è visto che con lo sviluppo del modo di produzione capitalisti-
co il saggio del profitto cade, per contro la massa di profitto cresce
con la massa crescente del capitale in funzione162. Dato il saggio, la
grandezza assoluta a cui cresce il capitale, la crescita assoluta del ca-
pitale dipende dalla sua grandezza esistente. Ma d’altra parte, data
questa grandezza, la proporzione 163 in cui cresce, la sua crescita pro-
porzionale, il saggio della sua crescita dipende dal saggio di profitto.
||229| Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro (che d’altra parte,
come si è accennato in precedenza, va sempre di pari passo con la
svalorizzazione164 del capitale esistente) può accrescere direttamente
la massa di valore del capitale, e quindi contribuire ad accrescere il va-
lore di scambio del capitale esistente, solo in quanto elevando il saggio di
profitto accresce la parte del valore165 del prodotto annuo che viene ricon-
vertita in capitale. Tenendo conto della forza produttiva del lavoro, ciò
può accadere (poiché questa forza produttiva in quanto tale non ha
nulla a che fare col valore del capitale esistente) solo in quanto attra-
161. Grenzen
162. functionirenden 164. Depreciation
163. Verhältnis 165. Werththeil
152
verso di essa sia elevato il plusvalore relativo o sia diminuito il valore
del capitale costante, e quindi le merci che intervengono nella ripro-
duzione della capacità di lavoro o nella composizione del capitale co-
stante divengano meno care. Entrambi i casi implicano però la svalo-
rizzazione del capitale esistente ed entrambi procedono di pari
passo con la diminuzione del capitale variabile rispetto a quello co-
stante. Entrambi determinano la caduta del saggio di profitto e la ral-
lentano. Inoltre, in quanto un saggio di profitto [in movimento] acce-
lerato provoca166 un’accresciuta domanda di lavoro, esso dà impul-
so167 all’aumento della popolazione (o all’assorbimento della
sovrappopolazione) e quindi della materia da sfruttare168 – la quanti-
tà di lavoro – da cui è costituito il valore del capitale.
Ma lo sviluppo della forza produttiva del lavoro agisce indiretta-
mente, in quanto aumenta la massa e la molteplicità dei valori
d’uso, nei quali si presenta lo stesso valore di scambio e che forma-
no il sostrato materiale, la materia prima169 del capitale, gli ingre-
dienti materiali di cui sono composte entrambe le parti costitutive
del capitale, variabile e costante. Con lo stesso capitale e lo stesso
lavoro vengono creati più elementi che possono venire trasforma-
ti in capitale, a prescindere dal loro valore di scambio, e che perciò
possono servire ad assorbire lavoro aggiuntivo, quindi pluslavoro,
e perciò a creare capitale addizionale170. La massa di lavoro che il
capitale può comandare non dipende dal suo valore, ma dalla
massa delle materie prime, materie ausiliarie, macchinari, capita-
le fisso in tutte le forme171, mezzi di sussistenza, di cui è composto,
quale che sia il loro valore. Mentre in tal modo cresce la massa del
lavoro impiegato, [lavoro] necessario e pluslavoro, cresce anche il
valore del capitale riprodotto e il suo plusvalore172 (l’incentivo173 pre-
cedentemente considerato all[’aumento dell]a popolazione opera-
ia procede di pari passo con ciò).
Questi due momenti insiti nel processo di accumulazione non
debbono essere considerati soltanto nel loro tranquillo coesistere,
come fa Ricardo; essi contengono una contraddizione, che si
esprime in tendenze e fenomeni contraddittori.
Sono in gioco contemporaneamente fattori174 contraddittori.
Contemporaneamente agli impulsi175 a un aumento effettivo
della popolazione operaia con l’aumento delle parti della produ-
153
zione annua che agiscono come capitali, agiscono i fattori che ge-
nerano una sovrappopolazione relativa.
Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto cresce
la massa dei capitali e ha luogo di pari passo una svalorizzazione176
del capitale esistente, che frena la caduta del saggio di profitto e dà
un impulso accelerato all’accumulazione di valore capitale177.
|230| Contemporaneamente allo sviluppo della forza produttiva
procede la più elevata composizione del capitale, la diminuzione
relativa della sua parte variabile rispetto alla sua [parte] costante.
Questi diversi fattori178 si fanno valere ora l’uno accanto all’altro
nello spazio, ora in una successione temporale, e periodicamente
il conflitto tra i fattori in contrasto trova sfogo nelle crisi. Le crisi
sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle con-
traddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire
l’equilibrio turbato.
La contraddizione, esposta in termini del tutto generali, consiste
in questo, che il modo di produzione capitalistico porta con sé una
tendenza179 allo sviluppo assoluto delle forze produttive, a prescin-
dere dal valore di scambio180 e dal plusvalore (profitto) in esso conte-
nuto, a prescindere dai rapporti sociali entro cui la produzione capi-
talistica ha luogo, mentre essa d’altra parte tende alla conservazione
del valore di scambio attuale del capitale esistente181 e la sua valoriz-
zazione nella massima misura possibile (cioè alla crescita accelera-
ta di questo valore di scambio). Il suo carattere specifico è rivolto al
valore di scambio del capitale esistente182 e alla massima crescita
possibile di questo valore. I metodi con cui essa consegue questo
[obiettivo] comprendono la diminuzione del saggio di profitto, la
svalorizzazione183 del capitale esistente e lo sviluppo delle forze pro-
duttive del lavoro a scapito delle forze produttive già prodotte.
La svalorizzazione periodica del capitale esistente, che è un
mezzo immanente al modo di produzione capitalistico per frena-
re la caduta del saggio di profitto e per accelerare l’accumulazione
di valore capitale e la creazione di nuovo capitale, turba i rapporti
dati in cui si compie il processo di circolazione e di riproduzione
del capitale ed è quindi accompagnata da improvvise interruzio-
ni184 e crisi del processo di produzione.
Lo sviluppo delle forze produttive che procede di pari passo con
176. Depreciation
177. Capitalwerth Kapitalwerts]
178. Einflüsse 182. auf den Tauschwerth des vorhandnen
179. Streben Capitals [Engels: auf den vorhandnen Kapi-
180. Tauschwerth [Engels: Wert] talwert]
181. des vorhandnen Tauschwerts des existi- 183. Depreciation
renden Capitals [Engels: des existierenden 184. Stockungen
154
la diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello co-
stante, dà impulso185 all’aumento della popolazione operaia, men-
tre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale. L’accumu-
lazione del capitale, dal punto di vista del valore, riceve uno shock
(colpisce se stessa186 con la caduta del saggio di profitto) al fine di
accelerare l’accumulazione di valore d’uso, mentre questa a sua
volta rimette in moto accelerato l’accumulazione del valore.
La produzione capitalistica cerca continuamente di superare i
suoi limiti immanenti, ma li supera soltanto con mezzi che li ri-
producono di nuovo e su più vasta scala.
Il vero limite187 della produzione capitalistica è il capitale stesso,
è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come
punto di partenza e punto di arrivo, come fine della produzione; è
il fatto che la produzione è produzione per il capitale e che i mezzi
di produzione non sono invece semplici mezzi per ampliare e for-
mare il processo di vita per la società che i produttori costituiscono.
I confini188 entro i quali può muoversi la conservazione e valorizza-
zione dei valori-capitale189, la cui base è costituita dall’impoveri-
mento e dall’espropriazione della grande massa dei produttori, en-
trano perciò continuamente in contraddizione con i metodi di pro-
duzione che il capitale deve impiegare per i suoi scopi, e che
mirano all’incremento illimitato della produzione, alla produzione
come fine a se stessa, allo sviluppo incondizionato delle forze pro-
duttive sociali del lavoro. Il mezzo, lo sviluppo incondizionato
delle forze produttive del lavoro sociale, entra continuamente in
conflitto con il fine limitato della valorizzazione del capitale esi-
stente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo
storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mer-
cato mondiale a essa corrispondente, esso è al tempo stesso la con-
tinua contraddizione fra questa sua missione storica e i rapporti
sociali di produzione che gli corrispondono.
155
temporaneamente cresce la concentrazione poiché, entro certi li-
miti191, un grande capitale con un piccolo saggio di profitto accumu-
la più rapidamente di uno piccolo con un grande saggio di profitto.
Questa crescente concentrazione torna a sua volta a provocare, a un
certo livello, una nuova caduta del saggio di profitto. La massa dei
piccoli capitali dispersi perciò va all’avventura192, [e abbiamo] specu-
lazione, frodi creditizie, frodi azionarie, crisi. La cosiddetta pletora
di capitale si riferisce sempre essenzialmente alla pletora di [quel]
capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è controbi-
lanciata dalla sua massa, (ed è sempre questo il caso per i capitali
freschi, di nuova formazione193 che si creano) oppure alla pletora
che la disponibilità di capitali di per sé incapaci di operare autono-
mamente pone a disposizione dei dirigenti dei grandi rami di affa-
ri (sotto forma di credito). Questa pletora di capitale deriva dalle
stesse circostanze che danno impulso a una sovrappopolazione re-
lativa ed è quindi un fenomeno complementare a quest’ultima,
benché esse si trovino su poli opposti, da una parte capitale inope-
roso194 e dall’altra popolazione operaia disoccupata195.
Sovrapproduzione di capitale (= pletora di capitale), e non di sin-
gole merci, (anche se la sovrapproduzione di capitale implica sem-
pre sovrapproduzione di merci) tuttavia ancora una volta altro non
significa che sovraccumulazione di capitale. Per intendere cosa sia
questa sovrapproduzione non si ha che da supporla come assoluta
{la sua analisi ulteriore pertiene alla considerazione del moto feno-
menico196 del capitale, dove vengono ulteriormente sviluppati il ca-
pitale [produttivo] d’interesse ecc., il credito ecc.}. Quando si
avrebbe la sovrapproduzione assoluta di capitale? E cioè una so-
vrapproduzione che non si estendesse a questo, a quello o a un
paio di settori importanti della produzione, ma fosse essa stessa
assoluta nella sua estensione197, e quindi includesse il complesso
dei settori della produzione?
Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale non appe-
na il capitale addizionale per lo scopo della produzione capitalisti-
ca fosse = 0. Ma lo scopo della produzione capitalistica è la valoriz-
zazione del capitale, cioè produzione di plusvalore, di profitto, ap-
propriazione di pluslavoro. Non appena quindi l’aumentato capitale
fosse cresciuto, rispetto alla popolazione operaia, in una propor-
156
zione tale che non si potesse né prolungare il tempo assoluto di la-
voro fornito da questa popolazione, né il tempo di pluslavoro rela-
tivo198 (cosa, quest’ultima, comunque assolutamente non pratica-
bile ove la domanda di lavoro fosse così grande [da determinare]
una tendenza alla crescita dei salari), e quindi l’accresciuto capitale
producesse solo altrettanto o addirittura minore plusvalore di quan-
to ne produceva prima della sua crescita (parliamo qui della massa
assoluta, non del saggio di profitto), in tal caso avrebbe luogo una
sovrapproduzione assoluta di capitale. Cioè l’originario C + ∆C pro-
durrebbe soltanto P (questo essendo la somma del profitto prodot-
to da C) o addirittura P – !. In entrambi i casi, avrebbe luogo anche
una forte e improvvisa caduta del saggio generale di profitto, que-
sta volta però in conseguenza di un mutamento199 nella composi-
zione organica del capitale non dovuto allo sviluppo della forza
produttiva, ma a un aumento del valore monetario del capitale varia-
bile e alla corrispondente diminuzione nel rapporto del pluslavoro
al lavoro oggettivato nel capitale variabile.
|232| Nella realtà la cosa si presenterebbe in modo che una
parte del capitale resterebbe del tutto o parzialmente inutilizzata
(perché per potersi in generale valorizzare dovrebbe prima sop-
piantare200 il capitale già operante201), e l’altra, a causa della concor-
renza, esistente anche solo in potenza202 del capitale inutilizzato o
utilizzato a metà, si valorizzerebbe a un minore saggio del profitto.
Sarebbe qui indifferente che una parte del capitale addizionale su-
bentrasse al vecchio e questo così venisse a costituire una parte di
quello addizionale. Avremmo sempre da un lato il vecchio capita-
le, dall’altro quello addizionale203.
Avremmo, sempre secondo l’ipotesi,
da una parte C + ∆C,
dall’altra invece C ––––– + P.
C + ∆C ––––– (+ P + o)
oppure C + ∆C ––––– (+ P – ∆ P.)
In entrambi i casi, anche nel caso204 1), C + ∆C viene impiegato
in perdita, a confronto con l’originario C. Nel caso 2) la cosa è di
per sé chiara. Perciò qui va discusso soltanto il caso205 1).
Secondo l’ipotesi, C + ∆C ossia C’ non dà più profitto di quanto
prima ne desse C = C’- ∆C: è quindi chiaro che C dà meno profitto
157
di prima. Infatti se C + ∆C rende soltanto P206; allora, per es., se
1.000 rendeva 100, e 1.500 rende del pari soltanto 100, nel secon-
do caso 1000 rende ancora soltanto 66 2/3. La valorizzazione del
vecchio capitale sarebbe perciò diminuita in termini assoluti. Il ca-
pitale di 1.000 nelle nuove condizioni non frutterebbe più di
quanto prima fruttasse [un capitale di] 666 2/3.
È però evidente che questa svalorizzazione di fatto del vecchio
capitale non avverrebbe senza lotta207, ma [anche] che il capitale ag-
giuntivo ∆C non potrebbe funzionare come capitale senza lotta. Il
saggio di profitto non cadrebbe208 per via della concorrenza in se-
guito alla sovrapproduzione di capitale. Al contrario, ora si avreb-
be lotta di concorrenza209 perché caduta del saggio di profitto e so-
vrapproduzione scaturiscono dalle stesse circostanze. La parte di
∆C che dovesse trovarsi nelle mani dei vecchi capitalisti operan-
ti210, essi la lascerebbero più o meno211 inutilizzata, per non svaluta-
re il proprio stesso capitale originario e per non restringerne il
ruolo nel campo della produzione, oppure la impiegherebbero per
scaricare sui nuovi venuti212, e in generale sui propri concorrenti,
anche a costo di una perdita temporanea, l’azzeramento del capita-
le addizionale.
La parte di ∆C che si trovasse in nuove mani cercherebbe di oc-
cupare il proprio posto a spese del vecchio capitale, e con maggio-
re o minore successo ci riuscirebbe, nella misura in cui riducesse
= 0 una parte del vecchio capitale o lo costringesse a sgomberare il
vecchio posto per prendere quello del capitale addizionale inutiliz-
zato o impiegato solo in parte.
Un azzeramento di una parte del vecchio capitale dovrebbe avve-
nire in ogni caso, un azzeramento nel senso in cui esso funziona da
capitale, si valorizza. Quale parte in particolare risulterebbe colpita
da questo azzeramento, è cosa che sarebbe decisa dalla lotta di con-
correnza tra i capitali. Finché tutto ||233| va bene, la concorrenza,
come si è mostrato a proposito del livellamento del saggio generale
di profitto, agisce come consorteria213 pratica della classe dei capita-
listi, così che essa si ripartisce [i ruoli] di comune accordo nella co-
mune rapina in proporzione all’entità del rischio assunto. Non ap-
pena però non si tratti più di dividersi i profitti, bensì le perdite, cia-
scuno allora cerca di ridurre la propria quota di esse e di accollarla
agli altri. La perdita è inevitabile per la classe. Quanto però ciascuno
158
debba sopportare di essa, sino a che punto in generale debba pren-
dere parte a essa, diventa allora una questione di forza, di astuzia
predatoria214 e la concorrenza si trasforma quindi in una lotta tra
fratelli nemici. A questo punto si fa valere l’opposizione tra l’inte-
resse dei singoli capitalisti e quello della classe dei capitalisti, così
come prima attraverso la concorrenza si affermava in pratica l’iden-
tità dei loro interessi in quanto capitalisti.
Come si appianerebbe ora questo conflitto e come si ristabili-
rebbero di nuovo i rapporti corrispondenti al «sano» movimento
della produzione capitalistica? Il modo per appianarlo è già conte-
nuto nella semplice espressione del conflitto da cui sorge questo
problema. Esso implica un azzeramento di capitale, nel caso 1) = la
parte ∆C del nuovo capitale complessivo C + ∆C, nel caso 2) = una
parte > ∆C del nuovo capitale complessivo C + ∆C. Benché, come ri-
sulta già dalla presentazione del conflitto, la ripartizione di questa
perdita non abbracci affatto in modo uniforme i capitali particolari
indipendenti che compongono il capitale complessivo, ma si deci-
da in una lotta di concorrenza, in cui in base alle particolari posizio-
ni di vantaggio con cui lavorano i capitali particolari o alla posizione
che essi già avevano conquistato, o ai maggiori o minori vantaggi
con cui un nuovo capitale attribuisce a sé i guadagni e a quello vec-
chio le perdite, la perdita si ripartisce in modo molto disuguale e in
forma molto diversa, cosicché un capitale giace inattivo, un altro ca-
pitale va avanti, un altro subisce solo una perdita relativa o speri-
menta una svalorizzazione soltanto temporanea e così via.
In ogni caso però l’equilibrio si ristabilirebbe per mezzo di una
più o meno ampia215 distruzione di capitale. Questa distruzione in
parte abbraccerebbe anche la sostanza materiale del capitale: cioè
una parte dei mezzi di produzione, capitale fisso o circolante, non
entrerebbe in funzione e non agirebbe come capitale; una parte
delle imprese produttive già entrate in funzione resterebbe ferma.
Sotto questo profilo – poiché il tempo danneggia, aggredisce tutti i
mezzi di produzione (esclusa la terra) – avrebbe luogo un’effettiva
distruzione di mezzi di produzione. Ma la distruzione principale
da questo punto di vista consisterebbe nel fatto che questi mezzi di
produzione cesserebbero di operare come mezzi di produzione,
[si avrebbe] cioè la distruzione per un periodo più o meno lungo
della loro funzione di mezzi di produzione.
La distruzione principale, e dal carattere più acuto, si verifiche-
rebbe con riferimento al capitale, in quanto esso è valore di scam-
214. der List und der Beute 215. in grösserem oder geringerem Umfang
159
bio, con riferimento ai valori capitali. La parte del valore capitale,
che consiste soltanto nella forma di buoni216 su quote future di plu-
svalore, di profitto, in realtà puri titoli di credito sulla produzione
in diverse forme, viene subito svalorizzata217 con la caduta dei rica-
vi su cui è calcolata. Una parte dell’oro e dell’argento in contanti
resta inattiva, non funziona come capitale. Una parte delle merci
che si trovano sul mercato può completare il proprio processo di
circolazione e di riproduzione soltanto attraverso un’immane con-
trazione dei suoi prezzi, e quindi una svalorizzazione218 del capita-
le che rappresenta. Allo stesso modo si svalorizza in misura mag-
giore o minore il valore del capitale fisso. A questo poi va aggiunto
||234| che taluni rapporti di prezzo predeterminati condizionava-
no il processo di riproduzione, che [quindi] a causa del loro crollo
si interrompe e precipita nel caos: questa turbativa e interruzio-
ne219, acutizzata dallo sviluppo del denaro come mezzo di paga-
mento (sviluppo verificatosi contemporaneamente allo sviluppo
del capitale e poggiante su quei dati rapporti di prezzo) e dalla cate-
na di contratti di pagamento a termine, cosa resa ancora più grave
dal sistema del credito sviluppatosi contemporaneamente al capi-
tale, porta a crisi violente, a improvvise svalorizzazioni e a un’effet-
tiva interruzione e turbativa del processo di riproduzione e quindi
a un’effettiva diminuzione della riproduzione.
Nello stesso tempo sarebbero però entrati in gioco altri fattori.
Il ristagno220 della produzione avrebbe gettato sul lastrico una
parte della classe operaia e quindi avrebbe posto la parte ancora oc-
cupata in condizione di dover accettare una riduzione dei salari
anche al di sotto della media221, un’operazione che per il capitale ha
esattamente lo stesso effetto che avrebbe l’aumento del plusvalore
relativo o assoluto. Il periodo di prosperità222 avrebbe dato impulso
ai matrimoni dei lavoratori e ridotto la decimazione della loro
prole, circostanze che, benché possano implicare un reale aumen-
to della popolazione, non implicano un aumento dell’effettiva popo-
lazione lavoratrice, ma sul rapporto tra lavoratori e capitale hanno
lo stesso effetto dell’aumento del numero dei lavoratori effettiva-
mente in attività223. La caduta dei prezzi e la lotta di concorrenza
avrebbero d’altra parte spronato il capitale ad accrescere il valore
160
individuale del proprio prodotto al di sopra del suo valore generale
attraverso l’impiego di nuovi macchinari, di nuovi e perfezionati
metodi di lavoro, di nuove combinazioni; cioè ad accrescere la
forza produttiva di una data quantità di lavoro e a diminuire la pro-
porzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante e
quindi a creare un’eccedenza di popolazione224, una sovrappopola-
zione artificiale. Inoltre la svalorizzazione225 dei diversi elementi
del capitale, per quanto riguarda il capitale costante, sarebbe essa
stessa un elemento che implicherebbe l’aumento del saggio di
profitto. Sarebbe cresciuta la massa del capitale costante impiega-
to rispetto a quello variabile, ma non sarebbe cresciuto il valore del
primo. L’intervenuto ristagno della produzione avrebbe elevato –
entro i limiti capitalistici – l’effettivo fabbisogno di produzione226.
E così tutto il giro ricomincerebbe. Una parte del capitale che si
era svalorizzato a causa dell’interruzione227 della sua funzione ri-
guadagnerebbe il suo vecchio valore. E inoltre lo stesso circolo vi-
zioso228 sarebbe ripercorso in condizioni di riproduzione allargata,
con un mercato più esteso e un’accresciuta forza produttiva.
Anche nell’ipotesi estrema proposta, la sovrapproduzione asso-
luta di capitale non è però sovrapproduzione assoluta, non è sovrap-
produzione assoluta di mezzi di produzione. È soltanto una sovrap-
produzione di mezzi di produzione che funzionano come capita-
le, e che quindi in rapporto al valore accresciuto con l’aumento
della loro massa devono includere, devono creare una valorizza-
zione aggiuntiva di questo valore.
|235| Sovrapproduzione si avrebbe, perché il capitale sarebbe
incapace di sfruttare il lavoro nel grado di sfruttamento determi-
nato dallo sviluppo «sano» [e] «normale» del processo di produ-
zione capitalistico, in un grado che quanto meno accresca la
massa del profitto con la massa crescente del capitale impiegato, e
quindi escluda che il saggio di profitto diminuisca nella stessa mi-
sura in cui aumenta il capitale (C + ∆C – P + 0), o addirittura che il
saggio di profitto diminuisca più rapidamente di quanto il capita-
le cresce (C + ∆C – P – x).
Ora, la sovrapproduzione reale di capitale non è mai come
quella qui considerata, ma rispetto a essa è sempre soltanto una
sovrapproduzione relativa.
Sovrapproduzione di capitale non significa mai altro che sovrap-
produzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e mezzi di sus-
161
sistenza – che possono funzionare come capitale, cioè possono es-
sere impiegati per sfruttare il lavoro a un certo grado di sfruttamento,
in quanto la diminuzione di questo grado di sfruttamento al di sotto di
una certa soglia provoca interruzioni e disturbi del processo di pro-
duzione, crisi, distruzione di capitale. Non vi è nulla di contraddit-
torio nel fatto che questa sovrapproduzione di capitale sia accompa-
gnata da una sovrappopolazione relativa più o meno grande. (La di-
minuzione di questa sovrappopolazione relativa è già essa stessa
un momento della crisi, in quanto si avvicina all’assoluta sovrap-
produzione di capitale che abbiamo appena visto.) Le stesse circo-
stanze, che hanno elevato la forza produttiva del lavoro, aumentato
la massa dei prodotti (merci), ampliato i mercati, accelerato l’accu-
mulazione del capitale (considerato in base alla sua massa materia-
le e di valore) e diminuito il saggio di profitto, hanno generato – e ge-
nerano continuamente – una sovrappopolazione relativa, che non
viene impiegata dal capitale sovrabbondante229 a causa del basso
grado di sfruttamento del lavoro al quale soltanto essa potrebbe es-
sere impiegata o almeno a causa del basso saggio di profitto che si ri-
caverebbe se essa fosse impiegata al grado di sfruttamento dato.
Quando il capitale viene spedito all’estero, ciò accade non per-
ché esso in assoluto non possa essere impiegato in patria. Accade
perché all’estero può essere impiegato a un saggio di profitto più
elevato. Questo capitale è però capitale sovrabbondante in assoluto
per la popolazione operaia occupata e in generale per quel dato
paese. Esiste in quanto tale accanto alla popolazione sovrabbondan-
te230 e questo è soltanto un esempio di come i due aspetti coesista-
no e si condizionino a vicenda.
D’altra parte la caduta del saggio di profitto legata all’accumula-
zione produce necessariamente una lotta di concorrenza. Una
compensazione231 della caduta del saggio di profitto per mezzo della
massa del profitto è possibile232 soltanto per il capitale complessivo
della società e soltanto per i grandi capitali [già] consolidati. Il capi-
tale addizionale nuovo, che agisce autonomamente, non trova tale
compensazione233, deve reagire; in tal modo è la caduta del saggio di
profitto che suscita una lotta di concorrenza tra capitali, e non vice-
versa. Questa lotta di concorrenza [è] comunque accompagnata da
una crescita temporanea del salario e da una ulteriore temporanea
diminuzione del saggio di profitto dovuta anche a questa circostan-
za. Lo stesso fenomeno si manifesta nella sovrapproduzione di
229. Surpluscapital
230. Surpluspopulation 232. existirt
231. Ersatz 233. Compensation
162
merci, saturazione dei mercati234. Poiché scopo del capitale è la pro-
duzione di plusvalore, il profitto, e non il soddisfacimento dei biso-
gni, e tale scopo è conseguito soltanto attraverso metodi che orien-
tano la massa della produzione in funzione della scala della produ-
zione, e non viceversa, è giocoforza che si crei continuamente un
contrasto tra le proporzioni limitate del consumo su base capitali-
stica e una produzione che tende continuamente a superare questo
suo limite immanente. Del resto il capitale è ben costituito da merci
e perciò la sovrapproduzione di capitale implica quella di merci. Di
qui lo strano fenomeno per cui gli stessi economisti che negano la
sovrapproduzione di merci ammettono quella di capitale. ||236|
Quando si dice che non c’è sovrapproduzione generale, ma spro-
porzione tra i diversi rami di produzione, ciò non significa altro
che, nell’ambito dei rami di produzione capitalistici, la proporziona-
lità può presentarsi soltanto come continuo processo di supera-
mento della sproporzione235, poiché qui il nesso della produzione
agisce sugli agenti della produzione come una legge cieca, essi non
l’hanno assoggettato al loro controllo comune come intelletto asso-
ciato. Si pretende inoltre con ciò che popoli in cui il modo di produ-
zione capitalistico non è sviluppato debbano consumare e produr-
re nel grado che conviene ai paesi con un modo di produzione capi-
talistico. Quando si dice che la sovrapproduzione è soltanto relativa,
si dice una cosa del tutto giusta, ma l’intero modo di produzione ca-
pitalistico è soltanto un modo di produzione relativo, i cui limiti non
sono assoluti, ma sono assoluti per esso, sulla sua base. Come potreb-
be altrimenti esserci una carente domanda di quelle stesse merci di
cui la massa del popolo è priva, e come sarebbe possibile che si
debba cercarla all’estero, in mercati lontani, per poter pagare ai la-
voratori la media236 dei mezzi di sussistenza necessari? [Questo ac-
cade] perché soltanto nel contesto [della produzione capitalistica] il
prodotto eccedente riceve una forma in cui in parte può essere con-
sumato dai suoi possessori, in parte riconvertito in capitale per essi.
Quando infine si dice che i capitalisti non hanno che da scambiarsi
le loro merci e consumarle, si dimentica l’intero carattere della pro-
duzione capitalistica e si dimentica che [qui] si tratta della valorizza-
zione del capitale. In breve, tutte le obiezioni contro le manifestazio-
ni attuali della sovrapproduzione – manifestazioni che di tali obie-
zioni poco si curano – si riducono in ultima analisi all’affermazione
che i limiti della produzione capitalistica non sono limiti della produ-
zione in generale e quindi non sono neppure limiti di questo modo
163
di produzione specifico, il modo di produzione capitalistico. Ma la
sua contraddizione consiste nella sua tendenza allo sviluppo asso-
luto delle forze produttive, che entra continuamente in conflitto
con gli specifici rapporti di produzione in cui si muove il capitale.
Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto
alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo
pochi per soddisfare in modo decente e umano la massa della po-
polazione.
Non vengono prodotti troppi mezzi di produzione per occupa-
re la parte della popolazione capace di lavorare. Al contrario. In
primo luogo si produce una troppo grande parte della popolazione
che non è capace di lavorare, e che per le sue condizioni dipende
dallo sfruttamento del lavoro altrui o da lavori che possono essere
solo considerati tali sono nell’ambito di un modo di produzione mise-
rabile. In secondo luogo non vengono prodotti mezzi di produzio-
ne sufficienti affinché l’intera popolazione operaia lavori nelle
condizioni più produttive, affinché quindi il suo tempo di lavoro
assoluto sia abbreviato grazie alla massa e all’efficienza237 del capi-
tale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro.
Ma periodicamente si producono troppi strumenti di lavoro e
troppi mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di
sfruttamento dei lavoratori a un determinato saggio del profitto. Ven-
gono prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distri-
buzione e nei rapporti di consumo peculiari della produzione ca-
pitalistica, realizzare238 il valore + plusvalore in esse contenuti e ri-
convertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo
processo senza continue esplosioni.
Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma viene periodicamen-
te prodotta troppa ricchezza nelle sue contraddittorie239 forme capi-
talistiche.
|237| Il limite del modo di produzione capitalistico si rivela,
1) nel fatto che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ge-
nera, con la caduta del saggio di profitto, una legge che a un certo
punto si contrappone ostilmente al suo stesso sviluppo, e che per-
ciò deve essere continuamente superata per mezzo di crisi.
2) nel fatto che appare come suo limite l’appropriazione di lavo-
ro non pagato e il rapporto di questo lavoro non pagato con quello og-
gettivato in generale, anziché il rapporto della produzione con i bi-
sogni sociali, con i bisogni degli uomini socialmente evoluti. Per-
ciò per esso subentrano limiti a un livello della produzione, che
237. Effectivität
238. verwerthen 239. gegensätzlichen
164
viceversa sotto quell’altro punto di vista apparirebbe insoddisfa-
cente. Si ferma240 dove non il soddisfacimento dei bisogni, ma la
realizzazione e produzione del profitto impongono tale arresto241.
Se diminuisce il saggio di profitto, allora [si ha] da un lato lo sforzo
del capitale affinché il singolo capitalista elevi il valore individuale
delle sue merci al di sopra del loro valore sociale medio; (il prezzo di
mercato, che consente un piccolo profitto, deve essere quindi con-
siderato come una grandezza data)242 dall’altro frode e opportunità
procurate ai truffatori – dai frenetici tentativi di procacciarsi in que-
sto o quel nuovo settore della produzione, di investimento del capi-
tale, di speculazione un qualche sovrapprofitto, indipendente dal li-
vello generale [del profitto] e molto superiore a esso243.
Il saggio di profitto, cioè l’incremento secondo una certa propor-
zione244, [è] importante per tutti i capitali di nuova formazione245 che
si raggruppano autonomamente. E non appena la formazione di
capitale246 si concentrasse esclusivamente nelle mani di pochi
grandi capitali maturi, per i quali la massa del profitto controbilan-
ciasse il saggio, il fuoco che la anima sarebbe spento. Cesserebbe
di risplendere247. Il saggio di profitto è il fattore248 trainante della pro-
duzione capitalistica, e si produce soltanto ciò che può essere pro-
dotto con profitto e nella misura in cui può esserlo. Di qui il pani-
co degli economisti inglesi per la diminuzione del saggio di profit-
to. Il fatto che la semplice possibilità [di essa] allarmi Ricardo,
mostra per l’appunto la sua profonda comprensione delle condi-
zioni dell’economia capitalistica. Ciò che gli si rimprovera, il fatto
cioè che egli, noncurante «degli uomini», prendendo in esame la
produzione capitalistica abbia occhi solo per lo sviluppo delle
forze produttive – con qualunque tributo di uomini e valori capita-
li lo si ottenga –, è proprio ciò che vi è in lui di importante. Lo svi-
luppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e
la giustificazione249 del capitale. Appunto così esso crea, senza
averne consapevolezza250, le condizioni materiali di un modo di
produzione superiore. Ciò che allarma Ricardo [è] che il saggio di
profitto – pungolo251 della produzione capitalistica e condizione e
motore dell’accumulazione – sia esso stesso minacciato dalla
240. It stops dent of, and towering above, the general level
241. stoppage 244. proportional increase
242. the marketprice, affording the small 245. neuen… Capitalableger
profit, being then to be considered as a deter- 246. Capitalbildung
minate magnitude 247. It would cease shining
243. facilities afforded to swindlers – by the 248. agency
frantical attempts at securing in this or that 249. Berechtigung
new line of production, of outlay of capital, of 250. unbewusst
adventure this or that surplus profit, indepen- 251. stimulus
165
legge di sviluppo della produzione. E qui il rapporto quantitativo è
tutto. Ma alla base del problema vi è qualcosa di più profondo, che
egli presagisce appena. Si rivela qui in modo puramente economico,
cioè dal punto di vista borghese, entro i «limiti dell’intelletto capi-
talistico», dal punto di vista della produzione capitalistica stessa, il
suo limite, la sua relatività, il fatto che esso è un modo di produzione
non assoluto, ma soltanto storico e corrispondente a una certa, li-
mitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione.
[3.4. Appendice]252
|238| Poiché lo sviluppo della forza produttiva del lavoro è assai di-
suguale in differenti rami d’industria, e non soltanto disuguale
per grado, ma spesso va in direzioni opposte, poiché la forza pro-
duttiva del lavoro è del pari legata a condizioni naturali la cui pro-
duttività253 può diminuire mentre la produttività sociale del lavoro
cresce – {sino a che punto le condizioni naturali esercitino il loro
influsso sulla produttività del lavoro indipendentemente dallo svi-
luppo della produttività sociale del lavoro, e spesso in contrasto con
esso, è cosa da studiare interamente nel contesto dell’analisi della
rendita fondiaria} –, ne risulta che il profitto medio (= plusvalore)
deve stare molto al di sotto del livello che sarebbe lecito presumere
sulla base dello sviluppo delle forze produttive nei rami d’indu-
stria più avanzati. Il fatto che lo sviluppo della forza produttiva nei
diversi rami d’industria avvenga non soltanto in proporzioni
molto diverse, ma spesso in direzioni opposte, non deriva soltanto
dall’anarchia della concorrenza e dalle peculiarità del modo di pro-
duzione borghese. La forza produttiva del lavoro è legata anche a
condizioni naturali, che spesso diventano meno favorevoli254 nella
stessa proporzione in cui la produttività – in quanto dipendente da
condizioni sociali – aumenta. Di qui un movimento opposto in
queste diverse sfere, tale per cui la produttività del lavoro cresce da
un lato, mentre cala dall’altro. Si consideri ad esempio il semplice
influsso delle stagioni, da cui dipende la massima parte dei pro-
dotti grezzi dell’industria, l’esaurirsi delle foreste, dei giacimenti
di carbone, delle miniere, ecc.
Se la materia prima – questa parte del capitale costante – in
quanto a massa cresce sempre in proporzione allo sviluppo della
forza produttiva del lavoro, ciò non avviene per quanto riguarda il
252. [L’apparato dell’edizione critica del sono riprese con varianti dal Manuskript
manoscritto (MEGA II/4.2.1256 sg.) infor- 1861-1863, MEGA II/3.5.1661 sgg.]
ma che le pagine successive, sino al passo 253. Productivität
di Babbage contrassegnato dalla nota 301, 254. productiv [Engels: ergiebig]
166
capitale fisso (fabbricati, macchinari ecc. e materie ausiliarie255 per
illuminazione, riscaldamento, ecc.). Benché al crescere del suo vo-
lume256 il macchinario diventi in assoluto più caro, in termini rela-
tivi esso diventa più a buon mercato. Se 5 [lavoratori] producono 10
volte più merci di prima, non per questo il denaro speso in capita-
le costante sarà il decuplo. Benché il valore di questa parte del capi-
tale costante cresca con lo sviluppo della forza produttiva, esso è
però ben lontano dall’aumentare nella stessa proporzione.
Si è più volte, in particolare anche in questo capitolo, richiama-
ta l’attenzione sulla differenza tra il rapporto di capitale costante e
variabile, quale si esprime nella caduta del saggio di profitto, e il rap-
porto degli elementi che compongono il capitale257, quale si esprime –
con lo sviluppo della produttività del lavoro – in relazione alla sin-
gola merce e al suo prezzo.
Il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro comples-
sivo, passato e vivo, che entra in essa. Quando viene aggiunto mino-
re lavoro vivo, ad es. per trasformare in prodotto una maggiore
quantità di materia prima (o anche un oggetto del lavoro in gene-
rale, come ad es. nell’industria mineraria), allora – (lasciando da
parte la materia prima; il semplice oggetto di lavoro, che non sia
materia prima, è comunque privo di valore) – la differenza tra la
parte di valore aggiunta nella singola merce dal nuovo capitale co-
stante (fisso e materiale ausiliario) e la parte di valore aggiunta dal
vecchio capitale costante sarà < della differenza tra il nuovo minor
lavoro258 e il vecchio maggior lavoro259 da esso sostituito. (Se fosse-
ro pari, non si avrebbe alcuna diminuzione del prezzo della
merce, benché il lavoro addizionato da ultimo sia divenuto più
produttivo. Entro rapporti di produzione razionali, e non regolati
dal profitto, anche in questo caso il metodo [di produzione adotta-
to] sarebbe quello migliore e più produttivo.) Non è quindi possi-
bile aggiungere al lavoro passato, in quanto condizione di lavoro,
più di quanto si risparmia nel lavoro vivo. Ma a proposito della sin-
gola merce o massa di merci, che sono prodotte in un determinato
periodo di rotazione [del capitale], va notato che per esse è suffi-
ciente che la parte fissa del capitale costante depositi in esse, usu-
randosi, una grandezza di valore < al lavoro vivo che sostituisce.
Inoltre, benchè il valore assoluto delle materie ausiliarie260 impie-
gate – questa parte del capitale costante – cresca in misura signifi-
167
cativa relativamente al capitale sborsato per il salario, esso resta
ancora relativamente conveniente, con riferimento alla quantità
complessiva delle merci prodotte, rispetto a ciò che con una pro-
duttività minore del lavoro passa di esso nella merce, a ciò che il
singolo lavoratore stesso ha bisogno per sé in relazione alla mino-
re produttività del lavoro dei rapporti di produzione più antiquati.
Una parte minore del valore261 di esso entra nella singola merce. La
componente di valore262 che ||239| questa parte del capitale costante
aggiunge alla singola merce – o alla massa di merci creata in un
determinato periodo di rotazione o anche nel tempo di riproduzio-
ne totale del capitale263 – diminuisce, è decrescente264 (in misura in-
significante), benché questa componente di valore del capitale co-
stante cresca rispetto al valore del capitale variabile. In questo non
c’è assolutamente nulla di contraddittorio, poiché la stessa produt-
tività del lavoro accresce la massa delle merci e riduce il lavoro che le
produce, quindi riduce il capitale variabile. Perciò non c’è assolu-
tamente nulla di contraddittorio nel fatto che la stessa somma di va-
lore265 (questa parte del capitale costante), ripartita su una massa
accresciuta di merci, si riduca per aliquotum, mentre su una
somma di valore ridotta (il capitale variabile) o un ridotto lavoro vivo
(anche nella merce singola) essa si accresce. Con ciò resta però
sempre la stessa condizione, che la parte di valore266 che entra nella
singola merce come usura267 del capitale fisso e come equivalente di
valore268 per le materie ausiliarie269 in essa consumate, deve essere
< alla differenza nella produttività del nuovo lavoro, aggiunto da
ultimo, rispetto a quello vecchio. Questo tuttavia non esclude che
per la massa complessiva delle merci, ad es. il numero di libbre di
tessuto ritorto270 che vengono prodotte in un determinato periodo
di tempo, ad es. un giorno, venga consumata – ed entri come com-
ponente di valore – una quantità di capitale costante pari o addirit-
tura molto superiore a quella che in precedenza veniva anticipata
in forma di salario. Solo, una quantità più piccola in rapporto alla
singola merce. Questo però implica che la stessa massa di merci
avrebbe consumato nel vecchio processo una somma maggiore di
lavoro vivo + componente di valore del capitale costante. Poniamo
che n (1)4
di lavoratori producano esattamente quanto prima produ-
cevano n lavoratori. In tal caso la massa di merci prodotta resta la
stessa. Ma vengono risparmiati 3/4 del lavoro vivo. Il capitale co-
168
stante aggiunto cresce, ma (una volta sottratto il vecchio capitale
costante) cresce meno di 3/4 e quindi il valore complessivo del ca-
pitale costante è cresciuto (può [dirsi] lo stesso a proposito del-
l’usura), rispetto a quello sborsato per il lavoro, benché in rapporto
alle merci esso sia cresciuto in proporzione inferiore a quanto il la-
voro vivo è diminuito. Tuttavia il capitale complessivo anticipato è
maggiore di prima in assoluto, ma inferiore in rapporto alla massa di
merci prodotta. Rispetto al capitale variabile è cresciuto in termini
sia assoluti che relativi. Se il materiale grezzo aumenta, questo au-
mento deve essere controbilanciato da una sostituzione, in parte
del restante capitale costante che entra in essa e [in parte] del lavo-
ro vivo aggiunto. In questo caso la merce diventa – come prima –
più a buon mercato, ma il saggio di profitto scende, perché il valo-
re del capitale complessivo cresce in proporzione ancora maggio-
re rispetto al capitale variabile. Quanto più il capitale fisso si accre-
sce con la produttività del lavoro, tanto più grande [diventa] la
parte non consumata del capitale o tanto più lungo [diviene] il pe-
riodo di rotazione su cui si estende il processo di riproduzione di
questa parte del capitale costante.
Nella concorrenza il minimo crescente del capitale che con l’au-
mento della forza produttiva diviene necessario, si manifesta271 in
questo modo: Non appena la nuova invenzione sarà stata general-
mente introdotta, i capitali minori saranno esclusi dall’industria.
Soltanto nella prima fase [dell’introduzione] di invenzioni meccaniche
nelle diverse sfere di produzione, esse possono essere gestite da ca-
pitali minori. D’altra parte imprese molto grandi, con una propor-
zione straordinariamente elevata di capitale costante, come le ferro-
vie, non rendono il saggio di profitto medio, ma solo una sua frazione272,
un interesse. Se così non fosse, il saggio generale di profitto scende-
rebbe ancora più in basso. D’altronde, questo grande capitale (capi-
tale azionario) trova solo qui un campo diretto di utilizzo273.
L’incremento del capitale, quindi l’accumulazione del capitale
implica una riduzione del saggio di profitto solo nella misura in
cui con questa crescita subentrano i mutamenti sopra considerati
nel rapporto tra le parti organiche del capitale. Tuttavia, nonostan-
te i continui, quotidiani rivoluzionamenti del modo di produzio-
ne, ora l’una, ora l’altra frazione274, maggiore o minore, del capitale
complessivo continua per un certo periodo di tempo ad accumula-
re in base a un determinato ||240| rapporto medio tra quelle compo-
nenti, cosicché con il suo incremento interviene non interviene
169
alcun cambiamento organico, quindi non [intervengono] le cause
della caduta del [saggio di] profitto275. Il saggio di profitto non dimi-
nuisce nella stessa misura in cui cresce il capitale complessivo
della società già perché, durante certi periodi, quel continuo accre-
scimento del capitale ed estensione della produzione in certi rami
d’industria procedono senza che a essi si accompagni un muta-
mento nella proporzione tra le sue componenti organiche – cioè
sulla base di metodi di produzione invariati.
L’aumento del numero assoluto di lavoratori, nonostante la di-
minuzione relativa del capitale variabile, o capitale anticipato in
salari, non avviene in tutti i rami di produzione, né uniformemen-
te in tutti i rami di produzione. Nell’agricoltura, la diminuzione
dell’elemento del lavoro vivo può essere assoluta.
Del resto, il bisogno di un aumento assoluto del numero dei sa-
lariati, nonostante la relativa diminuzione [del capitale variabi-
le]276, è proprio soltanto del modo di produzione capitalistico. Per
esso le forze di lavoro277 divengono superflue sin dal momento in
cui non è più necessario occuparle per 12-15 ore al giorno. Uno svi-
luppo della forza produttiva tale da ridurre il numero assoluto dei
lavoratori, cioè tale da permettere di fatto all’intera nazione di
compiere la sua produzione complessiva in più breve tempo, pro-
vocherebbe una rivoluzione, perché priverebbe di entrate la mag-
gior parte278 della popolazione. Ricompare qui il limite specifico
della produzione capitalistica e il fatto che essa non è in alcun
modo una forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive (e
per la produzione della ricchezza sociale), ma anzi a un certo
punto entra in conflitto con esse. Questo conflitto si manifesta279
tra l’altro in crisi periodiche ecc., che derivano dal divenire super-
fluo ora di questa, ora di quella componente della classe operaia
nel suo vecchio modo di impiego. Il suo limite è il tempo ecceden-
te280 dei lavoratori. Il tempo eccedente assoluto che la società guada-
gna non le interessa. Per essa lo sviluppo della forza produttiva è im-
portante solo in quanto prolunga il tempo di pluslavoro del lavora-
tore, non in quanto riduce in generale il tempo di lavoro per la
produzione materiale. Si muove quindi in una contraddizione281.
Si è visto che la crescente accumulazione del capitale implica
275. no organic change, hence nicht die Ur- 276. wenn sie relativ abnimmt, trotz der re-
sachen des fall of profit eintreten [ Con «cam- lativen Abnahme
biamento organico» (organic change) 277. Arbeitsvermögen
Marx intende qui il cambiamento nella 278. Demonetisirung der Mehrzahl
composizione organica del capitale, ossia 279. erscheint
nel rapporto tra capitale variabile e capita- 280. Surpluszeit
le costante] 281. Gegensatze
170
una sua crescente concentrazione. Cresce così la potenza del capi-
tale, l’autonomizzazione – impersonata dal capitalista – delle con-
dizioni sociali della produzione rispetto ai reali produttori. Il capi-
tale si manifesta sempre più come potenza sociale (di cui il capitali-
sta è un funzionario e che non ha più alcun possibile rapporto
proporzionale con ciò che il lavoro di un singolo individuo può
creare), ma come potenza sociale estraniata, autonomizzatasi, che si
contrappone alla società in quanto entità materiale 282 – e in quanto
potere del capitalista per mezzo di questa entità materiale. La con-
traddizione tra la generale potenza sociale che il capitale diviene283, e
il potere privato del singolo capitalista sulle condizioni sociali di pro-
duzione si sviluppa in modo sempre più stridente e implica la dis-
soluzione di questo rapporto in quanto al tempo stesso implica l’evo-
luzione284 delle condizioni materiali di produzione in condizioni
di produzione universali, comuni, sociali. Questo sviluppo è dato
dallo sviluppo delle forze produttive inerente alla produzione capi-
talistica e dal modo in cui esso si compie.
Nessun capitalista adotta volontariamente un nuovo metodo di
produzione285, per quanto possa essere molto più produttivo o
anche per quanto possa aumentare il saggio del plusvalore, nel
caso in cui esso riduca il saggio di profitto. Ma ognuno di questi
nuovi metodi di produzione rende ||241| le merci più a buon mer-
cato. Perciò all’inizio egli le vende al di sopra del loro prezzo di pro-
duzione, forse al di sopra del loro valore. Intasca la differenza che
sussiste tra i loro costi di produzione e il prezzo di mercato delle
merci vendute. Può farlo, perché la media del tempo di lavoro so-
cialmente richiesto per la produzione di queste merci è maggiore
del tempo di lavoro richiesto dal nuovo metodo di produzione. Il
suo metodo di produzione286 sta al di sopra della media di quello so-
ciale. La concorrenza lo generalizza e lo assoggetta alla legge gene-
rale. Subentra allora la caduta287 del saggio di profitto (dapprima
forse in questa sfera, per poi livellarsi sulle altre), che dunque è del
tutto indipendente dalla volontà dei capitalisti.
A questo punto va ancora osservato che la stessa legge regna
anche nelle sfere di produzione il cui prodotto non entra, né diret-
tamente né indirettamente, nel consumo del lavoratore né nelle
condizioni di produzione dei suoi mezzi di sussistenza – quindi
anche nelle sfere di produzione nelle quali nessuna diminuzione
dei prezzi delle merci può accrescere il plusvalore relativo, rendere
171
più a buon mercato la forza di lavoro288. (A ogni modo una diminu-
zione di prezzo del capitale costante può accrescere anche in que-
sti comparti il saggio di profitto, restando invariato lo sfruttamento
dell’operaio). Non appena viene effettivamente offerta la prova che
queste merci possono essere prodotte più a buon mercato, i capita-
listi che lavorano alle vecchie condizioni di produzione devono
venderle al di sotto del loro prezzo di produzione, perché il valore
delle loro merci è diminuito, il tempo di lavoro richiesto per la loro
produzione si trova al disopra di quello sociale. In una parola –
questo si manifesta fenomenicamente289 come l’effetto della concor-
renza – anch’essi devono introdurre il nuovo metodo di produzio-
ne, in cui la proporzione del capitale variabile rispetto a quello co-
stante è diminuita.
Tutte le circostanze che fanno sì che l’impiego del macchinario
renda più a buon mercato il prezzo del lavoro, si riducono sempre
[in primo luogo] alla riduzione della quantità di lavoro che è assor-
bita da una singola merce; in secondo luogo, però, alla riduzione
dell’usura290 del macchinario il cui valore entra nella singola merce.
Quanto meno rapida è l’usura del macchinario, tanto meno lavoro
serve per la sua riproduzione. Perciò [vengono] accresciuti la quan-
tità e il valore del capitale che consiste in macchinario (e in genera-
le capitale fisso)291 rispetto a quello presente nel lavoro.
Jones su accumulazione e caduta del profitto. «A parità di ogni
altra circostanza, il potere di una nazione di risparmiare sui suoi
profitti varia con i saggi di profitto; è grande quando essi sono alti,
minore quando sono bassi; ma quando il saggio di profitto decli-
na, tutte le altre circostanze non rimangono invariate… Un basso sag-
gio di profitto solitamente è accompagnato da un rapido saggio di ac-
cumulazione, relativamente al numero degli abitanti, come in In-
ghilterra»; e un «alto saggio di profitto da un saggio di
accumulazione più lento, relativamente al numero degli abitanti,
come in Polonia, Russia, India e così via» (R. Jones, An Introducto-
ry Lecture on Political Economy, Londra 1833, pp. 50 sgg.)292
288. Arbeitsvermögen with the rate of profits, is great when they are
289. erscheint [Si è tradotto con «si mani- high, less when low; but as the rate of profit de-
festa fenomenicamente» per sottolineare clines, all other things do not remain
che qui si tratta di un’apparenza fenome- equal… A low rate of profit is ordinarily ac-
nica (Erscheinung) necessaria, e non di companied by a rapid rate of accumulation,
una semplice parvenza (Schein)] relatively to the number of the people as in En-
290. Dechet gland;» e un «high rate of profit by a slower
291. capital fixe rate of accumulation, relatively to the num-
292. Jones on Accumulation and fall of bers of the people, come in Polonia, Russia,
profit. «All other things being equal, the India, u.s.w. (50 sq. R.Jones An Introducto-
power of a nation to save from its profits varies ry Lecture on Pol. Ec., etc. Lond. 1833.)»
172
Gustamente Jones sottolinea come, nonostante la diminuzio-
ne del saggio di profitto293, si accrescono «gli incentivi e le opportu-
nità di accumulazione»294. In primo luogo a causa della crescente
sovrappopolazione295 relativa. In secondo luogo, perché, al cresce-
re della produttività del lavoro, cresce296 la massa dei valori d’uso
rappresentati dallo stesso valore di scambio, dunque del substrato ma-
teriale del capitale. In terzo luogo perché i rami di produzione si mol-
tiplicano. Quarto: Sviluppo del sistema del credito, società per azioni
ecc. e conseguente maggiore facilità di trasformare denaro in capi-
tale, senza divenire personalmente capitalisti industriali. Quinto:
Crescita dei bisogni e smania di arricchimento. Sesto: Investimen-
ti massicci e crescenti di capitale fisso e così via.
/242/ Fatti297 principali della produzione capitalistica:
Concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani, cosicché
essi cessano di apparire come proprietà dei lavoratori immediati, e
si trasformano invece in potenze sociali della produzione, anche se
dapprima come proprietà privata dei capitalisti. Questi sono i suoi
amministratori fiduciari298 nella società borghese e di questa am-
ministrazione fiduciaria299 intascano tutti i frutti.
Organizzazione del lavoro stesso come lavoro sociale: Mediante
cooperazione, divisione del lavoro e combinazione di lavoro e
scienza naturale.
Per entrambi i versi il modo di produzione capitalistico soppri-
me proprietà privata e lavoro privato, sia pure in forme contraddit-
torie300.
Creazione del mercato mondiale.
Esempio di diversa proporzione di capitale costante e variabile.
«Prezzo del cotone nell’isola di Giava. Il cotone, con il seme, è
venduto a picul (circa 133 libbre); non più di 1/4 o 1/5 di questo peso
… è cotone; e gli indigeni, per mezzo di rulli primitivi, separano in
un giorno di lavoro circa 1/4 di libbra di cotone dal seme. A questo
punto il suo valore è 4 o 5 volte il suo costo originario; e i prezzi
dello stesso materiale, a stadi diversi di produzione, sono per un
picul:
Cotone nel seme.…. da 2 a 3 dollari;
cotone puro ———— da 10 a 11;
filo di cotone ———— 24;
filo di cotone died blue ... 35;
173
Un normale buon vestito di cotone ... 50. In questo modo... il
costo della filatura a Giava è il 117% del valore della materia
prima… In Inghilterra… il costo della filatura del cotone per farne
del filo in Inghilterra è circa il 33%.» (Ch. Babbage: Sull’economia
delle macchine e delle manifatture etc. Londra 1832, p. 165, 166.)301
Sulla crescita della forza produttiva in Inghilterra dal 1792 al
1817 Owen. (Vedi quaderno XVIII. p. 1143)302
Se il capitale impiegato è C, il saggio di profitto p, allora l’accu-
mulazione è = Cp. Ed è chiaro che Cp cresce se il fattore C cresce
più rapidamente di quanto il fattore p diminuisca.
L’enorme forza produttiva che si sviluppa all’interno del modo
di produzione capitalistico in rapporto alla popolazione e il cresce-
re molto più rapido dei valori capitali303 (non soltanto del loro so-
strato materiale) rispetto alla crescita della popolazione (benché
non nella stessa proporzione)304 – contraddicono la base sempre
più angusta (in relazione alla ricchezza crescente) che lavora per
questa enorme forza produttiva, e le condizioni di valorizzazione 305
di questo capitale che si ingrossa. Di qui le crisi.
301.«Price of cotton cloth in the island of Java. The cotton, in the seed, is sold by the picul
(about 133 lbs.); Not above 1/4 or 1/5 of this weight... is cotton; and the natives, by means of
rude rollers, separate at the expense of one day’s labour, about 1/4 lbs cotton from the seed. In
this stage worth between 4 or 5 times its original cost; and the prices of the same substance, in
different stages of manufacture, are for one one picul:
Cotton in the seed .…. 2 to 3 dollars;
clean cotton ———— 10 to 11;
cotton thread ———– 24;
Cotton thread died blue ... 35;
Good ordinary cotton cloth ... 50. Thus ... the expense of spinning in Java is 117 % on the value
of the raw material ... the expense of spinning cotton into a fine thread is, in England, about 33
%.» (Ch. Babbage: On the Economy of Machinery etc. London 1832, p. 165, 166.)
302. [Marx si riferisce qui allo scritto di Henry Grey Macnabs Examen impartial des nou-
velles vues de M. Robert Owen, Parigi 1821, pp. 128-130, che aveva citato nel quaderno
XVIII del Manuskript 1861-1863: vedi MEGA II/3.5.1866; Manoscritti del 1861-1863, a
cura di L. Calabi, tr. it. di L. Comune Compagnoni, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 238]
303. Capitalwerthe
304. [Si intende: non nella stessa proporzione in cui rispetto alla popolazione si svilup-
pa la forza produttiva]
305. Verwerthungsverhältnisse
174
Indice
Nota ai testi 55
1. Il capitalismo e le crisi 79
2. Limiti del capitale 79
3. La contraddizione tra produzione e consumo 83
4. La contraddizione tra profitto e bisogni 85
5. La contraddizione tra valore d’uso
e valore di scambio della merce 88
6. La contraddizione insita nel denaro come mezzo
di pagamento 92
7. La crisi come interruzione violenta del processo
di riproduzione del capitale 93
8. Possibilità e condizioni generali delle crisi 95
9. Il credito come tentativo di superare i limiti del capitale 97
10. Credito e crisi 98
11. Le contraddizioni del capitale esplodono nelle crisi 100
12. Crisi monetaria e autonomizzarsi del denaro 101
13. Crisi e distruzione di capitale 104
Sviluppo del capitalismo e caduta del saggio di profitto