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LA CRISI E LA CADUTA

del saggio di profitto


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Vladimiro Giacché

L’importante, nel loro horror di fronte alla caduta del saggio di profitto,
è però la sensazione che il modo di produzione capitalistico
nello sviluppo delle forze produttive incontri dei limiti,
che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produzione della ricchezza,
e questo limite peculiare testimoni la limitatezza
e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione,
e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto
per la produzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio
entra in conflitto con il proprio sviluppo ulteriore”
[Marx, Manoscritto del III libro del Capitale]

A quanto pare non è proprio possibile liberarsi di Marx. E dire che sembrava fatta. Appena venti anni fa,
con il crollo – più farsesco che tragico (le tragedie sarebbero seguite a breve) – dei regimi dell’est europeo e
la vittoria del capitalismo in salsa thatcheriano-reaganiana, anche su Marx e le sue teorie sembrava calato
definitivamente il sipario. Sembrava che la pagina del marxismo fosse stata definitavamente voltata e che gli
scritti di Marx fossero ormai destinati agli storici e ad un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi
dell’edizione delle opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino est dei primi anni novanta affollavano le
bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano costituire la prova migliore di questo
destino.
Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non basta sostenere che esse non
esistono. E questo vale per gli individui come per le società. Anche per la società capitalistica dei nostri
giorni, o “economia di mercato” che dir si voglia. E così, nel 2007, è arrivata la crisi che dura tuttora. La
peggiore dal 1929 in avanti. Questi anni ci mostrano quindi un volto del capitale molto diverso da quello,
tronfio e trionfante, del finire degli anni ottanta. Con il risultato di incrinare molte delle certezze su cui erano
state edificate la visione del mondo e la filosofia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi decenni.
Come si fa a non avere dubbi sull’“efficienza del mercato” in una situazione in cui viene distrutta ricchezza
per migliaia di miliardi di euro, e nel giro di pochi mesi 50 milioni di disoccupati (quasi l’intera popolazione
italiana!) si aggiungono in tutto il mondo ai 180 milioni già esistenti? Che “efficienza” è questa? Come è
possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse umane e materiali? E, soprattutto, come è possibile
evitarlo?
In fondo, sono questi dubbi e queste domande ad avere riportato Karl Marx agli onori delle cronache. Con
modalità semplicemente impensabili sino a pochi mesi fa. La barba del filosofo di Treviri torna ad affacciarsi
dalle pagine di giornali e periodici: dalle pagine del Financial times, dalla copertina di Foreign policy e
addirittura da quella del “venerdì” di Repubblica. E ancora: il presidente francese Nicolas Sarkozy che si fa
fotografare mentre sfoglia Il capitale, o il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück che, bontà sua,
concede che “ci sono parti della teoria di Marx che non sono poi così sbagliate”. 1
È fin troppo facile obiettare che queste riscoperte sono viziate da equivoci (uno su tutti: vedere in Marx
un teorico “pre-keynesiano” dell’importanza dell’intervento dello stato nell’economia). Su un punto, però, la
rinnovata attenzione nei confronti di Marx coglie nel giusto: sulla crisi attuale Marx ci dice di più e meglio di
legioni di economisti dei giorni nostri. Perché ci consente di inquadrarla in una tendenza di lungo periodo
della società capitalistica: la caduta del saggio di profitto.

1. La legge

La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è tra gli aspetti più discussi e fraintesi della teoria
di Marx. Non entrerò nel merito di questo dibattito, ma mi limiterò ad esporre le linee generali del pensiero
1
der Spiegel, 29 settembre 2008.

la Contraddizione,
1 no.127
di Marx, quali emergono dal manoscritto del terzo libro del Capitale,2 mettendole a confronto con quanto è
accaduto negli ultimi anni.
Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano (lavoro
vivo) può creare valore e conservare quello incluso nei macchinari (lavoro morto): è quindi esso a fornire al
capitalista i suoi profitti, attraverso lavoro non pagato (pluslavoro), ossia lavoro supplementare rispetto a
quello necessario per riprodurre la forza-lavoro (lavoro necessario); questo pluslavoro produce un valore
supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del
processo di produzione. Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore Marx
definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza-lavoro capitale variabile e quello adoperato per
acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante.
Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha luogo “una diminuzione
relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo
messo in movimento”; Marx definisce questo fenomeno anche parlando di una “progressiva più elevata
composizione organica del capitale”. Si tratta in realtà di “un’altra espressione dello sviluppo progressivo
della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del
crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti
nello stesso tempo, ossia con meno lavoro”. La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al
capitale costante fa sì che, restando invariato il grado di sfruttamento del lavoro, il saggio di profitto, ossia il
rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo anticipato (la somma di capitale variabile e capitale
costante), diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il termine
“caduta”, con cui si traduce usualmente in italiano il tedesco Fall, può essere fuorviante, in quanto dà l’idea
di un “crollo” brusco e improvviso. E in effetti la teoria marxiana ha dato origine ad alcune interpretazioni
“crolliste”. Queste interpretazioni sono sbagliate già a livello interpretativo (oltre ad essersi rivelate
chiaramente erronee sul piano della diagnosi degli sviluppi del capitalismo): è infatti lo stesso Marx ad
insistere sul carattere di semplice “tendenza”, per di più non lineare, della legge (la qual cosa già esclude la
subitaneità). E del resto lo stesso termine Fall (e l’aggettivo correlato) ha un significato che non è riducibile
alla caduta improvvisa, ed è inoltre sostituito di frequente da un sostantivo il cui significato dà più il senso
della gradualità, quale Abnahme (diminuzione).

2. Fattori di controtendenza

La diminuzione del saggio di profitto può essere in parte controbilanciata dalla concentrazione dei
capitali. Essa fa sì che, pur calando la proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un numero
maggiore di lavoratori lavori per un singolo capitalista e quindi “la massa dei profitti aumenti
contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto”. È appena il caso di ricordare, a questo
riguardo, che il processo di concentrazione dei capitali ha fatto progressi da gigante negli ultimi anni,
creando dei veri e propri colossi (a New York hanno creato anche un indice apposta per loro: i “Global
Titans”) che possono permettersi rendite da monopolio. In certi settori la concentrazione è così avanzata che
ci troviamo di fronte a situazioni di quasi-monopolio da parte di una singola impresa: si è ad esempio
calcolato che oltre l’80% dei computer del mondo giri sui sistemi operativi della Microsoft.
Ma l’aumento della massa dei profitti non è sufficiente ad invalidare gli effetti della legge. È lo stesso
Marx ad osservare che “se si considera l’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale ad es.
soltanto degli ultimi 30 anni rispetto a tutti i periodi precedenti, se si considera soprattutto l’enorme massa di
capitale fisso che entra nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al macchinario
propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale
spiegazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra quella opposta: come si spiega il fatto che
questa caduta non sia più grande o più rapida?”. La risposta di Marx è questa: “devono entrare in gioco
fattori di controtendenza, che frenano e contrastano l’efficacia della legge generale, dandole il carattere di
una semplice tendenza, ragion per cui anche noi abbiamo definito la caduta del saggio generale di profitto
come una caduta tendenziale”.
I principali fattori di controtendenza sono questi:
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del plusvalore, soprattutto
attraverso il prolungamento del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro
(plusvalore relativo). È quanto è avvenuto negli scorsi anni tanto nei paesi in via di sviluppo, in cui si sono
delocalizzati impianti industriali, quanto nei paesi a capitalismo avanzato. Da questo punto di vista è
assolutamente emblematico l’aumento dell’orario di lavoro a parità di salario (cioè l’aumento del plusvalore
assoluto) realizzato qualche anno fa nelle aziende private di un paese quale la Germania. L’accrescimento del
2
Le citazioni sono tratte dalla mia traduzione della parte sulla caduta del saggio di profitto del Manoscritto del III libro del
Capitale, di prossima pubblicazione in un volume contenente gli scritti di Marx sulla crisi che uscirà presso l’editore DeriveApprodi.

2
saggio del plusvalore che così si realizza, seppure non elimina la legge generale della caduta del saggio di
profitto, “fa sì che essa agisca più come tendenza, cioè come una legge la cui completa realizzazione è
paralizzata, frenata, rallentata, indebolita da circostanze che agiscono in senso opposto”.
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx questa è “una delle cause più
importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto”. A questo proposito è importante
osservare che il valore della forza-lavoro è storicamente determinato. Sotto questo profilo, è indubbio che la
riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni, in parallelo ai processi di precarizzazione della forza-lavoro,
li collochi in molti casi nettamente al di sotto del loro valore storico medio dei 2-3 decenni precedenti. Ciò è
ancora più evidente se si tiene conto anche dell’attacco alle varie componenti del salario indiretto e differito
(aumento del costo dei servizi pubblici, generalizzata diminuzione della protezione sociale, privatizzazione
dei sistemi pensionistici, ecc.).
Ma facciamo parlare le cifre. Negli Stati Uniti la disuguaglianza tra i redditi ha raggiunto il punto più alto
dagli anni venti. Lo stesso vale per la Gran Bretagna dopo l’andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997:
anche qui, secondo dati governativi pubblicati del maggio 2009, la forbice della disuguaglianza è la più alta
di sempre.3 Ma la riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai salari, e per contro la crescita
della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha
evidenziato una ricerca della Banca dei regolamenti internazionali del 2007: in Italia, ad esempio, dal 1983 al
2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali, andati in maggiori profitti (che infatti sono saliti nel
periodo dal 23% al 31% del totale). 4 E la stessa Commissione europea in Employment in Europe 2007 ha
dovuto ammettere: “nella maggior parte dei paesi Ue la quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco
nella seconda metà degli anni ‘70 e nei primi anni ‘80, successivamente riducendosi a livelli inferiori a quelli
antecedenti il primo shock petrolifero”. Infine, secondo una ricerca dell’International labour office di
Ginevra, i salari medi mondiali nel 1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del Pil. Nella maggior
parte dei paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente nel 2001-2007 rispetto al periodo
1995-2000. Nell’intero periodo considerato essa è diminuita rispetto ai profitti. 5
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx osserva: “la stessa
evoluzione che accresce la massa del capitale costante in rapporto a quello variabile, riduce attraverso
l’accresciuta forza produttiva del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che
il valore del capitale costante – che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce
il volume materiale del capitale costante, cioè l’entità materiale dei mezzi di produzione che sono messi in
movimento dalla stessa forza lavoro”. Ne consegue che in realtà il mutamento della proporzione tra capitale
variabile e capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe desumere dall’aumento dell’entità
materiale degli elementi (macchinari ecc.) che compongono quest’ultimo.
4) La sovrappopolazione relativa. Questo aspetto negli ultimi anni si è manifestato in particolare sotto
forma di pressione di un gigantesco esercito industriale di riserva presente nei paesi emergenti, soprattutto in
Asia, ma anche, ad es., nell’Europa dell’est. Questo ha comportato una massiccia delocalizzazione di
produzioni industriali verso i paesi di nuova industrializzazione. Più in generale, l’accentuata concorrenza di
produzioni realizzate in paesi a minor costo della forza-lavoro ha esercitato una fortissima influenza
calmieratrice sui salari dei paesi industrialmente più avanzati. Così si spiega il dato, solo apparentemente
controintutivo (ma certamente in controtendenza rispetto alla retorica sui benèfici effetti della
globalizzazione), che negli ultimi dieci anni i paesi in cui il commercio estero è cresciuto in proporzione del
Pil sono stati anche i paesi che hanno conosciuto in media la maggiore diminuzione della quota del Pil
andata ai salari.6 Con riferimento a questo fattore di controtendenza Marx osserva tra l’altro come tra le
conseguenze “del prezzo a buon mercato e della massa di salariati disponibili, o messi in esubero”, a loro
volta determinati dalla sovrappopolazione relativa di lavoratori, vi sia il fatto che “in molti rami della
produzione perdura la sussunzione più o meno meramente formale del lavoro sotto il capitale, e perdura più a
lungo di quanto il livello generale dello sviluppo a prima vista renderebbe possibile”. Questo significa
produzioni più arretrate e a maggiore intensità di lavoro di quanto in astratto sarebbe consentito dallo
sviluppo tecnologico, dovute al fatto che il basso prezzo della forza-lavoro le rende comunque convenienti. A
questo proposito è interessante osservare ad esempio che il tanto decantato ruolo dei servizi nel creare
occupazione negli Stati Uniti dei tardi anni novanta va ricondotto in massima parte ad occupazione a bassi
salari e bassa produttività del lavoro, resa possibile dalla disponibilità di molta manodopera in eccedenza. 7 E

3
J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, in Financial Times, 8 aprile 2008. Sulla situazione
britannica vedi M. Engel, A Faustian pact that backfired spectacularly, in Financial Times, 26 maggio 2009.
4
L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. La ricerca è
stata ripresa in un ottimo articolo di M. Ricci, Il declino degli stipendi, in la Repubblica, 3 maggio 2008. Vedi anche M. Mucchetti,
Torna il tema della redistribuzione, in Corriere della Sera, 24 agosto 2008.
5
Global Wage Report 2008/9, International Labour Office, Geneva, novembre 2008. Si vedano in particolare le pp. XIII, 20, 59.
Ma tutta la ricerca è di estremo interesse.
6
Global Wage Report 2008/9, cit., p. 22.
7
Sul punto vedi N. Colajanni, Il miracolo americano: un modello per l’Europa?, Milano, Sperling & Kupfer, 2000, p. 30 sgg.

la Contraddizione,
3 no.127
un discorso analogo potrebbe essere fatto in relazione alla riluttanza di molti industriali nostrani ad investire
in innovazione tecnologica.
5) Il commercio estero. Secondo Marx questo fattore rappresenta un fattore di controtendenza rispetto
alla caduta del saggio di profitto per vari motivi.
In primo luogo, grazie al commercio estero il volume della produzione si accresce consentendo un
ampliamento di scala della produzione e quindi una riduzione dei costi unitari di produzione: questo “rende
più a buon mercato tanto gli elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale
variabile (mezzi di sussistenza necessari)”. In tal modo agisce in modo favorevole all’aumento del saggio di
profitto, per un verso accrescendo il saggio del plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e
quindi una maggior parte della giornata lavorativa può essere rappresentata da lavoro non pagato) e per un
altro diminuendo il valore del capitale costante (ciò che rallenta l’aumento della composizione organica del
capitale). È indubbio il ruolo che questo fattore ha giocato negli ultimi anni, in termini di bassa inflazione e
di maggiori margini di compressione dei salari.
In secondo luogo, la superiorità tecnologica delle merci prodotte in un determinato paese può consentire
un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci prodotte altrove con tecnologia meno avanzata: “i capitali
investiti nel commercio estero possono fruttare un saggio di profitto superiore” – osserva Marx a questo
riguardo – perché qui “si concorre con merci che sono prodotte da altri paesi con condizioni di produzione
meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a
buon mercato dei paesi concorrenti”. A questo riguardo va osservato che, per quanto riguarda i paesi a
capitalismo maturo (o – come diceva Lenin – “più che maturo”), questo aspetto, che per un lungo periodo ha
giocato un ruolo molto importante (dando origine a molte teorizzazioni sullo “scambio ineguale” come
elemento permanente del dominio dei paesi del “centro” capitalistico rispetto a quelli della “periferia”), ha
perso relativamente peso negli ultimi anni, grazie agli impressionanti progressi tecnologici compiuti da paesi
quali India, Cina e altri stati del sud-est asiatico.
In terzo luogo, “per quanto d’altro lato riguarda i capitali investiti in colonie” (ma potremmo agevolmente
sostituire questo termine con “paesi emergenti”), “essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in
quei paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo ... vi
è un maggiore sfruttamento del lavoro. Non si vede proprio perché i più elevati saggi di profitto, che i
capitali in tal modo investiti in determinati rami rimpatriano, non debbano qui ... rientrare nel livellamento
generale del saggio generale di profitto e quindi non debbano elevarlo di una determinata quota”. È facile
vedere come questo aspetto si applichi perfettamente a molti odierni investimenti diretti esteri effettuati in
paesi emergenti o in “economie a rapido sviluppo”, come ormai si usa dire. Quanto sopra vale per il breve
periodo. Gli effetti di medio-lungo periodo del commercio estero, invece, non sono così favorevoli al saggio
di profitto. Infatti, come rileva Marx (con evidente riferimento all’Inghilterra dei suoi tempi), “lo stesso
commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale
variabile rispetto a quello costante e produce d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha
di nuovo alla lunga l’effetto opposto”.
Va però sottolineata una peculiarità della situazione attuale: l’ampliamento del commercio è certamente
stato negli ultimi decenni considerevole innanzitutto in senso geografico (si pensi cosa ha significato
l’apertura di mercati prima chiusi al capitale quali quelli dell’Est europeo); ma esso deve essere in senso
anche qualitativo. In altri termini, esso va nel senso di un ampliamento della sfera del commercio, ossia di
ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. Tra le contromisure alla caduta del saggio di profitto vi è
infatti la messa a profitto dei beni comuni, ossia di valori d’uso sino a ieri gratuiti che si è cercato e si cerca
di trasformare in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e l’ampliamento di ciò che è coperto da
brevetto (a questo riguardo si va ormai dal genoma, a determinati tipi di piante, alla proprietà intellettuale).
Da questo punto di vista, la tendenza è quella della colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del
capitale.
6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Quest’ultimo fattore, cui Marx si limita ad accennare, è
la destinazione di una parte crescente del capitale a capitale produttivo d’interesse, ossia all’investimento
speculativo, ad es. in obbligazioni o azioni. Come vedremo, si tratta di un fattore oggi di grande importanza.

3. La caduta del saggio di profitto, l’antidoto del credito, il crack

Abbiamo esaminato i fattori di controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto, ravvisandone
la presenza negli sviluppi economici più recenti. Ma come stanno le cose per quanto riguarda la stessa caduta
del saggio di profitto? Questa tendenza, nonostante l’agire dei fattori di controtendenza visti sopra, è
confermata dai dati in nostro possesso oppure no? La risposta è senz’altro affermativa. E questo vale per un
ampio arco di tempo. Nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è stato di
poco superiore alla metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950 -1973. Se dal calcolo si escludesse

4
la Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi. 8 E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è
sempre inferiore col passare degli anni. La crescita mondiale negli anni novanta è stata mediamente inferiore
a quella dei decenni precedenti.9
E per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto? La più approfondita ricerca recente in materia
dimostra una tendenza generale di lungo periodo al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo
convergere verso il basso e verso livelli simili nei principali paesi dell’occidente industrializzato, sia pure
con andamenti tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia,
che evidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi anni sessanta e i primi anni del decennio
in corso.10 Per quanto riguarda specificamente l’Italia, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, l’ar -
tefice delle privatizzazioni degli anni novanta, ha detto testualmente: “negli ultimi vent’anni la nostra è stata
una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte”. 11 Il Giappone,
che muoveva da livelli relativamente più elevati del saggio di profitto, evidenzia una diminuzione ancora
maggiore dal 1970 ai primi anni del decennio in corso. Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano da livelli
più bassi, sembrano invece evidenziare una certa ripresa a partire dagli anni ottanta. 12 Ma è una ripresa
drogata per l’appunto da quella gigantesca bolla delle attività finanziarie ed espansione del credito che è
esplosa nell’estate del 2007.
Come abbiamo già ricordato su queste pagine [cfr. no.125], questa superfetazione della finanza e del
debito ha avuto una triplice funzione: 1) mitigare le conseguenze della riduzione dei salari e consentire un
sostanziale sganciamento della dinamica dei consumi da quella dei redditi grazie allo sviluppo del credito al
consumo e all’effetto ricchezza prodotto da un susseguirsi di bolle speculative (ultime in ordine di tempo la
bolla della new economy e quella immobiliare); 2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da
sovrapproduzione nell’industria (tipico il caso del settore automobilistico, in cui le vendite sono state
artificialmente gonfiate per anni con un uso estremamente spinto del credito rateale per l’acquisto delle
autovetture, su cui erano praticati tassi prossimi allo zero); 3) consentire al capitale in crisi di valorizzazione
nel settore industriale un’elevata redditività in attività finanziarie e speculative [per un’esposizione
dettagliata di questi tre aspetti cfr. ancora no.125]. Particolarmente eclatante il caso degli Stati Uniti, in cui
nei primi anni ottanta il settore finanziario vantava il 10% dei profitti totali, mentre nel 2007 tale proporzione
è salita al 40%. Inoltre, tra il 2002 e il 2007, all’incirca la metà della crescita del Pil Usa è stata trainata dal
settore immobiliare. E con tutto ciò, se si considerano i profitti medi delle imprese americane prima delle
tasse dopo il 1940, si osserva comunque una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di profitto era
del 28%, dal 1957 al 1980 è stato del 20%, per scendere ancora al 14% nel periodo 1981-2004. 13 Nell’ultimo
di questi periodi il livello di utilizzo degli impianti industriali è sempre stato inferiore all’82%.14
Poi è venuta la resa dei conti. Quella in atto è una vera e propria crisi generale, attraverso la quale si sta
verificando su scala mondiale una enorme distruzione di capitale, necessaria al fine di ripristinare condizioni
più elevate di redditività del capitale.
Marx al riguardo scriveva:
“Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo
produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di
capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la
forma più incisiva in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello
superiore di produzione sociale”.15 Sembra difficile dargli torto.

8
A. Kliman, The destruction of capital and the current economic crisis, 15 gennaio 2009.
9
In proposito vedi i dati riportati in J. Halevy, Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippo-americana e Cina, in L. Vasapollo (a cura di),
Lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione, Jaca Book, Milano 2005, pp. 181 sgg.
10
M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study of the long-term movement of the
profit rate in the capitalist world economy, in Journal of World-Systems Research, vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. pp. 38-40.
11
Considerazioni finali, Banca d’Italia, 29 maggio 2009.
12
M. Li, F. Xiao, A. Zhu, cit..
13
A. Kliman, cit..
14
J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial implosion and stagnation. Back to the real economy, in Monthly Review, dicembre
2008.
15
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus, ora in K. Marx, F. Engels, Opere
complete, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 137.

la Contraddizione,
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