Sei sulla pagina 1di 208

PRENDI IL VENTO

Fabio Bartoli

Prendi il vento
Meditazioni carismatiche
Copertina di Paolo Pelliccioni

Per i testi biblici:


© 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi
e Caterina da Siena, per gentile concessione

© 2016 ÀNCORA S.r.l.

ÀNCORA EDITRICE
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
Tel. 02.345608.1 - Fax 02.345608.66
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
N.A. 5604

ISBN 978-88-514-1685-0

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano

Questo libro è stampato su carta


®
certificata FSC , che salvaguarda le foreste,
in uno stabilimento grafico
con Catena di Custodia certificata FSC
®
(Forest Stewardship Council ).
Premessa

In questo anno 2016, Giubileo della Misericordia, cade il qua-


rantesimo anniversario della fondazione della Comunità Maria del
Rinnovamento Carismatico Cattolico. Per dodici anni, dal 2002 al
2014, ho servito questa Comunità come suo referente ecclesiastico,
dedicandomi in essa innanzitutto al ministero della predicazione.
In questa attività sono stato costantemente guidato dalla preoccupa-
zione di radicare solidamente l’esperienza carismatica nella Parola
di Dio e nella grande tradizione spirituale della Chiesa. In questo
modo la nostra spiritualità può uscire dal ghetto della autoreferen-
zialità e diventare un patrimonio per tutta la Chiesa.
Così nell’occasione del quarantennale di questa formidabile
sorgente di Grazia, che innanzitutto ha salvato me, ho desiderato
raccogliere in un libro i momenti più significativi di questo servizio.
A posteriori, una volta fatta la selezione del materiale, mi sono ac-
corto che senza volere avevo toccato tutti i punti fondamentali della
spiritualità carismatica e che questa raccolta di scritti, pur originati
da situazioni diverse e in momenti diversi, aveva un filo conduttore
molto logico e coerente: la descrizione di un percorso sviluppato in
tre passi: lode, vita comune ed evangelizzazione. Le tre parti in cui
è diviso il libro riflettono questa sistematizzazione.
Ho cercato di conservare lo stile colloquiale della predicazione,
pur rendendomi conto che espone il lettore a qualche ripetizione e
lungaggine, nella speranza di mantenere anche nello scritto un po’ di
quello Spirito Santo che, io credo, è passato attraverso le meditazioni
quando sono state pronunciate.

5
Introduzione

È un mistero il vento. Ma chi ne ha sentito la voce, anche per una


volta sola, non può resistere al suo fascino. Ci sostiene in lunghe
planate silenziose giù dalle cime o ci porta in rapide ascese a vite,
sull’ala di correnti calde; ci chiama ad emozionanti boline da ro-
vesciarti o a tranquilli bordeggi contemplando la costa. È il vento
che guida e tu lo devi assecondare, ma nulla è più seducente che
stringerne il potere tra le mani.
È un mistero il vento. Tutta la vita cambia al suo passaggio.
Ci parla del cielo e della sua purezza o porta con sé profumi di
primavera e fieno tagliato. Asciuga gentile il sudore, e dà fiato al
viandante affaticato, o costringe lo studioso a lasciare i libri e ri-
scoprire la vita fuori dalla porta. Tutto mette in movimento, tutto
cambia, buttando carte all’aria e scompigliando progetti.
È un mistero il vento. Libero e pericoloso, come tutto ciò che è
bello. È vortice e tempesta che distrugge o rinnova, è brezza che ti
fa respirare o scirocco che ti dispera, è ponentino, il più caro agli
amanti, o tramontana che annuncia la neve. Fa la gioia dei bimbi
che corrono ad inseguirlo e strappa un sorriso perfino al più mesto
dei preti.
Forse per questo la Bibbia lo sceglie a simbolo dello Spirito Santo,
che è così connaturale al vento da richiamarlo nel suo stesso nome.
E chi crede è nel Vento che crede, e chi prega è nel Vento che prega,
e chi ama è nel Vento che ama, e chi vive è nel Vento che vive.
Non lo puoi possedere, ma si lascia afferrare dalle vele e plasma-
re in forme ardite, sostiene le ali dell’aliante e muove le pale del

7
mulino. Nessuno lo dirige, ma il contadino o il marinaio esperto
lo sanno anticipare e fanno i loro piani; mai contro il vento, ma
con esso in amicizia. Prendono il vento per alleato e compagno.
Prendere il vento è sciogliere le vele, è decidersi a rischiare il
mare, è stringere alleanza e condurre insieme la vita, è scoprire la
bellezza della sua novità che onda dopo onda si apre davanti a noi.
Quando si va in barca a vela c’è un momento, dovendo cambiare
rotta, in cui la barca sembra fermarsi, finché di nuovo non lo
prende nelle vele e riparte in un’altra direzione. Prendere il vento
allora è anche una metafora per indicare un cambio di rotta, una
svolta decisa da dare alla nostra vita, qualcosa che ci porti al largo
e ci faccia osare e rischiare vie nuove.

8
PREGARE NEL VENTO
Lo Spirito loda Dio in noi
1
Io sono la luce del mondo

Luce e verità
Ci sono simboli o immagini più forti di altri, che vanno a toc-
care qualcosa di profondamente radicato nel nostro inconscio, gli
psicologi li chiamano archetipi. La luce è proprio uno di questi.
In tutte le lingue del mondo le tenebre sono sinonimo di dubbio,
inganno, immobilità, morte: quando non sappiamo che fare dicia-
mo che «brancoliamo nel buio» e, all’opposto, la luce simboleggia
la certezza, la verità, la vita: una buona idea è sempre «luminosa».
Dobbiamo fare un piccolo sforzo di immaginazione per com-
prendere cosa significasse la notte prima dell’invenzione dell’e-
nergia elettrica. Quando scendeva il sole tutto doveva fermarsi;
quello era il momento del dubbio e dell’incertezza e quale angoscia
deve aver afferrato l’uomo che improvvisamente si scopriva cieco
e indifeso! È il momento in cui si è esposti al nemico, in cui può
accadere qualsiasi cosa. È il momento in cui nessuno può muoversi
perché si rischia di inciampare, di cadere, di perdersi. La luce è ciò
che ci permette di muoverci, di comprendere la realtà, il mondo
intorno a noi, di vedere le cose come sono davvero, in una parola:
la Verità. Non nel senso astratto, metafisico del termine, ma nel
suo senso più concreto di comprensione della realtà.
Non sorprende, allora, che nella lingua di Israele, il popolo della
Bibbia, la luce sia diventata sinonimo della Parola di Dio, quella pa-
rola che ci è stata data appunto per insegnarci a vivere, il manuale
della vita. Innumerevoli sono i passi in cui la Parola è paragonata
alla luce, come nel Salmo 118(119),105: «Lampada per i miei passi è

11
la tua Parola, luce sul mio cammino». Con questa immagine il pio
Ebreo esprime il fatto che solo chi segue la Parola di Dio vive nella
sicurezza di chi comprende se stesso e la propria vita. La Parola di
Dio ci offre un senso, una direzione, un cammino da percorrere.
«Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi, mi conduca-
no alla tua santa montagna, alla tua dimora» (Sal 42[43],3).

Ho sempre amato in modo speciale questo versetto, che leg-


giamo ogni Martedì nella Liturgia delle Ore, perché mostra che
la Verità, la luce che illumina le tenebre, non è una realtà statica,
qualcosa che dobbiamo scoprire al termine di un ragionamento,
come se la vita fosse un giallo e noi gli investigatori che cercano
di risolvere un mistero. No, la Verità è una cosa che Dio ci manda,
è una realtà dinamica, una rivelazione. La Verità non sta ferma,
è in cammino verso di noi. Anzi, è più che in cammino, la Verità
irrompe nella nostra vita, arriva di corsa:
«Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a
metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo
trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di
sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto inesorabile»
(Sap 18,14-15).

La Parola di Dio irrompe nella vita. È come quando in una


stanza buia si spalanca una finestra e all’improvviso le cose che
apparivano strane, bizzarre e minacciose acquistano il loro senso
e la loro proporzione naturale. Questa Parola allora suona in modo
speciale per chi è nelle tenebre, per chi non ha speranza, per chi è
nel dubbio e nell’angoscia e non riesce a vedere la fine del tunnel:
non devi cercare la luce, è lei che ti viene incontro. Tanti ti hanno
promesso l’illuminazione al termine di un lungo e difficile cam-
mino di iniziazione, e forse hai anche provato a seguire qualcuno
di questi percorsi, ma qui c’è altro: la Luce non è il punto di arrivo
del cammino, ma il suo principio e tutto ti è dato gratuitamente!
Niente notti di veglia su libri incomprensibili, niente penitenze

12
assurde, tutto ti è dato in anticipo, basta solo accettarlo e credere
in Colui che viene a te come la Luce.

Gesù è la Luce
Partendo da questo bagaglio di simboli acquisiti, da questo
insieme di cose note a qualsiasi Ebreo, Gesù aggiunge qualcosa di
folgorante quando dice: io sono la luce del mondo. Sta dicendo una
cosa che per un Ebreo è comprensibilissima ed al tempo stesso del
tutto inaudita, sta dicendo: io, io in persona, sono la Parola di Dio.
La verità non è una dottrina che dobbiamo studiare per imparare.
Per essere illuminati non serve una laurea in studi biblici, non
serve frequentare centinaia di catechesi o corsi bizzarri. Provate
a chiedere ad un rabbino cosa dovete fare per essere illuminati
e vi risponderà: studia la Torah. Se fate la stessa domanda a un
monaco buddista vi dirà di studiare gli insegnamenti del Buddha,
il Dharma come lo chiamano, ma se la fate ad un Cristiano lui vi
dirà che dovete conoscere Gesù, perché Lui è la luce, Lui in per-
sona, non la sua dottrina, non il suo insegnamento.
Paradossalmente, se Gesù fosse stato muto, se non avesse detto
nulla, il suo messaggio non sarebbe sostanzialmente cambiato,
perché il messaggio è la Sua persona, il suo essere incarnato,
morto e risorto per noi. Allora quell’illuminazione che per gli
altri è il punto di arrivo di un lungo e faticoso cammino di ricer-
ca e sacrificio, per noi è il punto di partenza, un flash, un lampo
che ci mette in movimento: ho conosciuto Gesù e in un istante
ho capito tutto. Poi mi ci vorrà una vita intera a capire ciò che
ho capito (ed a questo serve la catechesi e l’insegnamento), ma in
quell’attimo iniziale, come un lampo che attraversa da una parte
all’altra un cielo notturno, ho visto tutto in un istante solo. Quella
è la luce che Gesù accende nella nostra vita e la illumina. Non la
comprendiamo per un ragionamento, ma la riceviamo nel dono
di un incontro.

13
La verità ci libera

Nel libro dell’Esodo si racconta che quando Israele uscì dall’E-


gitto «Il Signore marciava alla loro testa (…) come una colonna di
fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare di giorno e di
notte» (Es 13,21). Nel cammino della nostra liberazione il Signore
ci cammina davanti, come una colonna di fuoco che indica la via
e mostra dove andiamo. Non troppo avanti, perché non ci serve
di illuminare tutta la strada, ma solo il passo successivo, però ci
consente di viaggiare di giorno e di notte, cioè quando le cose
vanno bene e quando vanno male, nella gioia e nel dolore, nella
chiarezza e nella confusione. L’importante è seguire quella luce
che ci precede.
Dunque la luce ci guida in un cammino di liberazione. Gesù ha
detto «Se sarete miei discepoli conoscerete la verità, e la verità vi
farà liberi» (Gv 8,31-32). Non qualunque verità è liberazione, ma
quella che conosciamo quando diventiamo discepoli del Signore.
Niente è più liberatorio dell’Obbedienza, se è a Lui che obbediamo.
Quando Pilato domanda a Gesù «che cos’è la verità» (Gv 18,38),
Gesù non risponde nulla, perché non ha nulla da dire, perché Lui,
lui stesso è la verità e quindi conoscere la Verità significa obbedir-
gli, seguirlo.
Liberare una persona allora non sarà fargli un lungo discorso,
una catechesi «sulla vita, l’universo e tutto quanto», ma piuttosto
fargli incontrare Gesù vivo e presente, facendolo risplendere at-
traverso la nostra persona. A quel punto non serve altro, perché
la luce farà da sola il suo lavoro. Sarà Cristo stesso a superare le
resistenze, se ci sono, del nostro interlocutore. Non siamo noi a
doverlo convincere, ma l’evidenza di Cristo vivente in noi. E d’altra
parte quella stessa evidenza, quello splendore di Cristo, è capace
di vincere qualsiasi resistenza nell’uomo. Sant’Agostino così rac-
conta l’irruzione di Dio nella sua vita: «Vocasti, clamasti, rupisti
surditatem meam» (Hai chiamato, hai gridato, hai sfondato la mia
sordità).

14
L’irruzione della luce nella nostra vita è un lampo che squar-
cia il cielo, non si può nascondere. Ed allora il nostro compito
non sarà convincere gli altri, che non devono essere illuminati
da noi e dalle nostre parole, ma lasciar risplendere Lui, Gesù,
attraverso la nostra testimonianza. La luce che abbiamo dentro
deve riversarsi sul mondo. Se ti riempi di luce sarai tu stesso
luce nella notte, diventerai tu quella colonna di fuoco che guida
alla liberazione.

Separarsi dalle tenebre

A questo punto facciamoci una domanda: come possiamo di-


ventare noi stessi luce?
«Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Com-
portatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste
in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al
Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frut-
to, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto da
costoro in segreto è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose
apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si
manifesta è luce. Per questo è detto: “Svégliati, tu che dormi, risorgi
dai morti e Cristo ti illuminerà”» (Ef 5,8-14).
Può sembrare elementare, ma bisogna dirlo. La prima cosa da
fare per essere luce è rinunciare alle tenebre, scacciarle da noi stessi.
C’è una verità semplice ma fondamentale da dire sulle tenebre: esse
sono l’assenza della luce. Vuol dire che non hanno consistenza in se
stesse: la forza delle tenebre è l’inganno. È l’illusione di farci crede-
re innanzitutto che il male è più forte e poi di farci diffidare della
luce che ci guida: è il primo inganno, quello del serpente antico
che voleva far credere ad Adamo ed Eva che Dio fosse loro nemico,
che fosse geloso della loro libertà, quando fin dall’inizio il progetto
di Dio era quello di far diventare l’uomo come Lui, attraverso un
dono, però, e non per rapina.

15
Cari fratelli, noi viviamo in un tempo in cui questa menzogna
sta dilagando e dovremmo essere ciechi per non rendercene conto.
Sempre più spesso capita di sentire l’insinuazione del serpente che
ci suggerisce che Dio ci ha dato i suoi comandi non per la nostra
salvezza, ma per mettere un limite alla nostra libertà. È una men-
zogna su Dio e di conseguenza è una menzogna su Gesù e sulla
Chiesa ed alla fine dei conti sull’uomo. Quando vogliono farci
credere che il piacere è lo scopo della vita e che quindi in nome del
benessere e del piacere si può giustificare qualsiasi cosa, questa è
una menzogna. Se andate a stringere all’osso certi ragionamenti,
specialmente quando si parla di bioetica o di aborto o di omo-
sessualità o in genere di tutto ciò che ha a che fare con il sesso, vi
accorgete che alla fine dei conti sempre di questo si sta parlando:
di un presunto diritto al piacere, come se il piacere non dovesse
contemperarsi con mille altri diritti e doveri molto più importan-
ti. E quando ci descrivono la Chiesa come un’agenzia di potere ci
stanno raccontando un’altra menzogna, del tutto trasparente a chi
la Chiesa l’ha conosciuta un minimo dall’interno. Per non parlare
delle menzogne che si raccontano su Gesù, ben costruite e ben
raccontate, per carità, che diventano best seller internazionali e
film importanti, ma che sono un tale cumulo di sciocchezze da far
ridere chiunque abbia un minimo di cultura biblica, ma essendo
presentate bene incantano.
In un mondo così, in cui diventa sempre più difficile distinguere
la verità dall’inganno, noi abbiamo una guida sicura, ma dobbiamo
starci attaccati e non deviare mai, né a destra né a sinistra, altri-
menti verremo risucchiati nel mondo delle tenebre, in quel modo
di pensare, in quella mentalità del sospetto e del disprezzo, che è
tipica del maligno, che non sa riconoscere niente di bello e tutto
vorrebbe infangare. Chi è nelle tenebre fa sempre così: innanzitutto
cerca di sporcare ciò che è puro, di gettare a terra tutto ciò che sta
in alto. Così il primo segno che abbiamo deviato dalla luce è che
diventiamo allergici alle cose pure, alte e nobili e il secondo è che
siamo infastiditi dalla preghiera e dalla Parola di Dio, la predica-

16
zione o la catechesi ci disturbano, invece di compiacerci, perché le
tenebre temono la luce e i figli delle tenebre non vogliono venire
alla luce, perché non sia svelata la loro condizione, perché non si-
ano costretti ad ammettere con se stessi il loro vuoto esistenziale.
Ciascuno ha, in un certo modo, la sua misura di luce. C’è chi
è una candela, chi un faro, chi una stella. Il nostro tempo, è vero,
sembra un tempo di tenebre, ma in questo tempo Dio ha acceso
anche grandi luci di santità e mi piace ricordarne una che abbiamo
salutato solo un mese fa: Chiara Lubich, la fondatrice del movimen-
to dei Focolari. Senza alcun dubbio lei è stata uno dei più grandi
santi del XX secolo, una maestra di spiritualità per centinaia di mi-
gliaia di persone, impossibile calcolare quanti siano stati illuminati
dalla luce che emanava da questa donna. E poi ci siamo noi, piccole
candeline forse, ma non importa che tu sia candela o stella, perché
non bastano tutte le tenebre del mondo a spegnere una candela.
Ecco un’altra grande verità: le tenebre non sono mai più forti della
luce! E se pure tu sei una piccola candela avrai sempre la forza di
dire alla tenebra: «vattene via dalla mia vita ora!» e la tenebra se
ne andrà, perché se tu sei acceso nulla può spegnerti e se pure sei
una piccola luce, basterà sempre ad illuminare almeno il cerchio
della tua vita, della tua esistenza.

Una luce interiore

«Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro
che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1).
Allora dopo essersi separati dalle tenebre dobbiamo chiederci:
come possiamo essere luminosi? Che cosa ci farà risplendere? In-
nanzitutto, l’abbiamo detto, restare attaccati alla luce che ci guida,
che è la Parola di Dio nella Tradizione della Chiesa: dobbiamo berla
come si beve il latte materno. Chiamateci pure bigotti, tradizio-
nalisti, ma questa verità è la prima e più forte difesa che abbiamo
contro il maligno. San Girolamo dice che chi ignora le Scritture

17
ignora Cristo: se voi credete di conoscere Gesù e non conoscete
la Bibbia non è Gesù quello che conoscete, nel migliore dei casi è
una vostra proiezione, una vostra fantasia. E poiché ci portano a
Cristo, le Scritture vanno amate, come si ama una persona vivente,
perché sono vive, sono un pozzo senza fondo, come ogni persona
è un pozzo senza fondo di conoscenza e di esperienza. La Bibbia
va amata, dobbiamo avere con essa un rapporto amoroso, perché
è una persona vivente e attraverso di essa incontro la persona viva
di Gesù: nella Parola e solo nella Parola posso incontrarlo.
Però attenzione: la meditazione della Parola di Dio non è un
atto dell’intelligenza, non è «cercare di capirci qualcosa», come
se dovessimo interpretare un testo scritto in una qualche lingua
arcana, ma piuttosto è un’illuminazione che, a partire dal testo, ci
raggiunge dall’esterno. Se abbiamo pazienza di aspettare, se restia-
mo davanti a quella pagina, supplicandola quasi di svelarci il suo
mistero, invece di cercare di comprenderla con le nostre categorie,
a un certo punto all’improvviso quel testo ci parlerà e sarà come
se una luce si accendesse su quella pagina e sulla nostra vita, sulla
nostra intimità più profonda. Quello è il momento dell’incontro
con Cristo vivo, presente nella Scrittura.
Al tempo stesso la meditazione produce in noi un altro effetto:
ci fa entrare nelle stanze del Re, come le chiamava santa Teresa
d’Avila, che immaginava l’anima dell’uomo come un castello con
tante stanze. Immaginiamo di entrare nella nostra anima, come
se dovessimo fare un viaggio verso la profondità di noi stessi. Noi
trascorriamo la maggior parte del nostro tempo al piano-terra, il
livello più esterno, occupati come siamo nelle cose pratiche della
vita. Per lo più viviamo, per così dire, fuori dalla nostra anima.
Quando decidiamo di entrare in noi stessi dobbiamo innanzi-
tutto superare il primo piano, quello occupato dai ricordi, dagli
impegni della nostra agenda, dalle nostre aspettative o timori per
il futuro, dal rimpianto per le cose che non abbiamo fatto, eccetera.
Lì c’è ancora abbastanza luce, nel senso che so con che cosa ho a
che fare e riesco ad orientarmi tra le diverse cose, a dare un ordine

18
di priorità e un senso a ciò che trovo in me. Se continuo a scendere
allora mi trovo di fronte alle cose più profonde, alle mie virtù e ai
miei difetti, alle mie buone aspirazioni e alle cattive inclinazioni:
ho a che fare con il mio orgoglio e la mia vanità o anche con la mia
generosità e il mio amore. E ancora lì c’è un po’ di luce: non che
capisca benissimo cosa è il mio orgoglio o da dove viene l’amore
che sento né quale ne sia l’esatta natura, ma più o meno riesco ad
orientarmi.
Ancora più in fondo c’è un livello dove il buio è quasi completo:
è il livello delle motivazioni, delle decisioni profonde, lì dove tutto
ciò che abbiamo incontrato nei livelli superiori, di bene e di male,
ha le sue radici. E più sotto ancora, dove è buio completo, c’è il
livello dell’inconscio, ed è bene che rimanga nel buio: quello che
sta in questo livello non è fatto per essere portato alla luce, perché
probabilmente non saremmo capaci di accettarlo e di portarne il
peso, non sapremmo amare ciò che vedremmo se illuminassimo
questo livello. Ma se abbiamo il coraggio di attraversare questa te-
nebra e scendere ancora più in basso, nel punto più profondo della
nostra anima, troveremo una stanza di pura luce, la stanza del Re
appunto, che è il punto da cui tutto il nostro essere prende radice
e consistenza, tutto illuminato dal dono dell’essere e dalla bellezza
di Dio che si riflette in noi che ne siamo la creazione e l’immagine.
San Giovanni della Croce chiamava questa stanza «la punta
dell’anima». In quella stanza Gesù è sempre presente e costante-
mente loda il Padre, è il luogo in cui abita lo Spirito Santo, da cui,
dal centro del nostro essere, sale a Dio una preghiera incessante.
Se un uomo arriva a quella stanza profonda ed ascolta quella pre-
ghiera incessante salire dal centro della sua vita non è più lo stesso
uomo, è un’esperienza che lo cambia per sempre.
Nel Rinnovamento noi abbiamo un dono grande, che spesso
sottovalutiamo: il canto in lingue. Che cos’è il canto in lingue?
Cosa accade nell’anima di chi canta in lingue? È come se la voce
del Re dalle stanze più profonde risalisse fino alla superficie, come
se il canto incessante dello Spirito, che risuona nella stanza del Re,

19
illuminasse tutte le stanze dell’anima e risuonasse in tutti i livelli
della mia persona. Allora il mio inconscio, le mie motivazioni, le
mie scelte, le mie decisioni, fino alle mie azioni tutto è unificato e
riceve un’unica direzione in quel canto che sale da dentro.
Quindi conoscere Gesù significa entrare nelle stanze del Re e
questo richiede tempo. Se è vero che l’illuminazione iniziale è un
flash, un lampo di perfetta chiarezza, è anche vero che per diven-
tare luminosi dobbiamo abitare nella luce, dobbiamo abituarci a
frequentare spesso quelle stanze segrete e a passare del tempo in
dialogo con il Re. Per fare questo è necessario fermarsi. Le preghie-
re, i canti, la liturgia, le devozioni ci possono aiutare, ci possono
accompagnare fino alla soglia, ma poi devi entrare tu, non può
farlo un altro al posto tuo, è una scelta personale, intima, che apre
la porta a tutte le altre scelte che la luce chiede di fare.
Immaginate due eserciti schierati, uno di fronte all’altro. Tu
sei nel mezzo, non puoi non prendere posizione. Devi scegliere se
diventare un agente delle tenebre e partecipare al grande inganno
oppure stare dalla parte della luce e diventare una colonna di fuoco
che illumina il cammino. Badate, è una guerra, ma non contro le
persone; il vostro nemico non è il vostro vicino di casa o il vostro
collega di ufficio, anche se avesse fatto cose terribili: lui lo dovete
amare sempre, perché è un poveretto, ingannato anche lui. La
nostra battaglia non è contro creature di carne e sangue, è una
battaglia spirituale, contro esseri angelici. Decaduti, ma di natura
angelica. Ecco perché quella luce deve essere inflessibilmente ac-
cesa in noi, ecco perché non possiamo rimandare la scelta, ecco
perché dobbiamo abitare il più possibile le stanze del Re.
Io voglio essere luce nel Signore, voglio essere colonna di fuoco,
voglio essere lampada per tutte le persone che ho intorno, perché
non c’è carità più grande di questa: la Carità spirituale. Se pen-
siamo alla Carità di solito pensiamo alle opere di misericordia
corporale: dar da bere agli assetati, dar da mangiare agli affamati,
vestire gli ignudi eccetera. Ma accanto a queste la Chiesa ci ha sem-
pre insegnato anche le opere di misericordia spirituale, che sono

20
ancora più grandi e sono: 1) Consigliare i dubbiosi 2) Insegnare
agli ignoranti 3) Ammonire i peccatori 4) Consolare gli afflitti 5)
Perdonare le offese 6) Sopportare le persone moleste 7) Pregare
per i vivi e per i morti. Queste sono le opere della luce, ciò che
dobbiamo fare per essere luce per il mondo.
Il tempo si è fatto breve cari fratelli, l’esigenza del presente è
enorme, la pressione delle tenebre è fortissima, per questo non si
può più rimandare: ora è il momento della scelta, non lasciamo
passare questi giorni invano: abbandona le tenebre, entra nella
stanza del Re e diventa luce nel Signore, per illuminare il mondo
intero. Oggi sarà per te l’inizio di una nuova vita, oggi ti sveglierai,
tu che dormi, e Cristo ti illuminerà!
XXXII Convegno internazionale, Fiuggi 2008

21
2
Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo

«Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a


pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste
divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con
lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo,
che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni era-
no oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria
e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui,
Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre
capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva
quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con
la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì
una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”.
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni
non riferirono a nessuno ciò che avevano visto» (Lc 9,28-36).

La faccia dura
La vita di Gesù può facilmente essere distinta in due grandi
periodi e questo episodio della Trasfigurazione, specialmente nel
Vangelo di Luca, è un po’ la cerniera tra l’uno e l’altro. Il primo
periodo è quello della Galilea, dei grandi miracoli, delle folle
entusiaste, dei potenti segni carismatici; in quel periodo tutto è
facile, Gesù cammina sulle acque, guarisce i malati a decine, li-
bera gli ossessi, moltiplica pani e pesci… seguire Gesù in questo
momento è semplice, è come una cavalcata trionfale. Poi, dopo
la Trasfigurazione, accade qualcosa, Luca lo dice con una frase
molto espressiva: «Gesù fece la faccia dura verso Gerusalemme»

22
(Lc 9,51), che purtroppo nella nuova traduzione della CEI perde la
sua forza: «(Gesù) prese la ferma decisione di mettersi in cammino
verso Gerusalemme». Il senso è lo stesso, ma la forza espressiva
cambia completamente! Perché Gesù «fa la faccia dura» verso
Gerusalemme? Perché sa che a Gerusalemme andrà a morire, sa
perfettamente che sta iniziando una fase nuova, del tutto diversa,
della sua vita. Da questo momento i suoi discorsi cambiano: in
Galilea l’insegnamento di Gesù era tutto aperto, gioioso, ma dopo
la Trasfigurazione inizia a diventare esigente con i suoi, comincia
a chiedere conversione, cambiamento profondo della vita. È come
se dicesse a noi: non basta che lodate, pregate, cantate e ballate, è
la vita che deve cambiare!
E naturalmente di fronte a questo insegnamento esigente la
Chiesa che stava iniziando a nascere intorno a Gesù comincia a
perdere i pezzi; uno dopo l’altro i discepoli se ne vanno, finché
sotto la croce resteranno solo in due: Maria e Giovanni. Quando
Gesù vede tutto questo, quando vede che la gente non lo segue più,
quando cominciano i dissapori e i malumori all’interno della co-
munità dei discepoli, cosa pensate che abbia fatto? Si è forse voltato
indietro? È tornato a fare quello che faceva prima, in Galilea? È
tornato alla fase dei grandi segni carismatici e delle folle festanti?
No, certo che no, ha fatto la faccia dura verso Gerusalemme, con-
tinuando diritto per la sua strada.
Io credo che anche nella vita della Comunità Maria siamo in
questa medesima fase di transizione. È tempo di lasciare la Galilea,
i grandi prodigi, le folle esultanti e andare verso Gerusalemme,
verso la croce, verso la conversione e il cambiamento profondo del-
la vita. Certo, è bello seguire Gesù in Galilea, è bello stare con lui
quando moltiplica i pani, quando caccia gli indemoniati, quando
ci fa camminare sulle acque, ma se restiamo fermi a quel momento
in realtà lo stiamo tradendo, perché il Signore vuole andare avan-
ti, non vuole restare in Galilea, vuole andare a Gerusalemme a
morire. Se si fosse fermato in Galilea, se non avesse superato quel
momento, non sarebbe stato che uno dei tanti predicatori itineranti

23
che la storia ci ha fatto conoscere. Se non fosse morto e risorto a
Gerusalemme noi non saremmo stati salvati e saremmo ancora
tutti nei nostri peccati.
E allora la decisione sta a noi. Adesso. Vogliamo seguire il Si-
gnore fino in fondo? Vogliamo fare anche noi la faccia dura verso
Gerusalemme? Vorrei che sentissimo la drammaticità della de-
cisione che dobbiamo prendere. Non possiamo voltarci indietro.
Ogni tanto mi capita di sentire persone che ricordano «i bei tempi
d’oro» e fanno l’elenco di quelli che se ne sono andati. Anche i di-
scepoli di Gesù facevano lo stesso e Giovanni, che racconta la stessa
situazione con altre parole, così ci riporta la reazione del Signore:
«Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non
andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Volete andarvene
anche voi?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu
hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei
il Santo di Dio”» (Gv 6,66-69).

Capite? Li sfida, li guarda tutti in faccia, ad uno ad uno: se ne


stanno andando tutti, vuoi andartene anche tu? Il gioco si sta fa-
cendo duro, è vero, la proposta del Signore è sempre più radicale
ed esigente, è vero, la fatica per seguirlo è sempre maggiore, è vero,
e allora? Vuoi andartene anche tu? E Pietro, a nome di tutti: «Si-
gnore, da chi andremo?». Da chi andremo? Chi seguiremo? Se il
Signore vuole portare la Comunità su sentieri diversi, se non vuole
più stare in Galilea, se ci vuole guidare verso qualcosa di nuovo e
sconosciuto, come posso rifiutarmi di seguirlo, come posso dirgli:
«no, non mi va, non ci sto più»?
Solo tu, Signore, hai parole di vita eterna! Io non capisco, non
so quel che sta succedendo, non ho la minima idea di quel che tu
hai in mente per me o per questa comunità, ma una cosa so: tu hai
parole di vita eterna. E allora non me ne vado. Non capisco niente,
ma resto qui. Accetto tutto, sopporto tutto, ma resto qui, perché
se tu qui mi hai parlato, qui mi parlerai ancora. Questo può dirlo
solo uno che ha avuto la vita cambiata dalla parola di Gesù, uno

24
che quando si è sentito chiamare ha tremato fino alle lacrime,
uno che quando ha sentito la parola di Gesù, ha sentito la vita che
ricominciava a scorrergli nelle vene. Una vita che non era sempli-
cemente umana: una vita soprannaturale, divina, come divina era
quella Parola. Questo è l’effetto di una parola di vita eterna: mi fa
vivere una vita divina, mi fa sentire così vivo come non mi sono
mai sentito altrove. E da chi altri potrei andare?

Entrare nella nube


E allora, cari fratelli, anche noi se vogliamo seguire il Signore
fino a Gerusalemme prepariamoci a entrare nella nube, come ac-
cade a Pietro e ai suoi compagni in questo episodio. Questa nube
ha una funzione centrale nel racconto, ma prima di spiegarla voglio
fermarmi su un dettaglio, che può sembrare secondario: prima di
entrare nella nube i discepoli si addormentano. Si addormentano
come al Getsemani, mentre Gesù lottava con la tentazione. Perché
si addormentano? Cos’è questo sonno che impedisce di seguire il
Signore? È come una resistenza nella nostra stessa carne, un’opposi-
zione istintiva, uno spirito di autoconservazione. Di fronte alla cro-
ce è naturale aver paura, di fronte al Signore che ci invita a seguirlo
verso la morte come non temere? Però, d’altra parte, sappiamo che
Lui è il Signore, che solo Lui ha parole di vita eterna e allora non
possiamo dirgli di no. Non abbiamo il coraggio di seguirlo fino
in fondo né di voltargli le spalle e cosa facciamo allora? Ci addor-
mentiamo. È il sistema più comodo, così potremo dire a noi stessi:
ma io non ho detto di no al Signore… solo dormivo. Il Signore è
qui e ci chiede di entrare nella nube con Lui. Siamo pronti a farlo?
Che cos’è questa nube? Cosa c’è dentro? Nel libro dell’Esodo
la nube ha più significati. Innanzitutto è un segno della presenza
misteriosa di Dio: la nube è il mistero. E ci separa. Entrare nella
nube significa accettare di essere separati dal mondo. Chi entra
nella nube entra in un «territorio» sconosciuto, dove valgono regole
diverse. Dove il buon senso che ti ha sempre guidato vale fino ad

25
un certo punto. Dentro la nube è nebbia, entrarci dentro significa
entrare nell’incertezza, nella non-conoscenza. Non hai più punti
di riferimento chiari, devi accettare di non capire più nulla di te
stesso e della tua vita, della direzione che stai prendendo, perché
devi imparare a fidarti. Solo dopo che hai deciso veramente di se-
guirlo, solo dopo che ti sei messo decisamente in cammino la nube
si alza e si muta in una colonna di fuoco, che ti indica il percorso
in maniera chiara ed inconfondibile.
Pensate all’episodio della «tempesta sedata»: quando Gesù salva
Pietro non sta lì a consolarlo, ma lo rimprovera, «uomo di poca
fede» lo chiama, perché ha dubitato, perché ha avuto paura. Perché
non importa quanto siano alte le onde, non importa quanto sia
forte il vento: non ci sono tempeste che con Gesù non puoi affron-
tare. Così dentro la nube della non-conoscenza puoi stare sicuro,
non perché vedi chiaramente il cammino, non perché sei sicuro
di te stesso, ma perché sei con Gesù. Prima accetteremo di essere
condotti da Gesù verso Gerusalemme, di andare a morire con Lui,
prima usciremo dalla nube e comprenderemo di nuovo il senso
della nostra missione. E uscendo dalla nube finalmente sentiremo
la Parola che dice: «Questi è il mio Figlio, l’eletto».

Questi è il mio Figlio


I cardini della vita di Gesù, il Battesimo, la Trasfigurazione e la
Crocefissione, sono tutti segnati da questa frase, ogni volta ripe-
tuta, anche se con parole leggermente diverse. Era necessario che
Pietro e gli altri si sentissero ripetere questa frase perché dovevano
essere confermati nella fede, appunto perché stavano per mettersi
in cammino verso Gerusalemme. Quel Gesù di cui non capisci più
nulla, che sembra così diverso dal profeta gioioso che avevi iniziato
a seguire, a cui riusciva tutto facile, con il quale potevi fare tutto,
proprio quello è sempre il Figlio di Dio, è ancora Lui!
L’episodio della Trasfigurazione ci richiama quello del Batte-
simo al Giordano, i due brani sono molto legati, tanto che in un

26
certo senso si può dire che la Trasfigurazione è dal punto di vista
di Gesù come un secondo Battesimo. È una seconda manifesta-
zione del Padre in cui il Padre conferma al Figlio la sua missione
e gli rinnova, per così dire, il suo mandato. Per questo, io credo,
Mosè ed Elia conversano con Gesù, per dire anche a Lui, che
forse, umanamente, aveva un momento di scoraggiamento e di
dubbio, che tutto era già nella volontà del Padre, che la salita a
Gerusalemme e la passione del Messia fanno parte del suo disegno
d’amore, che questa rivelazione, questo percorso, è coerente con
tutta la storia biblica.
Ma, attenzione: la stessa cosa vale per noi! Quella parola, «questi
è il mio figlio, l’eletto» non è stata detta solo su Gesù. Quella parola
è stata detta su ciascuno di noi. Forse non ve ne siete accorti, ma
anche il giorno del vostro Battesimo si sono aperti i cieli, anche il
giorno del vostro Battesimo è sceso lo Spirito Santo, sebbene forse
non in forma di colomba, anche il giorno del vostro Battesimo il
Padre ha detto: «questi è mio figlio, l’eletto». Se entrerete nella nu-
be con Gesù sentirete di nuovo questa parola, la sentirete detta di
Gesù, ma la sentirete detta anche su di voi: «tu sei mio figlio, lo sei
dal giorno del Battesimo, perché ti amo da sempre, da prima che
tu esistessi». Ed è nella nube che viene detta questa parola perché
è nella nube che abbiamo bisogno di sentirla, nel momento del
dubbio, dell’incertezza, della non-conoscenza. È allora che abbia-
mo bisogno di sentirci ricordare che siamo figli e figli diletti, cioè
amati. Allora tutti i dubbi e le incertezze, le ansie e le preoccupa-
zioni vengono spazzati via da questa Parola.
Cari fratelli, io so che molti vengono qui pieni di dubbi su di sé
e la propria vita, in cerca di conferme. Qualcuno forse addirittura
pensa che la sua vita non abbia valore, che non abbia alcun senso,
qualcuno si sente così povero di valore e bellezza che pensa che la
sua vita non valga la pena di essere vissuta e qualcuno magari si
sente una radice storta, pensa di essere così cattivo da non poter
più cambiare, così duro di cuore da non meritare niente… A tutti
noi il Signore dice: «Tu sei mio figlio»! Non importa cosa hai fatto

27
fino a ieri, non importa come sei arrivato qui, non importa quello
che hai o che non hai. Ora sei qui e stai ascoltando, e questa parola
ha il potere di cambiare la tua vita.
Però devo avvertirvi di una cosa importante: è nella nube che
sentirete questa parola, non altrove. Quindi entrate nella nube con
coraggio e non cercate di uscirne prima di aver sentito la voce del
Padre. Fuori dalla nube probabilmente vi sentirete un po’ con-
solati, sentirete un certo sollievo, ma sarebbe solo un cosmetico
sulle vostre ferite, non una vera guarigione, perché una guarigione
dell’anima deve partire dal profondo, deve scuotervi fino alle ra-
dici. Bisogna accettare di restare nel dubbio e nell’angoscia, non
volerne fuggire anzitempo. Restare fermi e fedeli, senza paura,
senza accettare compromessi né soluzioni facili, in attesa che Dio
ci parli, sapendo che è lì che parlerà. Fuori da quell’angoscia e quel
dubbio non sentirete mai la conferma del Padre: «Tu sei mio figlio».

L’eletto
E non solo dice «tu sei mio figlio», ma aggiunge «l’eletto», cioè
il prescelto. Non è un’aggiunta da poco. Che Gesù sia il prescelto
da Dio ça va sans dire, è scontato, è facile da accettare, ma che io
sia l’eletto non è altrettanto evidente. È proprio vero che Dio mi
ha scelto? Sì, tu sei l’eletto, sei il prescelto, il tuo numero è stato
estratto. Non per un merito speciale: altri non sono stati scelti
e sono ancora nelle tenebre, ma Dio ha scelto te, ti ha scelto e
chiamato. Perché? Perché proprio te? Siamo dei privilegiati, non
possiamo negarlo, eppure abbiamo paura di accettarlo, abbiamo
paura di sentirci i prescelti, perché questo ci mette addosso una
responsabilità, il Signore infatti non ci ha chiamato per far felici
noi, noi non siamo stati scelti per noi stessi, ma per il mondo. Nel
libro dell’Esodo leggiamo:
«Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi
sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti

28
è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione
santa» (Es 19,5-6).

Questo è il nostro privilegio: essere una nazione di sacerdoti, un


popolo di sacerdoti, ma cosa vuol dire «sacerdote»? Il sacerdote è
un mediatore, uno che costruisce ponti, ponti tra l’uomo e Dio.
Non per nulla la parola pontifex, pontefice in Latino, significa
appunto costruttore di ponti. Dunque è per questo che siamo chia-
mati e prescelti, per costruire ponti, per essere noi stessi un ponte
tra il mondo di Dio e quello dell’uomo. Per essere un buon ponte
servono due cose: innanzitutto un solido aggancio su entrambe le
sponde che dobbiamo unire: per essere un buon ponte tra Dio e
l’uomo dobbiamo essere fortemente radicati in Dio ed altrettanto
fortemente nell’umanità, e poi bisogna essere disponibili a lasciarsi
calpestare: i ponti sono fatti per essere calpestati, attraversati. Nes-
suno vuole vivere su un ponte: la gente non deve fermarsi a noi,
deve attraversarci, per così dire, per giungere a Dio.
Dunque in realtà il nostro privilegio non è certo un privilegio:
siamo stati scelti per il servizio, per essere calpestati, per andare a
morire a Gerusalemme, per andare in cammino verso Gerusalem-
me con il Figlio. Nel prologo del suo Vangelo Giovanni scrive: «a
quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio»
(Gv 1,12). Questo è il potere dei cristiani: il potere di essere figli di
Dio, cioè di essere come Gesù, di essere calpestati, ma costruire
ponti, di morire a Gerusalemme e con questa morte salvare il mon-
do. Il potere di servire in tutto e per tutto il Padre, come uomini e
donne che liberamente scelgono di dedicare tutta la vita e le energie
a questo progetto di salvezza.
Questo significa fare la faccia dura, questo è il contenuto del
nostro Sì al Signore. È faticoso? Sì, tanto. Vedremo dei risultati, dei
frutti? Non è detto. Ma una cosa ve la posso promettere: sarete con
Gesù. E non c’è cosa più bella di questa. Molto meglio, infinita-
mente meglio, essere con Gesù sulla croce piuttosto che a far festa
da qualunque altra parte. Molto meglio, infinitamente meglio,

29
essere con Gesù sulla croce che continuare a dormire, indecisi se
seguirlo o no. Molto meglio, infinitamente meglio essere con Gesù
sulla croce, perché lì c’è Gesù, semplicemente. E se lo amiamo, se
veramente non abbiamo altri da cui andare, se veramente solo da
Lui abbiamo ascoltato le parole che ci fanno vivere, allora è lì che
vorremo stare: con Gesù abbandonato (permettetemi di rubare le
parole a Chiara Lubich), nel cuore di Gesù abbandonato, perché
non c’è posto più bello, anche se all’apparenza è il più disprezzabile,
perché è lì che incontreremo lo Sposo.
Cari fratelli, io non so cosa ci aspetta nel futuro, non so quali
sono i disegni di Dio su questa Comunità, sono nella nube come
voi, però so una cosa: so che voglio stare con Gesù, dovunque Lui
mi porti, in qualunque Gerusalemme, su qualunque croce. Voglio
stare con Lui perché lo amo. Non c’è altra ragione per seguirlo
che questa: voglio stare con Lui perché lo amo, perché Lui è Gesù.
XXXIII Convegno nazionale, Fiuggi 2009

30
3
Concepirai… Partorirai

Maria genera Cristo in noi

«L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia


presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai
Gesù”» (Lc 1,30-31).
In questo incontro il Signore ci ha dato una parola di grande
speranza: «concepirai». Molti tra noi si sentono assaliti da uno
spirito di sfiducia e stanchezza, sento in molti cuori una specie di
amarezza, come uno scoraggiamento. Eppure a noi, proprio a noi,
il Signore dice «concepirai». È l’annuncio di un futuro, la promessa
di una speranza: non sei sterile, non sei al capolinea, la tua storia
non è finita: concepirai!
E forse, come Maria, anche noi abbiamo detto al Signore «come
è possibile?». Come possiamo essere fecondi se siamo così pochi e
divisi, se le nostre preghiere sembrano funerali? Attenzione, fra-
telli miei, perché Maria non è feconda per natura, ma per Grazia;
quindi la nostra fecondità viene dalla potenza dello Spirito Santo,
non dalle nostre capacità. Questa Comunità è feconda perché è il
Signore che la rende feconda! È il Signore che renderà feconde le
mie parole, è Lui che renderà efficace, e quindi carismatica, la mia
preghiera, è Lui che darà forza alle braccia stanche e solleverà le
ginocchia cadenti!
Perché? Perché lo ha promesso, e quello che il Signore promette
lo fa! Le ragioni della nostra speranza non dipendono dal fatto
che le cose vanno meglio, ma dalla promessa di Dio. La speranza

31
cristiana non è lo sciocco ottimismo di chi dice «vedrai che andrà
meglio», ma la ragionevolissima certezza che Dio è fedele e governa
la storia. Quando in famiglia arriva un bambino tutto si rinnova
non è vero? L’arrivo di un figlio cambia tutto, specialmente se im-
previsto. È la sorpresa, il dono che restituisce energia e vigore, che
ci invita a gettarci alle spalle stanchezza e dissapori e ad andare
sicuri, a testa alta, incontro al domani, verso il futuro che il Signore
sta costruendo.
C’è poi un altro aspetto da sottolineare: Maria genera Cristo in
noi. Maria è madre di Dio non solo nel senso che ha generato Gesù
una volta per tutte, ma anche nel senso che lo genera continuamen-
te in noi. Lo diceva Paolo VI in una enciclica bellissima, la Marialis
Cultus: «nessuno può dirsi cristiano se non è anche mariano».
Mi vengono in mente le parole di Dante, tratte dall’ultimo
canto del Paradiso, in cui mette in bocca a san Bernardo questa
bellissima lode: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual
vuol grazia e a te non ricorre/ sua disїanza vuol volar sanz’ali»
(Signora, sei tanto grande e hai tanto potere che chiunque desidera
la Grazia e non ricorre a te è come chi vuol volare senza avere le
ali). Chi vuole la Grazia… Ma cos’è la Grazia? È lo Spirito Santo!
Chi vuole lo Spirito Santo senza passare attraverso la preghiera di
Maria vuole volare senza ali! Noi non possiamo ricevere lo Spirito
Santo senza la mediazione di Maria, senza la sua preghiera, senza
la sua intercessione.
C’è un’antica giaculatoria medioevale che a me piace molto e
che ripeto spesso: Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam (Vieni
Spirito Santo, vieni mediante Maria, per le mani di Maria). È una
preghiera particolare, perché noi siamo abituati a chiedere il dono
dello Spirito Santo al Padre, ed è giusto naturalmente, perché lo
Spirito procede dal Padre e dal Figlio, ma in verità è altrettanto
giusto chiederlo a Maria, perché sempre, anche quando non lo
chiediamo direttamente a lei, è grazie alla sua intercessione che lo
riceviamo. O non è forse vero che gli stessi apostoli hanno ricevuto
lo Spirito a Pentecoste per l’intercessione di Maria?

32
Ce lo rivela Luca negli Atti degli Apostoli, quando subito prima
di narrare la Pentecoste osserva che i Dodici erano «assidui nella
preghiera con Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Perché Maria
ha un ruolo speciale? Perché lei la Pentecoste l’aveva già vissuta,
aveva già ricevuto lo Spirito Santo e quando? Proprio nel momento
dell’Annunciazione a cui fa riferimento la nostra profezia! Così
quando gli apostoli ricevono lo Spirito è perché lei ha pregato per
loro, in un certo modo è stata la prima preghiera di effusione, ca-
pite? Ed ogni volta che noi facciamo una preghiera di effusione su
qualcuno Maria è accanto a noi a pregare a chiedere ancora una
volta lo stesso dono. Dunque anche noi siamo questi figli concepiti
e partoriti da Maria!
Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam, ripetiamola questa giacu-
latoria, lasciamola entrare dentro di noi perché è la quintessenza
della nostra spiritualità, la miglior definizione di cosa è Comunità
Maria; è questo che ci caratterizza, lo specifico che ci rende unici
in mezzo a migliaia di comunità carismatiche in tutto il mondo. E
dobbiamo vantarcene! Non perché sia merito nostro, ovviamente
è un dono che abbiamo ricevuto senza nemmeno capire bene la
sua grandezza, ma dobbiamo esserne orgogliosi, perché è la nostra
identità, la nostra natura.

Noi generiamo Cristo nel mondo


Se poi siamo generati da Maria, se abbiamo ricevuto dalle sue
mani lo Spirito Santo, allora siamo chiamati a nostra volta a ge-
nerare, siamo chiamati a diventare noi stessi Madre di Gesù. Non
è una esagerazione, sono parole dello stesso Gesù: «Chi ascolta la
Parola di Dio e la mette in pratica è mia madre» (Lc 8,21). Tutti voi
che ascoltate la parola di Gesù, tutti voi che la mettete in pratica,
siete Madre di Gesù, perché lo generate negli altri! Siete madre di
Gesù perché lo fate nascere nella vostra situazione concreta, nei fra-
telli che incontrate, nell’ambiente in cui vivete. Questo è un punto
sostanziale della nostra spiritualità: voi sapete che noi portiamo

33
il nome di Comunità Maria e che questo nome significa non «la
comunità di Maria», ma «la comunità che è Maria». Il nostro cari-
sma è essere Maria, ed essere Maria significa innanzitutto questo:
essere Madre, il nostro è un carisma di maternità.
Mi viene in mente un grande amico, san Francesco, che racco-
mandava ai suoi frati di avere l’uno per l’altro una sollecitudine
materna, di guardarsi con la tenerezza e la premura di una madre.
Voglio raccontarvi un episodio tratto dai «Fioretti» che illustra
bene questa tenerezza materna. Tommaso da Celano racconta che
i frati erano impegnati in un digiuno, quando uno di loro, durante
la notte, ebbe una crisi improvvisa, incominciando addirittura a
gridare per la fame.
Voi cosa avreste fatto? Cosa avrei fatto io? Sicuramente avremmo
dato a questo fratello il permesso di mangiare, perché la Carità
conta più della devozione. Ma Francesco invece fa qualcosa di
diverso, riuscite ad immaginarlo? Sveglia tutti i frati e li costringe
a mangiare nel cuore della notte. Capite la ragione? Perché non
voleva che quell’unico che non ce l’aveva fatta si sentisse da meno
degli altri, non voleva che si sentisse umiliato dalla sua debolezza.
Questo è lo sguardo di tenerezza di una madre! La capacità cioè di
prendersi veramente cura di una persona, integralmente, in tutti
i suoi aspetti, con quella delicatezza, quella premura che sa amare
senza umiliare.
Questa tenerezza è quella che il Signore domanda a noi, tutto
questo è vivere nel Carisma della Comunità Maria, è essere come
Maria, che ha la sollecitudine e la premura necessaria perfino a
provocare Gesù, quasi a sfidarlo, ricordandogli che gli amici «non
hanno più vino» (cf Gv 2,1-5).
Maternità nello Spirito significa allora generare alla fede, at-
traverso la preghiera di intercessione, la preghiera che invoca lo
Spirito Santo sulle persone che incontriamo, e significa anche
generare l’umano, generare la vita attraverso un amore integra-
le, che sappia accogliere senza umiliare, donare senza imporsi,
farsi presente senza opprimere, sapendo prendersi cura di tutti i

34
bisogni, da quelli più interiori a quelli più semplici, che nascono
dalla vita comune.
Siate madri delle persone a voi affidate, così sarete pastori della
Comunità Maria, siate Maria!
Incontro dei Pastorali, Frascati 2005

35
4
Fino ai confini della terra

Jubilate Deo omnis terra, tutta la terra dia lode al Signore, così
abbiamo cantato dopo aver letto il Vangelo. Ma come potrà tutta
la terra dar lode se noi che siamo quelli che hanno ricevuto il dono
della lode non la portiamo in tutto il mondo? Dunque il Signore
ci dà questo compito. Spesso il nostro convegno si conclude con le
parole del Vangelo di Marco, che avete appena ascoltato:
«“Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà
condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli
che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue
nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno,
non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guari-
ranno”. (…) Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre
il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni
che la accompagnavano» (Mc 16,15-20).
In parte è una coincidenza, che dipende dal fatto che normal-
mente il nostro convegno si conclude il 25 Aprile, giorno di san
Marco, in parte naturalmente è una scelta voluta, perché non è per
caso che facciamo il convegno in questi giorni, tanto che questo
passo del Vangelo è diventato una sorta di «profezia fondativa»
per la Comunità.
Questo certamente significa che il Signore ci dà un mandato;
ogni anno ci dice «Andate e portate il Vangelo a tutte le genti»
e così ci rinnova la fiducia, per così dire, chiamandoci di nuovo
alla missione. Per questo ascoltando queste parole giustamente ci

36
emozioniamo, perché sperimentiamo che nonostante tutto Dio
crede in noi, ha ancora fiducia in noi. Non ce lo meritiamo, siamo
quei poveretti che siamo, però ogni anno il Signore ci ripete «ho
fiducia in te, ho così tanta fiducia in te che ti mando, ti affido il
mio popolo, metto nelle tue mani il mio messaggio per il mondo
intero».

Vivere in Babilonia
Nella prima lettura abbiamo ascoltato la conclusione della prima
lettera di Pietro, dove Pietro saluta con una frase molto bella: «Vi
saluta la comunità eletta che dimora in Babilonia» (1Pt 5,13). Che
comunità è questa? Nel contesto evidentemente è la Chiesa di Ro-
ma, perché nel linguaggio dei primi cristiani Babilonia è Roma, ma
non è anche ogni comunità cristiana? Non siamo anche noi oggi?
Non è Babilonia il mondo in cui viviamo, con cui ci troviamo ad
avere a che fare ogni giorno? Non ci sentiamo fuori posto, come se
fossimo stranieri in esilio, in questo mondo in cui il nostro cuore
non trova casa, in cui la nostra mente non trova riposo perché dob-
biamo sempre lottare per poter essere noi stessi e vivere il Vangelo,
perché tutto e tutti vorrebbero portarci a vivere diversamente?
Che paradosso! Noi vorremmo la felicità degli uomini e gli uo-
mini invece scelgono deliberatamente, a volte perfino consapevol-
mente, di essere tristi; noi vorremmo per loro il bene e loro scelgo-
no il male, che ovviamente li fa vivere male. È un paradosso, ma è la
realtà della Chiesa che vive in Babilonia. Dobbiamo prenderne atto,
fratelli: essere cristiani significa far parte di una minoranza, ma
meglio così vi dico! Meglio essere un piccolo gregge, compatto ed
unito, che una grande massa senza alcuna identità. Meglio ripar-
tire da questo nucleo forte, sicuro di sé e consapevole della propria
identità, che illudersi di essere tanti, finendo inevitabilmente con
l’annacquare il Vangelo. Bisogna partire da questa certezza: a noi,
a noi che viviamo in Babilonia, pochi, dispersi, perfino malati, a
noi il Signore dice: «Vai ad evangelizzare la terra».

37
Concepire e partorire

Tutto il nostro convegno ha girato intorno a due parole: «Con-


cepirai» e «Darai alla luce», letteralmente «partorirai», téxe in
Greco, perché il concepire se non giunge al partorire resta un mo-
vimento tronco: ciò che è concepito, se non è partorito, non incide
sulla realtà, non ha la forza di cambiare la storia, di trasformare il
mondo. In altri termini, il Vangelo finché non diventa carne resta
un’astrazione, una bella idea, ma non compie la sua corsa, non
raggiunge il bersaglio.
Potremmo avere nel cuore le cose più belle, sentire slanci mistici
profondissimi, ma se non cambia la vita non abbiamo ancora fatto
niente. Non basta l’emozione di un momento, per quanto grande e
bella, se non genera conversione. E allora è arrivato il momento di
prendere una decisione ferma: io voglio essere un segno per questa
Babilonia in cui vivo, un segno visibile, manifesto. E per esserlo in
modo autentico devo essere partorito, non basta che sia stato con-
cepito. Dunque voglio entrare nel mondo, nella storia, nella realtà
di questa Babilonia in cui vivo, e cambiarla, trasformarla. Allora
saremo quei missionari che rispondono al mandato di Gesù, quelli
che andando nel mondo sperimentano la potenza dello Spirito,
quella frase meravigliosa con cui Marco chiude il suo Vangelo: «La
Parola di Dio li accompagnava con prodigi».
Sì, fratelli miei, la Parola di Dio è potente, la Parola di Dio ope-
ra, fa esistere ciò che annuncia. È bello il sole non è vero? Ma il
sole con tutto il suo splendore e la sua potenza esiste perché Dio
ha detto «Sia la luce», è la forza della Sua Parola che lo ha fatto
esistere. Tutto quello che esiste qui: il cemento di questi muri, le
sedie su cui siete seduti, gli alberi del parco, tutto esiste perché
Dio ha detto queste cose, una per una. È letteralmente la Parola di
Dio che fa esistere ogni cosa. E questa stessa Parola che ha creato
il mondo continua ad operare anche oggi, Dio non dorme mai. E
quelli che hanno il coraggio di metterla alla prova sperimentano
la sua potenza, vedono compiersi miracoli, quegli stessi miracoli

38
che il Vangelo di Marco annuncia, quei miracoli che costellano la
storia della nostra Comunità.
Ci conceda dunque il Signore non solo di essere concepiti in Ma-
ria, ma partoriti, perché possiamo partorire a nostra volta, perché
al nostro «eccomi» segua un effettivo esserci, perché al nostro dire
sì segua un mettersi in cammino. Non si può dire Eccomi e poi
restar seduti. Non voglio solo concepire, voglio partorire e voglio
che colui che partorisco sia Gesù, sia cioè Parola di Dio. Voglio
partorire Parola di Dio, dare carne alla Parola di Dio.
Quante parole vuote e inutili diciamo! Quante parole cattive, di
chiusura, di giudizio! Queste non sono parole di Dio, non posso-
no esserlo, la Parola di Dio produce amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé; è quando
dico queste cose che sto dicendo la Parola di Dio, ed allora vedrò
compiersi i prodigi annunciati da Marco. La parola poi deve essere
partorita, cioè detta, deve arrivare sulle labbra, non può rimanere
nella mente o nel cuore, non è la stessa cosa. Cioè la nostra fede
deve diventare esplicita, deve passare all’azione, al gesto, alla testi-
monianza. Non esiste una cosa come un cristiano anonimo!

Ad ogni creatura
Voglio farvi riflettere su un’altra cosa: Gesù dice che dobbiamo
portare il Vangelo fino ai confini della terra. Cosa vuol dire «fino
ai confini della terra»? Non è solo una indicazione geografica, vuol
dire che non c’è una situazione umana in cui io non possa dire la
Parola di Dio! Tante volte noi pensiamo di trovarci in un contesto
in cui è difficile annunciare: in certi uffici, in certi ambienti il
Vangelo suona fuori luogo, imbarazzante quasi. Eppure non siamo
esentati dall’evangelizzare: andate e portate la mia Parola fino ai
confini della terra cioè ovunque!
Certo, a volte la Parola di Dio va portata con astuzia, non è
sempre necessario né opportuno fare le crociate, a volte sì, ma altre
volte si ottiene il risultato contrario inasprendo le persone nel loro

39
rifiuto. Il Signore ci darà il discernimento per capire qual è il modo
giusto per annunciarlo volta per volta, ma un conto è cercare di
capire qual è la strategia migliore per dire la Parola e un conto è
non dirla affatto, restare zitti e ben nascosti per paura, o peggio
per un malinteso senso di dialogo. Il dialogo per essere autentico
presuppone che i due dialoganti abbiano un’identità chiara.
«Fino ai confini della terra» significa anche che noi, tutti noi,
dobbiamo avere una vera passione per i cosiddetti lontani. Ci deve
essere in noi un vero desiderio di andare incontro a quelle persone
a cui il Signore non ha ancora parlato. Più sono lontani dal Vangelo
e più li dovremmo amare, cercare, desiderare. Vi confido che mi
fa proprio male quando sento dire di qualcuno: «quello là è un
diavolo, meglio stare alla larga», mi fa male perché penso sempre:
ma come si convertirà, come si salverà se tutti i cristiani fuggono
da lui?
Dobbiamo chiederla a Dio questa passione, che sia più forte del
timore, per andare verso i peggiori, verso quelli che hanno colpe
più grandi, crimini più orrendi, a loro dobbiamo portare il Van-
gelo, a chi altri sennò? Volete convertire i già convertiti? Il Signore
ha voluto la Comunità Maria come una testa di ariete, il nostro
compito non è fare catechesi, noi siamo una forza di sfondamento,
dobbiamo andare dove nessuno va, parlare a quelli a cui nessuno
parla. Perché il Signore liberi questa Babilonia in mezzo a cui vivia-
mo, che noi non odiamo, anzi amiamo dal più profondo del cuore.
Loro forse ci odiano, ma noi li amiamo, forse ci disprezzano, ma
noi invece crediamo in loro, nella loro possibilità di cambiare, di
mettere al servizio del Regno il loro talento.
Un anonimo autore cristiano del II secolo dice che i Cristiani
sono nel mondo come l’anima è nel corpo. Il corpo odia l’anima,
che non gli permette di fare ciò che vuole, ma l’anima ama il corpo
e vuole servirlo. Così noi non odiamo il mondo, ma al contrario
vogliamo servirlo perché ciò che cerchiamo è in verità il suo bene,
vogliamo condurlo verso la gioia e la pace, verso quella pace che è
Gesù. Chi più di Gesù ama il mondo, lui che è morto per salvar-

40
lo? Ecco allora il nostro mandato: concepire e partorire uomini
e donne che abbiano questa passione nel cuore, per essere veri
annunciatori del Vangelo.
Omelia di chiusura del XXIX Convegno internazionale,
Chianciano 2005

41
5
La fede dell’animatore

Quando abbiamo ricevuto la «profezia» di questo corso anima-


tori, il brano biblico che ci aveva colpito era tratto dalla lettera agli
Ebrei, capitolo 11, versetti 24-29. Dunque non è di una fede generica
che stiamo parlando, ma della fede di Mosè, perché Mosè è il pro-
totipo di ogni guida o pastore, di tutti quelli che nel Popolo di Dio
hanno autorità e quindi anche di noi animatori della Comunità
Maria. Un conto è la fede di Abramo, e in quanto genericamente
credenti ne abbiamo bisogno, un conto è la fede di Pietro o Maria
e non possiamo dirci cristiani senza averla, ma in quanto pastori
e animatori è alla fede di Mosè che dobbiamo ispirarci.
Cerchiamo quindi di vederla da vicino questa fede, di conoscerla
nei dettagli, attraverso la storia e la vita di Mosè. E partiamo non
dal libro dell’Esodo, ma dagli Atti degli Apostoli, dove il diacono
Stefano ci offre una interpretazione, che in ebraico si chiama mi-
drash, della storia che tutti conosciamo, aiutandoci a leggerla in
modo nuovo:
«In quel tempo nacque Mosè, ed era molto bello. Fu allevato per tre
mesi nella casa paterna, quando fu abbandonato lo raccolse la figlia
del faraone e lo allevò come suo figlio. Così Mosè venne educato in
tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente in parole e in opere»
(At 7,20-22).

Mosè il liberatore
Mosè viene salvato dalla figlia del faraone, il suo stesso nome
significa «salvato», all’inizio della sua vita c’è un atto di miseri-

42
cordia. Lui se ne dimenticherà a lungo, ma in realtà tutta la sua
storia è una storia di misericordia e se perdessimo questa traccia
non capiremmo nulla di Lui. Salvato dalla figlia del faraone, Mosè
viene educato alla maniera egiziana, come un principe, ed era «po-
tente in parole ed opere», aveva cioè assorbito il meglio di quella
cultura. A quel tempo l’impero egiziano era all’apice del suo potere
politico, culturale e religioso, era la vetta del mondo e Mosè era
seduto in cima a quella vetta, come un principe, possibile futuro
faraone egli stesso.
Poi improvvisamente in questo quadro di potenza e splendore
qualcosa si spezza. All’età di quarant’anni Mosè attraversa una
crisi profonda, quello che oggi chiameremmo uno shock culturale.
L’età di quarant’anni non è casuale, nella vita di un uomo rappre-
senta sempre uno spartiacque, è il momento in cui cominciare a
portar frutto, è l’età della maturità. Mosè arriva alla maturità come
egiziano, è un perfetto egiziano, e in quel momento, in un lampo,
capisce che l’Egitto, con tutto il suo potere e la sua sapienza, non
gli basta.

«Quando compì quarant’anni, gli venne il desiderio di fare visita ai


suoi fratelli, i figli d’Israele. Vedendone uno che veniva maltrattato, ne
prese le difese e vendicò l’oppresso, uccidendo l’Egiziano. Egli pensava
che i suoi fratelli avrebbero compreso che Dio dava loro salvezza per
mezzo suo, ma essi non compresero. Il giorno dopo egli si presentò
in mezzo a loro mentre stavano litigando e cercava di rappacificarli.
Disse: “Uomini, siete fratelli! Perché vi maltrattate l’un l’altro?”. Ma
quello che maltrattava il vicino lo respinse, dicendo: “Chi ti ha co-
stituito capo e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi, come ieri
hai ucciso l’Egiziano?”. A queste parole Mosè fuggì e andò a vivere
da straniero nella terra di Madian, dove ebbe due figli» (At 7,23-29).

Mosè viene preso dal desiderio di conoscere i suoi fratelli, è un


desiderio molto comune negli orfani adottati: vuole sapere da dove
viene, qual è la sua origine. Forse è perché questo mondo ha paura
che sorga qualche nuovo Mosè che fa di tutto per farci dimenticare

43
da dove veniamo? Certamente nessun albero può salire molto in
alto se le sue radici non affondano in profondità: se non siamo pro-
fondamente consapevoli della nostra origine e della nostra identità
non potremo guidare nessuno. Gesù ha questa consapevolezza di
sé come figlio saldamente piantata al centro della sua coscienza,
tutta la sua forza viene da qui, dalla consapevolezza di provenire
dal Padre (cf Gv 13,3). Anche noi quindi dobbiamo sempre ricor-
dare di Chi siamo figli e tornare alla casa paterna, da Dio nostro
Padre e dai nostri fratelli, ricordando la radice che ci ha generati.
Mentre visita i suoi fratelli Mosè vede un sopruso. Già sapeva
che gli egiziani tenevano in schiavitù gli Ebrei, non era un segre-
to, e probabilmente aveva già visto un ebreo maltrattato prima di
allora, ma stavolta, dopo che ha preso consapevolezza della sua
radice, qualcosa in lui si ribella. In un istante capisce che tutto lo
splendore, la ricchezza e la cultura in cui era stato educato sono
fondati sulla schiavitù e sull’oppressione e capisce che non può più
sopportare tutto questo. La sua reazione è violenta e istintiva ed
uccide lo schiavista.
Posso immaginare il tumulto con cui vive quella notte, ritornato
nella sua casa, la casa del faraone, a cui ormai è estraneo. Cosa fare
adesso? Lui, un principe tra gli Egiziani, ha compreso di non poter
più essere egiziano, ha voltato le spalle a quella cultura di potere e
violenza mascherata in cui era stato educato e si è schierato dalla
parte dei poveri, dei deboli, degli oppressi. Ma, concretamente, che
fare? Probabilmente avrà pensato di mettere i suoi talenti a servi-
zio del popolo a cui ha scoperto di appartenere. Ha le competenze
necessarie, è giovane, giustamente ambizioso e decide di mettersi
alla guida di un movimento rivoluzionario: sarà lui a condurre
Israele fuori dall’Egitto: nasce in quella notte Mosè il liberatore.

Il fallimento e la crisi
Qualcosa però va storto. Nel suo midrash Stefano sottolinea il ri-
fiuto del popolo: «essi non compresero», ma in realtà questo rifiuto

44
è normale, va sempre messo in conto. Ogni animatore e ogni pa-
store sa che il popolo non si lascia facilmente condurre, raramente
la gente che il Signore ci affida da guidare è docile. Così il sogno di
Mosè, la sua speranza e il suo progetto si scontrano con la realtà.
Egli pensava di essere uno strumento di Dio, e non si sbagliava, ma
prima che Dio potesse servirsi di lui la sua umanità doveva essere
spezzata, doveva passare attraverso il fallimento.
La domanda di quelli che lo rifiutano è significativa: con quale
autorità pretendi di liberarci? Ogni animatore, ogni pastore deve
saper rispondere a questa domanda con serenità. Con quale auto-
rità fai tutto questo? È Dio che servi o non piuttosto te stesso? E la
risposta a questa domanda fa tutta la differenza, perché in realtà
Mosè anche se non può più appartenere al popolo degli Egiziani,
anche se ne ha rifiutato la cultura schiavista e violenta, ne è però
ancora imbevuto. Se si mettesse ora alla guida del popolo sostitui-
rebbe un’oppressione con un’altra. Per questo gli chiedono «vuoi
forse uccidere me, come hai ucciso l’Egiziano?»
Messo di fronte a questa domanda Mosè non sa rispondere.
Capisce che il suo progetto di liberazione era velleitario, alla fine
dei conti forse basato più sulla vanità che sulla misericordia: più
che avere a cuore la libertà del popolo è la sua propria immagine
di liberatore che persegue, e quindi fa una cosa umanissima, fug-
ge nel deserto. Come lo capisco, povero Mosè! Quante volte ho
vissuto anche io questa situazione! È l’esperienza così umana del
fallimento: ho scommesso tutto, mi sono tagliato i ponti alle spalle
e ho perso! Povero Mosè, alla vita di prima non può tornare, non
perché ha ucciso un uomo, cosa vuoi che sia per il figlio del farao-
ne, ma perché gli ripugna. A quella vita, a quel sistema, ha ormai
voltato le spalle! Non può tornare indietro, ma non può neppure
andare avanti perché gli Ebrei non ne riconoscono l’autorità, non
lo accettano come leader… Che fare allora? Fuggire nel deserto
sembra la sola via praticabile.
E nel deserto Mosè passa altri quarant’anni, acquista una nuo-
va maturità. In questo tempo deve fare i conti con se stesso e con

45
il suo fallimento come leader, come animatore e pastore. Deve
metabolizzare il rifiuto e capire perché ha fallito. È un passaggio
molto importante e delicato. Lo immagino facilmente perché l’ho
vissuto anche io tante volte: all’inizio sarà stato lì a mugugnare:
è colpa di questo o di quell’altro, è colpa degli Ebrei perché non
hanno avuto il coraggio di seguirmi, è colpa degli egiziani perché
opprimevano gli ebrei, è colpa della guardia, è colpa del faraone,
è colpa della donna che mi ha tirato fuori dalle acque, è colpa di
mia madre che mi ha abbandonato, è colpa di tutti tranne che mia,
perché all’inizio il fallimento non si accetta mai, perché nessuno
si trova a suo agio nell’affrontare questa realtà.
Lentamente nel deserto si ricostruisce una vita, lontanissima
dai sogni di gloria del passato. Sposa una pastora, Zippora, e ha
perfino dei figli da lei, si stabilisce in un nuovo clan, come se nel
deserto trovasse un terzo popolo. Addio Mosè, principe egiziano,
addio Mosè il liberatore, addio Mosè capo del popolo degli oppres-
si, ecco Mosè il beduino, Mosè pastore nel deserto, Mosè padre di
due figli: una vita ordinata, banale, in tutto identica a quella di un
altro beduino. Fallito e disilluso è diventato molto più concreto, è
come se dicesse a se stesso: «forse in fin dei conti mi ero sbagliato
a credere che la mia vita fosse una gran cosa, mi ero illuso a pen-
sare che Dio mi avesse scelto per una missione, e siccome mi ero
illuso, tanto vale che adesso mi arrangi con quel poco di buono
che la vita mi dà: i miei due figli, la mia mogliettina, il mio lavoro,
povero, ma dignitoso, quel tanto che serve a campare, un lavoro di
pastore, cosa vuoi che sia. Ho diritto anch’io a un po’ di felicità»,
avrà pensato. E chi glielo negherebbe, povero Mosè, dopo tutto
quello che ha passato?
Pensiamo a noi stessi, cari fratelli: è tanto diversa la nostra
condizione? Anche noi abbiamo creduto al Signore, anche noi ci
siamo sentiti messi a capo del Suo progetto in questa Comunità
o coinvolti nella Sua missione e magari abbiamo sognato di fare
grandi cose, magari ci siamo illusi di poter cambiare il mondo,
di poter fare chissà cosa per la Chiesa, di essere grandi profeti o

46
evangelizzatori e di portare chissà quale messaggio di novità. Poi
è accaduto che proprio quelli che avrebbero dovuto seguirci ci
rifiutavano, che le porte che sembravano spalancate ci venivano
sbattute in faccia, magari siamo anche stati insultati, o disprezzati
e derisi. E magari anche noi ci siamo ritirati nel deserto a mugu-
gnare: è colpa di questo, è colpa di quello. E magari anche noi ci
siamo trovati a desiderare uno spazio tranquillo: una moglie, dei
figli, un lavoro comodo… Certo, preghiamo ancora il Signore, ci
mancherebbe altro, ma così, alla lontana, senza impegnarci troppo,
non si sa mai, dovesse chiederci qualcosa di troppo gravoso!

Mosè, Mosè
Questi quarant’anni passati a masticare il suo fallimento sono
fondamentali per Mosè, perché solo alla fine, quando sarà maturo
anche nell’aver fallito, potrà iniziare la terza fase della sua vita. Sta-
volta abbandoniamo il midrash di Stefano e seguiamo il racconto
direttamente dal libro dell’Esodo.
«Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sa-
cerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al
monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma
di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva
per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio
avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non
brucia?”. Il Signore vide che si era avvicinato per guardare» (Es 3,1-4).

Nel testo ebraico l’espressione esatta per «voglio avvicinarmi»


è «voglio fare una deviazione». Il testo, cioè, sottolinea che per
avvicinarsi a vedere, Mosè deve cambiare strada. Questo significa
una cosa fondamentale: che dopo quarant’anni passati a convivere
con il suo fallimento nel cuore di Mosè è rimasto ancora qualcosa
che lo salverà: la curiosità. Benedetta questa curiosità che nasce
dalla speranza, perché nonostante tutto Mosè ancora spera che
il Signore possa fare qualcosa per lui, che dalla sua vita in fondo

47
possa ancora nascere qualcosa di buono. L’uomo veramente fallito
è l’uomo che non ha più curiosità. L’uomo veramente disperato è
quello che non ha più la capacità di alzare lo sguardo sul mondo
intorno a sé, che non è più capace di fare una deviazione per in-
dagare su un fatto misterioso. E non per nulla il Signore gli parla
solo dopo aver visto che si è avvicinato. È questa sua curiosità a
mettere in moto tutto il resto:
«Dio gridò a lui dal roveto: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. Ripre-
se: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo
sul quale tu stai è suolo santo!”. E disse: “Io sono il Dio di tuo padre,
il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si
coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,4-6).

Innanzitutto Mosè sente provenire dal fuoco il suo nome: «Mo-


sè, Mosè» ripetuto due volte, come per confermare, come per sot-
tolineare qualcosa. Il suo nome significa «salvato» e ripetendoglielo
il fuoco glielo ricorda: tu sei il salvato. È come se lo invitasse a
prendere di nuovo coscienza di sé, a ricordare che all’inizio della
sua vita c’è un gesto di misericordia. Sicuramente in tutto quel tem-
po passato nel deserto Mosè si era dimenticato della sua storia, o
aveva cercato di farlo, e così c’è bisogno che Dio gliela ricordi. Così
l’eccomi di Mosè acquista un significato più grande: non sta solo
rispondendo alla chiamata, ma sta riconoscendo qualcosa su di sé,
sta prendendo atto di essere un salvato. Sì: sono proprio io, Mosè,
l’uomo salvato dalle acque. È la purificazione della sua memoria, è
il momento in cui fa pace con la sua storia e il suo passato, e tutto il
suo fallimento in un attimo sparisce, perché lui è Mosè, il salvato.
Avendo preso coscienza di questo, ora può ascoltare la seconda
parte della Rivelazione: «io sono il Dio di Abramo, Isacco e Gia-
cobbe», come se stesse dicendo: Io sono la tua storia, il tuo passato,
sono le radici della tua vita. Non solo tu sei un salvato, ma sei parte
di un popolo, sei parte di un progetto di salvezza. Non puoi ab-
bandonare il tuo popolo solo perché ne sei stato respinto, non puoi
voltare le spalle alla storia che ti ha generato. Mosè era diventato

48
un beduino, non voleva avere più niente a che fare con Abramo,
Isacco e Giacobbe, eppure il Dio di Abramo è venuto a cercarlo,
come a dire: non puoi chiamarti fuori, tu sei legato a questa gente,
è nel tuo sangue, nelle tue vene, tu appartieni a questo Dio perché
sei parte del Suo popolo.
Questo per Mosè è un momento formidabile, perché è il momen-
to dell’incontro con il Dio Vivo. Notate che Mosè già credeva in
Dio, aveva sposato la figlia di un sacerdote dopotutto, la religione
era il business di famiglia, ma qui, davanti a questo fuoco che lo
chiama per nome e gli ricorda chi è e da dove viene, Mosè non in-
contra un’idea di Dio, ma il Dio concreto, reale, persona. Il Dio che
ti chiama per nome e a cui puoi dare del tu. Troppo spesso quando
crediamo di pregare, di confrontarci con Dio, in realtà ci stiamo
confrontando con le nostre idee su Dio. Così, poco alla volta, senza
accorgercene, trasformiamo la fede in un’ideologia, in uno schema.
La fede invece, quella che ci salva, quella di cui ha bisogno Mosè per
diventare la guida del popolo, quella di cui abbiamo bisogno noi
per essere animatori e pastori, non nasce dai concetti su Dio, ma
solo da questo incontro a tu per tu, dove saltano tutti gli schemi,
dove capisci che Dio è totalmente altro da tutto ciò che hai mai
pensato, eppure ad un tempo più intimo a te di te stesso.

… la miseria del mio popolo


Questo Dio, vivo e vero, dice a Mosè una cosa sconvolgente:
«Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e
ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue
sofferenze. (…) Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io
stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando
dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”. Mosè
disse a Dio: “Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti
dall’Egitto?”. Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che
io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto,
servirete Dio su questo monte”» (Es 3,7-12).

49
Ho osservato la miseria del mio popolo… Il Dio vero è un Dio
di misericordia, perché questo è la misericordia: vedere la miseria
del popolo, prendersene cura. Questo per Mosè è durissimo da
accettare: anche lui quarant’anni prima aveva visto la miseria del
popolo e aveva fatto ciò che Dio sta facendo adesso, aveva lasciato
la casa del faraone, come Dio ha lasciato il suo trono di silenzio,
per coinvolgersi nella storia e nella vita del popolo, e cosa ne aveva
avuto in cambio? E ora è come se Dio stesse dicendo: «avevi ragione
quarant’anni fa, stavi facendo la cosa giusta, ma nel modo sbaglia-
to, usando violenza. Era un tuo progetto, non un progetto di Dio,
e allora il popolo ha fatto benissimo a rifiutarti, perché sarebbe
solo passato da una schiavitù ad un’altra, non avresti portato una
vera liberazione».
Ho osservato la miseria del mio popolo… Cari fratelli, tutto parte
da qui, questo è l’inizio di ogni vocazione e di ogni mandato nella
Chiesa, perché tutto parte dalla misericordia, dalla capacità di
ascoltare questo grido di dolore che sale a Dio dal popolo. Non c’è
carisma, non c’è vocazione che non sia una risposta a questo gri-
do e quindi la prima cosa che si richiede all’animatore è di essere
capace di sentirlo. Come potresti fare una preghiera di liberazione
senza aver sentito il panico e l’angoscia di chi è oppresso? Come
potresti fare una preghiera di guarigione senza conoscere la solitu-
dine e il dolore di chi è malato? Non che tu debba necessariamente
aver vissuto queste esperienze in prima persona, ma devi avere le
orecchie del cuore aperte, devi essere capace di misericordia tu
stesso per poter riconoscere questo grido ed ascoltarlo.
«Chi sono io?» Domanda Mosè a Dio, e questa domanda è il
segno che è veramente cambiato, non è più l’uomo forte, sicuro di
sé e dei suoi mezzi, «potente in parole ed opere». Non pretende più
di sapere chi è, ma lo domanda a Dio, come faceva san Francesco,
che pregava così nella solitudine e nell’angoscia de La Verna, dove
ha vissuto un’esperienza molto simile a quella che stiamo descri-
vendo: «Chi sono io e chi sei tu, Signore?». Dopo quarant’anni nel
deserto Mosè ha imparato ad essere umile, ora e soltanto ora può

50
farsi carico del progetto di Dio e diventare il liberatore. «Chi sono
io?». E Dio risponde: «Io sarò con te». Come dire che ora l’identità
di Mosè è questa: essere colui-con-cui-è-Dio. Mosè ormai è total-
mente identificato con la sua missione; il suo io, purificato nel fuo-
co del deserto, ormai coincide interamente con la sua vocazione.
Questa promessa è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, è la certezza
che la Grazia di Dio sarà sufficiente a compiere la nostra missione.
Non è un problema di competenza o di intelligenza, Dio farà ciò
che ha promesso!
Corso animatori, Fiuggi 2009

51
6
Ti basta la mia Grazia

«Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze.


(…) Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla
mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché
io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato
il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la
mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori
in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze,
negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sof-
ferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte»
(2Cor 12,5-10).
In questo passo Paolo ci parla di debolezza e grazia. Riassumia-
mo la situazione: Paolo si rivolge alla comunità di Corinto, che è
una comunità molto vivace, piena di carismi, dove ci sono grandi
manifestazioni dello Spirito e grandi doni, ma anche grandi di-
visioni, liti e discussioni. Si formano in questa comunità alcuni
partiti, c’è perfino, contro la volontà dello stesso Paolo, un gruppo
che si autodefinisce «di Paolo». In questo contesto Paolo si trova
costretto a difendersi dalle accuse di quelli che sono contro di lui.
Il brano che abbiamo letto fa parte proprio della sua autodifesa.

La spina nella carne


Prima di tutto togliamo di mezzo un falso problema: l’attenzione
di molti viene sviata da questo accenno che Paolo fa ad una spina
nella carne. Che cosa sia questa spina noi non lo sappiamo. Nel

52
contesto del brano peraltro è evidente che Paolo non la considera
importante, quindi in fondo è irrilevante. Alcuni pensano che
fosse una malattia, forse piuttosto umiliante, altri che fosse una
tentazione ricorrente molto forte che Paolo doveva sopportare, ec-
cetera. Io – come molti esegeti – penso invece che fosse la costante
memoria del suo fallimento, intendo quindi «carne» non nel senso
fisico di corpo, ma nel senso generico di «umanità». Paolo ha avuto
per tutta la vita un grandissimo dolore: aver fallito nel portare il
Vangelo agli Ebrei. Egli non si è mai considerato un superapostolo,
siamo noi che vediamo in lui il grande evangelizzatore, il secondo
fondatore del cristianesimo, ma di se stesso egli pensa: io avrei tan-
to voluto portare gli Ebrei a Gesù ed ho fallito. È la sua ossessione:
in ogni lettera praticamente ne parla, perché Paolo è innamorato
di Israele. Paolo è un vero ebreo, un fariseo figlio di farisei, come
si definisce. Il suo grandissimo dolore è che il suo popolo chiude
la porta in faccia a Gesù e lo caccia dalla sinagoga. Allora, secondo
me, questa spina nella sua carne, questo messo di Satana che lo
schiaffeggia continuamente, è proprio il dolore e l’angoscia per il
suo fallimento e la conseguente tristezza e sfiducia in se stesso che
poteva derivarne, insomma tutto quel complesso di tentazioni che
è legato alla costante memoria di un fallimento.
Ad ogni modo, tornando a ciò che sappiamo con certezza, l’im-
portante è che, qualunque cosa sia, questa spina nella carne è un
ostacolo all’annuncio del Vangelo. A causa di essa Paolo sperimenta
la sua debolezza, la sua incapacità, il suo limite di annunciatore, la
sua insufficienza. Ecco perché prega Dio di togliergliela. Attenzio-
ne, non perché sia preoccupato per sé, il suo non è l’atteggiamento
di chi dice «mi va tutto male nella vita, allora ti prego, Signore, libe-
rami da questo male»: se chiede di essere liberato è per il Vangelo,
per essere più efficace nell’annuncio. Paolo è l’uomo che ha detto
«Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20)
o anche «Tutto considero spazzatura pur di conoscere il Signore»
(cf Fil 3,8), non lo si può immaginare preoccupato di qualcosa che
riguardi la sua persona o la sua storia privata. La sofferenza di

53
Paolo è che questa spina nella carne, qualunque sia, gli impedisce
di essere libero di portare il Vangelo; gli toglie quella forza, quella
libertà e quell’efficacia che vorrebbe per parlare di Gesù.
Questo ce lo deve rendere vicino, ci deve fare sentire che noi, in
qualche maniera, siamo come lui. Chi di noi non ha mai pensato:
«quanto mi piacerebbe poter essere libero da questa cosa o da
quell’altra per poter veramente servire il Signore e annunciare il
Vangelo»? Oppure «Come mi piacerebbe essere libero da questa
situazione che m’incatena, da questa malattia che mi lega, da que-
sta sofferenza, da questo dramma familiare, da queste difficoltà
economiche, per poter finalmente parlare di Gesù senza pensieri o
preoccupazioni»? Tutti noi abbiamo sentito questo bisogno. Forse
è anche successo che di questa nostra debolezza ci siamo fatti un
alibi; forse è anche successo che abbiamo pensato «non è colpa
mia se non posso annunciare il Signore, non è colpa mia se non
posso evangelizzare. Se il Signore mi volesse veramente apostolo
mi avrebbe tolto da questa situazione. Se non mi toglie da questa si-
tuazione vuol dire che non chiede a me di annunciare il Vangelo ed
essere profeta». Forse abbiamo pensato anche questo, non è vero?

Tenere lo sguardo fisso su Gesù


Ma Paolo, al contrario, ci dice una cosa molto importante: ci
dice che la debolezza non è un ostacolo, perché il Signore non
vuole superuomini, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole,
Infirma mundi eligit Deus (1Cor 1,27). Letteralmente infirmus
significa «colui che non sta in piedi»; infirma mundi dunque sono
quelli che nel mondo, secondo i criteri del mondo, non stanno in
piedi. Proprio questi Dio ha scelto per confondere i forti. Proprio
perché tu non stai in piedi Dio ti ha scelto; proprio perché non sei
capace di camminare con le tue gambe Dio ti ha scelto; proprio
perché hai fallito Dio ti ha scelto; perché hai fallito, perché sei de-
bole, perché sei malato. E uno potrebbe dire: ma è matto? È matto
questo Dio che sceglie i deboli e gli incapaci? No, perché c’è una

54
logica in questo, perché i piccoli, i deboli, quelli che non stanno in
piedi – gli infirmi, appunto – non hanno la tentazione di mettere
avanti se stessi; non hanno la tentazione di parlare con la propria
sapienza, con la propria intelligenza, con la propria capacità; è
evidente a tutti che non sono capaci di fare niente, quindi proprio
per questo, quello che emerge e si manifesta è la potenza, la forza
straordinaria della Grazia di Dio. Ecco perché dobbiamo dimen-
ticarci della nostra debolezza, perché la debolezza è una forza, un
vantaggio. Dimenticatevi di voi stessi, dimenticatevi della vostra
debolezza, delle vostre incapacità, dei vostri limiti; dimenticatevi
perfino del vostro peccato e della vostra povertà. Non dobbiamo
avere lo sguardo rivolto su noi stessi, non dobbiamo guardare al
nostro limite, non dobbiamo guardare alle nostre povertà, alle
nostre paure. Dobbiamo, invece, tenere lo sguardo fisso su Gesù.
Avete presente l’episodio della tempesta sedata (Mt 14,22-33)?
Il mare è in tempesta e Gesù va incontro ai Dodici che stanno
remando contro le onde e loro, vedendolo venire, si spaventano
e dicono: è un fantasma! Allora Pietro dice: «Signore, se sei tu,
comandami di venire verso di te sulle acque». E il Signore dice
«Vieni!». Pietro comincia effettivamente a camminare sulle acque
e finché tiene fisso lo sguardo su Gesù va tutto bene: va dritto
verso il Signore come un fuso. Ma quando comincia a guardarsi
intorno, a vedere le onde, a sentire il vento, allora comincia ad avere
paura e ad affondare. Il Signore lo prende per mano, lo tira su, e
non è che gli dia una pacca sulla spalla e lo consoli. Nossignore, lo
rimprovera: lo chiama «uomo di poca fede», perché non ha tenuto
fisso lo sguardo su di Lui. Perché non importa quanto siano alte
le onde e forte il vento, non hanno importanza le difficoltà, non
conta la fatica, non importa neppure il tuo peccato: se tieni fisso lo
sguardo su Gesù, tu riuscirai! È questo il segreto per dimenticarsi
della propria debolezza: non guardare a se stessi e tenere fisso lo
sguardo su Gesù. Notate che quello che dà forza a Pietro è la sua
obbedienza: egli non chiede a Gesù di comandare alle acque di
sostenerlo, ma dice comanda me che io venga da te. È la fede nella

55
potenza del comando di Cristo che ci rende capaci di fare ogni
cosa: se il Signore mi comanda una cosa non c’è forza al mondo
che possa impedirmi di farlo!
Come si fa? Come possiamo tenere costantemente lo sguardo
fisso su Gesù? Noi abbiamo una risorsa, la più grande arma e il
più grande dono che Dio ha dato a questa comunità: il dono della
lode. La preghiera di lode produce un effetto formidabile. Quando
entriamo nella lode, succede che ci dimentichiamo di noi stessi. Ed
è naturale che sia così, perché siamo tutti presi dalla grandezza,
dalla bellezza dell’immenso Tu che ci sta davanti. Sono talmente
preso dal dirgli quanto è bello e quanto lo amo che mi dimentico
di me. Un’autentica preghiera di lode ha un effetto decentrante,
cioè ci porta fuori da noi stessi o, se preferite, in alto, verso Dio.
Allora il segreto per dimenticarsi, il segreto per abbandonare
le nostre debolezze e le nostre povertà, per non lasciarcene condi-
zionare, è lodare, lodare, lodare. Quanto più lodiamo, tanto più ci
dimentichiamo, quanto più lodiamo, tanto più ci abbandoniamo,
tanto più ci perdiamo. E se non ci abbandoniamo abbastanza è
perché non lodiamo abbastanza. E se le onde della nostra vita ci
sembrano troppo alte, è perché non lodiamo abbastanza, e se ci
viene il dubbio «ma l’acqua non può reggere il mio peso, come mai
sto camminando sulle acque?» vuol dire che non stiamo lodando
abbastanza, e se non sentiamo la forza del comando di Gesù su di
noi è perché non lodiamo abbastanza. Teniamo fisso lo sguardo
su Gesù, perché nella nostra debolezza si manifesti la Sua forza e
arriveremo addirittura a dire con san Paolo che la nostra debolezza
è un vanto, un motivo di orgoglio: sono fiero di essere un ignoran-
te, sono fiero del fatto di essere uno che non sa stare in piedi, sono
fiero del fatto di essere incapace, debole, stupido. Non perché sono
matto, ma perché in tutto questo si manifesta la potenza di Dio.
Quando sono arrivato in comunità, e per tutti i primi tempi,
questo è stato per me una specie di shock culturale. Io, nella vita,
fin da quando ero ragazzo, fin da quando mi ricordo, ho sempre
avuto un grandissimo desiderio, anche da ateo: la ricerca della

56
Verità, la verità metafisica, la Verità con la V maiuscola. E per que-
sto, per la conoscenza della Verità, nella vita ho sacrificato tutto, a
questo si orientavano tutte le mie scelte. Quando sono arrivato in
Comunità, ho scoperto che la Verità non era una teoria da studiare,
era una cosa da bere, come si beve l’acqua, era una cosa da man-
giare, come si mangia il pane eucaristico, era una cosa da toccare
come ci si tocca tra fratelli, non una cosa mentale, astratta. E c’e-
rano delle persone incantevoli: ignoranti, sgarbate, senza nessuna
cultura, ma dicevano delle cose di una profondità, che io, che pure
avevo studiato tutta la vita, non avrei mai concepito. E rimanevo
a bocca aperta di fronte a questo: ecco che cosa vuol dire vantarsi
delle proprie debolezze!

La debolezza è una forza


Ed ecco perché non dobbiamo aver paura della debolezza. Dite-
mi una cosa: quando annunciate il Vangelo, qual è la vostra prima
preoccupazione? Vi preoccupate di essere preparati? Vi preoccu-
pate di saper dire le parole giuste? Vi preoccupate di non avere
titoli per parlare? Ma siete proprio fuori strada se fate così! E guai
a voi se cercate di prepararvi, perché vuol dire che state cercando
appoggi umani, carnali. Guai a voi. Il Signore lo dice chiaro: «Met-
tetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa;
io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non
potranno resistere né controbattere» (Lc 21,14-15). E se invece voi
vi preparate, se studiate, se vi riempite di sapienza umana, quello
che direte sarà solo voi stessi, non direte il Signore, non direte quel
linguaggio di sapienza irresistibile che il Signore mette sulle labbra
dei piccoli e dei deboli.
Succederà allora una cosa terribile: invece di annunciare il
Signore, cercherete di convincere gli altri. La differenza è sottile,
ma fondamentale. Il testimone non si preoccupa di convincere,
non è un suo problema. Se ti sto annunciando Gesù, non è perché
ti voglio convincere che Lui è la cosa giusta per te: non ti sto ven-

57
dendo una macchina! Se ti annuncio Gesù è per lodarlo, per dirti
«guarda che cosa meravigliosa mi è capitata!». Perché ho tanta
gioia nel cuore che non riesco a non parlarne! Ma non perché ti
voglia convincere. Vuoi rimanere ateo? Mi dispiace per te, ma sono
fatti tuoi, però lascia che ti dica quant’è bello conoscere Gesù. Se
invece ci vestiamo della nostra sapienza succede che cerchiamo di
convincere l’altro, e quindi cerchiamo di fare dei ragionamenti per
ingabbiarlo nella nostra logica. Cosa succederà allora? Che l’altro
si sentirà aggredito psicologicamente e spiritualmente, si sentirà
minacciato, gli sembrerà che stiamo cercando di ottenere qualcosa
da lui, e quindi inevitabilmente si metterà sulla difensiva. E allora
abbiamo già perso. Ecco perché dobbiamo muoverci in debolezza,
perché nessuno si senta minacciato da noi. Ecco perché dobbiamo
vantarci della nostra povertà, proprio perché la nostra povertà ci
lascia indifesi di fronte al mondo, e se saremo indifesi a nessuno
verrà in mente di difendersi da noi. Allora a quel punto sì che
possiamo veramente cominciare a parlare di Gesù e annunciarlo
come si deve. Ecco perché ci vantiamo della nostra povertà, della
nostra incapacità e della nostra piccolezza, capite? Non è un vezzo,
una posa di umiltà, ma una condizione essenziale dell’annuncio.
Allora vedete il paradosso di Dio? la debolezza, che a prima
vista sembrava un ostacolo, diventa un trampolino; la spina nella
carne, che a prima vista sembrava un limite, diventa un punto
di forza. Questa è la meraviglia dell’azione di Dio. Dio fa sempre
così: prende un dramma, una situazione sbagliata e la rivolta: non
te la toglie, ma la trasforma, in modo che quel dramma e quella
sconfitta diventino l’occasione della novità, il punto di partenza
di un mondo nuovo, l’inizio di una cosa diversa, la meraviglia che
Dio compie dentro di noi.

Umiltà e Grazia
E così arriviamo alla seconda parte di questa relazione. Avevamo
detto che avremmo parlato della debolezza e della grazia. Della

58
debolezza abbiamo già parlato, abbastanza per dire che non è un
problema. Ora parliamo della grazia. Cos’è questa grazia che ci
deve bastare? Intanto non è una grazia, ma è la Grazia. E che cos’è
la Grazia? Cos’è il dono per eccellenza del Signore? È lo Spirito
Santo. Ti basta la mia Grazia significa «ti basta il mio Spirito». E
poi l’espressione «ti basta» è all’indicativo, non al congiuntivo,
non è quindi una esortazione moralista, ma la dichiarazione di un
fatto. Dio non sta dicendo a Paolo: «accontentati di quello che hai e
fattelo bastare», al contrario, gli sta dicendo che Lui gli ha già dato
tutto ciò di cui ha bisogno.
Ora per parlarvi di questo, voglio farmi aiutare da due amiche:
una è la piena-di-Grazia, la Kecharitoméne, letteralmente «quella
che è stata riempita di Grazia», cioè Maria, la madre di Gesù. L’altra
è santa Teresa di Gesù Bambino, che veramente incarna nella sua
vita il tema di questo incontro. Nella Comunità Maria definiamo la
nostra spiritualità carismatica, mariana e cristocentrica. Cosa vuol
dire avere una spiritualità mariana? Maria stessa ci ha insegnato
la sua spiritualità nell’unica preghiera che ci ha lasciato, nell’unico
discorso compiuto che ha fatto: il Magnificat. Lì c’è tutto il con-
densato della spiritualità mariana. Avere una spiritualità mariana
non è necessariamente avere una grande devozione mariana, dire
tanti rosari, fare tante novene, ma piuttosto, e più semplicemente,
vivere il Magnificat. Ecco perché noi, che ci vantiamo di avere
una spiritualità mariana, questa preghiera la dovremmo sapere a
memoria, dovremmo averla scritta in mezzo agli occhi, dovrebbe
essere il manifesto della nostra vita.
Evito la tentazione di commentarvi ora il Magnificat, anche
perché ci vorrebbe qualche ora, ma c’è una frase che voglio sot-
tolineare: «Ha guardato l’umiltà della sua serva». La parola greca
per umiltà qui è tapéinosis che letteralmente significa piccolezza.
Cioè quello che vuol dire Maria non è «ha guardato quanto sono
virtuosa nell’esercizio dell’umiltà» anche perché, se avesse inteso
dire questo, sarebbe stata un’ovvia contraddizione. Quello che
Maria vuole dire è «ha guardato quanto sono piccola», quanto sono

59
tapina – l’aggettivo italiano tapino viene proprio da questa parola
greca – è la piccolezza ciò che fa innamorare Dio. Quanto più sia-
mo piccoli, tanto più Dio s’innamora, quanto più siamo piccoli,
tanto più Dio ci dà la sua Grazia, infatti «Ha rovesciato i potenti
dai troni, ha innalzato gli umili», cioè, di nuovo, i tapini, i piccoli.
Questa è anche la grande intuizione di santa Teresina, quello che
lei chiamava la piccola via. Se voglio avere la Grazia di Dio – dice-
va santa Teresina – ci sono due modi: uno è quello di fare grandi
penitenze, grandi digiuni, mortificarsi, questa è la scala che porta
a Dio. Ma io sono piccola e debole, non sono capace di fare grandi
penitenze, non sono capace nemmeno di fare digiuni, e allora
cosa farò? Non andrò a Dio per la scala, ma prenderò l’ascensore.
E qual è l’ascensore? L’ascensore è farsi piccoli, l’ascensore è non
pretendere di andare a Dio con le nostre gambe, ma lasciare che sia
lui a portarci verso di sé. Questa è la spiritualità della piccolezza,
questa è la Grazia. Santa Teresina ha vissuto in un tempo in cui
nella Chiesa agiva un veleno molto potente, il giansenismo. Chi ha
studiato un poco sa cos’è il giansenismo: è la tentazione di pensare
che la fede sia fondamentalmente una questione di forza di volon-
tà: devo essere forte, devo essere santo, devo, devo, devo… è tutto
centrato su questo dovere.
Io, vi confesso, sono un po’ preoccupato, perché vedo che il
giansenismo sta tornando di moda: nella Chiesa si parla tanto di
dovere, si parla tanto di queste pratiche di devozione che bisogna
fare per arrivare a Dio, di questi digiuni, di queste penitenze, di
queste pratiche strane e astruse, come se la salvezza dipendesse
da quello che fai, come se ci fosse una ricetta per arrivare a Dio.
Santa Teresina ci insegna che bisogna prendere l’ascensore, perché
la Grazia di Dio è attirata dalla nostra debolezza e dalla nostra
piccolezza. E quanto più noi siamo piccoli e bassi e deboli, tanto
più la Grazia di Dio si riversa su di noi, e quanto più un cuore è
basso, piccolo e umile, tanto più il Signore viene ad abitarlo. In un
suo scritto giovanile, le Lodi della Vergine Madre, san Bernardo
dice che Maria fu riempita di Grazia appunto perché era piccola,

60
addirittura arriva a dire che la piccolezza di Maria ha sedotto Dio
(usa proprio questo verbo), ma questo è vero per tutti! Più saremo
piccoli, più Dio si innamorerà di noi.
Allora non il dovere sarà al centro della nostra spiritualità, ma
al contrario la lode, il Magnificat, perché magnificare Dio significa
dirgli appunto «quanto sei grande». Questa lode della grandezza di
Dio è quello che ci svuota, ci abbassa, ci umilia, nel senso positivo
del termine, di quella umiltà che non opprime, ma libera. È la lode
che apre lo spazio alla Grazia perché possa agire in noi, ed usarci
come suoi strumenti.
Vivendo tutto questo, diventiamo a nostra volta «graziosi» e
allora irradieremo la Grazia tutto intorno a noi, anche senza fare
niente, come un fiore diffonde il profumo. In italiano la parola
Grazia ha due significati: significa dono, una cosa data gratis,
oppure anche fascino e bellezza. Dunque se Dio è Grazia, è al
tempo stesso dono e bellezza. E se siamo pieni della Grazia di Dio,
ugualmente ne riceviamo la bellezza. Non è naturalmente una
bellezza corporea, mondana, ma piuttosto la bellezza di chi ha
un’anima piena, tanto piena che Dio ne trabocca. Allora la nostra
stessa presenza diventa evangelizzazione e testimonianza, ancor
prima che apriamo la bocca, ancor prima di parlare. Il fatto stesso
di esserci, il fatto stesso di essere così pieni della bellezza di Dio,
ci rende testimoni, profeti e annunciatori. In conclusione: questa
è la Grazia di cui abbiamo bisogno, questa è la Grazia che ci basta,
il dono che ci rende veramente servi del Signore. Se vivremo tutto
questo anche noi potremo dire con Maria: «Ha guardato la picco-
lezza della sua serva».
Corso animatori, Fiuggi 2011

61
7
Il Magnificat: umiltà e lode

«L’anima mia magnifica il Signore», è questo il tema del nostro


convegno quest’anno, ed è una profezia importante, al centro della
nostra spiritualità come carismatici e come Comunità Maria, ma
per capirla fino in fondo sviluppandone tutto il potenziale dobbia-
mo inserirla nel suo contesto naturale.
«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione mon-
tuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò
Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino
sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto
del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga
da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino
ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto
nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”» (Lc 1,39-45).
È facile sentire che è tutto un contesto di gioia, come è naturale
parlando di bambini che nascono: Elisabetta è felice, Maria è felice,
il bambino nel ventre di Elisabetta esulta di gioia ed in risposta
gioisce Maria e gioisce il Signore dentro di lei, tutti sono felici.
Questo è importante perché ci dice, fin dal principio, che il Signore
quest’anno ci ha portato a questo convegno per parlarci di gioia.
Al contrario di Leopardi, io sono convinto che, essendo noi
creature, la gioia sia la condizione naturale dell’uomo. Non c’è
niente di più bello e felice del sapere che tutto è dono di Dio e che
continuamente ci riceviamo dalle Sue mani. Se non siamo sempre
felici è perché il peccato ci separa da Dio, ci toglie la percezione del

62
suo amore, ci nasconde il miracolo permanente e quotidiano della
nostra vita. Allora, se la gioia è la condizione naturale dell’uomo,
prima di parlare della gioia è opportuno indicare i nemici della
gioia, svelare quelli che vorrebbero togliercela.

I superbi non sanno lodare


Maria nel Magnificat ci dà un indizio importante: «Ha disperso
i superbi nei pensieri del loro cuore», ecco il primo nemico della
gioia: la superbia, perché chi è superbo non può essere felice. Cer-
chiamo innanzitutto di precisare il linguaggio: la parola esatta per
«superbi» in Greco è «quelli che si sentono grandi», dunque Dio
confonde il cuore di quelli che si pensano grandi, perché invece
magnifica i piccoli. Noi magnifichiamo il Signore, cioè gli diciamo
«Quanto sei grande!» E lui abbassa quelli che si credono grandi ed
invece innalza i piccoli. Noi magnifichiamo Dio e Lui, se siamo
piccoli, magnifica noi. Per questo i superbi non sono capaci di
gioia, perché non sanno magnificare.
Questo è un assioma nella vita spirituale: per essere felici bisogna
essere piccoli. Non per nulla la parola umiltà ha la stessa radice del-
la parola umorismo, humus, terra. Solo chi è vicino alla terra, cioè
piccolo, conosce l’umorismo, che è la forma più bella dell’allegria,
mentre i superbi conoscono quella forma deteriore e peggiorativa
che è il sarcasmo. Perché i superbi sono incapaci di gioia? Perché
non sanno magnificare. Chi si crede grande non sopporta un altro
grande accanto a sé, quindi tende a fare il contrario di magnificare,
cioè a disprezzare. Non potendosi innalzare più di tanto, tende ad
abbassare gli altri. Sono sicuro che conoscete il tipo, quelli che so-
no sempre scontenti e diffidenti, che sono capaci di trovare difetti
in ogni cosa e sanno vedere solo una macchia minuscola in una
persona splendida…
L’umile invece magnifica tutti, ha parole di lode per tutti, ai suoi
occhi tutto è magnifico e stupendo. Se volete riconoscere un falso
umile osservate come parla degli altri, perché fintanto che parla

63
di sé il superbo può dissimulare una falsa umiltà, specialmente
in ambito ecclesiastico è un tipo che si incontra spesso. Fingendo
di abbassarsi in fondo si sta innalzando, e lo sa. Ma quello che il
falso umile proprio non riesce a fare è innalzare gli altri, perché
l’umiltà consiste soprattutto in questo, non tanto nel considerarsi
poco, ma nel considerare gli altri migliori di sé. Essere umili non
è pensare di esser stupidi, ma pensare che chi parla con noi sia un
genio, capite? Così l’umile si riconosce da questo: tutti ai suoi occhi
hanno valore, tutti sono degni di lode.
Molte persone vivono con un oscuro senso di colpa e così per
non ammettere le proprie mancanze, per non essere costretti a
confrontarsi con la propria miseria, coinvolgono tutto il mondo
in una grande condanna collettiva. Avete presente quelli che
dicono: «sì vabbè ho rubato, ma lui ha rubato molto più di me»?
Nello stesso modo, per non disprezzare se stessi disprezzano
tutti, nel tentativo di assolversi davanti al tribunale della propria
coscienza condannano tutti, perché se tutti sono colpevoli, nes-
suno è colpevole. In questo modo però si circondano di miseria e
fuggono il confronto con le persone veramente grandi. Per que-
sto di solito i superbi si contornano di mediocri. L’umile invece
non teme il confronto, perché non ha nulla da perdere, e cerca
la compagnia delle persone grandi, perché sente che in quella
compagnia in qualche modo partecipa della loro grandezza. Se
siamo abbastanza umili la compagnia delle persone grandi rende
grandi anche noi.
È questo il segreto della gioia, perché chi vive disprezzando si
troverà circondato di cose disprezzabili, chi vive magnificando
vedrà attorno a sé cose magnifiche. Se ti convinci che niente in-
torno a te sia bello, che tutti siano cattivi o insignificanti, che non
c’è niente che valga nel mondo, come meravigliarsi se poi sei de-
presso e solo? Al contrario, l’umile, l’uomo che vive magnificando,
quando guarda al mondo cosa vedrà? Vedrà un capolavoro che si
ripete incessantemente, la sua vita sarà per lui fonte di continuo
stupore, tutte le persone che incontra gli sembreranno grandi e

64
magnifiche. In una parola, vivrà da uomo felice. Se vuoi imparare
la gioia impara a magnificare.

Lode e ascesi: magnificare la vita e il mondo


C’è anche una falsa spiritualità che insegna che per adorare
Dio bisogna disprezzare il mondo. È un’eresia antica, la gnosi, che
periodicamente ritorna sotto diversi nomi ed a volte contamina
anche correnti sane della fede, così può accadere di sentir dire che
per avvicinarsi a Dio bisogna separarsi dall’uomo, che bisogna
reprimere tutto ciò che di più umano c’è in noi: passioni, istinti,
desideri.
C’è una componente di verità in questo, come in ogni eresia,
perché tutto deve essere sottomesso all’amore, ed ogni bellezza
creata alla fine dei conti è solo un’eco ed un’immagine della
bellezza di Dio, ma questo non vuol dire che siano cose cattive,
anzi! Dio non è geloso dell’uomo! Non ha messo tutta questa
bellezza nel mondo per lasciarcene fuori! La materia, il corpo,
Dio li ha creati come strumenti dell’amore e per piacere a Dio
dobbiamo essere uomini veri, non cercare di essere simili agli
angeli! Sant’Ireneo diceva che chi vuole essere come un angelo
finisce con l’assomigliare ad un fantasma. È Dio che ha creato
l’uomo e dunque nessuno è più felice di Lui se l’uomo sviluppa
tutta la sua grandezza. Magnificare Dio significa anche magni-
ficare il mondo che Lui ha creato, che è poi magnificare la nostra
vita, perché è nel mondo che noi viviamo. Magnificare il dono è
magnificare il donatore.
Allora impariamo a magnificare tutto. Alzatevi la mattina
dicendo: vita mia, quanto sei grande! Che magnifica giornata
comincia! Questo è il segreto della lode. Lodiamo Dio perché è
magnifico, perché la vita è magnifica, perché le persone intorno a
noi sono magnifiche. Lodate il Signore e con lui lodate il vostro ca-
poufficio, la vita di tutti i giorni, il caffè del mattino, vostra moglie
i vostri figli. Lodate, lodate, lodate. Lodate tutto e tutti, perché chi

65
vive lodando non può non avere il cuore pieno di gioia. Chi vive
lodando, vive davvero.
La lode è una preghiera decentrante. Normalmente al centro
della nostra vita ci siamo noi, seduti sul trono dei nostri desideri e
interessi. La maggior parte del tempo noi pensiamo a noi stessi: ai
nostri progetti, ai nostri problemi, o anche alle cose belle: alle no-
stre gioie, ai nostri piaceri… Però tutto gira sempre attorno a noi.
Quando lodiamo invece succede il contrario: chi loda si dimentica
di sé, tutto preso da Chi gli sta davanti. Immaginate un giovanotto
innamorato, che si perde negli occhi della sua lei è riesce a dirle
solo «Quanto sei bella». Ecco, questa è la lode: perdersi negli occhi
di Dio e dirgli «Quanto sei bello!». Lodare è dimenticarsi di sé, è
perdersi. Ed una volta che ci perdiamo in cambio riceviamo bellez-
za. Tanta bellezza. Perché Dio è bellezza e perdersi in Lui significa
riempirsi di bellezza, bellezza che riempie il nostro cuore e lo sazia,
producendo due effetti: innanzitutto ci immunizza contro le false
bellezze che il nemico ci propone per tentarci, come uno educato
a leggere la grande letteratura sarà insensibile ai romanzetti rosa,
come un uomo innamorato sarà insensibile al fascino di una pro-
stituta, e poi ci purifica, ci rende belli interiormente.
Immaginate un vaso pieno di fango: la nostra anima. Ci sono
due modi per pulirlo: uno è quello descritto in tanti manuali di
ascetica: bisogna cacciare le mani nella melma e toglierla tutta e
poi rimboccarsi le maniche e darsi da fare con pezzetta e sapone
e strofinare a fondo, finché il vaso non è pulito. Un lavoro lungo
e faticoso. Poi c’è la preghiera di lode, che è un po’ come mettere
il vaso sotto un getto forte di acqua purissima e lasciare che sia
l’acqua, con la sua forza, a fare tutto il lavoro, portando via tutta
la sporcizia. Non ho niente contro il metodo ascetico, ha dato
tanti grandi santi alla Chiesa, ma a noi è stato dato un metodo
diverso, il metodo della lode, questo getto forte e purissimo che
lava via ogni impurità ed egoismo dal cuore. Lasciate che la lode vi
riempia e trabocchi e piano piano, senza sforzo, vi accorgerete che
vi purifica e vi cambia, rendendovi sempre più simili a Colui che

66
lodate. Perché l’uomo è fatto così, sempre tende ad assomigliare
a ciò che ammira.
Questa è l’essenza della vita carismatica: non tanto fare grandi
miracoli, né cercare manifestazioni spettacolari della potenza di
Dio, ma vivere lodando. La preghiera di lode è il grande dono che
Dio ha fatto al Rinnovamento – un dono antico, che a noi è stato
dato di riscoprire – e che ora, lentamente, sta diventando di tutta
la Chiesa. Alleluia! Si compie così la profezia del cardinal Suenens,
che diceva che lo scopo del Rinnovamento è rendere carismatica
tutta la Chiesa.
XXXVI Convegno nazionale, Fiuggi 2012

67
AMARE NEL VENTO
Lo Spirito ci fa comunità in Dio
1
Come un pastore…

Su pascoli erbosi…
Fin da quando è stata annunciata la profezia di questo convegno,
«Come un pastore Egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio
lo raduna» (Is 40,11), mi ha colpito la continuità con gli ultimi
convegni. Due anni fa il Signore ci ha detto che ci avrebbe guida-
to alle fonti delle acque della vita, appunto come fa un pastore, e
l’anno scorso ci inviava a portare il lieto annunzio ai poveri. Ora
comprendiamo che proprio questo è il lieto annunzio: il Signore
è il nostro pastore!
Tutti noi che siamo qui abbiamo sperimentato nella nostra
vita la potenza con cui il Signore guida il suo popolo, tutti sia-
mo testimoni della forza con cui siamo stati voluti. Tutti siamo
stati quella pecorella smarrita che il Pastore viene a cercare, tutti
siamo stati perduti, tutti siamo finiti nei rovi, tutti siamo stati
minacciati dal lupo, ma per tutti è venuto il Pastore a cercarci là
dove eravamo, nella nostra solitudine, nel nostro peccato, nella
nostra malattia, nel nostro smarrimento e ci ha strappato via
dalla morte riconducendoci al suo gregge. Tutti abbiamo fatto
questa esperienza, altrimenti non saremmo qui, e tutti quindi
sappiamo che potremmo facilmente non esserci. Non è proprio
merito nostro se siamo qui! Tutti noi abbiamo già fatto un’espe-
rienza del Pastore, conosciamo la sua voce, il suo braccio sicuro,
il suo passo saldo.
Naturalmente conoscete il Salmo 23, lo cantiamo anche spes-
so, quel salmo bellissimo in cui si dice che il Pastore guida il suo

71
gregge ad un pascolo abbondante, ad acque chiare e trasparenti.
Mi sono chiesto allora dove sia questo pascolo abbondante, dove in
questo momento storico il Signore stia conducendo la Comunità.
Sicuramente il nostro pascolo è innanzitutto l’esperienza dello
Spirito Santo, il grande dono che abbiamo ricevuto dell’Effusione
dello Spirito, che è la sorgente più fresca, perché è una sorgente che
non si esaurisce mai, che addirittura zampilla dentro di noi (cf Gv
7,37-39), quindi non dobbiamo neppure andare a cercare l’acqua
dello Spirito chissà dove: è sempre pronta, sempre disponibile,
basta che rientriamo un attimo in noi stessi per poter attingere
ad una fonte buona che zampilla continuamente, sempre nuova,
sempre viva, sempre dissetante.
E questa sorgente zampilla qui, in questa comunità, e fa di questa
comunità il pascolo più verde ed abbondante. Sottolineo la parola
«comunità», perché non solo il Signore ci ha salvato, non solo ci
ha chiamato facendoci il dono inestimabile dello Spirito, ma lo ha
fatto in una comunità, facendo di noi un popolo, creando unità là
dove il peccato aveva creato divisione e solitudine. Nessuno di noi
è stato chiamato da Dio alla solitudine, nessuno deve restare solo,
non siamo stati scelti come eremiti, ma ha voluto fare di noi una
cosa sola, ed è questo il pascolo più abbondante: la vita comune. È
questo il Dono Grande di Dio: che di molti che eravamo ha fatto
di noi una cosa sola. C’è un salmo, il 133, che dice una cosa sem-
plice e straordinaria: «Ecco quanto è bello, ecco quanto è soave
che i fratelli vivano insieme» (Sal 133[132],1) e noi sperimentiamo
questa bellezza, la bellezza di essere fratelli, di vivere insieme, di
essere una cosa sola.

Comunità, dono d’amore


Molti vengono qui a pregare perché cercano miracoli o guari-
gioni, o liberazioni. Vengono pieni di speranza e di fede, ed alcuni
guariscono. Il Signore opera miracoli in mezzo a noi, tutti ne
siamo testimoni, ma il dono più grande che questi fratelli trovano

72
non è quello della guarigione, il dono più grande è quello che non
chiedono: il dono di una comunità che li ama.
Torniamo indietro con la memoria, quando siamo arrivati qui
la prima volta da che cosa siamo stati attirati? Qualcuno dai canti,
qualcuno dai prodigi, qualcuno dagli amici, ma non è quella la
ragione per cui ci siamo fermati e non ce ne siamo andati più, ciò
che davvero ci ha attirato, al di là dei motivi superficiali, è che ci
siamo sentiti amati come mai nessuno prima ci aveva amato, ci
siamo sentiti riconosciuti, stimati, abbiamo capito che non erava-
mo lo zero che credevamo di essere, che avevamo un valore senza
prezzo. Certo, era l’amore di Dio, un amore soprannaturale; ma
ci giungeva attraverso il sorriso dei fratelli, la loro disponibilità,
la loro gentilezza, la loro cura, la loro misericordia. E noi abbiamo
sentito questa gioia, questa bellezza dell’essere comunità, abbiamo
sentito questo dono straordinario dell’amore fraterno, che è opera
dello Spirito Santo ed è la profezia più convincente, il segno che il
mondo aspetta per convertirsi, è quello che ci caratterizza come
comunità e come comunità carismatica.
Fare i miracoli non è niente, ma l’amore è solo di chi vive nello
Spirito. Le guarigioni avvengono un po’ dappertutto, ma la carità,
la comunione, l’unità si trova solo qui, perché solo qui il Signore
la dona. È come la sua firma, il suo sigillo, perché il diavolo può
imitare tutti i carismi, ma proprio non può imitare questo, che gli
è totalmente estraneo, proprio non può imitare l’amore, perché
solo Dio è amore.
Quando vengono i poveri a cercarci, anche se ci chiedono una
preghiera o addirittura un miracolo, è questo in realtà che cerca-
no, a volte perfino senza saperlo, ed io mi chiedo, francamente mi
chiedo: lo trovano? Ascoltano da noi la lieta novella dell’amore? La
trovano questa unità quando si avvicinano? Sentono quello spirito
di fraternità tra noi che rende bella e gioiosa ogni cosa? Ricevono
questo amore che allarga il cuore e rende possibile ogni cosa, e
che dopotutto è ciò che per primi abbiamo trovato noi? A volte
sì e a volte no. Dobbiamo confessarlo francamente, con umiltà

73
e realismo: non sempre siamo all’altezza del bisogno che incon-
triamo, non sempre sappiamo svolgere il compito che il Signore
ci affida, non sempre diamo la risposta d’amore che i poveri cer-
cano. Dobbiamo assolutamente vigilare su questo, non possiamo
permettere che il fratello che viene da noi mendicando amore se ne
vada deluso, perché davanti a Dio noi siamo responsabili di quel
fratello: Lui ce lo ha affidato e Lui ce ne chiederà conto nel giorno
del giudizio, e non possiamo permettere che si perda per il nostro
malanimo verso qualcuno, non possiamo permettere che si perda
a causa della nostra divisione. Di questo scandalo ci sarà chiesto
conto un giorno!
Dei primi cristiani non si diceva «guarda che miracoli fanno»
né «guarda quanto sono saggi e sapienti», no, dei primi cristiani i
pagani ammirati dicevano: «guarda come si amano», perché questo
è il segno profetico, l’unico che converte. Solo l’amore è credibi-
le, non le parole, non le preghiere, e nemmeno i miracoli. Senza
l’amore nulla di ciò che facciamo potrà davvero cambiare il cuore
di un uomo. Vi dico che se non ci amiamo tra noi, la gente verrà,
pregherà e forse sarà perfino guarita e liberata, perché il Signore è
tanto buono, ma non si convertirà. Lo ha detto Gesù stesso, quando
ha pregato il Padre per i suoi discepoli, cioè per noi, chiedendo «che
siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv
17,21). Il mondo crederà se noi saremo una cosa sola. Nelle nostre
preghiere facciamo tanti gesti di amore fraterno, durante la Messa
poi è tutto un abbracciarsi, un riconoscersi, un incontrarsi felici…
Lode a Dio! Fa parte della nostra natura di carismatici il manifesta-
re apertamente i sentimenti anche con questi gesti, è giusto. Però la
nostra unità deve essere fatta di ben altra sostanza, sarebbe troppo
superficiale limitarsi a questi gesti esteriori. Quello che converte i
cuori è un amore che dura nel tempo, un amore fatto non solo di
occasioni e momenti, ma che messo alla prova della vita resiste.
L’amore che converte è quello che sa andare al di là dell’offesa, al di
là della fatica, al di là della delusione e dell’incomprensione, quello
che di fronte al fratello che mi insulta e mi disprezza non si chiude

74
nel rancore e nel giudizio, ma rimane aperto. Questo è il grande
segno che converte il mondo.

… Con la potenza del suo braccio…


Fratelli, questo amore non viene da noi. Questo amore solo la
potenza di Dio può realizzarlo. La profezia di questo convegno dice
«Come un pastore Egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo
raduna» e qual è il braccio del Pastore? È la potenza del suo Spiri-
to, quella potenza, solo quella potenza è capace di fare di noi, così
divisi, così rivali come siamo, una cosa sola. È un incomprensibile
miracolo il fatto che noi possiamo essere fratelli. Io sento con molti
di voi un legame più forte di quello che sento con mia madre o con
le mie sorelle e mi chiedo: com’è possibile? Questa non è una cosa
umana, non viene da me, io non ho fatto niente perché succedesse.
Il Signore ha creato tutto questo.
Vi dico francamente, fratelli, che in Comunità ho visto realiz-
zarsi molte volte questo amore che sa andare al di là delle offese e
che si rinnova sempre. Però raramente l’ho visto durare a lungo.
Ho visto momenti di perdono sincero, slanci di grande amore,
veri momenti di unità spirituale, però poi ho visto anche questi
momenti dimenticati, ho visto l’umanità, la «carne» direbbe san
Paolo, riprendere il sopravvento e così abbiamo abbandonato la
Terra Promessa dell’unità a cui il Pastore ci aveva condotti e sia-
mo tornati ai vecchi pascoli, meno ricchi, assai meno abbondanti,
quando non del tutto aridi e deserti.
Tuttavia io credo fermamente, cari fratelli, che questa unità
soprannaturale, miracolosa, è possibile. Credo che la gioia che il
Signore riserva per i fratelli che vivono insieme è davvero alla no-
stra portata. Credo che non sia una cosa fatta solo di momenti, di
slanci, credo che possa durare per sempre, credo che noi possiamo
veramente vivere come una comunità e non soltanto esserlo ogni
tanto. Possiamo davvero essere stabilmente, per sempre, fratelli.
Ho detto che l’unità è un miracolo, che è realizzata dallo Spirito,

75
in effetti è un vero e proprio carisma, un dono che Dio dà per il
bene della Chiesa, e noi abbiamo questo carisma! Non per nulla
portiamo il titolo di comunità nel nostro stesso nome, non siamo il
«gruppo Maria» o la «associazione Maria», noi siamo la «Comunità
Maria» e questo significa che il Signore ci chiama ad essere Maria
e ad esserlo in una comunità e dunque fa di noi una cosa sola, ci
concede il dono dell’unità.
Attenzione però, perché c’è anche una falsa unità, che non viene
da Dio, un’unità senza amore. Mi vengono in mente due immagini:
quella dei falsi pastori che fingono di radunare il gregge, ma in
realtà lo dividono e quella di Babilonia, la città che vuole edificare
la sua unità senza Dio.
L’unità prodotta dai falsi pastori è quella che si crea quando il
leader pensa al posto delle persone a lui affidate, quando le sot-
tomette e le lega a sé non con la convinzione dell’amore di Dio,
ma con la sua autorità personale, quando in definitiva conduce
le persone più a se stesso che al Signore. Quello che caratterizza
questa unità è la costante fragilità: per mantenere il suo «gregge» il
falso pastore deve continuamente intervenire, essere onnipresente,
occuparsi di tutto in prima persona, far sentire in ogni momento e
in ogni luogo la sua autorità, poiché non avendo educato le perso-
ne alla corresponsabilità se lui viene meno tutto crolla. Ma non è
questa l’unità dello Spirito. L’unità dello Spirito genera correspon-
sabilità, voglia di coinvolgersi e mettersi in gioco che conduce ad
una partecipazione, non ad una sudditanza.
L’altro aspetto caratteristico di questa falsa unità è che sembra
più l’unità di un club, di un circolo chiuso che di una comunità.
È sempre un’unità «contro qualcuno», ha bisogno di un nemico,
ha bisogno di fare distinzioni e di dire continuamente «noi sia-
mo uniti perché siamo diversi». In questa unità si creano «cerchi
magici», circoli e sottocircoli, gruppi e sottogruppi, sempre più
chiusi, sempre più esclusivi. Ma non è questa l’unità dello Spirito,
il Signore non fa unità creando differenze e distinzioni. Anzi, chi
è nello Spirito vuole che nella sua unità entrino tutti, come diceva

76
Papa Giovanni che non parla di ciò che divide, ma di ciò che uni-
sce, e cerca quindi un’unità che si allarghi il più possibile, fino a
comprendere tutti perfino il mondo intero.
Abbiamo detto che la nostra è una unità carismatica, cioè che
è mossa dal braccio del Signore, dallo Spirito Santo, perché è Lui
che ci raduna. Cosa vuol dire dunque unità carismatica? Due cose:
innanzitutto che nasce dalla preghiera di lode: quando vivo la lode,
quando la lode scende nel profondo, lo trasforma, mi fa dimentica-
re di me stesso, non sono più io al centro della mia attenzione con
i miei problemi, le mie esigenze, i miei desideri. Allora, avendo di-
menticato me stesso, posso andare incontro al fratello serenamen-
te, libero da pregiudizi, senza avere la pretesa di insegnargli qual-
cosa, senza volerlo cambiare, senza la pretesa di aver ragione, senza
doverlo convincere. Chi loda, avendo dimenticato se stesso, va
incontro all’altro in modo totalmente non aggressivo e così l’altro
non si sentirà minacciato e non metterà in atto strategie difensive.
La lode poi ci rende fratelli anche in un altro senso, perché se mi
accorgo che l’altro loda come me, che anche lui è incantato dallo
stesso Dio, e se sono onesto con me stesso devo riconoscerlo, questo
crea tra noi una somiglianza molto più grande di qualsiasi altra.
Se siamo tutti presi e affascinati da Dio il Suo fascino ci unisce più
di ogni altra cosa.
In secondo luogo la nostra unità è carismatica perché nasce
dall’aver crocefisso il nostro uomo vecchio e dal far vivere Cristo
in noi, cioè dall’essere diventati nuova creatura. Dice san Paolo:
«Non c’è più né Giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero,
non c’è più uomo né donna, ma tutti voi siete una cosa sola in
Cristo Gesù» (Gal 3,28). Riportato a noi e alla nostra concretezza
questo vuol dire che non ci sono tra noi differenze significative:
non c’è più siciliano o veneto, non c’è più italiano o catalano, non
c’è più intelligente o stupido, colto o ignorante, anziano o neofita,
giovane o vecchio. Queste differenze non hanno più significato del
colore degli occhi o dei capelli, perché tutti siamo una sola cosa
in Cristo Gesù.

77
Se lodiamo, se siamo diventati nuova creatura nella lode, se ab-
biamo davvero crocefisso il nostro uomo vecchio, allora Gesù in
noi è tutto. E quando Gesù è tutto noi esistiamo per Lui. Questa è
l’unità carismatica che è stata donata alla Chiesa, questo è il gran-
de dono che è stato fatto a tutti noi, ed è anche il grande sogno di
tutti i popoli, di tutti gli uomini. Guardate le nazioni, che sono in
guerra perché non trovano unità: questa è la grande aspirazione
che tutto il mondo sente, questo è il grande desiderio che muove
ogni cosa: essere uno! E questo è ciò che ci è stato donato il giorno
di Pentecoste.

Pentecoste: l’anti-Babilonia
Prima accennavo alla cattiva unità simboleggiata da Babilo-
nia, la città degli uomini che vogliono costruire la propria unità
prescindendo da Dio, ma la Pentecoste ha ribaltato quella logica:
come il sì di Maria nell’Annunciazione ha cancellato la ribellione di
Eva, risanando il peccato originale di ciascuno, così il fuoco dello
Spirito nel giorno di Pentecoste ha risanato quello che potrebbe
essere definito come «il peccato originale sociale», cioè quella di-
visione che a Babilonia era caduta sugli uomini. Leggiamo insieme
questo brano del libro della Genesi per comprendere la grandezza
dell’opera di Dio.

«Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando


dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di
Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mat-
toni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume
da malta. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la
cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su
tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli
degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono
un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della
loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché

78
non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse
di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo
la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la
terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Gn 11,1-9).

All’inizio dunque c’era l’unità. Dio ha creato gli uomini per


l’unità, non per la divisione. All’inizio c’era un popolo solo ed
un’unica lingua. C’era comprensione reciproca, facilità di comu-
nicazione, ma il peccato di orgoglio genera la confusione e la di-
visione. A Pentecoste invece accade il contrario: in una situazione
di confusione, in un contesto in cui ciascuno parla la sua propria
lingua e la comunicazione è impossibile, il dono dello Spirito San-
to e la predicazione degli apostoli fanno sì che tutti si capiscano
come se parlassero una lingua unica. Il Signore chiude il cerchio
e guarisce la ferita del peccato di orgoglio e divisione che era stata
inferta a Babilonia.
Cosa era accaduto a Babilonia? Quale era il loro peccato? Il loro
progetto non era cattivo in sé, anzi, come per il peccato di Adamo
ed Eva, in fondo ciò che vogliono è ciò che anche Dio vuole per
loro: vivere in unità, non essere dispersi. Ma il loro peccato sta
nel voler realizzare questo progetto, in se stesso giusto e santo,
con le loro forze, senza il Signore. Come se noi potessimo fare la
Comunità Maria basandoci unicamente sulla nostra intelligenza,
sulle nostre capacità, sulla nostra sapienza e non sull’azione della
potenza dello Spirito. Mai ci accada questo, mai, perché allora il
Signore porterebbe confusione in mezzo a noi, lui che confonde i
superbi (cf Lc 1,51). E meno male! Per fortuna il Signore confonde
i superbi, altrimenti si realizzerebbe il nostro progetto e non il suo!
Due sono i segni da cui comprendiamo che il progetto di Babi-
lonia è un progetto soltanto umano: primo, la tentazione dell’ef-
ficientismo, che vediamo rappresentata nella scelta di costruire la
torre utilizzando mattoni. Perché i mattoni? Perché i mattoni sono
più efficienti delle pietre. I mattoni sono tutti uguali, squadrati,
prevedibili, fungibili. I mattoni sono artificiali, non esistono in

79
natura, sono fatti in serie, ognuno è identico ad un altro, quindi si
prestano alla costruzione assai meglio delle pietre, allora «faccia-
moci mattoni» perché con i mattoni è tutto più facile.
Io penso invece che il Signore non ami i mattoni, perché non
ama le cose fatte in serie. Il Signore costruisce con pietre, e con
pietre vive, cioè non squadrate, non tagliate, quelle che hanno an-
cora intatte tutte le irregolarità naturali, con bozzi e spigoli e forme
disarmoniche. Ma il Signore, che è un artista, riesce a comporre
queste pietre in unità. Se fate un muro di pietre non potete toglier-
ne nessuna, perché se ne togliete una non ne troverete un’altra
uguale da mettere al suo posto e resterà sempre un buco. Se si perde
un mattone non fa niente, ce ne è subito un altro uguale pronto a
rimpiazzarlo, ma se si perde una pietra è una tragedia, perché non
ce n’è una che possa sostituirla.
Così deve essere in una comunità cristiana: se si perde un fratel-
lo è una tragedia, perché nessuno sarà uguale a lui, nessuno avrà i
suoi carismi o le sue doti e noi dobbiamo fare di tutto perché non
si perda. Lo dice Gesù alla fine della sua vita, in quella preghiera
che è quasi il suo testamento: «non ho perduto nessuno di quelli
che mi hai dato» (cf Gv 17,12). Potessimo anche noi dire lo stesso!
Per questo motivo, anche tu che sei l’ultimo arrivato, anche tu
che sei entrato in questa tenda oggi per la prima volta, anche tu
che non hai mai sentito parlare di questa Comunità, sei unico,
prezioso ed irripetibile davanti a Dio ed hai il tuo posto pronto
che ti aspetta.
E poi c’è una seconda tentazione che caratterizza Babilonia ed è
la volontà di questi uomini di primeggiare. Essi dicono: facciamoci
un nome, diventiamo grandi. Questa, fratelli, è una tentazione
terribile per una comunità cristiana, la tentazione cioè di essere
riconosciuti, apprezzati, di farci un nome, di essere un movimento
forte, di contare qualcosa. Ma chi se ne importa del riconoscimento
degli uomini?! Chi se ne importa di farsi un nome davanti al mon-
do?! Dio e solo Dio mi dà il mio nome e io non voglio nessun nome
dal mondo. Il Signore vuole che siamo tanti? E noi saremo tanti,

80
infallibilmente. Il Signore vuole che siamo pochi? E noi resteremo
pochi qualsiasi cosa facciamo, lode a Dio! Fossimo anche cinque,
fossimo anche tre non fa nulla, ciò che conta è che noi siamo quelli
che vuole il Signore. Questa volontà di farsi un nome, di essere
grandi, crea una falsa unità, una falsa comunità, ed ecco che a Pen-
tecoste Dio fa piazza pulita di tutto questo, ecco che a Pentecoste il
fuoco dello Spirito cancella la confusione di Babilonia.
«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano
tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un
fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la
casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si di-
videvano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati
di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo
in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a
Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo.
A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno
li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per
la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse
Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua
nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della
Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della
Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani
qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare
nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”. Tutti erano stupefatti
e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: “Che cosa significa questo?”»
(At 2,1-12).

A Pentecoste in verità il Signore ha compiuto due miracoli: non


solo ha dato il dono delle lingue, che conosciamo bene perché lo
vediamo continuamente nelle nostre assemblee, ma ha compiuto
anche un miracolo di ascolto, è stato presente sulla bocca di chi
parlava, ma anche nelle orecchie di chi ascoltava, perché ognuno
dei presenti sentiva annunciare il Vangelo nella sua propria lingua,
cioè nelle sue proprie categorie, secondo il suo modo di pensare.
Quando il Signore entra nei cuori le molte lingue diventano una;

81
i diversi punti di vista, i diversi metodi, le diverse prospettive si
unificano e tutti comprendono l’altro nella sua propria lingua, vale
a dire che non c’è bisogno che io mi sforzi di adeguarmi all’altro, è
l’altro che spontaneamente mi capisce nel suo proprio linguaggio.
Questo dono di ascolto è il fondamento dell’unità che nasce
a Pentecoste. Nessuno può dire di cercare l’unità se non ascolta.
Sono sempre rimasto colpito da una semplice constatazione: Gesù
tutto sommato ha parlato poco, ha passato solo una piccola parte
della sua vita insegnando e predicando, normalmente si calcola
circa tre anni, ma la gran parte, trent’anni almeno, è rimasto na-
scosto a Nazareth. Cosa ha fatto Gesù nei trent’anni di Nazareth?
Ha ascoltato! Sì, Gesù prima di cominciare a parlare ha ascoltato,
ha imparato a conoscere gli uomini e la sua propria umanità e
soprattutto ha ascoltato il Padre, tutto proteso ad ascoltare la Sua
volontà. Questo, cari fratelli, significa una cosa semplice: per una
parola che diciamo dobbiamo ascoltarne dieci, se parliamo per
un’ora dobbiamo prima ascoltare per dieci. Non c’è dubbio: l’unità
inizia dall’ascolto.
In tutta la Bibbia, il segno infallibile dell’azione di Dio è che
quelli che assistono rimangono sbalorditi e così anche nel giorno di
Pentecoste tutti i presenti, vedendo questo segno potente, vedendo
l’inversione di Babilonia, la guarigione dalla divisione, restano
stupiti e dicono: «Che meraviglia! Ci capiamo di nuovo, parliamo
di nuovo la stessa lingua!». Dov’è oggi questo stupore fratelli? Ci
siamo abituati perfino ai prodigi di Dio, lo dico a nostra vergogna!
È solo da pochi anni che sono in Comunità, ma quando sento i
racconti degli inizi, quando sento parlare, ad esempio, Patti Gal-
lagher-Mansfield degli inizi del Rinnovamento in USA, o quando
leggo i libri di Jacqueline sugli inizi della Comunità, una cosa mi
colpisce sempre: loro non capivano quello che il Signore stava fa-
cendo, non avevano la minima idea di ciò che stava accadendo, ma
erano pieni di stupore. Dopo hanno capito, dopo, quando hanno
potuto ritornare su ciò che avevano vissuto e riflettere, ma all’ini-
zio c’era solo lo stupore.

82
Guai a noi, fratelli, nel momento in cui pretendessimo di aver
capito tutto, guai a noi nel momento in cui pretendessimo di «met-
terci in tasca» lo Spirito Santo, come se fossimo noi i proprietari
dei carismi che abbiamo ricevuto, guai a noi! Perché il Signore fa
continuamente cose nuove, è un artista e un artista non si ripete
mai. Chi pretende di aver capito, chi presume di avere dei doni è
fermo a ieri e non comprende invece che il Signore guarda sempre
avanti e fa cose nuove. Torniamo a questo stupore, vi prego, in
nome di Dio. Vi supplico, impariamo di nuovo a stupirci come
bambini dell’opera grande che lo Spirito compie in mezzo a noi.
Ve lo chiedo in ginocchio, ve lo chiedo per amore della Comunità
e di tutti i fratelli che vengono assetati e affamati, perché questo è
ciò che cercano. Non vengono a chiederci la nostra sapienza, non
vengono a chiederci nemmeno i nostri carismi, vengono a chiederci
di vedere l’opera di Dio, vengono per stupirsi, con noi e in mezzo
a noi, delle meraviglie che Lui compie.

Una Pentecoste permanente


Come possiamo conservare lo slancio della Pentecoste anche
oggi? Come possiamo mantenere viva la Grazia degli inizi? Sembra
una contraddizione, non è vero? Come si può conservare il vento?
Come si può mantenere un incendio? Non si può. Non si possono
fissare quei momenti come se dovessero durare per sempre, ma si
può rimanere noi continuamente aperti a quell’impeto che cam-
bia sempre, vivendo in un Rinnovamento continuo. Dobbiamo
imparare da Maria. Maria la silenziosa, Maria la prudente, Maria
che tace e prega, Maria che conserva tutte queste cose meditan-
dole nel suo cuore (Lc 2,19). Meditandole… il primo segreto per
restare sempre nuovi è la meditazione continua dei prodigi che
Dio compie.
Non basta l’emozione, non basta essere travolti da Dio se poi
tutto si ferma ad un momento superficiale, bisogna invece che l’o-
pera di Dio si depositi nel cuore e che ci ritorniamo continuamente

83
con la meditazione personale, con la preghiera personale. È bello
pregare in Comunità, è bello lodare Dio tutti insieme, ma se non
preghiamo mai da soli, se non abbiamo una preghiera individuale
profonda e amorosa, se non abbiamo una meditazione attenta e
consapevole non tratterremo ciò che abbiamo vissuto e ci scivolerà
addosso come l’acqua sulla pietra. Guardiamo a Maria. Noi siamo
la Comunità Maria, il nostro carisma è essere Maria e se vogliamo
essere Maria dobbiamo fare ciò che ha fatto lei. E cosa fa Maria in
attesa della Pentecoste? Tace e prega, tace e prega.
Gli apostoli dopo l’Ascensione erano tutt’altro che uniti, era-
no tutt’altro che una comunità. C’era Simone lo zelota che non
vedeva l’ora di prendere in mano la spada e cacciare i Romani e
c’era Matteo il pubblicano che in passato aveva collaborato con
i Romani, riscuotendo le tasse per loro conto. Come potevano
essere uniti questi due? Non si può immaginare due persone più
diverse: l’ex terrorista e l’ex collaborazionista. Finché c’era Gesù
in mezzo a loro erano il Suo fascino e il Suo carisma a tenerli
insieme, ma adesso? Come possono ancora andare d’accordo? E
poi c’era Pietro, che stanco e deluso dice: «io me ne torno a pe-
scare», come dire «Che altro possiamo fare? È tutto finito, tanto
vale tornare alla vecchia vita» e gli altri: «veniamo anche noi»
(cf Gv 21,3).
E Maria cosa fa? Si trova in mezzo a questi Dodici, delusi, stanchi
e sbandati e cosa fa? Io cosa avrei fatto al suo posto? Io penso che
mi sarei rimboccato le maniche, avrei cercato di calmare Simone,
avrei parlato con Matteo: «buoni state calmi, non litigate», poi
sarei andato a chiamare Pietro, lo avrei incoraggiato… insomma,
avrei fatto io il pastore, avrei cercato di raccogliere queste persone
intorno a me, ricostituendo l’unità. In fondo è di Maria che stiamo
parlando! Maria avrebbe tutti i titoli per essere lei il pastore di que-
sta comunità: è la più carismatica di tutti, è la più saggia, essendo
la madre del Signore godeva certamente di un prestigio assoluto e
di un’autorità indiscussa. Ma Maria non vuole questo, non vuole
diventare lei il pastore, non vuole che queste persone si raccolga-

84
no intorno a lei. Maria prega perché ascoltino l’Unico Pastore, il
Signore Gesù, perché lei sa che Gesù è sempre presente e vivo in
mezzo alla Comunità e allora prega e domanda per questi undici
dispersi e abbandonati il dono dell’ascolto, perché Gesù l’ha detto:
«le mie pecore ascoltano la mia voce» (Gv 10,27). Sarà solo l’ascolto
a renderci pecore di Gesù, sarà l’ascolto a farci riconoscere la voce
del Pastore in mezzo a noi.
E allora Signore, come Maria io ti domando il dono dell’ascolto
per tutti questi fratelli. Non sono io il Pastore, non voglio esserlo,
ma vieni tu stesso a guidarci, fa’ che ti ascoltiamo davvero per esse-
re davvero il tuo gregge, tutti, nessuno escluso. Manda uno Spirito
di ascolto sulla Comunità Maria, perché la comunità ne ha bisogno,
perché senza di te siamo dispersi e sbandati… vieni, Spirito Santo,
e fa’ di noi un solo gregge, sotto un solo Pastore.

Riconoscere la voce del Pastore


È fondamentale imparare a riconoscere la voce del Pastore,
perché solo questa voce ci fa gregge, solo questa voce ci raduna:
imparare a riconoscere la voce del Pastore quando parla, anche
attraverso i più piccoli, è il fine di ogni discernimento ed il segre-
to dell’unità. Nella lettera ai Romani san Paolo detta una regola
fondamentale per qualsiasi comunità:
«Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valu-
tatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto,
ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come
in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno
tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo
un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli
uni degli altri. Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno
di noi (…) gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,3-10).

Gareggiate nello stimarvi a vicenda… È l’unica competizione


che può esserci tra noi: gareggiate a chi considera migliore il fra-

85
tello. Gareggiate nel ritenere che il fratello abbia un discernimento
migliore del vostro, gareggiate nel pensare che abbia più carismi
di voi. Mai più si senta dire che il tale o il talaltro non ha carismi:
gareggiate nel riconoscere i carismi ai fratelli, non nel negarglieli!
Per conservare l’unità tra noi il Signore ha dato a questa Comu-
nità una grande risorsa, che è il discernimento comunitario. È una
cosa piuttosto nuova nella Chiesa, che prima del Concilio esisteva
solo negli ordini religiosi, perché normalmente nella Chiesa il
discernimento è affidato a uno solo: il Papa, il Vescovo, il Parroco
eccetera… c’è un ordine gerarchico e quindi una sola persona a
cui spetta l’ultima decisione. Il Concilio Vaticano II ha portato
una novità nella Chiesa espressa dalla parola «collegialità». Cosa
vuol dire collegialità? Vuol dire che il discernimento è sì di uno
solo, però questi deve comunque tenere conto del parere di tutti,
deve ascoltare tutti. Così fa un parroco con il Consiglio Pastorale
o un Vescovo con il presbiterio. Questo è un bel passo avanti, ma
la Comunità Maria, e gran parte del Rinnovamento per la verità,
è ancora più avanti rispetto a questo, perché il nostro è un discer-
nimento comunitario, non è cioè la decisione di uno solo, ma di
una comunità intera che decide «con un cuore solo e un’anima
sola» (cf At 4,32).
Come è possibile questo? Come è possibile essere tutti concordi e
unanimi nel nostro giudizio? In ogni assemblea umana le decisioni
si prendono a maggioranza perché l’unanimità non si trova mai,
anzi, quando la si trova c’è il fondato sospetto che i partecipanti
non siano stati liberi nella loro scelta, ma nello Spirito le cose
vanno diversamente. Nello Spirito noi siamo chiamati a cercare il
pensiero di Cristo, non il nostro, ad ascoltare la voce del Pastore,
non la nostra, ed è questo a rendere possibile il discernimento
comunitario, e questo modo di discernimento va applicato a tutti
i livelli: non accada mai che uno solo decide per tutti!
Se quando siamo in un gruppo a pregare uno «sente» una cosa ed
uno un’altra quello è il momento di applicare questo discernimento
comunitario, cioè ascoltare insieme la voce del Pastore, metterci

86
insieme alla ricerca del pensiero di Cristo. Attenzione: nessuno
può dire «io ho il pensiero di Cristo», perché il pensiero di Cristo
è infinito, sorpassa la nostra umanità, la nostra piccola e povera
capacità di comprensione. D’altra parte, proprio perché infinito,
il pensiero di Cristo riuscirà ad abbracciare ogni punto di vista
ed ogni sfumatura di una questione e così facilmente accadrà che
in una discussione ciascuno colga legittimamente un frammento
diverso di quello stesso pensiero. Fare unità allora significherà cer-
care il modo in cui questa diversità si ricompone, così da ritrovare
quel Pensiero unitario che tutti ci trascende.
Immaginate un prisma: quando la luce lo colpisce si frammenta
in tutti i colori dell’iride. In un certo senso il nostro lavoro è ri-
comporre la luce originaria che si è scomposta passando attraverso
la nostra umanità. Questo non è cercare il compromesso, non è
mettersi d’accordo, ma piuttosto cercare una verità superiore che
ricomprenda tutti i nostri frammenti di verità. Pensate la verità
come una sfera. Nessuno può cogliere l’interezza di una sfera da
solo, avrò sempre bisogno di un altro che mi riveli il «lato oscuro»,
quello che sfugge alla mia comprensione, come quando si fa una
mappa della Luna. Per questo nessuno da solo può fare un discer-
nimento autentico, avrò sempre bisogno dell’altro che mi mostri
ciò che non riesco a vedere. Questo richiede un atto di fede, fede ed
umiltà, fede nel fatto che lo Spirito Santo parli per bocca del mio
fratello e umiltà per riconoscerlo. Per questo bisogna gareggiare
nello stimarsi a vicenda. Allora non ascolterò il fratello, ma Gesù
che parla in lui.
Quando si riesce a far questo accade una cosa sorprendente:
nessuno nella discussione si sente messo da parte, nessuno esce
sconfitto, nessuno pensa che il suo punto di vista sia stato tralascia-
to o dimenticato. Normalmente in una discussione c’è un vinto e
un vincitore, prevale un parere sull’altro, quando invece il discer-
nimento è autentico tutti sono contenti, perché ognuno riconosce
nella decisione finale il pensiero di Cristo che si è manifestato ed
in esso la parte vera del proprio pensiero, quello che apparteneva

87
a Gesù-in-lui. In una comunità cristiana non si ragiona secondo
il criterio della maggioranza, cari fratelli, perché spesso il Signore
dà la parola vera al più piccolo, al più ignorante, a quello che non è
capace di far valere la propria idea. C’è un articolo bellissimo nella
Regola di san Benedetto, in cui si chiede all’abate, per le questioni
di maggiore importanza, di consultare tutti i monaci e soprattutto i
più piccoli, appunto perché, sottolinea Benedetto, «spesso il Signo-
re ispira al più giovane la decisione migliore». Certo, poi deciderà
l’abate nella sua responsabilità, nella sua autonomia, ma la regola
lo obbliga a sentire tutti… è bellissimo!
Cosa fare se non riusciamo a raggiungere un accordo? Cosa fare
se nonostante tutta la preghiera non riusciamo a ricomporre l’unità
originaria della luce? Una cosa semplice: aspettiamo! Aspettiamo
che il Signore faccia luce, perché se non lo fa vuol dire che non è il
momento di decidere. Non cedete mai al decisionismo, alla fretta,
meglio la paralisi, meglio non far nulla che rischiare di non fare
la volontà di Dio!
Se poi alla fine, dopo aver pregato, dopo aver chiesto a Dio il
dono dell’ascolto ed essersi purificati di ogni inimicizia, dopo aver
cacciato lo spirito di divisione che serpeggia sempre tra noi, ancora
non si riesce ad arrivare ad un discernimento comune allora ci si
sottomette alle autorità superiori. È questo il vantaggio di essere in
una Chiesa gerarchica, abbiamo sempre qualcuno al di sopra di noi
che ha la funzione di garantire per noi la verità. Come vedete, tutto
ha lo scopo di salvaguardare innanzitutto il bene dell’unità, che è
il bene più prezioso, quello che definisce la nostra stessa essenza
di Comunità. Mettiamo ogni cura nel salvare il tesoro che Dio ha
posto nelle nostre mani, la chiamata ad essere Comunità.
XXVII Convegno internazionale, Fiuggi 2003

88
2
I sentimenti di Gesù

Il modello unico
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù», questa frase, che è
la «profezia» del nostro convegno, viene da un brano del secondo
capitolo della lettera ai Filippesi, che contiene probabilmente un
antichissimo inno liturgico, preesistente allo stesso Paolo; è una
delle pagine più alte di tutto il Nuovo Testamento e merita quindi
di essere letta per intero, anche per capire il contesto in cui questa
frase si colloca, ed interpretarla correttamente.
«Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa
carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o
vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri su-
periori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche
quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio
l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di
servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come
uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una
morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di
sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo
è Signore!» (Fil 2,1-11).
Sappiamo che Paolo ha scritto questa lettera dal carcere, dove era
prigioniero a causa di alcuni tumulti provocati dalla sua predica-
zione e durante questo periodo scrive alla comunità di Filippi, che
sapeva in difficoltà. Era in difficoltà per due ragioni: innanzitutto

89
perché perseguitata e poi perché divisa. Notate che noi Cristiani
siamo sempre perseguitati, è fisiologico, ma la persecuzione di-
venta veramente pericolosa solo se si accompagna alla divisione,
perché una comunità unita potrebbe anzi trarre giovamento da un
periodo di persecuzione e rafforzarsi, mentre quando la persecu-
zione si abbatte su una comunità divisa ne aumenta le divisioni.
In questo contesto, Paolo scrive ai Filippesi raccomandando due
cose che nella lettera ritornano continuamente: unità e umiltà. Ed
è chiaro che le due cose vanno insieme, perché l’umiltà è, in un
certo senso, la condizione dell’unità, non può esserci questa senza
quella. Solo quando c’è una grande stima reciproca può esserci vera
unità. Avete sentito san Paolo: ciascuno in tutta umiltà consideri
gli altri superiori a se stesso! È questo il segreto della comunione.
Finché non c’è questa disposizione d’animo reciproca i rapporti tra
noi saranno conflittuali o al massimo improntati ad una benevola
condiscendenza, che è cosa assai diversa dall’amore e al limite può
risultare offensiva. Non c’è niente da fare, finché uno si considera
superiore agli altri i suoi rapporti saranno conflittuali, perché cer-
cherà di affermarsi, provocando ovviamente una reazione. È solo
quando si comincia a considerare gli altri superiori a se stessi che
diventa possibile la comunione: è la logica dell’occupare l’ultimo
posto, come insegna Gesù, che è il solo modo per non vivere in
una continua competizione. Ognuno di noi vive in tante comuni-
tà, non c’è solo la Comunità Maria, c’è il condominio, l’ufficio, il
circolo degli amici… In tutti questi contesti vale sempre la stessa
regola: se volete vivere in comunità imparate l’umiltà, cioè scegliete
l’ultimo posto.
E da chi potremo imparare l’umiltà? Chi sarà il nostro maestro?
Gesù, è chiaro. Nessuno è umile se non Gesù, solo Lui è abbastanza
umile da poter essere maestro al mondo intero, e ce lo dice Lui stes-
so: «imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Le
parole di Paolo che abbiamo ascoltato sono innanzitutto un inno
all’umiltà di Gesù, quindi, se vogliamo imparare l’umiltà, è qui, a
queste parole, che dobbiamo guardare.

90
La prima cosa da notare è che avere in sé i sentimenti di Gesù
significa più che averlo per maestro, averlo per modello. Non si
tratta di imparare una dottrina: l’unità non si fa con il molto sa-
pere, ma con il molto amare e dunque non basta la conoscenza,
serve la somiglianza. Dobbiamo diventare come Gesù. Non basta
avere le sue idee, dobbiamo avere i suoi sentimenti. Proprio com-
mentando questo brano, Benedetto XVI scrive: «Si tratta non solo
e non semplicemente di seguire l’esempio di Gesù come una cosa
morale, ma di coinvolgere tutta l’esistenza nel suo modo di pensare
e di agire. La preghiera deve condurre a una conoscenza e ad una
unione nell’amore sempre più profonde con il Signore, per poter
pensare, agire e amare come lui, in lui e per lui».
Quindi per avere in noi i sentimenti di Gesù non possiamo
limitarci ad un’imitazione esteriore, che sarebbe inevitabilmente
di carattere moralistico: non si tratta di sforzarsi di produrre in
noi i sentimenti di Gesù con la nostra forza di volontà. Questo è
un errore che fanno in molti, ed è uno dei più grandi vizi della
vita spirituale: sappiamo che Dio è buono e quindi ci sforziamo
di essere buoni, sappiamo che dovremmo essere felici e quindi ci
sforziamo di esserlo, come se la vita spirituale fosse qualcosa che
produciamo da noi stessi, con le nostre forze… non fatelo! Non si
tratta di essere un po’ più buoni o un po’ più felici, si tratta invece
di avere il cuore cambiato, perché spontaneamente, da se stesso,
inizi a sentire come il cuore di Gesù. Avere i sentimenti di Gesù
implica avere il cuore di Gesù, è imparare a pensare, agire ed amare
come Gesù. In pratica significa diventare un altro Gesù, come san
Francesco, che i suoi contemporanei chiamavano «alter Christus»,
un altro Cristo.
Ma se Dio ci chiede questo è perché è possibile! Nel Vangelo di
Giovanni Gesù dice: «chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9)
e noi possiamo dire, con altrettanta verità: «chi ha visto me ha
visto Gesù», perché se abbiamo i sentimenti di Gesù, se pensiamo,
amiamo ed agiamo come Lui, se abbiamo il suo cuore, noi siamo
Gesù, totalmente identificati con Lui. Ricordatevelo bene, nessuno

91
può cambiare, non siamo noi a cambiare noi stessi, ma veniamo
cambiati, e c’è tutta la differenza del mondo. E come accade che
veniamo cambiati? Dall’amore. L’uomo diventa ciò che ama: tenete
fisso lo sguardo su Gesù, amatelo appassionatamente e vi accor-
gerete che piano piano, quasi senza sforzo, venite cambiati in Lui.

Cosa sono i sentimenti?


A questo punto allora diventa importante capire quali sono i
sentimenti di Gesù, visto che dobbiamo farli nostri, ma prima di
questo permettetemi una precisazione, perché normalmente in
italiano la parola «sentimento» significa qualcosa di abbastanza
diverso da ciò che intende san Paolo ed è importante capire la dif-
ferenza, o ci sfuggirebbe il senso profondo del discorso. La parola
greca usata da Paolo è fronémata, noi dobbiamo avere i fronémata
di Gesù. E cosa sono? Tradurre con «sentimenti» è giusto solo
a metà, perché in italiano non c’è una parola che corrisponda
esattamente al senso della parola greca. Nel linguaggio comune,
soprattutto dopo il Romanticismo, pensiamo ai sentimenti come
qualcosa di fondamentalmente irrazionale, qualcosa che ci accade
indipendentemente dalla nostra volontà e generalmente ci travolge,
qualcosa di improvviso e involontario, che spesso consideriamo
pericoloso o destabilizzante. Tendiamo ad usare le due parole
«sentimento» ed «emozione» come se fossero sinonimi. In greco
invece si distingue con attenzione, e per esprimere quello stato
d’animo che noi identifichiamo con l’emozione i Greci usavano la
parola epithymía, che generalmente viene tradotta con «passione»,
i fronémata invece sono ben altra cosa.
La parola viene dal verbo fronéo, che vuol dire «sentire», ma
anche «pensare», è un sentire diverso dal sentire della passione, è
un’esperienza che è al tempo stesso della ragione, della volontà e del
cuore: tutta la persona è coinvolta. Dobbiamo finirla di separare
mente e cuore come se fossero cose distinte, l’uomo è un tutt’uno,
e ragione e sentimenti devono lavorare insieme, agire insieme,

92
collaborare e sostenersi l’una con l’altro, perché l’intelligenza non
è capace di conoscere una cosa che non ama, o non saprebbe come
indirizzarsi, e l’emozione, se non è sostenuta e confermata dalla
ragione, dura lo spazio di un mattino. Questo è anche il motivo per
cui i nostri ragazzi, e noi stessi per la verità, sembriamo incapaci di
relazioni durature, perché confondiamo sentimenti ed emozioni,
fronémata ed epithymía. L’amore è più di un’emozione: è una scelta,
una decisione e richiede un atto sia della volontà che dell’intel-
ligenza. Per avvicinarci al senso greco di fronémata, dobbiamo
distinguere sentimenti ed emozioni e definire i sentimenti come
«emozioni confermate dalla ragione». È in questo senso che Paolo
ci dice di avere i sentimenti di Gesù, perché sarebbe impossibile
avere le sue emozioni, che sono quanto di più soggettivo ed inco-
municabile ci sia, invece possiamo essere così profondamente uniti
a Lui, come dice Benedetto XVI, da pensare, amare ed agire nello
stesso modo, fino a essere con Lui un cuore solo ed un’anima sola.
E allora quali saranno i sentimenti di Gesù che dobbiamo fare
nostri? Sono molti evidentemente, Gesù è stato certamente un
uomo appassionato, in cui i sentimenti fluivano con abbondanza,
ed uno studio completo dei suoi sentimenti richiederebbe molto
tempo, ma poiché siamo partiti dall’umiltà voglio concentrarmi
su tre di questi, che mi sembrano rivelare particolarmente la sua
umiltà. Parleremo quindi della tristezza, della gioia e del desiderio
di Gesù.

La tristezza di Gesù
Nel Vangelo di Marco Gesù stesso ci parla della sua tristezza,
quando dice «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mc 14,34).
Innanzitutto mi piace notare una cosa: Gesù è talmente libero che
non ha paura di mostrare ai suoi discepoli la sua debolezza. Noi ci
aspettiamo che i nostri capi siano sicuri e incrollabili, vorremmo
seguire uno che è sempre vincitore; Gesù invece vuole condividere
tutto con i suoi, mostra la sua umanità senza vergogna. Davvero in

93
quel momento li sta trattando da amici più che da discepoli. Poco
prima aveva detto «non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15)
ed ora mette subito in pratica questa affermazione, condividendo
con loro la sua intimità senza paura né vergogna, perché è solo
all’amico che io mostro la mia debolezza.
Questo è anche il segreto della tenerezza. Solo chi non ha paura
di lasciar vedere la propria debolezza può essere tenero, perché
offrire tenerezza significa anche presentarsi indifesi, rendersi vul-
nerabili, per questo spesso abbiamo paura di mostrare tenerezza
verso gli altri. E invece Gesù con questo suo gesto fa intuire un
modo nuovo di governare ed esercitare l’autorità: non con la for-
za, ma con la debolezza, perché, sembra un paradosso ma è così,
solo chi è molto forte non ha paura di mostrarsi debole, solo chi
confida veramente nel Signore ha il coraggio di mostrarsi indifeso
agli altri. È il segreto dell’autorità cristiana: un’autorità paradossale
che si basa non sulla forza, ma sulla debolezza, perché come dice
Paolo «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
Dunque Gesù si mostra debole, chiede aiuto e sostegno nella sua
tristezza. E perché è triste? Notate che non dice di aver paura, ma
di essere triste. Nella sua situazione, sapendo ciò che sta per acca-
dere, potremmo aspettarci la paura, ma Gesù non sta pensando a
se stesso, la sua tristezza ha un’altra origine.
Un altro episodio, accaduto pochi giorni prima, ce lo fa com-
prendere. Gesù arriva a Gerusalemme per il suo ultimo viaggio
e prima di entrare in città si ferma a contemplarla dall’alto, dal
Monte degli Ulivi appunto, e contemplando Gerusalemme scoppia
in pianto, dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno,
quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per
te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee,
ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno
te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra,
perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc
19,42-44). Piange perché Gerusalemme non ha saputo riconoscere
il tempo in cui è stata visitata da Dio, il tempo favorevole della

94
Grazia, in cui il Vangelo le era stato annunciato. Piange perché la
Città Santa, la sposa amata di Dio, ha voltato le spalle al suo sposo
e non lo ha riconosciuto. È questa la grande tristezza di Gesù: la
luce splende nelle tenebre eppure le tenebre non la accolgono, Dio
visita il suo popolo per beneficarlo, per liberarlo e il suo popolo lo
respinge, attirando così su di sé la propria rovina. E sulla soglia del
definitivo rifiuto da parte del suo stesso popolo, poche ore prima
che gli venga preferito un assassino e un terrorista, Gesù sente su
di sé tutto il peso di questo rifiuto.
È un grande mistero questo, un mistero a cui anche io, come
prete, non riesco a rassegnarmi. Come sia possibile cioè che ci
siano uomini che pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo in
tutta la sua potenza, addirittura da Gesù in persona, possano de-
liberatamente voltargli le spalle. Come è possibile se il Vangelo è
oggettivamente il bene e la salvezza, che ci sia chi lo rifiuta? Certo,
molte volte dipende dalla pochezza degli uomini della Chiesa, dallo
scandalo del nostro peccato e della nostra fragilità, ma in realtà
anche se fossimo perfetti annunciatori, anche se fossimo Gesù
in persona, ci sarebbe sempre la possibilità che qualcuno rifiuti
le nostre parole. Se hanno rifiutato Gesù, non può non accadere
anche a noi, a prescindere da quanto siamo preparati o pieni di
Spirito Santo.
In questo senso viviamo in un tempo terribile. Molte volte si
sente dire che viviamo in una sorta di nuovo paganesimo: magari,
dico io, perché i pagani erano aperti al Vangelo, erano come una
terra vergine, inesplorata, tutta da coltivare e fecondare, senza
pregiudizi né precomprensioni, anzi, spesso erano gente molto
religiosa, che andava riorientata, ma la cui spiritualità non doveva
essere costruita da zero. Noi invece viviamo in una società che ha
conosciuto il Vangelo e gli ha deliberatamente voltato le spalle. Ci
vorranno uno o due secoli perché si possa tornare a quella bene-
detta verginità culturale del mondo pagano. Ed avendo deliberata-
mente voltato le spalle al Vangelo questa società si sta suicidando.
Non ho alcun dubbio che il mondo che abbiamo costruito crollerà

95
presto, è troppo disumano, troppo cinico e violento per durare,
quello che mi spaventa però è che non riesco minimamente a ve-
dere oltre l’orizzonte di questo crollo, non so dire cioè quale sarà il
mondo che succederà a questo morente e quello che mi rattrista è
che il crollo non sarà indolore, ma avrà un costo umano altissimo.
Quanti figli ancora dovranno essere abortiti, quanti clandestini
dovranno morire in mare, quanti uomini nasceranno senza nes-
suna speranza di poter mai conoscere il padre o la madre, quanti
poveri dovranno essere avvelenati dallo sfruttamento indiscrimi-
nato della casa comune prima che ci rendiamo conto della follia
della strada che abbiamo intrapreso?
È questa la tristezza di Gesù: Lui è venuto a salvarci, a offrirci la
vita, e su quella mano tesa noi abbiamo sputato. Siamo così arro-
ganti da pretendere di aver ragione contro Dio, a costo di morire, a
costo di annegare sommersi dalla nostra stessa follia. Continuiamo
a ripeterci che tutto va bene, che il nostro è il migliore dei mondi
possibili, e che «le magnifiche sorti e progressive» ci permetteran-
no di salvarci da soli. Oh gli uomini lo sanno che se seguissero il
Vangelo starebbero meglio, più sereni, più liberi, più in pace, in
fondo al cuore lo sanno, ma pur di non tornare indietro, pur di
non arrendersi e riconoscere di aver sbagliato, preferiscono restare
come sono. Sanno che la loro vita fa schifo, sanno che la loro vita
è un sostanziale fallimento, ma rifiutano di sottomettersi, in una
presunzione di indipendenza che poi è un inganno gigantesco, il
più grande di tutti. C’è davvero qualcosa di diabolico in questo,
sapete? E quando lo vedo, quando colgo le linee profonde di ciò
che accade intorno a noi, percepisco anche io un po’ di questa
tristezza di Gesù.
Uno dei sentimenti di Gesù che siamo chiamati a condividere
dunque è proprio questa profonda tristezza per il rifiuto dell’uomo,
questa compassione che ci fa sentire un dolore quasi fisico per il
rifiuto del Vangelo.

96
La gioia di Gesù
Ma naturalmente in Gesù non c’è solo tristezza, anzi, al con-
trario. Gesù è un uomo incredibilmente gioioso e se sono partito
dalla sua tristezza è solo per far risaltare ancora di più la sua gioia.
Sempre nel Vangelo di Luca c’è un passo molto bello che mostra
la gioia di Gesù:
«I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i
demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse loro: “Vedevo
Satana cadere dal cielo come una folgore. (…) Non rallegratevi però
perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i
vostri nomi sono scritti nei cieli”. In quella stessa ora Gesù esultò di
gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del
cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti
e le hai rivelate ai piccoli”» (Lc 10,17-21).
Gesù ha mandato i suoi ad evangelizzare, un po’ come manda
noi, i nostri amici di Nuovi Orizzonti, le Sentinelle del Mattino…
come il Papa in questo tempo sta mandando tutta la Chiesa. E i
settantadue tornano pieni di gioia, perché vedono che la Parola
di Dio, contro ogni aspettativa, è efficace, è una parola così po-
tente che perfino i demoni si sottomettono ad essa. Il Signore
però quasi li rimprovera: ha dato loro un potere immenso, il
suo stesso potere, il potere della Parola, ma non è di questo che
devono rallegrarsi, ma del fatto che i loro nomi sono scritti nei
cieli. Rallègrati, dice Gesù, non perché Dio usa le tue mani e la
tua lingua, ma perché ti conosce, perché il tuo destino è nel cielo,
cioè accanto a Lui.
E al tempo stesso Gesù vede Satana cadere. Non è certo l’ultima
caduta, sia chiaro, la battaglia contro l’anti-Dio, che inganna gli
uomini persuadendoli che Dio è loro nemico e portandoli così a
rifiutare la loro stessa vita e la loro stessa gioia, è appena iniziata;
però, vedendone l’inizio, Gesù già intuisce la vittoria finale. Come
discepoli del Signore noi dobbiamo saperlo, per quanto a volte
l’annuncio del Vangelo possa apparire difficile e senza speranza,

97
noi sappiamo che Satana è caduto, che non potrà ingannare gli
uomini per sempre.
In quello stesso momento Gesù ha un’esperienza spirituale
molto forte, ha quell’esultanza nello Spirito che forse qualche
volta nella preghiera abbiamo sentito anche noi, che certamente
ha sentito Giovanni Battista nel seno di Elisabetta (il verbo è lo
stesso), in quella esplosione di vita che ispira il Magnificat. Questa
esultanza nello Spirito è come un soprassalto di gioia, un attimo
di perfetta comunione con Dio, come un bacio, che ci riempie di
gioia infinita, perché anticipa in noi per un attimo quello che sarà
la nostra condizione permanente in Cielo.
Dunque Gesù esulta, ed esulta nello Spirito, perché il principio
della gioia di Gesù è proprio qui, in questo essere nello Spirito,
cioè in comunione con il Padre. San Bernardo dice che lo Spirito
Santo è il bacio che si scambiano il Padre e il Figlio, dunque essere
nello Spirito significa essere presi in questo bacio, stare tra il Padre
e il Figlio mentre si baciano. Questa è la condizione di Gesù, ma è
offerta a tutti noi, lo sperimentiamo nella preghiera, non è vero?
Forse non sappiamo dargli un nome, ma è proprio questo ciò
che sentiamo. Avere i sentimenti di Gesù quindi significa anche
questo: essere nel bacio del Padre e del Figlio, essere uniti al Padre
quanto lo è Gesù.
E naturalmente da questa gioia scaturisce una lode, ma, notate,
qual è l’argomento, il tema di questa lode? «Perché hai nascosto
queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». Come
la grande tristezza di Gesù è il rifiuto del Vangelo, la sua grande
gioia è che invece piccoli ed umili lo accolgono e il Suo cuore si
allarga, si apre, sembra dilatarsi sempre più, come se quel bacio si
espandesse fino a coinvolgere il mondo intero.
Sempre san Bernardo osserva che la Storia della salvezza procede
di bacio in bacio; che cos’è in fondo la creazione di Adamo se non il
bacio che Dio dà alla terra? Dio fa una statua di fango e poi in essa
soffia il suo Spirito, gli dà un bacio appunto. Da lì in poi la Storia
della salvezza procede di bacio in bacio, con successive effusioni

98
dello Spirito. Anche il nostro Battesimo cosa è stato in fondo se non
il bacio di Dio su ciascuno di noi? Dunque anche noi cresciamo di
bacio in bacio, avanziamo nella gioia.
La cosa bella è che la tristezza ha un limite: Gesù dice «L’ani-
ma mia è triste fino alla morte», quindi la morte è il limite della
tristezza, con la morte ogni tristezza finisce. La tristezza finisce
sempre! La gioia invece non ha limite, perché viene dalla Creazio-
ne, dall’essere benvoluti da Dio, ma giunge fino alla Risurrezione,
cioè va oltre la morte. La gioia non ha limite, è infinita! Si cresce
di gioia in gioia, fino alla gioia perfetta che è quella del Paradiso.
Avere in noi i sentimenti di Gesù significa quindi progredire
nella gioia, sentire lo stesso bacio del Padre e del Figlio, vedere
Satana cadere e godere del fatto che il Regno è accolto dai piccoli.
Come la tristezza di Gesù è la tristezza dell’amore non riamato,
è la constatazione del rifiuto degli uomini, così la sua gioia nasce
dall’accoglienza dell’amore, è la gioia per tanti uomini e donne
che questo Regno di Dio lo accolgono, lo abbracciano, ed entra-
no nella vita. E la cifra della gioia, il carattere che porta con sé, è
lo stupore, perché non è affatto scontato che Dio mi baci, non è
affatto scontato che Satana cada ed il Regno di Dio cresca, anzi è
tutto un dono, un dono talmente gratuito ed immeritato che non
possiamo non commuoverci e rimanere incantati nello stupore.
Mi piace molto guardare in volto le persone che hanno ap-
pena ricevuto l’Effusione dello Spirito, perché hanno quell’aria
sognante, un po’ da adolescenti innamorati, quella sorta di
perpetua meraviglia che li fa stare con innocenza davanti al
mondo e a tutto quello che accade come bambini appena nati. È
un peccato, nel vero senso della parola, che quell’aria sognante
si perda dopo qualche tempo, però anche se si perde non si deve
però perdere quello sguardo stupito e un po’ infantile, quella
meraviglia che ci permette di guardare a tutto ciò che accade
come un miracolo.

99
Il desiderio di Gesù

Dopo la tristezza e la gioia di Gesù il terzo dei sentimenti di cui


vorrei parlarvi è il suo desiderio, la sua passione. Sempre nel Van-
gelo di Luca Gesù ci descrive il suo desiderio con una frase molto
forte. La vecchia traduzione della CEI lo esprime meglio di quella
del 2008: «Ho ardentemente desiderato mangiare questa Pasqua
con voi» (Lc 22,15).
Gesù ha un desiderio ardente, non è un sentimento vago, è qual-
cosa che brucia dentro, una passione che lo muove e lo determina
nel più profondo di sé. Quando parliamo di «desiderio ardente»
di solito intendiamo il desiderio erotico, è quella l’esperienza più
comune che facciamo di questo sentimento, ma ciò che sta dicendo
Gesù non è molto differente. L’amore è passione, è desiderio; e il
desiderio e la passione di Gesù è fare Pasqua con noi: mangiare con
noi, farsi mangiare da noi o per essere più precisi andare a morire
per noi. Nella sua forma più estrema la passione erotica porta con
sé questo desiderio di consumarsi nell’altro, di dare tutto di sé, ma
questo è esattamente il desiderio di Gesù. «Ho ardentemente desi-
derato mangiare questa Pasqua con voi» significa: ho ardentemente
desiderato servirvi fino alla morte, darmi a voi tutto intero, con la
mia stessa vita. Questa è la missione sacerdotale, questo siamo noi
preti, questo è ciò che promettiamo nel giorno della nostra ordi-
nazione, quando promettiamo di conformare tutta la nostra vita
al Mistero che celebriamo, cioè di lasciarci spezzare e mangiare,
proprio come il pane eucaristico è spezzato e mangiato.
Però a ben guardare qui c’è qualcosa di più, qualcosa che non
riguarda solo i preti. O pensavate di poter essere cristiani senza
passare dalla Croce? In realtà per vivere quella crescita di gioia
in gioia di cui parlavamo prima bisogna proprio passare di qui,
perché solo chi muore in croce risorge! Ecco perché desideriamo
ardentemente la croce, non per amore della sofferenza in sé, sareb-
be una follia, ma per amore degli uomini a cui siamo mandati e
perché quell’esperienza dell’amore purificato dal dolore è ciò che

100
resta per sempre, la gioia che cresce senza limiti. Chi va a morire
è felice perché sta andando ad amare, sta compiendo la parola di
Gesù che dice «nessuno ha un amore più grande di questo» (Gv
15,13). Quale madre non sarebbe pronta a morire per i propri figli?
E non si meraviglierebbe se qualcuno la ammirasse per questo?
Non avrebbe la sensazione di non aver fatto nulla di straordinario
in fondo? Questo è la croce: morire per amore, amare così tanto che
la morte diventi una cosa naturale, il compimento di un servizio.
Dunque questo è il sentimento di Gesù che dobbiamo far nostro, il
suo desiderio di amare fino alla fine, di servire fino alla fine, anche
quando questo significa morire.

Ritorno all’umiltà
Eravamo partiti dall’umiltà, vi avevo detto che avrei scelto questi
tra i molti sentimenti di Gesù perché ci parlano della sua umiltà,
però ancora non è apparso chiaro il nesso, allora permettetemi di
esplicitarlo. Tutti e tre i sentimenti di cui abbiamo parlato fanno
perno sulla stessa cosa, cioè il Regno di Dio, ovvero la missione
che Gesù ha ricevuto dal Padre, la salvezza offerta a tutti noi. Se
Gesù è triste lo è perché noi non accogliamo la salvezza, se è felice
è perché il Vangelo è rivelato ai piccoli, se ha un desiderio è quello
di compiere la sua missione; in una parola Gesù non ha alcun sen-
timento per se stesso. È questo il cuore dell’umiltà: Gesù non ha
sentimenti per se stesso, non si tiene in alcun conto, non c’è in Lui
un filo di narcisismo, non cerca in alcun modo il suo interesse, si
dimentica totalmente di sé. Tutto il suo interesse, tutto il suo sen-
timento, tutta la sua passione, tutto il suo desiderio è focalizzato su
di noi: sulla Chiesa, sul Regno Di Dio da annunciare, sul Vangelo
da diffondere, sulla nostra salvezza: sul compiere la volontà del
Padre, il progetto del Padre. Alla fine dei conti tutto il sentimento
di Gesù è verso il Padre e si esprime nel suo amore di figlio.
È la stessa cosa che dice anche Paolo, in modo un po’ più velato,
nel brano da cui siamo partiti: «Ciascuno cerchi non l’interesse

101
proprio, ma quello degli altri» (1Cor 10,24). Non è così scontato
questo totale disinteresse. Siamo sinceri, anche la persona più gene-
rosa è raro che sia del tutto disinteressata, se non altro ha di mira
quella soddisfazione interiore che nasce dall’aver fatto il bene. Ma
l’umiltà invece ci chiede di dimenticarci totalmente.
Attenzione, togliamo di mezzo un equivoco: l’umiltà non è pen-
sare di non valere niente. Nessuno è più umile di Gesù, abbiamo
detto, eppure Gesù era più che consapevole del suo valore infinito,
lo dice anche ai suoi: «voi mi chiamate maestro e Signore, e fate
bene, perché lo sono» (Gv 13,13), allora l’umiltà non consiste nel
fingere di essere qualcosa di diverso da ciò che si è, non è umile una
donna bella che cerchi di esser brutta o una persona intelligente che
si finga stupida. L’umiltà non consiste nel non essere consapevoli
del proprio valore, ma nel non curarsene affatto. Gesù conosce
perfettamente il suo valore, ma non lo considera: «non ritenne un
privilegio l’essere come Dio». Umiltà allora è dimenticarsi oppure,
come dice Paolo nel brano che abbiamo letto all’inizio, considerare
gli altri superiori a se stessi.
Non ritenne un privilegio la sua uguaglianza con Dio, la vecchia
versione della CEI diceva che non la considerò un tesoro geloso.
Anche questa frase è molto difficile da tradurre in italiano ed
entrambe le versioni sono in realtà insoddisfacenti. Letteralmente
dovremmo dire che Gesù non considerò un bottino il suo essere
uguale a Dio, cioè non lo considerò come qualcosa da tenersi stret-
to, di cui appropriarsi con la forza. Il problema è che traducendo
come fa la CEI si guadagna in chiarezza, ma si perde di vista l’o-
rizzonte profondo del pensiero di Paolo, che è altissimo e getta una
luce completamente nuova su Gesù e su Dio stesso. Quando dice
che per Gesù l’essere uguale a Dio non fu una preda o un bottino
implicitamente Paolo sta citando il libro della Genesi. Lo rileggia-
mo per esplicitare questa citazione nascosta:

«Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio
aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete

102
mangiare di alcun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpen-
te: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma
del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non
dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma
il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che
il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste
come Dio, conoscendo il bene e il male”» (Gn 3,1-5).

Vedete la citazione nascosta? Non considerò una preda, qualcosa


da rubare, l’essere come Dio, non cioè come avevano fatto Ada-
mo ed Eva, ingannati dal serpente, che avevano cercato di rubare
l’essere-come-Dio. In realtà noi fin dall’inizio siamo stati creati per
questo, per essere Dio; noi siamo animali destinati a diventare Dio,
però non possiamo rubare la divinità, ma solo riceverla in dono.
Il peccato di Adamo ed Eva consiste non nell’aver voluto essere
come Dio, perché questo è insito nella nostra natura, è ciò che
siamo creati per essere, ma nell’aver voluto conquistare la divinità
a modo loro. È Giovanni che svela definitivamente questo mistero,
quando nel meraviglioso prologo al Vangelo scrive: «A quanti lo
hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12).
Ma capite che ciò che qui è in gioco è la stessa comprensione di
Dio? Tutto gira attorno all’aver capito davvero chi è Dio. Il serpente
insinua che Dio sia geloso dell’uomo, cioè che l’essenza della di-
vinità sia nel potere, nella forza. Un Dio così non può che essere
nemico della libertà dell’uomo, come gli dèi greci, che avevano
vietato a Prometeo il fuoco. Ma il Dio della Bibbia non è così: fin
dall’inizio il suo è un progetto di amore, che si conclude con il dono
dell’uguaglianza con Lui. Per questo l’umiltà di Gesù ci rivela nella
maniera più sconcertante la verità su Dio. Dio è umile, è un Dio che
si svuota di se stesso per incontrarti. Il serpente ti ha ingannato e
ti ha insegnato la paura di Dio e Lui per non farti paura si svuota
della sua divinità e si mette nella condizione del servo!
Avrebbe potuto ovviamente imporsi con la sua forza, ma in que-
sto modo avrebbe dato ragione al serpente, avrebbe dimostrato di

103
volere dei sudditi e non dei figli, invece attraverso l’umiltà di Gesù
ci viene mostrato il vero volto di Dio: un Dio che non vuole pre-
valere con la forza, ma attirare con l’amore, che non vuole sudditi,
ma liberi figli, destinati a ricevere il dono del Padre, il dono cioè
di essere come Lui, di avere i suoi stessi sentimenti.
Svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo, e qui il
mistero si fa vertiginoso, tanto luminoso da essere abbagliante:
assumendo la condizione di servo Gesù ci dice la verità definitiva
su Dio, quella verità che il diavolo non potrà mai capire, perché
il diavolo sa che Dio c’è naturalmente, ma non riesce proprio a
capirlo, perché non può capire l’amore. E la verità su Dio è questa:
Dio ti ama davvero, ti ama così tanto da farsi tuo servo. Ciò che il
diavolo non capirà mai è che l’essere Dio non consiste nell’essere
adorato, ma nel servire.
Dio vuole la nostra adorazione e il nostro amore, ama essere
amato e adorato, ma non per se stesso, ma per noi, perché amarlo
e adorarlo è ciò che ci salva, è il nostro bene, la nostra felicità, la
nostra gioia, invece ciò che Egli vuole per sé è servire. La condi-
zione di servo è la più vera condizione di Dio e se volete essere
Dio, se volete avere in voi i sentimenti di Gesù, se volete essere
presi nel bacio del Padre e del Figlio servite, servite, servite. Amate
fino a morire d’amore, perché questa è la vita cristiana, questo è
il sentimento di Gesù che ricapitola tutti gli altri, qui troviamo la
gioia, qui troviamo lo Spirito, qui troviamo il bacio, qui troviamo
l’uguaglianza con Dio che ci è data in dono.
XXXVII Convegno nazionale, Fiuggi 2013

104
3
Due sorelle e il Signore

Falsa preghiera
Il tema di questo nostro incontro è: «Comportatevi in maniera
degna della chiamata che avete ricevuto» (Ef 4,1), cioè siate all’al-
tezza di quello che vi è stato affidato, del dono e della responsabilità
che Dio vi ha messo nelle mani. In questa meditazione però vorrei
partire dalla figura di Marta, la sorella di Lazzaro, perché dice mol-
to in relazione a questo tema. Vediamo in Marta un cammino, un
percorso di conversione. Il punto di partenza è l’episodio narrato
nel Vangelo di Luca:
«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di
nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la qua-
le, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece
era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: “Signore,
non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?
Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta,
tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”» (Lc 10,38-42).
Dunque il punto di partenza di Marta è una rivendicazione:
«Signore, vedi che mia sorella mi ha lasciato sola». È interessante
notare che queste parole vorrebbero essere una preghiera: Marta si
sta rivolgendo a Gesù, dunque sta pregando; eppure le sue parole
sono piene di astio e rancore. Marta parla a Gesù di sua sorella e
non sta benedicendo la sorella, cioè non sta dicendo bene di lei, al
contrario ne sta parlando male, è come se dicesse a Gesù: vedi che

105
mia sorella è pigra e fannullona e non mi aiuta? Sta chiedendo a
Gesù di farle giustizia contro sua sorella.
Quante volte anche la nostra preghiera è così! Quante volte
anche noi quando parliamo a Gesù dei nostri fratelli abbiamo
questo atteggiamento. Spesso quando ci lamentiamo con Dio della
nostra fatica, delle difficoltà che incontriamo nel ministero, della
situazione della nostra casa e della nostra famiglia c’è una rivendi-
cazione nascosta tra le pieghe della nostra preghiera, un giudizio
implicito sui fratelli che rende falsa la preghiera, perché non ci
porta ad assomigliare a Gesù. Anzi, addirittura questo giudizio
sulla sorella finisce con il diventare un giudizio sul Signore stesso:
«non ti importa nulla?». Marta è talmente centrata su se stessa che
comincia con l’accusare la sorella davanti a Gesù e quasi finisce
con l’accusare Gesù. Ecco, questo comportamento di Marta, que-
sta falsa preghiera, che a volte è anche nostra, non fa il bene della
Chiesa né il nostro, né quello della persona di cui stiamo parlando
a Dio, non costruisce nulla, fa chiudere il cuore nel rancore invece
di aprirlo nell’amore… insomma, non è un comportamento degno
della nostra vocazione.

La vocazione di Marta
Questo però è solo il punto di partenza del cammino e il primo
passo avviene subito dopo, quando Gesù richiama Marta. Notate
che la chiama ripetendo due volte il nome e questo nella Bibbia è
come un segnale, un avvertimento. Quando il nome viene ripetuto
possiamo essere certi che ci troviamo di fronte ad una vocazione,
è così per Mosè, è così per Simone/Pietro, è così per Saulo/Paolo
e tanti altri esempi. Dunque qui non ci troviamo di fronte solo
ad un dolcissimo rimprovero, ma ad una vocazione: Marta cioè
viene chiamata a scegliere anche lei «la parte migliore» come ha
già fatto Maria. Anche questo è importante dal punto di vista del
nostro corso, infatti per comportarci in maniera degna della nostra
vocazione dobbiamo innanzitutto comprenderla bene.

106
Spesso si cade in un grosso equivoco leggendo questo brano,
lo si legge cioè contrapponendo la vocazione di Marta a quella di
Maria, immaginando che Marta sia chiamata al servizio e Maria
alla contemplazione e dicendo quindi che la contemplazione sareb-
be la parte migliore, mentre il servizio sarebbe la parte, diciamo
così, deteriore. Questa lettura in realtà è totalmente fuorviante,
appunto perché Marta, pur partendo da quel peccato di giudizio e
rivendicazione che abbiamo evidenziato, è chiamata anche lei alla
parte migliore, dunque le due vocazioni non sono affatto diverse.
La parte migliore non è vivere nella contemplazione senza fare
altro, come isolandosi in una specie di torre d’avorio lontani dal
mondo e dalla sua fatica, questa non sarebbe neppure una vocazio-
ne cristiana! La parte migliore invece è fare l’unica cosa necessaria
di cui parla Gesù, cioè la volontà di Dio. E se la volontà di Dio è
servire i poveri la parte migliore sarà servire i poveri. Il problema
di Marta non è che sta servendo, ma che sta facendo qualcosa che
non le è stato chiesto, sta svolgendo un servizio che si è inventata
da sola, dunque non sta facendo l’unica cosa necessaria. Marta ha
un suo progetto in testa, un suo schema, secondo cui quando arriva
un ospite di riguardo bisogna comportarsi in un certo modo, e
questo le impedisce di vedere la novità dello Spirito, ha un approc-
cio ideologico alla realtà, non è ricettiva nei confronti della vita e
quindi non capisce che Gesù va accolto in una maniera diversa da
chiunque altro, perché non è un normale Rabbi. La volontà di Dio
è come un vento forte che spalanca la finestra e butta all’aria le
nostre carte e i nostri schemi e ci fa vedere tutto in modo diverso,
per questo bisogna essere continuamente in ascolto, per cogliere
il messaggio di Dio nascosto nell’attimo presente.

La nuova Marta
Passa un anno, e dopo questo tempo vediamo il grande frutto
che questo dolce rimprovero e questa chiamata hanno prodotto in
Marta. Stavolta nel Vangelo di Giovanni, al cap. 11. Il brano è lun-

107
go, quindi non lo leggiamo per intero, però conoscete bene la scena,
è l’episodio notissimo della morte e della risurrezione di Lazzaro,
il fratello di Marta e Maria. Stavolta le parti tra le due sorelle si
invertono. Quando arriva Gesù, quattro giorni dopo la morte di
Lazzaro, è Marta che gli corre incontro, mentre Maria rimane se-
duta in casa. È Maria stavolta ad essere prigioniera di uno schema,
quello della vedovanza e del lutto. Questo schema comporta che
resti lì a piangere ripiegata su se stessa e quindi quasi neppure si
accorge che è arrivato Gesù. Marta invece è cambiata, non è più
schematica, sa che la presenza di Gesù cambia ogni cosa: «anche
ora so che qualsiasi cosa chiederai a Dio, Egli te la concederà» e
quindi esce e gli corre incontro.
Ma soprattutto è verso la sorella che il suo atteggiamento è
cambiato: non va da Gesù a dirgli «guarda la santarellina, neppure
si è alzata per venirti incontro», anzi al contrario fa un gesto bel-
lissimo, pieno di delicatezza: dopo aver accolto Gesù e aver fatto
la sua preghiera va a chiamare la sorella e la va a chiamare, nota
Giovanni, «di nascosto», quasi come se non volesse far vedere a
Gesù le mancanze di Maria, per non metterla in cattiva luce. Notate
il cambiamento? Prima la sua preghiera nascondeva uno spirito
di competizione con la sorella, e quindi un desiderio di abbassarla
per innalzare se stessa, ora invece nasconde la sua mancanza e si
fa carico spontaneamente di ciò che Maria non ha fatto.
E notate anche che una volta arrivata da Maria non la rimpro-
vera, non mette in evidenza il suo sbaglio neppure per correggerla,
ma fa invece appello alla parte migliore che Maria aveva scelto
prima: «Il Maestro è qui e ti chiama», non c’è nessuna sfumatura
di rimprovero in queste parole, Marta non è più in atteggiamento
di giudizio verso sua sorella, sa che Maria ama Gesù e piuttosto che
correggerla mira a rimettere in moto quell’amore, sarà poi l’amore
stesso a correggere Maria. Vedete quanto è cresciuta Marta, come
è passata dal fastidio e dalla malsopportazione, perfino dall’invi-
dia, alla delicatezza dell’amore e alla comunione, cioè al desiderio
di essere insieme alla sorella davanti a Gesù. Già perché, notate,

108
Maria, la santarellina che prima stava ai piedi di Gesù, ci stava da
sola, cioè non le importava nulla che sua sorella non fosse lì con
lei, Marta invece pensa a Gesù, sta nella parte migliore, ma pensa
anche alla sorella, la vuole accanto a sé davanti a Gesù.
Vi sto dicendo queste cose proprio per stare dentro al tema del
nostro incontro, perché è guardando alla conversione di Marta
che comprendiamo in concreto, nello specchio della vita, cosa vuol
dire comportarsi in maniera degna della nostra vocazione. Notate
innanzitutto che Marta, una volta convertita, fa esattamente quello
che dovrebbe fare ogni animatore della Comunità, cioè va dalla so-
rella a dirle «il Maestro è qui e ti chiama». E non è proprio questa la
funzione dell’animatore? Non è il servizio più grande che possiamo
farci l’un l’altro? Innanzitutto dobbiamo prendere coscienza noi
stessi del fatto che il Maestro è qui, cioè della presenza di Dio nella
nostra vita. È questa «la parte migliore» a cui dobbiamo aspirare e
che dobbiamo far nostra, e poi dobbiamo continuamente ripeterlo
ai nostri fratelli e a tutte le persone che incontriamo. Ma c’è di più,
perché ora vediamo le due sorelle coinvolte nella stessa chiamata.
Il brano della lettera agli Efesini da cui è tratto il nostro tema dice:
«Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto,
con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda
nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per
mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come
una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra
vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo
Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti
ed è presente in tutti» (Ef 4,1-6).

L’unità è importante, ed è importante la diversità dei carismi,


ma la diversità dei carismi va gestita, altrimenti genera l’invidia
spirituale, che in una comunità cristiana è il peggiore di tutti i mali.
È terribile essere gelosi dei carismi altrui, è il peccato da cui parte
Marta, ma è anche il primo peccato di Caino verso Abele, quello
che poi lo porterà all’omicidio. Ci porta a giudicare la preghiera

109
degli altri, invece di esserne felici, e quindi ci separa, ci mette in
competizione. È il peccato iniziale di Marta, ma il Signore la fa
camminare, finché arriva addirittura a nascondersi pur di mettere
in buona luce sua sorella. Prima andava da Gesù a parlare male
della sorella, ora va dalla sorella a parlar bene di Gesù.

Con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità


Insomma, dopo la conversione Marta si comporta proprio co-
me dice Paolo: «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità». Con
umiltà perché nasconde se stessa per non mettere in cattiva luce la
sorella, con dolcezza, perché non la rimprovera, ma fa appello alla
parte migliore. E con magnanimità. Magnanimità significa avere
un’anima grande, significa non occuparsi delle cose basse e volgari,
delle piccinerie, dei pettegolezzi, delle stupidaggini che purtroppo
ci sono in ogni comunità, perché siamo esseri umani, segnati dal
peccato originale. Una persona magnanima è una persona che non
si lascia scalfire da queste cose, che nemmeno le vede, perché vola
alto, pensa alle cose alte.
Insomma, in una parola sola, trattatevi bene, avendo cura di
conservare l’unità dello Spirito, cioè avendo reciprocamente rispet-
to e cortesia, perché non si può conservare l’unità se poi ci si tratta
in maniera rude, senza dolcezza, senza la premura di Marta; e fa-
telo per mezzo del vincolo della pace, che è Gesù. È la condivisione
di Gesù a creare la pace tra noi. Non è così scontato il condividere
Gesù, perché condividere Gesù significa aprire al fratello la parte
più intima e profonda di noi. Dobbiamo riconoscere che ci sono tra
noi persone da cui ci difendiamo, siamo sempre un po’ guardinghi,
senza mettere in gioco la nostra emotività, la nostra sensibilità, per
non rischiare di essere feriti, ma non è questo il modo di annuncia-
re Gesù, non è questo il vincolo della pace, dobbiamo invece essere
aperti, liberi e spontanei.
Notate che la conversione di Marta, il suo rivolgersi a Maria con
ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, porta frutto, ed ora le due

110
sorelle sono veramente in comunione; anche Maria si è convertita
e adesso è davanti a Gesù non più nella sua torre d’avorio, nella
sua splendida solitudine, ma in comunione con la sorella, tanto
che fanno la stessa preghiera: «Signore, se tu fossi stato qui mio
fratello non sarebbe morto». Ora sono davvero un cuore solo e
un’anima sola. È merito di Marta naturalmente, è Marta che ha
fatto tutto il cammino verso la sorella, però anche Maria è stata
aperta, ricettiva, si è lasciata mettere in discussione dal comporta-
mento della sorella e così ora le due sono proprio come dice Paolo
«Un solo corpo e un solo spirito», perché hanno condiviso la sola
e medesima speranza, hanno compreso che una sola è la vocazione
a cui sono state chiamate e quindi sono profondissimamente unite
proprio da questa chiamata.
Sì cari fratelli, comportarsi in maniera degna della chiamata
che abbiamo ricevuto significa innanzitutto avere a cuore l’unità,
perché l’unità è frutto della nostra vocazione e questa cosa merita
due parole di spiegazione perché è un po’ diversa dalla nostra
esperienza quotidiana. Normalmente noi pensiamo che l’unità è
prodotta da qualcosa che sta alle nostre spalle, la nostra famiglia,
il nostro lavoro, la realtà a cui apparteniamo, ma per noi cristiani
non è così: la nostra unità viene da qualcosa che sta davanti a noi,
dalla speranza a cui siamo stati chiamati. Quello che ci unisce cioè
è il nostro destino, il nostro futuro, ovvero, in linguaggio cristiano,
la nostra vocazione. Quello che ci unisce è il fatto di camminare
tutti verso la stessa mèta a prescindere dalle enormi differenze che
ci sono tra noi. Quello che ci unisce è una forza che sta davanti a
noi e ci attira, è la passione per Cristo.
Pensate a Matteo il pubblicano e Simone lo zelota: erano en-
trambi di Cafarnao, quindi sicuramente si conoscevano e con tutta
probabilità si sarebbero volentieri tagliata la gola a vicenda, eppure
adesso sono insieme nel gruppo dei discepoli di Gesù. Come è
possibile? Non c’è niente nel loro vissuto che li possa unire, non
si possono immaginare due persone più diverse, però il fascino di
Gesù è talmente forte che li porta a mettere da parte le reciproche

111
differenze e li fa essere una cosa sola. Gesù è come un grande
magnete che ci attira ed orienta tutte le nostre potenze interiori:
la nostra intelligenza, fantasia, sessualità, creatività, tutto si pola-
rizza su di Lui ed allora unirsi è facile, perché scopriamo nel no-
stro fratello quella medesima passione che ci muove. Ecco perché
possiamo diventare una cosa sola nel momento in cui prendiamo
coscienza di essere chiamati.
Questa unità soprannaturale, fatta dallo Spirito Santo, deve
declinarsi nella carne, perché non siamo angeli, siamo uomini e
dunque viviamo nella carne, deve diventare quindi una unità vera,
fatta di gesti concreti, per questo è necessario che la storia di Mar-
ta e Maria abbia anche un terzo passo, che è quello che Giovanni
racconta nel capitolo 12 del suo Vangelo:
«Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava
Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una
cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali» (Gv 12,1-2).
È l’ultima tappa del cammino di Gesù verso Gerusalemme, verso
la Pasqua. La notte prima di fare il suo ingresso in città Gesù si
ferma a cena dai suoi amici e presumibilmente a dormire da loro,
un paio di chilometri prima di arrivare. Qui l’atmosfera è del tutto
serena e pacificata, le tensioni tra Marta e Maria sono del tutto
scomparse, ma quello che è interessante è proprio il contesto, il
fatto cioè che questo incontro avviene a tavola, durante un pranzo.
Quello che voglio dire è che la chiamata all’unità non è una cosa
astratta e lontana, l’unità si fa a tavola, nella concretezza, nella
quotidianità. San Paolo ci dice che dobbiamo essere un solo corpo,
cioè una sola carne, una sola umanità, una sola visceralità. A volte
ho la sensazione che i nostri rapporti siano eterei, molto astratti,
teorici, ma l’unità presuppone il mangiare insieme, richiede di
conoscere l’altro, conoscerlo e volergli bene, perché se amate senza
voler bene non amate affatto.
Ecco, allora dobbiamo imparare da queste due sorelle le regole
della fraternità. Sono loro, nel loro cammino di conversione l’una

112
verso l’altra, a mostrarci come comportarci in maniera degna della
vocazione e del dono che abbiamo ricevuto, il dono della Comunità
Maria.
Corso animatori, Fiuggi 2014

113
4
Rimane in eterno

Secondo Isaia
La frase che avete scelto come tema di questo incontro, «La
Parola del Signore rimane in eterno», è tratta dalla prima lettera
di Pietro (1Pt 1,25), ma a ben guardare è una citazione che Pietro
fa di un brano del profeta Isaia (Is 40,6-8), è quindi una frase che
torna due volte nella Bibbia, ed è interessante notare che passando
dall’Antico al Nuovo Testamento cambia sensibilmente, infatti in-
serendola in un contesto diverso in realtà Pietro dà a questa pagina
un significato nuovo. Leggiamola quindi prima nel contesto di
Isaia e poi in quello di Pietro, in modo da renderci conto di questa
crescita di significato.
«Una voce dice: “Grida”, e io rispondo: “Che cosa dovrò gridare?”.
Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del cam-
po. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del
Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il
fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre» (Is 40,6-8).
Il tema è quello di un ammonimento sapienziale, corrisponde
del resto al tema generale del libro di Isaia, che è tutto un annuncio
della grandezza di Dio. In questo contesto la nostra frase significa:
prendi coscienza dei tuoi limiti: tu non sei Dio, tu sei come l’erba
del campo, tu invecchi e muori, solo Dio rimane per sempre. Un
ammonimento che può sembrare severo, ma in realtà è pieno di sag-
gezza, perché la morte è una maestra esigente, dura, ma saggia, che
ci insegna a vivere, ci insegna la verità e la misura della nostra vita.

114
Proprio il fatto che non siamo immortali né onnipotenti, che
dobbiamo fare continuamente i conti con la nostra povertà, ci gua-
risce dall’orgoglio, dalla pretesa di poter fare tutto e sapere tutto.
La morte è l’ultima custode del mistero. Senza la certezza di dover
morire non ci sarebbe nella nostra vita una domanda su Dio, non
ci sarebbe spazio per il mistero. Due sono i misteri fondamentali
della vita: il nascere ed il morire, ovvero la nostra origine e il no-
stro destino e continuamente ci ricordano questa certezza: noi non
sappiamo da dove veniamo né dove andiamo. Una bella canzone
di Marina Valmaggi paragona la nostra vita ad un volo di gru che
iniziò di là dal mare: mi piace questa immagine: si visualizza facil-
mente questo enorme stormo in volo: nessuno sa da dove viene né
dove va, eppure c’è, e porta una novità, il suo passaggio nel mondo
non rimane senza traccia.
Questo è il mistero fondamentale che sta al centro della nostra
esistenza e ci ricorda che noi non ci apparteniamo, non ci siamo
fatti da soli, non siamo padroni del nostro destino. Ci siamo, ma
potremmo ugualmente non esserci. È la lezione della precarietà,
che anche Gesù ci ricorda (cf Lc 12,22-32). È una lezione dura
naturalmente, ma è fondamentale impararla. Fin qui comunque
è una lezione di sapienza umana, comune anche a tanti grandi fi-
losofi, pensate allo stoicismo, ad esempio, ma su questa base Isaia
aggiunge qualcosa: è vero, l’uomo è come l’erba del campo, dura
lo spazio di un giorno, ma qualcosa che rimane c’è, qualcosa di
eterno c’è: è la Parola di Dio.
Questo pensiero deve darci una grande consolazione, perché
inevitabilmente la morte ci appare come una grande ingiustizia.
La vita desidera l’eternità e dunque istintivamente ci ribelliamo
sempre alla morte, nessuno muore sazio di giorni, a meno che non
sia il Signore ad averlo saziato; e la risposta di Dio alla nostra ribel-
lione contro la morte è proprio questa: la Parola di Dio rimane in
eterno e dunque tu, anche se sei finito, anche se il tuo passaggio nel
mondo sarà come quello di una nave nel mare che non lascia alcun
segno né memoria, rièmpiti di Parola di Dio, rièmpiti di eternità.

115
Su tutti noi è stata detta una Parola di Dio e se la lasciamo vivere
in noi, se la incarniamo, se diventiamo noi stessi una Parola di
Dio, quella Parola che dura in eterno ci rende eterni. I nostri cari
che abbiamo perduto sono essi stessi una Parola di Dio che vive in
eterno e noi possiamo ascoltarla ancora, possiamo farla echeggiare
in noi e dunque, in un certo modo, farli vivere in noi stessi.

Secondo Pietro
Fin qui l’insegnamento di Isaia, ma Pietro riprendendolo lo
inserisce in un contesto del tutto nuovo, perché lo rilegge alla luce
di Gesù, quindi alla luce della sua Pasqua di Risurrezione e della
novità portata dalla Sua persona e così tutto cambia. Rileggiamo
quindi la nostra frase nel contesto della lettera di Pietro, per ren-
derci conto di questo cambiamento.
«Dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità,
per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero
cuore, gli uni gli altri, rigenerati non da un seme corruttibile ma in-
corruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché ogni
carne è come l’erba e tutta la sua gloria come un fiore di campo. L’erba
inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno. E
questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato» (1Pt 1,22-25)

Inizio dalla differenza più evidente: la Parola di Dio di cui Pietro


sta parlando non è la Bibbia, ma l’annuncio del Vangelo. Attenzio-
ne, non il contenuto del Vangelo, ma il fatto stesso dell’annuncio,
questo è ciò che rimane per sempre: l’attimo, l’istante del tuo in-
contro con Gesù vivo, il momento in cui per la prima volta hai ri-
cevuto il kerygma, l’annuncio di Gesù morto e risorto per salvarti,
l’attimo in cui per la prima volta hai scelto Gesù come Signore della
tua vita. Quel momento rimane per sempre, è fissato in eterno!
Non è una sottigliezza dialettica, anzi, la differenza è gran-
de, perché significa che quello che ci fa vivere non è una parola
astratta, teorica, per quanto grande, ma l’incontro con la persona

116
vivente del Signore, l’esperienza di Gesù che abbiamo ricevuto
nel Battesimo, nel canto in lingue, nell’imposizione delle mani.
Per questo siamo vivi: perché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo e
questo rimane per sempre.
Però, ancora prima Pietro dice un’altra cosa formidabile, che
getta una luce nuova su tutto ciò che stiamo dicendo, perché il
centro del ragionamento di Pietro stavolta non è la morte, come in
Isaia, ma la vita comune, il legame che deve unire i fratelli. Rileggo:
«dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità,
per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di
vero cuore».
E c’è tutto un percorso che ci guida alla perfezione della comu-
nione in queste due righe. Ve lo esplicito: prima di tutto dovete
purificarvi con l’obbedienza alla verità. Senza questo l’amore è
una trappola e la comunità un bellissimo vizio. La comunità non
è comunella, non è il volemose bbene, è molto di più e il primo
passo per entrare in questo di più è questa purificazione dell’ani-
ma prodotta dall’obbedienza alla verità, che ci guida a togliere di
mezzo la centralità del nostro io, la pretesa di essere il centro del
mondo, il bisogno assoluto di soddisfare le nostre voglie. Non c’è
comunione, non c’è nemmeno amicizia, senza l’obbedienza alla
verità. Questa cosa è importante, perché oggi vorrebbero giusti-
ficare tutto in nome dell’amore, farci credere che in amore tutto
è permesso, ma non è vero! Se non obbedisce alla verità, se non
mette al primo posto quella purificazione del desiderio che la verità
richiede, non è amore.
Al tempo stesso, ovviamente, la purificazione non basta da sola,
per cui dopo aver purificato le vostre anime, amatevi intensamen-
te, di vero cuore. Mi piace molto questo avverbio: intensamente.
La comunione fraterna invocata da Pietro non è una comunione
solo intellettuale, o virtuale, ma deve essere intensa, appassionata.
Pietro sta dicendo che dovete essere carne l’uno dell’altro, che tut-
to ciò che tocca il fratello tocca me, come l’arco di un violino che
pizzica due corde insieme, secondo una bella immagine di R.M.

117
Rilke. Avete mai pensato di applicare la categoria della passione
all’amore comunitario? Eppure questo è ciò che ci sta dicendo
Pietro: amatevi intensamente, amatevi appassionatamente, perché
se non ha passione l’amore non è autentico; dobbiamo avere una
vera passione per la Comunità Maria, non per le singole persone,
perché altrimenti avremmo perso il legame con la verità, ma in-
nanzitutto per il vincolo che ci unisce; bisogna essere appassionati
all’amore che lo Spirito fa esistere tra noi. Il legame che ci unisce
non è un legame di sentimento né di carne e di sangue, è molto di
più. Il legame della carne inaridisce e cade, come il fiore del cam-
po, mentre il legame nello Spirito dura in eterno. L’amore che ci
unisce è il Vangelo che ci è stato annunziato e dura in eterno, ma
ci ritorneremo. Di questo comunque dobbiamo essere appassionati.
Pietro prosegue dicendo che dobbiamo amarci di vero cuore:
attenzione perché nel linguaggio biblico la parola cuore indica
una cosa diversa da quello che dice nell’uso comune in italiano.
Di solito noi per cuore intendiamo la sede dei sentimenti, quindi
amare una persona di cuore significa amarla con affetto, ma per
la Bibbia la sede dei sentimenti non è il cuore, ma la pancia, o più
precisamente le viscere. Se avesse voluto dire amatevi con affetto,
Pietro avrebbe detto amatevi con tutte le viscere.
Il cuore invece nella Bibbia indica altro, è il centro misterioso e
segreto della persona, il nocciolo radiante di energia e d’amore da
cui provengono non solo le nostre emozioni, ma soprattutto le no-
stre decisioni più radicali, le nostre determinazioni, le nostre scelte.
È la nostra coscienza morale, il santuario di Dio in noi, il tempio
dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel Battesimo. Amatevi
di cuore allora non significa solo «amatevi con passione», del resto
se fosse così l’endiadi «intensamente - di vero cuore» sarebbe solo
una tautologia, invece indica un’intensificazione, una crescita
nell’amore: ciò che Pietro sta dicendo è che dobbiamo amarci ap-
passionatamente, quindi con tutta l’intensità affettiva dell’amore
autentico, e di un amore che provenga dall’intimo, che non sia solo
un sentimento superficiale e passeggero, ma che sia al contrario

118
il frutto di una scelta, di una decisione, perché senza la scelta di
amare l’amore non è niente; fintanto che l’amore è qualcosa che
mi accade, che in un certo modo subisco, fintanto cioè che non
ho scelto di amare con la mia volontà e la mia intelligenza, questo
amore rimane fragile e indefinito.
È chiaro che non posso avere la medesima simpatia umana per
tutte le persone che fanno parte della Comunità, è impossibile, ma
poiché ho una passione vera per il legame spirituale che ci unisce, al
di là e al di sopra della simpatia umana, amo questa persona con il
cuore, cioè con la mia volontà, e dunque scelgo di amarla. In questo
modo cresco nell’amore: è la forza e la determinazione della mia
scelta di amare che mi fa crescere nell’amore, perché ad amare si
impara, perché l’amore non è un demone che si impadronisce di
noi contro la nostra volontà, ma una passione che quando è stata
scelta e approvata dalla ragione mette radici nel cuore e cresce
sempre di più.

Un amore eterno
Tutto questo c’entra moltissimo con i fiori che cadono e la Parola
del Signore che rimane in eterno, perché l’amore, per sua natura,
chiede l’eternità. Il grande poeta e filosofo francese Gabriel Marcel
diceva che amare una persona significa dirle «tu non morirai!».
Questo è vero in due sensi: innanzitutto nel senso che l’amore non
è autentico se non domanda che la presenza dell’altro duri oltre la
morte, se ti amo voglio essere abitato da te in eterno; l’altro senso
in cui è vera questa frase è che amare una persona in un certo mo-
do la eternizza: poiché ti amerò sempre, allora, anche se muori, tu
vivrai per sempre come il mio amato, come l’oggetto dell’amore.
Va da sé che in questo secondo senso solo Dio può dire con verità
questa frase, perché solo l’amore di Dio ha il potere di far esistere
le cose, l’uomo non è creatore, solo Dio può dire: «tutto ciò che io
amo esiste», il compito dell’uomo al massimo è dire «tutto ciò che
esiste io amo». Dal nostro punto di vista, cioè, l’essere viene prima

119
dell’amore, ma non è così in Dio, dove al contrario l’amore è la
causa dell’essere.
Prima di farvi venire le vertigini con la metafisica torno subito
alla concretezza della Bibbia, perché è ora di tirare tutti i fili e por-
tare questa meditazione verso il suo finale meraviglioso. Abbiamo
detto che ciò che rimane per sempre è il Vangelo che ci è stato
annunciato: Gesù Cristo vivo, morto e risorto per noi. Ma nella
misura in cui questo Vangelo ci appartiene anche noi rimaniamo
in eterno, proprio in virtù del legame che ci unisce a Cristo. Ora,
questo vincolo non ci unisce a Cristo individualmente, ma in
quanto membra della Chiesa, in quanto parte di un popolo e di
una comunità, allora sì, anche noi possiamo dire la frase di Marcel:
non solo l’amore di Dio, ma anche il mio amore, in quanto viene
da Dio, ti rende eterno. Tu vivi in eterno poiché sei parte di questa
comunità.
Insomma, quello che stiamo facendo ora, questa giornata che
trascorriamo in semplicità di affetti e preghiera, non è una cosa
da poco, un semplice incontro tra amici, ma lascia una traccia
nell’eternità. Il legame che ci unisce non è come l’erba del campo,
ma è un anticipo del Paradiso e dura in eterno.
Tutti i fratelli di questa comunità, perfino quelli che non co-
nosco, quelli che sono morti o che non ho mai incontrato, quelli
che hanno lasciato la Comunità prima che io arrivassi, vivono in
me, sono in un certo modo parte di me, con una presenza e un
legame più forte perfino di quello carnale che unisce i membri di
una famiglia, e questo legame dura per sempre, perché è il Van-
gelo stesso che ci è stato annunciato. Anche l’amore comunitario
domanda l’eternità, io vorrei essere sempre con voi, vorrei che
questa unità ci legasse in eterno altrimenti non sarebbe intenso
e di vero cuore. Ma Pietro mi dice: la Parola del Signore rimane
in eterno; proprio quella Parola che ci ha rigenerati rendendoci
capaci di amare, per questo l’amore che ci unisce dura oltre la
morte, per questo tutti i fratelli vivono in me, anche quelli che
non sono più.

120
Finalmente è evidente il passaggio da Isaia a Pietro e l’evoluzione
che ha attraversato il nostro concetto in questo passaggio. Mentre
in bocca ad Isaia aveva un sapore un po’ moralista, nelle mani di
Pietro diventa un annuncio di speranza formidabile, che dilata
l’orizzonte umano oltre ogni prospettiva immaginabile e risponde
finalmente alla più profonda aspirazione del cuore umano: se tu
sei parte di questa Comunità, tu rimani in eterno. Tutto cambia
a partire da questa certezza: il nostro modo di vedere la vita, la
morte, l’amore, la comunità, l’amicizia, tutto. Ringraziamo allora
il Signore che chiamandoci in questa Comunità ci ha letteralmente
salvato la vita, nel senso che consegnandoci a questo amore ci ha
consegnato all’eternità.

N.B.
Nella conversazione che è seguita alla catechesi ho avuto modo
di aggiungere una precisazione importante: tutto ciò che è stato
detto della Comunità vale della Chiesa, è il legame con la Chiesa ciò
che ci rende eterni e la Comunità Maria ha valore in quanto parte
della Chiesa, senza questo riferimento sarebbe solo un circolo di
amici. Però è anche vero il contrario: la Chiesa non è un’astrazione
e vive nelle comunità concrete di cui è formata e poiché non posso
amare intensamente e di vero cuore un gruppo generico, tutto il
discorso fatto non ha senso se non si applica ai volti concreti di una
comunità incontrata, che è il modo in cui la Chiesa è venuta a me.
Questo però significa un’altra cosa emozionante: il legame che
dura in eterno va al di là dell’appartenenza specifica di gruppo, così
che, ad esempio, io ho un legame eterno anche con san Bernardo
o san Francesco, per fare un esempio, anche loro sono parte di me
più che la mia stessa famiglia carnale. Però in questo popolo non
si può entrare senza una faccia precisa, senza un volto determina-
to, appunto perché la Chiesa non è un’astrazione. Non è vero che
per facilitare il dialogo ecclesiale dovrei dimenticarmi delle mie
origini e delle mie radici, anzi è vero il contrario: quanto più sono

121
appassionato alla mia comunità tanto più sarò appassionato al
popolo di cui questa comunità è parte, se perdessi la passione per
la comunità invece non acquisterei null’altro in cambio e finirei
con il perdere tutto.
Giornata comunitaria della diocesi
di Todi-Orvieto 2015

122
VIVERE NEL VENTO
Lo Spirito annuncia il Vangelo
1
Operai responsabili nella vigna del Signore

Operai e disoccupati
Voglio leggere con voi una delle più belle parabole del Vangelo:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per
prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro
per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso
le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati,
e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo
darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le
tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se
ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza
far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed
egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”» (Mt 20,1-7).
Gesù prende il materiale per le sue parabole dalle situazioni
concrete della vita, chissà quante volte anche voi avete visto questa
scena: passa il caporale con il camion e raccoglie i braccianti per
andare al lavoro. Però il caporale di questa parabola è un tipo ben
strano: non passa una volta sola, passa alle sei e poi alle nove, alle
dodici e alla fine alle cinque del pomeriggio, quando ormai tutti
già pensano a chiudere la giornata. Ma il Signore non si stanca mai
di chiamare, ci sono quelli che rispondono alla sua chiamata da
bambini e ci sono quelli che rispondono solo alla sera della vita,
poco prima del tramonto della morte, ma non fa differenza, perché
per ciascuno c’è un lavoro, un carisma da esercitare, una missione
da compiere.

125
Però vorrei approfondire un po’ l’immagine di questi lavoratori
dell’ultima ora, perché al di là del simbolismo anagrafico, che
è evidente, c’è una suggestione potente nell’immagine di questi
sfaccendati in piazza, perché, parliamoci chiaro, se uno è ancora
in piazza alle cinque del pomeriggio vuol dire che è uno sfaccen-
dato. Il Signore era già passato, perché non si erano fatti avanti
prima? In realtà credo che quelli vedendolo arrivare scappavano e
si nascondevano ben bene. Ma non facciamo così anche noi? Non
fuggiamo anche noi dalla nostra vocazione, dall’impegno a cui il
Signore ci chiama?
Ma c’è qualcosa di commovente in queste persone ferme ad
aspettare, che non si lascia ridurre a questo giudizio un po’ mora-
lista. Mi fa pensare ad una potente immagine, creata da un grande
poeta americano, T.S. Eliot, nel «coro dei disoccupati», tratto da
una sua opera teatrale, La Rocca:
«Nessuno ci ha offerto un lavoro
con le mani in tasca e il viso basso
stiamo in piedi, all’aperto
e tremiamo in stanze senza fuoco.
Solo il vento si muove
sui campi vuoti e incolti
dove l’aratro è inerte, di traverso
al solco. In questa terra
ci sarà una sola sigaretta per due uomini
per due donne soltanto mezza pinta
di birra amara. In questa terra
nessuno ci ha offerto un lavoro.
La nostra vita non è bene accetta, la nostra morte
non è citata dal Times».
«Nessuno ci ha offerto un lavoro»… «Nessuno ci ha preso a
giornata»… Sentite la solitudine e il vuoto in queste parole? Lo so
che venire in Calabria a parlare di disoccupazione è come parlare
di corda in casa dell’impiccato, però quello che voglio dire è che
la disoccupazione, qui come nella parabola di Gesù, diventa una

126
metafora esistenziale. È terribile la condizione del disoccupato:
la vita stessa sembra perdere di significato. Guardi tua moglie e
i tuoi figli e ti senti un fallito perché non puoi provvedere a loro,
passano i giorni e i mesi e ti chiedi cosa passano a fare perché non
hai uno scopo, un obiettivo, una ragione per vivere. Trasportate
quest’immagine sul piano esistenziale: non è la fotografia di un’in-
tera generazione? Uomini e donne che passano il tempo rincreti-
nendosi davanti alla TV, con la testa piena di stupidaggini, che si
accalorano fino alla violenza per cose che a loro probabilmente
sembrano fondamentali, ma sono in realtà il trionfo del vuoto. È
una generazione a cui nessuno ha dato un impiego, un motivo, un
perché nella vita.
Ma passa Gesù, passa il Grande Caporale, Colui che offre un
senso alla vita, che dà un impiego ai nostri giorni. Passa sempre,
passa anche alle cinque del pomeriggio, quando la vita sembra
ormai avviata alla fine e a tutti dice: «vieni a lavorare nella mia
vigna» e noi, noi che siamo qui, abbiamo sentito la sua chiamata
e abbiamo risposto con entusiasmo. Finalmente abbiamo trovato
qualcuno che riempie il nostro tempo. Non lo dico per banalizzare,
forse anche prima le nostre giornate erano occupate, ma eravamo
come criceti che fanno girare la ruota: frenetici, occupatissimi,
correvamo in continuazione, ma senza avanzare di un centimetro,
senza andare in alcuna direzione. Forse lavoravamo anche più di
adesso, ma ora il nostro lavorare ha un perché.
E questo perché è, appunto, lavorare nella vigna del Signore. Che
cos’è questa vigna, cosa rappresenta? Non è un’immagine inventata
da Gesù, che la riprende dal profeta Isaia, ascoltiamo:
«Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua
vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli
l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate;
in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli
aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora,
abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me
e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non

127
abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha
prodotto acini acerbi?» (Is 5,1-4).

Siamo noi questa vigna, è il popolo di Israele, è la Chiesa. Dun-


que nella parabola di Gesù noi siamo allo stesso tempo gli operai e
la vigna, siamo quelli che devono portare frutto e al tempo stesso
quelli che lo devono raccogliere, siamo la vigna, ma siamo anche
quelli che devono potarla, costruirle un muro intorno per difen-
derla, pigiare l’uva per produrre il vino, insomma, tutto quello che
normalmente si fa in una vigna. Quindi, il frutto che dobbiamo
portare è, in un certo senso, lo stesso lavorare nella vigna, la par-
tecipazione a questa grande opera di Dio.
Ricordo che tanti anni fa, appena arrivato in Comunità, durante
una preghiera sentivo il cuore scoppiarmi di gioia e ringraziavo il
Signore dicendo: «Signore è troppo, troppo bello», ma in quel mo-
mento sentii chiara nella mia mente una risposta, apparentemente
dura: «Ma tu pensi che ti abbia portato qui per fare felice te?». Il
Signore ci fa felici, non c’è dubbio, chiunque abbia sperimentato la
lode lo sa, nessuna gioia è paragonabile a quella che ci fa provare
il bacio di Dio, ma se tutto si fermasse qui, se questo fosse l’unico
scopo della nostra presenza in Comunità sarebbe troppo poco,
vorrebbe dire che la preghiera per noi è come una sorta di droga,
daremmo ragione a quello che chiamava la religione l’oppio dei
popoli. No, il Signore non ci ha chiamati qui solo per farci felici, ma
per rendere felici, attraverso di noi, tutti gli uomini. Il Signore ci ha
chiamato qui per fare di noi operai della gioia, servitori della gioia.
Quindi noi siamo la vigna, ma siamo anche chiamati a diven-
tare operai in questa vigna, operai della gioia, operai perché figli,
beninteso, non salariati o mercenari.

«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse:


“Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho
voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso.
Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto
la volontà del padre?» (Mt 21,28-31).

128
Vedete? Non basta dir di sì al Signore, nella vigna bisogna anche
andarci. Non basta venire a pregare in comunità, abbandonarsi
all’onda della lode, lasciarsi trasportare da questi bellissimi canti…
il Signore vuole operai, gente che lavori! Operai, cioè gente che
fa opere, dove «opere» significa amore, significa carità concreta,
fattiva, verso il fratello. Non possiamo riempirci la bocca e magari
anche il cuore dell’amore di Dio e poi comportarci come lupi l’uno
verso l’altro. Non possiamo venire a pregare e poi disinteressarci
delle persone accanto a noi, non possiamo lodare il Signore e non
essere attenti alla sofferenza e alla fatica di chi accanto a noi fa lo
stesso cammino.
Operai, quindi, ed operai responsabili, così è intitolato il vostro
convegno. L’aggettivo non è nel testo biblico, quindi merita par-
ticolare attenzione. Cosa significa responsabilità? È parola latina,
viene dall’unione del verbo respondeo con il sostantivo abilitas,
significa la capacità di rispondere. Ma se io devo rispondere è per-
ché c’è uno che mi chiama: la responsabilità è la risposta ad una
vocazione. La responsabilità implica allora un rapporto personale,
non c’è una responsabilità astratta, verso un dovere, verso una
legge: la responsabilità è sempre verso una persona, cioè non nasce
da un’astrazione, ma da un rapporto. È importante capire questo,
perché dice molto su come dobbiamo rispondere alla chiamata
di Dio, cioè non con l’obbedienza formale ad una legge, ma in un
dialogo a tu per tu.

Operai santi
E dunque cosa è questa chiamata del Signore? Innanzitutto c’è
una chiamata universale, che ci riguarda non in quanto Comunità
Maria, ma in quanto Cristiani, anzi, in quanto uomini, perché è la
chiamata che tutti gli uomini condividono, quasi una definizione
di uomo, ed è la vocazione alla santità. Dio vuole che siamo santi,
noi e tutti gli uomini, siamo stati creati per questo. Un grande
scrittore francese, Léon Bloy, diceva che c’è un solo dolore ed è

129
quello di non essere santi, perché significa aver fallito il proprio
obiettivo esistenziale.
La prima responsabilità che abbiamo tutti, ma proprio tutti,
quindi è verso Dio, ma anche verso noi stessi, perché se falliamo
questo obiettivo la nostra vita si avviterà a vuoto nel non senso,
nella «disoccupazione» di cui parlavamo prima, sarà la vita del cri-
ceto che fa girare la ruota e non quella dell’operaio che costruisce
qualcosa. Essere operai responsabili quindi significherà per prima
cosa essere spinti da una grande passione, da un grande desiderio.
Badate che ciò che conta non è tanto essere santi, quanto pro-
varci. Nel suo amore infinito Dio considera i nostri poveri tentativi
di amare come un successo. Noi abbiamo un concetto sbagliato di
santità, che ci fa tremare di paura appena sentiamo questa paro-
la, ma ci torneremo dopo, perché prima voglio approfondire un
presupposto necessario: il desiderio. Santa Teresa d’Avila diceva
che una sola cosa è necessaria per diventare santi: desiderarlo.
È il desiderio di santità a mettere in moto la Grazia di Dio su di
noi, ciò che innesca tutto il processo, ma se non si accende in noi
questo desiderio allora tutto rimane statico e bloccato. Ma quanti
di noi desiderano davvero essere santi? Quanti hanno in se stessi
questa benedetta insoddisfazione che fa dire loro: voglio di più
dalla mia vita?
Prendete, ad esempio, il giovane ricco della parabola (cf Mt
19,16-22). Questo giovanotto va da Gesù e gli chiede: cosa devo
fare per avere la vita? Notate che già era uno scrupoloso osservante
della legge, era un uomo di fede, aveva le sue pratiche di pietà e
le sue devozioni, ma tutto questo non gli basta, sente che vuole di
più, capisce che c’è qualcosa oltre l’osservanza formale e desidera
quello. E noi? Siamo come lui o ci siamo imborghesiti e ci accon-
tentiamo del sei politico, del minimo sindacale? Ma non è di sicuro
per questo che siamo stati chiamati! Il Signore non ci ha portato in
Comunità Maria per fare di noi dei mediocri! La Comunità non
è il club dei perfetti, certo che no, ma di quelli che aspirano alla
perfezione sì, altrimenti non è niente! Io voglio essere santo, cioè

130
perfetto, dove, badate, perfetto significa perfetto nell’amore, non
nella legge e c’è grande differenza. Molti, come dicevo prima, si
spaventano al pensiero della santità perché hanno del santo un’idea
moralista, basata su una concezione legale.
In questo schema essere santo significa rispettare tutte le regole
più minuziose, vivere ossessionati dal peccato, attentissimi a non
sbagliare mai, ma questa non è per niente l’idea biblica di santità.
Nel libro del Levitico è scritto «Siate santi, perché io sono santo»
(Lv 19,2), essere santi quindi significa essere come Dio, e Gesù
riprende questa frase, ma dandole un altro senso: «Siate mise-
ricordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Vi
accorgete che cambia tutto? La santità cristiana non è una santità
moralista, fatta di leggi e decreti da osservare, ma è una santità
nell’amore. Santo è colui che ama come Dio. E allora, ditemi voi,
come si fa a non desiderarla? Perché appena uno ha cominciato ad
amare desidera amare sempre di più, perché l’amore è bello, è il
compenso a se stesso, è la vera gioia dell’uomo.
Vi sto dicendo questo per farvi capire la bellezza del tesoro che vi
è stato posto nelle mani e che avete dimenticato. Io dico «santità»
e vedo le spalle che si piegano, i volti che si incupiscono, perché
pensate che essere santi significhi fare cose terribili, pesantissime
e invece innanzitutto essere santi significa godere dell’amore del
Padre, come Gesù gode del Padre, significa essere una cosa sola con
Dio, aver ricevuto lo Spirito Santo, essere parte della Grande Danza
che è la Trinità, significa essere nella pienezza dell’amore di Dio.
La fatica e l’impegno ci sono anche, non dico di no, ma quando ci
siete dentro non ve ne accorgete nemmeno. Pensate, ad esempio,
alla mamma di un neonato, che deve allattare il suo bambino, ma
voi credete che si alzi tutta felice ogni notte alle tre per farlo? Ma
io vi dico che qualche volta avrà pure desiderato di buttarlo dalla
finestra quel bambino, ma non lo fa, perché l’amore è più grande. E
a posteriori, ricordando quel giorno, la fatica sparisce e ricorda solo
la grande gioia. Questo è la santità. Ci sacrifichiamo, certo. Moria-
mo martiri, prontamente. Ma tutto questo lo facciamo cantando.

131
Perché il dono dello Spirito Santo, la Grazia che ci rende santi, è
appunto l’amore che fa vivere tutto questo con leggerezza e gioia.
Proviamo adesso ad approfondire il tema. Abbiamo detto che
siamo chiamati alla santità, ma in che forma si deve vivere questa
santità? La teologia identifica nel Battesimo tre direttrici fonda-
mentali in cui si esprime il progetto di Dio su di noi. Nella vigna
del Signore dobbiamo essere sacerdoti, re e profeti. Per il dono del
Battesimo ogni cristiano è profeta sacerdote e re, è la nostra triplice
vocazione in quanto cristiani. Proviamo allora a comprendere la
chiamata ad operare nella vigna secondo queste tre direttrici e,
naturalmente, poiché apparteniamo a una comunità carismatica,
secondo la nostra specifica spiritualità.

Operai e sacerdoti
Sacerdote non è sinonimo di prete; i presbiteri, o preti, sono quei
cristiani chiamati al sacerdozio ministeriale, cioè di servizio, ma il
primo sacerdozio è quello battesimale, comune a tutti, e il sacer-
dozio dei presbiteri è appunto a servizio di questo. Cosa vuol dire
allora per un laico essere sacerdote? Evidentemente non celebrare
la Santa Messa, perché il sacerdozio battesimale non si esprime
nella celebrazione dei sacramenti, ma vivere la liturgia della vita a
cui i sacramenti sono orientati, cioè fare di tutta la vita una liturgia,
un atto di culto, una lode a Dio.
Essere sacerdoti significa essere in comunione con Dio e con
l’uomo ed è quindi per prima cosa un ministero di preghiera, per
sé e per gli altri. Ogni prete nel giorno della sua ordinazione ha pro-
messo solennemente al vescovo, e tramite lui a Dio e alla Chiesa, di
pregare ogni giorno per le persone che gli sono affidate. Ma, al di
là della solennità dei voti, questa è una responsabilità di ogni cri-
stiano: ognuno ha delle persone che gli sono affidate e, in quanto è
reso sacerdote dal Battesimo che ha ricevuto, ha il dovere di pregare
per loro. Nessuno pensi di non essere responsabile di qualcuno.
Vi ricordate di Caino? Vi ricordate della risposta sprezzante che

132
rivolge a Dio quando il Signore gli chiede conto di Abele? «Sono
forse io il responsabile di mio Fratello?» (Gn 4,9). Sì, sei proprio tu!
Sei responsabile dei tuoi amici, dei tuoi colleghi, di ogni persona
con cui entri in relazione, di ogni persona che il Signore ti ha posto
accanto. Questa responsabilità si esprime innanzitutto nel pregare
per loro, quindi se vuoi essere un operaio responsabile nella vigna
del Signore il tuo primo dovere è pregare.
Può darsi che tu non possa fare altro per quelle persone, ma
questo non vuol dire che fai poco, perché la preghiera è potente,
smuove le montagne, purché sia fatta nello Spirito. È la preghiera
di intercessione, che non per nulla nella nostra comunità è un vero
e proprio ministero, però attenzione: anche se ci sono alcuni che
hanno questo compito in maniera specifica, tutti siamo chiamati
a farlo. Non è facile intercedere davvero, ci vuole un cuore grande.
La preghiera di intercessione non è una preghierina, un rapido
avemmaria detto così per quietarsi la coscienza. Intercedere si-
gnifica essere lacerati interiormente tra due grandi amori. Da una
parte Dio e la sua giustizia, amati più di ogni altra cosa, con tutto
il cuore, tutta la mente e tutte le forze, come dice il Deuteronomio
(6,5), e dall’altra l’uomo, il peccatore che da Dio sta fuggendo e
magari lo pensa suo nemico e lo bestemmia e combatte e tuttavia
da Dio inseguito ed amato come un figlio. Chi ama Dio non può
non sentirsi personalmente offeso dal peccato e dalle bestemmie,
ma al tempo stesso chi ama l’uomo vuole sempre che l’uomo sia
perdonato e salvato. Capite che razza di lacerazione si porta dentro
chi intercede?
È l’esperienza di Mosè, che sta di fronte a Dio stesso opponen-
dosi alla Sua decisione di distruggere il popolo di Israele dopo
l’episodio del vitello d’oro, e osa dire a Dio: «perdonali, altrimenti
cancellami dal tuo libro» (cf Es 32). In pratica è talmente solidale
con il suo popolo da dire a Dio: se cancelli loro, cancelli anche me.
Questa è la preghiera di intercessione, mettersi in mezzo tra Dio
e il peccatore (letteralmente intercedere significa proprio mettersi
in mezzo) e farsi carico delle colpe altrui, dichiararsi disponibili a

133
pagare al suo posto. Così è anche la preghiera di Gesù: «Padre, per-
dona loro, perché non sanno quello che fanno», e invece lo sapeva-
no molto bene, sapevano come minimo che stavano uccidendo un
innocente. Perdonali, perché non sanno quello che fanno… La più
sconcertante delle preghiere, la più insensata, ed al tempo stesso
la più necessaria, quella che dà senso a tutto il Vangelo, perché su
quella preghiera si appoggia tutta la nostra salvezza. Allora essere
sacerdoti nella vigna significa innanzitutto questo: intercedere
come Gesù.
C’è poi un’altra dimensione importante del sacerdozio che è
il sacrificio. Anticamente gli uomini offrivano a Dio qualcosa in
espiazione delle loro colpe o per rinnovare la comunione con Lui,
ma questi sacrifici rituali sono stati sostituiti dall’unico sacrificio
pieno e perfetto che è il sacrificio di Gesù. Essere sacerdoti significa
quindi unirsi al sacrificio di Gesù. Per noi preti questo avviene
innanzitutto nella celebrazione della Messa, ma per i laici, che
pure sono chiamati al sacerdozio, sebbene in un’altra forma, come
avviene questo?
Ci sono due vie attraverso cui i laici partecipano al sacrificio
di Gesù: la prima è l’offerta di sé e della propria vita, quell’offerta
che anticamente era rappresentata dall’offerta dei primogeniti del
gregge o delle primizie del campo, che aveva un valore di sostitu-
zione o di rappresentazione. Naturalmente a Dio non interessava
nulla degli agnelli o dei frutti del campo, o del vostro denaro se è
per questo, a Lui interessa ciò che da tutto questo è rappresentato: il
vostro impegno, la vostra fatica, la vostra dedizione, in una parola
sola il vostro amore. Offrire un sacrificio è quindi innanzitutto
questo, un atto d’amore espresso in un gesto concreto, in cui met-
tiamo a disposizione di Dio e del Suo Regno il nostro tempo, le
nostre risorse, la nostra intelligenza e le nostre capacità anche pro-
fessionali, perché no?, siete tutti laici, vivete nel mondo del lavoro,
chi in un campo chi nell’altro. Insomma, partecipare al sacrificio
di Cristo è offrire se stessi, fino a offrire la vita, fino al martirio:
ne abbiamo tanti esempi in questo tempo, anche se il Signore dà la

134
Grazia e il dono di morire martire solo a quelli che hanno prima
vissuto come martiri, morendo già cento volte nel dono del proprio
tempo, della propria fatica e della propria disponibilità. Solo allora
sarai considerato degno di dare la vita.
Ma perché il Signore ci domanda questo sacrificio? Perché non
vuole che riceviamo passivamente i suoi doni, ci vuole protagoni-
sti della salvezza del mondo accanto a Lui. Il mio sacrificio perso-
nale non aggiunge molto al Suo, mette due soli centesimi sopra il
tesoro del sacrificio di Gesù, ma sono i miei due centesimi, quelli
che nessun altro metterà al posto mio, quelli che danno senso alla
mia vita, quelli che salvano me. Il mondo si salverà anche senza il
mio contributo, sono io che senza il mio contributo non mi salve-
rò. Immaginate il figlio di un uomo che deve fare un grande sforzo
per risanare un debito e provvedere alla sua famiglia. Immaginate
che questo bimbo, molto piccolo, offra al padre i suoi risparmi per
integrare lo stipendio. È pochissima cosa, e oltretutto sono i soldi
che il bambino ha già ricevuto in antecedenza dai genitori, quindi
non sono nemmeno veramente suoi, ma con quale amore questo
padre guarderà al figlio, e di quanto giusto orgoglio si gonfierà
il suo cuore vedendo la sua generosità! Ecco, per noi accade la
stessa cosa.
C’è un momento nella celebrazione della Santa Messa in cui tutti
noi mettiamo il nostro sacrificio accanto a quello di Cristo, ed è il
momento, in genere sottovalutato, dell’offertorio. La processione in
cui si portano all’altare il pane e il vino serve proprio a raffigurare
questo: in quel pane e vino sono compresi tutti i nostri sacrifici, le
nostre gioie e dolori, le nostre fatiche per il Regno di Dio, la nostra
passione per Gesù, tutto ciò che noi siamo ed amiamo. È anche il
motivo per cui in quel momento si fa la questua, così capite che il
denaro che offrite non ha solo il senso di un contributo alla vita
della comunità, anche, certamente, non dico di no, ma soprattutto
quel denaro è come la vostra fatica congelata, è il frutto del vostro
lavoro che voi offrite, non più primizie ed agnelli, ovviamente, ma
comunque è la rappresentazione della vostra vita che date a Dio.

135
Dunque i laici sono sacerdoti nel senso che sono chiamati a in-
tercedere per gli altri e ad unirsi al sacrificio di Cristo nell’offerta
della vita, ma c’è anche un secondo modo con cui partecipiamo al
sacrificio di Cristo che a noi carismatici dovrebbe essere particolar-
mente caro, perché è proprio il centro della nostra spiritualità, ed è
il sacrificio della lode. Avete mai pensato che la lode è un sacrificio?
Nei Salmi si parla spesso del sacrificio della lode, ma perché la lode
è un sacrificio? In che senso si può dire questo?
Nel bellissimo trattato La vita in Cristo uno dei più grandi teolo-
gi della tradizione greca, Nicola Cabasilas, racconta una parabola:
egli immagina un tale nell’arena che guarda il combattimento
tra un valoroso ed un crudele tiranno e «si rallegra con lui per la
sua vittoria, gli intreccia corone, provoca applausi ed incita tutta
l’assemblea». Alla fine però il campione vincitore al momento di
ricevere il premio ti chiama accanto a sé sul podio ed incorona te
vincitore al posto suo. Tu non hai fatto niente, non hai sofferto, non
hai lottato, hai solo gridato il tuo amore, ma per il Vincitore que-
sto è sufficiente per chiamare te accanto a sé nella vittoria, perché
«Egli considera suo premio l’incoronazione dell’amico». Capite?
La partecipazione al sacrificio di Cristo avviene anche così, con la
lode, che è poi il tifo che noi facciamo per lui. Per questo la lode
carismatica a volte sembra un po’ un tifo da stadio.
Quando davvero stiamo lodando, non solo con la voce, ma dal
profondo del nostro animo, ci rendiamo conto che lodare signi-
fica, in un certo modo, perdersi, abbandonarsi, dimenticarsi di
sé. Quando lodiamo ci perdiamo nella bellezza di ciò che stiamo
lodando. È come un giovanotto che si perde nella contemplazione
del volto amato e non è capace di dire altro che «quanto sei bella»,
e si è totalmente dimenticato di se stesso, dei suoi problemi, della
sua fatica, tutto proiettato verso la donna amata, essendo, per così
dire, uscito fuori da se stesso, in una specie di estasi. Questa è la
nostra lode, questo è lodare Dio: darsi interamente a Lui, proiet-
tarsi interamente verso di Lui. Ecco perché la lode è un sacrificio,
perché è la forma più alta dell’offerta a Dio di se stessi.

136
Dio ci ha dato un grande dono per vivere bene la lode, ed è il
carisma del canto in lingue. Carisma che usiamo troppo poco, sia
detto per inciso. Se ogni cristiano, in quanto sacerdote, ha il dove-
re di partecipare al sacrificio di Cristo nella lode, noi carismatici
abbiamo il dovere di farlo usando il carisma del dono delle lingue.
Cosa accade nel nostro animo quando preghiamo in lingue? Lo
sapete già, ma permettetemi di spiegarvi ciò che già vivete. Quando
pregate in lingue voi non ci siete più, è come se il vostro cervello
si spegnesse. Lo dice san Paolo, pregare in lingue è pregare senza
usare l’intelligenza (cf 1Cor 14,14). Intendiamoci, non è come an-
dare in trance, restate perfettamente consapevoli di ciò che accade
intorno a voi e volendo potreste facilmente arrestare il flusso del
canto. Solo che non volete. Siete talmente presi nella corrente della
preghiera, come se fosse un grande fiume, che vi abbandonate ad
essa e vi lasciate portare docilmente.
Cantare in lingue significa essere così aperti allo Spirito che
il Suo canto, che dal giorno del Battesimo vive in noi, fuoriesce
spontaneamente fino a giungere sulle labbra senza alcuna me-
diazione. È un momento pienamente mistico, in cui davvero
abbiamo dato noi stessi a Dio, davvero siamo diventati la voce
del cosmo che loda, siamo la punta di lancia di tutto il Creato
proteso verso Dio, siamo la voce di ogni creatura, come dice il IV
canone eucaristico. Più che mai in quel momento siamo sacer-
doti, perché stiamo presentando a Dio la lode del mondo intero,
tutto il mondo è preso tra le nostre mani alzate in offerta a Dio.
Possiamo farlo a condizione che ci dimentichiamo totalmente
di noi stessi, che ci facciamo strumenti passivi, appunto come
accade nel canto in lingue. È come quando un filo di rame viene
attraversato dalla corrente elettrica ed improvvisamente diventa
vivo, non per propria virtù, ma per la corrente che lo attraversa.
Meno resistenza oppongo a questa corrente, più il segnale arriva
a Dio puro e limpido, cosa è più sacrificio di questo? È appunto
il sacrificio della lode, a cui noi carismatici siamo chiamati più
di tutti. Naturalmente il canto in lingue non è né deve essere la

137
sola forma di preghiera, appunto perché è come una sospensione
dell’intelligenza. Nella fede deve essere coinvolta anche la mente,
perché l’uomo è un essere integrale, mente e cuore devono essere
in armonia, essere carismatici non vuol dire affatto disprezzare
la ragione, e questo coinvolgimento dell’intelligenza nella pre-
ghiera avviene soprattutto in un’altra forma, altrettanto bella,
che è la meditazione, che però non riguarda tanto questo punto.
Ne parleremo più avanti.
Dunque, in sintesi: tutti i cristiani sono chiamati ad essere sacer-
doti costruendo ponti tra Dio e l’uomo e questo avviene attraverso
la preghiera, l’offerta a Dio di sé e della propria vita e il sacrificio
della lode. Noi carismatici in maniera particolare lo facciamo at-
traverso i carismi dell’intercessione e del canto in lingue.

Operai e profeti
Oltre che sacerdoti il Battesimo ci ha reso profeti. Cosa vuol dire
essere profeta? Innanzitutto sapete bene che profeta non è colui che
predice il futuro. In italiano in genere la parola è usata in questo
senso, come se fosse sinonimo di indovino, ma non è questo il sen-
so biblico. Il nome di profeta viene dal Greco pro-femí, che significa
parlare a nome di un altro, allora profeta è colui che parla a nome di
Dio. Il profeta è la voce di Dio e dunque tu, operaio nella vigna del
Signore, sei chiamato ad essere la Sua voce in questa vigna. Il gior-
no in cui sei stato battezzato il sacerdote ha toccato il tuo orecchio
e la tua bocca dicendo: «il Signore ti conceda di ascoltare presto la
Sua Parola e di professare la tua fede», è proprio il Battesimo che
ti ha abilitato ad ascoltare la Parola di Dio e a ripeterla, sei stato
chiamato ad ascoltare e ripetere ciò che hai ascoltato! Non ci sono
specialisti dell’annuncio, tutti nel popolo di Dio sono chiamati a
questa missione, si compie così nella Chiesa la profezia di Mosè:
«fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Nm 11,29). Ci sono,
naturalmente, persone che più di altre realizzano quest’opera, che
la vivono come un vero e proprio ministero, come per l’interces-

138
sione, ma nessuno può chiamarsi fuori: il dovere della profezia ci
riguarda tutti!
Ci sono diverse forme di profezia: potremmo distinguere tra
insegnamento, predicazione ed evangelizzazione, o annuncio.
Naturalmente non tutti sono chiamati ad insegnare, perché l’in-
segnamento presuppone uno studio attento e approfondito della
Parola che forse non è alla portata di tutti, come non tutti sono
chiamati a predicare, perché la predicazione, che è annuncio pub-
blico della Parola di Dio, presuppone una responsabilità maggiore,
che di solito si accompagna all’autorità. Tipicamente in teologia si
dice che insegnare e predicare è compito del vescovo, il quale poi
naturalmente, non potendo far tutto da solo, delega altri in questo
ministero.
C’è però una forma di profezia che è comune a tutti, ed è
l’annuncio del Vangelo, la buona notizia. Tutti noi siamo operai
responsabili del Vangelo, cioè dell’annuncio; come dice san Paolo:
«guai a me se non annuncio il Vangelo» (1Cor 9,16). E non serve
aver studiato per dire la buona notizia, non serve aver fatto una
facoltà teologica o cento corsi in curia, non serve nemmeno essere
stati vent’anni in Comunità. Ognuno, fin dal Battesimo, ha già
tutto quello che gli serve per poter annunciare, perché la buona
notizia è questa: Gesù ti ama, è morto e risorto per te e ti salva dai
tuoi peccati. Non serve aver studiato, bisogna solo averne fatto
esperienza.
Sarà il Signore, con la potenza del suo Spirito, a rivestire le nostre
povere parole di energia rendendole esplosive. Quando il Signore
appare per la prima volta, Giacomo e Giovanni lo seguono e poi
vanno a chiamare gli altri con una frase semplice: vieni e vedi. Lo-
ro non sanno spiegare ciò che hanno visto, non sanno nemmeno
dire l’esperienza che hanno fatto accanto a quest’uomo, però una
cosa possono fare: possono invitare gli altri a fare la medesima
esperienza, ad entrare in relazione anche loro con questo miste-
rioso Maestro. Non serve una laurea per questo e se nelle nostre
chiese si vedono sempre le stesse facce è perché da troppo tempo

139
non andiamo più a dire a nessuno «vieni e vedi». Attenzione fra-
telli miei, perché la Comunità Maria è una comunità di lode e di
evangelizzazione, e se noi ci limitiamo a lodare stiamo tradendo
in realtà la nostra vocazione.
La parola profetica non è una parola qualunque, ce lo spiega
benissimo il profeta Geremia:

«Fino a quando ci saranno nel mio popolo profeti che predicono


cose false e profetizzano le fantasie del loro cuore? (…) Che cosa ha
in comune la paglia con il grano? La mia parola non è forse come il
fuoco e come un martello che spacca la roccia? Perciò, eccomi contro
i profeti i quali si rubano gli uni gli altri le mie parole. Eccomi contro
i profeti che muovono la lingua per dare oracoli. Eccomi contro i pro-
feti di sogni menzogneri che li raccontano e traviano il mio popolo
con menzogne e millanterie. Io non li ho inviati né ho dato loro alcun
ordine; essi non gioveranno affatto a questo popolo» (Ger 23,25-32).

Dunque se vogliamo essere profeti nella vigna del Signore dob-


biamo stare ben attenti a non essere falsi profeti. In questo si
esprime la responsabilità del profeta: un profeta responsabile si
sforza di dire ciò che davvero è Parola di Dio. Se siamo chiamati ad
insegnare e predicare questo significa naturalmente che abbiamo
la responsabilità di dire cose autentiche, cioè di ripetere fedelmente
la Parola udita da Dio, invece di fare come quelli che cercano l’ap-
plauso umano e, come dice Geremia, si rubano le parole l’un l’altro.
Quanti professori, quanti preti – lo dico con dolore – cadono in
questo inganno, illudendosi di rivestire la Parola di Dio, come se
non avesse abbastanza autorità di per sé! E quanti si vergognano
della schiettezza e della forza del Vangelo e lo annullano, magari
in nome di un malinteso dialogo!
Non ci sono tra voi professori di teologia o predicatori profes-
sionisti, quindi questo vi riguarda poco, ma c’è anche un altro
modo in cui si può diventare falsi profeti, e questo ci riguarda tutti.
Accade quando diciamo parole senza nerbo, senza sostanza, senza
passione. Avete sentito Geremia: la Parola di Dio è un martello che

140
spacca la roccia, un fuoco divoratore, è una parola efficace, che
realizza quello che annuncia (cf Is 55,10-11), quindi se la nostra
parola è una parola inefficace, vuota, allora vuol dire che non è
Parola di Dio, è appunto una falsa profezia.
Il Vangelo di Matteo riporta una frase terribile di Gesù: «Ma
io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno
rendere conto nel giorno del giudizio» (Mt 12,36). Dio ci chiederà
conto di ogni parola inutile. Attenzione, non nel senso che Dio si
arrabbia se parliamo di calcio o del Grande Fratello, ci può anche
stare di parlare di sciocchezze ogni tanto, per fare allegria o per
rilassarsi; qui per parola vana si intende una parola inefficace,
argon in Greco, cioè senza effetto, una parola impotente. E Dio ce
ne chiederà conto perché Lui ha rivestito di potenza, cioè di Spirito
Santo, le nostre parole, ma se noi le abbiamo rese impotenti siamo
diventati appunto falsi profeti. «La parola di Dio è viva ed efficace,
più tagliente di una spada a doppio taglio» (Eb 4,12), ma in bocca
a tanti cristiani questa lama perde il filo, non incide, non taglia,
diventa una parola morta, non più spada, ma piuma, usata per
accarezzare anziché per tagliare! Quante volte avremmo dovuto
dire la Parola di Dio e invece abbiamo taciuto, per timidezza o per
vergogna! O peggio ancora abbiamo annacquato la Parola, piegan-
dola alle nostre convenienze o al nostro gusto, senza lasciarcene
giudicare noi per primi!
Dunque come possiamo evitare il rischio di diventare falsi pro-
feti? È abbastanza semplice in realtà. Abbiamo detto che il profeta
è colui che parla a nome di Dio, quindi il presupposto per poter
dire le sue parole è di averle innanzitutto ascoltate. Il vero profeta
è colui che riferisce ciò che ascolta, la sua prima virtù non è la
creatività, o l’immaginazione, ma la fedeltà. Significa che la Bib-
bia deve essere sempre nelle nostre mani, che dobbiamo leggerla
e meditarla con attenzione e intelligenza. Prima avevo accennato
alla meditazione: è per questo che è necessaria; se la lode ci rende
sacerdoti, la meditazione ci rende profeti. Qui l’intelligenza va
usata tutta, perché ascoltare senza intelligenza è come non ascolta-

141
re. La meditazione è ciò che ci rende accessibile il senso spirituale
della scrittura, quello che fa sì che quella Parola, scritta migliaia
di anni fa, diventi una parola viva per me oggi, una parola che mi
trasforma interiormente, che rende vive ed infuocate le mie stesse
parole, facendomi capace di dire parole che siano Parola di Dio.
Dire parole di Dio non vuol dire citare mille versetti a memoria,
come fanno certuni, ma dire parole infuocate dallo Spirito, parole
imbevute di Parola di Dio, parole che provengano dalla ricchezza
del cuore (cf Mt 12,34-35), cioè da un cuore trasformato, abitato
da Gesù, un cuore che la meditazione ha reso casa del Verbo.
Parole dunque così piene di Spirito Santo da essere, per così dire,
trasformate in Parola di Dio.
Ci sono, mi sembra, due rischi contrapposti nell’ascolto della
Parola e da entrambi la meditazione ci protegge: sono il rischio del
fondamentalismo e il rischio dell’intellettualismo. Il fondamenta-
lismo è il prendere la Parola di Dio in senso letterale, senza tenere
conto del suo significato storico. Fate molta attenzione perché
questo errore può provocare danni disastrosi, sia perché finite con
l’annunciare un Vangelo impossibile da credere, che giustamente
le persone si rifiutano di accettare, sia perché rischiate di caricare
sulle spalle della gente pesi insopportabili. Faccio un paio di esempi
macroscopici, per capirci. Ci sono alcuni, non tra noi per fortuna,
che insegnano che il mondo è stato creato letteralmente in sette
giorni, è il cosiddetto Creazionismo. È ovvio che questa idea è
insostenibile razionalmente e allora cosa accade? Che l’uomo si
trova costretto a dover scegliere tra la sua fede e la sua intelligen-
za, ma questa è una scelta inumana, che Dio non vuole. Una fede
senza intelligenza è falsa, quindi non va seguita. Ci sono poi altri,
sempre non di noi, che prendono alla lettera la prescrizione della
«decima» e quindi obbligano i fedeli a versare il dieci per cento
dello stipendio, ma è chiaro che per i più poveri questo può essere
un sacrificio enorme, praticamente insostenibile.
Quando dico che la Parola di Dio va interpretata nel suo senso
storico, non intendo dire che dobbiamo adattarla alle circostanze

142
del nostro tempo, questa è una sciocchezza e sarebbe un errore
diabolico, ma che dobbiamo comprenderla nella viva tradizio-
ne della Chiesa. Noi non siamo i primi a meditarla e cercare di
comprenderla, quindi, con tutta umiltà, dobbiamo accostarci
con riverenza al lavoro di quelli che ci hanno preceduti. La storia
dell’interpretazione della Bibbia è piena di sentieri interrotti, di
false piste che non portano da nessuna parte e se abbiamo l’umiltà
di metterci in ascolto di questa tradizione saremo preservati dalla
maggior parte degli errori. Per evitare il rischio del fondamen-
talismo bisogna poi cogliere la vera intenzione della Parola, cioè
leggerla nello Spirito. Questo tipo di lettura richiede la meditazio-
ne, perché è solo con l’amicizia con Colui che mi parla che potrò
capire il senso vero di ciò che mi dice. Quindi è necessario passare
ore ed ore in silenzio, in compagnia della Parola, perché possa
parlarmi e dischiudermi il suo significato. Faccio un esempio: un
uomo può chiamare sua figlia «scimmietta» in un senso molto
affettuoso, ma se interpretata in senso letterale questa parola
suonerebbe molto offensiva. Solo conoscendo bene l’intenzione
di chi parla posso capire davvero ciò che intende dire. Questa co-
noscenza della «intenzione di Dio» è ciò che chiamiamo il senso
spirituale della Scrittura.
L’altro pericolo da cui la meditazione ci protegge è quello dell’in-
tellettualismo. Che cos’è l’intellettualismo? San Giacomo paragona
la Parola di Dio ad uno specchio in cui ciascuno vede riflesso il suo
volto (cf Gc 1,23-24), perché la Parola ci rivela chi siamo davvero,
ci fa conoscere Dio, ma ci fa conoscere anche noi stessi, ci porta a
giudicare la nostra vita. L’intellettualismo è l’atteggiamento di chi,
anziché guardare il volto riflesso nello specchio, si mette a studiare
la cornice, le imperfezioni del vetro, magari eventuali macchioline
eccetera. È chiaro che per quest’uomo lo studio della Parola non
porterà alcun frutto spirituale, non lo spingerà alla conversione,
e, il che è anche peggio, una volta che si trovasse ad annunciare
non avrebbe in realtà niente da dire, poiché al mondo non importa
nulla delle questioni esegetiche o filologiche. Il mondo ha bisogno

143
di qualcuno che gli riveli il suo volto, che gli mostri, attraverso
quello specchio, la Verità in tutta la sua forza dirompente, ha bi-
sogno, come dice Geremia, di una Parola che sia martello e fuoco.
Intendiamoci, l’esegesi e le scienze bibliche sono necessarie,
non dico di no. Sono necessarie perché prima di poter compren-
dere il senso spirituale della Bibbia bisogna comprenderne il sen-
so letterale, cioè capire il testo per ciò che significa davvero e non
per ciò che ci può sembrare a un primo sguardo, ma il più delle
volte questo è solo il primissimo passo della lettura e fermarsi a
questo significa mancare l’obiettivo fondamentale. Lasciate ai
dotti queste discussioni, non c’è alcun bisogno di impelagarvi in
questioni esegetiche, per chi non ha la missione dell’insegnamen-
to è più che sufficiente avvalersi delle conclusioni degli speciali-
sti, ed intendo i risultati acquisiti, non le questioni disputate, e,
partendo da quella base, muoversi con la meditazione alla ricerca
del senso spirituale.
Una parola sola sul modo con cui nel Rinnovamento usiamo la
Bibbia in preghiera: durante una preghiera vengono letti spesso
molti passi biblici e questa di per sé è una cosa buona, appunto per-
ché la nostra fede deve nutrirsi di Parola di Dio se vogliamo essere
veri profeti. L’importante però è che le parole bibliche non siano
parole tra le tante che vengono dette in una preghiera, ma siano
parole speciali, su cui ritornare in un secondo tempo, con amore,
nella meditazione, in modo che si depositino dentro di noi, metta-
no radici e portino frutto. C’è poi la prassi di aprire la Bibbia a caso
in cerca di qualche Parola che Dio voglia rivelarci. Qui il rischio
è grande. Molte volte nelle vite dei santi è accaduto che proprio in
questo modo Dio abbia rivelato loro delle verità decisive, penso a
san Francesco o a sant’Agostino, ad esempio. Quindi non si può
dire che sia sbagliato farlo, o che sia un male, ma questa prassi non
deve essere abusata, perché altrimenti rischiamo di trasformare
Dio in una sorta di oracolo, come se la Bibbia fosse un indovino da
consultare per sapere il futuro e rischiamo anche di banalizzare il
contesto biblico, perché se cerchiamo nella Bibbia solo la risposta

144
alle nostre domande potremmo non ascoltare le domande che inve-
ce la Bibbia fa a noi. In linea generale bisogna sempre ricordare che
l’iniziativa è di Dio, non nostra, quindi se vuole rivelarci qualcosa
sarà Lui a farlo e non necessariamente per rispondere alle nostre
domande, che anzi il più delle volte sono oziose e malposte. Detto
questo fatelo pure, ma con discernimento.
Dunque tutti noi siamo chiamati ad essere profeti. Essere operai
nella vigna del Signore significa anche questo, ed esserlo respon-
sabilmente significa meditare la Parola di Dio, per non correre il
rischio di essere falsi profeti.

Operai e re
Infine siamo chiamati ad essere re. Siamo operai, ma siamo
anche re nella vigna del Signore, dobbiamo quindi comprendere
cosa significa regnare con Gesù.
Continuamente nell’Antico Testamento Dio viene definito re; gli
apostoli, senza nessuna mediazione, applicano questo titolo a Ge-
sù, tanto che Egli stesso viene ad identificarsi e confondersi con il
Regno di Dio annunciato dai Vangeli. Quello che però è raramente
sottolineato nella catechesi e nella predicazione della Chiesa è che i
cristiani non sono semplici sudditi in questo Regno, ma sono chia-
mati a regnare insieme a Gesù; eppure la stessa liturgia ce lo ripete.
Nel III canone eucaristico il sacerdote recita: «Egli faccia di noi un
sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno
promesso insieme con i tuoi eletti…» e del resto Gesù stesso dice
chiaramente: «voi che mi avete seguito… siederete su dodici troni»
(Mt 19,28) e ancora il libro dell’Apocalisse definisce la Chiesa un
popolo di re e sacerdoti (cf Ap 1,6). Ogni volta che preghiamo il
Padre Nostro noi diciamo «Venga il Tuo Regno», ma dobbiamo
ricordare che in questo regno siamo chiamati a regnare anche
noi. Attenzione però, perché il Regno di Dio non è come i regni
umani, ma risponde ad una logica tutta sua propria, ha regole tutte
sue. Gesù ha dedicato gran parte della sua predicazione proprio a

145
spiegare che cos’è questo Regno di Dio, tanto che si potrebbe quasi
dire che è il tema fondamentale del Vangelo.
Paolo VI definiva il Regno di Dio «la civiltà dell’amore», il
Regno di Dio dunque non è una categoria soltanto spirituale. È
certamente spirituale, perché risponde ad una logica dettata dallo
Spirito e dunque all’amore piuttosto che alle leggi dell’economia o
della sociologia, ma al tempo stesso è una categoria terrena, perché
riguarda la civiltà, cioè la società umana. Il Regno di Dio è una
società umana in cui Dio regna. Quando Gesù dice a Pilato che
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36) intende dire che
risponde ad una logica diversa, ma non che è qualcosa di avulso
dalle cose terrestri, disinteressato dalla concretezza della vita uma-
na, altrimenti diventerebbe incomprensibile la stessa categoria di
Regno, non si capirebbe più perché Gesù usi questa parola. Regnare
con Gesù quindi significa certamente avere a che fare con gli uo-
mini, significa costruire un mondo in cui Dio regna. Nell’Antico
Testamento la missione del re è soprattutto combattere i nemici
e promuovere la giustizia, il Salmo 45(44) identifica molto bene
queste due coordinate. Nel linguaggio di Gesù questo significa
combattere il maligno in tutte le sue manifestazioni e prendersi
cura dei poveri, dei deboli e dei malati.
Così Gesù mostra la sua sovranità attraverso esorcismi e mira-
coli, fino ad identificare esplicitamente la sua attività di esorcista
con il Regno di Dio (cf Lc 11,20). Esorcismi e guarigioni sono i
miracoli che più di ogni altro annunciano il Regno perché sono la
manifestazione del Suo amore per i sofferenti, gli ammalati e gli
esclusi, e perché manifestano che le forze più oscure della creazio-
ne, le potenze angeliche e quelle della natura, sono sottomesse alla
Sua volontà e autorità. Quando alla fine dimostrerà di avere potere
sulla morte stessa, questo più di ogni altra cosa segnerà l’inizio del
Suo Regno. Nel Vangelo è assolutamente chiaro che Gesù trasmette
ai suoi l’autorità di scacciare i demoni e di guarire i malati e che
questo potere è strettamente connesso con l’annuncio del Regno
di Dio (cf Lc 9,1-2). Quindi si può dire che il potere di regnare con

146
Cristo è già implicito nella missione di annuncio che, come abbia-
mo visto prima, è su ogni cristiano: annunciare Cristo e regnare
con Lui sono due aspetti inseparabili della vocazione cristiana;
regnare è annunciare ed al tempo stesso non si può annunciare
senza combattere il male e prendersi cura dei poveri e dei sofferen-
ti. Sono sicuro che ascoltando queste parole state già pensando ai
carismi di liberazione e guarigione, e avete ragione naturalmente.
Liberazione e guarigione sono doni enormi e quindi anche un’e-
norme responsabilità posta nelle nostre mani. Non sono affatto un
aspetto facoltativo della nostra missione; se siamo carismatici, oltre
che per lodare, è innanzitutto per questo: per liberare e guarire,
quindi non possiamo dimenticarlo, ne va della nostra specificità,
della nostra stessa identità.
Come carismatici, dobbiamo riconoscere che abbiamo ricevu-
to da Dio una vocazione speciale ad esercitare il ministero della
guarigione e della liberazione. Fin dall’inizio nella nostra storia
questi carismi si sono manifestati con potenza in modo sorpren-
dente e vale la pena di chiederci se non siamo diventati troppo
timidi nell’esercitarli! Se è vero che Dio ci ha mandati a guarire i
malati e scacciare i demoni (cf Mc 16,17-18) allora la nostra prima
responsabilità è questa ed a questa chiamata non possiamo mai
venire meno, pena il venir meno a noi stessi e alla vocazione che
abbiamo ricevuto. Una comunità carismatica esiste per annunciare
il Regno di Dio e per farlo innanzitutto attraverso i carismi della
guarigione e della liberazione.
Però permettetemi di allargare un po’ lo spettro: combattere
il maligno non significa solo fare preghiere di liberazione, come
prendersi cura dei poveri e dei sofferenti non significa solo fare
preghiere di guarigione. Combattere il male e prendersi cura dei
poveri, cioè in una parola regnare con Gesù, è la vocazione di tutti
i cristiani e poiché il Signore non dà a tutti i carismi di guarigione
e liberazione, nemmeno a tutti i membri di una comunità carisma-
tica del resto, ne dobbiamo dedurre che l’aspetto essenziale è un
altro. Chi combatte il male in qualsiasi forma non sta forse libe-

147
rando dal maligno? L’assistente sociale che riesce ad impedire un
aborto, il volontario della Caritas che si batte per la dignità di un
immigrato, il politico che difende il diritto dei più deboli o anche il
padre di famiglia che salva i suoi figli dalla droga o dall’immoralità
o la madre che conserva la pace in famiglia non combattono forse
il maligno? E colui che guarisce il prossimo dall’ignoranza o dalla
depressione anche solo attraverso il consiglio e l’insegnamento non
lo fa forse con la forza dello Spirito Santo? E chi si dedica anche in
casa propria alla cura dei malati non fa altrettanto? A volte temo
che l’enfasi sulla dimensione straordinaria della vita carismatica
ci faccia perdere di vista l’ordinaria azione che è richiesta ad ogni
cristiano.
All’inizio della nostra storia siamo stati testimoni di grandi pro-
digi, quasi letteralmente vedevamo satana «cadere dal cielo come
la folgore», spesso però abbiamo dovuto riscontrare che i demoni
scacciati ritornavano in forze e la condizione della persona liberata
diventava peggiore di prima, forse perché abbiamo trascurato di
rendere stabile la liberazione con un autentico cambiamento di vita
(cf Mt 12,43-45). Credo che sia giunto il momento di chiederci se
il Signore non ci domandi un’evoluzione, una crescita di consa-
pevolezza nella comprensione di questo ministero, combattere il
maligno infatti non può limitarsi all’azione di una preghiera, per
quanto autorevole e ispirata, deve invece diventare un ministero
globale in cui ci si preoccupa di liberare non solo le persone, ma
tutto il contesto in cui vivono, altrimenti la singola liberazione
risulterà inefficace o perfino dannosa. A che serve liberare un
uomo dall’azione del male se non lo si libera anche dall’ambiente
sociale o culturale di peccato in cui è costretto a vivere? E a che
serve allentare la presa del maligno su un singolo individuo se si
tollera che stringa nella sua morsa una società intera?
Vivere in una società dove tutto è commerciabile, dai valori
morali alla dignità delle persone, dove non esiste più alcuna mo-
ralità né pubblica né privata, ma tutto è sottomesso alla logica del
profitto, vivere in una città corrotta e violenta, in un quartiere

148
dove si spaccia o ci si prostituisce senza pudore, dove l’impunità
regna sovrana e il diritto è diventato anch’esso merce di scambio,
lavorare in una scuola dove nessuno più si sforza di educare o in un
ospedale dove l’umanità del malato è negata o in un ufficio dove
la corruzione è la regola quotidiana, abitare in un quartiere dove i
diritti dei più deboli vengono conculcati, mentre i poveri attorno a
noi aumentano sempre di più, o anche semplicemente assistere alla
disgregazione delle nostre famiglie, divise e lacerate da interessi e
violenze nascoste non è forse vivere sotto il Regno del maligno? E
come potrebbe pregare per la liberazione chi si voltasse dall’altra
parte per non vedere certe situazioni o addirittura se ne facesse
complice?
Noi cristiani non possiamo rassegnarci al male, non possiamo
accettare come inevitabili certe situazioni, pena il negare nei fatti
ciò che affermiamo a parole, dobbiamo anzi combatterle con tutte
le armi a nostra disposizione, ordinarie e straordinarie, spirituali,
ma anche culturali e politiche. Di fronte allo sfacelo morale a cui
stiamo assistendo non è affatto sufficiente ritirarci in disparte rin-
chiudendoci nel nostro piccolo paradiso privato, che in realtà poi
non sarebbe affatto un paradiso, poiché il paradiso è il luogo dell’a-
more e un cielo che si disinteressasse della terra non sarebbe un
luogo d’amore, ma il regno di un egoismo autosufficiente e chiuso
in se stesso. Nel libro della Genesi, dopo il peccato dell’uomo, Dio
pone inimicizia tra la stirpe della Donna e il serpente (cf Gn 3,15);
la prima cosa che dobbiamo fare allora, se vogliamo combattere il
male, è coltivare questa inimicizia, che significa innanzitutto non
rassegnarsi mai, non accettare che il male possa essere definito
inevitabile, non cedere alla logica del male minore. Da qui provie-
ne l’autorità cristiana, da questa inimicizia con il male, per questo
perde ogni autorità chi invece con il male è pronto a patteggiare,
chi scende a compromessi.
Prima di inviarlo a liberare il popolo di Israele, Dio fa sentire a
Mosè il grido di sofferenza del popolo (cf Es 3,7), insegnandogli
così a farsi prossimo. Questo è l’inizio di ogni ministero di libera-

149
zione, di ogni affermazione del Regno di Dio. Non regna con Cristo
chi non sa udire il grido del popolo. La compassione è l’inizio del
Regno di Dio, quanti oggi, anche tra noi, sono capaci di sentire
questo grido? Quanti permettono alla compassione di trasformarsi
in energia, vitalità, rabbia, indignazione, creatività e gioia che ci
diano speranza e forza per costruire un mondo nuovo? Esiste uno
«stile» del Regno di Dio, un modo di vivere ed operare che è indi-
spensabile per combattere il male e prendersi cura dei poveri, uno
stile che sarà fatto soprattutto di autorità e compassione. Nessuna
liberazione sarà efficace se non è compiuta nell’autorità di Cristo,
come nessuna guarigione porterà frutto se non è compiuta nella
Sua compassione. In definitiva regna con Cristo chi ha la Sua au-
torità e la Sua compassione.
La parola «autorità» viene dal verbo latino augeo, e letteralmente
significa la capacità di far crescere. Questa prima indicazione deve
farci riflettere: l’autorità non è sbattere i pugni sul tavolo e imporre
la propria volontà, ma piuttosto il riflesso della Verità. È autorevole
chi è vero. La compassione invece è la capacità di com-patire, di
sentire in sé la sofferenza dell’altro, di farci quindi carico della
sua fatica e del suo dolore facendoli nostri. Chi non sa scorgere
nel volto dell’altro la sofferenza, chi non ha abbastanza tenerezza
da piegarsi con amore su questa sofferenza come potrà guarirla?
Verità e Compassione quindi sono lo stile del Regno di Dio, il modo
con cui siamo chiamati ad operare in questo mondo e non devono
essere mai disgiunte: una verità detta senza amore è ideologia, un
amore dato senza verità è un sentimentalismo inefficace.
È ora di comprendere che il laico nella Chiesa non compie la
sua vocazione imitando i preti, non abbiamo bisogno di «preti
supplenti», ma di uomini e donne che si assumano la loro respon-
sabilità e vivano i loro carismi in un modo differente, secondo la
vocazione di ciascuno, nell’ambito e nel luogo che a ciascuno è
proprio, sapendo inventare percorsi nuovi, trovando sentieri non
ancora battuti per annunciare il Vangelo e modi sempre nuovi
di affermare il Regno. Ciascuno viva il suo proprio ministero in

150
un’armonia ordinata senza avere la presunzione o la pretesa di
invadere il campo dell’altro, tanto più che la situazione intorno a
noi è così grave che occorre davvero rivolgersi al campo immenso
che è il mondo piuttosto che litigare attorno all’orticello di casa
nostra. Come diceva Papa Giovanni Paolo II nel 1995 rivolgendosi
alla diocesi di Roma: «La Chiesa trova se stessa fuori di se stessa».
Convegno regionale della Calabria 2009

151
2
Il mistero grande

Mi commuove molto il tema che avete scelto per questo nostro


incontro: «non hanno più vino». Mi commuove perché nella Bibbia
il vino rappresenta la gioia e dunque intitolare «non hanno più
vino» un incontro di famiglie equivale a dire: non c’è più gioia
nelle nostre famiglie. E veramente se guardo la situazione intorno
a noi vedo che non c’è più gioia nelle case. Così la domanda sorge
spontanea: cosa è accaduto? Perché la gioia che attendevamo dal
matrimonio non è venuta?
C’è un vino buono che tutti avete ricevuto nel vostro matrimo-
nio, il vino fresco e dissetante della Parola di Dio, e se la gioia in
famiglia è finita è perché questo vino è diventato acqua, non l’acqua
che dà vita, ma quella che non sa di niente. Allora oggi voglio pro-
vare a rispolverarla con voi questa Parola sul matrimonio, a vedere
se riusciamo ancora a spremere un po’ di vino da questi tralci che
sembrano appassiti, se c’è ancora un po’ di gioia che, come un
tesoro sepolto, dorme in queste parole. Il passo lo conoscete tutti,
perché si legge in tutti i corsi di preparazione al matrimonio, ma
voglio rileggerlo per rinfrescarvi la memoria.
«Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano
sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della
moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore
del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche
le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le
vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per
lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua

152
accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua
Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile,
ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare
le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie
ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne;
al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché
siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre
e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne
sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla
Chiesa!» (Ef 5,21-32).

Sottomissione e gioia
Diciamoci la verità, queste parole sono fastidiose. Bisogna sem-
pre interpretarla questa pagina, prenderla un po’ con le molle,
perché c’è quella parolina «sottomissione» che ci dà tanto fastidio.
Dà fastidio sentirsi dire che ci dobbiamo sottomettere, non è vero?
E tuttavia questa è pur sempre Parola di Dio e se Dio ci chiede di
sottometterci avrà le sue buone ragioni, o no? Non sarà che nelle
nostre famiglie non c’è più gioia perché a forza di interpretazioni
abbiamo dimenticato come si fa a sottomettersi e il motivo per cui
dobbiamo farlo? Non sarà che proprio dentro questa parola sta
nascosto il tesoro prezioso del matrimonio? Non sarà che proprio
spremendo questa parola ritroviamo quel vino buono che aveva-
mo perduto? Vale almeno la pena di tentare, di mettere alla prova
questa intuizione.
Io credo che il grande merito della parola «sottomissione» sia
quello di prendere il diavolo per le corna. Penso che il diavolo che
distrugge le famiglie sia quell’individualismo che spinge alla ricer-
ca di noi stessi, nel desiderio di «fare la propria vita», o autorealiz-
zarsi come si dice con una bruttissima espressione (letteralmente
realizzarsi significa «farsi cosa»). Qualche tempo fa, in treno, sono
stato testimone di una scena che sarebbe stata simpatica se non
avesse avuto un contenuto tragico. C’era un ragazzino, avrà avuto
forse dieci anni, che diceva alla madre (lo ripeto nel vivido roma-

153
nesco originale): «A ma’ tu dici che te separi da papà perché te devi
fa’ la vita tua. Epperò puro io me devo fa’ la vita mia, allora si tu te
separi da papà io me separo da te». Non fa una piega vero? La logica
di quel bambino è ineccepibile, perché il mito dell’autorealizzazio-
ne porta con sé inevitabilmente separazione e solitudine, perché
crea una lotta di interessi contrapposti. È una logica individualista,
e se la accettiamo il conflitto e la separazione sono inevitabili.
Il fatto è che il mito dell’autorealizzazione è, per l’appunto, un
mito. Non può mai accadere nella realtà, perché nessuno può
davvero «farsi» da solo. La verità è che la mia vita la fa un altro,
sempre. Nessuno può rendersi felice da solo. Se vogliamo essere
felici dobbiamo accettare questa verità elementare: io sarò felice
solo se un altro mi rende felice, per la semplice ragione che ciò che
fa un uomo davvero felice, amare ed essere amato, non si può né
comprare né esigere, ma solo ricevere in dono. Amare una persona
significa riconoscere che non possiamo vivere senza di lei. Se dico
ad una persona «non posso vivere senza di te», implicitamente le
sto dicendo: rinuncio alla mia pretesa sulla vita, perché ho capito
che la vita mia sei tu, è stare insieme a te. Cosa c’è di più umile di
questa ammissione? È questa l’anima della sottomissione: ricono-
scere che non posso fare a meno dell’altro.
Qualche volta parlando di questo tema mi sono sentito dire,
perfino da qualche prete, figuriamoci, che la sottomissione non è
un’idea cristiana, come se la lettera agli Efesini facesse parte del
Corano. In realtà la sottomissione è strettamente legata all’umiltà,
se togliete quella togliete questa, perché la sottomissione non è al-
tro che la traduzione operativa dell’umiltà, è l’umiltà che si fa gesto,
azione. Se non diventa sottomissione l’umiltà è un’astrazione, sta
solo nella testa, se non ti sottometti non sei veramente umile. Ma
se non è un valore cristiano l’umiltà, davvero non so cosa lo sia.
Portata nella vita di coppia, nella vita matrimoniale, l’umiltà
assume il carattere della sottomissione reciproca. E notate che
questa umile sottomissione non nasce dal dovere, ma dallo stupore
e dalla gratitudine, dalla meraviglia di constatare che la persona

154
che vive con me, pur conoscendo tutti i miei difetti, perfino meglio
di come li conosco io stesso, continua ad amarmi. Non è qualcosa
di stupefacente? Non è un prodigio di cui essere sbalorditi e grati
per tutta la vita? E davanti a questo prodigio non possiamo che
diventare umili, perché l’amore non si pretende, non si può meri-
tare. L’amore è gratis e per questa ragione non puoi che chiederlo
umilmente in dono. Mi piace tanto l’immagine tradizionale della
richiesta di matrimonio, con l’uomo in ginocchio che supplica la
donna di amarlo, proprio perché mette definitivamente in chiaro
questo punto: chi ama è un mendicante.
Sì, l’amore ci rende mendicanti. Solo così faremo la stupefacente
esperienza di essere amati gratis, solo se avremo l’umiltà di metter-
ci in ginocchio e supplicare di essere amati. Siate sottomessi, perché
la sottomissione apre la porta alla gratuità e solo un amore gratuito
rende felici. Siate sottomessi e scoprirete di nuovo l’infinita gioia,
che continuamente si rinnova, di essere amati.
Quello che rende «fastidioso» per molti questo brano è che,
venendo alla concretezza della vita, san Paolo declina in maniera
diversa la sottomissione della moglie da quella del marito. A lei
dice sostanzialmente «obbedisci a tuo marito» a lui in sintesi dice:
«muori per lei». È interessante notare che a parti invertite la cosa
non avrebbe funzionato affatto, perché spesso gli uomini sono
ben contenti di obbedire ad una donna che, come una madre, si
accolli tutte le responsabilità della vita familiare; molte donne,
a loro volta, sono ben felici di morire per le persone che amano:
l’amore inteso come sacrificio è solidamente piantato al centro
dell’identità femminile.
Quindi Paolo va a toccare il cuore dell’egoismo maschile e
femminile. Quando dice alle donne «obbedite ai vostri mariti»
sta loro dicendo: «non fate da madri ai vostri mariti, non cercate
di controllarli o guidarli» e quando dice ai mariti «morite per le
vostre mogli» sta loro dicendo: «alzatevi dal divano e mettetevi a
servire la vostra famiglia». Capite come si esprime la bilateralità in
questo insegnamento? La donna si sottomette all’uomo pronto a

155
morire per lei. Si consegna a colui che si dichiara suo servo, pronto
alla morte per proteggerla e custodirla.
La sottomissione è completamente diversa dalla sopraffazione.
In nessun senso le parole di san Paolo possono autorizzare una
qualche forma di prevaricazione violenta sull’altro. C’è tra i due
concetti la stessa differenza che c’è tra un dono e un furto: il fatto
che io ti faccia un regalo non ti autorizza a derubarmi; nello stesso
modo la libera e gioiosa sottomissione di un coniuge non autoriz-
za in alcun modo l’altro ad avere un atteggiamento di pretesa o
rivendicazione.
La sottomissione è la rinuncia a se stessi fatta in nome dell’a-
more. Non si tratta tanto di abbassarsi, quanto di innalzare l’altro.
Non sto incoraggiando una donna intelligente a far finta di essere
stupida, quanto piuttosto a far sentire suo marito come un genio.
È la morte della rivendicazione, della presunzione di essere rico-
nosciuti, in nome di qualcosa che vale di più, perché è nella natura
dell’amore innalzare l’altro più di se stessi, cos’altro vorrebbe dire
amare una persona se non stimarla più di noi stessi e considerarla
migliore di noi?

Come Cristo e la Chiesa


C’è molto di più in questa pagina paolina, di cui abbiamo appe-
na scalfito la superficie, ed ora che abbiamo messo a posto il falso
problema della sottomissione possiamo addentrarci un po’ di più
nel mistero. Paolo fa un paragone enorme invitando gli sposi ad
amarsi come Cristo ama la Chiesa. La metafora nuziale, che para-
gona Dio ad uno sposo, è comune nella Bibbia, ma Paolo è il primo
che ha il coraggio di rovesciarla, invitando gli sposi a prendere
l’amore di Dio come modello di vita coniugale.
L’enormità di questo passaggio è evidente: chi potrebbe dire ad
un altro: ti amo quanto ti ama Dio? Tutta l’evidenza dolorosa del
nostro egoismo è lì a ricordarci la forza del peccato originale, che
costantemente inquina i nostri tentativi di amare. È inutile negar-

156
lo: non saremo mai all’altezza del dono che abbiamo ricevuto, del
dono cioè che un altro essere umano ci ha fatto mettendo nelle
nostre mani la sua libertà e volontà, in una parola la sua stessa vita.
Eppure questo è il fondamento stesso della spiritualità del ma-
trimonio, perché questo è il matrimonio inteso come sacramento:
la manifestazione potente dello Spirito Santo che rende due sposi
capaci di amarsi di quello stesso amore, diventando essi stessi
presenza viva di Dio. Sì, la Grazia sacramentale rende possibile ciò
che umanamente è inverosimile: un amore coniugale interamente
vissuto in Carità, cioè nel fuoco divino dell’amore. È possibile
vivere così! È possibile amarsi con la stessa passione, con la stessa
forza, con la stessa libertà con cui ama Dio! È possibile ricevere lo
Sposo Divino nella carne del proprio marito, così come si riceve il
Signore morto e risorto per noi nel pane eucaristico!
Questo è il dono che il sacramento del Matrimonio ha posto
nelle vostre mani, ma naturalmente si tratta di accoglierlo, di
renderlo vivo ed effettuale nella vostra vita, perché il matrimonio
come ogni sacramento produce una realtà oggettiva di cui però
non potete godere senza essere nella giusta disposizione interiore.
Sarebbe un po’ come ricevere l’Eucaristia senza fede, capite? Gesù
è oggettivamente presente nel pane, ma se lo mangiate senza fede
non ne avete alcun beneficio, la stessa cosa accade con il matrimo-
nio: diventate il sacramento dell’unione di Cristo e della Chiesa, vi
viene offerto cioè il dono di un amore soprannaturale, ma se restate
prigionieri di una mentalità egoista questo dono in voi non può
mostrare la sua efficacia.
Il matrimonio si vive amandosi, pensate all’inno alla Carità di
1Cor 13, quella dovrebbe essere anche la descrizione dell’amore
tra due sposi: «non cerca il suo interesse, non tiene conto del male
ricevuto, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…». Ma se entrate
in una logica di competizione, in una rivendicazione di diritti, in
una spartizione dei compiti «tu devi fare questo, io devo fare quel-
lo», allora siete fuori dalla logica dell’amore, perché l’amore non è
un contratto di servizi, un patto di mutua collaborazione, ma un

157
dono senza condizioni che niente pretende in cambio. L’amore non
ha diritti per definizione.
Quello di cui stiamo parlando è qualcosa che riempie il desiderio
più profondo dell’uomo, perché questo amore incondizionato è ciò
a cui tutti noi aspiriamo, e quando eravate fidanzati era questo il
desiderio del vostro cuore, donarvi l’un l’altro incondizionata-
mente. Perfino quando il parroco vi ha fatto il «processetto» vi ha
chiesto se ponevate condizioni al vostro matrimonio e voi natural-
mente avete risposto di no, altrimenti non vi sareste sposati. Ora,
il sacramento, cioè la Grazia di Dio che attraverso di esso ricevete,
rende possibile il compiersi di questo desiderio. Il dono di Dio,
la Grazia che avete ricevuto il giorno del vostro matrimonio, è lì
proprio per rendere possibile tutto questo, perché possiate amarvi
con quell’amore perfetto che unisce Cristo alla Chiesa.
E c’è un corollario meraviglioso a quanto ho detto, cioè che la
carne del marito o della moglie – e dico «carne» in senso ampio:
la sua umanità, la sua persona – diventa per il coniuge una carne
sacramentale, vale a dire che, incontrando me, mia moglie incontra
Cristo ed incontrando lei io incontro Cristo. Non il Cristo morto
e risorto per noi, presente nell’Eucaristia, ma lo Sposo Escatolo-
gico, l’Agnello vincitore che alla fine dei tempi verrà a sposare la
Gerusalemme celeste, perché quello è il mistero anticipato sacra-
mentalmente nel matrimonio.
Tua moglie allora diventa presenza di Dio, tuo marito un’ostia
consacrata! Dio ti appare in quest’uomo, in questa donna, con tutto
il suo carico di difetti, che conosci così bene. Proprio lui, proprio lei
è la manifestazione di Dio per te, e voi per questo dovete abituarvi
ad avere un rispetto reciproco formidabile, quasi una venerazione.
Come nel pane eucaristico la fede vi mostra la carne crocefissa e
risorta del Signore, così in quest’uomo, in questa donna, potete
vedere attraverso il velo del peccato e della mortalità, la presenza
stessa di Dio.
Significa anche che devi imparare ad amare il tuo coniuge così
com’è, senza pretendere di cambiarlo. Bisogna avere l’uno per

158
l’altro uno sguardo benevolo e non di giudizio, un atteggiamento
di dono e non di rivendicazione. Così come è, con le sue debolezze
e le sue fragilità. Nel mistero della coesistenza di amore e peccato,
di concupiscenza e dono, quest’uomo, questa donna, è la presenza
di Dio accanto a te, come la Chiesa, con tutti i suoi difetti, è la
presenza di Dio accanto a te, né più né meno. Dobbiamo imparare
a guardarci così, con questo continuo stupore.

Sposi santi
Nella formula del matrimonio si dice una cosa molto bella: «ogni
giorno della vita», capite cosa vuol dire? Voi non avete promesso
di amarvi per sempre, avete promesso di amarvi ogni giorno della
vita, e c’è una grande differenza. Sono capaci tutti a dire «ti amerò
per sempre», ma «ti amerò ogni giorno» sentite come suona di-
verso? Significa che ogni giorno devi ricominciare ad amare, che
devi svegliarti al mattino, ogni mattino, e farti una domanda: oggi
come posso fare a rendere felice questa persona che ho accanto?
Perché in fondo è questo il matrimonio: dedicare tutta la vita a far
felice una persona! Che poi nel linguaggio cristiano felice si dice
santo, e quindi il matrimonio è anche l’impegno a rendere santa
un’altra persona. Ed è appunto quel che dice Paolo nel brano che
abbiamo letto.
Ogni battezzato è responsabile della propria santità, ognuno ha
davanti a Dio il dovere di diventare santo, in più gli sposi hanno
anche il dovere di rendersi santi l’un l’altro. Non di rendere santi
i figli, badate, battezzandoli voi avete promesso di educare i vostri
figli nella fede, ma non di renderli santi, perché la santità è un
affare personale che coinvolge la libertà, e la libertà dei vostri figli
non vi appartiene e quindi va rispettata anche se decidessero di
allontanarsi da Dio. Ma tra marito e moglie non è così: voi la vo-
stra libertà ve la siete donata l’un l’altro e quindi avete il dovere di
usare questo potere che l’altro vi ha dato su di sé per condurlo alla
santità. Alla fine della vita saremo giudicati su questo: se abbiamo

159
corrisposto al nostro dovere di diventare santi e di renderci santi
a vicenda. E, tra parentesi, questo dovere rimane anche in caso di
divorzio, perché la promessa matrimoniale è irreversibile.
Dunque la santità è un cammino, un percorso di vita, è fatta di
tante piccole scelte quotidiane vissute insieme, e questo «insieme»
è molto maggiore della somma delle parti, due sposi santi generano
una famiglia santa, che è una realtà più grande, che va oltre l’incon-
tro dei due. Come sempre quando si ha a che fare con l’amore, uno
più uno fa molto più di due. Prendete i Beltrame-Quattrocchi per
esempio, una coppia di santi sposi sepolti qui a Roma, al santuario
del Divino Amore. La fecondità di questi due uomini di Dio è stata
impressionante, non solo per i tre figli sacerdoti, ma per l’impor-
tante contributo dato alla nascita dello scoutismo in Italia, per le
innumerevoli opere di Carità, per l’attenta partecipazione alla vita
pubblica e sociale. Questa coppia ha generato più di una famiglia,
ha generato un popolo intero! Questo accade sempre quando si ha
a che fare con una coppia di sposi santi: intorno a loro si crea una
sorta di «famiglia allargata» in cui tutti beneficiano del calore e
della luce che emana da quei due, non si può entrare in quella casa
senza esserne in qualche modo contagiati. Una famiglia santa è
un’oasi, un luogo che emana e diffonde santità tutto intorno a sé,
perché questo fa il Sacramento: l’amore di Cristo e della Chiesa è
fecondo e se voi incarnate questo amore nella vita la vostra fecon-
dità andrà molto oltre i limiti della carne.
L’amore per sua natura domanda fecondità: se vi amate non
potrete restare a lungo a rimirarvi negli occhi senza desiderare
che il vostro amore prenda carne e diventi qualcosa di oggettivo.
Un figlio ha qualcosa di me e qualcosa di te, ha il mio naso e i
tuoi occhi, ha il tuo portamento e la mia voce. È proprio come
l’incarnazione della nostra unità, la sintesi di ciò che siamo, l’ipo-
stasi del nostro amore. È come se il vostro amore vi stesse davanti
solidificato, concretizzato e voi lo poteste contemplare in se stesso.
E questo vale anche per i figli adottati, non ci avete mai fatto ca-
so? Dopo un po’, anche senza un legame genetico, finiscono con

160
l’assomigliare ai genitori. Io sono convinto che Gesù somigliasse
moltissimo a Giuseppe.

La mistica della carne


Un filosofo francese, Fabrice Hadjadi, ha scritto un libro formi-
dabile sulla sessualità umana (La mistica della carne, ed. Medusa),
in cui dice che il rapporto sessuale comincia dal primo sguardo e
finisce quando il figlio va all’università. È un po’ provocatorio, na-
turalmente non ogni sguardo è esplicitamente l’inizio di un rappor-
to sessuale, ma esprime due profonde verità: la prima che, appunto
come stiamo dicendo, l’amore per sua natura esige la fecondità e la
seconda che il rapporto sessuale va molto oltre il momento del coito.
L’unione sessuale, l’essere una carne sola, è intrinsecamente
essenziale al matrimonio, senza quello non siete sposi, ma buoni
amici. Certamente l’essere una carne sola contiene il momento
del coito e va molto oltre, diventando la fusione di tutta la vita,
pure è proprio sul coito, o per dirla più poeticamente sull’atto del
darsi-e-riceversi, che voglio soffermarmi un attimo. San Paolo
dice che questo diventare una sola carne è un mistero grande e poi
aggiunge «Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa», ecco io
vorrei concludere questa catechesi parlandovi proprio di questo:
della mistica della carne, di come l’unione di due corpi sia una
liturgia, un atto sacro.
È vero: l’essere una sola carne che è la materia del matrimonio,
va molto oltre il mero atto del darsi-e-riceversi, eppure inizia
con quello. L’amore di Cristo e della Chiesa, che voi incarnate
sacramentalmente, si esprime nella sottomissione reciproca, nella
disponibilità a morire per l’altro, nel desiderio di renderlo felice,
nella responsabilità reciproca verso la santità, nella fecondità per il
Regno di Dio, ma tutto inizia da qui, dall’eros che vi spinge l’uno
verso l’altra, da questo misterioso incontro di due corpi che libera
un’energia infinita, come un big bang gravido di mille possibilità,
che sono possibilità di bene, ma anche di dannazione, sia chiaro.

161
Non dovete mai trascurare la vostra intimità fisica. È un vero
peccato che tante coppie, prese come sono dalle esigenze della vita,
dalla stanchezza, dall’abitudine a volte, finiscano con il vivere la
loro intimità in maniera sbrigativa e senza desiderio. È un peccato
non solo nel senso che è spiacevole, ma proprio nel senso che signi-
fica aver frainteso il più bel dono di Dio all’uomo.
Psicologi e sessuologi parlandovi del matrimonio insistono
molto sulla soddisfazione reciproca e quindi dedicano corsi in-
teri a spiegarvi come avere rapporti sessuali soddisfacenti: dove
toccarvi, come fare per moltiplicare gli orgasmi eccetera. E c’è un
seme di verità in questo, ma è talmente falsato dal rovesciamento
della prospettiva da diventare quasi irriconoscibile; in altre parole
è falso che una coppia che ha rapporti soddisfacenti sia ipso facto
felice, mentre è del tutto probabile che una coppia felice avrà rap-
porti soddisfacenti.
In effetti se fate dipendere l’incontro sessuale dal desiderio lo
avete già falsato. L’amore è un movimento dello spirito, mentre il
desiderio è un movimento della carne; può accadere a volte che la
carne muova lo spirito, ma quando accade, questo non è mai un
processo ordinato. Al contrario le cose avvengono in maniera se-
rena e duratura quando è lo spirito a governare la carne quindi, in
questo caso, quando il desiderio è la fioritura dell’amore e non la
manifestazione di una volontà di potere sull’altro. L’eros è la fio-
ritura dell’amore, non viceversa. Dunque il darsi-e-riceversi non
deve essere un prendersi, non deve essere mosso da una volontà
di possesso, ma da un desiderio di tenerezza offerta e ricevuta.
Vissuto così può diventare quel mistero grande a cui allude san
Paolo, cioè la celebrazione oggettiva del sacramento che vi unisce.
Cari amici, l’unione dei vostri corpi è un evento mistico e sa-
cramentale, è una vera liturgia che coinvolge l’universo intero,
perché evoca e sacramentalmente rende presente la fine dei tempi,
il momento in cui l’Agnello e la Sposa si uniranno per sempre (cf
Ap 21-22). Non c’è niente di più sacro al mondo, eccettuata forse
l’Eucaristia, dell’unione di due sposi. Si potrebbe dire, con qualche

162
piccola forzatura, che l’unico motivo per cui esiste l’universo, e la
terra e il cielo sono stati creati, è per offrire un talamo al vostro
amore!
Non per nulla tutta la Bibbia è racchiusa tra due matrimoni,
quello di Adamo ed Eva e quello dell’Agnello e della Sposa, e si
potrebbe dire che la Storia della salvezza è il racconto del lungo
processo necessario a trasformare l’unione naturale dell’uomo e
della donna nel sacramento dell’unione mistica di Dio e dell’uomo.
L’unione dell’uomo e della donna è un evento cosmico, è qual-
cosa che non riguarda solo i due sposi, ma in un certo modo
rende presente l’universo intero e crea una responsabilità verso
l’universo intero. Questo l’uomo, in qualche maniera oscura, l’ha
sempre sentito e in tutte le culture e religioni, a tutte le latitudini,
il matrimonio è sempre stato percepito come un evento sacro, che
coinvolge Dio stesso e il rapporto con Lui. Solo in tempi recen-
tissimi e solo in una società assurdamente secolarizzata come la
nostra è stato possibile concepire qualcosa come un matrimonio
civile, che da quanto ho detto potete ben capire che è in sostanza
una profanazione, come celebrare la Messa senza essere ordinati
(sebbene sia ovviamente preferibile, da un punto di vista morale,
alla mera convivenza).
Tante volte si dice che gli sposi devono pregare insieme, ed è
vero, naturalmente, ma non nel senso che devono fare tanti rosari
e avere tante devozioni in comune, certo non guasta, ma non è
quella la preghiera tipica degli sposi. La vostra preghiera, come la
preghiera naturale del sacerdote è la celebrazione della Messa, è
l’unione sponsale, il darsi-e-riceversi dei vostri corpi e delle vostre
anime. È questa la vostra liturgia, il rito che dovete celebrare il più
spesso possibile, ogni volta che potete, imparando a viverlo sempre
meglio, in modo sempre più sacramentale, perché in quel modo
rendete sempre più vicino il giorno in cui Dio sarà tutto in tutti e
Cristo sarà lo Sposo universale.
Imparate, perché si impara, ad amarvi così: liberandovi dall’os-
sessione dell’orgasmo, come se fosse quello il problema fonda-

163
mentale e il culmine del rapporto, cercando il piacere dell’altro
e non il proprio, perché l’incontro nuziale non è un prendere,
ma un dare, è il dono di sé ad un altro. Entrate nella logica della
tenerezza, che spalanca l’orizzonte ad un modo completamente
diverso di unirsi e cambia in maniera radicale la prospettiva del
rapporto.
Il matrimonio non è l’incontro di due egoismi che per una
qualche strana alchimia trovano un interesse comune e dunque
imparano a sopportarsi l’un l’altro. È tutt’altra cosa, è l’amore
di Dio che diventa carne in voi, diventa carne al punto che va a
trasformare l’incontro delle vostre carni. Da lì, a cascata, viene
tutto il resto, cioè la gioia della sottomissione reciproca, l’essere
uno per l’altro manifestazione di Dio, il desiderio della fecondità,
la tensione reciproca alla santità, eccetera. Tutto deriva da quella
intuizione iniziale: il mistero grande dell’unione degli sposi, sacra-
mento dell’Unione di Cristo e della Chiesa.

Il canto della fedeltà


Voi le sapevate già queste cose, avete fatto tutti il corso di pre-
parazione al matrimonio, ma è successo che il vino è diventato
acqua. Ora però che il vino vi è stato restituito si tratta di berlo,
cioè di mettere in pratica nella vostra vita quello che avete ascol-
tato. Si tratta di scoprire che il vino che viene dopo, come quello
di Cana che ha dato lo spunto iniziale alla nostra conversazione,
è migliore. La gente quando parla del matrimonio lo pensa come
una sorta di parabola discendente: ci si ama tanto all’inizio, poi
gradualmente ci si abitua l’uno all’altro e alla fine ci si sopporta
appena, non è vero? Ma la storia delle nozze di Cana ci insegna il
contrario, ci insegna che il meglio viene alla fine, proprio quando
conoscete a memoria pregi e difetti l’uno dell’altro e vi sembra di
non potervi più stupire.
Proprio quando c’è questa conoscenza piena infatti diventate ca-
paci di servirvi reciprocamente in maniera perfetta. Nessuno può

164
farsi del male come due sposi invecchiati insieme, perché nessuno
sa con altrettanta precisione dove colpire per far male davvero, ma
allo stesso modo nessuno sa accarezzarvi con quella tenerezza che
viene dalla lunghissima intimità procurandovi quella pienezza di
gioia altrimenti irraggiungibile.
È ciò che avete costruito insieme, i vostri successi e i vostri fal-
limenti, perché i fallimenti vissuti insieme costruiscono quanto i
successi, che farà di voi dei veri sposi. Se entrate nella logica del
dono e della santificazione reciproca scoprirete la fatica della fedel-
tà, il lento cammino dell’invecchiare insieme, che vi ha reso molto
più uniti di quanto lo eravate quando avete cominciato ad amarvi.
In questa logica vi accorgerete che il tempo passato insieme non
è una pietra che vi schiaccia, ma un piedistallo su cui alzarsi per
guardare più lontano. Le coppie che vorrebbero restare sempre
giovani, tutte prese come sono dal fascino dell’innamoramento,
non hanno capito questa semplice verità, che la gioia viene dal
tempo trascorso insieme, ovvero dalla fatica gioiosa della fedeltà.
Sempre Hadjadi, nel libro che citavo prima, dice una cosa bel-
lissima: dice che il Casanova, l’uomo che cambia mille donne, in
realtà si fissa nella ripetizione di un unico gesto. Si illude di cam-
biare, ma ripete mille volte la stessa esperienza, quella del primo
incontro, con mille donne diverse, mentre l’uomo fedele vive mille
esperienze diverse con un’unica donna, perché l’incontro non è
mai uguale, perché ogni giorno cambiamo e così il nostro incontro
è la testimonianza di una crescita, di una evoluzione nell’amore,
che cresce sempre più verso Dio, verso la perfezione del dono.
Perché spesso dopo un divorzio le persone cominciano a fare
divorzi a ripetizione, provando diversi compagni senza mai tro-
vare quello giusto? Appunto perché si illudono che cambiando
partner cambi chissà che, e invece si ritrovano ad affrontare le
stesse difficoltà di prima, a ripercorrere gli stessi passi, anche se
con una persona diversa. Il vero cambiamento invece sta nella
fedeltà, nel vedere lei cambiare accanto a te giorno per giorno,
nell’accompagnare questo cambiamento crescendo insieme verso

165
una meta. Questo è la fedeltà, è molto più del mero non tradire,
quanto appunto questo crescere insieme salendo, di gradino in
gradino, la scala dell’amore.
Tutti i mali del matrimonio vengono da quel falso mito di cui
parlavamo all’inizio, dalla presunzione di farsi da sé la propria vita.
Se saprete abbatterlo ed entrare nella gioia della sottomissione e del
dono reciproco, sarà questa stessa ad insegnarvi, giorno per giorno,
tutto ciò che c’è da sapere sul matrimonio e come viverlo. Allora
troverete il vino buono, quello che non finisce mai.
Incontro delle famiglie, Roma 2013

166
3
Metterò in voi lo Spirito e rivivrete

Leggiamo per intero la straordinaria pagina del profeta Ezechie-


le da cui è tratta la nostra «profezia»:
«La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in
spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare
accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità
nella distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: “Figlio dell’uomo,
potranno queste ossa rivivere?”. Io risposi: “Signore Dio, tu lo sai”.
Egli mi replicò: “Profetizza su queste ossa e annuncia loro: Ossa ina-
ridite, udite la parola del Signore. Così dice il Signore Dio a queste
ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di
voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle
e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”.
Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii
un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno
all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire
sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non
c’era spirito in loro. Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza,
figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: Così dice il Signore Dio: Spi-
rito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”.
Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e
ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande,
sterminato. Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa
d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la
nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e an-
nuncia loro: Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri,
vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella

167
terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le
vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò
entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra
terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”. Oracolo del
Signore Dio» (Ez 37,1-14).
Cinque volte in questo brano Ezechiele ripete il verbo «rivivere»,
quindi questo è proprio il tema fondamentale: vogliamo rivivere!

Un popolo vivo
La prima cosa che balza all’occhio è che la profezia non è rivolta
a un individuo, ma ad un popolo. La promessa di Dio è di far vivere
un popolo intero. Dio non solo vuole degli uomini vivi, ma vuole
un popolo vivo. Perché un popolo non è solo la somma delle perso-
ne che lo compongono. Che cosa fa di noi un popolo? Innanzitutto
l’appartenenza, la condivisione della vita. Una condivisione però
che sia gratuita, mossa dall’amore, perché la condivisione dettata
dall’interesse è quella di una società per azioni e non di un popolo:
il popolo nasce dalla gratuità. Poi un popolo ha bisogno di un’au-
torità attorno a cui radunarsi, di un leader da seguire. Non come
servi passivi naturalmente, ma piuttosto come figli.
Tutto questo si può riassumere in una formula: quello che ci
fa popolo è l’avere una medesima vocazione, un comune destino,
perché essere popolo non è solo avere qualcosa alle spalle che ci
spinge, ma soprattutto avere qualcosa davanti a noi che ci attira,
perché la nostra identità non sta nel passato, la nostra verità, ciò
che siamo davvero, è definita dal nostro futuro. Immaginate
una persona che viene in Comunità dopo aver avuto un passato
tormentato, un tossicodipendente o un teppista, è questo che lo
definisce? Il suo passato? Non è forse vero che san Paolo dice che
chi ha incontrato Cristo è «una nuova creatura»? No, fratelli, io
non sono il mio passato, io sono la direzione verso cui sto an-
dando, io sono la mia vocazione, cioè, in ultima istanza, io sono
il mio futuro.

168
E qui ci incontriamo con la profezia di Ezechiele. Al tempo di
Ezechiele il popolo diceva: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra
speranza è svanita, noi siamo perduti». È un popolo morto perché
è un popolo che non ha più futuro. Un popolo senza futuro è un
popolo che non ha destino né vocazione e dunque neppure spe-
ranza. È un popolo che non ha un cammino davanti a sé, né una
promessa. Ed è tutto questo che lo rende un popolo morto.
Nel 1977 uscì in Inghilterra una canzone micidiale che si inti-
tolava No future, nessun futuro. Era una canzone a suo modo pro-
fetica, vi trascrivo una parte del testo: «Non c’è futuro/ Nei sogni
d’Inghilterra/ Non si può dire ciò che vuoi/ Non si può dire ciò di
cui hai bisogno/ Non c’è futuro, nessun futuro/ Nessun futuro per
te». Chiedetelo ai nostri ragazzi, che percezione hanno del futuro?
Che prospettiva hanno davanti a sé? Quale futuro lavorativo, ma
anche personale, esistenziale, li attende? Possono credere che tra
dieci anni avranno messo su una bella famiglia solida, di quelle
che durano nel tempo?
È ovvio che non siamo un popolo, come potremmo senza una
direzione in cui camminare? Le ossa che vede Ezechiele sono
sparpagliate, senza coesione, perché ciò che ci tiene insieme è la
speranza, il destino, la vocazione, la meta comune. La mancanza di
un futuro ci disperde e ci fa sentire nemici l’uno dell’altro, perché
senza un destino comune non c’è un interesse comune e i nostri
diversi interessi sono necessariamente in lotta tra loro.
Cosa ci ha ridotti così? È importante rispondere a questa doman-
da, perché chi non capisce la storia è destinato a ripeterne gli errori
in eterno. Negli anni ’70 nel mondo e nella Chiesa c’era una grande
energia, c’era tanta gente viva, o almeno che sembrava viva, forse
quella vitalità era più un’illusione che una realtà, visto che messa
alla prova si è sciolta come neve al sole, però se non altro c’era una
speranza, una voglia di crescere, che oggi non si vede. La vitalità, la
forza profetica che c’era nel popolo di Dio era straordinaria. Certo,
c’era anche un po’ di confusione a livello dottrinale, tentazioni
eretiche di vario tipo, ma non si può agitare un bicchiere senza

169
che vada perduta un po’ d’acqua, e il bicchiere andava assoluta-
mente agitato, perché era fermo e stagnante. Non per nulla, quella
è la stagione ecclesiale dei movimenti, da cui siamo nati anche
noi. Uomini del calibro di frère Roger, Chiara Lubich, don Luigi
Giussani, Jean Vanier, e la nostra Jacqueline hanno illuminato un
secolo intero. Certo è stato un tempo speciale di Grazia, un tempo
di fondazione, ma è lecito chiedersi: oggi dove è finito tutto quel
fervore? Che cosa è successo?
Forse quel che ci è successo non è molto diverso da quello che
era successo al tempo di Ezechiele. Perché Israele aveva perso la
speranza? Perché erano in esilio a Babilonia. Bisogna stare attenti
a non confondere le cose: l’esilio a Babilonia è molto diverso dalla
schiavitù in Egitto, noi tendiamo ad assimilare le due cose, ma in
realtà sono state per Israele due esperienze diversissime. L’esilio
babilonese non è stata un’esperienza di schiavitù. I Babilonesi han-
no conquistato Gerusalemme e deportato gli Ebrei, ma non tutti.
Nabucodonosor, più che raccogliere degli schiavi, voleva fare un’o-
perazione di pulizia etnica, come si dice oggi, voleva distruggere il
popolo nelle sue fondamenta e quindi per distruggerne l’identità e
la cultura ha deportato solo la classe colta: i preti, i politici, quelli
che oggi chiamiamo i quadri, e gli intellettuali. Una volta giunti a
Babilonia questi, che erano gente capace, si sono sistemati, si sono
integrati: non erano schiavi appunto. Ed ecco che passa il tempo,
dieci anni e poi venti e poi trenta… l’esilio è durato settant’anni.
La maggior parte di quelli che hanno conosciuto Gerusalemme e lo
splendore del regno di Israele sono morti e i loro figli avranno mes-
so su famiglia, magari sposando qualche ragazza del posto, insom-
ma si sono integrati, sono diventati di fatto Babilonesi, dimentican-
do la loro origine. Leggendo i libri dei profeti di questo periodo si
vede bene che la cosa che li preoccupava di più era proprio questa
integrazione, il fatto cioè che gli Ebrei si dimenticassero della
loro vocazione e cominciassero a vivere al modo dei Babilonesi.
Per questo sono morti, perché hanno dimenticato, perché inte-
grandosi hanno rinunciato alla loro diversità. Un popolo lo fa il

170
futuro, è vero, ma quello che lo rende forte è la memoria del suo
passato. Il futuro ci dà la nostra identità, ci dice chi siamo, ma
il passato ci dice ciò che saremo, ci indica appunto quel futuro
che ci fa popolo. È la memoria che ci dà il coraggio di andare
avanti, di resistere nella situazione concreta. Se ti integri, se co-
minci a pensare con la mentalità di Babilonia, cioè della società
in cui vivi, inevitabilmente perdi la tua diversità e con essa la
tua identità, dimentichi chi sei e quindi perdi anche la tua vo-
cazione, il tuo futuro, e ti ritrovi morto dentro senza nemmeno
sapere il perché. Apriamo gli occhi: siamo stati derubati del
nostro futuro perché siamo stati derubati del nostro passato. Per
vivere comodamente, per non avere problemi, ci siamo adattati
al modo di pensare di tutti e questo ci ha rubato la speranza e
con la speranza la vita.
Che poi, guardiamo in faccia la realtà… scusate, ma a chi vorre-
ste assomigliare dopotutto? Vedete intorno a voi tanti modelli posi-
tivi, di gente felice e realizzata, a cui voler assomigliare? Ditemelo,
che semmai vengo ad abitare dalle vostre parti! La verità invece
è che se ci guardiamo intorno i modelli di vita che Babilonia ci
propone sono assai peggio della nostra condizione attuale, quindi
perché dovremmo sceglierli? Vi rendete conto che è tutto un astuto
marketing? Bisogna riconoscere che a Babilonia lavorano straordi-
nari pubblicitari, gente bravissima a vendervi fumo, ma in sostanza
di fumo si tratta, e nemmeno profumato. E allora, sinceramente,
vale la pena di adeguarsi? In cambio di cosa avete lasciato lo stile
di vita cristiano? Per avere cosa in cambio? Un grande scrittore
del passato diceva: «Il cristianesimo non è stato messo alla prova
e trovato fallace, è stato trovato difficile e non messo alla prova»
(G.K. Chesterton, da Le avventure di un uomo vivo). No, è arrivato
il momento di dirlo forte, ad alta voce: noi siamo diversi! Noi vo-
gliamo essere diversi! Non perché siamo orgogliosi o presuntuosi,
ma perché siamo di Cristo, e Cristo è diverso.

171
Non solo lo Spirito

C’è un’altra cosa che mi piace tanto in questa pagina di Ezechie-


le, ed è che non basta lo Spirito. «Farò entrare in voi lo Spirito e
rivivrete», certamente, ma appunto lo Spirito deve poter entrare in
qualcosa, deve avere un’umanità su cui appoggiarsi, dunque prima
di effondere lo Spirito è necessario formare l’uomo. A ben guarda-
re, proprio in questa pagina, prima di effondere lo Spirito Dio fa
tre cose importanti per queste ossa aride che siamo noi: costruisce
uno scheletro, gli dà una carne, lo ricopre di pelle.
Innanzitutto, le ossa, che erano disperse, si riavvicinano, cia-
scuna al suo corrispondente, a incastro: la spalla con l’omero,
la tibia con il perone eccetera, perché siamo fatti così, nessuno è
indipendente. La generazione di mio padre è stata educata all’indi-
pendenza, a non chiedere mai, c’era una famosa pubblicità tempo
fa che esaltava «l’uomo che non deve chiedere mai», un’intera ge-
nerazione educata all’indipendenza, a non aver bisogno di niente
e di nessuno. Guai a chi si mostra debole, guai a chi chiede aiuto,
guai a chi mostra di aver bisogno degli altri. Ma io vi dico invece:
guai a chi non ha bisogno di nessuno, perché quell’uomo morirà
solo, guai a chi non sa chiedere aiuto, perché morirà da solo.
E invece nel popolo vivo che Dio sta creando ogni osso trova
il suo corrispondente, il suo aggancio. Le ossa si avvicinano e si
stringono, si compattano e si uniscono, finché non si forma uno
scheletro capace di alzarsi in piedi, di stare in piedi da solo. È
un’immagine potente, bellissima. Nessun osso può stare in piedi da
solo, ma lo scheletro sì, una volta che gli altri ci sostengono siamo
capaci di stare in piedi di fronte alla fatica della vita.
E poi su queste ossa crescono i nervi e soprattutto la carne.
Lo Spirito è importante, chi può dire di no? Senza lo Spirito la
carne non giova a nulla, dice san Giovanni; però bisogna anche
dire che senza la carne lo Spirito non ha un luogo dove posarsi.
Anche la carne è importante, non potete farne a meno, non po-
tete dimenticarla. Carne non significa solo i muscoli, la «ciccia»,

172
carne significa la tua umanità, quello che c’è dentro di te: istinti,
desideri, il tuo inconscio, insomma quello che ti fa uomo, non
è un concetto negativo. Quando viene, lo Spirito non viene a
spazzar via tutto questo, non mi rende totalmente diverso da ciò
che ero prima, ma si armonizza con la mia umanità; la cambia,
ma non la abolisce.
La filosofia medioevale, san Tommaso in particolare, aveva uno
slogan efficacissimo: «Gratia supponit natura et perficit eam». La
Grazia presuppone la natura e la porta a compimento, dunque la
carne ha bisogno di un compimento, non basta a se stessa. Nella
mia carne c’è scritto un futuro, una promessa. Prendete il sesso, ad
esempio, la manifestazione della carne per definizione si direbbe,
no? Eppure anche il sesso invoca lo Spirito, ha bisogno dello Spiri-
to, altrimenti resta una promessa incompiuta. Infatti senza amore
cos’è il sesso? Il sesso diventa amore quando in questo desiderio
della carne, in questa esperienza del piacere io faccio entrare lo
Spirito. Questo vale per tutte le cose della vita… il mangiare, ad
esempio: mangiare è un atto della carne, non c’è dubbio, ma non è
vero che a nessuno piace mangiare da solo? Il mangiare desidera lo
Spirito, invoca lo Spirito, ed io metto lo Spirito nel mangiare quan-
do ne faccio un gesto di comunione, un atto di amore. E notate che
il mangiare e il far l’amore diventano la base di due sacramenti
fondamentali come l’Eucaristia e il Matrimonio!
Ed ugualmente, come la carne invoca lo Spirito, così pure lo Spi-
rito ha bisogno della carne, non ci può essere Spirito senza carne.
Per riprendere l’immagine di prima legata ai sacramenti senza
l’unione sessuale o senza l’atto del mangiare non ci sarebbero né
Eucaristia né Matrimonio. Vi dico che su quelli che vogliono lo Spi-
rito senza la carne, quelli che hanno quella deformazione terribile
della fede che si chiama «angelismo», quelli che vorrebbero essere
angeli, lo Spirito forse scenderà, ma non si fermerà a lungo, come
la colomba che Noè aveva inviato fuori dall’arca, che non poteva
fermarsi perché non aveva trovato alcuna terra su cui posarsi. Il
mio grande amico e maestro, san Bernardo, nel suo commento al

173
Cantico dei Cantici scrive che «Senza il corpo lo Spirito non può
giungere a perfezione, né può essere di alcuna utilità al prossimo».
La formula di san Bernardo è perfetta: senza il corpo lo Spirito
non può giungere a perfezione, perché lo Spirito cresce nel dialogo
con il corpo, imparando dal corpo, né può essere di alcuna utilità
al prossimo, perché come potrei amare una persona se non avessi
un corpo? L’amore è dialogo, comunicazione, servizio; tutte cose
che presuppongono un corpo. Carne e Spirito, umanità e divinità,
sono fuse in un tutt’uno, questa è la legge dell’Incarnazione, è il
principio base di tutto il cristianesimo, è il primo assioma della
nostra fede, da cui non si può prescindere.
Dunque: le ossa si riaccostano l’una all’altra, ciascuna al suo cor-
rispondente, su queste ossa cresce la carne e sulla carne poi cresce
la pelle. Voglio fermarmi un momento sul dettaglio della pelle,
perché è importante. Nella storia dell’esegesi biblica noi Cattolici
lo abbiamo sottovalutato, ma Ortodossi ed Ebrei ci hanno dedicato
una grande attenzione. Ricordate la storia del Peccato Originale?
Quando Adamo ed Eva vengono scacciati dal Paradiso Terrestre
Dio si preoccupa di donare loro delle «tuniche di pelle», per coprirli
e difenderli. Nell’esegesi ortodossa e rabbinica queste tuniche di
pelle rivestono un ruolo importantissimo.
Che cos’è la pelle? Un medico vi dirà che è l’organo più grande
del corpo umano, ed uno dei più complessi. La pelle è l’organo
attraverso cui entriamo in relazione con il mondo, è mediante la
pelle che noi «sentiamo» la realtà. La pelle dice contatto, esperien-
za. Non per nulla il tatto è il senso primario, quello attraverso cui
abbiamo una comunicazione più primitiva, quello che fa passare
meno informazioni, che però sono anche le più basilari. Se tocchi
una persona le stai dicendo fondamentalmente due cose: che ci sei
e che la ami (o la odi, il contatto può indicare anche repulsione,
pensate ad un pugno). Non è forse il senso del tatto quello che offre
la maggior parte delle metafore emozionali e relazionali? Quando
vogliamo dire che una cosa ci ha emozionato diciamo che «ci ha
toccato», quando vogliamo parlare di un incontro significativo

174
diciamo che abbiamo stabilito un contatto, eccetera. Tra i sensi,
il tatto è quello che trasmette meno informazioni, ma sono anche
quelle che hanno un maggiore contenuto emozionale, pensate
ad un bacio tra due fidanzati, quante informazioni ci sono in un
bacio? Una sola, ma quanta passione, quanta emozione, quanto
amore… la pelle comunica molto più delle parole e degli sguardi,
e comunica le cose essenziali, basilari. La pelle dice se sei vivo o
morto, se ami o se odi.
E la pelle ha anche una funzione protettiva, ci permette di
toccarci senza ferirci, di entrare in relazione mettendoci in gio-
co a poco a poco, gradualmente, coinvolgendoci man mano che
scopriamo che il nostro reciproco contatto è benefico e positivo.
Attraverso la pelle impariamo anche come toccarci, la pelle ci in-
segna l’arte del contatto reciproco, l’arte dell’incontro. Per questo
mi impressiona, e un po’ mi spaventa, la fobia dei contatti umani
che vedo in tanta gente oggi. Tutti dietro alle tastiere dei computer
a insultarsi come carrettieri senza che ci sia un contatto reale, di
pelle, tra le persone. Che se ci fosse saremmo assai più delicati nei
nostri scambi, perché appunto, la pelle ci insegnerebbe a toccarci
nel modo giusto. La pelle dice realtà, concretezza, contrapposta
alla virtualità della mente. Internet è il «luogo senza pelle», dove,
lo vedete, nulla è vivo, ma c’è solo un simulacro di vita.
Non c’è niente da fare: per essere vivo, vivo davvero, ho bisogno
di uno scheletro, della carne e della pelle e dunque Dio riaccosta
le ossa sparse una all’altra, crea la comunità; dà a queste ossa una
carne cioè un’umanità, che significa anche una storia e una vita, e
sopra di essa forma una pelle che rende possibile il contatto, l’in-
contro tra persone. Questo è ciò che serve per fare un uomo e dun-
que un popolo. Cosa manca ancora perché questo popolo sia vivo?

È lo Spirito che dà la vita


È lo Spirito, non c’è dubbio, ciò che ci rende effettivamente vivi,
che lega ossa carne e pelle in un tutto coerente e lo tiene insieme,

175
che dà all’uomo la sua direzione, il suo perché, che lo illumina da
dentro e gli dà una spinta ed una direzione. Ma la vita, se è vera,
non finisce. Per questo avvertiamo sempre la morte come un ol-
traggio, un’ingiustizia. Non ci si abitua mai alla morte e sempre
sentiamo che c’è qualcosa di sbagliato nel morire. Moriamo, ma
non siamo fatti per la morte, anzi al contrario: la vita desidera
l’eternità, invoca l’eternità… chiunque vorrebbe vivere per sempre.
Ma l’esperienza cristiana, di chi ha ricevuto lo Spirito Santo, è
l’esperienza di una vitalità talmente forte che non può finire. Se
penso al mio futuro, se penso alla mia morte, io so che non finirò.
Non che mi faccia delle illusioni, questo cuore prima o poi cesserà
di battere, ma non ha nessuna importanza, perché io vivo come
colui che è amato e questo amore, l’amore di Dio, non può che
essere più forte della morte. Non posso pensare che qualcosa sia
più forte dell’amore che ho ricevuto, nemmeno la morte stessa.
Non posso pensare che tanto amore possa finire in niente, che
Dio smetta di amarmi, che possa pentirsi e lasciarmi ricadere
nel nulla da cui mi ha creato. Allora, uno che vive così è più forte
di ogni cosa. È un uomo che ha vinto la morte e con la morte ha
vinto il suo principale agente: la paura. Uno che ha vinto la morte
non ha più paura di niente, uno che ha vinto la morte è corazzato,
inattaccabile, invincibile, qualsiasi cosa gli accada. Non che non
soffra più, ma sarà più forte di qualsiasi dolore e diffonderà vita e
gioia attorno a sé.
Uno che ha vinto la morte lo riconosci dal sorriso contagio-
so, basta guardarlo per sentir nascere in noi l’allegria e la pace.
Quest’uomo avrà una capacità di incontro soprannaturale, ti
accorgi che è vivo perché è sempre aperto a tutti, disponibile per
tutti, perché avendo vinto la morte non ha più niente da temere
dal prossimo e quindi può andargli incontro senza difese, senza
barriere.

176
La terra e il riposo

Questo è quello che lo Spirito fa dentro ciascuno di noi, renden-


doci uomini vivi. Se poi dico che questi uomini vivi formano un
popolo vivo aggiungo ancora qualcosa, appunto perché un popolo
è più della somma delle persone che lo compongono. Questo «di
più» Ezechiele lo esprime nella frase che segue immediatamente la
nostra profezia: «Vi farò riposare nella vostra terra».
Noi siamo un popolo vivo quando riposiamo sulla nostra terra.
Queste sono due parole importanti nella Bibbia: riposo e terra. Il
riposo è ciò che distingue l’uomo libero dallo schiavo: lo schiavo è
chi non può decidere quando riposare, l’uomo libero se vuole ripo-
sa. Guardate il vostro lavoro e più ancora il modo con cui lavorate e
chiedetevi: siete schiavi o potete riposare? Lo Shabbat, il giorno del
riposo, piantato al centro del nostro tempo, è un formidabile stru-
mento di libertà, perché ci ricorda che il lavoro è per l’uomo e non
l’uomo per il lavoro e che il fine del lavoro è la contemplazione, la
lode di Dio. Quindi la promessa di Dio: «vi farò riposare» equivale
a dire: farò di voi uomini liberi. Questo fa per noi lo Spirito, ci re-
stituisce il possesso del tempo, ci rende padroni del nostro tempo.
Avete notato che il tempo vi sfugge da tutte le parti? Che per
quanto vi sforziate non riuscite a controllarlo? La frase che ripe-
tiamo più spesso è «non ho tempo». Ed è proprio così: non abbia-
mo più tempo, perché ne veniamo costantemente derubati. Ogni
mattina Dio ci dona ventiquattro ore nuove, 3600 minuti puliti
e freschi, tutti per noi. Solo che non sono ancora cominciati che
noi già ne abbiamo speso la metà programmandoci tutta l’agenda
della giornata, e poi ci sono i tempi morti, le pause di trasferimento
tra una cosa e l’altra e il tempo speso nel traffico. Alla fine della
giornata quanti di quei 3600 minuti abbiamo dedicato a noi stessi
e a fare ciò che ci piace davvero?
Il problema è che il tempo non è semplicemente un’unità di
misura; il tempo è la vita, è il numero di battiti cardiaci che ci se-
para dalla morte. Chi ruba il tempo ruba la vita. Un popolo senza

177
tempo è un popolo di morti e dunque se Dio vuole far vivere questo
popolo deve innanzitutto donargli il possesso del tempo. Qui si
aprirebbe un discorso politico importante, che è quello della lotta
per il giorno di riposo. Ormai la Domenica non è più considerato
il giorno di riposo di tutti, ma ogni datore di lavoro stabilisce il
giorno di riposo per i dipendenti quando gli pare, a rotazione.
Capite questo cosa significa? Significa che non c’è mai un giorno
di riposo per tutto il popolo, che ognuno è costretto a riposare
da solo, mentre l’esperienza del riposo, per essere tale, dovrebbe
essere innanzitutto un’esperienza di comunione. Quando avrò
tempo di coltivare le amicizie e gli affetti se ognuno riposa in un
giorno diverso? Questo anche senza calcolare l’aspetto religioso
della Domenica, che per noi è prioritario. Anche da un punto di
vista strettamente laico l’abolizione del giorno di riposo è un passo
indietro nella promozione dell’uomo.
Ma torniamo al possesso del tempo. È vero che ognuno di noi
ha una dotazione di 3600 minuti al giorno che non è modificabile,
però in effetti tutti noi facciamo esperienza del fatto che il tempo
scorre a velocità diverse a seconda del nostro stato d’animo, quindi
noi abbiamo la possibilità di «far fruttare di più» il nostro tempo,
così che nella durata è sempre lo stesso, ma nell’esperienza sog-
gettiva aumenta moltissimo. Sì, possiamo moltiplicare il nostro
tempo. Come? Con l’amore.
Qualsiasi cosa faccia, se la faccio con amore mi ritorna molti-
plicata, in termini di energia, di vitalità, di gioia. Immaginate una
madre di famiglia che deve stirare una montagna di panni: se lo
fa di malavoglia, sbuffando, o se lo fa con amore sentirà il tempo
passare nello stesso modo? È chiaro che lo stesso lavoro fatto con
rabbia ci costa tre volte tanto in termini di fatica e non ci accresce,
non ci rende migliori, anzi ci incattivisce. Non saremo mai capaci
di guardare al nostro lavoro, come il Creatore, e dirgli «quanto sei
bello!» (cf Gn 1,31). Il tempo vissuto con amore vi ritorna moltipli-
cato: non è un lento morire, ma un accrescimento di vita; non vi
sfugge tra le dita, ma torna a voi in termini di energia, di speranza,

178
di forza. San Tommaso d’Aquino diceva che il riposo non consiste
nel non lavorare, ma nel lavorare con gioia. Quando uno lavora
con amore non sente il peso del lavoro, e se lo sente basta una bella
dormita e gli passa.
E poi la terra. Per riposare abbiamo bisogno di una terra, di un
luogo in cui stare, che ci appartenga ed a cui noi apparteniamo. La
terra è la casa, il luogo delle relazioni, il supporto necessario perché
possa esserci una comunità. La terra siamo noi, è la comunità. La
Comunità Maria è la nostra terra. La terra è la Chiesa, la Chiesa
tutta intera, è l’insieme delle nostre relazioni. Quando la Chiesa
non è più un luogo di guerra e diventa invece un luogo di riposo,
allora è in azione lo Spirito Santo, che sta facendo di noi un popolo
vivo. Nessuno può essere vivo da solo. Innanzitutto non è un at-
teggiamento cristiano: io non posso semplicemente pensare a me
stesso e disinteressarmi della morte intorno a me, e poi in realtà se
provate a vivere così non resterete vivi a lungo, perché appunto è
l’amore che ci fa vivere. Se volete rimanere vivi dovete appartenere
ad un popolo vivo, stare sulla sua terra, riposare in questa terra
viva e libera, che è poi il Regno Di Dio.
Prima che il card. Ratzinger diventasse Papa, mi capitò di
ascoltare un suo discorso molto bello, che diceva più o meno (cito
a memoria): «Un cielo che tollerasse di avere sotto di sé una terra
ridotta ad inferno, potrebbe ancora dirsi Paradiso?». Se il cielo
fosse indifferente al grido di dolore che sale a Dio dal mondo,
potrebbe dirsi Paradiso? No, ovviamente no, perché verrebbe me-
no l’elemento fondamentale, che lo rende Paradiso, cioè l’amore.
Allo stesso modo un popolo vivo non può disinteressarsi di tutto
ciò che gli succede intorno, specialmente in un tempo difficile e
tormentato come il nostro, altrimenti non resterebbe vivo a lungo.
Cari fratelli, il Signore ci sta chiamando, ci sta dando una
direzione. Ho cercato di farvi vedere stamattina quanto bella e
profonda. Ma questo dono non è solo per noi: attraverso di noi
deve giungere a tutti. Prima riflettendo su questa pagina ci siamo
immedesimati nelle ossa, quelle su cui il Signore soffia per farle

179
rivivere. Ma adesso vi chiedo di mettervi al posto di Ezechiele, di
salire sul monte a pregare. Voi siete il profeta, voi siete quelli che
dalla cima del monte vedono più lontano ed invocano su tutto
il popolo la vita. Invocate lo Spirito non su di voi, ma su tutte le
ossa aride che conoscete: amici, vicini di casa, colleghi, persone
con cui avete a che fare ogni giorno, senza speranza, senza futuro.
Invocate lo Spirito su di loro perché ogni osso possa riavvicinarsi
al suo corrispondente, perché su di loro ricrescano la carne e la
pelle ed infine invocate Dio, che mandi il suo Spirito e possano
vivere davvero.
XXXVII Convegno nazionale, Fiuggi 2014

180
4
La famiglia, scuola di generosità

Il dogma infernale
La prima parola della Bibbia sulla famiglia è nel libro della Ge-
nesi: «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Non è la prima
in ordine cronologico, perché già nel primo capitolo si parla della
coppia umana, ma in ordine logico, perché ci dice una verità pro-
fonda sull’uomo: Dio non vuole la solitudine. Perché? Perché la
solitudine è morte, tanto che spesso nell’Antico Testamento le due
parole sono associate e a volte usate quasi come sinonimi; l’uomo
solo è un uomo morto: è un fatto autoevidente, tutti abbiamo l’e-
sperienza di come la solitudine sia nemica della vita.
La cosa interessante è che invece il mondo in cui viviamo, la so-
cietà che abbiamo costruito, fa di tutto per farci essere soli. Proprio
perché questo principio, «non è bene che l’uomo sia solo», è il fon-
damento di tutto l’insegnamento biblico sulla famiglia e sull’uomo,
è anche il più attaccato e messo in discussione nel mondo di oggi
che ci vuole soli e quindi congiura per distruggere quella scuola
di solidarietà naturale che è la famiglia. Prendete, ad esempio, la
legge appena approvata che accelera i tempi del divorzio. Una volta
la legge imponeva alle coppie che volevano divorziare un tempo
di riflessione, adesso si fa prima a cambiare moglie che gestore
telefonico.
D’altronde si capisce facilmente il perché: questa politica infatti
corrisponde al primo dogma dell’inferno. Il primo dogma infer-
nale recita così: «il mio interesse non è il tuo». Questa è la regola
base del diavolo, il motivo per cui tutte le cose sono in conflitto,

181
il motivo per cui abbandonati a se stessi gli uomini si ritrovano
inevitabilmente ad essere nemici, il motivo per cui se vogliamo il
nostro bene siamo costretti a lottare l’uno contro l’altro, perché
se penso che il mio interesse non è il tuo allora vuol dire che non
posso credere all’esistenza di un bene comune.
Ecco: la famiglia non funziona così! Non per nulla Dio l’ha
creata prima del peccato, dunque la famiglia, pur essendo come
tutte le cose umane ferita dal peccato originale, è una realtà in se
stessa buona, radicalmente buona, come è l’uomo, che, pur essendo
peccatore, non perde mai la sua qualità di immagine di Dio. La
famiglia dunque sfugge alla logica infernale, anzi, va esattamente
in direzione contraria: è l’unica realtà naturale in cui gli uomini
sperimentano che può esistere un bene comune, in famiglia ognu-
no si rende conto che l’interesse dell’altro corrisponde al proprio:
se mia moglie sta bene, sto bene anche io, se i miei figli stanno
bene, sto bene anche io.
Come è possibile che accada questo? C’è qui un mistero na-
scosto, qualcosa che sfugge alla nostra percezione ordinaria delle
cose. Vedete, il dogma infernale non è arbitrario: ha un suo cinico
realismo, una sua perversa ragione di essere, che è il principio
della incompenetrabilità dei corpi: dove io vivo non puoi vivere
anche tu, perché le risorse non sono infinite, quindi prima mangio
io, poi se ne avanza mangi anche tu. Sembra logico, no? Sembra
logico perché siamo segnati dal peccato originale, ma se parliamo
di famiglia parliamo di una realtà che nasce prima del peccato, e
quindi scopriamo che nella famiglia agiscono anche forze diverse,
più potenti del peccato stesso.
Un esempio tratto dalla fisica può aiutarci a capire: noi sappiamo
che di per sé le particelle che compongono l’atomo tenderebbero
a respingersi, ma c’è una forza che le tiene unite. Così accade alle
persone: di per sé tenderebbero a respingersi, ma nella famiglia
entra in gioco un’altra forza che le avvicina. Basta andare in me-
tropolitana al mattino per rendersene conto: se uno sconosciuto
mi abbraccia, perché si sta pressati come sardine, io sono infasti-

182
dito, se invece mi abbraccia mia moglie o mio figlio sono felice.
Questo accade perché in famiglia, come nell’atomo, c’è in azione
una forza misteriosa, maggiore di quella repulsione naturale,
che ci tiene uniti. È l’amore, certo, ma non voglio passarci sopra
così facilmente, dobbiamo dare un senso a questa parola per non
rischiare di scivolare in un sentimentalismo che non cambia la
vita di nessuno. Preferisco quindi, per non essere frainteso, usare
un’altra espressione e parlare di logica dell’unità.

La logica dell’unità
Per prima cosa voglio notare che la logica dell’unità non riguar-
da affatto i soli credenti: è una spinta primordiale, che troviamo
nell’uomo, ma anche nella maggior parte dei mammiferi, più
primitiva e viscerale della fede e della ragione. Qui c’è un mistero
in azione: come è possibile cioè che l’uomo e molti mammiferi
diano più importanza al bene della famiglia che al proprio bene,
tanto da essere capaci di andare anche contro il proprio interesse
se necessario? Io vedo in questo una traccia di Dio, una eco del pa-
radiso terrestre, di quel soffio che Dio aveva insufflato nelle narici
di Adamo e che quindi vale per tutti, credenti o no, una memoria
di come doveva essere la vita prima del peccato.
Ecco perché il diavolo cerca in tutti i modi di distruggere la fa-
miglia, perché essa, nella sua stessa natura, è una forza di bene: una
realtà che parla di Dio in sé, a prescindere dalla fede. Ecco quindi
che il mondo ci propone schemi di comportamento e forme di
famiglia, se si può ancora chiamarla tale, organizzati non secondo
la logica dell’unità, ma secondo il dogma infernale dell’interesse.
Quando in una famiglia si comincia a ragionare in termini di di-
ritti e doveri, quando si entra in competizione tra moglie e marito,
vuol dire che quella forza che ci teneva insieme sta perdendo coe-
sione e la coppia inizia a disgregarsi. E la rottura del nucleo fami-
liare ha sulla coppia e sui figli conseguenze spirituali e psicologiche
paragonabili a quelle che sul piano fisico ha la rottura dell’atomo,

183
che, come si sa, produce una terribile esplosione. A volte per evitare
quell’esplosione si cerca di controllarla con leggi e regole, che però
non risolvono il problema, perché trasformano il patto coniugale in
una sorta di contratto di servizi, in cui ciascuno deve fornire certe
prestazioni e restare dentro un ambito determinato… ma questa
è la morte dell’amore!
Quando uno sta nella logica dell’unità invece, quando capisce
che il tuo bene è il mio bene, impara una cosa fondamentale che
quando faccio i corsi di preparazione al matrimonio chiamo per-
dere per amore. Cosa vuol dire? Vuol dire rendersi conto che in
famiglia la cosa più sana e intelligente da fare a volte è perdere,
perché cosa me ne faccio dell’aver ragione in una discussione se
poi questo porta alla rottura di quel nucleo originario? Parafra-
sando Gesù potremmo dire: «Quale vantaggio c’è che un uomo
guadagni il mondo intero e perda la propria moglie?» (cf Mc 8,36).
Molto meglio, mille volte meglio, accettare di essere in torto, ma-
gari anche avendo ragione, piuttosto che perdere l’unità! Pensate
che meraviglia una discussione in cui ognuno si preoccupa più di
dar ragione all’altro piuttosto che di aver ragione lui. Ma questo è
esattamente quello che dovrebbe essere una famiglia funzionante,
una famiglia in cui si è compreso il principio di base della logica
dell’unità.
Il dogma infernale può essere tradotto anche così: mors tua, vita
mea. La logica dell’unità invece funziona al contrario: vita tua,
vita mea. Quello che sto dicendo c’entra moltissimo con il tema
che avete dato a questo incontro: «Il mio Dio a sua volta colmerà
ogni vostro bisogno, secondo la sua ricchezza, con magnificenza in
Cristo Gesù» (Fil 4,19). Vi confesso che quando ho saputo questo
titolo sono rimasto piuttosto sbalordito, perché mi sembrava che
non c’entrasse niente con la famiglia. Intendiamoci, è una Parola
bellissima, ma di per sé non rientra tra le cose di cui di solito si
parla in riferimento alla famiglia. Riflettendoci però mi sono reso
conto che questa Parola guarda lontano.

184
Amare con magnificenza

Questa frase è tratta dalla lettera ai Filippesi, dove Paolo invita


i Cristiani di Filippi a contribuire alla colletta che aveva organiz-
zato tra tutte le Chiese per sovvenire alle necessità dei Cristiani di
Gerusalemme, colpiti da una carestia. In questo contesto invita i
Filippesi ad essere generosi appunto con queste parole: «il mio Dio
a sua volta colmerà ogni vostro bisogno», che è come dire che Dio
non si lascia vincere in generosità e se noi saremo generosi Lui lo
sarà di più.
Vedete il legame con il tema della famiglia? La famiglia è proprio
quella scuola di generosità in cui si impara una logica diversa da
quella infernale, è la scuola che ci insegna che non è vero che il tuo
interesse non è il mio. La famiglia è precisamente il luogo dove si
impara ad amare con magnificenza. Mi piace tanto questa parola:
magnificenza, che Paolo lascia cadere quasi distrattamente nel
discorso. Cosa vuol dire dare con magnificenza? Vuol dire esage-
rare nell’amore, dare al di sopra dei propri mezzi, spendere più di
quello che si ha. Ma è proprio così che si ama in famiglia! Chi è che
non dà ai propri figli più di quello che ha – non dico in termini di
soldi, ma in termini di energie, tempo, disponibilità, fatica – tutti
in famiglia fanno, o dovrebbero fare, più di quello che possono.
Ecco perché la famiglia è una scuola di generosità, perché è l’u-
nico luogo in cui si impara ad amare gratis, e certo che al diavolo
dà molto fastidio tutto questo! E allora tocca a noi, è un nostro
preciso dovere, far sì che le nostre famiglie assomiglino sempre più
a questo modello ideale, perché questo non accadrà spontaneamen-
te. Ci sono due forze in atto nel contesto della famiglia: la logica
infernale e la logica dell’unità si combattono e l’esito dello scontro
non è affatto deciso senza un nostro intervento in favore dell’unità.
Abbiamo detto che il fondamento del dogma infernale è la
scarsità delle risorse: non posso permettermi di essere generoso
perché altrimenti per me non avanza nulla. Ma noi crediamo in
un Dio che dona con magnificenza, secondo la sua ricchezza che è

185
infinita. Noi crediamo in un Dio che moltiplica i pani e i pesci, che
ha creato ogni cosa secondo il criterio della sovrabbondanza. Noi
crediamo in un Dio che moltiplica le forze e le risorse dell’uomo,
che lo fa capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di amare al di
sopra delle forze, di tentare a costo di morire nel tentativo. E chi si
affida a questo Dio – è Lui stesso che ce lo dice per bocca di Paolo
– sperimenterà come Egli «colmerà ogni nostro bisogno, secondo
la sua ricchezza, con magnificenza», una ricchezza e magnificenza
che nemmeno sappiamo immaginare, perché sono la Maestà stessa
di Dio, il suo essere Padre Onnipotente, datore dei doni.
Allora il compito storico di una famiglia credente è proprio
quello di testimoniare la fede nella Provvidenza di Dio, che fonda
la nostra generosità, ed operare con questa magnifica generosità,
che non si lascia spaventare dai limiti, anzi, non li vede neppure.
Abbiamo detto che ciò che ci inclina a credere al dogma infer-
nale e quindi ci impedisce di essere generosi è il peccato origina-
le. Notate che il peccato originale va ad impattare direttamente
sulla realtà familiare. Tutti sapete qual è stato il primo peccato,
ma sapete quale è il secondo? Il primo è quello di Eva, il secondo
(forse anche più grave del primo) è quello di Adamo, che invece
di prendersi davanti a Dio la responsabilità della propria colpa e
chiedere perdono, accusa la donna, e in subordine accusa perfino
Dio, infatti per Adamo responsabile del peccato è «la donna che
TU mi hai posto accanto».
Allora vedete il riflesso di ciò che sto dicendo sulla realtà fami-
liare? Il peccato che rompe il rapporto di fiducia tra l’uomo e Dio,
che ci fa mettere in dubbio che la persona che abbiamo accanto
sia accanto a noi per il nostro bene, rompe anche la comunione
tra l’uomo e la donna e li fa entrare in un meccanismo di accuse
reciproche che sembra tanto uno scaricarsi l’un l’altro addosso la
responsabilità del proprio fallimento esistenziale. Proprio come
avviene di solito in una causa di divorzio. Quello che mi preme
di farvi notare è che la logica dell’unità crea una solidarietà, un
legame, che invece è rotto dalla logica dell’interesse. Non c’è soli-

186
darietà nel peccato, semmai c’è complicità. Solo la generosità rende
possibile una vera unità che non sia fondata sull’interesse reciproco
e quindi abbia una garanzia di stabilità.

La condivisione della Grazia


La generosità rende possibile la condivisione della Grazia. Che
cos’è la condivisione della Grazia? È il potere più grande che Dio
ha dato agli sposi: il potere di santificarsi a vicenda, proprio come
scrive san Paolo ai Corinzi: «Il marito non credente viene reso
santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa
santa dal marito credente» (1Cor 7,14).
Nel Vangelo di Giovanni c’è un episodio che spiega molto bene
quello che sto dicendo, è l’episodio celeberrimo della donna sama-
ritana al pozzo (Gv 4,1-42). Ricorderete che dopo aver annunciato
il Vangelo alla donna Gesù le dice «va’ a chiamare tuo marito».
Perché le dà questo comando? Perché senza questo passaggio il
percorso di quella donna nella Vita non sarebbe stato completo.
Non credo che Gesù abbia fatto quella richiesta solo per mettere
in evidenza il peccato della donna, non ce lo vedo a fare queste
manipolazioni di bassa lega, in genere anzi è molto franco e diret-
to; penso invece che la Sua fosse una richiesta autentica perché un
percorso esistenziale non è completo finché non coinvolge anche il
coniuge, che del resto è ben per questo che si chiama con-iuge, cioè
colui che porta il peso insieme a me. È il percorso inverso a quello
di Eva: Eva va a chiamare Adamo per condividere il peccato, Gesù
invece invita la donna a chiamare il marito per condividere l’acqua
viva, la grazia dell’incontro con il Messia. Bisogna riconoscere che
in genere in questo le donne arrivano prima: sono più sensibili, più
aperte… arrivano prima nel peccato e arrivano prima nella Grazia.
Questa condivisione della Grazia è resa possibile da quel legame
profondo che la Bibbia chiama l’essere una sola carne e che a sua
volta si traduce esistenzialmente nella concretezza della vita pro-
prio in questo amore sovrabbondante, in questa generosità magni-

187
ficente. Allora accade che tra gli sposi che vivono così, e a cascata
anche con i figli, diventa possibile trasmettersi tutto ciò che viene
da Dio con una libertà e una fecondità che altrimenti sarebbero
impensabili. La preghiera fatta in famiglia, ad esempio, ha una
bellezza ed un’efficacia segreta che nessuna liturgia solenne potrà
mai raggiungere e il catechismo impartito dai genitori penetra e
mette radici nell’animo dei figli in un modo che nessuna catechesi
parrocchiale potrà mai uguagliare. Se gli sposi sono una sola carne
lo sono anche davanti a Dio e quindi sperimentano in permanenza
quella grazia speciale, che i non sposati conoscono solo in modo
occasionale, che Gesù promette quando dice: «dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Qualche conseguenza politica


Detto questo, visto che in questo momento la battaglia intorno
alla famiglia è combattuta anche e soprattutto nelle aule parla-
mentari, vorrei ritornare un momento indietro per tirare alcune
conseguenze politiche dai principi spirituali che ho enunciato
prima. Potreste farlo anche da soli, ma non voglio rischiare che
rimangano cose non dette, e quindi sarò esplicito, anche a costo
di essere noioso.
Abbiamo detto che il mondo ci vuole da soli, anzi come si dice
oggi ci vuole single. Questa rielaborazione del linguaggio è un
segno quasi certo che è in atto un tentativo di manipolazione:
quando vedete che una cosa che per secoli si è chiamata in un
modo – uno scapolo o una zitella per esempio – improvvisamen-
te si comincia a chiamare in un altro potete essere certi che è in
azione una neolingua, come la chiama un grande scrittore inglese,
George Orwell, che forse più di tutti ha indagato i meccanismi del
condizionamento sociale.
Ma perché il mondo ci vuole soli? Perché dal punto di vista del
mondo è molto meglio avere quattro single piuttosto che una fa-
miglia di quattro persone? Per una ragione semplice, perché quel

188
meccanismo di solidarietà di cui abbiamo parlato fa della famiglia
un baluardo formidabile di difesa della libertà e dell’identità delle
persone. Le persone in famiglia si sostengono l’una con l’altra e
quindi sono più libere di fronte allo Stato. Parlo di cose molto
concrete: immaginate di dover chiedere un prestito; se avete fami-
glia vi rivolgete innanzitutto a loro: ai genitori, ai parenti e solo in
ultima istanza andrete a chiedere in banca, viceversa un uomo solo
è una preda facile di banche e assicurazioni. Insomma la famiglia
è una rete di sicurezza che ci protegge, da soli siamo nelle mani
del mercato.
La famiglia poi è una straordinaria scuola di realismo. La pre-
senza di una moglie o dei figli ci riconduce continuamente alla
concretezza, mettendoci al sicuro dalle ideologie, ci insegna a
relativizzare i proclami dei demagoghi, ci svela i trucchi e le ma-
nipolazioni con cui la propaganda e la pubblicità continuamente
cercano di catturarci.
E infine la famiglia porta con sé un modello sociale, è uno sche-
ma di organizzazione del mondo che vale anche in scala macrosco-
pica. Giovanni Paolo II definiva la Chiesa una famiglia di famiglie,
dunque il modello di società che noi dobbiamo costruire è questo:
ripetere su larga scala la logica dell’unità imparata in famiglia, in
modo da non avere più famiglie armate l’una contro l’altra, ma
famiglie solidali nella ricerca del bene comune. Sperimenteremo
allora che questo Dio magnificente, che non si lascia vincere in
generosità, continua ad operare anche su scala più grande, per
cui sperimento che se la mia famiglia è solidale con un’altra, se la
generosità che ho imparato in casa poi la riverso nella comunità,
nella chiesa, nelle persone che incontro per strada, quella genero-
sità mi ritorna moltiplicata per cento. Scopro allora che partendo
da quella scuola di generosità che è la famiglia, tutto il mondo
diventa più generoso.
Parliamo sempre molto poco di generosità, vero? Diciamo sem-
pre che ci dobbiamo amare, ma non diciamo mai abbastanza che
dobbiamo essere generosi l’uno verso l’altro. Eppure la generosità

189
è un elemento essenziale dell’amore, come si può parlare d’amore
senza parlare di generosità? Sembrerebbe ovvio, sembrerebbe
banale, ma in realtà riusciamo a fare delle costruzioni talmente
complicate, parliamo d’amore in un modo del tutto intellettuale,
riusciamo a parlare di servizio, di altruismo senza mai parlare di
bontà… Misteri dell’animo umano. La verità ancora una volta è
tutta qui: Dio, ricco di generosità, secondo la sua ricchezza con ma-
gnificenza ricolma ogni nostro bisogno. Lo fa innanzitutto nella
famiglia e questo libera le nostre risorse interiori, libera la nostra
capacità, la nostra possibilità di essere a nostra volta generosi.
Allora cosa possiamo fare noi adesso? Noi che ci troviamo qui a
confrontarci con le realtà del nostro piccolo egoismo e del nostro
peccato? Noi tentati dal metterci uno contro l’altro anche in fami-
glia anziché essere dalla stessa parte? Noi tentati di rompere questo
nucleo atomico che è la famiglia, come ci dobbiamo comportare,
cosa dobbiamo fare?
Dobbiamo chiedere aiuto a Dio che ama con magnificenza e
ricolma ogni nostro bisogno, perché noi potremo amarci in questo
modo, cioè con questa generosità, nella misura in cui noi stessi
avremo sperimentato la generosità di Dio per noi. È questo il senso
di ciò che comanda Gesù: «Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). Dunque
fatti prima amare da Gesù, comprendi cos’è l’amore, sentilo vivere
in te e poi a tua volta saprai amare nello stesso modo. Sperimenta-
telo innanzitutto in voi stessi quest’amore provvidente di Dio che
colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnifi-
cenza e poi dedicatevi voi a ricolmare ogni bisogno degli altri, nella
vostra famiglia innanzitutto, in vostra moglie o in vostro marito,
dedicatevi voi a riempire ogni bisogno dei vostri figli – che non
vuol dire viziarli, perché la prima cosa di cui ha bisogno un figlio è
la verità – e poi tutti insieme, come famiglie riempite ogni bisogno
di tutte le persone che avete intorno.
Si può vivere così, perché a sua volta Dio non si lascia vincere in
generosità, si può vivere così perché questa gara emozionante tra

190
Dio e l’uomo è una gara senza limiti, quindi impariamo ad amare
così, perché Dio ci insegna ad amare così, perché Dio ama così. E
ringraziamo il Signore per questo dono grande di questa scuola di
generosità che è stato affidato a noi.
Incontro delle famiglie, Roma 2015

191
5
Lo stupore e l’amicizia

«Allora Gesù li chiamò a sé e disse: “Lasciate che i bambini vengano


a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il re-
gno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come
l’accoglie un bambino, non entrerà in esso”» (Lc 18,16-17).

Nella Bibbia il verbo «stupirsi» e il corrispondente sostantivo


«stupore» si usano solo in un caso: quando si sta parlando dell’o-
pera di Dio. Tutto il resto è considerato banale, l’uomo biblico è un
uomo in generale non facile allo stupore, ma di fronte all’opera di
Dio è colto da una sorta di vertigine, da una meraviglia che lo fa
fermare incantato. Questo vuol dire che lo stupore è la più imme-
diata ed istintiva, e quindi anche la più logica e razionale, reazione
umana di fronte all’azione di Dio.
Questo non è affatto scontato, anzi, è il segno più caratteristico
dell’umanità, direi che è quasi una definizione di uomo: l’uomo è
un essere capace di stupore. Oltre l’uomo esiste nell’universo un
solo altro essere capace di stupore, Dio. Come l’uomo si stupisce
di Dio, così Dio si stupisce di se stesso: crea il mondo e poi si fer-
ma a contemplarlo, riempie l’uomo della Sua Grazia e poi rimane
incantato a vederlo agire nello Spirito (cf 1Cor 4,9). Dio si stupisce
di se stesso e l’uomo è immagine di Dio appunto per questo, perché
è capace di stupore. Dio e l’uomo sono gli unici capaci di dire di
qualcosa: è bello. Gli animali non apprezzano le cose perché belle,
ma perché utili, l’uomo invece anche nella perfetta inutilità può
vedere una bellezza. Forse il dramma del nostro tempo è proprio

192
questo, che diamo molta più attenzione all’utilità che alla bellezza
e se fossimo capaci di valorizzare la bellezza ci riapproprieremmo
di una caratteristica fondamentale della nostra umanità.
Lo stupore è l’inizio della fede. Perché esiste il mondo invece di
non esistere? È la tipica domanda che si fanno i bambini, ma è la
più fondamentale di tutte. Questa domanda è il frontespizio del
libro della vita, quello dove sono stampati il nome dell’autore e il
titolo dell’opera, e se la perdiamo non siamo più capaci di capire
il libro. Purtroppo abbiamo perso questa capacità dei bambini, e
quindi il Regno di Dio ci è sfuggito.
La conseguenza più logica ed immediata dello stupore è la lode
(cf Lc 5,26), è dire a Dio e alle sue opere, al mondo e all’uomo:
«quanto sei bello!». Per questo noi carismatici dobbiamo averlo
particolarmente caro e stare bene attenti a non perdere la capacità
di stupirci, perché chi non sa stupirsi non sa lodare. Dunque vorrei
dividere questa catechesi in due parti: vorrei parlarvi prima delle
malattie dello stupore, quegli atteggiamenti interiori per cui per-
diamo la capacità di stupirci, ed ovviamente delle corrispondenti
terapie, poi vi parlerò della Grande Sentinella dello stupore, il dono
che Dio ci dà per aiutarci a custodirlo sempre.

Tutto è degno di stupore


Io credo che la prima malattia dello stupore sia la banalizzazio-
ne, cioè il dare le cose per scontate, e la seconda la pretesa di me-
ritarle e quindi l’incapacità di percepirle come un dono. La radice
di entrambi gli atteggiamenti è la superbia, la pretesa di essere più
grandi di ciò che siamo. Fintanto che restiamo bambini, finché
siamo capaci di quella piccolezza e semplicità dei bambini, siamo
capaci di stupore, perché ci rendiamo conto che niente di ciò che
accade è scontato e niente ci è dovuto e quindi tutto è dono. Ma
nel momento in cui pensiamo di essere grandi e quindi di merita-
re qualcosa ecco che non ci stupiamo più di nulla, perché tutto ci
giunge come un atto dovuto.

193
Prendete, ad esempio, due cantanti famosi: Ligabue e Vasco
Rossi. Vasco esalta la «vita spericolata», quella delle superstar,
vissuta in una frenetica ricerca di grandezza, Liga invece canta la
bellezza del quotidiano: «Se sotto il cielo c’è qualcosa di speciale
passerà di qui, prima o poi» oppure anche: «ogni minuto è pieno,
ogni minuto è vero, se ci sei». Capite la differenza? Anche la vita
del più spericolato degli avventurieri se la guardate da lontano è
terribilmente noiosa. Se volete rendere appassionante la vostra vita
il segreto non è fare cose strepitose, ma imparare a guardare la vita
da vicino, perché se guardate da lontano ai vostri giorni tutto vi
apparirà piatto e monotono, ma se ci entrate dentro, se andate a
vedere le variazioni e i cambiamenti attimo per attimo vi accorge-
rete che nulla si ripete mai uguale, tutto è diverso, ogni istante è
unico ed irripetibile e così diventa fonte di stupore.
Per prendere la vostra vita «e farne un capolavoro», come diceva
ai giovani san Giovanni Paolo II in Sardegna nel 1985, bisogna
imparare ad entrare dentro le cose, non a passarci sopra a volo
di uccello, perché tutto è degno di attenzione, tutto è degno di
stupore. Prendete la vita di un monaco di clausura, ad esempio.
È una vita basata su una strettissima routine che si ripete sempre
uguale dentro le quattro mura di un’abbazia, con una decina di
fratelli che sono sempre gli stessi, giorno dopo giorno, anno dopo
anno. Eppure proprio questa routine è ciò che permette al monaco
di osservare i sottili ed impercettibili cambiamenti che Dio opera
nella sua anima e nel mondo attorno a lui un attimo dopo l’altro ed
è quindi una vita straordinariamente avventurosa, proprio perché
chiusa in un microcosmo.
Dunque questa è la prima malattia dello stupore: dare le cose
per scontate, banalizzandole. E la cura è imparare a guardarle da
vicino, entrandoci dentro, e scoprire così che tutto merita attenzio-
ne e suscita meraviglia. La seconda malattia dello stupore invece è
pensare di meritare le cose, pensare che tutto ci sia dovuto. È l’at-
teggiamento tipico dell’adolescente, direi che è ciò che caratterizza
il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

194
Tutto è dono

Noi dobbiamo imparare a guardare alla nostra vita come dei


naufraghi, perché in realtà è questo che siamo: prendiamone atto,
siamo dei sopravvissuti, dei salvati. Allora dobbiamo imparare a
guardare a ciò che abbiamo come se fosse ciò che siamo riusciti a
salvare dal naufragio della nostra vita. Facciamo l’inventario: cosa
abbiamo? Un paio di braghe di tela e un temperino, non sarebbe
niente per il borghese comodamente seduto in casa propria, ma che
tesoro prezioso è per un naufrago! Allo stesso modo guardate il
mondo intorno a voi: famiglie perdute, nevrosi collettive, lavoro in
crisi, suicidi, droga… tanti non ce l’hanno fatta, tantissimi. Tanti
sono annegati nel naufragio di questo mondo. Noi no, noi ci siamo
salvati: l’angelo del Signore ci ha preso per i capelli e ci ha portato
in salvo su questa spiaggia, la Comunità Maria, e allora facciamolo
l’inventario, di ciò che abbiamo… Capite che partendo da questa
prospettiva tutto acquista un sapore diverso?
Prendete, ad esempio, la parabola del padre misericordioso (Lc
15,11-32): la storia ci parla di due fratelli, di cui uno fa naufragio,
l’altro rimane comodamente nella casa del Padre. Uno pensa di
non meritare nulla di ciò che ha, l’altro pensa di meritare molto
di più di ciò che ha. Secondo voi chi è più felice? Questo atteggia-
mento cambia tutto nella vita: chi pensa di non meritare ciò che
ha riceve tutto come un dono; chi sono io per meritarmi questa
moglie, questi figli, questa giornata stupenda, il panorama fan-
tastico che si vede da quassù, questi amici meravigliosi? Ma chi
pensa di meritare tutte queste cose non le vede nemmeno, perché
le percepisce come un atto dovuto, esattamente come un adole-
scente che non si rende conto dei sacrifici che i genitori fanno per
lui e vivrà quindi in una perenne insoddisfazione: niente sarà mai
abbastanza per lui. Poiché tutto gli è dovuto, è incapace di gratitu-
dine e dunque non sa più né stupirsi né godere della vita, passerà
da un’esaltazione all’altra nel tentativo di riempire un vuoto che in
realtà è incolmabile, perché non è un vuoto di cose, ma di amore.

195
Dio è nell’imprevisto

La terza malattia dello stupore è più insidiosa, perché è tipica di


chi ha già iniziato un cammino. Mentre le due che abbiamo visto
riguardano in genere chi è ai primi passi nella vita spirituale, la
terza subentra dopo un po’, quando, superato l’entusiasmo della
conversione, la luna di miele con il Signore, si deve entrare nella
routine quotidiana. È la tentazione del tecnicismo, di diventare
professionisti dello Spirito. Chi sono i professionisti dello Spirito?
Sono quelli che riducono la vita spirituale ad una serie di cose da
fare. Ma se il servizio di Dio consiste solo in cose da fare, allora
la vita spirituale diventa un problema tecnico e questo elimina lo
stupore, perché i problemi tecnici hanno soluzioni tecniche. Ci
accade come accade talvolta agli psicologi che si autocondanna-
no alla solitudine perché non riuscendo a separare la professione
dalla vita psicanalizzano tutti: amici, moglie, figli, rendendosi
insopportabili a tutti e soprattutto diventando incapaci di cogliere
con stupore e meraviglia i gesti delle persone intorno a loro.
Il punto della questione è proprio questo: la vita spirituale non
sarà mai un problema tecnico, perché Dio è nell’imprevisto. «Il
vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove
viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).
Dio non è nella programmazione, nella tua agenda, perché Lui è il
Signore e non accetta di lasciarsi ridurre alla tua misura, quindi si
nasconde nell’imprevisto, proprio perché vuole stupirci sempre.
Da queste parti è nata una che non è che abbia avuto una vita
esemplare, ma ha scritto alcune bellissime canzoni, Mia Martini.
In una di queste dice: «programmare la vita in un giorno significa
morire quel giorno». Mi è sempre piaciuto tanto questo verso e
dice la stessa cosa che stiamo dicendo: la programmazione è la
morte dello stupore e quindi, in un certo modo, la fine della vita
spirituale.
Proprio per questo Dio è un vento forte che butta le nostre
carte all’aria, è uno che ribalta continuamente gli schemi e se noi

196
restiamo prigionieri di quegli schemi ci troveremo ad essere con-
tinuamente ribaltati, finché non impareremo a fidarci più della
Provvidenza che delle nostre capacità, della sapienza di Dio più
che della nostra organizzazione.

La programmazione carismatica
Eppure alle volte programmare è necessario, perché vivendo in
comunità con altri non si può farne a meno: abbiamo appuntamen-
ti, scadenze, impegni comuni e quindi dobbiamo necessariamente
darci delle regole. Bisogna quindi imparare la programmazione ca-
rismatica. Permettetemi una piccola digressione per spiegare cosa è
la programmazione carismatica, ovvero come si fa a programmare
le cose rimanendo nello Spirito.
La prima regola è evidente: la programmazione scaturisce dalla
preghiera, non viceversa. Il più delle volte noi facciamo la nostra
agenda in base a quelle che sembrano priorità, stabiliamo una gerar-
chia di bisogni secondo il nostro schema e la nostra comprensione
delle cose e poi, forse, sottoponiamo a Dio il risultato chiedendogli di
benedirlo. La programmazione carismatica si muove in senso inver-
so: si parte dalla preghiera, chiedendo a Dio quali sono le Sue priori-
tà, e solo in base a questo si stabilisce la gerarchia delle cose da fare.
La seconda regola scaturisce dalla prima, ed è: flessibilità. Pro-
prio perché chi stabilisce le priorità non siamo noi bisogna essere
sempre attenti, perché non di rado le priorità cambiano in corso
d’opera e allora bisogna saper cogliere la volontà di Dio nel pre-
sente, attimo per attimo.
La terza regola è: l’unità prevale su tutto. Questa è una regola
generale da applicare in qualsiasi situazione, meglio sbagliare che
perdere l’unità, meglio fare una cosa male piuttosto che litigare,
meglio perdere un’opportunità che un fratello. La conseguenza di
questa regola quindi è che bisogna avere molta più attenzione alle
persone che alle cose, perché il bene delle persone prevale sempre
sull’efficienza.

197
La quarta regola è: fate spazio all’imprevisto. Come si fa a pre-
vedere l’imprevisto? Bisogna lasciare spazi vuoti nell’agenda: se
prevedete di impiegare un’ora a fare una cosa, nella vostra agenda
salvate uno spazio di un’ora e mezzo. Vi accorgerete che Dio si
infilerà proprio in quello spazio vuoto, riempiendolo di senso e
bellezza.
La quinta regola è: don’t panic! Non fatevi prendere dall’ansia,
fidatevi della Provvidenza e sappiate improvvisare, ricordando che
Dio scrive diritto sulle righe storte. Ci sarà sempre tempo per fare
tutto ciò che è necessario e se non c’è tempo vuol dire che non è
necessario come ci sembrava.
È vero che non sempre si possono applicare queste regole, so-
prattutto quando dobbiamo inserirci in una programmazione
fatta da altri, penso al mondo del lavoro, ma anche, purtroppo,
alla collaborazione con certi enti diocesani. Come fare ad inse-
rirci nella programmazione, a volte strettissima, che altri hanno
costruito e al tempo stesso salvaguardare uno spazio per Dio?
Innanzitutto vi faccio notare che questo è un problema che anche
Dio ha, infatti noi lo costringiamo proprio a far così, ad adattarsi
ai nostri schemi per poterci amare. In questo caso, proprio come
fa Dio con noi, dobbiamo innanzitutto essere molto umili e non
pretendere di imporre il nostro punto di vista, cosa che renderebbe
impossibile la collaborazione. Poi dobbiamo essere così duttili e
flessibili da entrare nello schema degli altri rimanendo noi stessi,
portando la novità dentro di noi, ma senza stravolgere lo schema
generale.

La più grande meraviglia: l’amore degli amici


Quindi abbiamo parlato delle malattie dello stupore: la banaliz-
zazione, il merito e il tecnicismo. Ora vorrei parlarvi della Grande
Sentinella posta a guardia dello stupore dentro di noi, del dono
immenso che Dio ci ha dato per conservare sempre in noi quell’a-
nimo da bambini che ci fa capaci di meravigliarci di ogni cosa.

198
Per Grazia di Dio c’è una cosa che non possiamo mai program-
mare e che resiste ad ogni banalizzazione e sarebbe del tutto folle
dare per scontata, e tuttavia è la più bella, quella che la Bibbia
definisce un balsamo di vita: l’amicizia (cf Sir 6,16).
L’amicizia è il punto più alto dello stupore, la cosa più stupefa-
cente che possa accaderci, ed è forse la più grande opera di Dio.
Attenzione, perché l’amicizia è cosa diversa dalla Carità ed anche
dalla comunione. Parliamo spesso di Carità e di comunione e ve-
ramente troppo poco di amicizia e allora oggi cercherò di riempire
questo vuoto.
In Greco carità si dice agape e amicizia filía, in latino invece
parleremo di caritas e dilectio. Sono dunque forme diverse dell’a-
more, benché simili, ed è importante capire la differenza. La di-
lectio ha a che fare con il diletto, con il piacere, mentre la caritas
nasce dall’aver caro qualcosa o qualcuno, quindi dallo stimarlo
prezioso. Questo forse è uno dei motivi per cui i teologi e filosofi
moderni, che sono generalmente moralisti, guardano con un certo
sospetto l’amicizia, perché è facile confonderla con l’eros, cioè con
il desiderio, appunto perché ha a che fare con il piacere. In realtà
però sono due cose completamente diverse. Non abbiamo tempo in
questa sede di spiegare compiutamente le differenze psicologiche e
antropologiche fra le tre diverse forme di amore, dovremo quindi
accontentarci di rapidissimi cenni.
Voglio innanzitutto osservare che essere parte di una medesima
comunità non richiede di per sé di essere anche amici, perché c’è
differenza tra l’amico e il fratello: il fratello è colui a cui sono legato
da una comune origine e da un comune destino, in termini spiri-
tuali da una medesima vocazione e da una comune appartenenza.
L’amico invece è colui al quale mi unisce un legame affettivo. Il
beato Aelredo di Rievaulx, nel suo straordinario trattato L’amici-
zia spirituale la definisce come: «una sintonia nelle cose umane e
divine, piena di benevolenza e di carità», aggiungendo subito dopo
che per benevolenza intende un sentimento «d’amore unito a dol-
cezza», insomma, ciò che noi in italiano chiamiamo «voler bene».

199
Quindi in Paradiso saremo tutti amici e fratelli, ma finché siamo
in questo mondo dobbiamo accettare il fatto che non tutti i fratelli
sono amici. Anzi, sebbene ovviamente l’ideale di una comunità
sia quello di essere sia fratelli che amici, pretendere di imporre
l’amicizia porterebbe a risultati disastrosi. Bisogna accettare se-
renamente il fatto che non possiamo avere con tutti la medesima
«sintonia nelle cose umane e divine» e tantomeno lo stesso «amore
unito a dolcezza».
Dunque l’amicizia è questa dolcezza dello stare insieme, questa
consonanza di affetti nelle cose umane e spirituali che giunge fi-
no all’essere un cuore solo e un’anima sola. Notate che a marito e
moglie non è chiesto di essere un cuore solo e un’anima sola, ma
una sola carne. Naturalmente è meglio se cuore ed anima vanno
nella stessa direzione della carne, quindi è bene che marito e mo-
glie siano anche amici, ma il significato di questa unione è diverso.
L’unità della carne è l’unità della vita, tale per cui io non posso più
pensare me stesso da solo, separatamente da mia moglie, non ho
più identità né consistenza senza di lei perché siamo due parti di
un’unica cosa; l’unità dell’amicizia invece è libera e va quotidiana-
mente rinnovata, dunque non può mai essere pretesa né data per
scontata, è una unità del cuore e quindi richiede una decisione della
volontà che va posta di nuovo ogni volta.
Cosa c’entra allora l’amicizia con lo stupore? Molto, moltissimo
perché l’amicizia nasce e vive nello stupore. Non può affatto essere
scontato che ci sia un’altra persona con cui sperimentare quella
«sintonia nelle cose umane e divine». Incontrare un amico è come
incontrare un altro se stesso, uno così intimo da poter capire fino
in fondo ciò che pensa e sente, come se lo sentissi io, e da cui sen-
tirsi altrettanto capito: impossibile banalizzare questo avvenimen-
to, è un miracolo! È come se il naufrago di cui sopra incontrasse
un altro naufrago come lui, perché l’amico è il compagno che mi
strappa dalla solitudine.
Nemmeno un marito o una moglie possono fare questo, o me-
glio possono farlo se diventano anche amici, ed è auspicabile che

200
accada ovviamente, ma non è scontato. Solo l’amico mi strappa alla
solitudine e per questo l’amicizia è il dono più grande, perché la
solitudine è morte, è non-essere. Tutto il resto è risolvibile, tutto il
resto è un problema tecnico che con competenza e coraggio posso
affrontare e risolvere, ma la solitudine no, perché non posso vin-
cerla finché rimango solo e un amico non posso fabbricarlo da me,
non posso programmarlo, non posso obbligarlo ad essermi amico
e quindi resterà sempre un dono. Per questo davanti all’amico
non posso che essere umile, perché l’amicizia non può mai essere
pretesa, ma solo chiesta in dono. Non posso obbligare un altro ad
esistere per me, a donarsi a me, posso solo chiederlo in dono.
Quindi il primo stupore che l’amicizia porta con sé è quello del
dono: tu esisti, ci sei. E come canta Elton John in una bella canzo-
ne sull’amicizia «La vita è più bella se nel mondo ci sei tu», cioè il
semplice fatto che l’amico esista rende il mondo più bello e la vita
più desiderabile.
Il secondo stupore dell’amicizia è che non solo tu esisti, ma
addirittura mi ami. E questo davvero deve riempirci di stupore:
l’amico è un altro te stesso, quindi è uno che non puoi inganna-
re, a cui non puoi mentire, che ti conosce perfettamente, sa lo
schifo che sei, conosce le tue debolezze e le tue miserie, eppure
ti ama! Non c’è gioia più grande di questa nella vita: scoprire di
essere amati nonostante la propria miseria. E non c’è stupore più
grande. Per questo l’amicizia ci guarisce definitivamente dalla
malattia del merito, perché l’amico è colui che ci ama a prescin-
dere e prima di ogni eventuale merito da parte nostra. L’amore
dell’amico allora è quello che mi rende sicuro di me stesso, quello
che mi fa stare in piedi di fronte alla vita, che mi dice che la mia
vita vale a prescindere. L’esistenza dell’amico mi fa aprire gli oc-
chi sulla mia esistenza, sentendo il suo amore capisco di essere
amabile e senza rendermene conto cambio in modo da diventarlo
sempre di più.
Il terzo grande stupore dell’amicizia è che tutto questo è libero
e gratuito, è un dono e quindi non può mai essere previsto né

201
programmato, è fuori da ogni schema e da ogni possesso. L’ami-
cizia è l’imprevisto per definizione. Marito e moglie hanno diritti
reciproci e di conseguenza reciproci doveri, così anche i fratelli di
comunità, l’amico invece no: è libero, eppure ogni giorno si dona
a me, capite perché non è programmabile? L’amicizia non può
essere mai frutto di una tecnica, nasce invece dalla spontaneità
del dono di sé.
Tutto questo per dire che, appunto, l’amicizia è la Grande Senti-
nella dello stupore. L’amico è la persona che ti è stata messa accanto
per custodire in te la capacità di stupirti e in questo continuamente
ti rimanda a Dio, perché continuamente ti ricorda che tutto è dono,
tutto è gratuità. Non c’è bisogno di pregare insieme per fare questo,
anche l’amicizia naturale produce lo stesso effetto, proprio perché
sviluppa in noi la gratitudine. Naturalmente l’amicizia spirituale
aggiunge qualcosa a questo, cioè la consapevolezza della respon-
sabilità reciproca che abbiamo l’uno verso l’altro.
Mi spiego meglio: nel sorgere dell’amicizia c’è una prima fase
che potremmo chiamare adolescenziale in cui gli amici si cerca-
no soprattutto per il piacere di stare insieme. In questa fase uno
cerca l’amico per stare bene, appunto come fanno gli adolescenti,
ma rapidamente la gratitudine porterà il sentimento ad evolversi
e cominceremo così a cercare l’amico per far star bene lui, come
dice Gesù: «non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici» (Gv 15,13).
Notate che anche nel discorso di Gesù sull’amicizia c’è un’evolu-
zione, infatti ci chiama amici perché «tutto ciò che ho udito dal Pa-
dre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15) e quindi ci ha offerto
se stesso, perché non c’è nulla in Gesù che non provenga dal Padre.
Ciò che Egli ha ricevuto dal Padre è se stesso e quindi facendoci
conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre è se stesso e la sua vita
che ci ha offerto, appunto in quella intimità che è «sintonia nelle
cose umane e divine». È Gesù dunque il primo che ci ha chiamato
amici, che si offre a noi come amico e noi possiamo sperimentare
la sua amicizia nella preghiera con un realismo e una concretezza

202
sorprendenti, che non sono affatto diminuiti, anzi sono esaltati,
da un’amicizia terrena.
Poiché Gesù ci ha offerto la Sua amicizia quando ancora erava-
mo nemici, cioè lontani da Lui, anche noi dobbiamo fare la stessa
cosa. Per questo l’amicizia più grande consiste nel dare la vita. Si
può dire parafrasando la prima lettera di Giovanni: nessuno può
dire di avere Gesù per amico se non ha almeno un amico in questo
mondo (cf 1Gv 4,20), perché nessuno sa cos’è l’amicizia se non ha
un amico, come nessuno sa cos’è l’amore se non ha mai amato.
Del resto come Dio è amore allo stesso modo si può dire che Dio
è amicizia.
Ecco allora l’ultimo passaggio: poiché l’amore più grande è
morire per l’amico, l’amicizia esprime fondamentalmente questo
prendersi cura. Così diventiamo l’uno per l’altro i custodi dello stu-
pore. Allora la cosa più preziosa della nostra vita che è la capacità di
stupirsi, perché – l’abbiamo detto – è l’inizio della fede e della lode
e il fondamento della gioia, non è nelle nostre mani, ma è affidata
alle mani di un altro, il tuo amico, che deve custodirla per te. Gesù
ha detto che «chi vuol salvare la propria vita la perderà» (Lc 9,24),
perciò dobbiamo affidarla ad un altro questa vita: tu custodisci la
vita del tuo amico e lui custodisce la tua, tu custodisci il suo stupo-
re e lui custodisce il tuo. Abituiamoci a questo. Ricordiamoci l’un
l’altro la necessità, la gioia, la bellezza dello stupore. Ricordiamoci
l’un l’altro la novità quotidiana dell’imprevisto che si affaccia nelle
nostre vite e le rende sempre più belle.
Giornata comunitaria della provincia
di Reggio Calabria 2014

203
Indice

Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 5

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 7

PREGARE NEL VENTO


Lo Spirito loda Dio in noi

1. Io sono la luce del mondo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11


2. Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo . . . . . . . . . . » 22
3. Concepirai… Partorirai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 31
4. Fino ai confini della terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 36
5. La fede dell’animatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 42
6. Ti basta la mia Grazia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52
7. Il Magnificat: umiltà e lode . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 62

AMARE NEL VENTO


Lo Spirito ci fa comunità in Dio

1. Come un pastore… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71
2. I sentimenti di Gesù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 89
3. Due sorelle e il Signore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
4. Rimane in eterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 114
VIVERE NEL VENTO
Lo Spirito annuncia il Vangelo

1. Operai responsabili nella vigna del Signore . . . . . . . . Pag. 125


2. Il mistero grande. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 152
3. Metterò in voi lo Spirito e rivivrete . . . . . . . . . . . . . . . » 167
4. La famiglia, scuola di generosità. . . . . . . . . . . . . . . . . . » 181
5. Lo stupore e l’amicizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 192

Potrebbero piacerti anche