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NOZIONI STORICO-INTRODUTTIVE
ECONOMIA POLITICA: scienza sociale che studia il sistema economico nel suo
complesso ricercando un senso e una finalità al lavoro umano sotto il punto di vista
della razionalità economica. Definisce così le logiche comportamentali dei soggetti
economici e le dinamiche comportamentali del sistema.
Per connotare quanto detto in questa prima definizione ci spostiamo all’inizio del 800 con Adam
Smith e il suo maestro Francis Hutcheson. Quest’ultimo fu tra i pensatori della
frammentazione della filosofia morale nelle sue quattro sfaccettature:
• Teologia naturale
• Etica
• Giurisprudenza
• Economia politica
Meglio argomentando il tutto, si specifica che tale scienza sorge in seguito ad un periodo di
profonda evoluzione sociale dovuta a due eventi storici:
• Rivoluzione francese: si comincia a vedere il lavoro come un’attività libera e volontaria del
soggetto operante e non più un obbligo dei soli ceti minori o della schiavitù.
• Avvento del sistema capitalistico (prima riv. industriale): il fulcro del sistema economico si
sposta dalla produzione agricola a quella manifatturiera delle prime fabbriche gestite dai
capitalisti, coloro che possedevano le macchine (metaforicamente).
Non essendo più il lavoro un’attività obbligatoria, ma un’attività libera, esso inizia ad essere
studiato come attività pura, ovvero che discerne dai pensieri teologici e teorici passati, per
essere una libera espressione della coscienza e della morale umana.
A livello di studi morfologici, il lavoro è definito come unione di tre diverse sfere, di cui le più
importanti sono l’ozio e il lavoro in sé.
Smith incominciò le sue analisi proprio da quest’ultima sfera dividendola tra il punto di vista
della fatica dei soggetti lavoratori e dal punto di vista dello sviluppo, ideando la teoria della
mano invisibile.
TEORIA DELLA MANO INVISIBILE: teoria di Smith secondo cui l’avidità dei
singoli soggetti operanti decretasse uno circuito di sviluppo crescente per l’intero
mercato.
La moneta ed altri aspetti del sistema economico non furono considerati in maniera
approfondita in un primo momento, ma con l’evolversi dell’economia politica molto fu poi
ripreso ed approfondito, anche attraverso teoremi ed approcci non più empirici, ma matematici,
dando origine alla microeconomia (Teoria dell’equilibrio economico generale/E.E.G.) e la
macroeconomia (Keynes).
1
Tra il XIX e il XX secolo, successivamente alle teorie degli anni ’30 e delle teorie Marxiste, la
Teoria classica dell’economia politica soffre di una profonda crisi, affiancata da una nuova
ondata di sviluppo scientifico e teorico, è il periodo della nuova Teoria dell’E.E.G.
CAPITOLO 2
LA TEORIA DELL’EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE
Sorta successivamente alla crisi della Teoria classica di Smith, Ricardo, Malthus e Marx, questa
Teoria acquisisce le nozioni della sua predecessora per farne la propria base ideologica e
matematica, unendola all’indipendente Teoria del benessere di Pareto.
• L’individuo: l’E.E.G. riconobbe per la prima volta il ruolo fondamentale del singolo individuo e
dei suoi personali interessi economici. L’individuo sarebbe, dunque, un portatore naturali di
preferenze ed attitudini menefreghiste che lo porterebbero ad agire in virtù della massimizzazione
dei propri benefici fregandosene degli interessi terzi.
• Simultaneità delle azioni: ogni mutamento del mercato avverrebbe in tempi preclusi dal resto
dei tempi futuri e passati; l’equilibrio generale sarebbe così assicurato matematicamente, ma in
assenza di effettiva analisi del ciclo economico (General Competitive Analysis).
Concludendo, i fautori di tale Teoria riconobbero la validità universale de’ “La teoria della mano
invisibile” in regime di piena informazione pubblica e atteggiamento individuale egoistico.
Il tutto vacillò a seguito della crisi del ’29 e il successivo affermarsi delle teorie keynesiane,
secondo cui l’informazione piena del sistema non esisterebbe, di conseguenza tutto il sistema
sarebbe basato su un regime di incertezza perpetua del mercato odierno e, soprattutto, quello
futuro.
Nello specifico, quindi, l’economia politica, basandosi sui tre pilastri precedentemente
descritti, studierebbe l’allocazione attuata tramite l’atto dello scambio di proprietà private di
risorse scarse date a priori dalla natura. Tra le risorse così concepite v’è anche la forza umana,
ergo il lavoro.
Tutte queste risorse, essendo limitate nella loro quantità, sarebbero suscettibili di valore, ma di
questo ce ne occuperemo prossimamente, basti però sapere che per la EEG tale valore si
esprimerebbe nella fase dello scambio, sotto forma di valore monetario.
Concludendo, tutto ciò mira a descrivere una sequenza di attitudini sociali, ovvero
antropomorfe, tramite linguaggio formale aritmomorfo che, essendo appunto basato su funzioni
pensate sulla base di attitudini costanti, non vede limitazioni di tempo, ma è applicabile in ogni
momento con successiva adeguamento contestuale.
CAPITOLO 3
IL PENSIERO ETERODOSSO
Come anticipato, successivamente alla crisi del ’29, la EEG visse una profonda crisi a causa
dell’affermarsi della Teoria dell’incertezza di Keynes, ma l’origine vera della corrente di
pensiero detta eterodossa è da cercarsi nelle teorie di Marx.
Cominciamo, dunque, dal 1883, anno della morte di Marx, per introdurre i pilastri del pensiero
eterodosso:
• Il passato è fonte di valore: il valore è determinato dai risultati ottenuti dall’esperienza passata,
la quale funge da insegnamento per la routine contemporaneamente.
Un mutamento del valore percepito dal soggetto sarebbe giustificato
da un sistematico adattamento della routine sociale, in quanto il
mutamento del valore non è mai meramente soggettivo, ma
conseguenza di un contesto storico (Teoria del materialismo storico –
Marx).
• Individuazione di gruppi sociali: l’individuo non è rilevante per il sistema economico se preso
singolarmente, ma esso si esprime sempre in un contesto sociale, di
conseguenza il mutamento della routine privata è espressione di un
mutamento sociale (vedi punto precedente). Essendo l’individuo
un’unità troppo piccola è necessario identificare delle classi sociali.
• Sequenzialità e dinamicità del tempo: l’analisi del contesto economico deve essere dinamico,
ergo non sussiste simultaneità delle azioni, tale che ogni azione è
isolata all’interno del proprio momento storico, ma è sempre in
funzione di un tempo mutevole e irreversibile.
• L’irrilevanza del equilibrio: l’equilibrio odierno è irrilevante, perché mutevole ogni giorno.
Abbiamo aperto questo corso introducendo un dato periodo storico e identificandolo come la culla
del capitalismo di produzione. Tale denominazione non è casuale e implica due differenti
aspetti: il lavoro libero e la separazione tra capitale (macchine) e lavoro.
Il primo a decretare tale definizione fu Marx, secondo cui l’obiettivo del sistema sarebbe
coniugare all’interno del sistema i due fattori al fine di produrre un surplus di valore
successivamente valutato sottoforma di prezzo. Questo processo, per poter funzionare
adeguatamente, necessita di denaro, di conseguenza definiamo ora il sistema economico
monetarista.
Data questa definizione, analizziamo ora l’origine di questo fantomatico capitale iniziale
identificando due soggetti:
• Capitalista: soggetto economico proprietario del capitale all’origine, perché appropriatosene in
maniera violenta successivamente al crollo dei sistemi economici passati.
• Banche/capitalisti finanziari: soggetti aventi un rapporto di fiducia coi capitalisti, i quali
offrono il proprio capitale in garanzia, al fine di ottenere da queste un credito per finanziare la
propria attività.
Ferme così restando le cose e pensando che, secondo Keynes, le banche sono altresì
monopoliste nella produzione monetaria, viene spontaneo pensare che, a fronte di un loro
credito, la produzione debba, nel suo risultato finale, remunerare in primis il finanziamento e
successivamente l’attività svolta, ergo denaro deve produrre denaro.
Così detto, passiamo ora all’argomento spesso anticipato fin’ora, ovvero, la teoria del valore.
CAPITOLO 4
LA TEORIA DEL VALORE
Introducendo la teoria del valore è necessario dire che esso può indicare due cose: la
determinazione dei rapporti secondo cui le merci vengono scambiate (prezzo reale), oppure la
ricerca dell’origine del valore, ovvero un indagine rispetto il fondamento, l’oggetto e il metodo
del discorso economico (prezzo relativo).
Ora, l’idea generale è che valore e prezzo siano due cose distinte, in quanto, se lo scambio è
l’esercizio della proprietà privata che si presume aver di per sé un valore, allora tutto si
riduce al solo prezzo reale come espressione dello stesso prezzo relativo (valore)
Il problema, però, sta nell’origine propria del valore.
Al riguardo sussistono due teorie antitetiche: la teoria oggettiva e la teoria soggettiva.
Ambedue le teorie sono equamente valide e discernano ambedue dal concetto personale di utilità,
ma andiamo nello specifico.
Secondo la teoria oggettiva, il valore sarebbe determinato da variabili endogene specifiche del
sistema, come ad esempio la quantità di lavoro o il costo di produzione. Questa ipotesi prende
origine da Smith, secondo cui il valore di un bene consisterebbe nella quantità di lavoro impiegata
per la sua produzione, tuttavia questa teoria fatica ad essere funzionale, in quanto il lavoro è di per
sé non quantificabile per vari motivi.
Volendo anche considerarla vera, sarebbero necessarie: definizione unica di prestazione lavorativa e
una definizione del rapporto tra struttura lavorativa e prestazione.
Anche Marx prese spunto da questa prima teoria, aggiungendovi anche la variabile del lavoro morto
(lavoro delle macchine), ma da suo canto il valore non andrebbe analizzato alla fonte, ma andrebbe
ricercato partendo dalla sua espressione monetaria.
La sua teoria venne completamente sfatata in epoca contemporanea da Sraffa.
Concludendo, la teoria del valore-utilità avrebbe senso solo in un sistema di mercato del tipo:
M→D→M; in tutti gli altri sistemi, esso resta accessorio alla definizione del prezzo reale di un bene
e non ha alcuna pertinenza con la teoria del lavoro, ipotizzata per la teoria oggettiva del valore.
CAPITOLO 5
LA TEORIA DI QUESNAY
Premesse tutto questo rispetto alla Teoria EEG e la Teoria Eterodossa, diamo uno sguardo alle teorie
di Quesnay, non tanto per la loro validità contemporanea, ma per il valore di alcune osservazioni da
lui intuite. Si premette che Quesnay aveva un approccio naturalistico, ergo riconosceva ai cicli
naturali un’importanza economica non irrilevante.
Questi ultimi erano così considerati, a causa della loro ancor scarsa importanza a livello economico.
Vediamo ora l’origine di questo surplus, prima grande intuizione di Quesnay, e definiamo la teoria
dell’anticipazione.
È ovvio come il sole che tale sistema non è affatto contemporaneo ed esaustivo, in quanto costruito
in un ambito storico culturale ormai conclusosi, tuttavia la teoria del surplus e dell’anticipazioni
saranno fondamentali materie di studio per le successive teorie dell’economia politica.
CAPITOLO 6
LA TEORIA CLASSICA: SMITH, RICARDO E MARX
Smith
Abbandonando Quesnay, entriamo nel vivo della Teoria classica dell’economia politica, parlando
del surplus dal punto di vista di Smith ed analizzandone poi lo sviluppo attraverso Ricardo e Marx.
Smith: il surplus è la differenza tra la ricchezza sociale prodotta e il costo totale delle risorse
impiegate per reintegrare il consumo dei mezzi produttivi deterioratosi.
Ora, partendo da questa definizione, specifichiamo che la ricchezza sociale prodotta è determinata
da un vettore di prezzi definiti in funzione della quantità di lavoro impiegata nel processo
produttivo; da qui la necessità di soppesare questo fantomatico quantitativo di lavoro impiegato
tramite una unità di misura non ben definibile. Si suppone quindi che il plus-valore del sistema sia
determinato dal lavoro umano.
Ricardo e successivamente Marx, con una serie di dimostrazioni più consistenti, dissero che una
buona unità di lavoro fosse il tempo di lavoro; Marx, in particolare, arrivo a tale conclusione
partendo dal prezzo di mercato.
I neo-classici non si posero, da loro conto, il problema di spiegare l’origine del valore, di
conseguenza ignorarono tutta questa serie di ipotesi.
Rispetto alla teoria del lavoro, Smith sostenette che: il lavoro di un anno è il fondo da cui ogni
nazione trae, in ultima analisi, tutte le cose necessarie.
Ora, è ovvio che, a rigor di logica, il valore reale di un prodotto sia decretato dal lavoro contenuto,
in virtù altresì della variabile di tempo impiegato; tuttavia parte del valore finale del bene prodotto
finirà irrimediabilmente nel profitto. Sia il lavoro anticipato nel suo valore dall’investimento
preventivo del lavoro comandato, è evidente come il surplus sfumi dai legittimi produttori per
confluire nelle mani di un soggetto terzo.
Ricardo
Lasciamo ora le linee guida di Smith per analizzare le teorie di Ricardo e approfondire, così,
l’evolversi dell’ideologia economico politica del tempo.
Contestualizzando, troviamo che Ricardo visse e promulgò le proprie idee nel corso degli anni
napoleonici di Francia, mentre da parte sua ci fu un exploit sociale non indifferente. Da semplice
uomo d’affari riuscì, tramite diversi investimenti finanziari, ad acquisire delle proprietà terriere, tali
da potersi candidare per la camera dei Lord inglesi, divenendo poi rappresentante attivo della
borghesia industriale. Egli cominciò a formulare le sue teorie in funzione del grande dibattito che
animò la vita politica del tempo rispetto alla crescente produzione agricola: gli aristocratici
chiedevano più tariffe sul grano, mentre la borghesia chiedeva una maggiore elasticità dei prezzi
(Laisser Faire).
È in questo ambito che Ricardo formulò la sua prima teoria sull’import/export e la successiva la
teoria dei vantaggi comparati.
TEORIA DEI VANTAGGI COMPARATI: teoria di Ricardo secondo cui, se i prezzi vengono
lasciati fluttuare tra i tassi di cambio in modo flessibile, ambedue i Paesi considerati in uno
scambio avranno dei vantaggi.
Successivamente a queste teorie, Ricardo si dedicò all’analisi della distribuzione del surplus,
sintetizzando in maniera indiretta una propria teoria rispetto alle sue origini. In totale, Ricardo
scrisse più edizioni della propria opera didascalica: “Principi di economia politica e tassazione”.
Egli teorizzò che la società fosse composta da tre classi: Rantié (proprietari terrieri/rendita),
Borghesia (profitto) e Lavoratori (salari). Per quanto riguarda, invece, il valore della produzione,
egli sosteneva per scontato la teoria di Smith, per quanto cercasse di trovargli un’unità di misura
adeguata, mentre rispetto ai salari, Ricardo dovette confrontarsi con la nascente teoria Maltusiana.
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TEORIA DEI SALARI (Malthus): data un’osservazione di lungo periodo, i salari ruotano
intorno ad un livello di sussistenza variabile in funzione del livello demografico; tale livello
incide sul salario in maniera negativa fino ad equipararsi ad una quota minima di sussistenza
sotto il quale non è possibile andare. Si suppone che il limite superiore dell’oscillazione dei
salari sia commisurato alle tecnologie del tempo considerato, tuttavia saranno sempre
variazioni temporanee.
Solo dopo aver condiviso tale teoria di Malthus e aver visto la vittoria dei Borghesi sull’ideale
conservatorio dei Lord che Ricardo si aprì ad un nuovo capitolo della propria analisi economica,
partendo dalle rendite, non in tanto in senso economico, quanto da quello produttivo a vantaggio
Rantié.
Egli ipotizzò che, avendo un certo numero di terre irrigate da un corso d’acqua, si avrebbe avuto un
processo di privatizzazione tale di queste terre, al punto che l’ultima privatizzata avrebbe avuto una
rendita marginale rasente lo 0. In questa maniera, egli dedusse che la rendita marginale di un Rantié
sul lungo periodo avesse un andamento decrescente, al crescere delle terre privatizzate.
ATTENZIONE: questo sistema di rendita marginale non è applicabile alla produzione industriale; la
formula per la produzione industriale sarà sintetizzata solo anni dopo da Miller e Marshall.
Meglio argomentando, egli ipotizzò che, avendo una quantità di terre (T1), che offre un rendimento
(R1), questo sarebbe stato ripartito a livello di sussistenza tra lavoratori e imprenditori/manager
subalterni ed il restante sarebbe stato l’effettiva rendita del Rantié. In funzione delle rendite, come
anticipato, decrescenti, tale quota tenderà a 0 a fronte di n interazioni di questo tipo.
Così definita la funzione di Surplus, Ricardo teorizzò che, fintanto w fosse stato inferiore al
coefficiente a, il sistema sarebbe stato stabile e senza rischio di recessione.
Egli proseguì tentando di applicare questi principi anche alla teoria produttiva industriale,
teorizzando che il sistema non fosse soggetto al regime della scarsità, perché arginabile tramite
impiego di fonti energetiche rinnovabili e un impiego sempre più massiccio di macchine, contro la
variabile lavoro.
Concludendo, egli cercò provare quanto sostenuto ipotizzando un aumento di N a N1
successivamente ad un incremento delle terre impiegate per la produzione; la funzione sarebbe
inscrivibile come: R = (a1-a)N1. In tal senso, Ricardo ipotizzava che, in caso di un mutamento di N,
fosse necessario un incremento del rendimento marginale, tale da far fronte ad una variabile che,
evidentemente, era considerata parassitaria.
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Queste teorie furono raffinate dallo stesso Ricardo nella successiva edizione della sua teoria: grano-
grano 2. In questa edizione Ricardo cominciò a sostenere che il valore di un bene non derivasse dal
lavoro contenuto, ma da quello comandato, perché capace di determinare il prezzo del bene.
Matematicamente, considerando le variabili produttive del bene i, vediamo che:
Ora, supponendo di eseguire una comparazione di valori e prezzi tra due beni avremo che:
Pi/Pj = Li/Lj
Lo stesso Ricardo, per essere il più corretto possibile, specificò che il rapporto di scambio e
prezzo non è puramente in funzione del lavoro, ma in funzione di lavoro, tempo e ripartizione
tra salari e costi del capitale; a fronte di ciò, una comparazione come quella descritta presenta dei
limiti, poiché due beni necessitano di essere similari per tempistica produttiva e tecnologia
impiegata. Ritorna, dunque, la necessità di un’unita di misura del lavoro e Ricardo tornò sul
grano considerato nella teoria grano-grano 1; così facendo, però, le sue teorie naufragarono,
perché inconsistenti.
PARADOSSO: Ricardo, cercando di far quagliare tutte le teorie del tempo, ma partendo da
un mercato tipo come quello agricolo, aveva creato una teoria limitata solo a quello
specifico mercato.
Successivamente al suo naufragio, delle teorie di Ricardo rimase l’idea del conflitto di interesse
tra proletariato e capitalisti, in quanto il profitto del primo si basa sulla piena sostituzione della
variabile L con la variabile meccanica. Tuttavia, Ricardo non si curò della disoccupazione
generatasi, in quanto la considerò marginale e facilmente riassorbibile a fronte della forza
trainante del surplus all’interno del sistema, essendo la disoccupazione sempre frazionata e mai
totale.
Egli stesso si smentì nella terza edizione, ammettendo che, al aumentare costante nel tempo della
disoccupazione, l’offerta di lavoro sarebbe diventata insostenibile con conseguente crollo del
potere d’acquisto degli acquirenti, di conseguenza dei profitti.
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Concludendo, la falla reale di tutte queste teorie venne sottolineata solo molti anni dopo da
Keynes, ovvero la mancanza di una teoria della domanda, secondo cui non tutto ciò che è
prodotto è consumato (offerta in funzione della domanda). Questa venne da lui dimostrata, in
funzione del fatto che: I = (Δ+R;Δ-r) | R = reddito; r = tasso interesse. Sostenuto questo, è ovvio
come sia il benessere sociale a trainare il sistema, oltre che all’EMC (efficienza marginale capitale).
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Marx
Per ultimo, ma non per importanza, analizziamo la figura di Marx, economista in evoluzione
della scuola classica del pensiero economico. Da prima filosofico nelle sue osservazioni, egli
affino il proprio spirito d’osservazione, fino ad elaborare tre edizioni differenti della propria opera:
“Il Capitale”; la terza postuma alla sua morte. Solo molti anni dopo vennero pubblicati anche
diversi suoi appunti (Grundrisse) contenenti, tra le altre cose, anche diverse previsioni sul
futuro, di cui alcune avvalorate dalla storia contemporanea:
Marx: lo sviluppo delle macchine giungerà ad un tale livello di automazione che solo le conoscenze
diverranno determinanti per il sistema.
Introdotto tutto ciò, passiamo nel vivo delle sue teorie partendo da quelle riguardanti la “merce”.
In primis, però, è necessario descrivere la differenza intrinseca tra lavoro e forza-lavoro.
Premesso che l’origine della ricchezza è la natura, perché offerta da principio, possiamo dire
che:
LAVORO: opera simbiotica dell’uomo con la natura per fruire della sua ricchezza.
Esso non è un mero istinto, ma un’espressione di intelletto e razionalità.
In questo senso, il capitalismo è quel sistema che permette di tramutare il lavoro in forza-
lavoro. Il capitalista, all’interno di questo sistema, non compra lavoro, ma forza-lavoro, perché
espressione materiale dell’opera offerta sul mercato dal lavoratore per vivere.
Possiamo quindi desumere che Marx non considera il valore in funzione del lavoro/opera, ma della
forza-lavoro impiegata nella produzione.
Altra differenziazione è quella tra lavoro concreto e lavoro astratto, ma per capire è necessario
prima definire la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Sia il primo il valore
espresso dall’utilità del bene presso il mercato e il secondo quello monetario al momento dello
scambio, secondo Marx, la forza-lavoro è l’unica “merce” avente ambedue i valore
contemporaneamente (Lavoro = valore d’uso; forza-lavoro = valore di scambio).
Definiamo quindi:
Ora, specifichiamo che, per quanto di sua proprietà, il lavoratore non ha la facoltà di ricavarci
nulla dal lavoro concreto, fuorché in virtù d’uno scambio utile al capitalista per poter
sopravvivere. Possiamo quindi sostenere che il capitale ha necessità della forza-lavoro per
poter vivere e ne usufruisce in virtù di uno scambio forzato col lavoratore.
14
VERITÀ: il lavoratore, per quanto insignito della massima libertà personale, non è libero,
perché obbligato da sistema a porsi alle dipendenze del capitalista, il quale è a sua volta
dipendente dalla forza-lavoro che il solo lavoratore gli può fornire. S’esclude in questo
modo il lavoro desarmato mami (il lavoro autonomo).
In virtù di quanto detto, potremmo vedere il capitale come un rapporto sociale tra capitalista e
lavoratore, il quale però è sbilanciato, a livello ideologico, a favore del soggetto sbagliato; infatti,
è il lavoratore il soggetto trainante, perché senza lui il capitale non può vivere.
È la forza-lavoro che determina il valore d’uso e di scambio; è la base del lavoro produttivo.
La merce è il risultato finale di questo processo, la quale può esser vista nell’ambito di due
trasformazioni:
• Trasformazione della merce in denaro: trasformazione naturale (M→D)
• Trasformazione del denaro in merce: trasformazione capitalista (D→M)
Marx, quindi, dichiarò che il denaro, in un sistema capitalistico in regime di accumulazione, è
desiderabile di per sé.
Sia il sistema descritto come: D→M→M1→D1 | D1>D; l’accumulazione nasce proprio da
quest’ultimo parametro di plusvalore, il quale è però incerto.
Analizziamo ora questo plusvalore partendo da una schematizzazione delle condizioni in cui esso
può realizzarsi:
• Salarizzazione della forza-lavoro, posto alle dipendenze del capitalista
• La merce prodotta sia posta a proprietà del capitalista
• Il lavoratore venga spogliato della propria opera e sia posto alla mercé del lavoro morto
(macchine)
Da queste condizioni, il processo può produrre plusvalore.
La rivoluzione introdotta da Marx fu proprio qui, perché se il plusvalore è di dubbia realizzazione,
deve esserci qualcosa a monte che lo produce all’interno del processo; tale elemento è il
pluslavoro.
ATTENZIONE: rispetto a quanto sarebbe stato poi teorizzato dagli economisti neo-classici
del EEG, Marx considerò la variabile dello sviluppo tecnologico endogeno al sistema.
15
Premesso il tutto, possiamo ora definire il saggio sullo sfruttamento, il quale discerne
completamente dalla condizione del loco ove viene impiegata la forza lavoro.
Facendo un rapido escursus dei sistemi economici analizzati da Marx per definire il saggio,
troviamo che, da principio, il sistema era un sistema mercantilista basato, però, sull’agricoltura, il
quale prevedeva forme di lavoro coattive remunerate tramite conferimento di una quota del
prodotto. Successivamente si è passati ad un sistema mercantilista industriale basato sul lavoro
libero di multipli artigiani indipendenti. Fu dopo la rivoluzione industriale che quest’ultimo
sistema subì un processo di riorganizzazione del processo, tale che i soggetti indipendenti furono
assorbiti all’interno di processi produttivi più corposi e pesanti, ove ognuno, per quanto
indipendente, è condizionato dai mercanti: i realizzatori del profitto.
Avvenne con l’accrescere dei mercanti che si arrivò ad avere una sovrapposizione gerarchica
tra le varie attività svolte dagli operai; attività che diventa, all’interno di questo sistema, lavoro
dipendente; è l’avvento della manifattura (studiata da Smith). Con la manifattura subentra anche il
concetto di sussunzione del lavoratore.
y = σ/(COC+1)
Con questo, Marx dimostrò “La caduta tendenziale del saggio di profitto”.
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Una dimostrazione reale di questa teoria è presto data, poiché più aumenta la produzione tramite
perfezionamento di C, con successivo aumento della marginalità di L, si rivelerà utile un Δ+w più
che proporzionale alla produttività per mantenere il tenore dei consumi; se ciò non accadesse, si
arriverebbe ad un’irreversibile crash del sistema. Per quanto ipotizzabile, una vera soluzione a
questa attitudine dei capitalisti, agli occhi di Marx, ancora non sussisteva.
Avendo concluso lo studio della teoria del valore secondo la scuola classica (eterodossa) e sapendo
già che la scuola della EEG non spende in tal senso un interesse rilevante, passiamo allo studio del
modello sulla domanda e l’offerta, la quale fu la risposta al questione sull’origine del valore
di quest’ultima scuola.
Premettendo che, per la EEG, l’origine del valore non è una prerogativa che necessità di
studio approfondito, è necessario sapere che per questa scuola il valore si esprime nell’atto dello
scambio che, come già sappiamo, è precluso in un tempo chiuso T.
A livello storico, il primo modello della domanda e dell’offerta fu quello di Cournot, seguito da
quello di Wolras e infine da quello di Marshall. Quello di Wolras, però, è considerato
storicamente più importante, perché ispiro le successive teorie di Levon e Menger che concorsero
alla creazione dell’EEG. La validità del modello, il quale era un modello prettamente matematico,
trovò la sua massima validità grazie alle teorie di Pareto, le quali furono poi messe in crisi da
Sraffa, Keynes e Schumpeter. A decretare la definitiva invalidità del modello fu Coase, il quale non
sfatò solo la teoria della piena informazione e dei rendimenti marginali decrescenti, ma sfatò
anche l’individualità dell’offerta.
Consumatori Impresa
Posto questo schema di flussi, lo schema della domanda e dell’offerta si struttura sulla base del
seguente schema cartesiano:
17
P D S = f(MC)
Q Dato questo schema, tale che la curva S trova soddisfacimento
in tutto il luogo di punti tra la curva medesima e quella
superiore (surplus consumatore = 0), fuorché al di sotto,
notiamo che, soddisfatto il parametro di P ≥ MC, il sistema
ammette perfetto equilibrio. In tutto questo il valore sarebbe
incarnato proprio da quel P dato dall’intersezione delle
due curve, ma solo nel ambito di una libera flessibilità
dei prezzi che permette a P di fluttuare liberamente e di
arrivare sempre ad un equilibrio.
18
Dal momento che la EEG pone in essere la semplicità di calcolo e di risoluzione sulla base della
piena informazione (concorrenza perfetta), si suppone che il lavoratore, dato w a T0, lo porrà in
relazione a p solo al tempo T1, ergo v’è uno squilibrio tra i due valori compensato da una teoria
delle aspettative funzionale e formulata di volta in volta. Così facendo, essendo la moneta
marginale e funzionale al fine del solo scambio, il ciclo si chiude e il valore si determina ed
estingue in un tempo T chiuso.
Portata avanti da Pietro Sraffa, questa teoria del valore è poco nota oggi giorno, ma il suo impatto
nella storia è tutt’altro che marginale. Derivante da uno studio approfondito delle teorie
ricardiane, quella di Sraffa è una teoria che non risparmia critiche né per la EEG né per le teorie
Marxiste.
La prima critica mossa da Sraffa fu puramente per la EEG, in particolare per i rendimenti
marginali decrescenti, in quanto basati esclusivamente sulla variabile lavoro e solo
secondariamente sulla variabile K del capitale. Secondo Sraffa, invece, anche la variabile K
determina la quantità offerta, tale che: Q=f(K;L).
Con questa affermazione e la rispettiva dimostrazione, Sraffa dimostrò che la teoria ricardiana dei
rendimenti marginali decrescenti non era applicabile al sistema capitalistico e che la teoria
del valore lavoro non era completa, perché il valore prodotto è conferito anche dalla
macchina. Con questo Sraffa aprì “Il dibattito tra le due Cambridge” fece deflagrare la EEG
dall’interno.
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Secondo Sraffa, ciò che servirebbe davvero è una relazione del tipo: K/L → r/w | puntando
molto su K, avremo un decremento significativo del impiego di L.
w
Mantenuta la validità dell’EEG e ipotizzando la coesistenza
di due processi produttivi con il processo 1 lineare e il
processo 2 curvo e vantaggioso per una parte del processo
intero, avremo, secondo Sraffa, un problema di ritorno dal
processo precedente.
Detto questo, se L produce il proprio salario sulla base della propria produttività, mentre il profitto
sorge a fronte del impiego di K, sorge immediata l’esistenza di un conflitto di interessi tra K e
L, tale che la distribuzione armoniosa della ricchezza prodotta non può esistere.
A tal proposito, Sraffa aggiunge anche una propria visione della funzione di produzione:
a1p1 = (a11p1 + a21p2 + a31p3)*(1+r)+L1w
a2p2 = (a12p1 + a22p2 + a32p3)*(1+r)+L2w
a3p3 = (a13p1 + a23p2 + a33p3)*(1+r)+L3w
Sia r il rincaro sul costo di produzione e p il relativo costo, con a come coefficiente tecnico di
produzione. Per giungere alla soluzione è possibile partire dal saggio di salario per arrivare a
quello di profitto tramite la funzione: r = R(1-w) | R è la soluzione della matrice dei coefficienti
a.
Concludendo, Sraffa decretò che un’adeguata misurazione del valore sarebbe quella basata su
una “merce ideal-tipo” astratta, con la quale si potrebbe valutare tutto in maniera equa, ma
sempre in funzione di ambo le variabili K e L. Tali variabili, essendo equamente importanti ed
equamente necessarie, non sono per definizione destinate a muoversi in un campo di valori
specifico al fine dell’equilibrio, ma ogni coppia identificabile dalla funzione di produzione
può identificare un punto di equilibrio.
20
CAPITOLO 7
LA TEORIA DELLA MONETA
Avendo ampiamente analizzato la teoria del valore, partendo dalla rurale teoria di Quesnay, fino
alla ben poco famosa teoria di Sraffa, passiamo ora a tutt’altro argomento, ovvero la teoria della
moneta.
Da questa prima definizione intuiamo che tra il concetto di moneta e denaro v’è una differenza
non irrilevante per la comprensione di “cosa” sia effettivamente la moneta.
Premettendo che la concezione di moneta è mutata nel corso del tempo in maniera radicale, in
particolare con le teorie di Marx, è necessario sapere che in origine la moneta era considerata
come un mero mezzo di scambio per l’acquisizione di merci (M→D→M), successivamente
all’ancor più antiquato baratto (M→M); solo successivamente a Marx e ancor di più con
Fishermann si arrivò a considerare la moneta come un oggetto desiderabile di per sé
(D→M→D).
Ora, l’idea stessa di moneta si basa su tre quesiti: la forma, l’emissione e il valore.
Su tutti e tre i quesiti, però, vige la legge della fiducia tra soggetti, in quanto è necessario che
tutti i soggetti operanti d’un mercato siano d’accordo rispetto alla risposta data a questi quesiti,
tuttavia, la storia insegna, questa fiducia è implicitamente data dalla presenza determinante di
un potere sovra-sociale (autorità statale).
Con la presenza determinante di questa forza è facilmente identificabile la forma della moneta,
ma quello che da subito Marx aveva identificato come problema era lo scambio tra valori
equivalenti.
Così risolta la questione del valore della moneta, basti risolvere la questione dell’emissione e,
originariamente, questa era affidata al potere che la moneta l’aveva ideate. Fu solo con la
separazione tra potere statale e banca centrale che si ebbe una cessione del potere da parte dello
Stato ad un organo subordinato. Ciò che è rimasto di competenza dello Stato, però, è assicurare
la costanza del valore della moneta.
L’ultima evoluzione storica fu la caduta della riserva aurea come base per la valutazione del
valore della moneta; dopo quel evento e l’introduzione del concetto di moneta come strumento di
credito, il valore della moneta è stato lasciato libero di fluttuare liberamente; la moneta è
diventata assoluta (Marx).
Riassumendo, i tre poteri della moneta, ad oggi, sono: mezzo di scambio, unità di conto e
moneta credito.
21
22
Fatto questo primo excursus sulla moneta e l’evoluzione del suo ruolo nel sistema economico,
cominciamo l’analisi delle teorie che hanno portato al suo ruolo attuale partendo dalle teorie di
Fisher.
Premettendo una situazione ove il sistema economico sia in una condizione di massima
evoluzione, introduciamo l’analisi di Fisher partendo dalla sua funzione derivante dall’identità tra
moneta e circolante effettivo:
Fisher, dalla sua, sosteneva la validità della prima lettura e congetturando che PT = f(M), essendo
V un parametro, proseguiamo analiticamente con: Δ+PT = Δ+f(M) | T=Y(PIL; equilibrio esogeno).
Δ+P = Δ+f(M)
Questa uguaglianza rientra nella EEG col nome di Teoria quantitativa della moneta.
A sfatare questa teoria e la successiva di Pigou intervenne negli anni ’20 e ’30 la teoria di
Keynes, la quale poneva la rigidità della curva di occupazione, quale impedimento al
raggiungimento del equilibrio perfetto che la EEG cercava di spiegare con questa e le successive
teorie formulate nei medesimi anni, tra cui quella della sotto-occupazione formulata
appositamente dalla EEG nel tentativo di sfatare la teoria keynesiana, secondo cui: Y < Yesogeno .
La ragione di questa divergenza è dovuta, secondo Keynes, al fatto che in realtà, al variare della
moneta, il reddito privato Y sia effettivamente influenzato e non esogeno come sostenuto in
questa teoria. Non approfondiamo oltre e passiamo alle teorie che, effettivamente, provarono a
controbattere alla teoria keynesiana, ovvero le teorie di Pigou.
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Partendo immediatamente da un punto di vista analitico della teoria di Pigou, troviamo che:
Da definizione notiamo l’effettiva rivoluzione di Pigou, ovvero l’introduzione del concetto di multi
temporalità delle azioni dell’operatore economico e, di conseguenza, il concetto di risparmio S,
quale rinuncia odierna al consumo e al soddisfacimento della propria utilità nell’ottica di una
plus-utilità futura.
Il metodo di calcolo di questo parametro non è immediato, ma in funzione di un’altra variabile,
ovvero, il tasso d’interesse (r).
TASSO D’INTERESSE: sia k=f(r), Pigou definisce il tasso d’interesse come quella
variabile che descrive il guadagno del risparmiatore a fronte di una rinuncia al
consumo nell’immediato presente (possa il denaro generare altro denaro, consideriamo
anche questa definizione, una congettura velata della capacità del capitale di
accrescere a fronte del suo stazionamento/investimento).
Si consideri la singola unità di liquidità immessa nel sistema in relazione ai prezzi (1/p), definiamo
tale rapporto come il valore della moneta, il quale decresce all’aumentare effettivo della L.
Premesso il tutto, tornando altresì a considerare la Ms come una funzione verticale, avremo che
questa intersecherà sempre la curva L, identificando di conseguenza un certo livello dei prezzi
crescente all’aumentare della moneta disponibile: Δ+p = Δ+M.
1/p
Ms
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Spieghiamo ora la ragione per cui, secondo Pigou, questa variabile r sia esogena e statica rispetto
alla sfera della domanda privata dei consumatori. La risposta è semplice, ovvero che r non sia
variabile del mercato del consumo, bensì di quello dei capitali.
Come detto precedentemente, il tasso r dovrebbe rappresentare il compenso del soggetto
risparmiatore a fronte di una sua rinuncia all’immediato consumo della sua disponibilità economica,
tuttavia Pigou non accomuna tale propensione alla sfera della domanda, bensì a quella dei capitalisti
in funzione di una scelta inter-periodale. Descriviamo ora lo schema di tale scelta:
I1
Presupponendo un rapporto inverso tra l’investimento
produttivo al tempo t0 (I0) e quello al t1 (I1), l’entità del
sacrificio del capitalista sarà uguale ad una delle infinite
coordinate poste sulla frontiera della curva, in relazione altresì di
un dato livello tecnologico esogeno. Il prezzo per tale sacrificio è
r, il quale ha un tempo di decorsa pari ad un certo periodo di
ammortizzazione.
I0 Così detto, passiamo a porre tale curva di consumo inter-temporale
in relazione con quelle di domanda.
Il problema delle teorie di Pigou subentrano qui, in quanto la banca come intermediaria del
rapporto di credito non sussiste, ergo il consumatore quale soggetto portatore della liquidità
sarebbe altresì diretto investitore a favore delle società, le quali impiegano, secondo la curva
di investimento sopradescritta, il capitale nell’ottica di una scelta inter-temporale. Sussiste
quindi un rapporto obbligazionistico diretto tra i due, tale che il consumatore sarebbe il reale
proprietario degli output della società, in quanto suo finanziatore.
Il tutto è razionale se e solo se la moneta mantiene il ruolo di mero mezzo di scambio.
r
In ultimo, la seconda nota dolente, oltre a quella dell’eccessiva
S semplificazione del sistema finanziario, è che per Pigou
l’equilibrio tra S e I è costante per costanza di r, ma come
dimostrerà Keynes, questo non è assolutamente vero.
Anzi, secondo Keynes, al variare di r l’intero sistema tenderebbe a
subire una variazione e ciò si verificherebbe ad ogni variazione
I
dell’emissione di moneta.
S|I 26
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La rivoluzione di Wicksell
Sempre nell’ambito della EEG, ma con un occhio critico più ampio, quelle di Wicksell furono delle
migliorie rivoluzionarie del modello descritto da Pigou, specialmente quella del tasso creditizio.
w/p r
Ls S
Ld
Ls1
rn
rc
I
L S|I
Dati i due sistemi cartesiani di cui sopra e sapendo che Wicksell basa la propria ricerca sulla più
basilare delle funzioni di produzione ( Y=f(K;L) ), partiamo a dire che in una situazione di
equilibrio i due tassi rn e rc dovrebbero equivalersi.
Qualora i due dovessero divergere, gli scenari sono due:
• rn > rc con illusione monetaria: dissociazione tra epoca di scelta del w e del p; impegno
maggiore di L con successiva plus-produzione; illusione monetaria con Δ+p > Δ+w/p, che causa
Δ-L e Δ-Y.
• rn > rc senza illusione monetaria: assenza di mutamenti
ATTENZIONE: in assenza di emissione monetaria al variare di rc, allora non è possibile una
variazione del prezzo.
In contrasto finale con Pigou, Wicksell suggerì la necessità di un’autorità sovra-bancaria che
governasse la variazione dei tassi tramite politiche monetarie.
Data quindi una nuova situazione di equilibrio, sa da ipotizzarsi un aumento dell’efficienza del
capitale che comporterà un nuovo scompenso tra i tassi, si ripresenterà la necessità di una ulteriore
politica monetaria (Loop).
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Le premesse di Keynes
Conclusa l’analisi delle teorie rivali, passiamo alla teoria fondamentale di Keynes ponendo le
premesse sul quale egli fonda le proprie considerazioni:
• Fattori dati: costanti nel tempo (es. livello tecnologico)
• Variabili indipendenti: non dipendono dal volume delle transazioni
o Variabili psicologiche:
- La propensione soggettiva al consumo si esaudisce nell’immediato presente ( C=C0+C1(R-T) |
C1=ΔC/ΔY )
- L’EMC (percezione degli imprenditori nei confronti dell’investimento)
- La preferenza di liquidità (Yd = C+S)
o Variabili istituzionali:
- La moneta esogena
- Il livello dei salari
• Variabili dipendenti: variabili al variare delle sopracitate (Y; N; p)
Data la premessa precedente e premettendo altresì che la seguente è una teoria di breve
periodo, poiché il futuro è dato dalla massima incertezza, partiamo con l’analisi effettiva della
teoria monetaria di Keynes.
Da principio specifichiamo che Keynes non considera il credito e la produzione come attività
di scambio, bensì come attività divergenti finalizzate alla successiva attività di scambio; allo
stesso modo viene visto il salario (w), il quale è puramente frutto di una trattativa, non di uno
scambio. Da questi unici due pilastri troviamo la definizione di business economy, in contrasto
con la cosiddetta butter economy (economia di puro scambio).
All’interno di questo sistema, secondo Keynes, la moneta non sarebbe solo un mezzo di
scambio, ma altresì una riserva di valore (data dal grado di fiducia in quella moneta) soggetta a
perenne liquidità. Quest’ultima qualità è particolarmente importante secondo Keynes, in quanto
decreta la moneta come oggetto di speculazioni non solo d’investimento, ma anche di risparmio.
L = L1+(R)+L2-(r)
r
Parametrizziamo R in quanto meno variabile sul breve
periodo rispetto alle altre due variabili, per quanto essa non sia
effettivamente immutabile, ma mutabile in funzione delle
r propensioni d’investimento dei soggetti privati. Quindi, sia
L2
disponibile ai privati un certo tot. di L, essi saranno liberi di
scegliere come ripartire tra i due agglomerati questa somma.
L1 M L
Ogni qualvolta vi sia un Δ+L1, significherebbe, a detta di Keynes, che i privati abbiano favorito
la conservazione di moneta al suo investimento, a seguito di una maggiore incertezza nel futuro.
Questa scelta, ovviamente, comporterà un mutamente negativo dell’agglomerato L2 con un
aumento del tasso r.
Dato questo grafico, passiamo dire che il mercato dei titoli mosso dalla moneta speculativa è, a
detta di Keynes, il mercato dei risparmiatori, mentre il titolo, in particolare l’obbligazione, è lo
strumento degli indebitati (società). Dal momento che l’obbligazione è l’unico strumento
finanziario allora considerato da Keynes, egli definì r come il tasso di rendimento che questi
titoli riconoscevano agli speculatori.
Questi, secondo l’economista, hanno un ruolo fondamentale all’interno del sistema, in quanto
proprietari della lungimiranza mentale utile a comprendere le dinamiche sociali e, di
conseguenza, l’oscillazione del tasso, tale che l’investimento sarà mirato verso i titoli meno
redditizi, destinati ad essere venduti al momento di crescita del suo valore nominale.
Data questa prassi di mercato, tutti gli speculatori insieme, sia quelli trainanti, sia quelli copiatori,
determinano il fluttuare del tasso, dal momento che più aumenta l’investimento, più il tasso tende a
crescere. Keynes identifica, all’interno di questo mercato, due dinamiche portanti:
• Investimento autonomo
• Investimento trainato dal portafoglio portante
L’esecuzione più o meno massiccia di queste transazione provoca la fluttuazione di r.
30
Curiosità: nella dinamica moderna, oltre alle azioni, sussistono i titoli derivati, quali titoli
d’assicurazione su altre transazioni finanziarie; se il valore di queste transazioni tende al ribasso,
il valore del derivato tenderà a crescere.
r
r1
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Il problema, anche secondo Keynes, è che questo è un processo matematico che, nella realtà, è
comunque esposto all’incertezza, ergo, al fine di assicurare la funzionalità del sistema, sarà
necessaria, a detta del economista, una cooperazione tra ente governativo e speculatori,
finalizzata ad identificare le situazioni ottimali per l’applicazione delle politiche monetarie e
fiscali. Se la comunicazione tra speculatori e governo non sussistesse, c’è il rischio che L aumenti
eccessivamente, causando un crollo dell’EMC.
Concludendo, Keynes suggerisce tre cose:
• Tassazione progressiva
• Quota socializzazione investimento (walfare State)
• Eutanasia dei rantié
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Patinkin ha quindi fuso insieme Pigou e Keynes, identificando il paniere ottimo dei soggetti
privati come un insieme di n beni e una parte di liquidità descritta da un certo quantitativo di
potere d’acquisto. In questo senso, infatti, Patinkin definisce la quota risparmi con la sigla M/p
in quanto, si suppone, che tale moneta si tramuterà rapidamente in altri beni (ideale di
M→D→M neo-classico).
Graficamente avremo:
M M1
1/p Escludendo a priori l’ipotesi di politiche fiscali, per Patinkin,
l’attuazione di una qualsivoglia politica monetaria non può
portare ad altro che ad un aumento delle scorte monetarie con
1/p0 successivo loro stanziamento presso le quote risparmio, tale da
1/p1 creare una disuguaglianza tra domanda e offerta di beni
(D>S). Questa situazione si tramuterà in un aumento dei prezzi
L|M
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L’ultima osservazione necessaria rispetto alle teorie di Patinkin riguarda il suo modo di
rappresentare la curva IS-LM, in confronto a quella di Keynes:
LM-P A primo occhio si nota subito che la IS di Patinkin è più
r LM-K
elastica rispetto a quella di Keynes, questo perché secondo lui
la IS sarebbe in funzione di quello che lui chiama reddito
permanente, dato dal rapporto:
Rp = R/r
IS-P
IS-K Oltre a questa differenza tra Patinkin e Keynes, c’è anche una
R
Infatti, se secondo Patinkin è la IS ad essere più flessibile rispetto alla LM, per Keynes è
tutto il contrario, decretando la più completo conflitto ideologico tra i due modi d’interpretare le
dinamiche economiche di breve periodo.
Infatti, per quanto si sia parlato di Keynes nell’ambito della moneta esogena, la sua teoria
sosteneva radicalmente il ruolo endogeno della moneta nel sistema e per avere da subito
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qualche capo saldo del tutto, specifichiamo che, a livello di eterodossia economica, la società
non è composta da individui, bensì da classi sociali così descritte:
• Banche: classe sociale che detiene e distribuisce la moneta per conto della B.C. allacciando n
rapporti di credito
• Capitalisti: classe che, detenendo del capitale di garanzia, ha accesso ai finanziamenti concessi
dalle banche (Marx)
• Lavoratori: classe sprovvista delle garanzie per l’accesso al finanziamento, ma proprietaria
indiscussa del hebeas corpus soggettivo.
Ora, per procedere all’analisi di questo processo, è necessario sapere che ci sono diversi tipi di
mercato che concorrono al suo sviluppo:
• Mkt credito (M; ic)
• Mkt finanziario (iz; Z)
Produzione (I → R; p; N)
• Mkt lavoro (w)
• Mkt beni (C; S)
Dal momento che, come abbiamo visto, l’unico ad offrire delle garanzie di solvenza sul credito è il
capitalista, allora possiamo precludere il mercato del credito ai lavoratori.
Per concatenazione, abbiamo:
In questa catena, il mercato finanziario si correla a quello dei beni, perché basato su quella
quota di reddito non destinata al consumo, bensì al risparmio (S). Se ipotizziamo che i lavoratori
non lascino in sospeso i propri salari, ma che li depositino in banca o li investano, allora questi
risparmi produrranno un rendimento che analizzeremo tra poco.
Balzando alla produzione, data la relazione sottile che intercorre tra credito e investimento
produttivo, supponendo che la interdipendenza si basi sul salario, decretiamo che p è
indipendente da tutto ciò, perché liberamente deciso dal capitalista in fase di scambio sulla
base di (w/p; ic); tale che ic è il tasso di interesse sul credito acquisito.
T0 T1 T2 T3 T4
wN°*(1+b+g) d*(1-c)(1-t)*wN° wN°+ ic*wN°
Banche
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Procediamo ora col visionare effettivamente la ragione per cui, in questa specifica teoria, la moneta
è considerata endogena al sistema, partendo da una situazione 0, ove tutti i soggetti economici
(Stato, Lavoratori, Società e Banche) siano in pareggio di bilancio perfetto.
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Data questa tabella, procediamo ora a spiegarne i contenuti passo dopo passo:
• T0: L’inizio del processo è determinato da un progetto d’investimento da parte delle società, le
quali chiedono a titolo di credito moneta alle banche, le quali a loro volta ne domandano
l’emissione alla banca centrale. Tale quantità di moneta è pari a: wN° | N° è variazione
prevista del numero di occupati; w è il salario. La concessione di questa moneta alle società
è solo temporanea, in quanto piove quasi direttamente nelle tasche dei lavoratori chiamati ad
impegnarsi; tuttavia, la richiesta di credito obbliga anche le banche ad assumere nuovi
impiegati, di conseguenza, oltre che alla moneta a credito utile alle società, verrà domandata
anche una parte di moneta utile alla remunerazione di questi nuovi impiegati bancari. Da
qui, abbiamo che la moneta domandata è pari a: wN°*(1+b).
• T1: Alla prima fase segue quella del versamento delle tasse ad opera dei lavoratori dipendenti
assunti. In questo frangente viene a determinarsi l’effettivo reddito disponibile, pari a:
wN°-t*wN°. Tale t*wN° viene versata allo Stato, il quale a sua volta sarà chiamato ad
assumere nuovi impiegati statali per lo svolgimento delle proprie attività; questi nuovi
impiegati verranno remunerati da lì a poco tramite spesa pubblica (g). Da qui capiamo che,
in via definitiva, la moneta realmente domandata sarà pari a: wN°*(1+b+g).
• T2: Conclusa la fase di “distribuzione” della moneta acquisita agli effettivi consumatori del
sistema, i lavoratori, può avvenire la fase di consumo, la quale sarà, ovviamente, in funzione
del reddito disponibile precedentemente calcolato al netto delle tasse. tale quota consumo è
data da: c*(1-t)*wN°. Detratta così la quota consumo dal reddito disponibile, poniamo in
essere che il resto del reddito disponibile non speso venga “ceduto” in deposito alle banche,
le quali non acquisiscono la proprietà del deposito, ma semplicemente la giacenza. Tale
quota è identificata da: d*(1-c)(1-t)*wN°.
• T3: Dal momento che viene costituito un deposito da parte del consumatore, subentra la
condizione ottimale a costui per poter attuare investimenti finanziari. Tale investimento
andrà ovviamente a favore di quelle stesse società che, dalla fase precedente, avevano
acquisito i proventi dall’attività di consumo dei lavoratori. La quota di investimento
defluisce così dalle tasche dei lavoratori (depositi) per affluire verso le società; essa è pari a:
z*(1-c)(1-t)*wN°.
• T4: L’ultima fase del processo è data dal pagamento delle quote interesse. Nello specifico avremo
che le società saranno chiamate a restituire quanto precedentemente acquisito all’origine del
processo, più una quota interessi alle banche: wN°+ ic*wN°. Il capitale così riacquisito dalle
banche piove nuovamente sui lavoratori, sottoforma di rendimenti, pari a:
(id+iz)(1-c)(1-t)*wN°.
37
38
Ms = wN°*(1+b)-(1-qm-q)*d*(1-c)(1-t)*wN°
Tirando le somme abbiamo ben tre tipologie di interessi (ic, id e iz) e volendo creare delle
disuguaglianze che approssimino delle situazioni di virtuosismo o equilibrio, abbiamo che:
• Saldo flussi bancari: ic ≥ id*(1-c)(1-t)*wN°
• Saldo flussi investimento: [c + (1-iz)z(1-ic)](1-t)(1+b+g) ≥ (1+ic)
• Saldo flussi Stato: t*(1+c+g) ≥ g
• Saldo flussi lavoratori: Id+Iz > 0
In conclusione, come ultimo contrasto alla teoria monetarista, troviamo che in un sistema così
pensato è il credito che produce deposito (CR → DB) e che è l’investimento a produrre
risparmio (I → S). Queste conclusioni sono possibili proprio a fronte dell’endogeneità sopra
descritta, perché c’è del deposito di moneta alla fine del processo e non la sua completa
dispersione nel consumo. Non sussistendo, quindi, la dispersione totale della moneta, si
giustifica altresì la sussistenza di un equilibrio diverso dalla situazione 0. Tale condizione
può, eventualmente, essere ristabilita, ma è una coincidenza potenziale non necessaria.
Per chiudere il discorso sulla moneta e il suo funzionamento nel sistema, diciamo che il modello
fin’ora descritto entrò in crisi successivamente agli anni ’70, quando le modalità di
finanziamento delle attività imprenditoriali si aprirono a nuovi metodi, come quello
dell’adventure capital. Con l’introduzione di questi metodi, infatti, l’attività di finanziamento
passò dall’essere un monopolio delle banche ad un’attività molto più ampia che andò a
crescere col passare del tempo, fino agli anni ’90 con l’avvio del buy-back e delle super-transazioni
finanziarie. In tutto questo, le banche si trovarono ad essere emarginate a mere fonti di
sostentamento in casi di emergenza, di conseguenza avviarono un processo d’evoluzione che le
portò ad assumere la forma odierna, ovvero quella incrociata di: istituti di credito e
finanziamento. Con questa manovra le banche si aprirono ai mercati finanziari e cominciarono
ad avere il loro ruolo in borsa, mentre la moneta si evolse sempre più in un’entità capace di
auto-prodursi, indipendentemente dalla volontà della Banca Centrale.
Ad oggi tutto è toccato dal Mkt finanziario: consumo, reddito, credito e risparmio; all’uomo non
resta altro che il proprio respiro.
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CAPITOLO 8
IL PROGRESSO TECNOLOGICO
Arriviamo ora all’ultima parte del nostro corso parlando del progresso tecnologico che, in realtà, è
un argomento abbastanza controverso a livello di teorie economiche, in quanto ambedue i
processi hanno faticato a strutturare un ragionamento che potesse in qualche modo spiegare
esaustivamente l’impatto che questa variabile ha sul sistema. Senza dilungarci troppo in
introduzioni, procediamo immediatamente ad analizzare le teorie riguardo al progresso tecnologico
formulate dalle due scuole di pensiero.
Partiamo come sempre dalla teoria dell’EEG, per quanto essa non si sia mai soffermata troppo su
tale variabile, in quanto non facilmente catturabile da formule matematiche esaustive e
rappresentabili. Dovendo la EEG dimostrare sempre la propria validità tramite il ragionamento
aritmomorfico, tutto ciò che essa ha potuto fare fu teorizzare che: il progresso tecnologico è una
variabile esogena costante, ergo irrilevante e non di competenza dell’economia politica.
Ovviamente, non potendo liquidare la questione in questo modo, la EEG proseguì nella propria
analisi semplificando l’intero sistema della domanda-offerta in una funzione del tipo:
40
Il tutto viene correlato alla soggettiva personalità di due soggetti economici, ovvero: il
consumatore (a) e il produttore (β).
Ora, sappiamo da precedenti studi della EEG che in un sistema di mercato, il produttore è colui
che determina il rapporto w/p, il quale corrisponde a: ѲY1L; ovvero, la produttività marginale
del lavoro, in funzione della forza lavoro (L) impiegata e della tecnologia impiegata.
Dal momento che tale tecnologia è esogeneamente offerta alle imprese dagli ingegneri, ergo non
correlata ad attività di investimento o intervento pubblico, allora è trascurabile.
Y
Da questo grafico capiamo quindi che lo sviluppo tecnologico fa
impennare la curva di produttività e supponendo che in precedenza
1 vi fosse già un certo livello di output, potranno seguire due diversi
comportamenti da parte delle imprese:
1. Mantenere L stabile, aumentando Y
2. Mantenere Y stabile, riducendo il costo di L
L
2
41
La rivoluzione di Hicks
Un’evoluzione reale della teoria EEG rispetto lo sviluppo tecnologico la si ebbe solo negli anni
’50 a fronte delle innovazioni di Hicks, colui che tradusse in linguaggio aritmomorfico le teorie
eterodosse di Keynes.
Egli sostenne che quanto detto della EEG fosse fondamentalmente corretta, purché a seguito del
progresso tecnologico tutte le imprese presenti nel sistema si adeguino contemporaneamente
al nuovo sistema produttivo. A questo egli aggiunse che se a livello di sistema ciò basta e
avanza per ristabilire l’equilibrio, lo stesso non vale a livello di mercato delle risorse.
Hicks motivò tale affermazione alludendo proprio a quel effetto descritto precedentemente di
ottimizzazione della produttività marginale del lavoro: stessa produttività con un minore livello di
L.
Ferma restando la validità di questa ipotesi, allora Hicks afferma che il progresso tecnologico ha
un impatto a livello di mercato del lavoro ed impiego del capitale (K). Da questa
affermazione, egli sviluppò la teoria degli isoquanti e isocosti.
K = -(PL/PK)*L + C
Data la tangenza di questo isocosto col isoquanto, si individuerà un solo punto di equilibrio di
tale mercato. Solo sulla base del Δ che più avrà giovato del progresso tecnologico si potrà dire
quale variabile predominerà sull’altra:
• ΔK/ ΔL > 0: Predominanza del capitale sul lavoro (Capital intensive)
• ΔK/ ΔL = 0: Parità di impiego tra le variabili
• ΔK/ ΔL < 0: Predominanza del lavoro sul capitale (Labour intensive)
Con questo grafico, Hicks dimostrò che non era vera la neutralità totale del progresso
tecnologico su tutto il sistema, ma che almeno una parte di esso venisse effettivamente
influenzato e non di poco, tuttavia presentava ancora un’imperfezione, cioè la capacità di tutti i
soggetti economici di omologarsi al nuovo metodo di produzione nel medesimo momento. Questa
imperfezione venne corretta da Stonemann.
42
43
A dir la verità, non fu Stonemann il primo a teorizzare che la diffusione del progresso a tutti i
processi produttivi non avvenisse contemporaneamente per tutti, ma furono Griliches e Monsfield.
Costoro, infatti, notarono che la produttività del sistema tendeva a decrescere all’aumentare
dell’asimmetria informativa causata dalla divulgazione non immediata del progresso a tutti i
soggetti produttori. In un successivo primo momento, Arrow tentò di sintetizzare questo fatto con il
pretesto della diversificazione sociale, per poi arrivare effettivamente a dire che vi fosse un
comportamento epidemico del progresso.
A fronte di questa consapevolezza, Stonemann cercò di illustrare questa attitudine del progresso
tramite un grafico, aggiungendo altresì che questo comportamento epidemico non era neutrale
al sistema, ma era addirittura capace di farne variare la struttura fino a renderla una
concorrenza perfetta.
x
Tanto per dare qualche nozione specifichiamo che la curva non
parte mai da 0, ma si considera sempre l’esistenza di un
pioniere, mentre a livello matematico si ha:
X0t = a[(1-Xt)/C]*Xt
Si tiene conto anche del fatto che i settori non siano tutti uguali, ergo che abbiano delle
velocità di diffusione differenti, ciò non toglie che la rappresentazione resterà sempre questa.
Il livello di piena diffusione sarà, ovviamente, pareto ottimale in una condizione di
concorrenza perfetta, la quale è sicuramente insussistente, di conseguenza è necessario
ipotizzare quanto anticipato, ovvero che il progresso tecnologico possa modificare le forme
di mercato facendole convergere verso la forma pareto ottimale.
A sostenere l’esistenza di questa influenza fu Stonemann.
Secondo Stonemann, infatti, è vero che alla fine del processo di diffusione si avrà un nuovo
equilibrio, ma appunto perché nuovo e molto probabilmente derivante da una forma di
mercato differente dalla concorrenza perfetta, allora è necessario confrontare l’equilibrio
precedente con il nuovo, al fine di catturare la reale variazione del sistema.
Tale variazione del sistema è catturata, secondo Stonemann, scindendo il grafico in n parti ed
analizzando per ognuna il livello di conversione subita, correlata alla tendenza del plus-
profitto dei pionieri dell’innovazione a 0. Solo quando il plus-profitto di tutti i pionieri si sarà
esaurito (completa conversione di tutti i cicli produttivi al nuovo modello), allora si potrà definire
l’effettivo nuovo equilibrio pareto ottimale.
44
Conclusa con Stonemann, l’analisi del progresso tecnologico secondo la EEG, possiamo finalmente
passare all’approccio eterodosso a tale fenomeno economico.
Per farlo ricorriamo a Marx, in quanto fu il primo che, indirettamente, pose in essere
l’attitudine dei capitalisti di innovare il proprio processo produttivo tramite l’ottimizzazione
del saggio di profitto. Ovviamente, c’è da ricordare che Marx aveva altresì previsto l’inevitabile
crollo di tale saggio all’aumentare del peso del capitale rispetto a al lavoro effettivamente
retribuito, in quanto ricordiamo: y = σ/(COC+1).
Non potendo quindi il profitto crescere in maniera sostenibile se il capitalista approcciasse
all’innovazione solo dal punto di vista dell’implemento del capitale, Marx aveva anticipato
l’effetto deflagrante del progresso tecnologico su tutte le sfere coinvolte nel processo
produttivo. Il plus-profitto, per essere sostenibile, deve spingere anche la domanda che lo
remunera.
Con queste singole teorie, avremmo già snocciolato gran parte del pensiero eterodosso rispetto al
progresso tecnologico, tuttavia non ci limitiamo a ciò, ma proseguiamo con le successive scoperte
di Shumpeter, Winter e Nelson.
Il pensiero schumpeteriano
Partendo subito alla grande, enunciamo la teoria schumpeteriana del capitalista innovatore.
Già da questa definizione possiamo notare il ruolo fondamentale che il capitalista innovatore
gioca all’interno del pensiero di Schumpeter, per quanto lui stesso ammetta che tale soggetto è raro
da individuarsi nel sistema.
La rarità del capitalista innovatore e la sua importanza, però, per quanto visti con sospetto dal
sistema, sono la ragione prima per la quale è giusto che questo capitalista goda del plus-
profitto derivante dalla sua innovazione.
In tutto questo, le banche dovrebbero fungere da incentivo per le idee innovative dei capitalisti,
ma dal momento che la loro prudenza li spinge a tutt’altro atteggiamento, Schumpeter li
etichetta come parassiti.
Volendo creare una tassonomia, egli aggiunse che l’innovazione può essere:
• Innovazione di prodotto
• Innovazione di processo
• Innovazione organizzativa
• Innovazione delle materie prime
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Detto questo, Schumpeter seguì con una critica quasi ironica della EEG varrasiana, quale
modello capace di descrivere una realtà circolare incompatibile con la realtà, perché dinamica
e variabile nel tempo, a causa del progresso tecnologico.
Altro passo interessante è che Schumpeter ammise la genialità di Marx rispetto la comprensione
del ruolo del progresso tecnologico, per quanto la sua visione politica fosse effettivamente
differente dalla sua. Marx, infatti, si schierò con i lavoratori e Schumpeter ammise che tra le grandi
imprese private americane e il sistema programmato del socialismo non ci fosse grande
differenza, dato che ambedue programmavano le loro attività secondo il modello di Taylor
(importato in Russia da Lenin).
La triste verità è che il tutto si concluse con la presa di coscienza dello stesso Schumpeter rispetto la
deriva spirituale del capitalismo, il quale non era più finalizzato allo sviluppo dirompente, ma un
mero miglioramento di quanto già creato. Dopo la sua morte, Schumpeter venne ripreso negli anni
’60.
Negli anni 60, La teoria che si rifece alle idee di Schumpeter è detta teoria neo-schumpeteriana e
il suo fondatore fu Freeman. Nello specifico, questa teoria cercava di carpire la ragione per cui il
sistema mettesse a disposizione un certo numero di novità tecnologiche tutte insieme, tali da
determinare un boom economico in uno specifico periodo della storia.
Una prima ipotesi derivo dalle ricerche di Kondratiev, le quali descrivevano il sistema
economico come un insieme di onde; ogni onda avrebbe una durata di circa 50-60 anni e
sarebbe caratterizzata da 4 fasi:
• Prosperità: momento di grande innovazione
• Recessione: momento di rallentamento e perfezionamento
• Depressione: stallo
• Ripresa: rilancio della grande innovazione
Ciò che nessuno riuscì a spiegare, però, di questa teoria fu la periodicità di tali onde e si
proposero diverse ragioni plausibili, in particolare Freeman sosteneva che l’innovazione venisse
incentivata da una crescente crisi socio-politica, mentre Mensch pensava l’inverso, ovvero che la
crisi socio-politica fosse originata dall’innovazione.
Totalmente differente fu l’ipotesi avanzata da Kuhn, secondo cui l’innovazione era dovuta
all’esistenza di paradigmi tecnologici, ovvero la capacità del sistema di evolversi nel tempo
fino a cambiare radicalmente il punto di vista delle persone.
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Fin’ora abbiamo visto alcune delle sfaccettature del pensiero eterodosso dell’economia rispetto allo
sviluppo tecnologico, in particolare quelle più astratte ed ideologiche della questione. Quasi
totalmente diverso fu l’approccio di Nelson e Winter, il quale non era prettamente un approccio
matematico, bensì un approccio basato su modelli ideologicamente semplici, ma capaci di
dare delle approssimazioni grafiche sufficientemente coerenti della realtà.
Nelson e Winter erano due giornalisti e criticarono pesantemente la EEG rispetto all’idea che
l’investimento fosse trainato dal risparmio e l’idea che vi fosse completa informazione a costo 0;
secondo loro, infatti, l’informazione non sarebbe mai completa, ma costantemente integrabile
tramite dispendio di ricchezza (l’informazione non è gratuita). Dovendo dunque pagare è ovvio
che la massimizzazione non solo sarà impossibilitata per la mancanza di informazioni, ma anche per
l’esistenza di un plus-costo su di tali info.
Altro passo importante è quello riferito alle preferenze, le quali possono, sempre nell’ambito di
un’incertezza che impedisce una massimizzazione, portare ad un risultato soggettivamente
soddisfacente. Quest’ultima implicazioni è allargabile anche alla logica d’impresa, facendo
totalmente vacillare la veridicità della teoria degli individui tutti eguali della EEG: ogni individuo/
impresa ha le sue preferenze ed obiettivi esposti ad incertezza e ne consegue il successo
nella maniera che considera più consona; se tale strategia sarà considerata funzionale, essa
diverrà un’attitudine quotidiana.
Nelson e Winter sfruttarono comportamentali avanzate prima di loro da Simon per dire che
l’impresa è un soggetto che deve adattarsi ed evolversi, al fine di sopravvivere con un
comportamento soddisfacente; fintanto che una certa quotidianità porta a risultati positivi,
un’impresa non avrà ragione di abbandonarla e potrà andare avanti.
Data una prima routine soddisfacente, un’impresa seguiterà a sfruttarla perché semplice e
conveniente, tuttavia, avendo un rendimento decresce, verrà il momento in cui il sistema
richiederà un nuovo “adattamento”.
Da questa definizione, dunque, intuiamo una certa analogia tra il processo progresso tecnologico e
il processo dell’evoluzione naturale; inoltre, troviamo un conferimento d’importanza all’esperienza
personale d’impresa non da poco, dal momento che, avendo ogni impresa un bagaglio differente
dall’altro, si conferma ulteriormente l’esistenza di una differenziazione tra i soggetti
economici.
Considerando altresì valida la teoria schumpeteriana della capacità innovatrice delle imprese,
secondo Nelson e Winter, quella innovazione non scaturirebbe da una deflagrazione
improvvisa, ma sarebbe frutto di una efficienza dinamica del sistema. Quindi, secondo loro, il
sistema sarebbe composto di routine in continua crescita, fino al momento di una nuova
selezione.
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f1a = A*(Ea-mE)*fa
Data un’impresa a, dunque, se f1a > 0, allora la sua routine tenderà ad evolversi e ad adattarsi,
mentre negli altri casi sarà, o nulla, o tendente al fallimento. Il coefficiente A è, invece, una stima
matematica delle risorse che permettono l’incremento progressivo della differenza tra l’efficienza
attuale (Ea) e l’efficienza media di settore (mE). Va da sé che un’impresa che tenderà ad avere
un’efficienza sotto la media sarà colei che tenderà al fallimento nel processo di adattamento.
ATTENZIONE: dato un modello avente alla base una funzione di efficienza di questo tipo
non si avrà mai una saturazione; ci sarà sempre un punto di nuova selezione.
Tramite la creazioni di intervalli d’analisi capaci di far convergere le efficienze delle varie imprese
è possibile creare dei modelli di auto-organizzazione. Più un settore è esogeneamente
auto-organizzato (settori pubblici), più i processi ad esso relazionati tenderanno a convergere.
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Ora, andando più nel dettaglio rispetto al grado di competitività Ea, troviamo che esso è
pesantemente influenzato da:
• Opportunità
• Incertezza
• Cumulabilità
• Appropriabilità
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Relazionando questi quattro spetti alla tecnologia che determina E, è necessario sapere che più
un’innovazione tecnologica è unica nel suo genere, tanto più aumentano contemporaneamente
le opportunità ad essa connesse e l’incertezza sui ricavi. Rispetto all’aspetto cumulativo, esso è
dovuto alla capacità della tecnologia di implementarsi nel tempo dando diritto di
appropriamento di tale accumulo a chi quella tecnologia l’ha in possesso.
Facendo un piccolo excursus storico troviamo che il modello fordista era rigido, in quanto le
mansioni lavorative, i processi e le gerarchie erano statiche. La catena del sistema era descritta da:
progettazione→esecuzione→commercializzazione; questo valeva nella vita d’impresa e, allo stesso
tempo, nella vita sociale. Fu dopo la crisi del modello fordista che la EEG cominciò a trainare il
sistema con la teoria dei rendimenti marginali decrescenti, dando origine ad una crescente
flessibilità del processo, ad oggi anche troppo flessibile. In quest’ambito, la capacità di una società
di gestire le proprietà tecnologiche di cui sopra è la chiave della competitività, la quale però va a
discapito della stabilità lavorativa: più salari contro il precariato perpetuo.
Concludendo, con l’elasticità la produzione passa dal lavoro e il capitale, alle riserve di conoscenza
e socializzazione, ovvero la capacità del sistema di evolversi sulla base dell’informazione che
viaggia (learning-economy e net-economy).
Successivamente, Winter da solo cercò di creare un altro schema che sintetizzasse il processo
evolutivo delle imprese, basando quest’ultimo sulla sola attività di investimento nella R&D. Tale
investimento, secondo lui, da vita a: ricerca innovativa (poderosa) o incrementativa (sussistenza);
tanto più una ricerca spinge per l’innovazione e non per l’incremento, tanto più aumenta
l’incertezza e la competitività.
Questo modello si basa sul rapporto: Q/L; questa è la produttività del lavoro.
Ora, questa produttività è sempre in funzione di K, il quale però è a sua volta in funzione del
investimento in R&D attuato. Quindi, non è tanto colpa del lavoro se la produttività può andare a
picco, ma dello scarso investimento.
L’ultima cosa che resta da analizzare di questo ultimo modello di Winter è la capacità
dell’innovazione di produrre anche esternalità positive, grazie a quei processi di learning
precedentemente citati capaci di far accrescere la conoscenza della società.
Ora, tali esternalità sono sì positive, ma ci sono casi di imprese che potrebbero inciamparvi
avendo non pochi problemi; tali casi sono chiamati lock-in.
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LOCK-IN: caso particolare ove una esternalità positiva sfruttata da una impresa può
impedire a quest’ultima di mutare la propria routine e, allo stesso tempo, di adottare
altre innovazioni.
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