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321 - la Contraddizione, 137, Roma 2011

QUANDO CADE IL RE, L’ASSO TREMA


scandalo italiano, bersaglio per colpire l’euro
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Cerca de vedere
le ccarte de l’autre,
ma le toje tienattele bone, astrente,
e senza farele vedere.
[Chitarrella, Mediatore e tressette, Revole VI.28]

Il gioco della briscola, nella grande diffusione che ha in Calabria, insegna che “quandu cade lu re l’assu
trema”. Ma nel gioco delle valute, se ancora oggi la carta (moneta) del re può essere rappresentata dall’euro
non c’è dubbio che nel presente disperato gioco al massacro la carta (moneta) dell’asso spetta residualmente
al dollaro: ovviamente la rappresentazione ha sullo sfondo l’apparizione del renminbi [o yuan, ¥ come lo yen
giapponese, anche se in Cina per non confonderlo si preferisce latinizzarlo con una sbarra sola Ұ] cinese (un
po’ meno di 8,8 €) tuttora nascosta nelle brume [forse in attesa di una “moneta unica asiatica”, insieme
almeno allo yen giapponese (106 €) e alla rupìa indiana (0,68 €) – le valutazioni degli scambi incrociati sono
quelle del 16 ottobre, ovviamente molto fluttuanti nei diversi giorni].
L’attacco all’Italia non si ferma, anzi, e lo scrivono importanti giornali economici stranieri. Anche se le
banche francesi più di quelle tedesche sono piene di titoli spazzatura [come si preciserà meglio nella
successiva scheda, Dollaro con\tro euro], debiti che non sanno più a chi vendere: già, si vendono pure i
debiti, infilati insieme a pochi titoli buoni nei “pacchetti” tranello per pensionati e gonzi, ma che ormai
invadono tutto il mercato bancario e finanziario speculativo, sì che molte banche vanno in crisi profonda e
ricorrono al salvataggio pubblico. Sul bell’esempio dei salvataggi fatti ormai tre anni fa in Usa tramite i
“manovratori di Obama” [cfr. no.122], guidati dai massimi facitori di “bolle”, Goldman & Sachs [cfr. no.133]
che siedono a Wall street, i “salvataggi” si sono susseguiti. Germania e Francia, i due giganti europei con i
piedi d’argilla ben protetti da spessi scarponi ricoperti di pelo menano le danze hanno ricopiato la pratica
usamericana, e hanno finto di estenderla agli stati tramite appunto il cosiddetto “fondo salvastati”,
costringendo la Ue a gettarsi nella mischia della lotta di concorrenza sul mercato mondiale.
Già prima dell’estate coloro che volevano provare a vederci chiaro [cfr. quanto detto dal Sole 24 ore,
15.6. 2011, e qui successiva scheda] sapevano che coprire sùbito il debito della Grecia – e poi di Spagna e
Italia – voleva dire salvare le banche francesi e tedesche: e pertanto l’euro. Non è un caso che le banche con
maggiori esigenze di ricapitalizzazione – ma al contrario delle penalizzanti regole bancarie europee dette di
“Basilea 3” – non sono le italiane, che hanno investito ben poco in titoli greci e simili titoli tossici, ma
proprio le tedesche (Deutsche bank in testa, con una quantità esorbitante di “spazzatura” in bilancio) e le
francesi, a rischio più del doppio delle italiane.
Esemplare è stato il caso della banca franco-belga Dexia. Il suo smembramento permette di separare,
come è diffusa abitudine, le attività dalle passività (eufemisticamente dette “attività a rischio” che
assommerebbero a poco meno di 100 mrd €); ciò verrebbe fatto attraverso la creazione di una banca cattiva
(cosiddetta “bad bank”); in essa devono affluire, appunto, tutti i titoli tossici per permettere alle attività
buone, quelle vere, di sopravvivere. Per Dexia, specializzata nei prestiti agli enti locali, questa operazione
sarebbe l’ultima possibilità, in passato già salvata dall’intervento pubblico; ora gli aiuti di Francia e Belgio –
con enti pubblici come la cassa depositi e prestiti e la banca delle poste – possono essere disposti solo dagli
stati, gli unici in grado di reggere per lungo tempo. Senonché l’“accordo” strategico di Germania e Francia –
entrambe sotto l’incubo elettorale – scarica il peso sul resto dell’Ue (che nel totale richiede molto più di 100
mrd € per la ricapitalizzazione bancaria): e pertanto sulle altrui banche più deboli, e i rispettivi stati esposti a
grandi rischi debitori e politici. Ma qui siamo al gioco truccato delle carte dove l’asso deve guardarsi dal re –
se questo cade non riuscendosi neppure a coprire bene con le altre figure del mazzo, in ulteriore massacro
interno, tanto che è già arrivato il turno della regina Francia – e nel frattempo spingere per salvarsi facendo
cadere quello al suo posto.
E allora deve valere ufficiosamente la regola 28 di Chitarrella, ricordata qui in occhiello: “Cerca di vedere
le carte dell’altro, ma le tue tiettele bene strette, senza farele vedere”: sicché il piccolo stato greco, che di per
sé non faceva paura a nessuno, con la sua sventurata popolazione, è stato prima buttato nella spazzatura di

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debiti statali inesigibili, falsificati come “sovrani”, da banche e potenze straniere e quindi coinvolto in traffici
monetari più grandi di esso. In tempi per molti, chissà perché, ancora non sospetti scrivevamo [cfr. no 131,
gennaio 2010] che “l’euro era il vero oggetto delle manovre da parte del dollaro, magari forse solo per un
rischiosissimo tentativo di salvare dalla frana proprio quest’ultima valuta, scatenando una guerra economica
frontale. Non a caso l’euro è già precipitato da sopra 1,5 $ a sotto 1,2 $ con tendenze a ulteriori diminuzioni:
dunque la Grecia (la "nuora") è presa come pretestuoso facile bersaglio, affinché l’euro (la "suocera")
intenda!”. Ciò che fa indispettire, oltre che sorridere per l’idiozia-dei-solóni-della-politica-economica, è il
fatto che solo adesso dopo un paio di anni si accorgono che la crisi greca serviva solo da ballon d’essai,
pesando un nonnulla sull’insieme dell’economia europea, ma bastante per sondare da parte Usa la debolezza
monetaria dell’Ue – e quindi in essa dell’Italia, storicamente più forte ma stracciata e derisa, e non della
Grecia stessa, o di Spagna e Portogallo, per entrare nel “maialaio” dei pigs.
Dunque dietro alla Grecia, come ci sembrò chiaro già fin dalla conclamazione della sua crisi, non c’era la
Spagna – i cui bonos hanno un divario (ormai da tutti – giornalisti tv o parlamentari interpellati – detto
spread, magari senza sapere di che cosa si tratti) rispetto ai buoni del tesoro tedeschi minore di quello dei ...
“brutos” Btp italiani, che è altalenante fino a molto sopra “600 punti” [ossia un +6%, per cui i rendimenti di
alcuni titoli italiani pluriennali sono stati spinti alla soglia limite dell’8%]. Livelli simili per divario delle
quotazioni e rendimenti dei titoli di stato erano stati tuttavia già raggiunti in Italia nel periodo degli accordi
di Maastricht e di preparazione dell’euro, cioè nei ... “fantastici anni 1990-1995” di prima predisposizione
del colpo di stato “tecnico e pulito” nello “spirito” 1992-93 che Ciampi ha oggi rievocato “condividendolo in
pieno” [come da noi ripreso nei nn. 131 e 136], piduista e liminare alla insorgenza berlusconiana [cfr. nn. 28
e 34] e citato qui nuovamente più avanti.
E oggi, appunto, è l’Europa intera a essere insidiata dagli Usa. Quindi la “forza” internazionale dell’eco-
nomia dell’Italia ex G.5 ha offerto, infatti, nel taroccamento subito da una gestione pubblica a dir poco
scandalosa, il necessario bersaglio da colpire per attaccare l’euro; fino a evocarne il “commissariamento” per
provocare un intervento dell’Ue prima, e poi del Fmi fino a quello dei brics [“s” per Sudafrica compresa –
cfr. un successivo articolo]. È stata questa situazione complessiva, tra le altre cose, a costringerla a chiedere
aiuti all’Ue e al Fmi, anche se Berlusconi – manco a dirlo – lo ha negato decisamente, respingendo
addirittura l’apertura di credito di 45 mrd € proposta del Fmi. L’inizio della partita a carte, con scommesse
distruttive, è diventata così un dato di fatto.
È esattamente ciò che oggi è confermato a iosa, con alcune aggravanti. L’attacco del dollaro all’euro,
tramite lo specchietto greco e la pagliacciata italiana, è passato pure attraverso il paradosso di far aumentare
di nuovo la quotazione dell’euro proprio per non svalutare troppo il dollaro stesso [si noti che quando l’euro
in salita superò gli 1,30 $ sembrò a tutti uno sproposito; ora quando cade a quei livelli in discesa si parla di
crisi nera]. Una seconda aggravante riguarda proprio la situazione greca, nel mercato mondiale irrilevante,
ma ormai con la crisi non più per una popolazione che è stremata quasi come quelle dell’Africa
mediterranea. Ma agli imperialisti dominanti, europei compresi, essa serve nel loro mondo così come sono
state utilizzate le rivolte – malamente dette “rivoluzioni” anche dall’asinistra – in Tunisia, in Egitto, poi fino
all’esito programmato in Libia e in prospettiva siriana e chissà, ma loro lo sanno, dove altro dall’Iran in poi.
La terza aggravante coinvolge la lotta fratricida per sopravvivere a spese altrui tra gli “argillosi” presunti
potenti d’Europa, appunto Germania e Francia, cui Grecia e mondo arabo e islamico costituiscono un
nutrimento da spartirsi, mentre la “forte” Italia funge perfettamente da “acchiappamosche”.
Torniamo perciò, come recita un detto francese, ai “nostri montoni” italioti. In tutto ciò, agli imperialismi
europei dominanti è caduto “come il cacio sui maccheroni”, per dirla popolarmente, una quarta aggravante
offerta – pronubo Ciampi, compar d’anello Scalfaro, che hanno fatto pure passare insieme alla legge
elettorale maggioritaria pure l’assurda disposizione piduista che simula l’elezione diretta del presidente del
consiglio attraverso l’ammissione elettorale di liste recanti il nome del capo – dalla rammentata penosa
situazione attraversata dall’Italia dopo il 1992-93 sotto il tallone mafioso-piduista-berlusconiano [fu proprio
Ciampi che nel losco 1993 nominò un Comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario
Draghi, già dirigente di Goldman Sachs]. Rispetto a simile idilliaco quadro italico, l’infido duetto
dominante in Europa ha gioco facile, e a carte scoperte; sono quasi vent’anni che è fatiscente un’opposi -
zione che non ha fatto nulla nemmeno nei momenti e nelle condizioni in cui avrebbe potuto agire, anzi
(legge elettorale truffa con “premio” maggioritario, conflitto di interessi, falso in bilancio, condoni e
provvedimenti una tantum stigmatizzati perfino dall’Europa dei padroni, leggi ad hoc e ripetuta violazione
di norme comunitarie nonché costituzionali, ecc.).

I “fondi chiusi” (ossia i cosi variamente detti hedge fund) degli speculatori di professione, soprattutto
quelli basati in Usa scommettono contro i Buoni del tesoro italiani poiché, come detto sopra, è l’Italia – e non
la Grecia o la Spagna e gli altri “maiali” (i piigs, con la “i” ormai raddoppiata proprio per affiancare pure
l’Italia all’Irlanda, con il Portogallo nel mucchio) – ha l’economia più forte del gruppo, anzi è con Germania
e Francia tra le tre grandi di Ue\euro. Senonché, allo stesso tempo, siccome è lo stato che ha perso ogni

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benché minima credibilità soprattutto con giullarate, “puttanate” e menzogne, fatte per distogliere dalle
falsità promesse e mai mantenute, e dai reati commessi ma coperti “legalmente”, di Silvio Berlusconi, contro
cui i liberisti-di-centro-a-sinistra (Ciampi, Dini, Amato, Prodi, D’Alema & conniventi) non si sono mossi –
l’Italia ha rappresentato il bersaglio perfetto per costringere l’Europa a difenderla a ogni costo: la Grecia alla
fine può pure andare a farsi fottere, l’Italia invece creerebbe un gravissimo problema per tutta l’Ue e per
l’euro.
Dunque il settore bancario italiano è stato però molto più facilmente attaccabile e meno difendibile di
Germania e Francia nonostante che fosse molto meno esposto per la quantità di titoli spazzatura che esso
detiene rispetto a entrambe. Gli istituti bancari italiani più grandi maggiormente vulnerabili – Unicredit e
Intesa SanPaolo – sono entrati nel mirino di Sigma-X (del gruppo Goldman Sachs). La connessione
internazionale è pertanto qui palese: dall’Italia all’Europa e da questa agli Usa. La formazione delle bolle
finanziarie, in tutto il mercato mondiale prese l’avvio dalle trame di Goldman Sachs [cfr. no.133]
responsabile iniziale del disastro e ha colpito ovunque: perfino Deutsche bank, Bnp Paribas, Barclays, Ubs,
Credit suisse, e pure in Usa Bank of America, Morgan Stanley, Citigroup, Merrill Lynch, Aig, Bear Stearns,
Fannie Mae e Freddie Mac, a partire da Lehman bros “fratello nemico” proprio del più forte G&S.
In Italia conta più di tutte la borsa di Milano, i cui indici più degli altri ballando da indemoniati oscillano
su e giù come speculazione comanda in tutto il mondo, se non in giornata almeno un giorno sì e uno no; ciò
fa comprare al ribasso per rivendere durante la quotazione seguente. Chi fa questo sono gli operatori di
borsa, per gli ordinativi dei loro clienti importanti che impartiscono loro commissioni: i piccoli speculatori
normalmente ci rimettono, altrimenti gli agenti autorizzati a operare sui cambi – arbitrariamente, secondo
l’andamento delle quotazioni di borsa – non ci farebbero sopra la “cresta”.
Ma specularmente al crollo di borse e titoli di stato, con un debito pubblico già del 120% del pil e in
crescita anche per l’aumento degli interessi sullo stesso debito pubblico (tanto che essi stanno praticamente
assorbendo gran parte delle entrate previste con la “manovra infinita” in atto) unitamente all’incapacità di
tenere sotto controllo i conti pubblici, è stato notato come l’aumento della valutazione di altre “ricchezze”
italiane attraggano quanti, investitori e speculatori, possono guadagnare da questa crisi appropriandosi di
esse. Non è male ricordare [cfr. nn.92 e 99 e no.98 e 134] che per ridurre l’indebitamento con alienazione
una tantum del patrimonio pubblico, attraverso i vari enti detti Scip gestiti dalla Patrimonio Spa, tale metodo
fu introdotto in Italia da D’Alema per gli immobili degli enti previdenziali, poi generalizzato e cavalcato alla
grande per i vari governi Berlusconi da Tremonti (fino alla sua cervellotica proposta di vendita ai privati
delle ... spiagge).
Ora sono molti, anche tra i suoi ex sostenitori camerati di governo, che amano sempre più definirlo ...
“socialista” (non con rispetto parlando): ma non era lui quel commercialista di Varese, caro al kapo, che
imperversò, oltre che attraverso le suddette privatizzazioni, con una tantum, condoni, permessi di trasferire
capitali all’estero per evadere le tasse per poi farli rientrare quasi gratis, falsi in bilancio e altre leggi
economiche ad hoc, e via “creativizzando” la finanza? Si tratta adesso della svendita – ovviamente a
bassissimi “prezzi di realizzo”, che comporta pure le mancate entrate dell’attività di tali imprese – di imprese
pubbliche in via di privatizzazione (Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Trenitalia, Poste, Rai-tv, Ospedali,
Università, Scuole e aziende municipalizzate), e di patrimoni immobiliari, culturali e artistici (si stima che in
Italia, oltre alle bellezze paesaggistiche e ambientali, si abbiano i ⅔ di tutti i beni artistici e archeologici
dell’umanità). Senonché lo stato, dopo aver incassato denaro contante, inferiore al prezzo di mercato, deve
però perderne cumulativamente molto di più per pagare gli affitti degli immobili venduti a quegli stessi
privati che ne hanno approfittato: due volte!
Ma si può finire con quello considerato dai privati il bene rifugio per eccellenza: l’oro, che pone lo stato
italiano ai primissimi posti per le riserve auree (che si stimano essere ai vertici nel mondo). L’Italia, infatti,
con la quarta riserva di oro [la Banca d’Italia ne stima ufficialmente quasi 2,5 tonnellate, che al prezzo
corrente medio (molto altalenante: ma si prenda il livello di 1800 $ l’oncia) dell’oro equivale a un importo
intorno ai 100 mrd €] segue soltanto Usa, Germania e Fmi, e precede la Francia – tutti i quattro stati con
percentuali sulle riserve mondiali molto simili, intorno al 70% – avanti e di molto a Cina, Svizzera, Russia,
Giappone [per curiosità si noti che il Venezuela è al 15° posto con poco più di 350 t, e Chávez ne ha ritirate
più di 200 dall’“occidente”]. Pertanto la desiderabilità internazionale di questa ricchezza è di per sé evidente.
È vero che con gli accordi tra le banche centrali – in Ue con la banca tedesca in primo luogo – la Bce, che
detiene solo un quinto rispetto alle riserve italiane, ha dichiarato ripetutamente di non ammettere la vendita
di oro per risanare i conti; e nel corso dell’ultimo G.20 di Cannes è stato confermata l’inopportunità di
utilizzare i diritti speciali di prelievo per potenziare il cosiddetto “fondo salvastati” europeo. E tale
avvertimento è stato implicitamente rivolto anche alle possibili tentazioni italiane contro l’eventualità di
usare le proprie riserve auree per abbattere il debito pubblico. “Attraverso una vendita l’Italia potrebbe,
considerato l’alto valore dell’oro, ridurre sensibilmente il suo debito pubblico”. Ma di fronte a una crisi che
ha gravi aspetti monetari come l’attuale – quindi non cause e pertanto funzionante eventualmente solo come

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palliativo per “fare cassa”, come si dice, nei momenti di più drammatico strangolamento – nel marasma
generale nulla si può dire e niente è escluso.
Né – al di là delle “puttanate” del Berlüska che servono per distogliere l’at tenzione da problemi più
grandi, come lavoro, occupazione, crisi economica e appalti anziché piani di sviluppo, ecc. – ci sono altre
questioni internazionali. Prima tra tutte c’è la questione energetica che ha portato Berlusconi, per suoi
interessi personali, a puntare su Gheddafi, con le tragicomiche conseguenze che tutti sanno, e su Putin, con la
sua adesione al progetto del gasdotto russo con Eni e Gazprom attraverso il mar Nero e i Balcani per
raggiungere l’Italia. Sempre con la stessa meta balcanico-italo-europea si contrappone a esso, però, quello
appoggiato da Usa, Uk e Ue che passerebbe via terra direttamente per la penisola anatolica, sempre
attraverso la Turchia ma che, non utilizzando la via del mar Nero escluderebbe la Russia e includerebbe la
via del mar Caspio, Baku e gli stati caucasici ex sovietici in rotta di collisione con la banda di Putin.
Sono storie di ordinaria lotta tra “fratelli imperialistici”, nella quale ci si è inserita l’Italia Berlusconi sia
per il suo “amico di merenda e di lettóne” sia per la questione libica. Qui non ci si può occupare delle
profonde lotte internazionali, ma per il momento occorre limitarsi ai soli risvolti italici dato ciò che ha
rappresentato l’ingombrante presenza di Berlusconi. In effetti scegliere tra l’imperialismo Usa (oggi di
Obama, ieri di Bush, domani chissà) e quello restaurato in Russia (da Putin, ieri, oggi e verosimilmente
domani) è impossibile. Per ora si sa solo che gli Usa, nonostante i salamelecchi di convenienza, di
Berlusconi ne hanno fin sopra i (... loro) capelli e hanno aspettato pazientemente l’occasione per vederlo
cadere; la Russia è loro nemico storico, via via rinnovatosi, la Turchia è oggetto del contendere anche con
l’Ue e il pasticcio libico unito alle manovre sulla crisi finanziaria in Europa, sono ottime opportunità per
scaricarlo e cominciare a consultare i possibili successori, alleati e avversari.
In simile bailamme i balletti sulle mille e una manovra, con diversissime ver sioni via via smentite per
dare spazio a nuove misure, ritorni su temi accantonati e ripresi, ecc., hanno avuto il solo risultato di ritardare
le decisioni connesse alla crisi. Questo ritardo ha fomentato l’aumento indefesso della speculazione e quindi
dell’indebitamento dello stato per il pagamento degli interessi passivi cresciuti in maniera abnorme. Esso è
stato verosimilmente ben saputo, da dentro, in anticipo dal governo Berlusconi, che ne è stato il principale
responsabile, addirittura con la connivenza dei suoi rappresentanti più in vista. La speculazione di questo tipo
di aggiotaggio si fa con informazioni privilegiate, ossia riservate e non di pubblico dominio, raccolte all’in-
terno della struttura oggetto dell’affare [detta insider trading], in questo caso la struttura statuale medesima.
Mentre sono aumentati a dismisura – più di una cinquantina – i voti “fiducia”, non su mozione esplicita
come prescritto, chiesti da Berlusconi nell’ultima legislatura al parlamento, per non “scendere da cavallo”
ha scritto senza mezzi termini il Financial times, commentando che, con questo, “l’ultimo episodio della
saga disperata di Berlusconi si avvicina alla farsa”. Ma al di là della farsa, la “paralisi nelle decisioni ha
fatto aumentare gli interessi sul debito a livelli insostenibili nel lungo termine senza un aiuto sostanziale
dell’Ue”, e invece il kav vorrebbe che gli italiani “credessero” che a Lui “non ci sono alternative”: forse
nell’aggiotaggio speculativo!
Nello stesso contesto il kav – forse non volendo veder più su delle sue zeppe sovratacchi – ha pertanto
ripreso a dire che l’Italia sta molto meglio degli altri paesi europei, ancora negando la crisi e sostenendo che
“se venite da noi non vi accorgerete che il paese sente qualcosa che possa assomigliare a una grande crisi, i
consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, sugli aerei a fatica si trovano posti, le mete delle vacanze
sono piene. È un’economia forte, la terza d’Europa e la settima del mondo, e la vita in Italia è quella di un
paese benestante”, e amenità simili. Anni fa tra i sociologi andava di moda dire che si stava in una società
detta dei ⅔ (due benestanti e un altro mal messo), ma oggi il presidente del consiglio farebbe meglio a vedere
che si va semmai verso la società di ⅓ (uno sopra e gli altri due sotto), la qual cosa spiegherebbe assai
meglio sia il fatto che un giovane meridionale su tre è disoccupato sia i motivi per cui la Banca d’Italia ha
rilevato che uno su quattro sotto i trenta anni nella media italiana non lavora non studia non può far nulla,
mentre i nuovi poveri affluiscono alle mense caritatevoli. Addirittura l’“asso” Obama trema perché sta
vedendo sparire, pure all’interno degli Usa, quello che è stato per decenni un loro mito: la “classe media”
(o, come la chiamano, middle class), sulla quale si è fondato il loro potere qualunquista al servizio della
borghesia capitalistica.
In questo contesto i governi reazionari, comunque tali, dibattono su molti interessi – e pertanto è inutile
qui elencare i vari mutevoli punti della manovra, sia perché sono sciorinati da tutti i mezzi di comunicazione,
sia perché cambiano ogni giorno e ora cambieranno anche per l’avvicendamento dei governi e per le ulteriori
richieste europee – ma concordano su taglio dei salari e delle pensioni, incremento della disoccupazione,
chiusura di imprese, riduzione dei consumi, riduzione della spesa pubblica, manovre che portino a un
aumento di gettito e pressione fiscali e, in sintesi, dissolvimento dell’assistenza con il cosiddetto “stato
sociale”. Nel mentre la parte proletaria prosegue in mere lamentele di principio, ineccepibili ma vane,
anziché cercare di concretizzare la propria coscienza nei limiti contingentemente esistenti della
considerazione dei rapporti di forza tra le classi.

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Se poi queste misure si inquadrano in un presunto “decreto per la crescita e lo sviluppo”, si capisce a che
cosa si vada incontro. Non per niente c’era finalmente un fantomatico ministro dello ... sviluppo (Romani),
non nominato per mesi e mesi e surrogato ad interim dal kapo per non far nulla. Al pari di molti suoi colleghi
Romani ha avuto grane giudiziarie, indagato per bancarotta e galoppino del kapo per le comunicazioni tv: è
ovvio che costui non voleva destinare i fondi ottenuti con l’asta delle frequenze tv alla riduzione del debito
pubblico e all’istruzione. Si è chiesto a che servano simili sprechi? Quindi anche la finzione di parlare infine
anche di “sviluppo”, in simili condizioni, è sembrata una presa in giro perfino alla Confindustria!
Prima delle ultime richieste ufficiali della Ue – alle quali Berlusconi non ha saputo rispondere che con
vaghi intenti privi di senso e di decisioni concrete, facendo perdere altro tempo e miliardi allo stato italiano –
il consiglio direttivo della Bce (concretizzatesi nella lettera del 29 settembre 2011 firmata da Jean-Claude
Trichet e Mario Draghi) aveva discusso la situazione nei mercati dei titoli di stato italiani, ritenendo che
fosse “necessaria un’azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori
e rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle
riforme strutturali”. Quindi il diktat formulato dai due presidenti della banca europea (quello uscente e quello
entrante, fior fiore della reazionarietà capitalistica del sistema bancario) può essere letto come un preavviso
di commissariamento e di sfratto per il farsesco, ma inetto e pericolosissimo, presidente del consiglio
italiano. I nodi delle richieste intimate all’Italia, precisate e ampliate poi nella successiva lettera degli
ispettori inviati in Italia dalla Ue, sono di una durezza assoluta a causa dello sfacelo cui è stata spinta
l’economia italiana, considerata perciò una casamatta eretta a strenua difesa dell’euro. E di conseguenza i
due campioni della Bce hanno riversato tale durezza su lavoratori e popolazione italiana, senza che codeste
masse possano farci niente, non avendo la forza organizzata per reagire: e quindi si limitano ancora a
indignarsi, protestare, lamentarsi con pochissimo costrutto.
Quella che gli esperti-del-potere chiamano “esigenza di misure significative per accrescere il potenziale
di crescita” riguardano perciò: “l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi pubblici; piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali; sistemi regolatori e fiscali più adatti a
sostenere la competitività delle imprese, e assecondare le esigenze delle imprese; efficienza del mercato del
lavoro; riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello
d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro; accurata revisione delle norme che regolano
l’assunzione e il licenziamento; facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più
competitivi. Ulteriori misure di correzione del bilancio; pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di
spesa; interventi ulteriori nel sistema pensionistico (pensioni di anzianità e età del ritiro delle donne);
riduzione significativa dei costi del pubblico impiego e degli stipendi; stretto controllo per le spese regionali
e locali; uso di indicatori di "performance" (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione)”.
C’è poco da dire, i rapporti di forza esistenti comportano questo, e addirittura l’Ue imponeva di fare “il
prima possibile entro la fine di Settembre 2011”. Ma quando mai!?

In tutto questo, assume un aspetto interessante – anche se accessorio perché deve essere compreso
soltanto come conseguenza del modo di produzione dominante, non costituendo una causa originaria dei
fenomeni in atto – la mera denuncia della circostanza che concerne la ripartizione della ricchezza. Epperò
intanto basta dare anche un’occhiata sfuggente, e pertanto molto approssimativa ma almeno quanto le
statistiche ufficiali di borsa, all’andamento delle quotazioni di borsa in Italia in tempi lunghi (si è detto che
gli speculatori giocano anche sulle oscillazioni in tempi brevi, che sono interne all’andamento negli anni, e
addirittura in tempi brevissimi, in giornata, soltanto contro le quali e non per le speculazioni fondamentali fu
pensata la Tobin tax [cfr. lo scorso quiproquo 136], come precisò lo stesso autore; quindi riproporla oggi,
nell’Ue o altrove, è una stupidata inutile ovvero è una cosa del tutto diversa). Comunque limitandosi al
periodo dell’ultimo governo berlusconiano si vede che l’indice medio della borsa italiana, che stava ancora
intorno quasi ai 30 mila punti (iniziali) [come tutti gli indici anche questo rappresenta una media del
cosiddetto “paniere”, che qui è quella dell’andamento “riassuntivo” dei titoli quotati, sulla base dei prezzi
degli ultimi contratti conclusi espressi in miliardi di dollari, ponderato in base a quella che è bizzarramente
detta “capitalizzazione” di mercato]. Già alla fine del 2008 essa navigava tra i flutti, quasi dimezzati dei 15
mila punti, ossia con una perdita notevole. Ma non basta: nel 2009 era sceso ancora ai 12 mila punti.
Dunque è in simile contesto distributivo che appena poco più di una decina di anni fa dall’indagine sui
bilanci delle famiglie italiane e dalla survey of consumer finances negli Usa, messe a confronto dalla Banca
d’Italia, risultava che di contro alla concentrazione della ricchezza negli Usa – dove il 25% delle famiglie più
ricche deteneva quasi il 90% della ricchezza complessiva – in Italia tale percentuale era solo del 71%. Ma nel
2009 dei quasi 25 milioni di famiglie italiane, che possedevano circa 9½ mrd €, erano meno di 2½ di milioni
(il 10% del totale) le famiglie che avevano più del 45% della “ricchezza” complessiva disponendo in media
di 1½ mln € a testa, con un reddito personale che si aggira sui 200 mila €, ovverosia 25 volte di più del 50%
di esse, circa 12 milioni, che non arriva a 70 mila € e quindi si limitano a un magro 10%, con un reddito
annuo poco superiore ai 8 mila €.

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Ma i sicofanti del sistema continuano a riesumare la favola per cui una distribuzione di risorse e di
ricchezze perfettamente equa sarebbe utopica e forse “contraria alla natura competitiva dell’essere umano”
[sic]; costoro ribadiscono che “un egualitarismo eccessivo” [!] nella distribuzione della ricchezza
comporterebbe falsi incentivi, speculazione, costi inutili e corruzione, inficiando altresì la crescita potenziale
proprio come lo farebbe un’iniquità estrema, causando “incertezze riguardo ai diritti di proprietà”. Insomma,
a loro dire la politica economica pubblica deve puntare a un “intervallo di inegualità efficiente”: chi ha avuto
ha avuto e chi non ha dato non ha dato, disegna Altàn. Il comico, se non fosse tragicamente grottesco è che i
sapientoni “economisti illuminati”, come li chiamava Marx, presumono di saper valutare che l’indice
ottimale 1 per l’“inegualità efficiente, tale da consentire sviluppo dell’economia, è compreso tra 0,25 e 0,40”
[!!!]. Così gli scandinavi, verso lo 0,2 sono classificati come “virtuosi”, ma gli usamericani vicini allo 0,5,
stando sopra la presunta ottimalità, non possono far testo perché “troppo grandi” (... come la Cina).
Insomma, gli “economisti illuminati”, lavandosene le mani, si collocano nel “giusto mezzo” – “ qui siedo
sempre comme un maestoso cazzo fra duoi coglioni”, diceva, nell’originale in italiano antico, il
Nipote di Rameau secondo Diderot – ed “esortano a cercare la moderazione”: e bravi!
Senza tornare sulla mostruosa disparità delle entrate (remunerazioni e pensioni) dei personaggi famosi, a
cominciare da dirigenti privati e pubblici “boiardi” [all’inizio di quest’anno abbiamo già riferito di alcune
situazioni anomale, cfr. rubrica no.134], non serve a nulla personalizzare ancora sui singoli farabutti, perché
i loro nomi sono ben noti a chiunque. Basta ricordare che in Italia costoro, presi tutti insieme, rubano
intascando importi (non si può dire, come si è soliti fare, “guadagnano”) che vanno dai 4 ai 14 mln € l’anno,
cioè a dire anche un 40 mila € al giorno!, senza contare le cosiddette stock option e i cumuli di cariche. Negli
Usa sono già perfino più ... “avanti”, tanto che si calcola che i ladroni di Wall street complessivamente
dovrebbero intascarsi “fuori busta” in un anno più di 100 mrd € [cento miliardi!!!] e via rubando. Ma detto
che tutto ciò rappresenta un fatto incontestabile, vanno messe in risalto due importantissime questioni: una
politica e una teorica.
La considerazione teorica è concettualmente preliminare, anche per inquadrare correttamente l’empatia
pratica della ribellione e dell’indignazione. Tutte le considerazioni che precedono in quest’ultimo paragrafo
riguardano la ripartizione della ricchezza, o meglio per ciò che riguarda le merci la distribuzione del valore e
del reddito in particolare. Se si vuole seguire l’insegnamento di Marx occorre capire che si può procedere
alla distribuzione del reddito da consumare in qualche maniera solo se prima lo si è prodotto; più in generale
anche ogni ripartizione di ricchezza prodotta implica appunto la previa produzione di essa come valori d’uso.
È anche chiaro che qualsiasi modificazione nella distribuzione della ricchezza prodotta, per di più come
valore di merce, in quanto tale lascia inalterato l’assetto proprietario preesistente; esso infatti dipende dalla
proprietà oggettiva e dall’appropriazione delle condizioni soggettive altrui della produzione: in una frase dal
modo di produzione. Pertanto se anche la distribuzione del reddito andasse in senso più ugualitario, si
ritornerebbe di nuovo alla condizione iniziale se non fossero cambiati i rapporti di proprietà e di produzione,
cosa che di norma non può avvenire agendo sulla distribuzione in quanto tale del prodotto ottenuto tramite il
processo che lo presuppone. Per tale ragione è essenziale la distinzione marxiana tra denaro come reddito e
denaro come capitale, ossia la “trasformazione del denaro in capitale” [cfr. C, I.4].
Perciò qui sopra si è detto che la denuncia della circostanza che concerne la ripartizione della ricchezza e
la distribuzione del reddito se pure emozionalmente importante – tanto che è la faccenda principale che
colpisce la percettibilità del triviale senso comune nelle falsificazioni del processo economico – di per sé non
cambia niente, o se pure qualcosa momentaneamente può mutare ben presto la situazione precedente si
ristabilisce perché, e finché, sono rimaste invariate le date condizioni della produzione. È una legge
economica non del marxismo ma della realtà, perché si può ottenere – con la rapina, la guerra, il furto, lo
scambio o la ripartizione – soltanto ciò che sia già stato prodotto da qualcuno; e per avere qualcosa di diverso
occorre cambiare il modo di produrre le cose e i rapporti di proprietà delle condizioni atte a produrre.
Un esempio rilevante, a mo’ di corollario, riguarda l’imposizione fiscale. Anche qui è bene riprendere
quanto dice Marx [cfr., a es., L’inchiesta operaia, la Città del Sole, Napoli 1995-1999, e altrove]. “Nessuna
modifica della forma di imposizione può produrre un qualche importante cambiamento nelle relazioni tra
lavoro e capitale. Pur se il lavoratore non ricava alcun guadagno dalla soppressione di una imposta, ogni
nuova imposizione lo pregiudica fin tanto che il minimo salariale non abbia raggiunto il suo livello più
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Per i non addetti si può dire sommariamente che in statistica si usa la cosiddetta curva di Lorenz che accoppia le percentuali delle famiglie con
le percentuali di reddito che le stesse famiglie detengono: ogni punto sul grafico così determinato individua perciò la percentuale di famiglie che ha
quella percentuale sul reddito totale. Dunque una linea retta sulla diagonale principale a 45° rappresenta una perfetta uguaglianza, mentre una linea
che segua i due assi a 90° disegnerebbe la totale disuguaglianza, tutto a uno e niente a tutti gli altri. Gini su questa base ha proposto di calcolare un
indice di concentrazione che è pari all’aera nulla (linea di perfetta uguaglianza) compresa tra la diagonale e la retta tracciata, che infatti coincidono, e
un’area posta come misura 1 (linea di assoluta disuguaglianza) compresa tra la diagonale e gli assi: così maggiore è l’uguaglianza più basso è l’indice
misurato da un’area più piccola, mentre una più forte disuguaglianza è misurata da un’area crescente via via verso 1 (basta osservare gli indici di Gini
calcolati per diversi paesi al fine di valutarne il grado di disuguaglianza: a es, quello del Sudafrica supera lo 0,6; ma anche per la distribuzione della
ricchezza netta delle famiglie italiane, 2008, è stimato in 0,613, con la ricchezza fortemente concentrata nelle mani di poche famiglie; l’alta
concentrazione relative alle imprese finanziarie è 0,763, mentre i debiti (per mutui, si pensi alla speculazione con i “derivati” sulle case o ai prestiti
personali) superano la misura dello 0,9 che indica la quasi completa disuguaglianza.

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basso. E questo è appunto quanto accade in corrispondenza di tutte le perturbazioni e gli ostacoli che si
frappongono al commercio borghese (l’accrescimento delle imposte trascina con sé la rovina dei piccoli
borghesi e degli artigiani). Ciononostante, dovendo scegliere tra due sistemi di imposizione, raccomandiamo
la totale abolizione delle imposte indirette, e la loro sostituzione generale con le imposte dirette. Ciò perché
le imposte indirette aumentano i prezzi delle merci, in quanto i commercianti aggiungono a quei prezzi non
solo l’ammontare delle imposte stesse, ma l’interesse e il profitto sul capitale anticipato per pagarle. Ciò
perché le imposte indirette nascondono all’individuo quanto egli paga allo stato, mentre invece una imposta
diretta non è mascherata né mistificata, e non può essere fraintesa neppure dalle persone meno capaci.
L’imposizione diretta permette dunque a ognuno di controllare i poteri dello stato, mentre l’imposizione
indiretta distrugge ogni tendenza all’autogoverno: abolizione di tutte le imposte indirette e trasformazione di
tutte le imposte dirette in un’imposta progressiva sui redditi superiori”.
La considerazione politica – e si dovrebbe forse meglio dire sociale proprio perché è proprio l’aspetto
“politico” che manca, male inteso e contestato in via pregiudiziale, genericamente qualunquista – concerne
dunque il fatto che le persone meno capaci possono fraintendere la portata dell’imposizione che loro pagano
allo stato, soprattutto con le imposte indirette, perfette per l’imperialismo del capitale, che sono fatte apposta
per essere nascoste alle persone; ma anche con quelle dirette che pur sono meno mascherate. Ma in
entrambe, per la gran parte dei cittadini, rimane l’illusione che la richiesta di imposizioni fiscali meno
gravose porti a un qualche miglioramento stabile di infami condizioni di vita. E se servisse una conferma
basterebbe osservare la vandea che si scatena tra il popolo “elettore” ogni volta che un capo o capetto popul-
qualunquista proclami abbassamenti o abolizioni di tasse. Marx e Engels, spiegando la natura capitalistica
dell’imposizione fiscale e la sua vacuità nel non poter imporre alcuna modificazione importante nelle
relazioni tra lavoro e capitale, dicevano alla popolazione di avere almeno un minimo controllo sullo stato di
classe, nella sua politica nei confronti degli strati più ricchi in cui si concentra l’élite del potere, attraverso la
progressività delle imposte (che è e rimane solo un criterio redistributivo concesso da quella “multiforme
menzogna” che è, come Labriola la definiva, la “democrazia borghese”). Ora che in Italia il potere continua
a lamentarsi di non riuscire a procedere al recupero di fondi dai ricchissimi patrimoni, sarebbe invece molto
semplice applicare il principio costituzionale formalmente vigente della progressività delle imposte. Non si
tratta di una lotta per cambiare modo di produzione, ma invece – sulla scia teorica del ricardismo vecchio e
nuovo o del socialismo benpensante e borghese, da Tobin a Rifkin, da Latouche ai “decrescisti” – la
democrazia pensa solo a una “diversa e più giusta distribuzione del reddito”: cosicché tutto possa
ricominciare capitalisticamente daccapo.
E dopo la crisi della Francia e poi l’attacco alla Germania, verrà la Cina che ferirà a morte il dollaro e via
trucidando. Il fatto è che se non ci stanno a capire niente neppure i padroni e i loro politici ed economisti,
figuriamoci noi: proviamo a far tuffi carpiati per provare a scrivere qualcosa (anche se la maggior parte di
queste osservazioni, senza profezie di sorta, sono state scritte a ottobre). Questo è il quadro internazionale –
europeo anzitutto, ma pure da riportare agli Usa e da riferire a Cina e Russia (ma non con i “lettóni” di Putin)
– in cui si colloca la tragicommedia italica nello stile tardottocentesco delinquenziale del “piccolo bonaparte”
o, per essere espliciti, nella corruzione alla Mackie Messer cui tutti gli straccioni fanno da cornice,
assolvendo costui e condannando perciò l’ignavia dell’opposizione che non c’è. Così si è sviluppata la crisi
in ... “Italia che per due soldi Berlusconi comprò, poi venne l’euro che si mangiò l’Italia che al mercato il
kavaliere comprò, e venne la crisi che si bevve la Grecia che morse l’Europa che si mangiò l’Italia che al
mercato il kavaliere comprò, ecc. ecc., e venne il dollaro angelo della morte che massacrò l’euro, e la crisi
che si bevve la Grecia che morse l’euro che si mangiò l’Italia che al mercato il kavaliere comprò”: e infine
l’angelo della morte mandò Monti che l’Italia immolò, e via sacrificando, eccetera, eccetera, eccetera ...
[continua!?].

la Contraddizione,
7 no.137

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