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Alessandro de Concini

Studiare non è una cazzata


Tutto quello che devi dimenticare per riuscire a
imparare
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione digitale aprile 2023

ISBN ebook: 9788858856376

In copertina: illustrazione di Laura Pittaccio.


Foto dell’autore: ADC s.r.l.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Dedico questo libro a mia
mamma, che non ha affatto
gradito la scelta del titolo.
Scusa se dico le parolacce,
mamma.
INTRODUZIONE
Un giorno di ordinaria follia

Ci sono libri che nascono dall’amore, ci sono libri che affondano le loro
radici nell’esperienza di vita dell’autore; altri ancora vedono la loro genesi
in un’idea, una scintilla di potere creativo che regala al mondo l’opportunità
di affrontare un viaggio meraviglioso e irripetibile.
Questo libro, invece, nasce dal giramento di palle.
Direi che è evidente fin dal titolo che ho scelto e che (miracolosamente)
è stato approvato, un titolo non esattamente conciliatorio.
La verità è che sono stufo: sono quasi quindici anni ormai che in un
modo o nell’altro mi interesso di apprendimento, memoria, metodo di
studio. Prima da studente sfaticato in cerca di soluzioni facili, poi da
appassionato della mente e del suo funzionamento, infine da professionista.
E se c’è una cosa che ho imparato in questi quindici anni è che dalle
cazzate, purtroppo, non esiste rifugio.
Ogni disciplina ha la sua fuffa, ogni campo del sapere la sua
banalizzazione a fini di marketing, ogni mercato il suo guru pronto a
spennare senza pietà le persone indifese, ingenue, in difficoltà. È una legge
immutabile dell’universo, come il fatto che a novembre al primo cambio di
temperature mi verrà il mal di gola. È sicuro.
Io sono stato il primo a essere vittima di tutto questo, il primo a cascarci,
il primo a dimenticare il senso critico in un cassetto e abbracciare entusiasta
la fufferia. E ho pagato un prezzo salato. Da qui la frustrazione, immensa, di
vedere tante, tantissime persone che studiano, di ogni età e contesto,
ripetere gli stessi errori che ho fatto io, credere alle stesse promesse
irrealizzabili, illudersi di poter preparare Analisi matematica in una
settimana o anche meno.
In un giorno di ordinaria follia, quindi, stringendo tra le mani
l’ennesimo, immondo volantino che prometteva di farmi sviluppare appieno
il potenziale della mia mente, ho deciso di dare libero sfogo a questa
frustrazione e permetterle di costruire qualcosa che fosse utile almeno a una
persona là fuori: te che mi stai leggendo, magari. E magari sarà utile anche
a me, che l’acidità di stomaco non fa affatto bene. Forse dovrei pure
smetterla di bere ettolitri di Coca Cola Zero, che magari anche quella per
l’acidità non è proprio un toccasana. Ma non divaghiamo.
Dicevo, vorrei sfruttare la mia frustrazione (e il mio sarcasmo, che ne è
il compagno inseparabile), per cercare di riportare un po’ di chiarezza e
buon senso sulle tematiche cui ho dedicato la vita.
Perché sì, è vero, dalle cazzate non esiste rifugio, ma questo non mi
impedirà di provare lo stesso a farle retrocedere. Una parola alla volta, una
frase alla volta, un libro alla volta. Una persona alla volta.

Lo scopo

Ed eccoci qui, sono riuscito in qualche modo ancora una volta a


ingannarti per farti leggere l’introduzione, che di solito saltano tutti a piè
pari, ma ormai è troppo tardi per interromperti, hai iniziato, tanto vale
rimanere fino alla fine.
Oltre che per farmi passare l’acidità di stomaco, questo libro nasce con
in mente un obiettivo preciso, anzi due.

● Darti una panoramica il più possibile completa di tutte le inesattezze, i


consigli sbagliati e le leggende metropolitane che si sentono sullo studio,
sul metodo di studio e sulla mente. C’è chi li chiama “neuro-miti”, ma
“cazzate” è un termine tecnico più pertinente.
● Offrirti spunti utili e concreti per allontanarti da tutto questo marciume e
muoverti verso un metodo di studio efficace, un percorso solido, uno
spirito critico informato che possa immunizzarti per il futuro e aiutarti a
raggiungere i tuoi scopi.

Per questo ho cercato di mescolare storia, scienza, ironia e consigli


pratici in ogni singolo capitolo e per ogni singolo argomento. A fine lettura
magari sarai tu a dirmi se ci sono riuscito.
E, a proposito di come ho strutturato il tutto…

La struttura

Il libro è diviso in due parti.


La prima, “Lo studio non è una cazzata”, affronta una per una le pratiche
scorrette, pseudoscientifiche, pericolose riguardanti lo studio. Che sia studio
universitario, scolastico, di formazione professionale o personale, non
cambia: tutti rischiamo di credere a queste idiozie e, per questo, abbiamo
bisogno di capire da dove arrivano, perché non funzionano, che cosa
possiamo fare concretamente per allontanarcene e migliorare.
La seconda parte, invece, con estremo sforzo di fantasia e
immaginazione, l’ho chiamata “Il cervello non è una cazzata”. L’obiettivo
di questo secondo gruppo di capitoli è quello di ampliare lo spettro
d’indagine e affrontare di petto anche i più insidiosi neuro-miti, le bubbole
riguardanti non solo il modo in cui impariamo, ma anche il modo in cui
pensiamo e la nostra mente in senso lato.
Ogni capitolo seguirà una struttura simile, per rendere agevole la lettura
e permetterti di farti un’idea completa dell’argomento. Si partirà con un
amabile sfogo personale di bile, per poi proseguire (quando necessario) con
una breve storia di come è nata quella peculiare monnezza intellettuale, per
affrontare poi i modi e i motivi per cui non funziona e infine arrivare alla
parte costruttiva, in cui portarsi a casa qualche consiglio utile, supportato da
evidenze scientifiche, dalla pratica e dal puro buon senso. Ogni tanto, però,
infrangerò questa struttura e cambierò. Lo farò se mi va e perché mi va.
Prendere o lasciare, ma… fidati di me.
A fine libro trovi una raccolta di fonti bibliografiche per approfondire
suddivise per ogni capitolo e argomento trattato. Direi che sono doverose,
vista l’impostazione di questo lavoro.
Ora che ti è tutto chiaro, nel prossimo capitolo vorrei darti qualche
indicazione pratica su quello che reputo essere il miglior percorso per un
metodo di studio efficace ed efficiente, ma prima… momento di
autopresentazione.
Chi sono e che cosa faccio

L’ultima volta che ho scritto un paragrafo cercando di presentarmi ai


miei lettori è stato esattamente un anno fa, mentre ero in ritardissimo sulla
consegna del mio primo libro, Vince chi impara (sempre edito da Feltrinelli
e, se non lo hai comprato, per prima cosa vergognati, per seconda cosa corri
in libreria o online, che fai ancora in tempo).
Tecnicamente era il mio secondo libro, ma il primo è auto-pubblicato e
gratuito, quindi non conta. Però è un ottimo libro (almeno a detta delle oltre
sessantamila persone che lo hanno letto). Si chiama Leggere per sapere e lo
trovi sul mio sito da scaricare. Sì, mi reputo anche un maestro del
marketing, ma mi pregio di non vendere fuffa.
In ogni caso, oggi ho un anno di più, sono più saggio di
trecentosessantacinque giorni e sei ore. E sono molto, molto, mooolto più in
ritardo con la consegna. Quindi andiamo rapidi.
Nasco nel 1989, dunque al momento della stesura di questo capolavoro
letterario ho trentatré anni. Alcuni individuano in questo numero delle
somiglianze con un altro grande “formatore” della storia, ma io resto umile
e non do loro ascolto.
Nella vita faccio duemila cose diverse (probabilmente troppe), ma tutte
legate da un filo comune: il mondo dell’apprendimento, dell’istruzione e
dello studio.
La mia attività principale è quella di divulgatore, youtuber, insegnante,
scrittore, comunic… insomma: uno che parla delle cose che sa e le insegna
agli altri, tramite video o per iscritto.
E poi, sono anche un imprenditore e mi occupo di formazione digitale
attraverso l’azienda che ho fondato, la ADC, e le altre mie iniziative.
Oltre a tutto questo, mi piacciono molto i giochi da tavolo, i Pokémon,
Guerre stellari, dormire. Soprattutto dormire, se devo essere del tutto
onesto.
Direi che il quadro è completo, possiamo andare avanti.

Un percorso sensato (questo leggilo, che è importante)

Prima di iniziare sul serio a immergerci nella piscina di orrore che sono
gli argomenti che tratteremo, specialmente quelli riguardanti il metodo di
studio, ho pensato che fosse una buona idea offrirti una panoramica
generale di quello che è un percorso di apprendimento serio e strutturato,
basato su ciò che la scienza ci dice e che può provare, oltre che
sull’esperienza diretta di ormai decine di migliaia di persone.
L’acronimo che uso per descrivere questo percorso è P.A.C.R.A.R., dove
ogni lettera rappresenta una fase del metodo stesso (lo so, il nome fa schifo,
ma ormai si è diffuso così, non ci posso fare niente). Cercherò di
descrivertelo passo dopo passo. Ne parlo in modo approfondito nel mio
videocorso, Sistema ADC, che esaurisce ogni aspetto del metodo di studio
con qualità e chiarezza, l’ho presentato nel mio libro precedente, Vince chi
impara, ma è importante che anche qui tu possa averlo a disposizione,
sintetizzato e abbreviato.
Chiariamoci: non ho inventato un nuovo metodo di studio. Quello che
ho fatto è stato studiare i libri e i manuali che hanno rivoluzionato il campo
della formazione, consultare le fonti bibliografiche, e infine riorganizzare e
sistematizzare il tutto. Poi ho passato anni ad affinare i modi per
comunicare e insegnare con successo questi principi. Non sono un inventore
o uno scienziato, sono un insegnante.
Anche perché i metodi di studio, di apprendimento, i principi, le
tecniche, le metodologie, non si inventano, ma piuttosto si scoprono, si
verificano e si validano ed è il compito delle scienze cognitive farlo, con
esperimenti, pubblicazioni, studi. Ricerca vera, non opinioni da bar.
Detto questo, tu fissati in testa il P.A.C.R.A.R. e tieni come riferimento
queste pagine, lasciaci dentro un segnalibro e tornaci di quando in quando
mentre leggi il resto del libro, facci riferimento come a uno schema mentale
cui poter chiedere aiuto nel momento in cui avessi dei dubbi o non dovessi
capire bene come e dove si collocano le specifiche attività. Cominciamo.

Le fasi del metodo di studio

P.A.C.R.A.R. è un acronimo didattico, che ho coniato intorno al 2016 e


che riassume le sei fasi del metodo di studio ideale, fasi che vanno portate
avanti nell’ordine in cui le nomino, salvo eccezioni e casi particolari.
Ognuna di queste fasi viene declinata in modo diverso a seconda di ciò che
stiamo imparando, della materia, dell’argomento, delle preferenze
individuali, e si concretizza in metodologie differenti che dobbiamo
conoscere e saper applicare.
Le sei fasi sono: pianificazione, acquisizione, comprensione,
rielaborazione, applicazione, ricordo. Per chi mi segue da anni sui social,
ormai questo è diventato un mantra. Ma se tu sei fra le persone che ancora
non conoscono la mia attività online (male, molto molto male) vediamole
una per una.

Pianificazione
Il punto di partenza è sempre la P di Pianificazione, c’è poco da fare. Di
fatto, la pianificazione non è ancora vero e proprio studio, quantomeno non
a livello cognitivo. Possiamo dire che precede lo studio, ma al tempo stesso
ne garantisce il successo. Sì, perché si può avere talento, intelligenza,
motivazione, ma se non si ha pronta un’organizzazione strutturata delle
giornate, se non si ha un’idea chiarissima di come gestire la preparazione e
tutto il resto, si fallisce, miseramente.
La fase di pianificazione comprende:

● la gestione del tempo, dei cicli di studio e delle pause;


● la stesura di un vero e proprio piano di apprendimento;
● l’organizzazione delle giornate, e io qui ti consiglio di utilizzare la tecnica
del Masterplan;
● l’analisi, raccolta e selezione dei materiali e delle fonti;
● la preparazione degli strumenti necessari per lo studio;
● il bilanciamento dei principi di spacing e cramming (che ho spiegato in
Vince chi impara, sappilo);
● il rapporto tra lo studio e il seguire le lezioni;
● le fasi preparatorie allo studio vero e proprio.

Conclusa la pianificazione, avendo tutti gli elementi per poter scendere


davvero in battaglia, si può iniziare il vero percorso per assimilare le
nozioni di cui abbiamo bisogno. Partendo da…

Acquisizione
L’acquisizione, per l’appunto, è il primo momento di contatto con le
informazioni che vogliamo imparare, di qualunque genere esse siano. Il
focus, in questa fase, deve essere orientato sul porre basi solide, sul portare
al massimo la propria attenzione e focalizzazione, sul selezionare le
informazioni importanti, sul preparare il terreno per una comprensione vera
e profonda, sul non perdere nemmeno un dettaglio per strada. Non è
importante, invece, in questa fase, impuntarsi sulla memoria. Non è ancora
il momento di incavolarsi se non ci si ricorda tutto: lo studio è appena
all’inizio.
Fanno parte della fase di acquisizione due momenti specifici: la lettura
efficace, di cui parlo in Leggere per sapere, e la creazione di appunti, che di
fatto costituisce il fluidificante del metodo di studio e facilita tutte le altre
fasi. Alla faccia delle sbobine o degli appunti comprati già fatti dagli altri,
di cui parleremo nel capitolo dedicato (non vedo l’ora, guarda).

Comprensione
Subito dopo la fase di acquisizione, anzi, per la verità,
contemporaneamente alla stessa (le tengo separate solo per spiegarle
meglio), si svolge la seconda fase, il primo vero punto di svolta nello
studio, il primo obiettivo da portarsi a casa: la comprensione.
Mentre si legge, si ascolta e si osserva si devono già mettere in moto le
giuste strategie di comprensione, che sono le fondamenta su cui si potrà poi
costruire e consolidare un ricordo stabile nel tempo (che magari potrà
portare pure a un buon voto). Non bisogna mai cadere nel clamoroso errore
di dare priorità al ricordarsi le cose invece che al capirle. La velocità vera
nello studio è proprio quella di comprendere prima possibile, e a fondo,
quello che si sta assimilando. Se la comprensione fallisce o non arriva in
profondità, il metodo di studio si inceppa immediatamente. Il processo
diventa incredibilmente lungo, complesso, stancante e frustrante. Il
fallimento, ancora una volta, è dietro l’angolo. Al contrario, se la
comprensione è completa e approfondita, memorizzare sarà poi quasi
banale.
È proprio durante la fase di comprensione che si innestano metodi di
sintesi e selezione, come l’individuazione di parole chiave e, se necessario,
strategie di potenziamento della comprensione stessa, come la famosa
tecnica di Feynman (anche se quest’ultima sta a cavallo con la fase
successiva, la rielaborazione).

Rielaborazione
Terminata la comprensione, inizia la fase di rielaborazione, di encoding,
la fase centrale del metodo di studio, una delle mie preferite! Questo è il
momento in cui le informazioni si trasformano e si rendono davvero
personali, producendo qualcosa di nuovo, inserendo l’elemento creativo,
prendendo decisioni, sfruttando il meccanismo del dual coding e, ancora
una volta, il potere della sintesi.
Lo strumento numero uno della rielaborazione è lo schema, ma anche la
tecnica di Feynman che nominavo poche righe fa, perfino i riassunti (che
detesto) hanno funzione rielaborativa, come del resto la scrittura in genere o
la produzione di un video. Mentre sono qui seduto a scrivere, sto
rielaborando ancora una volta le informazioni che conosco. Tutto ciò che
costringe a rivedere le informazioni, metterle in relazione, modificarle,
selezionarle, criticarle, comunicarle è strumento di rielaborazione.

Applicazione
Dopo la rielaborazione si entra nel reame dell’applicazione, del testing,
forse la fase più importante dello studio, perché è qui che si costruisce
finalmente la conoscenza, qui entra in gioco la memoria, aiutata dalla
pratica e dai principi di recupero attivo. Il modo migliore di consolidare
quanto imparato è mettersi alla prova, sforzarsi, sfidarsi. Senza fatica,
sforzo, impegno concreto, non c’è studio.
Il testing prende la forma di quiz, esercizi, test, simulazioni e va a
sostituire completamente la necessità di riletture, rischematizzazioni,
riscritture, ripetizioni, ri… rincoglionimenti. Il testing è una colonna
portante totale, la tecnica di studio più utile in assoluto (anche se non
l’unica, mi raccomando): è qui che si forgia la preparazione, rendendola
davvero inattaccabile.

Ricordo
Infine, nella fase di ricordo, gli obiettivi sono due: mantenere a lungo
termine (anche per sempre, perché no) quanto imparato e aggiungere i
dettagli tecnici. Del mantenimento si occuperanno i ripassi programmati,
portati avanti in diverse modalità e tempistiche, dei dettagli tecnici si
occuperanno le tecniche di memorizzazione.
Comunque, senza quest’ultima fase di ricordo si finisce per perdere tutto
il lavoro fatto o per avere solo una preparazione superficiale, senza mai
entrare nello specifico.

Ricapitolando
Insomma, prima si pianifica, ci si organizza, si selezionano e gestiscono
le fonti, si struttura un Masterplan e obiettivi chiari e definiti. Dopodiché, si
passa alla creazione di appunti se si frequentano le lezioni e alla lettura
efficace delle fonti scritte, portando avanti acquisizione e comprensione,
ragionando. Poi si passa alla costruzione di uno schema e alla
rielaborazione profonda. Arriva il momento del testing, della pratica, della
costruzione del ricordo. E infine si ripassa e si mantiene quel ricordo con i
ripassi programmati e lo si arricchisce con i dettagli tecnici memorizzati
con le mnemotecniche.
Intorno a tutto questo, si procede con costante automonitoraggio,
autovalutazione, adattamento all’esame o al contesto specifico e
meccanismi di metacognizione vari, che adesso non mi metto qui a
descrivere, altrimenti non la finiamo più.
Questo è il metodo di studio ideale. Questo è il P.A.C.R.A.R.
Ovviamente, ogni singolo punto, che qui ho descritto in una manciata di
parole giusto per darti un’idea di come funziona, ha al suo interno una
miriade di metodi, tecniche, strategie, tattiche, trucchetti, ottimizzazioni,
personalizzazioni… È un argomento vasto e complesso, ma che alla fine dà
vita a un sistema semplice e impeccabile.
● Se si salta la pianificazione si procede alla cieca e il risultato sarà casuale.
● Se si salta l’acquisizione beh, lo studio non inizia nemmeno.
● Se si salta la comprensione si rimane superficiali e l’intero metodo
rallenta e diventa più macchinoso.
● Se manca la rielaborazione non si codifica davvero l’informazione nella
mente, non si aggiunge il proprio punto di vista, non si è in grado di fare
collegamenti originali e si appesantisce la fase di memorizzazione.
● Se si salta l’applicazione si rimane vittime della ripetizione ossessiva e si
rischia un risultato mediocre, in cui una conoscenza teorica non
consolidata dà vita a una competenza pratica inesistente.
● Infine, se si salta il ricordo, si dimentica in fretta quanto imparato o non si
memorizzano mai i dettagli tecnici più precisi.

E quindi sì, è così che funziona: se si vuole studiare in modo efficiente,


qualitativo, sicuro, sostenibile, eccellente, non soltanto si devono conoscere
queste fasi e le si deve mettere in pratica, ma bisogna dominarle,
conquistarne ogni singolo aspetto, ogni singola tecnica e minuzia, ogni
singola ruota dell’ingranaggio. Devono diventare una seconda natura.
Ti ho fatto anche uno schemetto (Figura 1), così lo ripassi al volo
quando ti serve. Sembra complesso? È perché lo è: lo studio non è una
cazzata, ma del resto questo lo sapevi già. I trucchetti valgono zero: l’unico
modo per ottenere ciò che vuoi dall’università, dalla scuola, da un concorso,
dalla formazione in generale è studiare davvero e sapere davvero. Il tuo
obiettivo, non dimenticartelo mai, è sapere, sviluppare conoscenze e
competenze, ricordare. E quando avrai raggiunto questo obiettivo, non ci
sarà esame, test o prova che potrà metterti in difficoltà. Questa è l’essenza
dello studio di qualità, e ora che la conosci, ora che la condividi con me,
posso dedicare le prossime pagine a difendere quest’idea dall’assalto delle
boiate. Insieme, possiamo sconfiggerle.

Figura I.1. Ecco qui uno schema iper-semplificato, da tenere sempre con te
mentre studi.

Ma prima dobbiamo capire come e perché finiamo per crederci.


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Perché crediamo alle cazzate

Di immondizia del pensiero ne digeriremo tanta in queste pagine, tra


neuro-miti, leggende metropolitane, stupidaggini, inganni e raggiri,
pregiudizi, stereotipi, marketing esagerato e promesse troppo belle per
essere vere; ma c’è un filo conduttore che legherà ogni singola cialtroneria
che ti descriverò e racconterò: ci sono persone che ci credono. Spesso, sono
davvero molte le persone che ci credono. A volte io stesso ci ho creduto.
Magari a qualcuna credi o credevi pure tu. Sappiamo che cosa spinge chi
diffonde questa fuffa, chi propaga queste idee: quasi sempre è l’avidità, a
volte l’ignoranza o la buona fede ingenua, l’entusiasmo mal riposto, la
stupidità, la disperazione.
Ma che cosa spinge, invece, noi ad abboccare a quell’amo, che cosa ci
porta a… credere? Questa risposta è molto meno scontata di quanto possa
sembrare. La creduloneria è un problema stratificato, multilivello,
complesso e sfaccettato.
Mi sembrava doveroso, quindi, iniziare questo libro con un capitolo di
riflessione sul perché succede tutto questo, perché anche le persone più
razionali, colte, sagge, intelligenti di noi possono credere in qualcosa di
stupido, cascare in raggiri, farsi abbindolare. In più, per ognuna delle otto
ragioni che vedremo, ti lascerò anche una mia personalissima (ma tirannica)
regola di condotta, un “comandamento”, che ti aiuterà a mantenere la rotta
in questo mare di bubbole.

Stupidità
Partiamo subito con lo sfatare il mito più pigro, arrogante e
discriminatorio che ci sia: “Tanto alle boiate ci crede solo chi è poco
intelligente”. Esiste anche la versione più stronza: “Beh, se credi a quelle
stronzate allora non capisci un ca**o , ti sta bene se ti fregano”. È il
“Wanna Marchi-pensiero” ed è molto più diffuso di quanto si possa
immaginare, perché viene da un rigurgito interno a ognuno di noi:
l’insofferenza e l’imbarazzo nel vedere altri esseri umani compiere scelte
assurde, idiote e autodistruttive.
Il primo istinto è sempre quello di pensare che noi non siamo come loro,
che a noi non potrebbe mai capitare, che devono per forza essere delle
persone molto stupide. È un meccanismo ovvio: serve a esorcizzare il
timore di non essere intelligenti quanto si pensa, e a illudersi che non sia
possibile che accada anche a noi. Si arriva perfino a spostare la colpa sulle
vittime, quasi giustificando chi se ne approfitta.
Mi dispiace rompere subito questa fantasia rassicurante, ma no:
l’intelligenza non è il fattore determinante nella creduloneria. Certo,
l’intelligenza è sempre utile, anche nel discernere ciò che è vero e sensato
da ciò che non lo è, sarebbe assurdo volerlo negare, ma molto più
importante è il temperamento, l’abitudine a pensare criticamente,
l’attenzione che poniamo sulle cose, l’esperienza e, forse più di tutto questo
messo insieme, lo stato emotivo personale.
Anche le persone più intelligenti, preparate, scettiche e composte hanno
punti deboli, vivono momenti difficili, provano paura, delusione, lutto,
depressione, ansia e quegli stati emotivi sovrascrivono tutto il resto. Non è
un caso che, per esempio, uno degli agganci tipici di chi truffa sia il fornire
una speranza per un problema apparentemente irrisolvibile, magari di
salute. Lo sapevi che il buon Steve Jobs (non proprio l’ultimo degli idioti),
dopo aver scoperto di essere malato di tumore al pancreas nel 2003 ha
passato più di un anno a cercare di curarsi con metodi alternativi e
“naturali”, alcuni dei quali trovati personalmente su Internet? Lo racconta il
suo biografo ufficiale, Walter Isaacson: agopuntura, dieta vegetariana
strettissima, succhi di frutta, rimedi alle erbe varie… invece di affidarsi alla
medicina e alla chirurgia. La sua famiglia e i suoi amici erano disperati ed
esasperati dalle sue scelte “stupide”: non riuscivano proprio a capire come
potesse comportarsi in quel modo. Pare che a un certo punto il buon Steve
sia rinsavito, abbia capito di aver fatto una scelta stupida, ma la malattia era
ormai a uno stadio troppo avanzato. Nella giusta situazione, quindi, anche
le persone intelligenti possono comportarsi in modo stupido.
Quello di Steve Jobs è un esempio estremo, certo, e gli esempi non
fanno statistica, il suo caso basta a dimostrare che la teoria “creduloneria =
stupidità” non sia solida o, quantomeno, sia insufficiente.
Lo stesso accade con le fake news, le teorie del complotto, le leggende
metropolitane: gli studi psicologici e la nostra esperienza quotidiana ci
mostrano come non sia sempre vero che a crederci siano solo persone
stupide: tutt’altro!
In questo libro parleremo di credenze sbagliate su temi molto meno
impegnativi a livello emotivo: parleremo di studio e di cervello, ma non
sottovalutare mai quanto la difficoltà di uno studente o una studentessa che
stanno passando un momento di crisi possa abbassare le barriere critiche.
Quando l’arroganza supera il limite rischi di esporti ancora di più al
pericolo. Quando pensi che nulla potrebbe toccarti è il momento migliore
per propinarti un fuffa-corso su uno “straordinario” metodo di studio. Parlo
per esperienza diretta. Quindi…

REGOLA 1
Non sei mai troppo intelligente, non hai mai troppo pensiero critico, non sei mai
immune alle cazzate. Tratta le persone che cascano in queste idiozie con gentilezza,
perché non conosci la loro situazione, e togliti di dosso ogni traccia di supponenza.
Tieni sempre gli occhi aperti, specialmente quando stai passando un brutto momento.

Ignoranza

Se l’intelligenza era un fattore di minore rilevanza, l’ignoranza, invece,


è determinante. Ignoranza non in senso figurato, ma letterale: meno cose
sai, più è probabile che tu finisca per credere a informazioni false, parziali o
scorrette. Non solo, ma anche la qualità di ciò che sai è fondamentale, la
selezione delle informazioni e delle fonti.
La professoressa di psicologia sociale Karen Douglas, dell’università del
Kent, nel Regno Unito, si è specializzata nello studio delle motivazioni che
portano alla diffusione di fake news e teorie del complotto. Nei suoi lavori
cita tutta una serie di cause epistemiche, ovvero che hanno a che fare col
desiderio delle persone di conoscere la realtà e di avere certezze, di
comprendere il funzionamento del mondo e degli eventi, di avere
spiegazioni.
Chiunque sente una spinta al sapere, al ricercare la verità, al dare un
senso a ciò che ci accade intorno. Il problema è che se ti mancano le
conoscenze e gli strumenti interpretativi delle informazioni, questa ricerca
di verità, questo desiderio di risposte può portarti molto fuori strada. Ecco
che, allora, le persone più giovani e inesperte e con più bassa
scolarizzazione, in media, credono più facilmente a complottismi e fesserie
assortite. E questo non ha nulla a che fare con l’intelligenza o la mancanza
di interesse, ma semplicemente con il fatto che non si possiedono le giuste
informazioni o non si sa dove e come cercarle in modo sicuro. Il
meccanismo non è differente quando si parla di pseudoscienza o falsi miti
sullo studio o sul cervello.

REGOLA 2
Studia di più, pensa di più, ricerca di più; ma, soprattutto: studia, pensa e ricerca
meglio. Approfondisci le ragioni filosofiche e pratiche per cui il metodo scientifico è la
strada giusta da seguire per interpretare la realtà, immergiti nel suo funzionamento, nei
pregi e nei difetti, allena il tuo scetticismo e sviluppa una rete di fonti attendibili
intorno a te, che ti supporti quando hai dei dubbi.

Bias di conferma

Più che essere una ragione per cui si arriva a credere a qualcosa di falso,
il bias di conferma è una delle forze più potenti che ci impediscono di
cambiare idea. Il meccanismo è semplice e intuitivo: io mi convinco di
qualcosa e, a quel punto, mi metto alla ricerca di tutte le prove, gli indizi,
gli aneddoti, gli elementi che mi diano ragione e mi confermino che, in
effetti, quella cosa è vera.
Questo è un problema sia di psicologia sia di metodo. Di psicologia,
perché a ogni “prova” (o presunta tale) in cui mi imbatto rinforzo sempre di
più la mia credenza e ciò rende sempre più difficile e doloroso il cambiare
idea. Di metodo, perché basta un solo controesempio per invalidare una
teoria, quindi cercare solo conferme non è mai la strada giusta, perché ti
nasconde i motivi per i quali potresti avere torto.
REGOLA 3
Qualunque sia la tua credenza, mettila in dubbio e torchiala più che puoi. Cerca
attivamente tutti i motivi, le fonti e le prove che potrebbero dimostrarti che ti stai
sbagliando. Più importante è la credenza, più impatto ha sulla tua vita, più energia devi
metterci nel cercare di confutarla. Solo le idee e le informazioni che resistono a questo
“massacro” falsificativo sono degne di risiedere nella tua mente.

Pressione sociale

Il contesto sociale in cui viviamo non è da sottovalutare: spesso


crediamo a qualcosa solo perché ci crede chi ci circonda. Credere a ciò che
ci viene detto da persone vicino a noi è la cosa più naturale del mondo:
attribuiamo enorme valore a racconti e testimonianze dirette, anche se in
realtà non dimostrano assolutamente nulla. Ci facciamo trasportare dal
branco e dalla mente alveare. Ci piace sentire un senso di coerenza e
appartenenza con chi ci sta intorno, sentirci a posto e congruenti col gruppo
oppure, se la rivolgiamo in senso più negativo, sentire che il nostro gruppo
è migliore degli altri, conosce la realtà meglio degli altri. Per non parlare
poi del fatto che gruppi manipolatori più o meno aggressivi possono
provare a operare una vera e propria pressione programmatica per
convincerti a cambiare idea, o a non cambiare idea. Leader dal carisma
eccezionale, guru assortiti, esercitano tecniche manipolatorie e ingannevoli,
usano un linguaggio studiato ad hoc per superare le barriere logiche e
colpire alle emozioni.
Bisogna farci attenzione.

REGOLA 4
Non c’è niente di male a voler appartenere a dei gruppi o a volersi fidare di altri, ma
non dimenticare mai di ragionare, prima di tutto, come un individuo. Le scelte che
compi sono tue, le nozioni in cui credi sono le tue credenze, i comportamenti che metti
in atto sono i tuoi. Quando senti che un determinato gruppo o una determinata persona
ti mette addosso pressione, o cerca di persuaderti in modo emotivo, probabilmente è
meglio cambiare aria.

Volontà
La mitica serie tv degli anni Novanta X-Files aveva un motto: “I want to
believe”, voglio crederci. Si parlava di misteri, alieni e roba soprannaturale,
ma ho sempre trovato che quella frase fosse molto più profonda di quanto
non si potesse pensare. A volte, semplicemente, vogliamo proprio credere a
qualcosa, a volte abbiamo bisogno di avere delle certezze, a volte ci serve
una speranza incrollabile, a volte ci aggrappiamo a un’idea, una
informazione, un metodo, solo perché non sapremmo che cosa fare se non
ci fosse più, se ammettessimo che non esiste o non funziona.
Ci piace credere (o illuderci) di avere il controllo, e spesso l’idea della
panacea di tutti i mali, dell’unica soluzione per tutti i problemi è troppo
attraente per essere ignorata.

REGOLA 5
Cambia il motto da “I want to believe” a “I want to know the truth”: voglio sapere la
verità. Non la verità con la “V” maiuscola, che quella non la sa nessuno, ma la verità
dei dati, dei fatti, delle attuali conoscenze in materia. E quando qualcosa sembra troppo
bella per essere vera, beh, dubita il doppio.

Furbizia

Quanto ci piace pensare di essere più astuti degli altri! Noi sì che
sappiamo trovare scorciatoie, trucchetti, passaggi segreti per vincere la
gara, facendo anche meno fatica! La ricerca della furbizia è una delle
principali strade verso la fufferia, perché, solleticando l’ego, la pigrizia e
l’innato desiderio di successo facile, chi spaccia cazzate ha gioco facile. È
la favola di Pinocchio, no? Come fanno, il Gatto e la Volpe, a fregare il
nostro povero burattino? Semplice: gli fanno credere che ci sia un metodo
segreto e furbissimo per far crescere le monete dalla terra. Pinocchio vuole
fare soldi facili e così ci casca.
Ma tu non vuoi essere Pinocchio…

REGOLA 6
Non sei più furba o più furbo degli altri, non devi mai cercare di diventarlo, devi
cercare invece di diventare più abile, più competente. Scappa dai furbi e dalle furbe,
sempre, lascia a loro le scorciatoie che conducono chissà dove e tu prendi l’autostrada.
Parzialità

Qual è la frase leggendaria che salva chiunque dispensi cialtronate, fuffa


e pseudoscienze? “Beh, ma qualcosa di buono c’è in quello che dice, non
sono tutte stupidaggini…” Quando sento questa frase (o le sue varianti)
usata a caso per legittimare una boiata, io impazzisco. Certo, è ovvio: ogni
disciplina, ogni metodo, ogni personaggio non può mai essere al 100% una
cazzata, è scontato che sia così. Anche solo per caso, anche solo per errore,
anche solo per statistica: qualcosa di sensato, utile o vero si trova
dappertutto. Anche l’orologio rotto segna l’ora giusta, due volte al giorno,
ma questo non è un buon motivo per comprare un orologio rotto invece di
uno funzionante, mannaggia la miseria.
Quando si valuta una proposta, un sistema, un metodo di studio o
qualsiasi altra cosa, bisogna operare su due livelli in contemporanea:

● il bilancio complessivo tra ciò che ha senso e ciò che non lo ha, tra ciò
che è utile e ciò che non lo è, tra ciò che è vero e ciò che è falso;
● l’opportunità di imparare ciò che ci serve anche da fonti migliori.

Mettendo insieme questi due livelli emerge una verità: non è necessario
bersi una marea di stupidaggini per poter raggiungere un paio di consigli di
buon senso, nessuno ci obbliga a salvare ciò che è più negativo che
positivo. Nell’era dell’informazione accessibile non devi più pagare il
prezzo di imparare da fonti imprecise o ingannevoli, puoi cercare
direttamente ciò che ti serve dalle fonti più complete, precise e autorevoli.

REGOLA 7
Non sorbirti la pseudoscienza solo perché ogni tanto tira fuori qualcosa di buono: cerca
direttamente le cose buone e le fonti attendibili, risparmierai tempo e non ti riempirai
la testa di falsità.

Esaltazione

Quando siamo in preda all’esaltazione, all’entusiasmo, alle emozioni,


agiamo in modo irrazionale. Motivazione, visualizzazione, emozioni
positive, risate, affetto, sorrisi, complimenti, musica alta, aspetto
impeccabile, evocazione di un futuro radioso, attrattività: tutti elementi che
di per sé non hanno nulla di male (anzi, fanno parte della bellezza della
vita), ma che sfruttati in modo manipolatorio ci possono portare ad agire di
impulso, inibendo il nostro senso critico. Possiamo cominciare a credere in
qualcosa sull’onda emotiva della foga e dell’esaltazione, e poi è difficile
staccarsene. Perciò…

REGOLA 8
Non prendere mai nessuna decisione, di nessun tipo, quando ti domina l’esaltazione.
Rimanda al giorno dopo, quando è tornata la calma e hai avuto il modo e il tempo di
riflettere e confrontarti con opinioni diverse. Calma e sangue freddo.

Il re è nudo

Per tutte queste meravigliose ragioni che abbiamo visto (e per mille altre
che potremmo ancora discutere), ormai avrai capito che abbiamo credenze
sciocche e che non riusciremo mai a eliminarle del tutto dal nostro modo di
ragionare: fanno parte di quello che siamo, del modo in cui il nostro
cervello elabora le informazioni, della società che abbiamo costruito. Ci
sembra impossibile, ci sembrano realtà lontane anni luce dal nostro modo di
vivere e di pensare, ci sembra sempre di essere migliori di chiunque altro, di
essere immuni alla creduloneria, alla stupidità, all’ignoranza, ma non è così.
Non siamo mai al sicuro: posso garantirti che, in questo momento, tu e
io crediamo almeno in una cosa sbagliata, falsa, inaccurata o
pseudoscientifica. Almeno una, ne sono certo. Non vederla come una
sconfitta, però. Non è una tragedia, non ti voglio buttare giù di morale. Per
come la vedo io, questo è un effetto collaterale, un prezzo da pagare per la
stupefacente meraviglia che il nostro cervello è in grado di sprigionare e di
regalare.
La creduloneria è inscritta nel nostro codice genetico e nei nostri
comportamenti di gruppo, e dobbiamo fare pace con questo, imparare a
conviverci in modo produttivo. Ce lo spiega bene Massimo Polidoro nel suo
libro La scienza dell’incredibile. La persona razionale, critica, dal
ragionamento efficace, non è quella che non sbaglia mai o che non crede
mai a delle cazzate, ma quella che si mette costantemente in discussione e
che cerca smentite, sapendo che prima o poi, inevitabilmente, commetterà
un errore o si accorgerà di averlo commesso. Quella che, quando succederà,
sentirà la responsabilità di cambiare idea e rimediare. Che rimane aperta
alla possibilità di sbagliare e che si sottopone volontariamente allo scrutinio
e alla critica degli altri. Che fa il possibile per ragionare in modo autonomo,
libero. Che studia e si informa per diventare sempre più abile a scovare
questi errori, in primis dentro di sé e poi dentro gli altri. Che, quando si
accorge di un errore, non scrolla le spalle, non si volta dall’altra parte, non
si allontana, ma ha il coraggio di affrontare la prova più faticosa e dolorosa
del mondo: ammettere di aver sbagliato e cambiare idea.
Solo le divinità dell’Olimpo sanno quanto io odio avere torto nella vita,
quanto mi dispiace sbagliarmi e dire cazzate, eppure ho dovuto scendere a
patti con quella sensazione, mi è stata sbattuta in faccia la mia fallibilità
tante volte nel mio percorso, e altrettante volte mi sarà sbattuta in faccia di
nuovo. Vorrei poter dire che a ogni smusata presa sono diventato più forte,
più immune, ma non sono sicuro che sia davvero così. Ma ogni volta che
succede, questo sì, divento più rapido ad accorgermene e più flessibile nel
cambiare idea. Spero che ogni capitolo di questo libro possa aiutarti a fare
lo stesso.
E adesso si comincia sul serio.
PARTE PRIMA
Lo studio non è una cazzata
1
“Scopri il tuo stile e studia meglio!”
La cazzata degli stili di apprendimento sensoriali

Non potevo non dare inizio alla nostra esplorazione con la boiata più
rappresentativa degli stili di apprendimento sensoriali. Questa “teoria” è
perfetta: ha tutte le caratteristiche necessarie per finire in un libro come
questo, perché…

● è dimostrabilmente falsa;
● è diffusa in modo capillare in tutto il mondo;
● è fastidiosa e dannosa;
● ci ho creduto in passato (purtroppo) e la conosco molto da vicino;
● le persone ci credono davvero e si innervosiscono quando qualcuno la
contesta.

Come non amarla?! Parliamo di classificazioni, di categorie, di scatole


in cui verremmo inseriti per capire come apprendiamo e quali canali
funzionino meglio per noi. Queste scatole ci piacciono, ci rassicurano, ci
aiutano a definire la realtà e a fare ordine, poco importa sapere se esistono
davvero. Nel tentativo di valorizzare la nostra unicità, finiamo per
appiattirla in etichette e definizioni standard, che ci limitano e incatenano.
Otteniamo il contrario del risultato sperato.
Bisogna smetterla: spendiamo troppo tempo e troppe risorse su questa
storia, ma per convincerti e portarti dalla mia parte devo prima spiegarti che
cos’è, da dove arriva e come non funziona.
Diamoci da fare.

Una questione di stile


Che cos’è uno stile di apprendimento? Che cosa significa?
Questo termine si riferisce, in realtà, a una moltitudine di teorie e
classificazioni, spesso anche in contrasto fra loro, sulle diverse modalità
con cui pensiamo e impariamo. Un tentativo, come dicevo poco fa, di
“classificare” chi studia in base alle sue preferenze, capacità e inclinazioni
nello studio, e di capire come queste modalità vadano valorizzate o sfruttate
per ottenere migliori risultati.
Possiamo suddividere le proposte e le “classi” di stili di apprendimento
in quattro blocchi principali.

● Il primo blocco, che è quello su cui ci concentreremo, è quello degli “stili


di apprendimento sensoriali”. Per essere un pochino più precisi sono
quelle classificazioni che si rifanno ai lavori di Walter Burke Barbe
(Barbe, Milone, Swassing, 1979) e di Neil Fleming (1995) e che vengono
definiti modelli VAK e VARK. Hanno a che fare con le modalità con cui
elaboriamo ciò che impariamo attraverso i nostri sensi. La classificazione
vuole che, a seconda del nostro stile sensoriale preferenziale, il nostro
modo di elaborare informazioni, imparare ed esprimerci sia
completamente diverso. In particolare, i tre stili principali sarebbero
quello visivo, quello cinestesico, quello uditivo. Poi li vediamo nel
dettaglio, porta pazienza.
● Poi ci sono quelli che possono essere chiamati “stili di apprendimento
esperienziali”, che hanno a che fare con il modo in cui ci poniamo e
reagiamo all’esperienza stessa dell’apprendimento e si riferiscono ai
lavori di David Kolb (2015) e poi agli adattamenti successivi di Mumford
e Honey (1992). Queste classificazioni individuerebbero quattro tipologie
di stili di apprendimento, distinti sulla base delle preferenze di modalità
di esperienza, di sperimentazione, di concettualizzazione e di riflessione.
E allora ecco che emergono, per esempio, lo stile convergente (per chi
sfrutterebbe ragionamenti e deduzioni strettamente logiche e pratiche)
opposto a quello divergente (per chi utilizzerebbe di più il pensiero
laterale e l’immaginazione), lo stile assimilativo (che sfrutterebbe di più
l’induzione) e quello attivo (che prediligerebbe invece il contatto pratico
e diretto).
● Ci sono pure gli “stili di apprendimento cognitivi” che sono quelli un po’
più solidi a livello scientifico (ma comunque problematici) e che hanno a
che fare con l’atteggiamento che esibiscono le persone quando imparano.
Si legano alla tematica degli stili cognitivi (che è connessa ma non è la
stessa cosa… lo so, la psicologia è un casino); vengono spesso espressi in
forma di coppie in opposizione e si rifanno agli studi di Grasha e
Riechmann (1974) e poi al lavoro di analisi e classificazione di Robert
Sternberg (1997). Vediamo quindi lo stile competitivo opposto a quello
collaborativo (non serve che io spieghi, direi), dipendente contro
indipendente, evitante contro partecipativo, ma anche sistematico e
intuitivo (che ricalca un po’ il dualismo convergente-divergente di
prima), globale contro analitico (il globale prediligerebbe la visione
d’insieme e procederebbe dal generale al particolare, l’analitico al
contrario, dal piccolo dettaglio al quadro complessivo), impulsivo contro
riflessivo e altri ancora;
● Infine, l’ultimo macro-approccio è quello chiamato NASSP che cerca di
mettere insieme i tre precedenti e fare una mega-classificazione
definitiva.

La maggior parte delle declinazioni della teoria degli stili di


apprendimento è priva di basi scientifiche e sperimentali solide e ha ben
poca utilità pratica sia per chi studia sia per chi insegna; tuttavia, anche
all’interno di questo mondo di teorie, definizioni e proposte traballanti, la
versione “sensoriale” è quella più fetida di tutte. E, ovviamente, quella che
si è diffusa di più.

Come (non) funzionano gli stili sensoriali

Allora, come dicevamo, secondo la teoria degli stili sensoriali


esisterebbero (Figura 1.1):

● persone visive, caratterizzate dalla parlata veloce, dal gesticolare e dal


fatto di imparare più efficacemente attraverso l’uso di immagini;
● persone cinestesiche o cinestetiche, caratterizzate dalla parlata lenta e
pastosa, movimenti lenti e predilezione per le sensazioni tattili;
● persone uditive o auditive, caratterizzate dal tono di voce piatto o, al
contrario, da sbalzi costanti di tono della voce, che imparerebbero
principalmente attraverso l’ascolto e l’udito;
● alcune varianti aggiungono anche un quarto stile, denominato sociale, che
vedrebbe una predilezione nei soggetti per l’apprendimento di gruppo.

Ci sarebbero poi anche opzioni miste di questi stili preferenziali.


Per distinguere i vari stili esistono dei test basati su esercizi di
visualizzazione, questionari e analisi delle proprie abitudini e tendenze
spontanee. Un test impiegato spesso, che io stesso ho provato in corsi di
formazione piuttosto discutibili, prevede di sedere a occhi chiusi mentre il
formatore o la formatrice ti guida attraverso la visualizzazione di un
oggetto, spesso un vaso. Viene chiesto di immaginare questo oggetto nel
modo più vivido possibile, soffermandosi prima sugli aspetti di colore,
forma e decorazioni, poi sulla sensazione tattile di toccarlo, la temperatura,
il peso, poi il rumore che fa se colpito o scagliato per terra…

Figura 1.1. Un turbinio di stili, tutto per te!

Al termine dell’esercizio, viene chiesto quali elementi della


visualizzazione siano risultati più intensi e realistici e si confronta questo
risultato con alcune domande poste in precedenza e con il modo in cui la
persona si esprime, parla, gesticola. Mettendo insieme questi elementi si
determina lo stile predominante.
Una volta determinato lo stile si dovrebbe cercare di sfruttare quel
canale il più possibile, a discapito degli altri, per imparare meglio e più
velocemente. Chi insegna per professione, dal canto suo, dovrebbe capire lo
stile sensoriale della propria classe e adattarvi il suo modo di comunicare,
gli esempi, i compiti assegnati e le richieste, per ottenere il miglior risultato
didattico.
Qui emerge subito prepotente il primo problema: ma questi test hanno
senso?
Pare proprio di no. Innanzitutto, non esistono prove sperimentali solide
in merito e non esistono test standardizzati che rispettino il rigore richiesto
dai test psicologici ufficiali. Ma la scoperta più divertente è che, rifacendo il
test a distanza di tempo, in contesti specifici o con persone diverse a
esaminarci, i risultati variano completamente, addirittura si stravolgono.
Se questi test potessero davvero categorizzare chi studia, quantomeno
dovrebbero essere coerenti nell’assegnare a una persona sempre lo stesso
stile di apprendimento. Potremmo dire, per usare un’espressione più seria,
che il risultato dovrebbe essere predittivo, riproducibile e costante. E invece
no: gli stili di apprendimento sensoriali cambiano nel tempo, cambiano a
seconda della situazione, cambiano di test in test, cambiano con l’opinione
di chi esamina… insomma, è tutto un po’ a caso.
A proposito di caso e di evidenze sperimentali: si può dimostrare in
modo sperimentale che gli stili di apprendimento sensoriali esistano e
abbiano un impatto? Assolutamente no. Anzi, possiamo trovare chiari indizi
del contrario: sono stati condotti e poi pubblicati e revisionati moltissimi
esperimenti in merito, tutti con esiti sconfortanti.
Un esempio è l’esperimento citato nel bellissimo “Ted Talk” di Tesia
Marshik (2015), che ti lascio anche tra le fonti del capitolo, nel quale gli
scienziati hanno sottoposto a diverse persone (di età, contesti e
scolarizzazione differenti) elenchi di parole o di immagini, di suoni o di
oggetti rappresentanti le stesse figure. Hanno chiesto loro di interagire con
questi elenchi, leggendo, ascoltando, toccando, osservando e poi hanno
misurato la loro capacità di richiamare gli elementi e ricordarli. Nessuna
differenza in relazione alla tipologia di stimolo e nessuna correlazione col
loro presunto stile sensoriale.
Perché questo risultato? Beh, principalmente perché, quando si tratta di
studio e apprendimento strutturato, la tipologia di memoria coinvolta è
quella semantica, dichiarativa, vale a dire la memoria basata sui concetti,
sui significati e non sugli impulsi sensoriali o sulle procedure implicite
(approfondiremo questo concetto nel capitolo sullo studio automatico, dove
ti spiegherò anche, in breve, come funziona la memoria). Per ricordare
qualcosa quando studiamo bisogna riorganizzare, rielaborare, connettere,
comprendere a fondo, ragionare, creare esempi, sottoporre a test, seguire la
progressione del P.A.C.R.A.R. come te l’ho descritta nell’Introduzione.
Una prova in più della natura concettuale della memoria in questi
contesti è un altro esperimento citato nel “Ted Talk” di Marshik: quello
sulla memoria degli scacchisti. Si mostrano posizioni reali sulla scacchiera
a principianti e a campioni e campionesse di scacchi e viene dimostrato che
chi ha molta esperienza memorizza e richiama le posizioni dei pezzi molto
facilmente, anche solo osservandole per pochi secondi. Ma se, invece, le
posizioni sulla scacchiera sono del tutto casuali, questa apparente super-
memoria sparisce, e i risultati tra chi gioca ad alti livelli e chi no tornano
sullo stesso piano. La memoria delle persone molto abili a scacchi è legata,
quindi, alla loro esperienza e al loro studio del gioco, al significato di una
certa posizione, ai possibili sviluppi, alle strategie a lungo termine e ai
tatticismi a breve termine. Dove chi non ha esperienza vede dei pezzi su di
una scacchiera, chi gioca ad alti livelli vede un intreccio di tensioni e
rapporti di causa-effetto, una battaglia logica in cui ogni elemento ha senso
e contribuirà alla vittoria o alla sconfitta.
Non sono i sensi a fare la differenza, sono i significati e le relazioni che
costruiamo con le informazioni che stiamo elaborando a farcele imparare.
Ma se tutto questo non ti basta, facciamo un passo in avanti.
Sappiamo per certo che qualunque persona, se interrogata sul tema del
proprio stile sensoriale preferito nell’apprendimento, esprimerà preferenze
o tendenze personali nel suo modo di imparare e ragionare. Insomma, i
gusti esistono, anche quando si parla di modalità di apprendimento. I dati
che abbiamo, però, non suggeriscono che queste preferenze abbiano un
reale impatto sul processo di apprendimento. Confondiamo gusti e abitudini
con realtà strutturali del cervello.
Sappiamo che le modalità di apprendimento variano e dipendono non
solo e non tanto dalla persona, quanto dal contesto e dall’oggetto specifico
dell’apprendimento. Questo è fondamentale. Non importa se pensi di avere
una predisposizione per il canale visivo o cinestetico: se devi studiare
musica, il canale preferenziale e più efficiente sarà quello dell’udito, che ti
piaccia o meno. Non puoi diventare sommelier senza allenare i canali del
gusto e dell’olfatto, e la tua memoria deve legarsi a quei canali. Insomma, il
modo migliore per imparare o insegnare dipende dall’argomento.
Non solo: sappiamo anche che la strategia migliore in assoluto consiste
nel superare le proprie preferenze e saper sfruttare tutti gli stili, i canali e gli
approcci, saperli integrare tra loro, saperli contaminare, saperli scegliere e
applicare quando vogliamo. Meglio coinvolgere più sensi possibile, sempre
e comunque, meglio rappresentare le informazioni da più punti di vista e in
più modalità. Meglio saper uscire dalla nostra zona di comfort mentale e
cambiare approccio. Le proprie preferenze nell’apprendimento non devono
mai trasformarsi in una scusa limitante, una gabbia dal cui interno è
impossibile evolversi e migliorare.
E allora la domanda provocatoria che ti pongo è: se pure esistessero
questi stili sensoriali di apprendimento (e tutto quello che sappiamo del
cervello e della memoria ci dice di no), a che cosa ci servirebbe conoscere il
nostro stile preferenziale, se tanto, poi, la strada migliore è quella di
imparare a superarlo e a sfruttarli tutti al momento giusto? La risposta
(scontata), la lascio alla tua immaginazione. Sappi, però, che io me la sono
immaginata con una parolaccia di rinforzo.
Vado veloce sull’ultimo punto problematico, che tanto di pseudoscienza
ne parleremo per tutto il libro: le teorie relative agli stili sensoriali si sono
diffuse, banalizzate, assolutizzate, trasformate in leggende metropolitane e
poi date in pasto alla pseudoscienza più fuffosa, a discipline come la PNL (di
cui parleremo) e a guru cialtroni. E sono finite a infettare classi, istituzioni
ed enti di formazione di tutto il mondo, che invece di concentrarsi su
metodi dall’efficacia più consolidata perdono tempo a fare test per vedere
se un tizio muove più o meno velocemente le mani mentre parla.
E io soffro.

E gli altri stili?

Qualche paragrafo fa dicevamo che gli stili di apprendimento sensoriali


non sono gli unici a essere stati proposti e studiati. Ci sono altre
categorizzazioni in giro. Come sono? Funzionano? È tutto da buttare? Non
proprio, ma quasi…
Le declinazioni migliori del concetto di stile di apprendimento sono
quelle legate all’aspetto cognitivo: sono più interessanti, hanno alle spalle
una bibliografia scientifica più solida e può valere la pena conoscerle e
approfondirle, quantomeno per conoscersi meglio e riflettere su come ci
comportiamo quando studiamo, sui nostri punti di forza e di debolezza e su
come riuscire a superarli. Tuttavia, anche queste declinazioni presentano
diverse difficoltà di applicazione e risultano più adatte come strumento
conoscitivo, di comprensione e analisi, che come strumento predittivo o per
costruire strategie efficaci di studio. Insomma, se proprio ti affascinano e
vuoi dedicarci del tempo, puoi farlo, ma sono in fondo alla lista dei fattori
che ti faranno migliorare nel tuo studio.
Per quanto riguarda il resto, rimane il problema alla radice: quale di
queste classificazioni è più aderente alla realtà? Quale è più utile per gli
studenti? Sono definitive o ne salteranno fuori altre? Sono scoperte o
invenzioni degli psicologi che le propongono? Non lo sa nessuno, di
preciso. Non ci sono risposte certe a queste domande, non si sa nemmeno se
queste proposte siano sensate, se siano univoche o si possano sovrapporre,
né fino a che punto sia possibile farlo. Saltano fuori di continuo nuovi stili e
nuove proposte. La quantità di varianti degli stili di apprendimento è
enorme e contraddittoria, priva di qualsivoglia coerenza interna. Di più, non
si sa nemmeno se sia sensato parlare di stili di apprendimento: la nozione
stessa scricchiola.
Questi stili di apprendimento risultano essere più dei costrutti teorici a
posteriori, utili semmai ad analizzare tendenze e preferenze, ma quanto al
fatto che siano davvero frutto di realtà cognitive sottostanti… le evidenze
sono ben poche.

Non si rinuncia allo stile

Non prendere questa mia operazione di distruzione degli stili di


apprendimento come un invito a standardizzare lo studio e trasformarsi in
robot senza gusti e senza personalità. Il mio messaggio, in realtà, è
esattamente l’opposto. Non esistono tre categorie di persone, non ne
esistono dieci, non ne esistono cento o mille o diecimila. Ne esistono circa
otto miliardi, tante quanti sono gli esseri umani che calpestano questo
pianeta. Le strutture cognitive di cui disponiamo, i meccanismi mentali con
cui impariamo sono comuni, con variazioni impercettibili tra una persona e
l’altra, eppure sono in grado di restituire miliardi di combinazioni differenti.
Dobbiamo imparare a conoscere quelle strutture comuni e a sfruttarle al
meglio con metodi provati ed efficaci a tutti i livelli, così da permettere loro
di esprimere tutta la loro potenza e originalità. Questo è il tentativo di tutto
il movimento dell’evidence-based learning: l’idea di imparare sfruttando
principi supportati da evidenze scientifiche consolidate.
Rifiutare l’idea che cervelli differenti sfruttino canali differenti per
imparare non significa rifiutare il valore delle differenze e dell’unicità di
ogni persona. Anzi, significa riconoscere la bellezza infinita dell’intelletto
umano che, partendo dalle stesse basi biologiche, riesce sempre a produrre
qualcosa di nuovo, originale, unico. Nel pensiero come nello studio.
Pensieri poetici a parte, quello che puoi fare nel concreto per migliorare
lo studio sfruttando questi principi è interrogarti sulle abitudini che dai per
scontate, analizzare e riflettere sulle tue tendenze spontanee, sui canali che
sfrutti di più e domandarti se sia una scelta saggia o forse non valga la pena
di sperimentare qualcosa di diverso. Puoi abituarti a sfruttare nel tuo
metodo di studio tutti i sensi e gli stimoli che puoi, rendendo lo studio più
vario, coinvolgente ed efficace. Puoi rendere un pilastro del tuo modo di
imparare il fatto di non adagiarti su ciò che ti sembra più comodo, ma
essere sempre alla ricerca di nuove soluzioni alternative. Ti pare poco?
2
“Prepara Anatomia in soli sei giorni!”
La cazzata dello studio all’ultimo momento

È curioso come il tempo scorra in modo diverso quando sei a scuola o


all’università. Invece di seguire uno sviluppo lineare, un secondo dopo
l’altro, un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, procede a balzi
improvvisi. Un minuto prima stai entrando alla prima lezione del tuo corso,
prepari il quaderno degli appunti tutto ordinato… e il minuto dopo ti svegli
e mancano sei giorni all’esame, non ti ricordi una mazza, il tuo libro di testo
è stato rapito dal tuo compagno di corso che si deve fare le fotocopie, i tuoi
appunti dopo la terza lezione sono diventati indecifrabili che neanche le
tavolette degli assiri, hai delle occhiaie che arrivano a metà guancia e non
ricordi l’ultima volta che hai visto la luce del Sole. Nel mezzo, il vuoto
totale. Che cosa è accaduto? Come hai fatto a ridurti così?
Arranchi fino all’esame studiando a ritmi insostenibili per la fisiologia
dell’essere umano, correggi le tue pinte di caffè con le lacrime, biascichi
due parole in croce cercando di ostentare una sicurezza posticcia davanti
all’insegnante e strappi un voto sufficiente più per compassione che per
altro. Dopodiché, giuri che non accadrà mai più. Decidi di prenderti un
giorno di pausa perché in fondo te lo meriti, e poi ti rimetterai subito al
lavoro per non ridurti all’ultimo minuto per il prossimo esame… e il minuto
dopo ti svegli e l’esame è dopodomani. E si ricomincia.
Figura 2.1. Nemmeno la DeLorean più potente può salvarti da questo loop
temporale.

È una breve storia triste, ma fin troppo vera. Copioni analoghi si


possono ritrovare nella disperazione di chi va a scuola il giorno prima
dell’interrogazione, in chi deve prepararsi per la maturità, in chi prepara
concorsi professionali. In pratica, dovunque ci sia da studiare, sono anche in
agguato il mostro del panico dell’ultimo minuto, lo studio matto e
disperatissimo, la full immersion tossica, l’“io speriamo che me la cavo”.
Non si fa nulla per settimane o mesi e poi si pigia sull’acceleratore
all’ultimo momento, come se da questo dipendesse la vita.
Questo andrebbe anche bene se si trattasse solo di debolezza umana,
pigrizia e pura stupidità. Potremmo derubricare tutto a questione di maturità
personale o di carattere. Non una cazzata, non una fufferia, non un inganno,
ma una semplice “debolezza” per la quale passiamo tutti e tutte, prima o
poi.
E invece no, perché non c’è mai una gioia in questa vita: molti studenti e
molte studentesse non soltanto si sono abituati a questo ritmo infernale, ma
lo ricercano apposta, come se fosse un piano ben congegnato. C’è poi chi ha
trasformato lo studio dell’ultimo minuto in una proposta di metodo di
studio: c’è chi insegna queste cose, le vende, le promuove, si permette di
consigliare di studiare pochi giorni prima di un esame, prepararsi solo le
domande più probabili, fare qualsiasi cosa per “fregare il sistema”. L’unico
scopo è superare la scuola o l’università sforzandosi il meno possibile,
senza alcun riguardo per la qualità dell’apprendimento, perché tanto poi ci
sarà tempo in futuro per studiare.
Poi dicono che non bisogna incazzarsi.

Come (non) funziona lo studio all’ultimo minuto

Questo paragrafo lo tengo breve, perché di spacing e cramming, cioè di


studio distribuito e studio accumulato a ridosso dell’esame ne ho parlato
diecimila volte, in tutti i miei libri, video, videocorsi. Ormai è un incubo per
me e per chi mi sta intorno, ne sono ossessionato, finisco per parlare di
spacing e cramming anche nel sonno.
Per farla brevissima: il cramming è lo studio in full immersion iper-
intenso a ridosso della scadenza (esame, verifica, interrogazione, test,
concorso …). Lo spacing è lo studio distribuito nel tempo, portato avanti in
modo costante e organizzato, un po’ alla volta, senza studiare mai troppe
ore di fila, prendendosi le giuste pause, ripassando a dovere e così via.
La scienza, lo sappiamo, non ha a che fare con certezze assolute, solo
con probabilità; ma se nel campo dell’apprendimento efficace c’è un
principio sul quale chiunque studi psicologia cognitiva potrebbe
scommettere la vita della propria prole è proprio lo spacing. Studiare un po’
per volta distribuendo le sessioni di apprendimento, di esercizio e di ripasso
nel tempo funziona meglio, punto e basta: si impara di più, ci si ricorda più
a lungo, si sviluppa conoscenza più profonda, si stimolano di più la
creatività e l’intuizione, si accumula meno stress, si ottengono voti
mediamente migliori. Lo spacing è meglio, sempre e comunque (con solo
una piccolissima postilla che specificherò fra breve).
Il cramming, al contrario, accumula una quantità di stress indecente sul
cervello, impedisce il deposito e il consolidamento corretto delle
informazioni, interferisce con il ragionamento profondo: studi peggio,
commetti più errori, rimani superficiale, dopo due giorni non ti ricordi più
nulla. Il cervello, di fatto, non ha il tempo per assorbire e codificare ciò che
gli fai elaborare.

Quel gran bastardo

Ma il cervello è anche un gran bastardo, perché si è inventato un modo


per impedirci di comprendere questa enorme verità in modo intuitivo.
Devi pensare che le strutture cognitive umane si sono evolute nell’arco
di milioni di anni con in mente uno scopo ben diverso dalla preparazione di
un esame di Diritto costituzionale. Il cervello è fatto per interagire con
l’ambiente naturale, trovare soluzioni a problemi immediati, sopravvivere,
riprodursi… quella roba lì.
La capacità di studiare in modo strutturato argomenti astratti è un
(meraviglioso) sottoprodotto delle nostre capacità naturali di ragionamento
e apprendimento, ma non essendo una priorità per l’evoluzione, la mente
non è proprio abile a valutarne la riuscita. In sostanza, non avendo un
meccanismo interno di valutazione dell’efficacia dello studio, il cervello
sfrutta grossomodo tre altri parametri per decidere se oggi abbiamo studiato
bene oppure no.

● Il tempo che abbiamo dedicato: più ore abbiamo passato a studiare, più il
cervello si sentirà soddisfatto del risultato.
● Lo sforzo: più sentiamo una stanchezza incredibile a fine giornata, più
energie abbiamo consumato e più il cervello crederà di essersi dato da
fare.
● La produzione: più cose concrete abbiamo prodotto (riassunti, schemi,
pagine scritte, parole sottolineate, esercizi svolti) e più il cervello
valuterà come positiva la sessione di studio.

Non che di per sé questi parametri non servano a niente, intendiamoci:


sono comunque correlati allo studio, ma se osservi con attenzione noterai
che sono tutti indicatori indiretti. Da nessuna parte si valuta la profondità
del ricordo, la qualità dello studio, la correttezza degli esercizi svolti,
l’efficacia delle tecniche impiegate, la durata dei ricordi, la creatività e
personalità dei materiali prodotti. Sappiamo solo che abbiamo studiato, per
quanto tempo abbiamo studiato e quante energie abbiamo consumato, ma
non COME abbiamo studiato.
Quindi ecco che ora è chiaro: quando studiamo in modo tranquillo e
distribuito applicando lo spacing non percepiamo a sufficienza la fatica,
non vediamo le decine di ore che scorrono, magari produciamo schemi o
sottolineature, ma in misura minore e meno ravvicinata. E il nostro cervello
ci segnala che abbiamo studiato poco, che non ci abbiamo messo
abbastanza impegno, che potevamo dare di più.
Quando, invece, studiamo in cramming nella settimana precedente
all’esame arriviamo a sera in uno stato pietoso, con dieci o dodici ore di
studio continuativo sulle spalle, con magari una montagna di schemi o
esercizi buttati su un foglio. E questa sensazione ci gratifica: sentiamo di
stare davvero studiando con intensità, per cui rinforziamo positivamente
questa abitudine. Succede una cosa simile con l’allenamento fisico:
tendiamo a sottovalutare quanto bene possa fare un’ora di allenamento di
media intensità tre volte a settimana per un anno di fila. E così il mese
prima delle vacanze al mare ci buttiamo in allenamenti massacranti che il
giorno dopo ci provocano un indolenzimento tale da far fatica a camminare,
quando la scienza è chiara sul fatto che il sovrallenamento è terribile per lo
sviluppo muscolare.
Come non studierai e passerai gli esami in una manciata di giorni, così
non ti farai neanche il fisico da spiaggia in una settimana. Ci vuole tempo,
costanza, giusta tecnica e moderazione.
A questo si aggiunge il fatto che, effettivamente, quando siamo in una
full immersion nutrita dal panico riusciamo a sviluppare una
concentrazione, un’intensità e un focus che diversamente ci appaiono
impossibili. A volte, questa intensità ci permette anche di racimolare
qualche voto in più all’esame, cosa che ci sembra andare in contrasto coi
buoni consigli della mamma (e miei) e sembra rafforzare ulteriormente
l’utilità del cramming (a fine capitolo ti spiegherò come usare questo effetto
in modo sano, ma abbi pazienza). Mettiamo insieme tutte queste cose e
finiamo per illuderci che si studi meglio all’ultimo minuto, che sia uno
stratagemma astuto per reclutare tutte le nostre capacità cognitive e ottenere
risultati migliori. La nostra ambizione e la nostra pigrizia si ritrovano
improvvisamente alleate in un sodalizio perverso.

L’oracolo delle domande

A braccetto con il cramming vanno anche tutte le strategie che hanno lo


scopo di ottimizzare i tempi di preparazione, in barba alla qualità. Del resto,
ha perfettamente senso: se ho meno tempo a disposizione per studiare,
dovrò studiare in meno tempo.
Ma come faccio a studiare in meno tempo? Non rischio di non riuscire
ad affrontare tutto il programma o di impararlo male? Qui l’intuizione, il
colpo di genio: chi ha mai parlato di studiare tutto il programma? Chi ha
mai parlato di studiare bene? Quella è roba per chi ha tempo da perdere, i
secchioni, gli schiavi del sistema. No, noi studiamo solo la parte più
importante dell’esame, ovvero solo quello che all’esame ti verrà chiesto
davvero: le domande più probabili. Poi, se ci avanza tempo, magari diamo
un’occhiata anche al resto. Forse…
Questa strategia è pericolosa quanto attraente. Del resto, gli esami in
parte possono anche essere prevedibili, gli argomenti più importanti sono
sempre gli stessi, magari se ci tiriamo giù le venti o trenta domande più
probabili e ci prepariamo solo su quelle abbiamo una buona probabilità di
passare. Qualche volta abbiamo fortuna e funziona. Ovviamente la nostra
preparazione è un colabrodo e più che il sistema stiamo prendendo in giro
solo noi stessi o noi stesse, ma intanto il voto sul libretto è registrato e
questo, nella nostra testa, ci autorizza a riprovare. Finché non smette di
funzionare. Cercando una scorciatoia per risparmiare tempo e fatica, spesso
finiamo per tagliare troppo, rimanendo con una preparazione scarna, banale,
poco approfondita. E appena arriva una domanda diversa da quelle che ci
aspettavamo o giusto un centimetro più profonda, il nostro castello di carte
crolla.
Per non parlare poi degli esami pratici, per i quali questo tipo di metodo
non può proprio funzionare. Non esistono i trenta esercizi più probabili di
Analisi matematica: se non sappiamo risolvere i problemi e illustrare le
dimostrazioni non andiamo da nessuna parte, trucchetti o non trucchetti.
Il rischio, enorme, è di sviluppare un rapporto malato con lo studio, di
viverlo con frustrazione e quasi rabbia antisistema, di sprecare energie a
cercare di aggirare un ostacolo che avremmo potuto superare con solo un
po’ di impegno e consapevolezza in più. Tutto questo si collega a un’errata
interpretazione del famoso Principio di Pareto, la regola universale (che in
realtà nasce in un ambito specifico dell’economia) che asserisce che dal
20% delle cause deriva l’80% delle conseguenze. E chi pensa di fregare il
sistema interpreta questa cosa come: “Mi basta sapere il 20% delle
informazioni più importanti dell’esame per raggiungere l’80% del risultato
e del voto”. E, indovina un po’? Sì, è una cazzata. Prima di tutto perché, se
anche fosse vero, per mettere in pratica il principio ci sarebbe bisogno di
avere un esame standardizzato che copra il 100% del programma, quando
invece agli orali abbiamo solo tre o quattro domande prese a caso e diverse
per ognuno; agli scritti abbiamo problemi pratici, risoluzioni o domande
aperte o a crocette sempre differenti. E poi è una cazzata perché lo studio
non è un domino di conseguenze interlacciate, il Principio di Pareto ha
senso quando ci sono fenomeni consequenziali, non quando ci sono set di
competenze da sviluppare e informazioni da consolidare.
Se scrocchiamo gli appunti (di questo ne riparliamo) e ci segniamo le
trenta domande più probabili a un certo esame possiamo solo sperare di
trovare un pattern psicologico in chi ci interrogherà e pregare che ci vada
bene quando toccherà a noi, ma stiamo facendo un gioco pericoloso: una
roulette che non ha niente a che vedere con il metodo di studio, con
l’imparare, con il migliorare e che (questo è cruciale) fallirà tanto,
tantissimo.
Per finire, ciliegina sulla torta, il cramming selvaggio e il tentativo di
fregare il sistema sono direttamente correlati con lo sviluppo di blocchi
psicologici e disturbi di ansia, come racconta in modo cristallino
Alessandro Bartoletti, caro amico e mio punto di riferimento sulla
psicologia dello studio, autore de Lo studente strategico e docente con me
nel videocorso sui problemi psicologici degli studenti che porta lo stesso
nome. Insomma: è un disastro.

A tempo fisso

Voglio dedicare alcune righe a chi propone metodi di studio a tempo


fisso, a prescindere dall’esame, a prescindere dal programma, a prescindere
da se abbiamo frequentato o meno.

Una settimana, quattro giorni, un giorno,


quello che è: un tempo sempre uguale per
prepararsi a qualsiasi prova.

Devo davvero spiegarti perché non ha senso? Sul serio? Evidentemente


sì, visto che chi vende questa fuffa è ancora in attività e che ancora oggi una
delle domande più frequenti che ricevo via mail e sui canali social è “Ma
quanto tempo ci devo mettere a preparare un esame?”. Non può esistere
nessun’altra risposta se non: “Dipende”. Dipende dalla difficoltà
dell’esame, dalle conoscenze pregresse, dal metodo di studio, dalla quantità
di materiali da preparare, dalla dimensione del libro, dal numero di CFU,
dalla pignoleria di chi ci giudica, dallo stato psicofisico di chi studia, da
mille altri fattori. Dipende.
Come è possibile che il tempo di preparazione sia lo stesso per un esame
semestrale a corso integrato a Ingegneria e uno da sei crediti di Letteratura
italiana a Lettere moderne? O uno di Diritto, o di Medicina, o di Storia, o di
Lingue? Come può un esame composto da 300 pagine e un paio di slide
essere preparato nello stesso tempo di un mattone da 15 crediti con migliaia
di pagine? Non può, ovviamente.
Non è possibile assegnare tempi standard alla comprensione,
all’esercizio, all’apprendimento. Farlo significa sputare sul funzionamento
del cervello e cercare di convincere persone ignare che il contenuto dello
studio non conti nulla, che tutto quello che conta è cavarsela in qualche
modo agli esami. Questo atteggiamento punta dritto verso il burrone del
fuoricorso, degli esami falliti e dell’insoddisfazione, oltre che
dell’incompetenza. Stronzate che si schiantano contro il muro della realtà.

Che cosa si può fare

Voglio che una cosa ti sia chiarissima: il fatto che lo studio dell’ultimo
minuto sia una cazzata e un gigantesco problema per chi studia non
significa che ci si debba arrendere a uno studio lento, tedioso, estenuante.
Lo studio non deve essere un sacrificio, non si deve esagerare con la ricerca
della perfezione e della massima qualità a tutti i costi: prepararsi per un
esame, una verifica o qualsiasi altra prova è, e sempre sarà, un
compromesso tra tempo, qualità e sostenibilità, ed è giusto che sia così.
Applicare una pianificazione intelligente e previdente, studiare fin
dall’inizio delle lezioni, cercando il più possibile di rimanere in pari con ciò
che viene spiegato in aula, tenere un ritmo di studio giornaliero che non ci
stressi troppo e non ci esaurisca: questo è ciò che si deve fare se si vuole
avere successo a lungo termine nello studio.
Non saranno consigli rivoluzionari o sorprendenti, ma funzionano sul
serio. Anche applicare un corretto metodo di studio fa tutta la differenza del
mondo (qualcuno ha parlato del P.A.C.R.A.R.?)
E poi, puoi anche sfruttare quell’intensità finale del cramming che
dicevamo, e portarti a casa i risultati di focus e concentrazione, aumentando
gradualmente l’intensità del tuo studio verso il giorno della scadenza, per
sviluppare una sorta di cramming nella settimana finale, ma concentrato
unicamente sul ripasso. Studiare in modo troppo intenso, come abbiamo
visto, può essere un grosso problema, ma ripassare in modo intenso è molto
meno pericoloso: non si accumula la stessa quantità di stress, non ci si
stanca allo stesso modo, si possono sostenere ritmi elevati senza bruciarsi.
Per cui, il consiglio è di affrontare la tua preparazione tutta in spacing,
per poi fare una full immersion finale di ripasso. Così soddisferai da un lato
la voglia del tuo cervello di percepire il tempo e la fatica e dall’altro la tua
necessità di procedere con calma e consolidare le conoscenze.
Ah, e a proposito, vuoi per caso sfruttare il Principio di Pareto per essere
più efficiente? Ok, nello studio, per quanto mi riguarda, possiamo
applicarlo in senso temporale e di ordine: partiamo a studiare quel 20% più
importante del programma dell’esame, la parte centrale per la comprensione
di tutto il resto; poi, consolidato quello, affrontiamo l’80% che ci manca.
Quindi, ben venga il segnarsi le domande più probabili e il prestare
attenzione a lezione per intuire le priorità dell’insegnante, il suo punto di
vista, gli argomenti cui tiene di più. Basta solo ricordarsi che questo è solo
un punto di partenza e un obiettivo prioritario, ma non esauriscono l’intera
preparazione. Ecco, così ha senso.
3
“Perché prendere appunti, quando puoi scroccarli?”
La cazzata della “pappa pronta”

Lo scrocco come stile di vita

Quando lo studente sorridente incontra


lo studente scroccone, lo studente
sorridente è un uomo morto.

Il fatto è questo: dentro di noi alberga un mostro scroccone, avido di


informazioni e materiali di studio riciclati, un vampiro spietato pronto ad
attaccarsi al collo di chiunque abbia anche solo l’aspetto di chi ha seguito le
lezioni o compreso gli argomenti d’esame.
È proprio della natura umana, non ci si può fare nulla: anche chi ha i
principi morali più integerrimi vede le sue certezze sgretolarsi di fronte a un
bel quaderno di appunti organizzato e adornato da una calligrafia ordinata e
leggibile. È un istinto primordiale. Del resto, lo scriveva pure il buon
Lucrezio nel I secolo a.C. nel suo De Rerum Natura:
È dolce, quando i venti sconvolgono le acque nel vasto mare, guardare da terra la grande fatica
degli altri; non perché sia un piacere lieto che soffra qualcuno, ma perché è dolce vedere da quali
sventure tu stesso sei esente.

Lucrezio era un po’ stronzo, e noi con lui. Siamo persone orribili, e se
c’è una cosa che amiamo nella vita è non fare fatica. Ecco perché la pratica
del passarsi, scroccare o acquistare appunti, sbobine, riassunti, schemi,
esercizi, compiti per casa, versioni tradotte, slide, domande più probabili, e
chi più ne ha più ne metta è vecchia quanto il mondo dello studio. È parte
integrante del percorso di istruzione. Chi è senza peccato scagli il primo
quaderno di appunti. Io devo, per onestà intellettuale, collocarmi nella fila
dei colpevoli.
Immagina: è il secondo anno della triennale di Lettere moderne, gli
esami di Filologia si accumulano generando un vortice quantico di noia
esistenziale. Alessandro, un astuto e arrogante studentello di Padova, ha la
soluzione: smette di frequentare le lezioni, che tanto sono inutili (a detta
sua), e passa giorni a setacciare le pagine Facebook e i gruppi universitari
alla ricerca di qualche anima pia che possa fornirgli degli appunti. Trova
questi ignari individui, tenta di fare loro pietà, scrocca il quaderno e poi
nelle pause pranzo si infiltra in ufficio dalla mamma, che lavora in banca,
per scroccare pure le fotocopie. Il piano malvagio ha successo, non una ma
svariate volte, e l’astuto Alessandro, intanto, accumula ritardo universitario.
Ma è soddisfatto, perché l’ha fatta franca. Oggi, finalmente, la terribile
verità è venuta a galla, ma la mamma complice è al sicuro: ormai è in
pensione e non possono più licenziarla per abuso di fotocopiatrice.
Storie edificanti di delinquenza giovanile a parte, torniamo allo scrocco
come approccio allo studio: nel migliore dei casi si tratta di una pratica
saltuaria, una sorta di extrema ratio quando eventi fuori dal nostro controllo
ci hanno impedito di produrre noi stessi i materiali di studio, ma nel
peggiore dei casi diventa un sistema collaudato, un “metodo”, se si può
definire così, che permea a ogni livello l’esperienza scolastica e
universitaria. Il problema, come vedremo, è che in entrambi i casi questa
scelta si rivela essere catastrofica: un errore apocalittico, che, a cascata,
devasta tutto il processo di studio e apprendimento.
Ultima nota: la cosa che più mi fa imbestialire è il sorrisetto supponente
che alcuni di questi geni scrocconi esibiscono. Sentono di aver vinto contro
di te, di me, dell’insegnante, di aver fregato il sistema. La loro furbizia
supera ogni ostacolo, secondo loro.
E l’unica persona che stanno fregando, in realtà, è quella che vedono
ogni giorno allo specchio.

Come (non) funziona scroccare

Ma per quale motivo scroccare materiali di studio altrui è un problema?


Perché non funziona come strategia? Che cosa dice la scienza? Le ragioni
sono tante, ma possiamo riassumerle in quattro macroaree.
Scroccare il materiale altrui delega lo sforzo di rielaborazione,
comprensione e sintesi
In sostanza, si scarica su altri quel lavoro, quello sforzo cognitivo che,
però, è proprio ciò che consolida le informazioni nella nostra rete neurale.
L’unico modo per assicurarci che qualcosa che stiamo studiando resti dentro
di noi e non svanisca “come lacrime nella pioggia” è seguire un percorso,
che va dall’assorbimento delle informazioni alla comprensione, passa per la
codifica e rielaborazione, arriva al consolidamento e memorizzazione, per
approdare al ripasso e mantenimento. Te lo ricordi il paradigma del
P.A.C.R.A.R.? quello che ti ho sintetizzato all’inizio del libro? Ecco, quello
lì.
Che ci piaccia o no, purtroppo è questo lo schema secondo il quale opera
il nostro cervello quando studia; dunque, se alcune tappe di questo percorso
vengono spostate al di fuori, delegate, quello che si ottiene non è una
scorciatoia, ma un percorso mutilato, un “groviera” cognitivo, una scala cui
mancano dei pioli. Ci illudiamo che possedere del materiale di studio ben
organizzato sia un ottimo risultato, quando in realtà il punto non è mai stato
“possedere”, ma “produrre” quel materiale. È chi produce che si sforza, è
chi produce che ragiona, è chi produce che seleziona, è chi produce che
studia e che poi, alla fine di tutto, sa. E prende un buon voto.

Avere materiale già pronto alimenta illusioni


Si tratta di quella che viene spesso definita illusion of competence
(illusione di competenza) o illusion of learning (illusione di
apprendimento): una trappola mentale in cui è facilissimo cadere e che
consiste nell’avere la convinzione di aver imparato quando, in realtà, non è
affatto così.
Moltissime pratiche di studio scorrette e passive alimentano questa
illusione: la sottolineatura pigra, la ripetizione a pappagallo, l’ascolto
svogliato a lezione, la rilettura, la riscrittura, ma tra queste l’accumulo di
materiali scroccati è una delle pratiche più insidiose. Si tende a convincersi,
guardando l’ottimo lavoro fatto dal soggetto dello scrocco, che quel lavoro
sia stato svolto da noi. Ci identifichiamo con chi ha prodotto lo
schema/appunto/sbobina/slide/lista di domande e interiorizziamo il suo
sforzo cognitivo, come se fosse stato un po’ anche nostro. E, allora, ecco
che leggiamo quegli appunti o quegli schemi alla stessa velocità che
useremmo se li avessimo prodotti noi, con la stessa superficialità di chi
ripassa qualcosa che già conosce. Applichiamo standard di concentrazione e
impegno simili a quelli di un ripasso, di una scorsa veloce, quando, in
verità, ci troviamo ancora ai blocchi di partenza nel nostro percorso di
studio e avremmo bisogno di focus totale, partecipazione attiva e sforzo
intenso. Non riusciamo a renderci conto del nostro effettivo livello di
apprendimento. Abbiamo il materiale lì davanti a noi, ben organizzato,
annuiamo leggendolo, ha senso, lo capiamo; quindi, vuol dire che ce lo
ricorderemo, giusto?
SBAGLIATO! L’informazione è esterna al cervello, non è ancora stata
interiorizzata, perché non è passata attraverso gli step necessari per esserlo.
Hai saltato la fila alla cassa del supermercato, solo che quella cassa era
chiusa e ti sarebbe toccato tornare indietro. Ma non l’hai notato e così te ne
vai dal supermercato a mani vuote, fischiettando per la soddisfazione di
aver fatto la spesa in tempo record.

I materiali scroccati si accumulano


Questi materiali, poi, hanno il brutto vizio di accumularsi in maniera
scomposta e rendere più complessa la gestione e selezione delle fonti di
studio. Un buon consiglio sarebbe quello di avere sempre una fonte di
studio principale per ogni argomento (la più completa e di qualità) e tutte le
altre come eventuale supporto e integrazione. Ma questo diventa molto più
difficile da organizzare se abbiamo la scrivania piena di fogli fotocopiati,
roba non nostra, libri, appunti, slide, bigliettini, gruppi di domande,
sbobine, stampe di un articolo su Internet che ha consigliato quel tizio e che
può essermi utile… capisci che intendo?
Spesso, queste pseudo-fonti scroccate non fanno che aumentare il
“rumore di fondo” dello studio, creano confusione e nutrono la paralisi da
scelta: “Che cosa studio prima? Gli appunti scroccati o il libro? O le slide?
O …?”. Meglio limitare l’accumulo e concentrarsi su poche cose, ma
studiate bene.

Lo scrocco tende a impoverire la preparazione


È raro trovare materiali scroccati davvero di qualità, veramente completi
ed esaustivi: nella maggior parte dei casi si tratta di materiali che
riassumono, tagliano, eliminano alcuni punti chiave. Non succede solo per
superficialità o pigrizia, intendiamoci: a volte, semplicemente, la persona
che ha prodotto il materiale può dare per scontato qualcosa, o non ha
bisogno di esplicitarlo perché l’ha capito alla perfezione mentre partecipava
attivamente alle lezioni e interagiva con l’insegnante, i compagni e le
compagne, oppure ha conoscenze pregresse diverse dalle nostre, o ha
commesso errori di valutazione.
In ogni caso, deleghiamo ad altri il controllo sulla qualità della selezione
delle informazioni: una pratica rischiosissima che ci apre a vuoti di
preparazione che poi rischiano di saltare fuori nel momento sbagliato: in un
esame orale o davanti a un foglio con una domanda che proprio non
capiamo o a cui non abbiamo idea di come rispondere.
Insomma, tutto ciò che ci allontana dall’idea che siamo noi, in prima
persona, a dover selezionare, assorbire, comprendere, digerire, rielaborare,
codificare, discutere, ricercare, esercitare, memorizzare, creare i nostri
materiali, è un errore di valutazione grossolano. Tutto quello che ci
impedisce di affrontare il percorso del P.A.C.R.A.R. in modo intenzionale,
partecipativo ed efficace è un problema. Fa tutto parte della galassia della
“pappa pronta”. Pensiamo che il materiale scroccato ci stia aiutando nello
studio, pensiamo che ci stia facendo risparmiare tempo, ma non sta facendo
altro che allontanarci dal nostro obiettivo, che è quello di sapere, di
sviluppare conoscenze e competenze tali da poter superare senza problemi
l’esame, la verifica, l’interrogazione, il test, il concorso.
Provo a leggerti nel pensiero: non ti ho convinto ancora. Lo so che cosa
ti passa per la testa: “Eh, ma qualcuno che la fa franca c’è, però; per alcuni
funziona. Conosco uno che non ha mai preso appunti e ha passato tutti gli
esami; conosco un’altra che studiava sempre due giorni prima e passava;
Tizio scroccava gli schemi; Caio si faceva passare gli appunti dagli studenti
di successo; Sempronio si segnava solo le domande più probabili all’esame,
e andava alla grande”.
Sì, è vero. Ci sono sempre le eccezioni e ci sono sempre le botte di
fortuna, le scommesse vinte, gli esami facili che si passano in ogni caso, i
docenti imbecilli che si fanno fregare. Io stesso ho preparato esami in pochi
giorni su materiali scroccati e ho pure ottenuto ottimi voti. Il problema è
credere che queste, che sono e devono restare eccezioni, possano
confermare una regola che non esiste. Peggio ancora: il problema è illudersi
che questo modo di procedere, di scrocco in scrocco, non ci stia arrecando
un danno.
Tieni gli occhi sulla palla, tieni a mente l’obiettivo che abbiamo descritto
a inizio libro: noi vogliamo sapere, conoscere, ricordare, essere capaci. E
quando lo saremo, non ci sarà esame o test che potrà metterci in difficoltà.
Concentrati su ciò che ti porta a studiare bene, a fondo, a lungo termine,
non su ciò che forse potrebbe farti risparmiare qualche giorno nel superare
un esame, ma in cambio aumenta in modo esponenziale i rischi, e manda
alle ortiche l’intero processo di apprendimento.

Un’ancora di salvezza

Quello che ti ho spiegato finora significa forse che non si possa in toto
usare il materiale altrui? Mai e poi mai? In nessun caso? No, e sarebbe
sbagliato dirlo. Lo scrocco del materiale ha precisi confini in cui ha ancora
diritto di esistere e un preciso atteggiamento con cui deve essere affrontato.
Si può usare materiale scroccato solo e soltanto quando non c’è altra
alternativa.

● “Per motivi di salute non ho potuto frequentare le lezioni e produrre


appunti per due settimane, mi faccio passare gli appunti per compensare
questo problema.” Ci sta.
● “Ho frequentato le lezioni, ma l’insegnante spiega talmente male che è
davvero impossibile produrre appunti, quindi ho sbobinato.” Ci sta.
● “Ho creato dei miei schemi, ma sono venuti malissimo e non so come
fare, mi faccio prestare schemi altrui per confrontarli e prendere spunto.”
Ci sta.
● “Nelle slide ci sono informazioni diverse da quelle del libro o utili per
capire che cosa verrà inserito nell’esame, quindi le sfrutto.” Ci sta.
● “Andando a sentire gli esami mi segno le domande che sento più spesso,
così so da dove partire e a quali argomenti prestare più attenzione nello
studio.” Ci sta.

Occhio, però: queste non devono diventare scuse.

● “Non sono bravo a produrre appunti, quindi in classe ascolto e basta e gli
appunti li prendo da chi è più in gamba di me.” No, cazzata. Impara a
produrre appunti migliori.
● “Timidezza e imbarazzo mi bloccano nel partecipare in modo attivo alle
lezioni, lascio che i miei compagni o le mie compagne facciano domande
e spero di capire così i punti che non mi sono chiari.” No, cazzata. Cerca
di vincere le tue debolezze un po’ alla volta o, al massimo, raggiungi
l’insegnante dopo la lezione per porre le tue domande in modo più
privato.
● “Vado a lezione e l’insegnante va molto veloce a spiegare, è davvero
difficile produrre appunti, quindi mi affido alle sbobine.” No, cazzata.
Sbattiti di più e migliora per star dietro alla lezione.
● “Non mi va di fare gli schemi, quindi li prendo da un mio compagno o
una mia compagna.” No, cazzata. Fatti venire la voglia o organizzati
meglio.
● “Le slide sono comode, perché così evito di leggere il libro e vado più
veloce, quindi le sfrutto.” No, cazzata. Valuta con attenzione, argomento
per argomento, e seleziona la fonte più completa, non quella più comoda.
● “Andando a sentire gli esami mi segno le domande che sento più spesso,
così mi imparo la risposta solo di quelle, ho una buona probabilità di
passare e posso prepararmi all’esame in pochi giorni.” No, cazzata. Sei
una capra e probabilmente all’esame finirà malissimo.

Sono stato chiaro? Ogni singola volta in cui si può ottenere lo stesso
risultato (o un risultato migliore) senza sfruttare materiale scroccato, è
tassativo farlo.
E ora vediamo l’atteggiamento con cui percepire e usare il materiale a
scrocco.

● Il materiale scroccato deve sempre e comunque essere percepito come un


inconveniente, una “pezza” necessaria per sistemare qualcosa che si è
strappato nel nostro metodo di studio o una situazione spiacevole dovuta
a fattori esterni, fuori dal nostro controllo.
● Non ci deve far piacere usarlo, deve essere visto come un segnale di
fallimento, nostro (non grave, per carità) o del sistema, da cui trarre
insegnamento per non ripetere l’errore la prossima volta, per migliorare.
Bisogna fare tutto il possibile perché non sia necessario usarlo.
● È cruciale che il materiale scroccato costituisca una fonte di partenza, non
un punto di arrivo. L’unico modo per battere la illusion of competence di
cui parlavamo prima è assicurarsi di partire da quei materiali e applicare
loro l’intero percorso del metodo di studio, l’intero P.A.C.R.A.R., senza
scorciatoie, un po’ come se fossero una nuova fonte di studio, alla pari
del libro. Andranno quindi letti, compresi, rielaborati (sì, se hai sbobine o
appunti altrui ti converrà schematizzarli a tua volta, per quanto strano
possa sembrare), sottoporli a test, ripassarli. Come qualsiasi altra fonte di
studio che affronti per la primissima volta.
● La fatica non si può mai evitare: senza fatica non esiste studio (lo
vedremo meglio nel prossimo capitolo), ma la fatica si può ottimizzare, si
può rendere efficiente, si può dosare. Questo è il vero scopo di un metodo
di studio.
4
“Studia facile, studia senza fatica!”
La cazzata dello studio automatico

Questo capitolo e i due precedenti formano un vero e proprio trittico


della devastazione cognitiva: tra chi è sempre in cramming selvaggio, chi
scrocca di tutto e chi evita la fatica a tutti i costi (che conosceremo a breve)
si snoda un filo conduttore che è quasi un’idea filosofica, uno stile di vita.
Studiare all’ultimo minuto, scroccare materiali di studio e cercare la via più
semplice, automatica, sono come tre “facce” della stessa medaglia: un
Cerbero del disagio. Avrei anche potuto unire questi tre capitoli in un unico
grande Leviatano delle cazzate di studio, ma poi temevo che non ce
l’avresti fatta e avresti iniziato a leggere un libro di Rick DuFer. Non
potevo permetterlo.
Il tema di questo capitolo è la fatica o, meglio, la fuga dalla fatica. Il
tentativo di fare meno fatica possibile, di automatizzare al massimo il
processo di studio, di eliminare ogni sforzo, ogni attrito. Insomma, il sogno
di chiunque debba studiare qualcosa. Purtroppo, questa ricerca (vana, te lo
dico subito) nasce da un fraintendimento colossale: si pensa che tanto più
efficace sia il metodo di studio, tanto più automatica e priva di fatica sarà
l’esperienza di studio. In realtà, le cose non stanno affatto così…

Come (non) funziona lo studio automatico

Eviterò con destrezza di inerpicarmi sulla strada perigliosa della


neurologia (c’è chi è ben più competente di me) e non ti ammorberò con
dettagliate spiegazioni sul funzionamento della memoria e del processo di
apprendimento, ma cercherò di farti un riassunto: come accade che una
qualche informazione venga impressa nel nostro cervello. Mi perdoneranno
Bartlett, Baddeley, Sperling, Atkinson, Miller e compagnia bella per le
banalizzazioni. Se vuoi approfondire, va’ direttamente alle fonti, che trovi
elencate in dettaglio nella Bibliografia a fine libro.
Useremo l’arcinota metafora dei magazzini, riduttiva ma efficace.
Diciamo che stai studiando per una verifica di Storia alle scuole superiori.
Hai davanti a te il libro di testo e degli appunti. Dall’ambiente in cui ti trovi
arrivano al tuo cervello vari stimoli, informazioni che passano attraverso dei
filtri sensoriali: vi sono magazzini temporanei specializzati che ricevono
segnali visivi, uditivi, tattili, olfattivi e così via. Alcune di queste
informazioni non vengono neanche elaborate, perché in quel momento non
sono rilevanti, tipo la sensazione del fondoschiena poggiato sulla sedia:
quella sensazione c’è, se ti concentri la senti, ma il tuo cervello la esclude,
non le dedica risorse.
Altre informazioni, invece, quelle su cui stai facendo uno sforzo di
attenzione consapevole o che sono rilevanti per i compiti che stai svolgendo
in quel momento, diventano prioritarie e passano a un altro magazzino,
quello della memoria di lavoro. Questo magazzino di secondo livello non è
soltanto un posto in cui le informazioni si accumulano per un breve periodo
(infatti, il termine “memoria a breve termine”, talvolta impiegato, è
riduttivo), ma è anche e soprattutto uno spazio in cui le informazioni
vengono manipolate. Alan Baddeley, “sempre sia lodato”, ha descritto per
primo la struttura e il funzionamento di questo spazio. È qui che succede
tutta una serie di cose interessanti: il sistema esecutivo centrale (in pratica il
“capo della logistica del magazzino”) smista le informazioni: se hanno a
che vedere con l’aspetto uditivo o verbale le sbatte in un loop articolatorio,
una roba complicata tipo vortice di borbottii interni. Ricordati il termine
subvocalizzazione, ci tornerà utile nel prossimo capitolo. Se invece hanno a
che vedere con aspetti visivi, il cervello colloca le informazioni su di una
sorta di quaderno mentale (o, meglio, un taccuino visuo-spaziale) e le
elabora come immagini.
La memoria di lavoro poi, se ne ha bisogno, può anche richiamare
informazioni pregresse dalla memoria a lungo termine: questo per gestire il
tutto, fare collegamenti, rielaborare e così via.
Figura 4.1. Schema semplificato del funzionamento della memoria di lavoro
secondo Baddeley.

Quando le informazioni elaborate dalla memoria di lavoro non sono più


utili, vengono cestinate, per liberare spazio. Se invece sono rilevanti, se
vengono elaborate a lungo, se c’è un grosso sforzo di ragionamento e
magari di richiamo di conoscenze precedenti, avviene la codifica:
l’informazione viene trasformata in un costrutto, che viene inviato
all’ultimo livello di magazzini, quello della memoria a lungo termine. Lì
l’informazione viene archiviata e, in un secondo momento, può essere
richiamata, consolidata e riutilizzata.
Il processo di codifica è complesso, segue canali differenti a seconda del
tipo di informazione e dell’obiettivo, e anche i magazzini di memoria a
lungo termine sono parecchi. C’è la memoria procedurale, in gran parte
attivata in modo inconsapevole, che è deputata a ricordare “come si fanno le
cose”; c’è quella semantica, più importante ai fini dello studio scolastico e
universitario, che organizza le conoscenze in termini di parole, concetti e
ragionamenti vari; c’è la memoria episodica, che ha a che fare con gli
eventi, le azioni e le esperienze…
Ti ho perso, vero? Sì, ti ho perso. Allora facciamola più semplice:

● le informazioni arrivano dai tuoi sensi e vengono filtrate per importanza


in quel determinato momento;
● finiscono nella memoria di lavoro, che le elabora e categorizza;
● se sono abbastanza rilevanti e/o richiedono sufficiente sforzo e tempo di
elaborazione, vengono codificate e spedite alla memoria a lungo termine.

Ecco, meglio.
Figura 4.2. Schema esemplificativo, così sono davvero certo di essere stato
chiaro.

Ogni passaggio, perché sia realmente rapido e duraturo, richiede sforzo,


fatica, ragionamento, intenzionalità, specialmente se stiamo parlando di
memoria semantica, quella che non ha a che vedere con la nostra vita o con
i movimenti e le procedure che compiamo, ma con le cose che sappiamo,
con la nostra rete di conoscenze. La memoria semantica, del resto, è una
forma di memoria esplicita, vale a dire che per poterla creare e accedervi
bisogna fare un lavoro consapevole, bisogna volerlo e bisogna metterci
impegno.
La discriminante fra il successo e l’insuccesso nel creare un ricordo
duraturo quando si studia è quanto si riesce a segnalare al cervello
l’importanza di quel ricordo e quante risorse gli si dedicano.
L’intenzionalità è centrale, in tutto questo: quando attiviamo il pilota
automatico e cerchiamo di studiare senza sforzo, stiamo di fatto togliendo
rilevanza alle informazioni che elaboriamo, magari saltando passaggi
fondamentali del processo o eseguendoli con scarsa efficacia, e questo ci
porta a uno studio poco resistente, superficiale, con una “data di scadenza”
molto ravvicinata. Per questo l’automatismo e la fuga dalla fatica non
possono mai essere la soluzione giusta.

Mettiamocela via

Ma, allora, noi che cosa possiamo fare? Possiamo mettercela via, per
prima cosa, e accettare il fatto che la fatica non solo è inevitabile, ma anche
desiderabile. Così come uscire dalla palestra coi muscoli indolenziti (ma
non troppo) non è qualcosa di negativo, altrettanto è finire una giornata di
studio con la stanchezza addosso deve essere la normalità.
Si può studiare meglio, si può studiare in modo più approfondito, si può
studiare in modo più rapido, si può studiare in modo più duraturo… non si
può studiare senza fatica. È stato, in particolare, uno psicologo di nome
Robert A. Bjork a coniare il termine desirable difficulty, cioè “difficoltà
desiderabile”, per descrivere un compito di apprendimento, o studio, che
costringa a dare il massimo, senza però esaurirsi, e porti al risultato della
costruzione di conoscenze e competenze migliori e più durature. Oltre che a
voti più alti.
Il punto cruciale, però, è l’equilibrio, perché se la difficoltà aumenta
troppo o se la fatica supera il livello di guardia, avviene l’esatto opposto: lo
stress e la frustrazione aumentano, l’apprendimento peggiora, i risultati
svaniscono. Imparare deve essere una sfida, una missione difficile ma mai
impossibile: non è necessario essere Tom Cruise.
Tutte le tecniche positive ed efficaci che ti ho descritto finora, che
insegno nel mio Sistema ADC e che compongono il P.A.C.R.A.R. sono
mirate proprio a ottenere questo bilanciamento di difficoltà. Testing, lettura
efficace, schematizzazione, spacing, sono nomi con cui devi prendere
confidenza. Sapere tutto questo ti permetterà di superare la diffidenza e la
resistenza iniziali che questi metodi incontrano sempre: innanzitutto, fare
più fatica di rado viene percepita come una cosa positiva e incoraggiante,
ma in secondo luogo lo stesso Bjork osserva come queste tecniche possano
ridurre la fiducia che chi studia ripone nel suo metodo e fargli percepire il
processo come più lungo e lento. Le tecniche automatiche e prive di sforzo,
infatti, sembrano mostrare risultati temporanei e immediati migliori, e
spesso chi le applica li confonde per risultati duraturi. Ancora una volta, il
cervello ci inganna, ma noi dobbiamo saperlo, anticiparlo e resistere.
Altro parametro cui fare attenzione è quello dell’attività; ne ho parlato a
lungo nell’altro libro, Vince chi impara. L’hai già acquistato, vero? Bene
così. In breve, a ogni step del tuo metodo di studio devi assicurarti di tenere
un atteggiamento critico, rielaborativo, devi porti domande, cercare
collegamenti, inventare esempi, svolgere compiti pratici, prendere note,
scrivere, fare esercizi, creare schemi, insomma partecipare al contenuto,
non subirlo.
Se, quando studi, passano più di cinque minuti di fila in cui non ti
“muovi”, fisicamente e mentalmente, stai sbagliando qualcosa.

Arruolare la fatica

A questo discorso si collega anche un’osservazione che ho avuto la


fortuna di ascoltare direttamente da una delle fonti più autorevoli su queste
tematiche in Italia, Rossana De Beni, vera luminare della Psicologia
dell’apprendimento, autrice di studi importantissimi e libri utilissimi per
studenti a ogni livello. La professoressa De Beni, a un convegno cui ho
avuto l’onore di partecipare, ha raccontato di uno studio condotto da lei e
dal suo team su studenti e studentesse delle scuole primarie. Lo studio
prevedeva di osservare il loro comportamento di fronte a compiti di
apprendimento sempre più complessi e di confrontare gli atteggiamenti e le
azioni con i loro risultati scolastici e la loro abilità percepita nello studio.
Potrebbe venire naturale pensare che uno dei fattori discriminanti tra chi
è più abile nello studio o da chi lo è meno consista nel riconoscere quando il
compito di studio si fa più complesso. Insomma, una maggiore
consapevolezza della sfida che si trovano di fronte. Salta fuori, invece, che
anche chi è meno abile e ha risultati più scarsi è consapevole delle sfide, si
rende benissimo conto di quando aumenta la difficoltà. La vera differenza
sta in quello che succede dopo aver riconosciuto la difficoltà: gli studenti e
le studentesse più capaci reagiscono alla sfida di maggiore intensità
reclutando maggiori risorse cognitive. Per dirla in un altro modo:
rimboccandosi le maniche e sforzandosi di più. Chi è meno abile, invece,
prosegue con lo stesso livello di impegno o, addirittura, si scoraggia,
riducendo l’impegno profuso.
Questa constatazione è di un’importanza sconcertante. La capacità di
arruolare la fatica, di decidere che è ora di ingranare una marcia più alta e
premere sull’acceleratore incide in modo drammatico sui risultati di studio.
Chiaro, il tutto deve essere accompagnato dal possedere le giuste risorse,
dall’impiegare il giusto metodo e le giuste strategie, ma è da quella
decisione di sforzarsi di più che scaturisce tutto il resto.
Ancora una volta è la fatica il segreto. C’è chi fugge dalla fatica, e perde,
e chi porta la fatica dalla sua parte, e vince. Quando il gioco si fa duro, i
duri (e le dure) iniziano a studiare.

Affogare nel flusso

Ultimo argomento del capitolo, ultimo rifugio dell’automatismo


studentesco è un concetto reso popolare da esimi divulgatori come Cal
Newport e, in misura più modesta… dal sottoscritto. Eh sì, un piccolo mea
culpa ci sta: preso dall’entusiasmo, in Vince chi impara ho parlato del
concetto di flow, un principio importantissimo per la produttività, ma non
mi sono reso conto che ciò che ho scritto poteva essere mal interpretato;
quindi, ci tenevo a specificare l’applicazione del flow nello studio.
Facciamo un passo indietro: che cos’è il flow? Coniato da uno psicologo
ungherese dal nome assolutamente impronunciabile, Mihaly
Csikszentmihalyi, il flow viene definito come uno stato di coscienza in cui
la persona è completamente immersa in un’attività e non c’è assolutamente
nulla che possa distogliere la sua attenzione. Hai presente quando leggi un
romanzo e il mondo intorno a te sparisce? O quando sei alle prese con un
videogioco e ci passi ore e ore ignorando qualsiasi stimolo fisiologico del
tuo corpo? Ecco: quello! Il flow è diventato quasi un culto tra chi si
interessa di produttività e sviluppo personale, perché raggiungerlo significa
effettivamente lavorare di più, più a lungo, meglio, sentendo meno la fatica.
Non poteva non diffondersi, quindi, anche nel mondo dello studio
efficace, ma c’è un piccolo problema da affrontare prima di renderlo la
soluzione a tutti i nostri problemi: perché il flow si realizzi deve esserci una
sinergia perfetta tra il grado di competenza dell’individuo e la difficoltà
richiesta dal compito da svolgere. In pratica, bisogna stare svolgendo un
compito in cui si è molto abili, così abili da poter quasi inserire il pilota
automatico. E bisogna pure sapere sempre esattamente che cosa fare e come
farlo. Ed è qui che l’ingranaggio si inceppa.
Immagina di non sapere assolutamente nulla di una materia, per esempio
la fisica quantistica, ma per qualche motivo particolare l’argomento inizia a
stuzzicare la tua curiosità e decidi di comprare un libro di testo per studiarla
da zero. Non vedi l’ora di imparare nuovi concetti e assorbire più
informazioni che puoi; quindi, decidi che è arrivato il momento di trovare la
concentrazione ottimale ed entrare nel fatidico “stato di flow” di cui parlano
tutti. Poi ti ritrovi davanti la funzione lagrangiana, non capisci un emerito…
niente e, sbam! Flow interrotto.
Lo “stato di flow” si può raggiungere esclusivamente quando hai già
sviluppato una serie di automatismi relativi all’attività in questione, non
quando devi comprendere o assorbire qualcosa di nuovo, di sconosciuto.
Piuttosto che cercare il flow, ovvero l’assenza di qualunque attrito, quando
studi devi cercare di trasformare quell’attrito in motivazione per
approfondire gli argomenti, in una forza motrice interna per appassionarti a
ciò che stai studiando, anche se è difficile. Anzi, soprattutto perché è
difficile: è proprio lì che arriva la vera soddisfazione!
Comunque, non disperarti, conoscere il flow può comunque tornarti
utile. Se provi ad applicare il flow alle fasi di acquisizione, comprensione e
rielaborazione del P.A.C.R.A.R., quando ancora non padroneggi gli
argomenti che stai trattando e stai cercando di assorbire le informazioni per
capirle a fondo e farle tue, in effetti è abbastanza inutile. Ma se invece hai
già superato quella fase, magari hai già trovato le parole chiave nel testo e
schematizzato tutto a dovere, allora c’è spazio anche per il flow.
Nella fase di applicazione e testing, per esempio, o nel ripasso, avendo
già interiorizzato gli argomenti, tutto ciò che devi fare è andare a ripescare
dalla tua memoria le informazioni per rispondere in maniera corretta alle
domande. Ovviamente, più avrai svolto efficacemente le fasi precedenti e
più sarà facile entrare nello “stato di flow” e, di conseguenza, lo sforzo sarà
significativamente minore.
Visto che ci siamo, ti do qualche indicazione pratica. I punti da tenere in
considerazione per raggiungere lo stato di flow sono principalmente tre.

● Scegliere con cura l’attività. L’ho già ripetuto, ma insisto: è davvero


cruciale che, qualsiasi sia l’attività in questione, tu abbia collaudato i
processi base al punto da averli fatti diventare praticamente automatici.
● Avere obiettivi chiari. Avrai bisogno di un livello di concentrazione
veramente altissimo, e non lo puoi raggiungere avendo solo una vaga
idea di quello che devi fare. Devi sapere perfettamente quali argomenti
ripasserai, quali esercizi svolgerai, quali simulazioni condurrai, con quali
argomenti ti confronterai.
● Non pensare al flow. Ossessionarsi continuamente con qualcosa, spesso è
il modo peggiore per ottenerlo. Concentrati su quello che stai facendo,
sul tuo processo di studio e sulla gestione delle tue risorse mentali.
Quando potrà intervenire il flow, lo farà naturalmente.

Ok, anche questa è fatta, anche la fatica l’abbiamo affrontata e


conquistata. Ora possiamo concludere il capitolo e prendere un bel
momento di pausa. Anche perché, prepariamoci: la prossima cazzata è
dietro l’angolo, ed è epocale.
5
“Leggi duecento libri all’anno!”
La cazzata della lettura veloce

Ah, molto bene, siamo già al momento in cui parlare di “lettura veloce”
o “speed reading”, “photoreading”, “lettura tridimensionale”, “lettura
satellitare”, “lettura rapida”, “fotolettura”, “dynamic reading” … Un grande
classico della spazzatura pseudoscientifica nel mondo dell’apprendimento
efficace. Una crosta infetta che non possiamo fare a meno di grattarci. E io,
ogni volta che ci penso, sono costretto a sgranocchiare Maalox come
fossero anacardi tostati. A questo punto potresti chiederti perché rosico così
tanto proprio su questo tema. Sono costretto a confessare. Ebbene sì: io
stesso sono stato un adepto della fuffologia della lettura veloce. Un’altra
trappola in cui sono caduto in prima persona. Non è la prima che hai letto in
queste pagine, non sarà l’ultima. Di più e peggio ancora: l’ho anche
insegnata. Un errore di gioventù del quale sono profondamente
consapevole, una macchia di sugo indelebile sulla mia anima e sulla mia
carriera.
Il fatto è questo: di tutte le promesse assurde che hai letto e leggerai in
questo libro, quella della lettura veloce è una delle più seducenti in assoluto.
Sì, la lettura veloce è maledettamente sexy. L’aggancio è tanto semplice
quanto inebriante:

Non vorresti riuscire a leggere qualunque


testo due, tre, cinque, dieci volte più
velocemente, senza perdere la
comprensione e senza perdere il ricordo?
Non vorresti leggere e studiare in un’ora
un intero libro, trattenendo tutte le
informazioni?
Certo che lo vorrei! Dove devo firmare? Posso pagare con PayPal?
E così, nel lontano 2010, ci sono cascato anch’io, e di brutto, perché
l’idea di poter divorare conoscenza, libri e testi con una velocità sovrumana
mi aveva inebriato, mi aveva fatto sentire per la prima volta come se i miei
sogni fossero a portata di un corso. E ho finito per convincermi che questi
metodi funzionassero davvero, pur sapendo dentro di me che non era così,
pur sperimentandone in prima persona i limiti e i problemi. Ne abbiamo
parlato a inizio libro: X-Files, “I want to believe”, ricordi? Più che crederci
io volevo crederci. La volontà fa tutta la differenza del mondo. Volevo che
fosse vero, volevo che funzionasse, volevo che fosse la risposta alle mie
difficoltà. Per fortuna è durata poco, le evidenze scientifiche mi sono calate
sulla testa come un martello pneumatico di consapevolezza e, dopo aver
lottato con la dissonanza cognitiva, mi sono arreso alla realtà e sono
cambiato, cambiando al tempo stesso ciò che insegnavo e come lo
insegnavo.
Voglio uscire per un secondo dal personaggio e dallo stile sarcastico con
cui sto scrivendo questo libro, per dire a coloro che hanno imparato la
lettura veloce da me in quei tre o quattro corsi che ho tenuto sul tema che,
davvero, mi dispiace. Vi ho insegnato qualcosa di pseudoscientifico,
inefficace e dannoso per il vostro percorso di studi. Mi dispiace tanto. Per
quel che vale ero in buona fede, anche se questa non può bastare come
scusa. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. E di
ignoranza. Se non altro questa vergogna che mi porto dietro ha anche
alimentato la mia voglia di contrastare le fufferie e ha contribuito a fare
della divulgazione il perno del mio lavoro e della mia carriera. Mi ha
portato anche a progettare e scrivere questo libro.
Ma ora basta, ho ciarlato anche troppo. Scendiamo nei dettagli.

Come nasce la lettura veloce?

Non è facile risalire a chi abbia avuto per la prima volta l’idea di
proporre corsi o metodi per leggere più velocemente. Se dovessi
scommettere, direi che è un’idea nata alla prima povera vittima che ha
dovuto leggere un librone di Diritto per un esame universitario. Un nome,
però, spicca su tutti gli altri: Evelyn Wood, un’insegnante e imprenditrice
americana in attività negli anni Cinquanta che sembra essere stata la prima
a commercializzare in modo organizzato questi sistemi, che all’epoca
definiva “lettura dinamica”. La regina capostipite dei “superlettori veloci
megagalattici”. A sua discolpa c’è da dire che all’epoca le evidenze
scientifiche in merito all’inapplicabilità della lettura veloce erano davvero
scarse, quindi magari, all’inizio, era in buona fede… Senonché a un certo
punto quelle evidenze cominciarono ad arrivare, e lei ci passò sopra come
una mietitrebbia su un formicaio. Cominciò a dire in giro di poter leggere
fino a duemilasettecento parole al minuto (fra poco ti renderai conto di
quanto oltraggiosa sia questa sparata), di poter finire un libro intero in meno
di un’ora, di non scorrere le pagine da destra a sinistra ma dall’alto in basso,
di non rileggere mai nulla e… vabbè, ci siamo capiti.
E poi questa tizia si è fatta un bidone di danari, ma tanti, tantissimi. Ha
intuito prima di chiunque altro che una “magia” del genere non interessava
solo agli studenti, ma anche a professionisti, ricercatori e politici. Organizzò
corsi alla Casa Bianca, a senatori, astronauti, attori di Hollywood. Tra i suoi
allievi più famosi il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter.
Da lì, la lettura veloce comincia a diventare di dominio pubblico e dagli
anni Settanta in poi si diffonde ovunque ci sia qualcuno pronto a fare
qualche soldo facile raccontando panzane, cioè dappertutto, sempre, in ogni
Paese del mondo. Anche in Italia, ovvio, che noi non ci facciamo mancare
mai niente.

Che promesse fa?

Naturalmente, come in tutte le fuffologie, c’è enorme varietà all’interno


dei diversi nomi, delle diverse declinazioni e dei diversi paradigmi della
lettura veloce. Non si possono fare generalizzazioni onnicomprensive, e se
dovessi trattare nel dettaglio ogni singola tecnica e variante ne verrebbe
fuori un libro di trecento pagine (nel caso lo voleste, bombardate di
messaggi Feltrinelli editore e ci pensiamo). Ci sono però dei capisaldi, dei
punti in comune a tutte queste proposte, e sono quattro.

● Aumentare moltissimo la velocità di lettura. C’è chi, più timidamente,


parla di raddoppiare la velocità, chi di triplicarla, chi di quintuplicarla,
chi di decuplicarla e poi ci sono i matti veri che propongono di arrivare a
centuplicarla. Sì, ho sentito pure quelli. Ci si riferisce in genere a una
misura della velocità denominata PAM (parole al minuto) e si lanciano
cifre come 500, 1.000, 2.000, 3.000, 5.000, 10.000 PAM.
● Aumentare o, quantomeno, non diminuire la comprensione di quanto
letto. Questo è un punto cruciale: chi insegna lettura veloce si vanta non
solo della sua straordinaria rapidità di lettura, ma anche del fatto che
capisce tanto quanto chi legge normalmente, se non di più.
● Aumentare o, quantomeno, non diminuire il ricordo delle informazioni
del testo. Anche qui il range di assurdità delle promesse è molto ampio:
c’è chi si modera e si limita a promettere che il metodo non riduce la
capacità di memorizzazione e chi la fa fuori dal vaso, ed è pronto a
giurare sulla tomba del proprio criceto domestico che al termine del corso
potrai ricordare ogni cosa tu abbia letto, per sempre.
● Saper affrontare qualunque tipo di testo con la stessa rapidità ed efficacia,
a prescindere dall’argomento, dalla materia, dalla difficoltà, dalla
tipologia, dallo scopo.

Fantastico, incredibile. Sembra troppo bello per essere vero… E infatti è


falso. Ma per capire come mai sia falso, come mai non funzioni, dobbiamo
prima fermarci un secondo a capire come funziona realmente il processo di
lettura.

Che cosa succede, quando leggiamo?

Per quanto riguarda il funzionamento e l’anatomia dei nostri occhi, a


essere onesto, è davvero troppo complicato, lascio il lavoro a chi si occupa
di medicina e oftalmologia. Facciamo che si parte dal processo di lettura
stesso, che possiamo semplificare in quattro fasi distinte:

● saccade;
● fissazione;
● pausa di comprensione;
● regressione.

La saccade, di fatto, è un piccolo salto che fanno i nostri occhi per


posizionarsi sulle parole. Vedi, il punto è che non leggiamo come uno
scanner, procedendo in linea retta in modo continuo, né come una macchina
fotografica, un flash di un’intera riga o pagina. Quando abbiamo un testo
davanti, noi saltelliamo allegramente sulle righe come Heidi nel prato, con
le sue caprette. Spostiamo gli occhi a piccoli balzelli seguendo la
progressione delle lettere. Una saccade, di solito, ha una durata di pochi
millisecondi e sposta lo sguardo di otto o dieci lettere, un paio di parole al
massimo.
Effettuata la saccade, l’occhio è pronto, è in posizione ideale per
leggere. E lì parte la seconda fase, la fissazione. L’occhio “assorbe” le
informazioni delle parole che si trova davanti e che riesce a mettere a fuoco.
Le parole completamente a fuoco si trovano nell’area chiamata fovea (che
in sostanza significa “a fuoco”) e più ci allontaniamo dal fuoco, passando
nella parafovea e poi nella visione periferica, meno riusciamo a percepire le
parole, che si fanno più sfocate. Una fissazione di solito dura dai 100 ai 500
millisecondi. Qui ci vuole un diagramma, altrimenti non ci capiamo (Figura
5.1).

Figura 5.1. Nemmeno Yoda potrebbe leggere nella zona di acutezza bassa.
Come direbbe lui: “Difficile da vedere è. Sempre in movimento la visione
periferica è”. Ah, no, forse era il futuro, ma il concetto è lo stesso.

Fatto questo, gli occhi hanno finito di lavorare e tocca al cervello, che
durante la terza fase della lettura deve prendersi qualche istante di pausa
per elaborare le informazioni e comprenderle. In questa fase avviene la
cosiddetta subvocalizzazione, un processo strambo e importantissimo: in
pratica parlottiamo tra noi e noi, nella nostra mente, borbottiamo in silenzio
e questo ci aiuta a capire. Giusto per precisare, ti ricordi che ne abbiamo già
parlato nello scorso capitolo, quando ti spiegavo come funzionano la
memoria e l’apprendimento? La subvocalizzazione avviene nel magazzino
della memoria di lavoro, in uno spazio che si chiama loop articolatorio.
Questa pausa con borbottio mentale porta via all’incirca ancora dai 300 ai
500 millisecondi.
Infine, come ultima fase, meno sistematica, ci sono le regressioni, che
significa che i nostri occhi, quando serve, ripetono la saccade e la fissazione
o si riposizionano, a volte per piccoli errori, a volte perché il passaggio è
particolarmente complesso. Le regressioni possono essere minime o
enormi, anche di alcune righe, e avvengono in maniera conscia o anche
inconsapevole. Di quelle inconsapevoli, ovvio, non ti accorgi. Quelle
consapevoli sono quelle in cui ti dici “Aspe…, non ho capito nulla, meglio
ricominciare la frase”.
Ho operato un’estrema semplificazione, ma pressappoco ci siamo, hai
capito come si legge. La persona comune ha una velocità media di lettura,
complessiva delle quattro fasi, di circa 200 o 250 PAM (vuol dire sempre
parole al minuto… non perderti, su!).
Adesso che sai tutto questo, non soltanto hai un argomento da sfoggiare
a tavola in una cena in cui vuoi fare colpo, ma puoi anche finalmente capire
come dovrebbe funzionare lo speed reading e come, purtroppo, fallisce di
brutto.

Come (non) funziona la lettura veloce?

Dunque, i metodi di speed reading, per raggiungere le promesse che ti


ho appena illustrato, cercano di scardinare le quattro fasi della lettura, di
modificarle, di renderle più efficienti o addirittura di eliminarle, del tutto o
in parte. Come già dicevo, c’è un’enorme varietà nelle proposte che si
trovano in giro, ma le tecniche possono essere riassunte e semplificate in sei
approcci diversi, spesso combinati assieme.

● Velocizzare le saccadi. Questa è la pratica più diffusa in assoluto: mesi di


esercizi ridicoli di aumento del ritmo di lettura e di saltelli sempre più
veloci sulle pagine per abituare gli occhi a muoversi in modo più
energico. Sembra interessante, il problema è che non ci si riesce. Le
saccadi sono movimenti quasi del tutto involontari e, in sostanza, i
muscoli che spostano gli occhi fanno il cavolo che pare a loro. Quindi…
non funziona. Non solo, ma questo teorico aumento di velocità non tiene
conto dei tempi necessari per mettere a fuoco e comprendere, e allora si
rischia di saltare prima di aver terminato di incamerare le informazioni,
facendo crollare a picco la comprensione e il ricordo.
● Aumentare la dimensione della fissazione, potenziando il campo visivo e,
soprattutto, imparando a sfruttare meglio la visione periferica. Sembra
carino, il problema è che le ricerche mostrano che se una parola si trova
al di fuori della fovea, la comprensione si abbatte drasticamente, a
prescindere dal tipo di allenamento. E più ci si allontana dal focus e più,
ovviamente, non si capisce “una mazza”. Ah, nel caso te lo stessi
chiedendo, no, non si può “potenziare il campo visivo” con qualche
misterioso esercizio. Sicuramente ci si può abituare a mettere a fuoco
meglio e si può allenare l’intuito, ma parliamo di differenze minime, che
non impattano significativamente sul processo e che, soprattutto, si
schiantano quando il testo è davvero tecnico o complicato. Anche qui:
vicolo cieco.
● Eliminare la subvocalizzazione. Andare così veloci che il borbottio si
spegne, la voce dentro di noi si zittisce e il cervello riesce a elaborare più
informazioni e più in fretta. Ancora una volta, purtroppo, non funziona.
Sopprimere la subvocalizzazione porta a un calo devastante della
comprensione: proprio non possiamo farne a meno se vogliamo capire
quello che leggiamo. Non solo: cosa ancora più importante, la nostra
mente non è particolarmente capace di gestire molte informazioni in
parallelo. Se aggiungiamo troppa “carne al fuoco” si brucia tutto. Un
tempo si diceva: dalle 5 alle 9 informazioni, 7 ±2, la famosa Legge di
Miller, ma ora quel magico numero è stato tarato più in basso, 4 o 5
spezzoni di informazioni al massimo. Di più, e il cervello va “in pappa” e
si deve ricorrere al chunking, cioè la strategia di suddividere e
raggruppare le informazioni che ci servono in blocchi (chunk) più
facilmente gestibili dalla nostra memoria (come quando detti un numero
di telefono andando a coppie o triplette), e ad altre strategie che trovi
sintetizzate in Vince chi impara. Ma comunque, tornando
all’eliminazione della subvocalizzazione, beh, è un’altra strada chiusa.
● Eliminare la regressione: imparare a non tornare mai indietro. Questa
forse è tra le più sensate delle proposte dei lettori veloci, ma il cavillo è
che gran parte delle regressioni è involontaria e inevitabile: esse
dipendono da errori di posizionamento degli occhi o da informazioni
particolarmente complesse, e non si possono eliminare. Solo quelle
consce si possono combattere, imparando a procedere in modo
incrementale sul testo, quello che io chiamo “approccio del carro
armato”. Funziona bene, ma non incide più di tanto sulla velocità
complessiva.
● Sconvolgere del tutto il processo: qui si va nella fantascienza dura e pura,
una cosa che… Asimov, spostati! L’idea di alcuni di questi esìmi esperti è
di sostituire tutto il processo di saccade, fissazione, comprensione e
regressione con un unico flash che possa inquadrare intere pagine. In
pratica, passare da un’Heidi che saltella nel prato a un Terminator che
fotografa pagine e ne assorbe il contenuto all’istante. Qui a essere onesto
non so neanche che argomentazioni trovare per dirti che non funziona,
perché proprio non esiste: non è così che gli esseri umani utilizzano il
loro cervello e i loro occhi. È una follia e basta.
● Infine, l’ultimo asso nella manica della lettura veloce viene dalla
tecnologia ed è l’applicare la RSVP, che sta per “Rapid Series Visual
Processing”, ovvero sparare le parole su uno schermo una dietro l’altra,
bypassando quasi del tutto la necessità di saccadi e fissazioni. Diverse
app e software fanno questa cosa, il più famoso è “spritz”, che qui a
Padova, la mia città, conosciamo molto, molto ma molto bene.
Affascinante, ma le ricerche sembrano mostrare un’efficacia molto
limitata: purtroppo attraverso lo spritzing la nostra mente fatica a rilevare
quali parole siano più dense di contenuto e quali meno, diventa difficile
discriminare e ricordare quanto letto, non si possono evidenziare parole
chiave, si fatica a tornare indietro quando serve. Insomma, può andare
bene per un semplice articoletto di giornale, ma per qualcosa di più
corposo è scomodo, faticosissimo e insostenibile.

A oggi, per riassumere, non si conosce alcun modo convincente di


aumentare oltre a una certa soglia (circa 400-450 parole al minuto) la
velocità senza intaccare in modo devastante la comprensione e senza creare
disagi, fatica eccessiva, stress e difficoltà pratiche a chi legge.
Ci rimane altro? Sì, l’ironia. Il grandissimo, leggendario Woody Allen
scrisse una battuta fulminante sullo speed reading che cito sempre, ogni
volta che salta fuori l’argomento: “Ho fatto un corso di lettura veloce e ho
letto Guerra e pace in venti minuti. Aveva a che fare con la Russia”.

E quindi?

Come la mettiamo con le migliaia di persone che dicono di riuscire


effettivamente ad aumentare in modo impressionante la propria velocità di
lettura con queste tecniche? Tutti imbrogli? Tutti inganni? Proprio tutta
fuffa in cattiva fede? No, assolutamente no. Molte persone sono soltanto un
po’ (o forse tanto) confuse. Nello specifico, confondono la lettura vera e
propria con un’altra attività, simile, connessa, ma profondamente differente:
lo skimming.
Lo skimming è l’atto di scorrere rapidamente un testo per farsi un’idea
generale del contenuto, scoprirne la struttura, cercare alcune informazioni
precise, notare alcune parole chiave. E, infatti, il verbo inglese to skim può
assumere vari significati: scorrere, sfiorare, scremare, far rimbalzare
qualcosa. Molto evocativo. Lo facciamo tutti, anche senza saperlo, quando
ci capita davanti un foglio, un documento o un articolo su Internet e
vogliamo capire se valga o meno la pena di leggerlo sul serio. Forse lo hai
fatto pure tu quando hai preso in mano questo libro la prima volta. È
normale, ci sta. È un’operazione di lettura preliminare, esplorativa,
utilissima anche nel metodo di studio, ma che non ha la pretesa di assorbire
informazioni o di comprenderle a fondo. È, per capirsi, un riscaldamento,
un giro di prova, che facilita e velocizza una successiva lettura accurata.
A seconda della facilità del testo, del nostro intuito, della nostra
abitudine e della concentrazione e intenzionalità che ci mettiamo, lo
skimming può farci cogliere diversi dettagli importanti, può restituirci un
quadro generale di ciò che poi leggeremo e ci può preparare ad affrontare il
testo con maggiore sicurezza, velocità e competenza. C’è una bella
differenza tra lo skimming spontaneo e uno skimming strutturato, mirato,
allenato, questo è vero. Ma non è comunque lettura.
Inoltre, la tipologia di testo fa un’enorme differenza nel risultato. Un
semplice articolo di giornale, scritto in modo lineare, contenente magari
informazioni strutturate secondo le classiche 5 “W” del giornalismo, sarà
semplice da affrontare anche solo con lo skimming. Si potranno cogliere gli
elementi principali e, finito un passaggio, anche molto rapido, si avrà
un’idea precisa del contenuto. Ma già con un pezzo giornalistico di
opinione o un editoriale la questione si complica. Per non parlare di un
romanzo, di un libro divulgativo o di un testo tecnico. Lì lo skimming rivela
tutte le sue debolezze: prova a fare lo skimming di un testo di Analisi
matematica o di Elettrotecnica o un capitolo dei Promessi sposi, e poi…
fammi sapere.
Lo skimming, insomma, è figo, funziona, è utile, ma ha limiti ben precisi
e se lo si confonde con una vera lettura e si pensa che possa bastare da solo,
beh, ecco che nasce il concetto di lettura veloce. Skimming mascherato e
usato al posto della lettura, invece che in aggiunta a essa. Non è lettura
veloce, è solo skimming.

Ma si può aumentare la velocità in modo serio?

I limiti di velocità di una lettura qualitativa, che formi un ricordo


resistente e che si basi su una comprensione profonda sono abbastanza
chiari ormai. Oltre le 400-450 PAM si comincia a declinare. Non conviene
mai spingersi più in là di così, a meno che non si stia facendo un volontario
skimming preliminare. Ma quello, come ho già detto, non è leggere.
Se ci pensi, però, quando ti ho spiegato il funzionamento della lettura ti
ho anche detto che normalmente si legge sulle 200-250 PAM. Il che significa
che raddoppiare la velocità di lettura senza perdere in comprensione e
memoria si può, più o meno. Mica male, no? Non sarà “un libro all’ora”,
ma di certo è meglio che niente. Non è detto che sia facile, né che sia
rapido, ma si può fare. E come si fa?

● Partiamo dal presupposto che allenare lo skimming è comunque una


buona cosa, anche perché ci abitua all’idea di non tenere sempre lo stesso
ritmo sul testo. Ma dimenticati completamente tutti gli esercizi
strampalati di lettura veloce. Per allenare lo skimming devi
semplicemente attuarlo consapevolmente prima di iniziare a leggere
qualunque cosa, renderlo un’abitudine, dedicare un paio di minuti
all’esplorazione ad alta velocità delle pagine, cercando indizi che
possano aiutarti a formarti un’idea preliminare e superficiale del
contenuto.
● Per assorbire le informazioni, allenati a riconoscere le parole importanti, i
dettagli tecnici, a sfruttare gli elementi messi in risalto dal testo stesso o
dall’impaginazione e, soprattutto, abituati a mettere in moto il
ragionamento e a provare a dedurre e anticipare il contenuto di ciò che
leggerai.
● Chi legge più velocemente, chi arriva alle fantomatiche 450 PAM senza
nessun training, è anche chi legge più di frequente. Che sorpresa, eh? Mi
vuoi forse dire che l’abitudine a fare qualcosa rende più abili nel fare
quella cosa? Sembra assurdo, ma è proprio così. Quindi, il consiglio più
importante per velocizzare la lettura è leggere tanto, leggere spesso,
leggere cose diverse, confrontarsi con sfide di lettura progressivamente
più varie e complesse.
● Fa la differenza anche la ricchezza del vocabolario e la conoscenza della
semantica e della sintassi: più parole conosciamo, più strutture
linguistiche padroneggiamo e più veloci saremo a riconoscerle e metterle
in relazione quando leggiamo.
● È molto importante anche abituarsi a variare la velocità di lettura quando
serve: è una balla quella che si debba leggere sempre con lo stesso ritmo.
Variare la velocità di lettura, accelerando nei passaggi semplici e
rallentando quando il gioco si fa duro è il modo migliore per risparmiare
tempo. Il pilota migliore non è quello che va sempre a tavoletta, ma
quello che sa quando “tirare” e quando frenare.
● Usare un indicatore: uno strumento per tenere il segno sul testo (matita,
penna, dito, evidenziatore, ascia bipenne, quello che preferisci). È stata,
sembra, un’idea proprio di quella Evelyn Wood che ha creato i primi
corsi di lettura veloce. Però funziona, anche se non proprio nel modo in
cui intendeva lei. Lei se ne serviva per scorrere le pagine in verticale,
cercando di tenere fisso lo sguardo al centro della riga per “percepire”
con la visione periferica l’intera riga senza fare saccadi (lasciamo
perdere), ma tu puoi usarlo per tenere il segno sul testo, per ridurre gli
errori e, dunque, le regressioni, per variare più facilmente il ritmo, per
tenerti all’erta se servisse sottolineare e pure per combattere distrazione e
sonnolenza.
● Incidono sulla velocità anche l’illuminazione della stanza, la postura, la
distanza e inclinazione del testo o dello schermo: tendiamo a leggere in
posizioni improbabili, a piegare troppo la testa e a tenere il testo troppo
vicino, riducendo così la portata del campo visivo.
Esiste anche una bella variazione individuale: non tutti siamo in grado di
leggere alla stessa velocità, per cui se fossi in te non mi ossessionerei più di
tanto con il tentativo di accelerare a ogni costo. Molto meglio concentrarsi
sulla lettura efficace, di qualità, ideale per lo studio, la stessa che insegno
nel mio libro Leggere per sapere, che trovi anche da scaricare come PDF nel
mio sito, tra le risorse gratuite. Il libro è interamente dedicato a come
trasformare la lettura in uno strumento efficace ed efficiente, rispettando
quello che la scienza ci dice in merito. Applica i consigli che ti ho dato,
scopri la lettura efficace, abituati a leggere sempre di più e vedrai che anche
la velocità aumenterà di conseguenza, fino a raggiungere da sola un limite
sensato.
Tutto qui, ma del resto questo libro è costruito per essere una delusione
costante, capitolo dopo capitolo. Me ne rendo conto, l’ho fatto apposta,
sono un sadico. E abbiamo appena iniziato, ne abbiamo di delusioni da
scoprire. Prenditi tutto il tempo del mondo per leggertele… lentamente. E,
intanto, impara, anche dalle delusioni.
6
“Memorizza tutto il Codice civile in un pomeriggio!”
La cazzata del memorizzare tutto

L’eccesso di memorizzazione, la fissazione sulla memorizzazione, la


fiducia estrema nella memorizzazione sono alcuni dei fraintendimenti più
diffusi e radicati nel panorama del metodo di studio. Mito cazzaro portato
avanti tanto da chi deve imparare quanto da chi insegna: l’idea che lo studio
corrisponda all’imparare parola per parola certi discorsetti o schemi, certe
parole chiave o definizioni, infesta il mondo universitario, specialmente
alcune facoltà (qualcuno ha detto Medicina e Giurisprudenza?).
Non bastasse questa cultura dello studio mnemonico e nozionistico,
diffusa ovunque in Italia, a buttare benzina sul fuoco ci si mette anche chi
vende fuffa-memoria, che con un marketing veramente aggressivo cerca di
convincere chi studia che le tecniche di memorizzazione siano la soluzione
a ogni problema, vendendo a caro prezzo corsi inutili e fuorvianti.
Cialtronate. Hai mai incrociato per strada dei “memorizzatori” pronti a
rivelarti il “pieno potenziale della tua mente”? Quelli che ti agganciano
all’uscita dell’università? O magari ti beccano online, perché ricadi
perfettamente all’interno del loro target pubblicitario, e allora ti
bombardano di spot in cui ripetono cento volte quanto sarebbe bello e facile
avere più tempo per te, studiando meno e più velocemente… Se non ti è
successo, ti invidio. Perché a me sì, ovviamente. E, come già altre volte ho
rivelato nel corso del libro, ci sono cascato. Sono proprio il re dei creduloni,
ho fatto tutti gli errori possibili su queste cose, forse è proprio per questo
che oggi faccio questo mestiere.
E qui mi fermo un secondo, perché posso percepire la tua reazione
sdegnosa: “Ma come, ma non vendi pure tu corsi di tecniche di
memorizzazione? Non ne parli sul tuo canale YouTube? Non le consigli
forse a tutti coloro che studiano?”. Hai ragione, c’è un conflitto di interessi,
qui: io stesso vendo corsi di memorizzazione. Anzi, in realtà ne vendo
soltanto uno, “Mnemonica”, un progetto straordinario nato dalla
collaborazione con Andrea Muzii, campione del mondo di memoria, e
Vanni De Luca, il più grande mnemonista da palcoscenico vivente… Non
dobbiamo fuggire da questa potenziale controversia, quindi la affronteremo
di petto, perché mi dà modo di spiegare, una volta per tutte, che ruolo ha la
memorizzazione in uno studio efficace.

La memoria millenaria

Per fare una storia completa dell’arte e della tecnica della


memorizzazione non basterebbe un libro intero di mille pagine. Le tecniche
di memorizzazione trovano la loro primordiale applicazione in un’era in cui
la scrittura era riservata a pochi, appannaggio di intellettuali, filosofi,
cantori e giuristi. Da quanto sappiamo, tutte le popolazioni del pianeta che
hanno sviluppato una cultura complessa hanno dovuto affrontare problemi
nella memorizzazione di dati, parole, numeri e hanno sviluppato sistemi
mnemonici per aiutarsi in tutto questo.
Le tecniche che però, a oggi, costituiscono il fondamento della moderna
mnemotecnica hanno origine nella Grecia antica, con personaggi leggendari
come Simonide Di Ceo, e nella Roma antica, dove il grande Cicerone ne
formalizza l’applicazione e il perimetro d’uso. Da allora fino ai giorni
nostri, passando per Pico della Mirandola, Giordano Bruno e mille altri,
l’arte memorativa ha contraddistinto la formazione di grandi studiosi e
intellettuali. Da che mondo è mondo, insomma, lo studio e la
memorizzazione sono mondi intrecciati. Del resto, se ci pensi, senza
memoria non ci può essere richiamo d’informazione, senza memoria non ci
può essere studio.

Come (non) funziona memorizzare tutto

La memorizzazione di cui sto parlando in questo capitolo (e da cui


voglio metterti in guardia), non è però quella legata al ricordo di ciò che hai
studiato sotto forma di concetti, a quel processo di apprendimento che
abbiamo descritto come magazzini in sequenza, ma è quella connessa
all’imparare elementi e informazioni “a pappagallo”. Stiamo parlando
dell’idea malsana di sostituire lo studio comunemente inteso, saltando tutto
ciò che ha a che vedere con la comprensione e rielaborazione, per affidarsi
solo alla nuda memoria. Una memoria stupida, vuota, priva di
ragionamento.
Perché comprendere una formula di matematica quando posso
memorizzarla? Perché produrre appunti se posso sbobinare e imparare tutto
così come uscito dalle labbra dell’insegnante? Perché studiare per il test se
posso imparare a memoria l’intera banca dati? Perché allenarsi a rispondere
quando posso memorizzare le risposte o le parole chiave sul mio schema?
Perché comprendere una definizione quando la posso ripetere parola per
parola? Perché farmi un pensiero originale sull’argomento se posso recitare
il pensiero dell’insegnante?
Queste domande, e altre analoghe, risuonano nella mente di coloro che
studiano cercando la via più semplice per alzare i propri voti risparmiando,
al contempo, tempo, fatica e impegno. Ai loro occhi, se esistono tecniche
che permettono di memorizzare ogni cosa, lo studio concettuale e
rielaborativo perde di utilità.
Ora, quelle tecniche esistono e, devo dirlo, funzionano alla perfezione.
Le tecniche di memorizzazione, oltre ad avere, come abbiamo visto, una
storia millenaria alle spalle, hanno anche una solidissima letteratura
scientifica a loro sostegno, oltre che montagne di evidenze pratiche. Le
mnemotecniche “spaccano”. Questa era la buona notizia, la cattiva è che
non sono fatte per essere usate in quel modo, non sono in grado di sostituire
lo studio concettuale, e questo per cinque buoni motivi.

● Perché lo studio mnemonico duro e puro è pericolosissimo agli esami.


Basta che la domanda sia posta in modo insidioso, che venga richiesto un
approfondimento o un pensiero originale e l’unico risultato possibile è la
“scena muta”. Per non parlare poi degli esami tecnici basati su
risoluzione di esercizi e problemi, che diventano proprio inaffrontabili.
● C’è una questione pratica di organizzazione del metodo di studio: la
memorizzazione di dettagli è facilitata dalla costruzione pregressa di una
rete di ricordi e ragionamenti. Vale a dire che se prima avremo compreso
e rielaborato, poi memorizzare sarà molto più rapido ed efficace. Il
contrario, purtroppo, non solo non si verifica, ma c’è il rischio che la
memorizzazione eccessiva induca a una certa rigidità mentale che inficia
lo studio approfondito. Tra l’altro, se non si è passati prima per le altre
fasi del P.A.C.R.A.R., si rischia di ritrovarsi a non saper distinguere tra le
informazioni che potremmo ricordare naturalmente, e quelle che davvero
avrebbero bisogno di una stampella mnemonica. Il risultato è che si
finisce per memorizzare anche cose inutili, appesantendo e rallentando
ulteriormente il processo.
● Abbiamo parlato tanto di fatica e di difficoltà desiderabile. Ecco:
l’applicazione massiccia delle tecniche di memorizzazione sfora
decisamente quel limite, rompe quell’equilibrio. Le tecniche di
memorizzazione sono rapide ed efficacissime, ma sono anche
estremamente dispendiose a livello di energie cognitive. Memorizzare in
modo brutale richiede una concentrazione assoluta e, dopo pochi minuti,
stanca davvero tantissimo. Gli atleti che competono nelle gare di
memoria si allenano anni per riuscire a sostenere maratone di alcune ore
di memorizzazione. Figurati che cosa accadrebbe tentando di
memorizzare nozioni in quel modo per giorni di fila per preparare un
esame. Follia.
● Non bisogna sottovalutare l’aspetto psicologico. L’ansia di memorizzare
ogni cosa, connessa magari a manie di perfezionismo, è uno dei fattori
che più facilmente contribuisce all’odioso “blocco dello studente”: una
condizione di prostrazione mentale che rischia di compromettere anni di
studio e di benessere. Irrigidirsi sulla memorizzazione a tutti i costi
genera frustrazione, smarrimento, fa perdere il senso del perché stiamo
studiando. E proprio su questo aspetto passo all’ultimo punto.
● Perché studiamo? Per chi studiamo? Che risultato cerchiamo di ottenere?
Che senso ha tutto questo sforzo, se alla fine non ci resta altro che
qualche corrispondenza automatica per rispondere a delle domande? Lo
studio è un impegno enorme, un vero e proprio lavoro, e se non ci lascia
niente, se non ci aiuta a sviluppare conoscenze e competenze reali e
durature, se non ci arricchisce, se non ci stimola, se non ci fa crescere
come esseri umani, è solo tempo perso.

Lo studio tutto incentrato sul memorizzare è sterile e fine a se stesso. È


una pallida imitazione del vero studio. Duemila anni fa Plutarco scriveva:
“Gli studenti non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”. Di
questi tempi le fiaccole non le usiamo più, per cui io la riadatterei così: “Gli
studenti non sono vasi da riempire, sono motori da alimentare”. Il cervello è
il tuo motore, lo studio è il tuo circuito, la conoscenza è il tuo traguardo.

Quando la memoria ci aiuta

Servono a qualcosa le tecniche di memorizzazione, insomma? La


memorizzazione dura e pura trova spazio nel P.A.C.R.A.R.? Sì e sì. Il
processo di acquisizione, comprensione, rielaborazione, applicazione e
ripasso, con tutte le sue metodologie, è più che sufficiente per stimolare un
ricordo concettuale e, a volte, per consolidare anche elementi più tecnici e
specifici.
Tuttavia, nel nostro percorso di studi ci troviamo di fronte anche a date,
numeri, formule, termini complessi, sequenze, strutture, elenchi, che tramite
il ragionamento e il normale percorso del metodo di studio non restano
proprio in mente. Elementi che non hanno nulla a che vedere con i concetti,
ma che devono comunque essere ricordati. Dettagli tecnici troppo astratti,
troppo complessi o troppo numerosi per venire memorizzati senza
l’impiego di un focus specifico.
Ecco: qui intervengono le tecniche di memorizzazione: quando lo studio
è finito e restano fuori questi dettagli, chi conosce le tecniche di
memorizzazione estrae il suo strumento mnemonico e colloca la ciliegina
sulla torta. La memorizzazione, quindi, non caratterizza l’intero processo di
studio, non è necessaria in ogni momento e su ogni argomento: è un
passaggio sporadico che però, quando risulta necessario, diventa
indispensabile.
Non conoscere le mnemotecniche significa rischiare di bloccarsi alla
prima sfida mnemonica che una materia ci pone di fronte. In un percorso di
sviluppo di un buon metodo di studio, ritengo che esse siano indispensabili.

(Soc)corsi di memoria

E adesso veniamo alla parte più divertente: resta da capire perché io ce


l’abbia così tanto con chi vende corsi di memorizzazione, visto che, lo
abbiamo appurato, pur non essendo la risposta a ogni problema di studio le
tecniche di memorizzazione funzionano e andrebbero imparate. I motivi
sono, ancora una volta, cinque.

● Partiamo col marketing ingannevole: in tantissimi casi, in barba a quanto


ti ho spiegato finora, le tecniche di memorizzazione vengono spacciate,
tramite pubblicità e siti web indegni, per vere e proprie sostitute del
metodo di studio. In sostanza, chi vende certi corsi cerca di convincere i
malcapitati che rispettare le fasi di apprendimento è un processo inutile,
che può essere rimpiazzato con una buona memorizzazione o magari con
un’applicazione efficace del palazzo della memoria. Facendo leva su
questa balla, riescono a far sborsare alle loro vittime una quantità
mostruosa di soldi.
● Questo ci porta direttamente al secondo aspetto che mi fa imbestialire di
questi fantomatici corsi di memorizzazione: l’assoluta mancanza di
scientificità. Spesso alle tecniche di memorizzazione vengono affiancate
alcune balle colossali, come la lettura veloce, l’idea che usiamo solo il
10% del nostro cervello, che possiamo potenziare la mente e aumentare
l’intelligenza… tutte stupidaggini che tratterò più avanti. Ma anche
rimanendo strettamente nell’ambito della memoria, si tende a
sovrastimare le potenzialità delle tecniche, a dimenticarsi dell’importanza
del ripasso, a non valorizzare la selezione di che cosa è importante
memorizzare e che cosa no. Viene suggerita l’idea che la memoria si
possa allenare, accrescere. Purtroppo, invece, la nostra memoria non è
come un muscolo: possiamo imparare a usarla meglio, a sfruttare a nostro
vantaggio il suo funzionamento e le sue caratteristiche, ma non possiamo
potenziarla, almeno non oggi (magari in futuro la scienza troverà un
modo, me lo auguro). Tutto questo non fa altro che mettere insieme un
bel pacco di idee pseudoscientifiche che attirano, incuriosiscono e,
soprattutto, nutrono la convinzione illusoria che in noi esista un
potenziale inesplorato.
● E qui arriviamo all’aspetto più insidioso che si nasconde dietro queste
organizzazioni poco chiare: quello della manipolazione. Devo andare coi
piedi di piombo qui, e stare attento a quel che dico e a come lo dico.
Molti basano la loro riuscita su ganci emotivi e motivazionali che
pescano alla grande dal self-help all’americana. Cose che parlano alla
pancia, che ci esaltano e seducono, che ci convincono di poter ottenere
tutto quello che vogliamo dai nostri studi semplicemente perché lo
vogliamo. Il risultato è che si spendono ore e ore a imparare due o tre
tecniche di memorizzazione, spiegate in modo superficiale, per poi
rendersi conto che non sono l’unico strumento necessario per passare gli
esami. Ma lo si capisce solo quando l’ondata di adrenalina scende, la
delusione sale e il portafoglio è un po’ più vuoto. Questo, quando va
bene. Quando va male, invece, si finisce in una rete che trasforma gruppi
di esaltati in forza lavoro a basso costo da sfruttare per promuovere i
corsi stessi. Molti di questi gruppi e di queste aziende sono organizzate
come network piramidali, in cui il corso di memoria non è che l’inizio di
un cammino fatto di corsi sempre più costosi, di asservimento e
proselitismo quasi-religioso. Conosco persone che in organizzazioni del
genere hanno perso decenni della loro vita.
● Quarto segnale di fuffa: il rifiuto totale a mostrare un qualsiasi tipo di
programma. Sono tantissimi gli “insegnanti” che evitano attentamente di
rivelare che cosa, esattamente, si impara nei loro corsi. Non dicono quali
tecniche di memorizzazione si affronteranno. Non rivelano se ci saranno
esercitazioni pratiche o confronti. C’è sempre questo alone di mistero e
ambiguità… Ecco, questa roba è semplicemente ridicola e inaccettabile.
La verità è che sulle tecniche di memorizzazione esiste una quantità di
materiale gratuito indicibile: chiunque può iniziare a studiarle in
autonomia. Quindi tutta questa segretezza non serve assolutamente a
niente, se non a segnalare una coda di paglia lunga qualche chilometro…
Puoi imparare le tecniche di memorizzazione anche in autonomia, senza
nessun corso. Ti dirò di più: Andrea Muzii, il campione del mondo, è un
autodidatta. Lo scopo di un corso serio non è mai quello di rivelare
informazioni segrete che non potresti trovare altrove, ma di costruire un
percorso didattico per permetterti di risparmiare tempo, errori e fatica
nell’imparare. Il vero valore dell’insegnante sta nel modo in cui presenta
gli argomenti, ti induce a ragionarci sopra e ti guida nell’apprendimento.
Temere che la persona interessata agli argomenti possa trovare da sola i
contenuti che offri vuol dire non aver capito un bel niente del ruolo
dell’insegnante e temere che, se cadesse la maschera, nessuno si
iscriverebbe più.
● In quinta posizione, la qualità dell’insegnamento. Da appassionato
dell’arte e della tecnica di memoria mi piange il cuore a vedere il livello
indecente con cui si tengono, in media, questi corsi. Trainer senza cultura
e senza vera pratica sul campo banalizzano e trasformano metodi storici,
meravigliosi, profondi e sfaccettati in trucchetti da quattro soldi. È un
vero peccato.

In chiusura, torniamo al mio conflitto di interessi: perché io stesso vendo


un corso sulle mnemotecniche? Perché l’abbiamo costruito proprio su
questi cinque punti, ribaltandoli e trasformandoli in pilastri positivi e linee
guida. Ho voluto creare il progetto “Mnemonica” proprio per riportare
qualità, etica e trasparenza nel mondo delle tecniche di memorizzazione, e
ne sono orgoglioso. Il problema non è mai stato nell’insegnare le tecniche
di memorizzazione, ma nel venderle per qualcosa che non sono e che non
saranno mai.
7
“Il miglior schema del mondo”
La cazzata delle mappe mentali

Le mappe mentali sono gli schemi migliori del mondo.


Le mappe mentali sono la soluzione a ogni problema di studio o di creatività.
Le mappe mentali si adattano a ogni persona, a ogni argomento, a ogni situazione.

Tutto bello, ma anche tutto falso. Scrivere questo capitolo mi ha


richiesto uno sforzo particolare, perché la verità è che io adoro le mappe
mentali, le uso, le insegno, sono il mio tipo di schema preferito e quello che
meglio si adatta al mio modo di ragionare e di apprendere. Le amo alla
follia. Non solo: le mappe mentali sono effettivamente un ottimo strumento
didattico e di studio, consigliabile, utile da imparare. Non c’è nulla di male
nell’applicarle e apprezzarle, e anche la scienza si è espressa positivamente
in merito.
Ma allora, perché le ho volute mettere in questo libro, perché definisco
le mappe mentali una cazzata? Non certo per la tipologia di schema in sé,
quanto piuttosto per quello che di questi schemi si racconta: per il modo in
cui sono comunicate, vendute e spacciate. Per l’utilizzo scorretto che ne
viene fatto, per l’alone misticheggiante che le circonda, per le boiate
inaccurate a livello scientifico che le accompagnano.
Questo capitolo è un atto di ribellione, un tentativo disperato di liberare
questo strumento, così bello e promettente, dalle stupide catene in cui è
imprigionato. Ma cominciamo dall’inizio.

Breve storia buzaniana

Diagrammi radiali, grafici, disegni e schemi di tutti i tipi sono vecchi


come il mondo, ma le mappe mentali come le conosciamo oggi, con i rami,
i disegni, i colori e tutto il resto, hanno un nome, un cognome e una faccia:
Tony Buzan, l’esperto di apprendimento, inglese, classe 1942, che per
primo ci ha apposto un bel marchio registrato. Buzan, scomparso nel 2019,
non ha inventato gli schemi radiali, ma ha formalizzato le regole base di
costruzione delle mappe mentali, ha dato loro il nome che le ha rese famose
e ha passato la vita a promuoverle e insegnarle. Nel corso del capitolo mi
mostrerò più volte critico nei confronti di Tony Buzan e del suo
insegnamento; tuttavia, non posso e non voglio negare il suo contributo. Il
suo lavoro ha portato l’idea della schematizzazione a un livello di
popolarità che non aveva mai avuto. Buzan è riuscito laddove altri teorici
della schematizzazione, magari anche molto più titolati e abili di lui (come
Joseph D. Novak), avevano fallito: ha reso gli schemi “di moda”.
Buzan ha scritto una notevole quantità di libri, anche belli densi di
fufferia (qualcuno ha detto “lettura veloce”?) ma in ogni caso il suo grande
classico, Mappe mentali, è un testo che non può essere ignorato e che vale
la pena leggere e tenere. Luci e ombre, però: lo psicologo inglese si è
dimostrato piuttosto impermeabile alle critiche ricevute da alcuni suoi
lavori e ha serenamente ignorato i seri dubbi di scientificità di alcune delle
sue proposte più estreme. Ne parleremo.

Come funzionano le mappe mentali

Ma torniamo alle nostre mappe mentali… Che cosa sono? Di fatto si


tratta di schemi che partono da un concetto (chiamato “idea centrale”) e si
sviluppano in una serie di collegamenti per descrivere e riassumere
qualunque contenuto informativo.
I rapporti gerarchici delle informazioni si sviluppano in modo radiale,
ovvero più ci si allontana dal centro e più l’informazione diventa specifica.
Ogni ramo contiene una o più parole chiave (ma su questo c’è una
controversia che ti spiegherò) e si collega ad altri rami coordinati o
subordinati.
Figura 7.1. Eccoti un esempio di mappa mentale, fatta “con le mie manine”.
Andrebbe vista a colori, ma è bellissima anche così.

Sono sette gli elementi distintivi delle mappe mentali, che non si
ritrovano in altre forme popolari di schematizzazione come le mappe
concettuali, gli schemi lineari o i diagrammi di Ishikawa. Eccoli qua:

● sviluppo radiale in uno spazio orizzontale;


● presenza massiccia di colori, disegni e icone;
● parole chiave scritte su rami interconnessi gli uni agli altri;
● i rami stessi veicolano l’informazione, invece di congiungere snodi di
informazione;
● sono previsti collegamenti sia diretti (rami che si articolano in modo
gerarchico), sia indiretti (rami di collegamento a distanza che
evidenziano rapporti non lineari fra le informazioni);
● un uso più libero dello spazio, meno rigido, che meglio si adatta a
esprimere modi personali di interpretare il contenuto;
● una visione globalistica dell’argomento.
Le mappe mentali, utilizzabili sia nel mondo dello studio sia in quello
del lavoro, hanno sei funzioni, o scopi, principali.

● Aiutano a imparare, la funzione che ci interessa di più in questo contesto.


Ormai lo sai perfino meglio di me: la rielaborazione tramite schemi è uno
degli step fondamentali dell’apprendimento, del processo del
P.A.C.R.A.R., e le mappe mentali sono un potente strumento di
rielaborazione. Inoltre, sono ottime per ripassare o ritrovare rapidamente
i punti salienti di ciò che abbiamo studiato.
● Sono utili per produrre appunti: magari unite ad altri sistemi come il
metodo KWL e il metodo Cornell (di nuovo, ne ho parlato in Vince chi
impara, non è mai troppo tardi per comprarlo, te l’ho già detto?), possono
costituire un ottimo supporto per mantenere l’attenzione e sostituire il
dettato o le sbobine o lo scrocco.
● Sono utili per il brainstorming: devi buttare giù un’idea e non sai da dove
partire? Devi scrivere un tema o un elaborato e vuoi buttare giù le idee
per cominciare a strutturare il lavoro? Le mappe mentali possono darti
una mano.
● Sono utili per l’organizzazione e la pianificazione: una mappa mentale
può permettere di costruire un piano o di descrivere un progetto e
sviscerarne ogni dettaglio, così come per organizzare una presentazione,
una lezione, il tuo discorso di laurea.
● Sono utili per la didattica: le mappe mentali sono un ottimo ausilio per
spiegare qualcosa a qualcuno.
● Sono utili per scopi puramente artistici e creativi. Diciamocelo: se ben
realizzate sono davvero belle da vedere, si prestano bene come elemento
decorativo, pubblicitario, per fare colpo… Prova a realizzare una mappa
mentale che raccolga tutti i momenti speciali vissuti insieme alla tua
anima gemella e che descriva i motivi per cui state bene insieme. È il
regalo di San Valentino perfetto, parlo per esperienza diretta!

Le mappe mentali possono essere realizzate a mano o con software


specializzati. Negli ultimi anni sono stati fatti esperimenti anche per
generare mappe mentali in automatico a partire da testi o video, ma si tratta
di tecnologie ancora molto acerbe.
Ci sono un bel po’ di studi scientifici che affrontano le mappe mentali e
la loro efficacia e sembrano tutti abbastanza concordi sul promuoverle come
strumento di rielaborazione concettuale. In sostanza, le mappe mentali sono
un ottimo modo per approfondire la comprensione e la codifica
dell’informazione, migliore dei riassunti e di altre pratiche di studio
tradizionale. Integrano molto bene aspetti verbali e semantici con aspetti
visuali (secondo il principio del dual coding, doppia codifica) e permettono
di recuperare con spontaneità e immediatezza sia informazioni specifiche
sia l’interezza di un argomento.
In aggiunta alla letteratura scientifica posso portare la mia esperienza
diretta come utilizzatore e insegnante di mappe mentali: con tutta una serie
di limiti e problemi, che descriverò nel prossimo paragrafo, personalmente
non potrei farne più a meno.
Fin qui, tutto bene, ma adesso arriva il bello, anzi, il brutto.

Come (non) funzionano le mappe mentali

Il primo punto che dobbiamo assolutamente chiarire è che non esistono


evidenze scientifiche solide che dimostrino che le mappe mentali siano
migliori di altre tipologie di schemi. Con buona pace di Buzan e dei suoi
seguaci. Diciamolo in modo semplice: no, le mappe mentali non sono “il
miglior schema del mondo” e no, non sono la scelta giusta per ogni persona
in ogni situazione, per niente. Ci sono delle distinzioni da fare.
La prima distinzione riguarda la tipologia di argomenti: le mappe
mentali sono molto adatte a concetti discorsivi, discorsi ampi, materie
descrittive, argomenti che, per essere compresi, richiedono
l’interconnessione di molti aspetti, mentre invece si dimostrano scomode e
inadatte ad argomenti tecnici e sequenziali.
Anche all’interno delle stesse materie, argomenti diversi possono essere
adatti o meno a essere espressi con una mappa mentale. Prendiamo il
Diritto: per lo studio della teoria di Giurisprudenza, le mappe mentali
possono andare benissimo. Ma se poi studi Procedura civile o penale, una
mappa concettuale renderà molto meglio tutti i processi. In Medicina una
mappa mentale può essere utile per spiegare il funzionamento di un
apparato, ma per lo studio dell’anatomia o della farmacologia uno schema
lineare o una tabella saranno più comodi da costruire e consultare. Per la
Matematica, poi, una mappa mentale è solo un inutile spreco di spazio,
mentre per la Filosofia è un prezioso strumento di immersione nel pensiero
di un autore, con una prospettiva globale. Capisci quello che intendo?
La seconda distinzione è di gusto e di attitudine al ragionamento: le
persone fortemente analitiche e abituate a pensare in modo schematico,
lineare, consequenziale, saranno portate a giudicare le mappe mentali
troppo dispersive e preferiranno di gran lunga una schematizzazione più
classica, lineare, o l’adozione di mappe concettuali, i cui snodi logici siano
esplicitati in modo più rigido. Al contrario, le persone che spontaneamente
preferiscono procedere dal generale al particolare ameranno molto lo
sviluppo radiale e la prospettiva olistica garantita dalle mappe mentali.
Un esperimento di Cunningham del 2005 ha analizzato il rapporto con le
mappe mentali di un numero molto elevato di studenti e studentesse,
scoprendo che sì, la maggior parte di essi riportava un sensibile vantaggio
nello studio, ma che questa percentuale variava molto tra le facoltà del
mondo umanistico e quelle del mondo tecnico-scientifico.
Non esiste uno strumento giusto o sbagliato, un meglio e un peggio:
esistono strumenti di rielaborazione differenti che si sposano in modo più
efficace con determinate forme di studio e con le tendenze e le preferenze
delle persone. In più, sparate di marketing a parte, non ci sono prove che
rinunciare alle mappe mentali abbia un impatto negativo sul profitto nello
studio o sull’apprendimento a lungo termine. Diverso è rinunciare del tutto
alla fase di rielaborazione, quello sì che è un errore colossale, ma la forma
specifica che prende quella rielaborazione è un fattore secondario.
Certo: le mappe mentali hanno dimostrato al mondo il potere delle
parole chiave, della grafica, dei disegni, dei colori, della gerarchia, ma
questi fattori si possono applicare anche a metodi diversi di
schematizzazione. Quello che emerge è che è la schematizzazione stessa, la
rielaborazione (se fatta nel modo giusto) a fare la differenza, non tanto la
modalità in cui la si svolge.
Oltretutto, un dettaglio spesso sottovalutato è la resistenza iniziale che
può incontrare chi si butta a capofitto nello sperimentare con le mappe. Non
è facile passare dai riassunti alle mappe mentali e la sensazione iniziale sarà
di straniamento. La curva di apprendimento richiesta per usarle in modo
rapido e proficuo è piuttosto ripida e spesso, convincendosi di dover per
forza applicare questo metodo, ci si condanna a una certa lentezza e
frustrazione. È normale, quando si impara una nuova tecnica, faticare per
renderla efficiente; tuttavia, non è necessario dannarsi l’anima per
schematizzare in un modo specifico. L’atteggiamento giusto è sperimentare
con le mappe, impegnarsi, dedicare loro qualche settimana di allenamento,
metterle alla prova e confrontarle con altri tipi di schematizzazione e
rielaborazione e poi, se ci si trova bene, continuare, se no, passare ad altro.
Un altro aspetto da puntualizzare riguarda il rapporto tra mappe e
memorizzazione. Tutti gli schemi, mappe mentali comprese, hanno una
funzione rielaborativa, ma non producono significativi impatti diretti sul
ricordo. In altre parole: le mappe mentali possono aiutare a comprendere
meglio, a codificare le informazioni, a costruire supporti utili per il ripasso,
a facilitare la fase di memorizzazione, ma di per sé non aiutano a ricordare.
Fare una mappa mentale non ti mette in condizione di rispondere a una
domanda a bruciapelo dell’insegnante, quantomeno non senza l’intervento
di altre metodologie (vedi alla voce: testing)
Sulle mappe mentali rischia di estendersi anche lo spettro terribile dello
pseudolavoro e dell’illusion of competence. Ricordi che dicevamo che
Cunningham ha trovato l’80% degli studenti e studentesse entusiasti delle
mappe? Sì, è vero, ma erano valutazioni soggettive e noi sappiamo che non
ci dobbiamo fidare troppo delle valutazioni spontanee della nostra mente a
riguardo dello studio. Spesso tendiamo a sovrastimare l’impatto sui nostri
risultati di apprendimento delle tecniche che ci danno soddisfazione e con
cui ci sentiamo a nostro agio.
Un altro esperimento ha dimostrato che l’impatto delle mappe sulla
memoria e sul richiamo delle informazioni è significativo, ma limitato, sia
come efficacia sia come durata, oltre che molto influenzato da fattori
soggettivi, di personalità e di abilità.
Insomma, le mappe mentali di per sé funzionano, ma non sempre e non
necessariamente meglio di altri schemi e, comunque, non possono sostituire
le altre fasi del metodo di studio. Semmai possono integrarsi a esse, per
aiutarle ed esserne aiutate. Sempre che non ti venga la malsana idea di
provare a memorizzare parola per parola le mappe, magari applicando
tecniche di memorizzazione… Disastro totale: ne abbiamo già parlato nel
capitolo dedicato alla memorizzazione a pappagallo e non mi voglio
ripetere.
Ci sono, infine, i lati oscuri e pseudoscientifici degli insegnamenti di
Tony Buzan, le cui regole di costruzione delle mappe mentali si sono fatte
via via così rigide e specifiche da rendere molto difficile l’applicazione del
suo approccio “ortodosso” ad argomenti complessi di alto livello. Buzan,
per esempio, insiste sul fatto che i rami non possano mai ripiegarsi su se
stessi (non si sa bene dall’alto di quale considerazione sperimentale) o che
non possano mai esserci rami contenenti più di una parola. Si focalizza
moltissimo sul lato artistico e di integrazione con le immagini. Ma chiunque
abbia mai provato a studiare all’università con le mappe mentali sa che
queste richieste sono irragionevoli e non fanno altro che rendere illeggibili
le mappe, nonché lentissime da realizzare, scoraggiando chi non ha una
passione o un talento per il disegno o la grafica.
Nella pratica, le mappe mentali che davvero funzionano per chi studia
sono molto meno rigide e molto meno formalizzate di quelle buzaniane
pure, e si possono anche ibridare con altre tipologie di schema o di
rappresentazione grafica.
Per finire, sorvolerò sul fatto che Buzan andava in giro a dire che
l’efficacia delle mappe deriva anche dal fatto che somigliano all’aspetto dei
neuroni e ne mimano il funzionamento, perché poi mi toccherebbe dire altre
parolacce e mia mamma già ha digerito male il titolo del libro, non posso
esagerare.

La mappa del tesoro

Che facciamo, quindi? Le usiamo? Non le usiamo? Le usiamo ogni


tanto? Io direi di procedere così.

● Capiamo a fondo il ruolo della rielaborazione nel processo del metodo di


studio. Vince chi impara, l’altro libro, ha un capitolo dedicato solo a
questo, ho detto tutto.
● Concentriamoci sulle regole di base, i pilastri che rendono uno schema
realmente utile e ben fatto: l’utilizzo di parole chiave e dettagli tecnici, la
strutturazione gerarchica, il colore, la presenza di grafica e immagini
quando è necessario, l’esaustività sull’argomento, l’autoconclusività, la
chiarezza…
● Sperimentiamo e impegniamoci a imparare tutte le diverse forme di
schematizzazione, mappe mentali comprese. Non è un processo così
lungo, se il secondo punto è stato rispettato, di fatto ci troveremo di
fronte a variazioni sullo stesso tema.
● Rimaniamo flessibili, applicando la tipologia di schema più adatta al
nostro argomento e adattando il nostro modo di rielaborare anche ai
nostri gusti e alle nostre necessità.
● Rimaniamo coscienti dello scopo per il quale costruiamo schemi. Non
aspettiamoci che diventino strumenti per memorizzare o da memorizzare,
affianchiamoli sempre alle altre fasi dello studio efficace.

Con questi cinque punti il nostro rapporto con le mappe mentali sarà
bilanciato e sereno, senza estremismi e senza fufferie. E finalmente le
mappe mentali avranno giustizia e torneranno a essere ciò che sono sempre
state: un metodo meraviglioso, una grande invenzione, una delle tante
tipologie di schemi e diagrammi validi. Ma niente di più.
8
“Studia mentre dormi!”
La cazzata dell’imparare nel sonno

Davvero io, oggi, mi devo mettere a scrivere un capitolo per spiegare


che non si impara magicamente nel sonno? Sul serio? Pare di sì, qualche
volta il mio lavoro è davvero degradante.
L’ipnopedia, l’idea di dormirsela alla grande e svegliarsi pieni di nuove
informazioni studiate e digerite è la sublimazione della pigrizia esistenziale,
è il corollario della nullafacenza cognitiva, il frutto marcio e maleodorante
dell’albero della fuffa. Ma andiamo con ordine, non facciamoci prendere
dall’entusiasmo.

La storia dell’ipnopedia

Adesso, non voglio dire che la patria internazionale della fuffa


pseudoscientifica siano gli Stati Uniti d’America, però… insomma… un
po’ è così. Questa volta siamo a New York nel 1927 e incontriamo un tale
Alois Benjamin Saliger, immigrato negli States dalla Repubblica Ceca,
businessmen scappato di casa e inventore fantasioso. E indovina un po’? Sì,
ha bisogno di soldi. Questo genio della lampada una decina di anni prima
era stato condannato per frode azionaria: in sostanza aveva raccontato balle
a degli investitori per raccogliere denaro. Poi il denaro lo aveva perso tutto
e adesso doveva farsi venire un’altra idea per fregare dei gonzi. Me lo
immagino, nel cuore della notte, che si sveglia di soprassalto ed esclama:
“Ma certo! Venderò loro l’apprendimento nel sonno”. Genio. Si presenta sul
mercato con un aggeggio costruito da lui, dall’aspetto a metà tra un
giradischi, un grammofono e una radio, lo chiama Psycho-Phone
(psicofono) e nella pubblicità con cui lo promuove scrive:
È stato provato che il sonno naturale è identico al sonno ipnotico, e in quello stato la mente
inconscia è particolarmente ricettiva alle suggestioni.

Provato da chi? E come? E in base a quale principio opererebbe (Figura


8.1)? Nessuno lo sa dire. A nessuno importa.

Figura 8.1. Non ne ho idea, ma secondo me lo Psycho Phone funzionava così:


ti schiantava libri in testa durante la notte.

Ma non finisce qui: lo Psycho Phone avrebbe influenzato la vita


dell’utilizzatore, gli avrebbe permesso di ottenere successo, prosperità,
allungamento della vita e… accoppiamento. Sì, accoppiamento, detto così,
proprio diretto, senza giri di parole. Tu ascolti quella roba di notte e poi…
accoppiamento. Bene.
Quello che si sa è che Saliger ne ha venduti un bel po’ di quegli aggeggi,
qualche migliaio e, ancora più importante, che la sua idea ha colpito a fondo
nell’immaginario collettivo, forse proprio perché, allora come oggi, la fatica
dello studio era dolorosamente nota a chiunque. L’apprendimento nel sonno
diventa un caposaldo della fantascienza, della cultura pop, e allora ecco che
il mitico Aldous Huxley nel suo Brave New World, il mondo nuovo,
immagina strumenti ipnopedici per condizionare i bambini, ma lo Psycho
Phone appare anche nel libro del 1962 Arancia meccanica, che ha ispirato il
capolavoro di Kubrick.
E ancora: il concetto di ipnopedia si ritrova nelle cassette per imparare le
lingue nel sonno pubblicizzate sui giornaletti negli anni Sessanta e Settanta,
in episodi della serie tv Friends, nei Simpson e in mille altre opere e
occasioni. Oggi si ripropongono gli stessi meccanismi con app, programmi,
audiolibri e corsi autoipnotici, che poi non sono altro che la stessa cosa
rimescolata e con un marketing neanche tanto differente.
Naturalmente, Salinger era un imbroglione, così come lo sono stati tutti
quelli che sono arrivati dopo di lui (e ce ne sono stati tanti, tantissimi):
hanno ignorato le fonti e le ricerche scientifiche come un cavallo ignora il
tafano che gli ronza intorno alla coda e sono andati avanti per la loro strada
a costruire montagne di ricchezza sulla creduloneria altrui.
Ma quali sono queste fonti e ricerche scientifiche? Che cosa ci dicono?

Come (non) funziona l’ipnopedia

Partiamo col dire che l’avvento delle moderne neuroscienze e, in


particolare, degli strumenti di indagine dell’attività cerebrale, prima fra tutti
l’elettroencefalografia, ha demolito senza appello l’idea dell’apprendimento
nel sonno. Quantomeno quella del tipo proposto da Saliger e amici, perché,
come vedremo, qualcosina di vero e utile c’è, poco ma c’è.
In sostanza, comunque, è dagli anni Cinquanta che si sa che imparare in
modo strutturato durante il sonno è impossibile, perché gli stimoli presentati
non vengono elaborati dal cervello nello stesso modo di quando si trova in
stato di veglia, non vengono accumulati nella memoria allo stesso modo e
non possono essere richiamati una volta svegli. A dimostrarlo per primi
sono stati Charles Simon e William Emmons, che hanno svolto un lavoro
molto interessante relativo anche alla produzione di onde alfa nel cervello.
Il punto è che più è complessa e/o astratta un’informazione, più il
cervello ha bisogno di elaborazione profonda e consapevole, intenzionale,
sveglia per apprenderla. Nel sonno non possono avvenire, banalmente, tutti
i processi di chunking, di rielaborazione, di metacognizione, di codifica, di
collegamento con conoscenze precedenti. Ancora di più: nel sonno non si
può partecipare in modo attivo, investigare, ragionare, porre domande.
Manca l’attenzione focalizzata e anche la possibilità di mettere alla prova la
conoscenza appena acquisita, la memoria di lavoro funziona in modo
differente e così via. Anche escludendo concetti e informazioni complesse,
al risveglio non rimangono in mente neanche semplici liste di vocaboli o
informazioni pre-segmentate. Niente, nada, zero assoluto. Ascoltiamo
queste cassette nel sonno e per il nostro cervello non è altro che un rumore
informe di sottofondo, al massimo l’effetto che potrebbe avere è quello di
disturbare il nostro meritato riposo. Tutto quello che sappiamo stare alla
base del processo di apprendimento nel sonno viene profondamente alterato
o reso del tutto inattuabile e nessuna nuova informazione viene incamerata
durante il sonno per trasformarsi in conoscenza reale.
Mi spiace, ma quando studiamo o impariamo qualcosa di nuovo ci tocca
non dormire, non se ne esce.

Che cosa c’è di vero

Ma, allora, se proprio non funziona, perché ho scritto che qualcosa di


vero, comunque, c’è? Beh, perché da ricerche molto moderne e molto
avanzate emergono relazioni interessanti tra il sonno e l’apprendimento,
alcune pure inaspettate.

● Prima di tutto, si è verificato che nel processo di apprendimento


l’importanza del sonno è centrale. Le evidenze scientifiche puntano tutte
verso l’attribuire al sonno un ruolo fondamentale, non solo nel riposo del
cervello per riprendersi dalle fatiche dello studio e prepararsi a quelle del
giorno successivo, ma anche e soprattutto nel consolidamento dei ricordi.
In particolare, il sonno profondo REM è associato alla memoria implicita,
non dichiarativa, procedurale, cioè quella delle abilità interiorizzate e
portate avanti in modo automatico, come un gesto atletico, il suonare uno
strumento o l’allacciarsi le scarpe; mentre il sonno non REM, indicato
come NREM è associato alla memoria dichiarativa, e quindi quella di
fatti, concetti, dettagli imparati in modo esplicito. Questo è uno dei
motivi per cui alcuni scienziati suggeriscono anche che piccole
pennichelle durante il giorno, specie al pomeriggio, potrebbero
migliorare il rendimento nello studio.
● Quindi possiamo dire che, se è vero che durante il sonno non impariamo
niente di nuovo, è altrettanto vero che è proprio dormendo che
rinforziamo ciò che abbiamo imparato. Infatti, nel prossimo paragrafo, ti
darò qualche consiglio pratico per migliorare il sonno e, di conseguenza,
lo studio.
● La seconda scoperta interessante è che durante il sonno sembra sia
possibile mettere in atto meccanismi riconducibili al condizionamento
classico. Sembra che si possano sfruttare degli stimoli olfattivi per
rinforzare ulteriormente l’apprendimento, con paradigmi simili a quelli
del rinforzo pavloviano. Ma siamo molto lontani dalla certezza: mi
raccomando, sono pratiche di limitata applicazione e che non
padroneggiamo ancora davvero, non metterti a sniffare cose strane
durante il sonno per preparare gli esami o le interrogazioni.
● E infine, la cosa più simile al concetto di ipnopedia proposta da quel
fuffarolo di Saliger negli anni Trenta è quella che viene chiamata TMR,
acronimo di Targeted Memory Reactivation, riattivazione di un ricordo
target, una tecnica che forma un link: associa un’informazione appena
acquisita con un suono, che può venire riproposto durante il sonno per
rinforzare il ricordo. E la TMR, incredibilmente, sembra funzionare
davvero ed è stata messa alla prova sull’apprendimento delle lingue
straniere, di movimenti fisici e sul rafforzamento della memoria spaziale.
Incredibile, anche se ancora di scarsa utilità nella vita quotidiana di chi
studia. Chissà dove ci porterà la ricerca scientifica.

Come gestire sonno e studio

Sgombrato il campo dalle roboanti boiate, possiamo parlare di cose


serie. Il sonno deve essere trattato come una fase del metodo di studio in
piena regola. Mettitela via: è così e basta. Devi prenderti cura del tuo sonno
e renderlo davvero una priorità di vita, per migliorare nello studio, con i
voti, ma anche per la tua salute e il tuo generale benessere psicofisico.
Nel sonno ci ricarichiamo, consolidiamo i ricordi, liberiamo spazio
mentale per apprendere qualcosa di nuovo, scarichiamo le tensioni,
lavoriamo in background sui problemi da risolvere e sugli argomenti
complessi da comprendere, sviluppiamo collegamenti creativi e… mille
altre funzioni che migliorano il benessere complessivo del nostro
organismo. Dormire bene, dormire la giusta quantità di ore, dormire nel
giusto momento, è uno dei segreti dell’apprendimento efficace e forse il più
importante dei consigli per il miglioramento dello stato psicofisico.
E allora quanto dobbiamo dormire? Quando? In che modo?
Partiamo dalla prima domanda, quella che attira più controversie:
quanto? La ricerca scientifica ci indica, per una persona adulta, una
necessità di sonno che oscilla tra le 7 ore e le 9 ore, a seconda dei contesti e
delle variazioni individuali. Se si è ancora nell’età dello sviluppo, questa
cifra aumenta. Adesso hai capito perché, svegliandoti presto la mattina per
andare a scuola o a lezione ti sentivi sempre un macigno sulla testa: perché
dormivi troppo poco. La verità è che le scuole e le università non
dovrebbero mettere lezioni prima delle 9 di mattina, ma non farmi aprire
l’argomento sullo scarso rispetto di cui gode il sonno nella società, perché
impazzisco e poi non la smetto più di scrivere.
Che cosa succede se si dorme di più? Onestamente non è ancora
chiarissimo, gli effetti collaterali sembrano essere limitati a un effetto di
stordimento generale, ma poco più. Non è il massimo, per studiare, ma
possiamo sopravvivere.
Che cosa succede se si dorme di meno, invece? Si spalancano le porte
dell’inferno. La deprivazione di sonno è una calamità naturale per il tuo
organismo, io ci scherzo, ma ti prego di prendermi sul serio, perché è molto
più grave di quello che immagini. Patologie di ogni tipo sono correlate al
dormire poco, si riduce perfino l’aspettativa di vita. Sono cose serissime. A
livello cognitivo, poi, è un disastro: studiare, lavorare o anche solo pensare
quando si è dormito poco è un esercizio soverchiante. La mente non ce la
fa: ci si distrae di più, si procrastina di più, si commettono più errori, si
rallenta, si accumula più stress… ci siamo capiti. Mai e poi mai sacrificare
il sonno per studiare o ripassare. Niente eccezioni, è una follia.
E lo so che talvolta non sembra così, che magari tiriamo una notte intera
e ci sentiamo comunque efficaci, ma questo è semplicemente il modo del
nostro cervello di imbrogliarci e non lasciarci percepire quanto si sia preda
della lentezza, della distrazione e degli errori. È un po’ come quando chi è
ubriaco non si rende conto che la sua guida è pericolosa. Il suo cervello dice
che va tutto bene, che ce la fa, che è in grado di guidare. Ma all’incidente
stradale, di quello che ci dice il cervello a livello soggettivo, non gliene
importa niente. Basta aprire un giornale.
E, purtroppo, no, non puoi dormire cinque ore a notte tutta la settimana e
poi recuperare nel weekend. Non funziona così, quantomeno se vuoi avere
la focalizzazione necessaria per studiare. E, sì, prima che tu me lo chieda, ci
sono effettivamente casi studiati di persone con una necessità di sonno
drasticamente inferiore al normale. Esistono. Ma sono così rari che è
veramente improbabile che tu faccia parte di quella categoria. È probabile
quanto vincere al superenalotto coi numeri della tua data di compleanno. Io
non ci conterei, ecco.
Come fare a capire esattamente quante ore ti servono? Il mio consiglio è
di non scendere sotto le otto ore e sperimentare un po’. Io, per esempio,
sono giunto alla conclusione che con meno di otto ore sono sempre stanco,
che otto ore sono sufficienti, con otto e mezza sono al massimo, con nove
mi sveglio un po’ rimbambito ma ancora sto bene, più di nove e butto via la
giornata. Questo sono io, ma è necessario che sperimenti in prima persona
per capire che cosa ti fa stare meglio: non esiste una risposta uguale per
tutti.
Prossima domanda: quando dormire? Anche qui la variazione
individuale è forte, ma una cosa è sicura: al nostro cervello piace la
regolarità: qualunque sia il tuo orario, sarebbe meglio se fosse più o meno
sempre lo stesso ogni giorno. Per capire quando sia meglio per te collocare
le tue ore di sonno, dobbiamo riferirci alla questione dei cronotipi. Per
semplificare in modo quasi criminale, potremmo dire che i cronotipi sono
categorie di preferenza del ciclo sonno/veglia e sono differenti da persona a
persona. Tra l’altro si modificano con l’età e con le necessità della vita, ma
non sono così facili da controllare. Non è solo una questione di abitudini e
forza di volontà, c’è di mezzo la biologia. In ogni caso, l’orario è
importante, otto ore di sonno dormite dalle 11 alle 7 del mattino hanno un
effetto diverso sul nostro stato psicofisico rispetto a quelle stesse ore
dormite dalle 3 di notte alle 11 del mattino.
Esistono infinite variazioni individuali, in generale si possono
individuare tre cronotipi principali:

● i mattinieri, che sono circa il 40% della popolazione, e che danno il


meglio di sé andando a dormire relativamente presto e svegliandosi
presto, per esempio andando a dormire alle 22 o 23 e svegliandosi alle 6
o alle 7 o anche prima (follia);
● i gufi notturni, che preferiscono andare a letto tardi e svegliarsi molto
tardi;
● gli intermedi, che preferiscono andare a letto relativamente tardi e
svegliarsi relativamente tardi.

Io, per esempio, appartengo a quest’ultima categoria: il mio ideale è


andare a letto intorno a mezzanotte e mezza e svegliarmi alle nove. Noto
però che sto invecchiando, e il mio cronotipo si sta lentamente
modificando: anche solo un paio di anni fa il mio ideale era dall’una alle
nove e mezza, per dire.
Non si può portare all’estremo queste categorie, è necessario scendere a
compromessi per la frequenza delle lezioni e tutto il resto; tuttavia, il mio
consiglio è di sperimentare e capire quale sia il tuo cronotipo e cercare il
più possibile di costruire le tue abitudini e la pianificazione della tua
giornata intorno a esso. Nei limiti del possibile.
Infine, quanto al “come” dormire, ti elenco una serie di consigli pratici
che ho raccolto da varie fonti, libri e articoli:

● L’esercizio fisico va sempre bene, ne parliamo fra poco, ma non farlo


troppo in prossimità degli orari notturni, non oltre le 2 o 3 ore prima di
andare a dormire.
● Caffeina, teina, nicotina, alcool vicino al sonno sono una pessima idea,
specialmente se già normalmente fatichi ad addormentarti.
● Ingozzarsi di cibo e/o liquidi prima del sonno è altrettanto fastidioso.
Meglio aver già digerito.
● Le pennichelle, o come le chiamano in America le power nap, sono
sempre le benvenute, ma meglio che non durino più di una ventina di
minuti e meglio se non le piazzi troppo oltre le 3 del pomeriggio. Pisolare
nel pomeriggio avanzato rovina il sonno notturno.
● Attività rilassanti prima di dormire sono consigliate, come ascoltare la
musica, meditare, leggere un libro di narrativa… cose così.
● Le attività adrenaliniche o stressanti, come i videogiochi intensi, lo studio
o il lavoro, non sono consigliate poco prima di addormentarsi.
● Dormire se possibile in un ambiente buio (fondamentale), fresco e
asciutto. Se c’è luce, prova con le mascherine per il sonno. Io, ormai, non
posso più farne a meno.
● Andare a dormire puliti. Dicono anche che fare un bagno o una doccia
calda prima di dormire aiuti ad addormentarsi, per il calo repentino della
temperatura corporea.
● Niente lucine notturne. Sveglie che lampeggiano, puntini rossi della
televisione, cellulari che si illuminano. Meno gadget ci sono, meglio è.
● Assicurarsi di avere il giusto materasso e cuscino, non ce n’è di adatti a
tutti, devi tentare finché non trovi quello perfetto per te. E… solo per
oggi, se compri il matrimoniale, per te in regalo la trapunta e due federe.
● Cercare di evitare l’uso degli schermi poco prima del sonno: cellulare,
tablet, computer. E questa è dura davvero, almeno per me che sono
dipendente dagli schermi, ma un’oretta prima del sonno andrebbero tolti
e magari sostituiti da un libro, un e-reader non retroilluminato. Se proprio
non puoi farcela a rinunciare, attiva almeno i filtri per la luce blu e le
varie impostazioni notturne dei dispositivi.

Sonni multipli

C’entra ben poco con lo studio e l’apprendimento, ma in coda al capitolo


voglio inserire un paio di parole su un tema dibattuto e di interesse, che
potrebbe affascinare la tua giovane mente.
Il sonno polifasico: l’idea di dormire per brevi periodi di tempo
distribuiti su tutta la giornata, imparando ad addormentarsi immediatamente
e sviluppare un sonno profondo all’istante, diminuendo così la quantità di
ore totali di sonno. Ci sono varie proposte e varie alternative, dalle più
estreme a quelle più “morbide”, che prevedono semplicemente una siesta
pomeridiana e un sonno, quindi, bifasico.
Vado rapido: il sonno polifasico esiste, ma è una cosa fattibile solo per
brevi periodi di tempo e solo per necessità imprescindibili. Esempi tipici di
utilizzatori di sonno polifasico sono i neogenitori, i capi di Stato in un
momento di grande crisi, i militari in missione, Elon Musk quando dice una
stupidaggine e si ritrova a dover pagare 40 miliardi per comprare Twitter.
Nessuna di queste persone ti consiglierebbe di adottare il sonno polifasico
in prossimità di una sessione d’esame o nel periodo scolastico, il prezzo da
pagare è altissimo: stanchezza devastante e ridotta capacità di imparare. Per
lo studio, dimenticatelo. Per le emergenze, ci si può provare per qualche
giorno, ma non di più.
9
“Fila in camera tua a rileggere a voce alta!”
La cazzata dei metodi classici

Errare è umano, si dice, ma perseverare è… studentesco. Ripetere gli


errori di chi è venuto prima di noi: esiste forse una cazzata più grande?
Questo capitolo è una raccolta di stupidaggini e pessime pratiche di studio
che continuano a venire applicate ogni giorno dalla maggior parte di chi
studia per l’unica ragione che… si è sempre fatto così. Potremmo definirle
“pratiche conservatrici”: idee legate allo studio che proprio non se ne
vanno, non importa quante evidenze scientifiche, quante rivoluzioni
culturali, quante riforme scolastiche vi si oppongano. Loro restano sempre
lì, perché sì. E basta.
In parte c’è anche lo zampino del cervello che, come abbiamo visto già
nel capitolo dedicato allo studio alienato dell’ultimo minuto, non è proprio
abile a riconoscere che cosa funzioni e che cosa no quando si studia.
Ricordi? I parametri su cui viene valutato in modo istintivo lo studio sono
quanto tempo ci dedichi, quanta stanchezza accumuli, quanta roba scrivi o
produci. Ma questi parametri, di per sé, non ti dicono nulla della qualità
dell’apprendimento.
Metti insieme questa realtà cognitiva all’aspetto tradizionale e sociale
che vede una massa enorme di studenti e studentesse comportarsi in questo
modo ed ecco chiarito perché io mi ritrovo a dover spiegare penso per la
seicentesima volta questa settimana che la classica sottolineatura sul libro
non ha nessun senso.
Farò una bella carrellata di sei pratiche di studio inefficace, ti spiegherò
come e perché non funzionano e per ciascuna di esse ti darò un’alternativa
da sperimentare che, invece, può davvero fare la differenza.
Ma prima…
Non esiste il metodo di studio

Prima bisogna affrontare un altro mostro, altrettanto pericoloso: il


“disfattismo personalista”, come lo definisco io. L’idea per la quale non
abbia senso parlare di metodo di studio, di evidenze scientifiche, di pratiche
efficaci, perché tanto ognuno di noi è diverso, unico e speciale, e deve
trovare il proprio metodo di studio, non esiste un metodo che vada bene per
tutti e bla bla bla…
Ho passato gli ultimi dieci anni e più della mia vita a rispondere a questa
obiezione, a lottare contro questa credenza, perché è sulla base di essa che
la castronaggine di chi deve imparare e la pigrizia di chi deve insegnare
pianta radici e impedisce di raggiungere una vera eccellenza nello studio. Ti
sorprenderesti di scoprire con quanti professori e professoresse ho discusso
di questo, nel corso della mia carriera di divulgatore. Questa credenza è
falsa, pigra, pseudoscientifica, apertamente smentita dai fatti, dagli
esperimenti e dalla pratica sul campo.
Piano, non ti incavolare, non sto negando che ci siano forti differenze
individuali tra di noi: differenze di gusto, di stile cognitivo, di
atteggiamento, di carattere, di abitudini, di necessità, di contesto, di
percorso… Certo che ci sono. Queste differenze che ci identificano e ci
distinguono si riversano in ogni aspetto della nostra vita, compreso lo
studio, ma quando si tratta di operazioni cognitive e funzioni biologiche,
siamo molto più simili di quanto non siamo diversi. La struttura del nostro
cervello, plasmata dall’evoluzione per selezione naturale, è sempre la stessa
(con pochissime eccezioni).
In generale, quindi, al livello delle basi, dei principi, ciò che funziona
per me quando studio funzionerà anche per te e funzionerà per chiunque,
semplicemente perché è così che è fatto il nostro cervello. Le differenze si
manifestano al livello dei dettagli, delle scelte stilistiche, di come adattare
tali principi generali al nostro contesto specifico e al nostro modo di
ragionare, delle singole tecniche adottate e preferite (ne abbiamo parlato
anche nel capitolo sulle mappe mentali), dell’importanza data a un
passaggio oppure all’altro, delle sensazioni che i vari step ci comunicano.
La strada più sensata e che porta a migliori risultati è sempre la stessa:
partire dal consolidare i principi fondamentali del processo di
apprendimento, quei mattoni su cui costruire il castello del nostro metodo di
studio. Sono mattoni comuni, universali ed efficaci per tutti. Dopodiché,
una volta acquisite le basi, si fanno aggiustamenti, variazioni e
personalizzazioni.
È per questo che nei miei video, libri, articoli, corsi, io insegno e mi
concentro proprio su quei principi di base, scendo nel dettaglio, mostrando
anche le diverse varianti: per incoraggiare chi mi segue a padroneggiare
come prima cosa il metodo di base; poi, quando si è efficienti, ci si potrà
mettere del proprio, sperimentare, modificare. Ma non prima di aver capito
come funziona.
Voglio farti un esempio, per chiarire definitivamente come la penso
sull’argomento, un esempio che uso sempre e che, se mi segui, avrai già
sentito infinite volte. Non sono neanche sicuro di non averlo già usato nel
libro precedente, ma, nel caso, fai finta di nulla.
Quando parliamo di metodo di studio è come se parlassimo di atletica
leggera, nello specifico di salto in alto. È certamente vero che il corpo di
ogni atleta è diverso, e quindi lo stile finale di salto sarà un po’ diverso: sarà
diversa la posizione del piede quando si stacca, sarà diversa la gestualità e
via discorrendo. Allo stesso modo, sarà diverso, personalizzato, anche
l’allenamento prima della gara: terrà conto della storia dell’atleta, dei suoi
punti di forza e debolezza, degli infortuni, dello stato psicologico, delle sue
sensazioni, delle preferenze dell’allenatore, del clima… Ma il corpo umano
è il corpo umano: il 90% del movimento che si compie in gara è identico: si
salta all’indietro (alla Fosbury) perché così si va più in alto. Tutti e tutte. È
una questione anatomica, biomeccanica, che nessuno può mettere in
discussione. Nessuno si presenta alle Olimpiadi saltando in avanti, perché è
stato dimostrato che quella è una strategia perdente, punto.
Quando si insegna ai principianti il salto in alto, quindi, prima di anche
solo accennare alla personalizzazione, ci si deve assicurare che siano capaci
di saltare nel modo corretto, che conoscano la meccanica del gesto. Che
sappiano che, saltando all’indietro, si arriva più in alto.
È sui dettagli che si personalizza, non nella struttura di base, per la quale
esistono cose giuste e cose sbagliate. Nello studio vale la stessa cosa. Prima
si impara come funziona un metodo di studio realmente efficace,
scientifico, poi ci si può permettere di modificare le minuzie!

Come (non) funziona la sottolineatura


Sottolineare non funziona. O, meglio, sottolineare nel modo classico,
tradizionale, svogliato non funziona. Si ritorna al concetto di pseudolavoro
e di illusion of competence di cui abbiamo già detto in queste pagine:
sottolineare ti illude di star compiendo un lavoro, ti convince che il tuo
tempo venga speso bene. In fondo, guarda quanto ho sottolineato, guarda
quante linee colorate ho prodotto, deve sicuramente essermi d’aiuto!
Ma sottolineare intere frasi o evidenziare le porzioni del testo ritenute
più importanti, non è altro che procrastinazione mascherata dello studio. Di
fatto, è l’equivalente di selezionare ciò che sarà importante studiare la
prossima volta che apriremo il libro. Ci stiamo dicendo che bisognerà per
forza rileggere, per forza passare su quelle righe almeno un’altra volta.
Spesso, tra l’altro, la sottolineatura classica ha l’effetto collaterale di
impedirci di prestare attenzione a ogni elemento della frase o del paragrafo.
Dato che nella nostra mente stiamo cercando quali frasi e passaggi
evidenziare, non ci stiamo concentrando sull’acquisire le informazioni che
ci servono e sul comprenderle a fondo: non appena cominciamo a
sottolineare abbiamo un momento di rilascio della tensione. Abbiamo
trovato il tesoro, non serve cercare oltre. E metà della frase viene
leggiucchiata molto velocemente e senza alcuna intenzionalità, in
automatico, mentre la mano porta a termine il movimento di sottolineatura.
Entriamo, questa volta davvero, in una sorta di stato di flow, in cui
automatizziamo il processo di ricerca di ciò che è importante e leggiamo
rapidamente, soffermandoci solo di quando in quando, se un passaggio è
proprio incomprensibile.
Figura 9.1. Queste sono alcune righe del mio manuale gratuito Leggere per
sapere. Per quanto ogni frase sia un capolavoro, nemmeno qui ha senso
sottolineare in questo modo.

Diventiamo estremamente efficienti nel sottolineare, riconosciamo al


volo quando una frase o un paragrafo sono importanti, ma perdiamo
completamente di vista il fatto che a fare la differenza non è il rendersi
conto che un’informazione è importante, ma affrontare quella informazione,
rifletterci, interagire con essa.
Risultato? Gli studi dimostrano chiaramente che non soltanto la
sottolineatura non migliora le prestazioni scolastiche, il profitto, la
comprensione o la memorizzazione, ma ha la tendenza a peggiorare questi
fattori e a ingannare chi la utilizza (praticamente chiunque).
Lo stesso vale anche per il metodo delle sottolineature a colori, magari
in più passate. L’uso del colore è un’ottima strategia di rielaborazione e
codifica; tuttavia, applicarla in questo modo non fa che annacquarla,
impedendole di esprimere la sua reale utilità.
Che cosa, invece, può funzionare? Uno stile di sottolineatura
completamente diverso, intervallato con un recupero attivo, intenzionale e
tutt’altro che automatico. Il mio consiglio è questo: leggi una frase, un
periodo, e poi fermati. Fai un mezzo secondo di pausa per raccogliere le
idee e poi prova a richiamare il significato di quello che hai appena letto: il
contenuto informativo del periodo. Quando hai effettuato il richiamo e hai
la certezza di aver compreso, sottolinea singole parole; non frasi, non
passaggi, non periodi, ma singole parole chiave selezionate accuratamente
con il massimo criterio di sintesi possibile. Sceglile con l’idea che quegli
agganci possano farti recuperare il contenuto e già pensando al fatto che
potrai impiegarle per costruire uno schema. È una combinazione di retrieval
practice, sintesi e protocolli di comprensione, è un metodo più stancante ma
infinitamente più efficace.
Ho spiegato nel dettaglio come si struttura tutto questo (con molte più
finezze) nel mio manuale gratuito Leggere per sapere; quindi, per il
momento, mi fermo qui. Ma tu provaci, che funziona.

Come (non) funziona il “leggi e ripeti”

Leggere e ripetere (ma anche riscrivere e rileggere ulteriormente, se è


per quello) funziona male. Alla lunga ti porta a un qualche risultato di
apprendimento, ma il prezzo da pagare è troppo alto e la qualità finale…
discutibile. Quando leggiamo con l’idea che poi ci saranno successivi
passaggi di ripetizione, rilettura o riscrittura, la tensione e il focus calano
drasticamente. Ci adagiamo, magari inconsapevolmente, sul fatto che tanto
poi dovremo tornare indietro, ripeteremo o rileggeremo o riscriveremo.
Dunque, non serve davvero sbattersi più di tanto, adesso.
Ricordatelo sempre: il tuo cervello farà di tutto per sforzarsi il meno
possibile, per risparmiare energie, sempre e comunque. Se può trovare una
razionalizzazione per fare meno fatica, lo farà, è una legge di natura.
Altro problema è l’effetto della ripetizione sul processo di
apprendimento: lo rende stressante, noioso, ripetitivo e, soprattutto,
inefficace. In realtà, l’idea della ripetizione non è sbagliata in toto; se ci
pensi, nel paragrafo precedente io stesso ti ho consigliato di fermarti e, in
un certo senso, ripetere le informazioni che hai appena assorbito. Ma la
differenza sta nel modo e nelle tempistiche di questa ripetizione.
Partiamo dal modo: la ripetizione classica di chi studia è impersonale,
pappagallesca, spesso sbirciando il testo di partenza oppure, come
dicevamo, riscrivendo o rileggendo direttamente. Il richiamo che ti
consiglio io, invece, è basato sul meccanismo della pratica di recupero
attivo, è un percorso di ricerca nella memoria e riutilizzo dell’informazione,
molto meno automatico e molto più personale ed esplicito. Non c’è niente
di banale e spontaneo: ci sei tu che ti poni domande sul contenuto e ti sforzi
di richiamare le risposte, abituandoti al tempo stesso a tenere sempre la
guardia alta mentre leggi, perché altrimenti ti troveresti a non saper
rispondere e ricostruire.
Quanto alle tempistiche della ripetizione, di solito è alla fine di una
sessione di studio o al termine di un paragrafo o un capitolo. Quello che,
invece, sappiamo funzionare, è un richiamo attivo molto più frequente, un
feedback costante che ci segnali il rapporto che stiamo sviluppando col
testo e il suo contenuto. Io consiglio periodo per periodo, ma anche fosse
una volta ogni due periodi già sarebbe un passo avanti.
Sulla ripetizione ad alta voce sospendo il giudizio per qualche riga, che
il prossimo paragrafo è lì apposta ed è già fin troppo lungo.
Ultima considerazione: il “leggi e ripeti” in tutte le sue declinazioni di
solito salta a piè pari la fase di rielaborazione, evitando di fare schemi, per
esempio, e non dà sufficiente importanza al ripasso e al testing. Male, male,
male.
Che cosa funziona, quindi, per sostituire in toto il “leggi e ripeti”?
Questa è facile, visto che si tratta di un approccio completo di metodo di
studio e non di una semplice tecnica: il modo migliore per sostituirlo è
applicare il P.A.C.R.A.R., fase dopo fase. E se non te lo ricordi, il capitolo
introduttivo è sempre lì a tua disposizione.

Come (non) funziona il discorsetto

Il discorsetto ad alta voce è una variante classica del “leggi e ripeti”,


particolarmente apprezzata dai giuristi in erba, adepti ciceroniani che
infestano le aule delle facoltà di Giurisprudenza. Partiamo dal capire che
cosa intendo esattamente con l’espressione “ripetere col discorsetto”:
intendo tutte le varianti e sottovarianti del provare a ripetere ciò che
abbiamo studiato, letto, ascoltato o scritto sui nostri riassunti, simulando
una vera e propria declamazione. Parlare ad alta voce provando a fare un
discorso completo e coerente sull’intero argomento. Vale anche se si inizia
con un accenno di testing (che già sarebbe un passo avanti), magari
rispondendo a una domanda super generale e per poi partire per la tangente
e cominciare l’orazione.
Ora, la simulazione di discorso, se ben dosata, trova il suo spazio in un
metodo di studio efficace, soprattutto se stiamo preparando esami orali
all’università o interrogazioni importanti a scuola, ma il problema qui è
confondere lo studio con l’allenamento retorico. Non sono la stessa cosa,
non hanno la stessa funzione, non portano agli stessi risultati, e mescolarli
insieme, spesso, è un disastro.
Il primo, grosso motivo per non ripetere col discorsetto è il tempo:
ripetere col discorsetto ad alta voce è la pratica di ripasso più lenta in
assoluto, perché costringe a seguire il ritmo della propria voce, invece di
ricorrere a pratiche di mentalizzazione istantanee. La ripetizione a
discorsetto è la morte dell’efficienza.
Ma, potresti obiettare, se è una tecnica lenta ma è efficace, può valerne
la pena… e invece no. Eh già, perché il discorsetto è pure inefficace. Il
problema qui è quadruplice.

● La ripetizione a discorsetto troppo, troppo, troppo spesso è mnemonica,


puramente basata sul provare a ricostruire le frasi lette o ascoltate. Manca
del tutto di rielaborazione, è passiva, ripetitiva, noiosa, pesante.
● Non è quasi mai rappresentativa del contesto d’esame. Non è una
simulazione utile, perché solo molto raramente chi ti interroga ti dà la
possibilità di parlare a ruota libera per dieci minuti esponendo un tema.
Sì, certo, qualche volta capita la domanda a piacere, ma è ben più
comune ricevere domande secche e dirette, magari inaspettate. E quando
c’è la domanda aperta, generale o a piacere non si svolgerà in quel modo.
Diventa un esercizio di stile vuoto.
● Rovina il meccanismo di feedback del testing e non fa davvero capire
precisamente se e quanto è solida la preparazione sui singoli argomenti e
sottoargomenti. Non c’è un riscontro preciso e oggettivo che ti dica se sai
rispondere a una domanda oppure no, non ti accorgi dei buchi che lasci
nella preparazione perché affidi tutto alla capacità di mettere insieme un
discorso a memoria. Non ci sono benefici in termini di sicurezza, motivo
per cui il discorsetto raramente porta a dirsi “sì, so tutto”, ma lascia
invece in un perenne stato di ansia che porta a rifare il discorsetto
un’altra volta. E poi rifare il discorsetto. E poi fare ancora una volta il
discorsetto. E ancora, e ancora, e ancora, e ancora, senza mai davvero
andare a individuare in modo chirurgico le debolezze di preparazione e a
colmarle con lo studio.
● Porta a mettere troppo focus, troppo sforzo, troppa concentrazione
sull’esposizione, e troppo poco sulla comprensione e il ricordo.

Il punto è questo: sapersi esprimere, saper parlare bene, è senza dubbio


un’abilità importante, fondamentale oserei dire, non solo per gli esami orali,
ma per la vita in generale, a essere onesti. Ma, come già accennavo prima,
non si può pensare di allenare contemporaneamente l’esposizione e la
ritenzione delle informazioni: è troppo complicato, sono due lavori
differenti, entrambi degni di rispetto, ma difficili.
In secondo luogo, se avere una preparazione solida aiuta l’eloquenza,
perché le informazioni fluiscono facilmente dalla memoria e vengono
richiamate all’istante, non avviene il contrario: avere una buona parlantina
non migliora la qualità dell’apprendimento. Per cui da’ sempre la priorità al
sapere le cose, poi al come esprimerle, mai il contrario.
Che cosa fare, quindi?
Per prima cosa, nella fase iniziale della preparazione per un esame,
sostituire tutte le normali sedute di discorsetto con sedute di testing,
prediligendo domande più precise e rispondendo a mente, senza bisogno di
verbalizzare.
Dopodiché, man mano che ci si avvicina al termine del programma,
introdurre gradualmente qualche domanda più ampia e generale, ma sempre
cercando di rispondere a mente.
Infine, una volta terminato di studiare tutto il programma, dedicarsi al
ripasso e alla simulazione e introdurre anche le risposte a voce alta,
allenandosi per acquisire più sicurezza e padronanza del lessico tecnico.
Se proprio vivi nella paranoia di non saperti esprimere e il parlare di
fronte all’insegnante è il tuo grande punto debole, puoi anche dedicare un
paio d’ore alla settimana all’allenamento espositivo, portando avanti sedute
mirate di risposte articolate ad alta voce. Ma devono sempre essere
allenamenti mirati, in cui sai che non stai né studiando né ripassando, ti stai
solo allenando a parlare.

Come (non) funziona il riassunto

Fare riassunti non funziona. O, meglio, funziona peggio che fare schemi,
dunque non c’è motivo per riassumere quando studiamo. Non voglio essere
troppo cattivo, perché il riassunto è comunque una forma di rielaborazione,
di certo è meglio di niente ed è un passo avanti rispetto al “leggi e ripeti” o
al discorsetto perenne.
Purtroppo, però, per sua natura il riassunto taglia, perde dettagli, ed è
necessario che sia così, perché deve utilizzare lo strumento della scrittura
tanto quanto il testo, ma deve risparmiare tempo e spazio. Costringe, quindi,
a lasciare da parte alcune informazioni e, dunque, è inevitabilmente più
superficiale e meno completo della fonte di riferimento. Opera al contrario
dello schema, che comprime le informazioni e, tramite l’uso di parole
chiave, grafica e colore, le esprime in uno spazio più contenuto ma senza
perdere di profondità.
Il riassunto è anche più lento nella stesura e nella rilettura. Ci costringe a
uno sforzo di utilizzo della lingua italiana che è meraviglioso se stiamo
imparando a scrivere, ma del tutto superfluo se vogliamo studiare in modo
efficiente. Questo è uno dei motivi per i quali ritengo il riassunto uno dei
migliori esercizi di scrittura possibili, eccellente anche per chi deve
imparare a scrivere temi migliori, ma un pessimo alleato nello studio.
Quindi possiamo tagliare corto: il riassunto è, semplicemente, superato
dallo schema, che funziona molto meglio.

Come (non) funziona la forza di volontà

“Volli, e volli sempre e fortissimamente volli” scriveva quel pazzo


furioso di Vittorio Alfieri raccontando di essersi fatto legare a una sedia dal
proprio domestico per continuare a studiare per diventare un grande autore
tragico. Ecco, niente da dire sulle capacità letterarie dell’Alfieri, ma quanto
al suo approccio, penso tu possa intuirlo, si tratta di una cazzata. Sforzarsi
ed esercitare la forza di volontà non funziona, non basta, e se si esagera
porta solo a sofferenza e a un potenziale blocco dello studio.
Non voglio andare troppo in profondità sui meccanismi di motivazione
intrinseca ed estrinseca e sugli aspetti più psicologici ed emotivi dello
studio, perché esulano dal mio campo di approfondimento e non vorrei
uscirmene con qualcosa di inesatto, ma questo posso dirtelo: se bastasse
allenare la volontà e la disciplina per migliorare nello studio, se bastasse
“volerlo fortissimamente”, non esisterebbero persone in difficoltà al mondo.
Non è così semplice, la disciplina (o, meglio, l’autodisciplina): è un’ottima
caratteristica caratteriale da ricercare e allenare, ma le sfide cognitive poste
dallo studio incontrano resistenza molto più profonde, che spesso la sola
forza di volontà non può affrontare, specialmente quando si tratta di
mantenere alta la concentrazione e sforzarsi al massimo sui libri.
Che fare, allora? Una prima risposta è agire rimuovendo le occasioni e
gli stimoli che potrebbero fiaccare la nostra decisione di mantenere la
concentrazione: eliminare il casino che imperversa tirannico sulle nostre
scrivanie, trovare un luogo silenzioso e isolato per studiare, lasciare lo
smartphone in un luogo in cui non possiamo né vederlo né sentirlo per la
durata della nostra sessione di studio (che, come vedremo nel prossimo
paragrafo, non sarà poi così eccessiva).
Altro aspetto interessante è gestire la curiosità e l’interesse per ciò che
stiamo imparando, ponendoci domande attive e mettendo a calendario
momenti pianificati per cercare online aneddoti, curiosità, storie, video di
intrattenimento che abbiano a che fare con l’argomento che dovremo
studiare (mi raccomando però: cronometra, che sennò finisci a passare la
giornata su YouTube).
Anche il confronto con compagni e compagne che stanno studiando per
lo stesso obiettivo può essere importante e motivante, a patto di non
trasformare queste occasioni di scambio in sedute di condivisione
dell’ansia. Gli psicologi con cui mi sono confrontato mi assicurano che
l’ansia non si divide, si moltiplica: parlarne con altre persone che possono
provarla a loro volta potrebbe produrre un effetto a valanga.
Esistono poi alcuni trucchetti d’avanguardia che ci arrivano dalle
neuroscienze. Ti elenco tre dei più interessanti e strani, che rubo senza
dignità ad Andrew Huberman, forse, a oggi, il più importante divulgatore di
neuroscienze sul Web, con un podcast/blog/canale YouTube fenomenale,
che ti consiglio di seguire. Da soli non basteranno a svoltarti la vita di
studio, ma potranno di certo dare una mano.

● Un protocollo di respirazione profonda prima di iniziare a studiare può


facilitare il processo di neuroplasticità nel cervello. Una trentina di respiri
profondi (inspirazione dal naso ed espirazione dalla bocca), seguiti da
un’espirazione completa e apnea per mezzo minuto. Dopodiché, altra
inspirazione e poi altra apnea non dolorosa; riprendi a respirare
normalmente appena ne senti la necessità.
● Prima di iniziare a leggere, fissa un oggetto o il muro per trenta-sessanta
secondi, senza distogliere lo sguardo (puoi sbattere le palpebre).
Scoprirai che è piuttosto faticoso e strano, ma ti aiuterà poi a concentrarti
sulle parole stampate.
● Utilizza la tattica del reward, cioè datti delle ricompense, dei premi
durante le tue sessioni di studio. Ma non renderle prevedibili e ripetitive:
piuttosto fallo una volta ogni tanto, randomicamente.

Infine, si torna all’applicazione di un buon metodo di studio, del


P.A.C.R.A.R.: il metodo di studio in sé non ha il potere di aumentare in
modo diretto la motivazione, ma può farlo in modo indiretto. Se disponiamo
di una cucina di ultima generazione, di ingredienti pregiatissimi e abbiamo
una ricetta spiegata nel minimo dettaglio, farci venire voglia di cucinare
sarà un pochino più semplice.

Come (non) funziona lo stakanovismo

Dai, che siamo alla fine di questo lunghissimo capitolo, forse il più
lungo del libro. Come premio, ti meriti una buona notizia: studiare una
quantità disumana di ore non funziona. E studiare per molto tempo senza
pause, pure non funziona. E dedicare la tua intera vita allo studio, peggio
ancora. La cultura dello stakanovismo tossico, della produttività a tutti i
costi, dello studio come sacrificio umano alle divinità della conoscenza ha
fatto danni incalcolabili e ha anche ampiamente fracassato appendici
corporee che non descriveremo. Le ricerche in merito sono chiare, ma
voglio rimanere breve e schematico, ti elenco i punti indispensabili che devi
tenere a mente.

● La nostra capacità di mantenere la concentrazione è limitata e può essere


ulteriormente ridotta quando il compito che stiamo affrontando è intenso
e difficile. La durata massima di una sessione di focus intenso è intorno
ai novanta minuti, ma già questa tempistica è molto rara. Molto più
comune è avere uno span di attenzione che regge per mezz’ora o, al
massimo, un’ora.
● Quando chiediamo troppo al nostro cervello, aumenta la lentezza nello
studio, commettiamo più errori, ci distraiamo più facilmente, ricordiamo
meno, capiamo meno. Insomma, studiamo da schifo.
● Studiare più di otto ore al giorno, con pochissime eccezioni, è
controproducente. Si può, al massimo, superare questa cifra in sessioni di
ripasso o esercizio, quando si è già terminato di studiare il programma,
ma quasi sempre gli effetti collaterali sono maggiori dei benefici.
Esistono rari casi di persone che sopportano lo stress cognitivo e la fatica
meglio di altri, ma una percentuale elevatissima di chi passa intere
giornate sui libri in realtà sta studiando in modo blando e diluito, senza
intensità. Molte persone non sono in grado di superare le cinque ore
complessive giornaliere di studio efficace. Io sono una di quelle, per
esempio, sono sempre stato capace di uno studio intenso e concentrato,
ma non sono mai stato molto resistente.
● Sacrificare il sonno per studiare è la cosa più stupida che si possa fare,
sempre e comunque, senza alcuna eccezione. Anche se domani c’è
l’interrogazione e non ti ricordi niente. Anche se domani è il giorno della
laurea e non sai ancora il discorso.
● Cercare di prolungare le sessioni di studio con sostanze eccitanti, video
motivazionali americani o qualsiasi altro metodo porta solo a stare
peggio nel lungo periodo. La stanchezza fisica, lo stress e il benessere
psicologico sono legate a doppio filo.

Quindi, le cose da fare per studiare al meglio, ottimizzando energie e


risultati, sono le seguenti.

● Studiare intervallando momenti di concentrazione assoluta a brevi


momenti di pausa. La tecnica più famosa in questo senso è quella del
Pomodoro, creata da Francesco Cirillo, che prevede venticinque minuti
(o cinquanta, nella sua versione doppia) di studio, seguiti da cinque (o
dieci) minuti di pausa. Ogni quattro pomodori, cioè ogni due ore
complessive, una pausa più lunga, di una mezz’ora almeno.
● Lascia sempre una bella pausa di almeno due ore (ma anche di più) tra la
sessione di studio mattutina e quella pomeridiana o tra le lezioni (a
scuola o all’università) e lo studio. La pausa pranzo è perfetta per farlo.
● Sperimenta la tecnica del micro rest o gap effect: ogni tanto, mentre studi,
diciamo una volta ogni due o tre minuti, senza essere regolare, magari
subito dopo un passaggio particolarmente difficile che hai appena risolto
o compreso, fermati e costringiti a non fare niente e riposare per una
decina di secondi. Ti blocchi e basta, senza fare nulla. Questa è una
novità nel mondo dello studio efficace: gli studi sembrano mostrare un
aumento dell’attività dei neuroni connessi all’apprendimento e alla
memoria. Non sono studi conclusivi, ancora, ma sembra un approccio
promettente. Provalo e fammi sapere.
● Studia una giusta quantità di ore senza mai esagerare (e per farlo devi per
forza diventare abile con la fase di pianificazione), non dimenticare mai
il tempo per lo svago, il cazzeggio, la socialità, lo sport, il riposo.
● Prenditi cura del sonno, dormendo tanto, bene, in modo regolare e non
sacrificandolo mai per studiare (ne abbiamo già parlato nel capitolo
precedente).
● Dimenticati la retorica del sacrificio e del senso del dovere: studi per te e
solo per te, non c’è nessun valore nel distruggersi fisicamente e
psicologicamente, l’unico risultato è imparare meno e odiare la vita un
po’ di più.
PARTE SECONDA
Il cervello non è una cazzata
Non potevo fermarmi qui

E così ce l’hai fatta, hai raggiunto circa la metà di questo libro.


Complimenti per il coraggio e la perseveranza. A questo punto, come già
anticipato nell’Introduzione, è ora di generalizzare e di passare dall’analisi
delle cazzate nel mondo dello studio e dell’apprendimento alle cazzate nel
mondo del cervello.
Mi permetto di rispondere a una domanda che potrebbe essere fiorita
nella tua mente: “Ma perché?” Cioè, lo scopo di questo libro non doveva
essere quello di smontare i falsi miti sul metodo di studio, di mostrare i
muscoli bibliografici di cui dispongo e di offrire consigli utili e pratici per
migliorare la vita di chi studia? Anche il titolo parla di quello. Il risultato è
stato raggiunto un paio di pagine fa, quindi perché andare avanti? Perché
cercare ulteriori rogne? Perché scrivere altre decine di pagine?
Masochismo? Desiderio di aumentare il prezzo del libro e lucrare senza
pietà? Nessuno dei due.
Quando ci si avvicina, anche solo per sbaglio, al mondo della corretta
divulgazione e del contrasto alla pseudoscienza, ci si rende ben presto conto
di un problema grave e, forse, irrisolvibile: le fufferie, tra loro, dialogano.
Le credenze errate, le pseudoscienze, le teorie del complotto, le ideologie
estreme sono in contatto tra loro, si nutrono a vicenda, costruiscono spazi di
collaborazione e stringono sodalizi nascosti di cui beneficiano
reciprocamente.
Io me le immagino come una tavola rotonda segreta, in cui tutte le
cazzate dell’umanità si ritrovano una volta all’anno per discutere di come
potranno conquistare il mondo. Una lega malvagia da fumetto di supereroi.
Una Spectre che neanche James Bond può sconfiggere. Luci fredde e
soffuse cadono sul tavolo in mogano da lampade appese al soffitto. Le
cazzate bisbigliano tra di loro. Questa tavolata complottistica è gigantesca e
divisa in aree tematiche, come a un convegno:

● c’è l’area medico-sanitaria, in cui il rappresentante delle credenze contro


Big Pharma siede di fianco alla guru dell’omeopatia, alla dottoressa che
si è inventata che i vaccini facciano venire l’autismo e all’ingegnere che
“studia” gli effetti del 5G;
● c’è l’area politica, in cui i QAnon progettano colpi di stato in combutta
con gli Illuminati e un gruppo di rettiliane, che sono riuscite a entrare
solo perché le porte avevano maniglie e non pomelli;
● c’è l’area mistica, in cui un mascherato Adam Kadmon racconta storie di
alieni nelle piramidi, mentre un capo-setta religioso ascolta e prende
appunti;
● c’è l’area economica, in cui le inventrici del signoraggio bancario
discutono animatamente con gli odiatori di Bill Gates e George Soros;
● e poi c’è la zona riservata a chi legge 20.000 parole al minuto, a chi
scrocca gli appunti, a chi memorizza anche il numero di peli sulle proprie
braccia; e questa zona si trova nello stesso spicchio di tavolo delle altre
fufferie sul cervello.

Eh, sì, le cazzate sullo studio, di fatto, sono una sottocategoria delle
cazzate sul cervello, non esisterebbero se avessimo l’abitudine di studiare la
mente con gli strumenti della scienza. I neuro-miti sono le fondamenta su
cui poggia tutto quello di cui abbiamo parlato finora.
Ecco perché, pensando alla scaletta di questo libro, arrivato alla fine
degli argomenti che volevo trattare sullo studio, mi sono detto: “Non posso
fermarmi qui, non posso fermarmi ora”. Così ho deciso di inserire otto
capitoli aggiuntivi che affronteranno, con lo stesso stile e la stessa struttura
cui ormai hai fatto l’abitudine, otto bubbole sul cervello.
Spero che questo servirà ad ampliare il tuo spettro critico e ad allenarti a
tenere d’occhio non dico tutto il tavolo (sarebbe impossibile), ma almeno
un’area del tavolo delle fufferie.
10
“Raddoppia il tuo Qi in 22 giorni!”
La cazzata dell’aumento dell’intelligenza

Ma si può davvero diventare dei geni in una manciata di giorni? Come


spesso accade, ci sono due risposte possibili: una breve, l’altra lunga.
Quella breve è: “No”. Quella lunga è: “Assolutamente no”.
Scherzi a parte, potremmo effettivamente chiudere qui il capitolo e tu te
ne torneresti comunque a casa con una visione abbastanza accurata della
situazione, ma la verità è che le cose sono molto più complicate di così e,
ormai lo sai, io adoro le cose complicate. Quello che non è complicato è che
chiunque prometta, con corsi strani, tecniche segrete, antichi protocolli
sciamanici, riallineamenti dei chakra, tecniche mnemoniche o strategie di
pensiero, di aumentare a dismisura l’intelligenza o perfino di renderci
geniali, beh, è un cialtrone irrecuperabile. Usare un argomento tanto
controverso anche a livello di ricerca scientifica per fare due euro in più,
giocando sul desiderio innato di chiunque di diventare più intelligente è
davvero un colpo basso, oltre che una scorrettezza pseudoscientifica. Non
cascarci.
E lasciami sfogare per un paio di righe anche su questa parola: “genio”.
Non ne posso più, mi sono davvero stufato di sentirla lanciare in giro per
qualsiasi cosa, usarla per costruire branding improbabili e strategie becere
di vendita. Non appena la sento, in tutte le sue varianti, mi sale la voglia di
vandalismo. Genio qui, genio lì, geniale questo, geniale quello… Anche no,
anche basta. Opponiamoci a questo abuso verbale. Nuova regola imposta da
me, tirannicamente, in modo del tutto antidemocratico: non si può più
definire a casaccio “genio” nessuno e nessuna, nulla può essere considerato
geniale e, soprattutto, niente e nessuno può genializzare qualcosa o qualcun
altro.
Mi permetto, e ti permetto, solo due eccezioni a questa mia crociata
contro geni e genialità.

● Il libro Geniale di Massimo Polidoro, perché parla di James Randi, che


era un genio vero, di cui Massimo è degno allievo.
● L’utilizzo ironico/enfatico. Perché quando mi immagino la faccia di
Francesco Pannofino in Boris che sgrana gli occhi ed esclama “Genioh!”
con quella quasi-aspirazione finale esprimibile solo con l’aggiunta di una
“h”, la mia giornata si illumina.

Sto sproloquiando solo per allungare questo paragrafo? Pare di sì, quindi
procediamo.

Come (non) si diventa geni

Lasciamo da parte le bugie evidenti e le sparate “geniali”,


concentriamoci invece sul concetto di brain training (allenamento mentale)
più serio e scientifico, che mira ad aumentare l’intelligenza attraverso
giochi, programmi specifici, allenamenti mirati.
Che cosa possiamo dire? Purtroppo, a oggi, non si conoscono
programmi di potenziamento cognitivo che abbiano dimostrato in modo
incontestabile incrementi dell’intelligenza significativi, duraturi e
generalizzati. Neanche uno. Per essere più precisi, questi tipi di interventi
sono quasi del tutto inutili dal punto di vista dello sviluppo dell’intelligenza
generale per chi vive in un contesto agiato, positivo, scolarizzato. Si può
intervenire in modo incisivo su persone che hanno vissuto in ambienti
estremamente svantaggiati, ma non è il caso di chi nasce in un Paese con
accesso all’istruzione pubblica, ai media, a un’alimentazione decente, a libri
come quello che tieni fra le mani. Non è il nostro caso, insomma.
Dedicherò a fine libro un intero capitolo (bello corposo e potenzialmente
controverso) alla misura dell’intelligenza e ai presunti diversi tipi di
intelligenza. Per adesso, accontentati di sapere questo: lo scopo con cui
vengono costruiti i test seri e provati di intelligenza è quello di misurare non
tanto una o più capacità dell’individuo, quanto la media generale delle sue
facoltà, a prescindere da cultura, contesto ed esperienza. Se questo è vero (e
prendilo per buono), come può un training ultraspecifico influenzare quel
risultato, quella media? Se ci riuscisse sarebbe ora di cambiare il test di
partenza, significherebbe non tanto che il training è efficace, quanto che il
test non sta davvero misurando l’intelligenza generale, ma piuttosto una o
più specifiche abilità di chi lo svolge. E comunque, non accade neanche
questo, perché il test del QI ufficiali funzionano piuttosto bene e i training ti
rendono solo più abile a… svolgere quei training, nulla di più.
Ne parlavamo già per chi gioca a scacchi nel capitolo dedicato agli stili
di apprendimento, te lo ricordi? Dicevamo che non hanno una memoria
sovrumana, ma un’ottima comprensione del gioco, l’abitudine a ragionare
in modo tattico e strategico e ad assegnare valore e significato alle posizioni
sulla scacchiera. Ecco, vale più o meno la stessa cosa anche per l’aumento
dell’intelligenza. Migliorare a scacchi vuol dire migliorare a scacchi, non
diventare più intelligenti, e allo stesso modo migliorare con i giochini di un
brain training non fa altro che farci migliorare con quei giochini di brain
training. Fino a prova contraria, riuscire a fare il sudoku al livello estremo
non implica per forza l’essere abili in matematica.
Quando ci alleniamo con giochi e programmi per l’aumento
dell’intelligenza, oltre ad acquisire abilità nello svolgere il training stesso,
al massimo miglioriamo un pochino nell’affrontare giochi simili, con regole
analoghe e svolgimenti prevedibili. Se prendiamo giochi del tutto diversi o,
ancora meglio, ambiti diversi in cui si applica l’intelligenza, come il lavoro,
lo studio, il ragionamento, non vedremo nessun beneficio.
Almeno per ora. Eh sì, perché non è ancora arrivato il momento di
perdere le speranze: il fatto che a oggi non esistano training e protocolli
efficaci nell’aumentare l’intelligenza generale non significa che non ne
possano esistere per principio. Non conosciamo leggi biologiche, fisiche o
cognitive che impediscano a priori di aumentare l’intelligenza. Non ci sono,
per quanto ne sappiamo oggi, limiti assoluti che rendano impossibile
accrescere il QI in età adulta. Magari si potrà fare con l’ausilio della
tecnologia, magari si troverà finalmente un gioco o un allenamento che
riesca a produrre effetti generalizzati. Non possiamo escluderlo e, anzi,
possiamo augurarcelo e continuare a cercare. Io mi sveglio ogni giorno
sperando di trovare nel mio feed di notizie la scoperta che ce l’abbiamo
fatta, davvero.
Occhi aperti, però: che la speranza non si trasformi in creduloneria.
Questo obiettivo (se è possibile) è estremamente difficile da raggiungere;
quindi, non sarà un nuovo sedicente guru di Internet o un’app sul telefono a
far svoltare la situazione. Come sempre, ci vorranno équipe specializzate,
infiniti tentativi, esperimenti ripetuti, verifiche, avanzamenti tecnologici,
investimenti. Tutta quella roba che, alla fine, produce risultati veri.
Non sapevo bene dove inserire questa cosa, quindi la metto qui: ho
sentito che ci sono anche persone che credono che la meditazione possa
aumentare l’intelligenza e… no. Però meditare ha una marea di altri effetti
positivi, quindi te lo consiglio in ogni caso.

Dual n-back

Aggiungo un paragrafo a parte per uno dei training di intelligenza più in


voga negli ultimi anni, perché vengo sempre bombardato nei commenti su
YouTube e nei messaggi privati di persone che mi chiedono che cosa ne
penso. Te ne racconto la storia e ti spiego perché, di fatto, non si discosta
dal ragionamento che abbiamo appena concluso.
Partiamo dall’inizio: nel 2008 Susanne Jaeggi e il suo team hanno messo
insieme settanta adulti fra uomini e donne e li hanno sottoposti a un test del
QI per stabilire quale fosse il loro livello di intelligenza fluida che, per farla
semplice, è quella che ci permette di risolvere nuovi problemi in modo
originale, anche senza conoscenze pregresse. Lo stesso gruppo di settanta
persone si è poi allenato dagli otto ai diciannove giorni con uno specifico
esercizio studiato dai ricercatori, una variante del n-back, protocollo usato
per misurare la memoria di lavoro e la sua capacità.
Nell’n-back classico si deve riconoscere uno stimolo che si è già visto
un certo numero di passaggi prima nella sequenza che ci viene proposta.
Jaeggi, però, ha aumentato il livello di difficoltà: nel dual n-back
abbiamo a che fare con due sequenze che scorrono contemporaneamente,
alternando diversi tipi di stimoli. In altre parole, in un esercizio dual n-back
stiamo cercando di gestire una stringa di due informazioni visive e due
informazioni uditive.
a) Figura 10.1. Esempio di n-back.
b) Figura 10.2. Esempio di dual n-back.

Non solo dobbiamo trattenere un certo numero di informazioni ricevute,


quindi, ma dobbiamo anche modificare e sostituire quelle informazioni
mentre andiamo avanti nell’esercizio. Complicatissimo, a volte frustrante,
ma anche tremendamente divertente per chi ama le sfide mentali.
Questo training aveva lo scopo di aumentare la capacità della memoria
di lavoro, che ormai è una nostra vecchia amica in queste pagine, ma che è
anche una delle componenti che contribuiscono all’intelligenza stessa. Il
concetto alla base del dual n-back mi ricorda molto quello che fa quel matto
di Vanni De Luca, il mio amico e socio mnemonista, quando recita la
Divina commedia mentre memorizza sequenze di numeri, elenca i nomi
italiani più comuni, risolve un cubo di Rubik e magari si prepara pure un
caffè con una mano sola.
Comunque, lo studio della dottoressa Jaeggi pare aver avuto successo.
Sembra che l’intelligenza fluida delle settanta persone esaminate sia
aumentata e che, quindi, per la prima volta, il training si sia generalizzato.
Colpo di scena!
Non così in fretta. Ho detto “sembra” perché la comunità scientifica non
è proprio d’accordo. Dopo questi risultati, che hanno scosso profondamente
chi lavora in questo campo e hanno dato speranza a chi come me sogna un
giorno di diventare un supercomputer umano, ulteriori ricerche hanno
sottolineato che il dual n-back potrebbe essere solo fumo.
Una prima critica pesante è andata a concentrarsi su una cosina non
proprio ininfluente, chiamata validità costruttiva della ricerca. Si mette in
discussione, anzi, si rifiuta completamente, la teoria secondo la quale il dual
n-back misuri o alleni la memoria di lavoro. I sostenitori del dual n-back
insistono, e così si fa un’altra prova: questa volta chi partecipa
all’esperimento si allena per diciannove giorni, e al secondo test del QI le
risposte corrette aumentano di più del 40%. Tantissimo. Due anni dopo,
però, si torna al punto di partenza: i risultati dell’esperimento vengono
smentiti di nuovo: una buona fetta di chi fa ricerca li ritiene viziati dal
modo in cui il test del QI è stato somministrato ai vari gruppi. E, soprattutto,
non sono provati effetti a lungo termine. Negli anni successivi gli studi
rimpallano la questione come una pallina da ping-pong.
Tredici anni più tardi siamo ancora allo stesso punto: non ci sono prove
ripetibili e definitive che il dual n-back funzioni. Ha ancora, però, diverse
persone che lo sostengono: rimane l’unico training a essere quantomeno
andato vicino a un risultato, e non è chiaro se la partita sia ancora aperta.
Bisogna usare molta prudenza. Ci vogliono prove straordinarie e di una
solidità totale anche solo per considerare di accettare un protocollo di
aumento dell’intelligenza. Queste prove, per ora, non ci sono.
Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.

Diciamo le cose come stanno

Uno spiacevole effetto collaterale di uno stile di scrittura netto, deciso e


sarcastico, come quello che cerco sempre di adottare, è che rischia di
veicolare una sicurezza totale anche laddove non dovrebbe esserci. Quindi,
come è mio dovere di bravo paracul… ehm… di bravo divulgatore
scientifico, è giusto che ti segnali alcune cosucce.
Tutto quello che ti ho riportato finora è giusto, ci sta, è accettato dalla
comunità scientifica e da chi fa ricerca. Tuttavia, la scienza, in questo
campo, è tutt’altro che conclusiva. Possiamo individuare alcune
problematiche che non vanno mai sottovalutate.
Per prima cosa, la definizione stessa di intelligenza e la sua misurazione
sono sempre al centro di dibattiti, riformulazioni, proposte, variazioni,
interpretazioni. Nonostante il concetto di quoziente d’intelligenza e i
parametri studiati in psicometria siano solidi a livello empirico e portino a
risultati utili, venendo impiegati con successo da decenni (come ho già
detto, ne riparleremo nell’ultimo capitolo del libro), c’è anche chi propone
modelli alternativi e ci sono difficoltà e problemi da risolvere… Quindi, si
potrebbe eccepire che finché non abbiamo la certezza assoluta di una
definizione e misurazione, impeccabile e priva di difetti, dell’intelligenza
non ha per niente senso stabilire se sia possibile o meno aumentarla,
l’intelligenza. Io non sono d’accordo con questa potenziale obiezione,
perché non credo che un parametro debba essere perfetto per poterlo
utilizzare e per trarne conclusioni operative, ma non posso neanche dire che
sia una critica campata per aria.
In secondo luogo, non c’è un parere unanime nemmeno su che cosa
significhi davvero “aumentare l’intelligenza”, né sui parametri da tenere in
considerazione: le variabili sono numerosissime e risulta sorprendentemente
difficile isolarle per compiere degli esperimenti.
E poi, c’è la questione della differenza tra intelligenza fluida (ti ho già
spiegato che cosa significhi), e intelligenza cristallizzata, che sarebbe la
capacità di mettere in pratica in modo efficiente conoscenze, competenze ed
esperienze pregresse. Quale delle due misuriamo? Quale delle due
vogliamo aumentare? In che percentuale? Come? Probabilmente vogliamo
continuare a concentrarci sull’intelligenza fluida, che è quella più
importante, ma è davvero la scelta migliore?
Non dimentichiamoci che, nonostante le critiche, Susanne Jaeggi e il suo
team continuano a sostenere che il dual n-back funzioni. Per il momento le
prove che presenta non sono convincenti, ma la situazione potrebbe
cambiare. Per cui non si può dire che le app di brain training siano per forza
di cose delle cazzate, né tantomeno che lo saranno per sempre. Rimaniamo
sul sicuro e diciamo che, per ora, paiono non funzionare e non portare ad
aumenti significativi dell’intelligenza fluida e dell’intelligenza generale, ma
speriamo in nuove evoluzioni e nuove scoperte.
E, visto che ci siamo, ribadiamo una volta di più (che male non fa) che
chiunque spacci come “certo, sicuro, scientifico” che il suo programma o
corso o la sua strategia o app aumenti il QI o l’intelligenza in generale sta
mentendo o è incompetente, perché non può saperlo con certezza, nessuno
può. E lo stesso vale per integratori, tecniche di meditazione e qualsiasi
altra proposta.

Allenarsi, sempre e comunque

Oltre ad aspettare che la scienza si sbrighi a risolvere questi problemi e


si decida a trovare un modo per aumentare l’intelligenza sul serio e per
chiunque (che il mondo ne avrebbe decisamente bisogno), ci sono altre cose
che possiamo fare, nel frattempo.

● Possiamo continuare a studiare, giocare, ragionare, discutere, leggere,


scrivere, ascoltare conversazioni interessanti. Sappiamo che l’attività
mentale, per quanto non possa aumentare l’intelligenza fluida, può
aiutare a mantenerla e a rimanere sempre a nostro agio con gli sforzi
cerebrali.
● Possiamo migliorare sempre in ciò che facciamo, imparare nuove abilità e
sviluppare nuove competenze, perché anche l’intelligenza cristallizzata
ha un impatto enorme nella nostra vita e nel nostro successo in ogni
campo, e quella sì che si può allenare.
● Possiamo esporre i bambini (nostri e di chi ci sta a cuore) a quanti più
stimoli mentali e culturali possibili, leggere con loro, incoraggiare
all’attività e impedire loro di interagire passivamente con l’ambiente che
li circonda. Si sa che questo è un fattore determinante nello sviluppo
dell’intelligenza durante la crescita.
● Possiamo prenderci cura del nostro corpo e del nostro cervello e
rallentarne l’invecchiamento: allenamento aerobico, allenamento
anaerobico (pesistica e corpo libero), buona alimentazione, ottima
idratazione, respirazione, meditazione, cura del sonno. Tutte queste
eccellenti abitudini rallentano il decadimento della memoria e di tutte le
altre facoltà cognitive, e migliorano il nostro benessere psicofisico
generale, mettendoci nelle giuste condizioni per esprimere al meglio il
nostro potenziale di intelligenza.

Questi banali consigli non ti renderanno geniale in due o tre settimane,


ma faranno la differenza molto più di quanto potresti immaginare nei
prossimi due, tre o otto decenni. Non sottovalutarli.
11
“Sblocca il potere nascosto della tua mente!”
La cazzata del fatto che useremmo solo il 10% del cervello

A giudicare da certa gente che si vede e si sente in giro, mi viene quasi


da credere alla leggenda metropolitana che vuole che noi sfruttiamo
davvero solo il 10% del nostro cervello. Non servono opere artistiche
immortali come Limitless di Neil Burger, Lucy di Luc Besson o Italiano
medio di Maccio Capatonda per ricordarci di questa diceria: la troviamo
ovunque, intorno a noi. Avrai sentito questa robaccia centinaia di volte, in
altrettante varianti, provo a riassumerla:
Usiamo solo una piccola porzione della nostra mente e delle sue capacità.
Conosciamo poco o niente del cervello e del suo funzionamento, chissà quali abilità sorprendenti
si celano in questa misteriosa scatola nera.
Compra il mio corso o sfrutta l’antica tecnica segreta di Hokuto che ti permetterà di accedere al
tuo pieno potenziale, e sbloccare le tue abilità interiori che finora sono rimaste sopite…

Insomma, l’idea sarebbe che il vero potere del cervello umano sia sopito
all’interno di aree cerebrali inattive, alle quali non avremmo mai accesso
nella vita, se non con qualche tecnica o con l’aiuto di pillole e intrugli
chimici, magari tenuti nascosti dai poteri forti e da Bill Gates. Arrivati a
questo punto del libro ho la sensazione che tu possa anticipare il mio
autorevole giudizio su tutto questo. Come dici? Ritieni che io ritenga che
sia una cazzata? E invece no, questa volta ti sbagli.
Questa non è solo una cazzata: è la Madre di tutte le cazzate, l’origine
primordiale della boiata, il Big Bang della fufferia cosmica, l’Everest delle
bufale, un razzo di Elon Musk sovraccarico di idiozia atterrato
verticalmente negli abissi di analfabetismo funzionale delle masse… Scusa,
mi fermo, questa cosa delle metafore mi sta sfuggendo di mano.
Il fatto è che forse questa è davvero la cazzata originale, quella da cui ha
preso origine l’intero mondo della crescita personale fuffosa che ha a che
fare con la mente. È il peccato originale, ed è mio dovere combatterlo senza
pietà, anche perché è offensivo verso coloro che, studiando psicologia,
neurologia e neuroscienze, hanno dedicato il loro lavoro e la loro vita a
svelare sul serio i misteri del cervello umano. Percepisco la loro
frustrazione e sono a un passo dal diventare un gigante verde enormemente
muscoloso.

Esistono storie che non esistono

Il mito del 10% del cervello, con grande probabilità, si è originato da


una combinazione di fonti e suggestioni, sedimentate nel tempo e
amplificate dal gioco del passaparola e dal marketing aggressivo e
disonesto. C’è chi attribuisce la prima attestazione a una qualche citazione
di Albert Einstein (non poteva che essere così), chi lo vede come risultato
del fatto che chi studiava neurochirurgia o neuroscienze all’inizio del
Novecento effettivamente non comprendeva il funzionamento di buona
parte del cervello.
Scavando un po’ più a fondo, sembra che la paternità “ufficiale” di
questa espressione sia da ricercare in una citazione scorretta di una frase
dello psicologo William James contenuta nel libro How to win friends and
influence people di Dale Carnegie, forse il primo manuale di self-help
all’americana. Praticamente Dale Carnegie è stato il primo motivatore
professionista. Possano gli dèi dell’Olimpo non perdonarlo mai.
A prescindere da dove si sia originata la diceria, comunque, è stata
subito sfruttata da sedicenti formatori e guru, uno dei quali, in particolare,
mi sta particolarmente “simpatico” perché ha unito nella sua strategia
fuffologica ben tre temi che mi stanno a cuore: il cervello e le sue
potenzialità, la magia e le tecniche di memorizzazione. Il mitico,
fantasmagorico, leggendario, favoloso (amo l’ironia) Harry Lorayne, che
non si faceva mancare niente e la cui figura ho approfondito anche grazie al
lavoro di Massimo Polidoro, che lo ha analizzato a fondo.
Lorayne era (anzi, è, perché mentre scrivo queste parole è ancora un
arzillo novantaseienne) un mago ed esperto di tecniche di memorizzazione,
e negli anni Sessanta prometteva, con seminari di sole quarantotto ore, di
portare chi lo seguiva oltre il limite del 10%, per acquisire capacità di
concentrazione, motivazione e apprendimento impensabili, sovrumane…
magiche.
Naturalmente il suo training non funzionava, ma lui intanto il biglietto te
lo aveva venduto, ti spiegava quattro trucchetti mnemonici e un paio di
illusioni magiche, ti faceva un po’ di motivazione spiccia e via, verso nuove
avventure. Ha girato il mondo per anni con questo format e si è messo da
parte una quantità non indifferente di pecunia. Tra l’altro, diamo a Harry
quel che è di Harry, il suo The memory book, nonostante la quantità oscena
di pseudoscienza e consigli assurdi e inapplicabili che contiene, è ancora a
oggi un libro imprescindibile per chi si interessa di tecniche di
memorizzazione, perché contiene varianti e spiegazioni davvero particolari,
che non si trovano altrove. Maledetto Harry, era un fuffarolo, ma anche un
vero maestro delle arti che praticava. Oggi Lorayne è in pensione ma non
avere timore, salta sempre fuori qualcuno che ne rispolvera lo stile, magari
ibridandolo con altre stupidaggini come quelle che abbiamo già descritto
negli scorsi capitoli sul migliorare l’intelligenza o sulla lettura veloce.
Ma qual è la verità? Che cosa dice la scienza ufficiale? La verità è che
dagli inizi del Novecento a oggi le nostre conoscenze dell’anatomia e del
funzionamento del cervello sono notevolmente aumentate e, sebbene
rimangano aperte domande e campi di ricerca per le neuroscienze, oggi
conosciamo pressappoco tutte le aree del cervello e il loro funzionamento di
base. La frontiera dello studio della mente è tutt’altra.
Sintetizziamo: no, non usiamo una piccola porzione della nostra mente
quando pensiamo e no, purtroppo non ci sono abilità nascoste inespresse,
celate chissà dove. Dico purtroppo, perché io per poter essere come Charles
Xavier degli X-Men mi sarei volentieri rasato a zero.
Certo, esiste una specializzazione di alcune aree del cervello deputate a
compiti specifici, ma queste aree sono molto più interconnesse e sinergiche
di quanto si possa pensare e, per ottenere la massima efficienza energetica,
il cervello distribuisce l’attivazione dei neuroni in diverse regioni.
I nostri 85 miliardi e passa di neuroni non sono mai tutti attivi
contemporaneamente, questo è poco ma sicuro, ma non preoccuparti:
sfruttiamo sempre l’intera architettura della mente, nulla va sprecato. Il
cervello fa solo economia: non ha senso sprecare energie per attivare aree
che non sono richieste in un determinato momento. Ha ancora meno senso
rischiare che aree diverse attivate in contemporanea, senza motivo, entrino
in conflitto o producano risultati subottimali.
Usiamo un’altra metafora delle mie: nessuno si lamenta che il proprio
computer non usi costantemente tutta la potenza del processore, non
riempia tutta la RAM o non sia sempre al massimo del dispendio energetico,
con le ventole che fanno il rumore di un elicottero da guerra. Sarebbe folle:
non è importante solo la potenza del computer ma anche (e soprattutto) la
sua efficienza, la sua capacità di gestire le risorse a seconda del programma
che stiamo utilizzando o del processo che stiamo svolgendo. Quando è
necessario spingere al massimo, spinge al massimo, quando non è
necessario, risparmia. E di sicuro non si attivano programmi inutili quando
non servono. Non diresti mai che il tuo computer sfrutta solo il 10% delle
sue potenzialità perché quando rispondi alle mail il processore non va
arrosto e la scheda video non sta renderizzando video in qualità 8K
gridando pietà. Se per caso succedesse, invece, penseresti che il computer è
rotto, che qualcosa non va.
Tornando al cervello, il rischio di una sovra-attivazione, oltre che a un
dispendio energetico incredibile e a un potenziale conflitto tra i processi
cognitivi, porterebbe a vivere con un perenne mal di testa e a essere
costretti a usare l’Oki al posto dello zucchero a velo sul pandoro.
A questo punto, per una volta, possiamo delineare una regola universale,
semplice da seguire: chiunque ti parli di potenziare la mente oltre il suo
limite, chiunque citi il 10% in modo non sarcastico, chiunque accenni a
capacità nascoste e segrete cui accedere, può rientrare solo in uno di due
casi:

● è in malafede e vuole venderti qualcosa di fuffoso;


● non sa di che cosa sta parlando.

Non ci sono altre alternative e, in entrambi i casi, ti conviene starne alla


larga.

ESP… erienze ridicole

Visto che ci siamo, spendiamo due parole anche su un altro argomento


che ha a che fare con le millantate potenzialità nascoste della mente, il
meraviglioso mondo dei (presunti) poteri ESP. ESP è l’acronimo
dell’espressione inglese Extrasensory perception, coniato dallo psicologo
J.B. Rhine negli anni Trenta… indovina dove? Ma certo, negli Stati Uniti,
che domande. Negli anni Sessanta e Settanta, il campo della parapsicologia
ebbe un vero boom, alimentato anche da suggestioni post-belliche, ricerche
fantasiose finanziate dai governi e paranoie da piena Guerra fredda.
Tra i poteri nascosti nella nostra mente, secondo questo campo di
ricerca, ci sarebbero estremo affinamento delle percezioni sensoriali e delle
proiezioni astrali, precognizione, chiaroveggenza, telepatia, rabdomanzia e
psicocinesi. Quest’ultima abilità, quella di spostare o manipolare oggetti col
solo potere della propria concentrazione, è forse quella che più di ogni altra
solletica l’immaginario collettivo. “Mind over matter”: la mente domina la
materia, un’altra definizione dai nostri amati Stati Uniti. Un esempio
famosissimo è quello di Uri Geller, l’illusionista, mentalista e cialtrone
supremo che negli anni Settanta spopolava nelle tv di tutto il mondo
piegando cucchiaini, a detta sua, solo grazie ai suoi poteri. Ovviamente, si
trattava di trucchi spacciati per abilità sovrannaturali, come il mitico James
Randi dimostrò e spiegò in più occasioni, ma questo non impedì a Geller e
ad altri di costruire intere carriere sulla falsa pretesa di padroneggiare abilità
mentali precluse a molti.
Va da sé che nessun esperimento scientifico controllato ha mai accertato
l’esistenza di alcuna capacità ESP, non si sono mai ottenuti risultati ripetibili
e verificabili, non è mai stato pubblicato uno studio positivo in materia su
riviste accreditate. E non pensare che chi si occupa seriamente di psicologia
e neuroscienze abbia rifiutato di sottoporre a test queste capacità, scrollando
le spalle e guardando dall’altra parte. Tutt’altro: gli studi ci sono stati
eccome, molti condotti da sinceri sostenitori della parapsicologia. Ma
nonostante decenni di sforzi, a oggi di prove empiriche e riproducibili non
ne esistono.
L’unica cosa che si può trovare sono le testimonianze e i racconti di
persone che sostengono di avere poteri speciali o di averli osservati in altri,
ma se è per quello esiste pure gente che giura di essere stata rapita dagli
alieni e portata su Alpha Centauri o di avere rapporti sessuali con fantasmi,
quindi capisci bene che un racconto, come prova, non è proprio solidissimo.
C’è chi, poi, ha venduto per decenni la promessa di far ottenere abilità
speciali attraverso i propri percorsi mistici e le proprie pratiche
pseudoreligiose. L. Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, ha costruito
una fortuna e una setta di enorme successo, per fortuna oggi in declino,
anche su queste premesse. Secondo Hubbard, chi riuscisse a raggiungere lo
stato di “Clear”, attraverso il processo dell’auditing (la versione
Scientology della psicoterapia) avrebbe accesso a una serie di capacità
incredibili: l’abilità di generare elettricità in determinate condizioni, di
auto-guarirsi ed estendere la propria aspettativa di vita, di aumentare il
proprio QI, di influenzare le persone, di levitare, di esibire una lucidità
mentale e acutezza sensoriale sovrumana e perfino di… aumentare di peso a
piacimento. Sì, sul serio, tra le tante sparate Hubbard ha ribadito, a più
riprese, la capacità di uno scientologist di livello avanzato di aumentare la
propria massa corporea in qualunque momento fino a quindici chili, solo
grazie alla propria volontà. Il che è buffo, perché, al contrario, io conosco
un metodo assolutamente scientifico per aumentare di quindici chili grazie
alla mancanza di volontà! Si basa su pranzi coi parenti, lasagne imbottite di
besciamella e settimane di sensi di colpa.

La pillola magica

Va bene, il cervello non ha poteri nascosti ed è efficiente così com’è,


lasciamo da parte le fregnacce… Ma come la mettiamo con l’intervento
della chimica? Esistono pillole magiche che possano aumentare le nostre
capacità cognitive e renderci superumani? Possono aiutare nootropi, smart
drug e affini? Sì e no. Ma più no che sì.
Nel mondo dello studio accademico, ma anche del lavoro
ipercompetitivo, i tentativi di doping cognitivo si sprecano e le statistiche
mondiali ci riportano una situazione di sempre più frequente abuso di
sostanze. Ti faccio una carrellata veloce di alcune delle sostanze più usate e
discusse per aumentare le capacità di ragionamento, concentrazione e
memoria, riassumendo nel modo più diretto possibile i loro effetti positivi e
negativi.

Anfetamine
Ci sono vari farmaci per il trattamento del deficit dell’attenzione che,
assunti in modo insensato (e illegale) da persone non affette da ADHD hanno
effetti sulla capacità di concentrazione e la resistenza alla fatica. Il farmaco
più noto e famoso in questo senso è l’Adderall, protagonista di una vera e
propria epidemia di consumo tra ragazzi e ragazze negli Stati Uniti e anche
in Europa. I vantaggi sono innegabili: si studia molto più a lungo e ci si
distrae molto di meno. Non sembrano esserci, invece, vantaggi significativi
in termini di apprendimento e memoria.
Che meraviglia, dirai tu, dove posso procurarmelo? Un momento, un
momento, a fronte di questi innegabili vantaggi potresti trovare interessanti
anche gli effetti collaterali. Prima di tutto, il crash post-assunzione: quando
l’effetto svanisce non torni al livello normale, torni molto più giù, sia come
capacità di concentrazione sia come umore. Ma questo è ancora niente,
perché l’altra insidia incredibile è l’assuefazione e la dipendenza fisica e
psicologica. Gli effetti positivi si riducono a ogni assunzione e il crash si fa
sempre più intenso, portando a consumarne sempre di più e sempre più
spesso. Gli effetti collaterali, come per tutti i farmaci e le droghe,
dipendono dalla dose: più ne prendi e più è probabile che ti facciano male e
a ogni uso il danno sarà più serio. Il problema è che mantenere moderata
l’assunzione è estremamente difficile. Col tempo e l’assuefazione, si arriva
a sviluppare una sorta di incapacità di provare gioia senza spararsi una dose
e si comincia quindi ad assumere l’Adderall non solo per studiare, ma anche
per uscire a divertirsi, godersi una serata in discoteca, fare sesso… E gli
effetti, in alcuni casi, rischiano di protrarsi anche dopo aver smesso di
assumere la sostanza ed essere usciti della dipendenza (sempre se ci si
riesce).
E vediamoli questi sintomi… Nevrosi? Certo che sì. Paranoie, anche
gravi? Puoi scommetterci. Depressione? Ovvio. Disfunzione erettile,
ipertensione o ipotensione, tachicardia, dolori addominali, nausea, perdita
dell’appetito con conseguente drastica perdita di peso, annebbiamento della
vista, diarrea, insonnia, irritabilità, sbalzi d’umore… come potremmo
privarcene?
Quindi sì, assumendo questa meravigliosa sostanza senza controllo e
autorizzazione medica stai violando la legge, distruggendo il tuo corpo e
compromettendo la tua capacità a lungo termine di “funzionare” a livello
cognitivo. Ma, ehi, le tue sedute di studio per questa sessione durano ben tre
ore in più ogni giorno!
È veramente una pazzia: l’Adderall e tutte le anfetamine del genere sono
farmaci potenti che vanno impiegati solo su prescrizione medica e solo in
contesti, condizioni o con patologie che lo richiedano. Punto.

Altri psicostimolanti
Ci sono altri farmaci dagli effetti simili a quelli delle anfetamine, sempre
prescritti per l’ADHD o la narcolessia, tra i più famosi il Modafinil (o
Provigil) e il Ritalin. Cambiano le strutture chimiche, ma il messaggio è lo
stesso: funzionano, sarebbe scientificamente scorretto dire il contrario, ma
hanno senso solo a dosaggi controllati, sotto costante monitoraggio medico
e solo per il trattamento di disturbi e patologie. In tutti gli altri casi, specie
per l’assunzione illecita e autoregolata, a fronte di un lieve beneficio
producono un enorme danno alla salute, spesso irreversibile. Non pensarci
nemmeno.

Nicotina
Strano ma vero, la nicotina contenuta in sigarette e sigari ha effetti che
possono a prima vista sembrare favorevoli allo studio e alla cognizione in
genere: un lieve effetto analgesico, un miglioramento del tono dell’umore e
un effetto di potenziamento delle performance cognitive (in particolare
dell’attenzione e della memoria). Non si tratta di effetti eclatanti, ma
neanche trascurabili. Mica male, no? Sì, eccellente, senonché… sono anche
questi effetti a favorire lo sviluppo di una dipendenza grave. Eh già, pure la
nicotina provoca dipendenza fisica e psicologica, e con una facilità
disarmante. E, mai una gioia, a lungo termine produce effetti collaterali
devastanti in chi ne è dipendente. Livelli di stress aumentati
esponenzialmente, ansia, stati depressivi, irritabilità, difficoltà di
concentrazione, disturbi del sonno, tremendi crash quando si cerca di
disintossicarsi. Esistono anche studi sugli animali che suggeriscono come la
nicotina, specie in adolescenza, possa influenzare negativamente sullo
sviluppo del cervello. Ma non sono studi conclusivi.
Ancora una volta, più male che bene. Bocciata di brutto anche la
nicotina.

Caffeina e teina
Senza dubbio lo stimolante più diffuso al mondo, che sia consumato
sotto forma di caffè, bevande energetiche o direttamente in capsule, proprio
come un integratore. La caffeina funziona. Che si tratti di studio, lavoro o
allenamento, è una delle sostanze col migliore rapporto tra sicurezza ed
efficacia. Per evitare, però, che i suoi benefici svaniscano, uno stratagemma
che funziona davvero è quello della “ciclizzazione”: alternare periodi di
assunzione a periodi di astinenza di almeno una settimana, per trarre il
massimo da questo nootropo nel lungo termine.
Un modo per contrastare i possibili effetti negativi della caffeina
(l’eccessiva eccitazione, per esempio, o l’interferenza col sonno) è
combinarla con la teanina (no, non la teina, che è sempre caffeina con un
nome diverso): un amminoacido dotato di effetti calmanti. Non a caso
questa sostanza ha iniziato a essere inserita in alcuni energy drink, proprio
per limitare gli effetti collaterali della caffeina. Per dosaggi precisi ti
consiglio di consultare chi si occupa di medicina e nutrizione, non certo
divulgatori esperti di metodo di studio.

Creatina
Croce e delizia dei palestrati di tutto il mondo per i suoi effetti
“muscolari”, serve anche a chi studia e ai knowledge worker? Pare di sì.
Questa sostanza si può trovare anche nel cibo, prevalentemente nella carne
e nel pesce, ma il suo utilizzo è molto diffuso, sotto forma di integratore in
polvere o in compresse, tra chi si allena. I suoi effetti nel migliorare la
prestazione durante gli allenamenti di resistenza sono piuttosto solidi e
documentati.
Dal punto di vista cognitivo, alcuni studi sembrano suggerire un
miglioramento sul piano della memoria a breve termine, e una riduzione
dell’affaticamento mentale dopo alcune settimane dal suo utilizzo
(soprattutto nei soggetti che non ne assumono abbastanza attraverso la
dieta) e una diminuzione parziale degli effetti negativi della mancanza di
sonno. Attenzione: questo non significa che tu possa compensare le ore di
sonno perse con una maggior quantità di creatina. Non funziona così. In
ogni caso, non ci sono effetti collaterali significativi, se non leggeri
problemi intestinali in caso di sovradosaggio, ma si tratta senza dubbio di
uno dei nootropi più sicuri in circolazione.
Io, che quando non scrivo o non lavoro passo il tempo a sollevare
tonnellate di ghisa, l’ho assunta per anni.

Integratori vari di fosforo, magnesio e così via


Il discorso sarebbe lungo e complicato, ben al di là delle mie
conoscenze. Sintetizzo e vado dritto al punto: non sono necessari e non
fanno una gran differenza e di sicuro danno risultati molto meno netti di
quanto pubblicizzato dalle case farmaceutiche che li producono. Questo è
vero, però, fintantoché mantieni un’alimentazione sana, bilanciata, varia e
con ingredienti di qualità. Se invece mangi da schifo, possono aiutarti, ma,
in ogni caso, non li assumere senza aver consultato un medico e senza aver
preso in considerazioni eventuali patologie, come, per esempio, problemi ai
reni.

Cocaina
Devo davvero spiegartelo? Prendi gli effetti collaterali che abbiamo
descritto per anfetamine e psicostimolanti e moltiplicali per dieci in gravità,
pericolosità e illegalità. Non serve aggiungere altro.

Ashwagandha
Un’erba dal nome esotico che viene utilizzata nella medicina ayurvedica
(non farti domande) e sembra avere una certa efficacia nel ridurre i livelli di
stress e ansia. I suoi effetti calmanti sul sistema nervoso sembrano dovuti
proprio alla diminuzione dei livelli del cosiddetto “ormone dello stress”,
ovvero il cortisolo. Non pare avere effetti collaterali significativi. Quindi se
fai fatica a rilassarti e magari hai anche problemi a dormire puoi prenderla
in considerazione per abbassare il tuo livello di energia e riuscire anche a
concentrarti meglio. Viceversa, se già dormi sul banco mentre il docente
spiega o in ufficio davanti al computer, l’ashwagandha non è il nootropo
che fa per te.
Di sostanze di cui parlare ce ne sarebbero mille, ma basta così, un’idea
te la sei fatta: la pillola magica non esiste, le sostanze che davvero hanno un
impatto significativo sulle nostre prestazioni mentali spesso sono
pericolose, hanno effetti collaterali che superano ampiamente i benefici,
sono illegali e provocano dipendenza. Tutte le altre, invece, presentano
benefici abbastanza modesti o vanno ciclicizzate per non perderne gli effetti
per assuefazione.

Simply respect the chemistry.


Chemistry must be respected.

“Semplicemente, rispetta la chimica. La chimica deve essere rispettata.”


E se lo diceva Walter White in Breaking Bad, direi che possiamo fidarci: lui
sì che usava più del 10% del suo cervello.
12
“Se ci credi abbastanza, l’universo lo farà succedere!”
La cazzata della legge dell’attrazione

La tua mente influenza certamente la realtà: nel senso che se cominci a


credere a pure idiozie, la tua realtà diventerà in fretta miserevole. La “legge
dell’attrazione” è forse il prodotto più pigro, egoistico, imbecille e snob del
movimento di self-help anglosassone. È la sconfitta del pensiero razionale e
la suprema vittoria di illusi e privilegiati che sono convinti di “meritarsi”
successo, fama, denaro, potere solo in virtù del fatto che lo desiderano e ci
credono. Senza alcuna ironia, sono convinto che credere in questa
devastazione del buon senso possa portare le persone a vivere una vita di
frustrazione e sconfitta. Non è solo stupido, è proprio pericoloso.
Per capire il perché io sia così incattivito con questa macchina spremi-
soldi mascherata da para-spiritualità new age, bisogna capirne a fondo la
sua storia e il suo presunto funzionamento.

Una storia… segreta

La legge dell’attrazione ha preso molti nomi nel corso degli anni, ma


possiamo datare l’origine dell’espressione intorno alla metà dell’Ottocento
e il suo sviluppo agli inizi del Novecento. Nel suo libro enciclopedico La
grande armonia del 1855 un guru spirituale americano (e te pareva), tale
Andrew Jackson Davis, usa per la prima volta questo termine per riferirsi a
confuse questioni di anime, oltretomba, leggi universali e chissà cos’altro.
Davis praticava, tra le altre cose, la guarigione magnetica, il mesmerismo
animale e si spacciava per chiaroveggente. Giusto per farti capire il
personaggio.
Un decennio più tardi un altro caposcuola spirituale, Phineas Quimby,
padre del movimento del “Nuovo pensiero”, formalizza l’idea secondo la
quale le malattie e le disgrazie che accadono agli esseri umani vengono
tutte dalla mente e dal suo impiego errato. Al contrario, quindi, la felicità, la
salute e il successo sono il riflesso di una mente impiegata in modo corretto.
Nel 1886 esce The Law of success, un lavoro di Prentice Mulford che
descrive alla perfezione il meccanismo della legge dell’attrazione e lo
espande. I legami con l’occultismo classico si fanno evidenti.
Altro libro epocale per lo sviluppo di questo concetto è Pensa e
arricchisci te stesso, di Napoleon Hill, uscito alla fine degli anni Trenta,
dove l’enfasi sulla legge dell’attrazione comincia a spostarsi dalla salute e
felicità a un campo molto più terra terra: il fare palate di denaro.
Saltiamo ai giorni nostri, negli anni Duemila, quando la legge
dell’attrazione viene ripescata dai polverosi cassetti della storia e torna alla
ribalta. Riesce in questo maestoso compito un libro, ormai assurto a status
mitologico: The Secret. Partiamo dall’autrice, Rhonda Bhyrne, classe 1945,
australiana (oh, per una volta niente USA). Ha lavorato come autrice e
produttrice in tv per programmi di spessore come “Incontri OZ, UFO in
Australia” e poi, come in tutte le storie di salvezza di tutti i guru di sempre,
ha attraversato un terribile periodo di smarrimento e depressione, dal quale
è uscita scoprendo il pensiero positivo, il mondo dell’auto-aiuto e,
naturalmente, la legge dell’attrazione. Ma, soprattutto, rendendosi conto,
come in un’epifania, che scrivere boiate motivazionali per allocchi produce
pacchi di grano. Da lì, la svolta. Nel 2006 escono il documentario e il libro
di The Secret che, insieme, le fruttano oltre trecento milioni di dollari.
Trecento, hai letto bene. A condire il messaggio per nulla innovativo
troviamo citazioni bibliche, misticismo quantico, complottismo da bar,
pseudostoria, riferimenti pop. Una roba sconcertante. Da allora a oggi, negli
ultimi diciassette anni questa arzilla settantenne, ha passato il suo tempo
contando i dollarozzi e mungendo la vacca grassa fino all’ultima goccia,
con sequel su sequel su sequel che dicono tutti le stesse identiche cose e
vagonate di merchandising, ritrovi, apparizioni televisive e quant’altro.
Altro autore importante, collaboratore di Rhonda Bhyrne, è stato Bob
Proctor, oggi scomparso, che riprendeva il filone di Napoleon Hill. Un altro
ancora è James Arthur Ray, che tra i tanti successi della sua carriera di guru
ha causato la morte di tre persone durante un rito di iniziazione
motivazionale in una capanna sudativa nel deserto, ed è finito in galera.
E la saga continua.

Come (non) funziona la legge dell’attrazione

Adesso è il momento di sviscerare per bene questo pappone, di capirlo,


per poter valutare quanto sia inutile e pericoloso.
Partiamo con le basi delle basi, il fondamento teorico e spirituale: la
mente domina la materia, il pensiero influenza la realtà. I tuoi pensieri
regolano tutto di te, della tua vita, del tuo corpo, di ciò che ti succede ogni
giorno. Ogni cosa negativa che ti succede nella vita deriva da pensieri
negativi e sbagliati, ogni cosa positiva da un atteggiamento corretto. Se vivi
in povertà è perché i tuoi paradigmi mentali ti impediscono di accedere alla
ricchezza. Se vivi su uno yacht da 150 metri regalato da un oligarca russo è
perché pensi nel modo giusto, visualizzi, credi, rimuovi i tuoi limiti e le tue
credenze limitanti. Se soffri di depressione è perché non hai ancora capito
come portare felicità nel tuo pensiero.
Esiste una forza universale segreta che materializza nella tua vita ciò che
desideri e pensi, a patto che tu lo voglia abbastanza, ci creda abbastanza, ci
pensi abbastanza, ti sforzi abbastanza di visualizzarla. L’universo cospira
per realizzare i tuoi desideri, se tu impari a comunicare con esso.
Il processo per applicare la legge dell’attrazione si articolerebbe in tre
fasi.

● Ask: chiedi all’universo ciò che vuoi. Scrivilo, dillo ad alta voce,
dichiaralo e pensaci con attenzione.
● Believe: credici, visualizzalo, pensaci di continuo, riscrivilo, ridillo ad
alta voce, sii positivo, prova gratitudine per ciò che hai già, mantieni una
mentalità sempre positiva e motivata.
● Receive: ricevi quello che hai chiesto.

E poi ricominci da capo. Facile, no?


Ma, attenzione, non si parla solo di desideri generici tipo “voglio fama e
ricchezza”. No, anche di obiettivi materiali, concreti, specifici: “Voglio una
Porsche Carrera 911 Turbo” e, se ci penso a sufficienza, prima o poi si
materializzerà in garage o l’universo, la forza cosmica, troverà il modo di
farmela avere o di permettermi di comprarla. Io desidero una casa da ottanta
milioni a Malibu, in California, e la legge dell’attrazione mi metterà in
condizione di averla. Attrai nella tua vita ciò che desideri e in cui credi.
Non in senso metaforico, ma letterale.
Certo, le schiere più moderate aggiungeranno a questo processo uno step
intermedio, più realistico: ti diranno che non basta stare ad aspettare,
bisogna anche lavorare duramente, agire, muoverti, sperimentare,
perseverare per arrivare al proprio obiettivo. E vorrei anche vedere! Ma
anche queste persone più moderate, che conservano il buon senso
sufficiente per agire oltre che aspettarsi che il mondo regali loro le cose,
insisteranno sul fatto che la base di tutto è il pensiero. Se non cambi ciò che
c’è nella tua mente a livello conscio e, soprattutto, inconscio non potrai mai
avere successo e risultati in nessun campo.
E se pensi che non possano esistere persone convinte che basti cambiare
il pensiero per far cambiare la realtà in senso fisico, beh, ti sbagli,
purtroppo. Ho assistito di persona a situazioni in cui gente che credeva a
questa roba si convinceva di poter materializzare un posto vuoto per trovare
parcheggio in centro o di poter cambiare il clima per andare in spiaggia. Io
c’ero, e “ne ho viste cose che vuoi umani non potreste immaginarvi” …
Persone che non andavano dal medico perché sarebbero guarite grazie alla
visualizzazione. Persone che spendevano tutti i loro soldi in corsi
motivazionali o sul mindset invece di investirli nel loro progetto, nel loro
lavoro o nella loro istruzione, con la convinzione che il cambio di pensiero
avrebbe portato in automatico a enormi ricchezze, avrebbe attratto il
successo.
Ti rendi conto della gravità di questo modo di pensare? Riesci a
immaginarne le conseguenze? Non trovo le parole per descriverti lo
sconforto viscerale che mi si materializza nel colon pensando ai milioni di
persone che credono che davvero sia così che funziona il mondo. Peggio,
non puoi immaginare l’imbarazzo sottopelle che provo nel pensare che,
anche se per poco, ci ho creduto un po’ pure io. Non sono mai stato un
estremista, per carità, ma nei miei momenti più bui qualcosa ha attecchito
pure su di me.
La legge dell’attrazione è la celebrazione massima della pseudoscienza
new age: forze cosmiche inesistenti che si configurano come una versione
contemporanea della preghiera speranzosa, rivolta alla divinità del bosco
sperando che la carestia finisca. Non mi metto neanche a spiegarti perché
tutto questo non abbia senso a livello reale, scientifico, fisico, perché mi
sembrerebbe di insultare la tua intelligenza. Mi limito a dirti, sobriamente,
che non esiste alcun tipo di prova che i pensieri abbiano un impatto sulla
realtà, al di fuori della nostra mente e del nostro corpo; che la fisica
quantistica non ha nulla a che vedere con questo; che le neuroscienze non
hanno mai trovato neanche un indizio che possa andare in questa direzione;
che la psicologia ha smentito più volte le boiate sui paradigmi inconsci che
ci impediscono di essere ricchi e ha ridimensionato l’importanza della
motivazione e della positività sulla salute mentale e fisica.
Questa roba ha lo stesso spessore culturale e la stessa veridicità
scientifica dell’aruspice romano che ravanava nelle budella di un animale,
sperando di capire come sarebbe andata a finire la guerra. Non è solo,
ovviamente, una cazzata, come dicevo in apertura di capitolo è pure un
modo di pensare pigro, egoista e autocompiaciuto, che ti fa credere che il
mondo ti debba qualcosa, proprio a te, solo perché tu lo vuoi; che ti illude di
essere per forza speciale, di essere superiore alle circostanze, immune dalle
tragedie dell’esistenza, meritevole a tutti i costi di ricevere il successo su un
piatto d’argento.
Ed è proprio per questo che piace a così tanta gente: perché è sia una
illusione facile, una speranza a basso costo, sia una coccola all’ego, una
rassicurazione che in fondo sì, di sicuro andrà tutto bene, perché tu sei
meglio degli altri e te lo meriti.
E invece no.

Una manna dal cielo

Non voglio però che passi l’idea che non ci sia nulla di utile nel pensiero
positivo, nella gratitudine e nella visualizzazione. Tutt’altro.
Essere ottimisti, guardare al futuro senza il velo cupo della tristezza
sempre davanti agli occhi, provare gratitudine per quello che abbiamo e per
le persone che ci stanno intorno, agire in nome delle proprie ambizioni,
immaginare e visualizzare i propri obiettivi, tutto questo può essere utile.
Molto utile. Io stesso, che nei momenti difficili tendo per natura a essere
pessimista, ansiogeno, cupo e riflessivo, provo grande beneficio nel portare
deliberatamente la mia attenzione su ciò che di bello c’è nella mia vita, così
come trovo nuova motivazione nell’immaginare i traguardi che voglio
raggiungere e nel pensare: “Sì, ce la farò!”.
La visualizzazione ha effetti importanti, concreti e misurabili
nell’aumento della performance fisica e mentale, nella gestione dell’ansia,
nella regolazione dell’umore. È curioso il fatto che possa essere utile non
solo la visualizzazione positiva, ma anche e soprattutto (secondo alcune
ricerche recenti) quella negativa. Concentrarsi su ciò che potrebbe
succedere nel caso fallissimo, anticipare i problemi che potremmo trovarci
di fronte, immaginare le conseguenze negative di una nostra rinuncia a
darci da fare, sembra portare a sostanziali miglioramenti nella produttività e
nel focus.
Ci sono poi gli influssi del buonumore e dell’effetto placebo sulla salute
psicofisica, innegabili: l’ottimismo e la positività hanno su di noi e su chi ci
circonda effetti potenti, ci rendono più simpatici, aperti e piacevoli da
frequentare.
È vero pure che esistono le profezie negative autoavveranti: se
manchiamo di autostima e ci convinciamo che falliremo, la nostra
probabilità di successo diminuisce, così come la nostra efficacia,
concentrazione e abilità nella performance.
E poi, il muoversi verso i nostri obiettivi, pianificare il futuro, aumenta
la probabilità che qualcosa di buono accada e che la vita si muova in quella
direzione. Tutti questi fattori contribuiscono senza alcun dubbio alla
costruzione della felicità e del successo personale. Se preso con intelligenza
e moderazione, un atteggiamento del genere può migliorare la vita.
Ma, quindi, che problema c’è con la legge dell’attrazione se, con una
dose generosa di virgolette, «“‘funziona’”»? Il problema è che queste poche
pillole di buon senso e psicologia applicata vengono travisate, esagerate
oltre ogni limite possibile, legate a credenze mistiche, elevate a suprema
cazzata ultradimensionale, trasformate in una religione della motivazione
per capre.
Dire che essere positivi è utile non significa che porti automaticamente
risultati (anzi, il positive thinking esagerato è correlato anche a depressioni
gravi ed effetti opposti). Dire che la visualizzazione aiuta ad accrescere
l’efficacia personale non significa che la struttura della realtà si modifichi
con il nostro pensiero. Dire che il buonumore e la gratitudine ci rendono
persone migliori e più piacevoli non significa che ti ritroverai una Porsche
in garage se elimini ogni pensiero negativo.
Ripetiamolo: la nostra capacità di visualizzazione e di pensiero non ha
alcun influsso sulla struttura del reale, sulle leggi della fisica o sulle azioni
altrui. Quindi, facciamo così: io ti faccio un elenco di otto buoni consigli di
pensiero positivo, da applicare nella tua vita e che possono realmente
portare a buoni risultati; tu, in cambio, mi prometti di non farti abbindolare
da quella gente e dalle loro credenze ridicole. Ok? Ok!
Vai coi consigli.

● Ogni volta che ti senti giù, perché lo studio non sta andando come
vorresti o per qualsiasi altro motivo, prenditi qualche minuto per
focalizzare la tua attenzione su tutti i risultati che hai ottenuto in vita tua.
Pensa a ciò che di bello e positivo hai nel tuo mondo: le persone che ti
vogliono bene, le opportunità che hai davanti, le esperienze che hai
vissuto. Cerca dentro di te quel sentimento di gratitudine e lascialo
sfogare un po’. Se ti fa sentire bene, prova anche a scriverlo.
● Sempre a proposito di gratitudine positiva, abituati a ringraziare le
persone per ciò che fanno per te, anche quando sono cose banali e
scontate. Ringrazia più spesso, esprimi i tuoi sentimenti positivi ad alta
voce, fa’ complimenti (non roba fuori luogo, mi raccomando).
● Sfrutta la visualizzazione positiva per immaginare i risultati che vuoi
ottenere (nello studio come in qualsiasi campo), la vita che avrai quando
li avrai ottenuti e le azioni che dovrai compiere per raggiungerli. Ritorna
spesso su quelle immagini, rafforzale, ripensaci e arricchisci la
visualizzazione di sempre maggiori dettagli.
● Pianifica le tue giornate, le tue settimane, i tuoi obiettivi a lungo termine,
non lasciare che i tuoi desideri rimangano nella “sfera dei miracoli da
chiedere all’universo”, prova a trasformarli uno alla volta in progetti
concreti, misurabili, organizzati. E poi mettiti all’opera.
● Sfrutta la visualizzazione negativa per anticipare i problemi e per
ricordarti che cosa c’è in gioco. Preparati a quando le cose andranno
male, ragiona su che cosa potrebbe succedere di brutto e pensa a come
evitarlo.
● Ogni volta che agisci concretamente per raggiungere un obiettivo (ogni
volta che ti metti a studiare, che termini un lavoro o che eserciti
un’abitudine cui tieni), prenditi un minuto per prendere nota dei tuoi
progressi e per congratularti con te stesso o te stessa per il percorso che
stai facendo.
● Prenditi cura del tuo stato psicofisico, perché avrà un diretto effetto sul
tuo umore, sulla tua efficienza mentale e sulla tua salute. Dieta varia ed
equilibrata, movimento fisico aerobico, movimento anaerobico, cura del
sonno, meditazione, socialità… quante più di queste cose riesci a inserire
nella tua vita, tanto meglio sarà.
● Allena e coltiva l’ironia, anche di fronte alle cose terribili che ti accadono
e che non sono sotto il tuo controllo. Abituati a reagire con una risata e
un sorriso anche e soprattutto, quando sembrano pioverti sulla testa le
sfighe più nere. Scherza sulle cose che vanno male, scherza sulle cose
che vanno bene, scherza su tutto.
● Consiglio bonus: ricordati che l’universo non ti deve proprio niente, che
le leggi della natura non sono al tuo servizio e che tutto ciò che hai e che
avrai nella tua esistenza dipende dalle condizioni in cui ti ritrovi, dalle
circostanze e da come le affronti. Eliminare credenze pseudoscientifiche
e false illusioni è un primo passo concreto per iniziare a darsi da fare sul
serio. Pensa positivo, ma non in modo ottuso.

Questo è tutto, non ti serve altro. Non ti servono leggi strane, anzi: non
esistono leggi strane. È questo il vero segreto.
13
“Riprogramma la tua vita!”
La cazzata della PNL

Questo capitolo è dedicato al mio amico Gennaro Romagnoli, psicologo


e psicoterapeuta d’eccellenza, divulgatore e autore integerrimo, mente
sopraffina e perfetto compagno di chiacchierate e abbuffate. Insieme,
abbiamo discusso di PNL fino alla nausea, conosciamo entrambi la
letteratura scientifica sul tema (lui molto meglio di me, a essere onesti) e
siamo d’accordo sul 90% di quello che leggerai qui, forse perfino sul 95%.
Ma su quel 5% di giudizio finale ci divertiamo a “litigare”: Gennaro è un
pelino più morbido di me, tende a perdonare i “piennellari” per le loro
(spesso) buone intenzioni e a scusarli per l’origine positiva della disciplina
e per le (poche) strategie di buon senso che contiene. Debole. Gennà, sei
troppo buono, ma ti voglio bene lo stesso. Un giorno riuscirò a convertirti al
Lato Oscuro della Forza e blasteremo insieme la PNL fino all’oblio.
E adesso qualcuno lo facciamo arrabbiare sul serio, di sicuro. Come
faccio a esserne certo? Beh, è semplice, perché l’ho già fatto una volta.
Stiamo parlando di più di tre anni fa, per la precisione del 18 novembre
2019, quando sul mio canale YouTube ha debuttato un mio video dal titolo
PNL: la PSEUDOSCIENZA della “CRESCITA PERSONALE” - [DEBUNKING]. Il video
non è esploso né è andato virale quanto sperassi, ma mi ha attirato una
buona dose di contestazioni, insulti e attacchi vari, in pubblico, nello spazio
commenti, ma anche e soprattutto in privato, in chat e fra conoscenti vari.
Che cosa dicevo di tanto controverso e provocatorio in quel video? Te lo
riassumo: la PNL, la famosissima Programmazione Neurolinguistica, “è una
cagata pazzesca”. Invece degli applausi, ho preso novantadue minuti di
sberle in faccia. Me la sono cercata, sapevo a che cosa andassi incontro, ma
è stato più forte di me, perché io questa roba proprio non la sopporto. La
PNL mi infastidisce non solo perché è l’ennesima proposta fuffa, non solo
perché io stesso mi sono fatto affascinare da essa e ci ho buttato sopra fin
troppo tempo, ma anche perché fa un uso pretestuoso del termine
“linguistica”.
Io la linguistica l’ho studiata, mi ci sono laureato sacrificando anni di
vita e, soprattutto, la prospettiva di un impiego (nessuno assume i linguisti,
mai, è una regola tassativa). Ecco: quando qualcuno accosta la linguistica
alla PNL io comincio a rivalutare la violenza fisica come strumento di
risoluzione dei conflitti.
La quantità di danni che la PNL ha prodotto al mondo dello studio della
mente è incalcolabile, l’esercito di fuffa-coach depensanti che ha partorito è
inarrestabile. A fronte di questa devastazione, ha fatto anche qualcosina di
utile, ma il bilancio, per quanto mi riguarda, è schiacciante. La PNL si è
diffusa ovunque. E quando dico ovunque, intendo davvero OVUNQUE: si è
infilata e intrecciata con mille altre cose, fino a diventare una sorta di
substrato, di orizzonte comune che viene dato per scontato in ogni meandro
della crescita personale. Non si può fare a meno di incrociarla,
esplicitamente o meno, in praticamente ogni genere di corso, in ogni
proposta formativa (ma nei miei corsi non ve n’è traccia, non preoccuparti).
Bisogna fare qualcosa.
E allora, visto che non so resistere a un sano tsunami di odio, ho deciso
di farlo di nuovo, di tornare all’attacco, stavolta su carta stampata. Tieniti
forte, perché questo capitolo sarà gustoso, a dire poco.

La storia della PNL

Tu, magari, nella tua meravigliosa ignoranza delle follie del mondo, ti
starai chiedendo: “Ma che cos’è, poi, questa PNL?”. Per poterti rispondere
devo spiegarti da dove arriva, quali fossero i presupposti di partenza, che
cosa volesse ottenere. Ci spostiamo così negli anni Settanta, ovviamente
negli Stati Uniti d’America (e te pareva), in California, questa volta, e lì
possiamo incontrare due personaggi ormai divenuti leggendari: Richard
Bandler e John Grinder. Grinder è un linguista in erba, mentre Bandler è
matematico e psicologo.
Sono anni esaltanti per il mondo dello studio della mente, nascono nuovi
grandi paradigmi di indagine psicologica e neurologica, grandi certezze del
passato vengono messe in discussione, nuove brillanti intuizioni si fanno
largo tra i laboratori, le aule delle università e gli studi dei terapeuti. I due
hanno un’intuizione che, senza alcuna ironia, per me anche a distanza di
cinquant’anni rimane brillante: studiare e analizzare le pratiche di alcuni
degli psicologi e psicoterapeuti più famosi ed efficaci del momento, ed
estrarne una serie di pratiche per guidare la psicoterapia stessa. In pratica
cercano di costruire un protocollo di psicoterapia efficace, partendo
dall’analisi di casi concreti e dalle tecniche dei migliori esperti del campo.
Tra gli psicologi oggetto di questa analisi Milton Erickson, Virginia Satir e
Fritz Perls, tre giganti della disciplina. Fin qui tutto bene, anzi, benissimo:
potrebbe uscirne uno studio fondamentale per la psicologia, utile, pratico,
basato su ricerca concreta ed evidenze sperimentali e di osservazione.
Bandler e Grinder, però, progressivamente si fanno prendere la mano e
decidono di uscire dal campo della pratica di psicoterapia e includere altre
discipline nella loro analisi: la linguistica, appunto, e l’informatica (che non
si capisce che cosa c’entri). Analizzano, a detta loro, i lavori di Bateson,
Korzybsky, Noam Chomsky e poi passano a esperti di public speaking,
comunicatori, venditori, politici… Insomma, cominciano, pian piano, ad
aggiungere “cose a caso”, e la loro ambizione cresce, cresce a dismisura,
finendo per partorire un nuovo obiettivo: la costruzione di un modello unico
e universale del pensiero, del comportamento e della comunicazione degli
esseri umani. Vogliono congegnare una disciplina e una serie di pratiche per
comprendere il funzionamento di questi ambiti, prenderne il controllo e
modificarli a piacimento.
E qui cominciamo a entrare in un reame sospetto. Le “analisi” e le
pratiche che i due attuano nella seconda fase del loro lavoro non vengono
sottoposte ai controlli rigorosi delle pubblicazioni scientifiche, non
rispettano gli standard degli studi sperimentali, non illustrano in modo
esaustivo i metodi con cui vengono condotte, i risultati statistici, le
correlazioni.
L’ipotesi che comincia a serpeggiare è che questi grandi nomi della
psicologia, della linguistica, dell’informatica, della comunicazione, così
come la terminologia desunta dai loro studi e lavori, siano buttati là da
Bandler e Grinder più per dare autorevolezza al loro lavoro che per altro.
Anche perché, con l’eccezione di Virginia Satir, nessuno degli altri grandi
nomi citati ha mai collaborato direttamente con questo processo, né ha
avuto qualcosa a che fare con la PNL o i suoi fondatori. Questo non ha
fermato, però, i due guru, che hanno continuato a modificare la loro
creatura, promuoverla, insegnarla, pubblicizzarla, fino a farla fiorire in un
fenomeno di portata mondiale.
Fino a questo momento, però, nonostante l’iniezione di fufferia che
rende ricchi Bandler e Grinder, la PNL ancora ancora si salva. Si ritrovano in
quei lavori originali alcuni spunti preziosi, idee innovative, pratiche che
vale realmente la pena di analizzare, idee che verranno poi confermate
anche da successivi lavori scientifici e sperimentali.
Il vero degrado succede dopo.
Dai seminari in cui i fondatori certificano altri “esperti” di PNL in giro
per il mondo si crea una schiera innumerevole di nuovi mini-guru, che non
hanno né la formazione, né la profondità di analisi di Bandler e Grinder.
Come nel gioco del telefono senza fili, la disciplina comincia a tramandarsi
di persona in persona, impoverendosi, banalizzandosi e ibridandosi con
qualunque altra credenza folle di chi la utilizza. Si espande sempre di più il
campo di applicazione, le promesse si fanno sempre più estreme e astruse.
Sfuggita dalle mani dei due studiosi, negli ultimi trent’anni ne ha parlato
chiunque, e chiunque ci ha messo del suo: la PNL è cresciuta, si è
modificata, si è fusa con mille altre discipline e a oggi è davvero difficile
riconoscere tutte le influenze, varianti, evoluzioni, vere o presunte che
siano.

Come (non) funziona la PNL

E qui io mi trovo di fronte a un problema. Mi piacerebbe prendermi il


giusto spazio per spiegarti nel dettaglio ogni aspetto di questo capolavoro
dell’inventiva umana, ma non posso farlo. Non solo perché ci vorrebbero
come minimo cento pagine, e non mi pare il caso, ma anche perché, pur
volendolo fare, non ci riuscirei. La PNL, a oggi, è troppo vasta, troppo varia,
troppo vaga, troppo complessa, troppo diversificata, troppo fumosa per
renderne conto in modo univoco e completo. Ogni insegnante la insegna in
modo diverso, ogni scuola (e ce ne sono migliaia) vanta di averne creato
una versione innovativa e migliore.
E questo è uno dei cavalli di battaglia proprio di chi si oppone alle
confutazioni scientifiche: non puoi provare che non funziona (nel
paradigma scientifico non si può mai provare un negativo), non puoi
confutarla, non puoi analizzarla, non puoi dimostrare che sono stupidaggini,
perché non puoi nemmeno definirla. Qualunque tentativo può essere
contrastato spiegando che “Quella di cui parli non è la vera PNL”, “Eh, ma
non hai preso in considerazione quella variante”, “Ma io ho modificato e
introdotto delle novità”, “Eh, ma c’è un nuovo principio che…”, “Sì, ma se
torniamo alle parole originarie di Bandler, …”. Insomma: non se ne esce.
Che cos’è, davvero, la PNL? Che principi applica? Di che tecniche si
compone? Come funziona? Dare una risposta definitiva è impossibile.
Facciamo così: mi limiterò a proporti una selezione di tematiche e
metodologie centrali nel mondo della PNL. Tematiche fondative, che
arrivano direttamente dal lavoro iniziale di Bandler e Grinder e che sono
presenti praticamente in ogni versione.
Partiamo con gli ambiti di applicazione, che sono principalmente tre, ma
tanto vasti che ci si può far stare dentro di tutto.

● Il corpus iniziale di tecniche e metodologie era esplicitamente rivolto al


campo della psicoterapia e del trattamento di problemi psicologici e
talvolta psichiatrici di varia natura. Ancora oggi, quell’anima esiste nella
PNL.
● C’è poi la comunicazione: e qui si spazia dal public speaking alle
relazioni interpersonali, passando da vendita, negoziazione, persuasione,
gestione delle risorse umane, insegnamento, team building, seduzione,
coaching, performance agli esami o alla tesi e via discorrendo. Viene
perfino tirata in ballo nel mondo dello spettacolo magico, con il
mentalismo (con cui, ovviamente, non ha nulla a che fare).
● Infine, lo sviluppo personale: dall’efficacia mentale nello sport, alla
motivazione, all’autostima, all’autoaiuto… In pratica ovunque ci sia da
ottenere un risultato di qualunque tipo la PNL ti promette di renderti
capace di ottenerlo. È proprio in questo punto che, col tempo, si è
ibridata con la marea di fuffa-proposte che infesta il mondo della
cosiddetta “crescita personale”.
E ora passiamo a qualche principio cardine.
● Il modeling (modellamento, in italiano) è stato un po’ il punto di partenza
dell’intera disciplina: l’idea è quella di analizzare, decostruire, estrarre da
persone di successo le loro strutture di pensiero e comportamentali, per
poi ricalcarle alla perfezione, ottenendo (in teoria) gli stessi risultati.
Insomma, prendere a esempio gente di successo in vari campi, ma in
modo più sistematico e preciso.
● Il concetto di rappresentazione soggettiva della realtà: tutto ciò che
sperimentiamo è sempre filtrato dalla nostra personalità, dai nostri sensi e
dal modo in cui usiamo la nostra mente. Cambiando la nostra
rappresentazione, quindi, otterremmo risultati differenti.
● Il principio proprio della programmazione e riprogrammazione:
attraverso l’uso di strategie verbali, ipnosi, visualizzazione, attività di
vario tipo, modificheremmo il modo in cui reagiamo agli stimoli esterni,
in cui pensiamo e ci comportiamo.
● La presenza di indizi inconsci nelle parole che scegliamo, in come le
diciamo, nei movimenti che facciamo (famosissima, per esempio, la
“lettura dei movimenti oculari” che si pratica nella PNL), insomma l’idea
che dietro le nostre parole, azioni, movimenti si nasconderebbero le spie
di ciò che sta qui dentro, nella testa, spie che il programmatore
neurolinguistico dovrebbe saper riconoscere e sfruttare.
● L’uso di modelli di conversazione o di azioni che ottengono specifici
risultati. In particolare, i modelli più famosi sfruttati nella PNL sono due:
il meta-modello, desunto dall’attività di Virginia Satir, il cui scopo
sarebbe quello di raccogliere informazioni dal “paziente” e portarne alla
luce le strutture di pensiero sottostanti, e il modello Milton, modellato su
Erickson, basato su una forma di comunicazione vaga e metaforica,
orientata al raggiungimento di uno stato lieve di trance ipnotica.
● La visualizzazione e la rappresentazione interna: sfruttare la potenza
immaginifica della mente per creare rappresentazioni mentali, che
dovrebbero avere effetti concreti e anche a lungo termine sul nostro
modo di pensare.
● L’ancoraggio: una tecnica con cui si legherebbero specifiche reazioni
emotive a movimenti fisici e immagini mentali. Quando un certo
movimento, suono, stimolo viene presentato, l’utilizzatore richiama
un’emozione o una sensazione. È una pratica assimilabile al riflesso
condizionato nel lavoro di Pavlov, per darti un’idea.

Mi fermo qui. Nel video su YouTube che citavo a inizio capitolo ho


anche descritto una seduta tipica di PNL “terapeutica”, ma qui te lo
risparmio, non farebbe che allungare il brodo.
Onestamente, a leggerli così questi principi, non sembra neanche così
male questa PNL, vero? Sembrano tutto sommato metodi sensati, che
trovano riscontro nella realtà, utili perfino. E in un certo senso lo sono. Ma
allora perché ho detto fin dall’inizio che si tratta di una pseudoscienza e che
la sconsiglio? Per ben otto ragioni principali, cui è bene prestare attenzione.

● La prima, forse la più importante, è che accanto a principi efficaci, altri


principi non funzionano o non funzionano sempre, oppure funzionano in
modo diverso da quanto proposto e promesso. La maggior parte delle
tecniche di PNL è una banalizzazione e una modifica ingenua di principi
psicologici reali, magari applicabili solo in un contesto terapeutico e
controllato, non nella vita di tutti i giorni. Vale a dire che, spesso, queste
tecniche hanno un qualche effetto, ma molto limitato nel tempo e nella
portata o che viene influenzato da altri fattori che non vengono tenuti in
considerazione. Gli effetti migliori sono una combinazione di placebo,
autosuggestione, motivazione momentanea. Di certo non funzionano
tanto quanto sponsorizzato e spesso rischiano anche di produrre effetti
opposti, non tenendo in considerazione il contesto e l’individualità della
persona.
● L’assenza di vere prove scientifiche riconosciute. La PNL, checché ne
dicano i sedicenti esperti, non è validata dal consenso scientifico, fallisce
nel riportare prove statistiche significative della sua efficacia. Queste
tecniche sono state sottoposte a verifica con metodo scientifico e non
l’hanno superata. Tutto quello che si può trovare sono le classiche
testimonianze aneddotiche che lasciano il tempo che trovano e qualche
studio spudoratamente di parte. Ciò che della PNL funziona, e qualcosa
c’è, come ho appena detto, sono le banalizzazioni e riproposizioni di
principi psicologici estrapolati dal loro contesto di appartenenza.
● Spesso la PNL è impossibile da sottoporre a test, non è falsificabile,
perché è talmente vaga, fumosa, magmatica, sconfinata, che al di là di
quei pochi principi cardine che ti ho descritto ci si trova tutto e il
contrario di tutto, ed è sostanzialmente impossibile metterla alla prova in
modo rigoroso. Ci sono dispute, spaccature interne, interpretazioni,
confusione nei programmi: manca completamente di unitarietà e
sistematicità, è un papocchio di metodi volutamente oscuro.
● Le pretese e le promesse sono completamente irrealistiche e roboanti,
oltre che sparpagliate in infiniti campi. Si va dalle fobie profonde curate
con una singola seduta alla sparizione quasi istantanea della depressione,
fino al raddoppio nelle vendite per gli uomini di marketing e perfino, in
certe frange estreme, il trattamento di malattie neurodegenerative come il
Parkinson. Una soluzione unica per tutti i problemi, che funzioni in ogni
contesto con qualunque persona. Insomma, i piennellari la sparano
grossa, alimentando un mercato dominato dall’hype e da chi vende il
fumo più denso e costoso.
● L’utilizzo di terminologia scientifica fumosa unita a paroloni fuori
contesto, a partire dal nome stesso, e poi citazioni sconclusionate a grandi
scienziati… il classico gergo mumbo jumbo altisonante che caratterizza
tutte le moderne pseudoscienze. Più che essere scientifico, deve
“suonare” scientifico. Un puro esempio calzante di post-verità dei giorni
nostri.
● Il settarismo che contraddistingue chi la pratica: non è solo una tecnica,
diventa una visione onnicomprensiva della realtà, con veri e propri
adepti, spesso esaltati, che ne fanno la cifra stessa della loro vita. È una
quasi-religione che, tra l’altro, si caratterizza col classico schema “noi
contro di loro”.
● La formazione dei trainer che la erogano e la insegnano, spesso
scandalosa, che si permettono di lavorare con alcuni tra i problemi più
delicati dell’animo umano senza nessuna conoscenza strutturata della
psicologia, senza abilitazioni professionali, senza la competenza per
gestire i potenziali effetti collaterali dei loro interventi.
● La relazione strettissima con altre forme di fuffologia fin troppo diffuse:
tutto l’universo new age, lo sciamanismo di Castaneda, la legge
dell’attrazione e chi più fuffa ha, più ne metta.

La conclusione di tutto è che la PNL, a oggi, per come è applicata, è


un’accozzaglia di metodi apertamente inefficaci e pseudoscientifici
mischiati a principi psicologici banalizzati, a qualche tecnica che funziona
davvero e a qualche consiglio di buon senso: un pastone confuso che muta
continuamente, pronto ad accontentare chiunque scelga di crederci.
Affascinante, ma non ha niente della programmazione, non ha niente
della neuro-(scienza), non ha niente della linguistica. Come se non bastasse,
ha pure ben poco della psicologia. Tutto quello che di buono c’è della PNL,
nelle sue varie declinazioni, lo puoi tranquillamente imparare anche altrove,
senza mandare giù tutta l’architettura di bubbole che ci hanno costruito
attorno, senza spendere migliaia di euro in corsi strampalati, come ho fatto
io in passato. Semplicemente, non ne hai bisogno.
Non è la fine del mondo

Buttiamo via tutto, quindi? Quasi, ma non proprio. Nel senso che sì, io
personalmente ti consiglio di stare alla larga dalla PNL, ma voglio
comunque prendermi quest’ultimo paragrafo per spezzare una lancia in
favore di coloro che la praticano, spesso in buona fede, e della disciplina in
sé. Anche perché se non lo faccio, poi Gennaro Romagnoli non la finisce
più di ronzarmi nell’orecchio.
Al mondo non esiste soltanto gente che vuole fregarti. Anzi, la maggior
parte di coloro che lavorano in questo ambito crede realmente di star
facendo qualcosa di buono, non si può essere troppo cattivi con loro. E poi
è giusto dire che a volte anche discipline scorrette e pseudoscientifiche o
che non rispettano il rigore della psicologia ufficiale, per i motivi più
disparati, possono portare a risultati. Le persone ottengono miglioramenti e
si sentono meglio per moltissimi motivi, la maggior parte dei quali
puramente soggettivi; dunque, sarebbe sbagliato negare che ci sono persone
che hanno tratto beneficio dalle pratiche di PNL. Nessuno vuole togliere loro
la propria soddisfazione e i propri risultati, perché sono reali.
Un seminario di PNL frequentato senza particolari problemi personali,
senza aspettative eccessive, senza condizioni pregresse che necessitano di
intervento psicologico o psichiatrico urgente, non è certo un’esperienza che
rovina la vita. Qualche volta può pure essere utile. Se puoi fare a meno di
andarci, anche meglio, ma se proprio ti tocca, basta rimanere consapevoli di
quello che si sta ascoltando, della superficialità di questa pseudo-psicologia
pop e non fidarsene troppo, prendendo quello che c’è di buono e di sensato
e scartando le promesse più estreme.
In più, voglio ribadire ancora una volta la legittimità degli esordi della
PNL: alla sua nascita, era un progetto interessante, emerso in un’epoca di
grande rivoluzione per il mondo della psicologia. Se fosse rimasto
nell’ambito in cui era nato, cioè quello dell’analisi critica delle pratiche di
psicoterapia, probabilmente non saremmo qui a discuterne criticamente.
Alcune delle intuizioni di Bandler e Grinder si sono rivelate realmente
efficaci, e infatti sono entrate nelle pratiche terapeutiche di scuole di
psicoterapia assolutamente rispettabili.
Il grande “peccato” dei fondatori è stato quello di uscire dall’ambito
terapeutico, di smettere di rispettare gli standard scientifici, di farsi
prendere la mano, di farsi sedurre dal denaro facile e di trasformare il loro
lavoro in un pastrocchio senza limiti. E, comunque, qualcuno mi deve
ancora spiegare che cosa diavolo c’entrasse l’informatica in tutto questo.
14
“Scopri se il tuo cervello è logico o creativo!”
La cazzata dei due emisferi

Questa volta partiamo da un’immagine (Figura 14.1). Guardala bene,


senza preconcetti, e prova a richiamare alla mente tutto quello che sai in
merito
Dì la verità: l’avevi già vista quest’immagine in passato, o almeno una
che le somiglia, che propone lo stesso incredibile contrasto: emisfero destro
contro emisfero sinistro, emozione, creatività e arte contro logica,
matematica e ordine assoluto, yin e yang, Dr. Jekyll e Mr. Hyde.

Figura 14.1. Ma che bello che è il cervello.

Sono ormai quindici anni che il tema della mente, del cervello,
dell’apprendimento e della memoria rappresenta il mio campo di interesse
principale, una passione che si è trasformata in una vera e propria
professione. Credimi quando ti dico che non esiste al mondo un falso mito
pseudoscientifico sul cervello più diffuso e radicato di questo. Questa
cialtronata è ormai ovunque: se ne sente parlare a eventi di formazione, la si
ritrova in corsi e videocorsi, libri, articoli di blog, post sui social network,
video divulgativi, discorsi al bar, poster motivazionali, magliette, elementi
di arredamento, programmi tv… e la lista è infinita. È impossibile
interessarsi ai temi di cui abbiamo parlato in queste pagine senza imbattersi
almeno una volta in questo concetto.
Naturalmente, si tratta di una sonora cazzata, ma questo lo potevamo
dare per scontato, altrimenti non l’avrei inserita in un capitolo a sé. Molto
più interessante è capire perché sia una cazzata, quale verità nasconde e
perché sia un problema crederci: in fondo, di tutte le bufale che hai scoperto
grazie a me (non ringraziarmi, non sono un eroe), questa potrebbe sembrare
la più innocua, e invece…
Ci arriviamo, ma facciamo le cose per bene, con calma, come sempre.
Partiamo dall’inizio.

Un doppio mito

Questa bufala di due emisferi contrapposti si articola, in realtà, in due


elementi, due componenti che vanno affrontate separatamente.

● I due emisferi di cui è composto il cervello umano sono diversi e ospitano


funzioni cognitive del tutto differenti. A sinistra ci sono gli aspetti logici,
matematici, verbali, analitici, a destra invece gli aspetti creativi, musicali,
artistici, caotici, emotivi.
● Ogni persona ha un emisfero dominante, vale a dire che uno dei due ha la
priorità, la precedenza e il controllo sull’altro, con effetti evidenti sulla
personalità e le scelte di vita. Le persone con emisfero destro dominante
sarebbero più artistiche, creative, emotive ed erratiche; quelle con
emisfero sinistro dominante sarebbero più organizzate, logiche,
controllate, fredde e razionali.

Se il primo punto è una grossolana ipersemplificazione, che va


assolutamente chiarita, il secondo non è altro che una balla vera e propria.
Ho trovato un eccellente articolo di “Psychology Today” a cura di Stephen
M. Kosslyn, psicologo e neuroscienziato, che riassumeva l’origine di questo
mito. Ti faccio un riassunto del riassunto.
Pare che il punto di partenza di tutta questa matassa di leggende sul
cervello sia da far risalire agli anni Sessanta, in California: al lavoro di
alcuni neurochirurghi guidati dal neuroscienziato Roger W. Sperry. Questo
team, nel tentativo di risolvere problemi di gravissimi attacchi epilettici nei
pazienti, cominciò a tagliare il corpo calloso (di cui parleremo meglio più
avanti nel capitolo), che altro non è che il ponticello che collega i due
emisferi nel cervello.
Tra l’altro, non c’entra nulla col discorso, ma mi fa impazzire il fatto che
la forma e la dimensione del corpo calloso cambia tantissimo da persona a
persona e ci sono anche differenze note e studiate a livello di sesso. Uomini
e donne hanno corpi callosi di forme drasticamente diverse. Perché? Non si
sa con certezza, ma potrebbe essere uno dei fattori che contribuisce alle
differenze di comportamento e preferenze determinate dal sesso e dal
genere di appartenenza.
Comunque, con questa operazione di taglio del corpo calloso, i due
emisferi venivano separati l’uno dall’altro, creando la condizione definita di
split-brain (cervello diviso). Risultato? Qualche reale miglioramento
nell’epilessia, ma soprattutto la scoperta di differenze cognitive tra i due lati
e l’inizio dello studio della cosiddetta lateralizzazione emisferica, cioè la
distribuzione e localizzazione di funzioni cognitive specifiche da una parte
o dall’altra. Si apre un intero nuovo campo delle neuroscienze. Ah, già, e
Sperry, una ventina di anni più tardi, si è pure preso un premio Nobel per
questo, meritatissimo tra l’altro.
Niente di male, finora, senonché, come sempre, arriva la stampa a
banalizzare e a fare casino. Nel 1973 “The New York Times”
(nientepopodimeno) pubblica un articolo in cui si comincia a spararla
grossa, asserendo che nella nostra testa vivono due persone diverse, in
contrasto tra loro. Due anni dopo pure il “Time”, la rivista più famosa al
mondo, fa passare la stessa idea. L’idea viene banalizzata, è scorretta e
inizia a flirtare con credenze quasi misticheggianti… Ma ha anche dei
difetti. Nel giro di uno schiocco di dita si diffonde e assurge allo stato di
credenza popolare diffusa, finisce nella cultura di massa e da lì fermarla è
impossibile.
Ci ha provato pure Sperry stesso, dall’alto del suo premio Nobel, a
chiarire che i media stavano esagerando e mal interpretando il suo lavoro,
ma non lo ha ascoltato nessuno. Che cosa vuoi che ne sappia, lui? In fondo
è solo il tizio che questa roba l’ha scoperta! Quarant’anni e più dopo, non è
cambiato niente: la gente ci crede ancora, “come prima, più di prima”.
Come nelle migliori storie false, tra un’inesattezza e l’altra si nasconde
anche un fondo di verità, che scopriremo presto, ma il problema è che
questa innocua diceria non è solo inesatta, è anche pericolosa.
In primis perché, come ogni credenza errata a livello scientifico,
accresce la distanza fra chi fa ricerca e il pubblico, nutre la mancanza di
fiducia nella scienza (e abbiamo visto le estreme conseguenze di questa
sfiducia negli ultimi anni), contribuisce ad alimentare l’ignoranza e induce a
prendere decisioni sbagliate.
In secondo luogo, in modo analogo a quello che succede con gli stili di
apprendimento sensoriale (che abbiamo già trattato), questa bufala viene
spesso usata per giustificare strampalate teorie educative, pedagogiche o di
apprendimento. Diventa un modo per classificare le persone, etichettarle,
creare stereotipi e alimentare pratiche scorrette, inutili e potenzialmente
dannose. Ci sono corsi per docenti sul “brain-based learning”, in cui si
insegna a riconoscere quale sia l’emisfero dominante dei propri alunni per
modificare il modo in cui si insegna loro e questo può nutrire anche
preconcetti e pregiudizi. Per esempio: è dato per scontato che le persone
con “emisfero destro dominante” andrebbero peggio a scuola perché
disordinate e troppo creative. Se chi insegna crede sul serio a questa roba
può cominciare a fare preferenze o a penalizzare chi reputa
“irrecuperabile”. Disastro.
E non dimentichiamoci il mondo degli adulti: che succede se questa
classificazione, basata sul nulla, si fa strada nei colloqui di lavoro, per
esempio, e influenza le scelte di assunzione o il trattamento di chi lavora già
in azienda? E se viene usata per fare previsioni di orientamento politico? E
se viene interiorizzata dalla persona e ne limita il potenziale di crescita
personale o di formazione?
Sto usando domande retoriche, ma il problema è che tutte queste
casistiche sono state osservate e riportate. Non esiste pseudoscienza
innocua, mai, ricordalo sempre.
Un bel casino

La “lateralizzazione emisferica”, la constatazione che alcune funzioni


del cervello sono disposte a destra o a sinistra, controllate e regolate da uno
dei due emisferi, è una “verità” ormai inconfutabile. Un esempio tipico che
si usa è quello delle aree deputate al linguaggio, che, guarda caso, sono pure
quelle che conosco meglio, visto che ho studiato Linguistica all’università e
al corso di neuropsicologia il simpaticissimo (e straordinariamente
competente) professor Semenza mi ha graziato con un bel 30. Mi sto
vantando? Sì, mi sto vantando. Andiamo avanti.
Le aree di Wernicke e di Broca (dai nomi degli scienziati che le hanno
scoperte) sono localizzate nell’emisfero sinistro, sono collegate tra di loro
da un percorso neurale che viene chiamato fascicolo arcuato e sono
coinvolte rispettivamente nella comprensione e nella produzione del
linguaggio.
Figura 14.2. Il cervello è davvero meraviglioso.

Un danno a queste aree (magari da trauma meccanico, cioè una botta in


testa, o da ictus) può provocare importanti afasie, cioè disturbi del
linguaggio. L’afasia di Broca è classificata come “afasia non fluente”: il
paziente non riesce più a parlare bene, non riesce a formulare frasi, strutture
grammaticali complesse o determinate tipologie di parole. L’afasia di
Wernicke, invece, è una “afasia fluente”: il paziente riesce perfettamente a
produrre frasi e parole, ma è il significato a perdersi del tutto: manca il
senso logico ed escono parole a caso. Danni ad altre aree del cervello,
magari nell’emisfero destro, non producono questi effetti.
Tutto questo che cosa ci dice? Ci dice che importanti funzioni relative al
linguaggio sono collocate in aree specifiche a sinistra. Questo sembra
rafforzare l’idea che, tra le altre cose, l’emisfero sinistro si occupi di
linguaggio, mentre il destro no. In parte è vero, ma le cose, in realtà, sono
ben più incasinate: le aree che ti ho descritto sono parte di un sistema
complesso e interconnesso, e si riferiscono a funzioni molto specifiche
(appunto la comprensione o la produzione di parole o frasi), ma non alle
funzioni di alto livello, come si afferma nel mito dei due emisferi
contrapposti.
In altre parole, sì, ci sta che l’area deputata a elaborare la concordanza
tra verbo e sostantivo sia collocata a sinistra, ma non ha senso affermare che
il pensiero logico, la capacità di comprendere significati o la creatività o il
linguaggio in toto si trovino in un determinato spazio.
La maggior parte delle funzioni cerebrali e cognitive, specie quelle
complesse di alto livello, sono distribuite su entrambi gli emisferi: grazie
agli strumenti di neuroimmagine è chiaro che, quando si svolgono compiti
complessi, si attivano nel cervello aree “geograficamente” molto distanti tra
loro. Ci sono anche funzioni che sono elaborate in entrambi gli emisferi, ma
che partizionano le informazioni: quelle che arrivano da un lato del corpo
vengono mandate all’emisfero opposto.
C’è poi un altro colpo di scena: le aree iper-specializzate (come quelle di
Broca e Wernicke) sono spesso legate a un altro fenomeno, quello della
lateralità, cioè la preferenza dell’individuo per l’uso degli arti, a destra o a
sinistra. Mancini e destri, calciatori che tirano di destro o di sinistro. Si
parla di controlateralità: cioè queste aree stanno quasi sempre nell’emisfero
opposto alla mano dominante. E allora ecco che, nei mancini, non è affatto
così raro che l’area di Wernicke e quella di Broca si trovino a destra anziché
a sinistra. Questa non te l’aspettavi, eh?! Ebbene sì, il 30% circa dei
mancini ha queste aree spostate a destra e anche un 5% dei destri, così, a
sfregio, solo per complicare di più le cose.
Insomma, sì, i due emisferi sono diversi fra loro e si dividono il lavoro;
d’altronde non avrebbe senso dal punto di vista evoluzionistico avere aree
diverse con funzioni identiche, ma le differenze sono relative a come
vengono elaborate da ciascun lato determinate informazioni e a come
vengono gestiti determinati compiti. E queste informazioni e questi compiti
non sono differenziati come vuole il mito: compiti creativi si ritrovano in
entrambi gli emisferi, compiti logici anche, la personalità non c’entra nulla
e più è complessa un’attività cognitiva, più è probabile che richieda la
collaborazione di entrambi gli emisferi. Nelle parole di Sperry:
La polarità osservata sperimentalmente nello stile cognitivo destro e sinistro è un’idea in generale
con la quale è facile farsi prendere la mano […] è importante ricordare che i due emisferi, in un
cervello normale e intatto, tendono a funzionare regolarmente a stretto contatto, insieme come
un’unità.

Quanto agli emisferi dominanti… Beh, l’unica reale dominanza


emisferica riscontrabile è quella relativa all’attività motoria: preferenza per
la mano destra o per la mano sinistra, per il piede destro o per il piede
sinistro, per l’occhio destro o per l’occhio sinistro.
Sarai felice di sapere che, oltre a questo, non esistono evidenze
sperimentali di nessun tipo che confermino che le persone abbiano un
emisfero dominante sull’altro o un emisfero “preferito” quando si tratta di
personalità, creatività, logica, carattere, scelte di vita, reazioni, emotività…
La dominanza si ferma al movimento, per quanto ne sappiamo. Per il resto
tutti usiamo tutto il nostro cervello, sempre, con l’eccezione di condizioni
particolari o patologie gravi.

Cervelli splittati

A proposito di condizioni particolari e patologie, riprendendo per un


secondo il discorso dei pazienti di Sperry e del suo team, colgo l’occasione
al volo per accennarti in breve che cosa succede a chi, davvero, ha il
cervello diviso a metà. Come accennavo prima, il termine tecnico per
definirli è split-brain: il loro corpo calloso viene tagliato completamente e
questo intervento viene eseguito solo quando tutti gli altri trattamenti per
l’epilessia non hanno dato risultati e la salute del paziente è gravemente a
rischio.
Tagliando il corpo calloso succede una cosa davvero strana: ognuno dei
due emisferi comincia ad avere la propria percezione, il proprio modo di
ragionare e il proprio impulso ad agire. È come se ci fossero due persone
che si contendono lo stesso corpo, quasi due cervelli veri e propri. Gli
effetti sono complessi e a volte difficili da prevedere: in casi estremi si
riportano episodi un po’ bizzarri come quello di un paziente che faticava a
vestirsi perché una mano sollevava i pantaloni e l’altra glieli abbassava, a
volte episodi più pericolosi, in cui scatti di aggressività potevano esplodere
in un secondo e portare a un conflitto interno fra arti, con una mano che
fermava l’altra.
Non è, però, un comportamento così comune: gli effetti più frequenti
riguardano una disconnessione fra parlato e visione, per esempio, e
difficoltà in tutti quei compiti che richiederebbero una coordinazione fra
aree del cervello lateralizzate. I due emisferi non si parlano più, quindi se
uno dei due ha necessità di mandare all’altro un’informazione perché possa
essere elaborata, si crea un problema: la connessione è interrotta da una
barriera invalicabile. Finché le varie aree specializzate, a destra e a sinistra,
si sanno arrangiare da sole, tutto bene; quando dovrebbero comunicare tra
loro, purtroppo, non hanno più modo di farlo.
Oltre che per raccontarti una curiosità neurologica, questo mini-
paragrafo rafforza ancora di più l’idea che gli emisferi siano autonomi, sì,
ma solo fino a un certo punto, e si dividano il lavoro, sì, ma solo fino a un
certo punto.

I mancini hanno una marcia in più

Ultimissimo punto e poi la chiudiamo qui e passiamo ad altro: e i


mancini? Sono più creativi? Sono più intelligenti? Io sono mancino, quindi
è evidente che questo mito sia vero e provato in modo inconfutabile, o
almeno questo è quello che mi piacerebbe dirti. La realtà è che no: ancora
una volta si tratta solo di dicerie, aneddoti ed errate interpretazioni del
concetto di lateralità e controlateralità che ti ho spiegato prima. Del resto,
gli stereotipi e le leggende sui mancini sono una costante universale e
millenaria: in praticamente tutte le culture il mancino è un infame e la mano
sinistra è peccaminosa, sporca e maledetta. E infatti, dalle nostre parti un
“tiro mancino” è qualcosa di scorretto, disonesto, bastardo dentro. E una
situazione sinistra è potenzialmente pericolosa, strana, inquietante. Non
solo, ma agli inizi dello studio scientifico della mente umana, il mancinismo
era associato a vari disturbi, a problemi di apprendimento e di intelligenza.
Dicerie a parte, una cosa è certa: noi mancini siamo speciali, infatti
rappresentiamo solo il 10% della popolazione. Ma al di là della rarità
statistica, non abbiamo nient’altro di vantaggioso o di svantaggioso, oltre
alle occasionali imprecazioni quando scriviamo male o dobbiamo interagire
con oggetti pensati solo per chi usa la mano destra in modo dominante.
Però un fatto è accertato: in passato i bambini mancini e le bambine
mancine (proprio a causa delle dicerie di cui sopra) venivano costretti e
costrette a “correggersi”, a volte pure con punizioni corporali. Oltre agli
ovvi problemi psicologici e sociali, la correzione del mancinismo è
pericolosa e sbagliata anche a livello di sviluppo cognitivo: la forzatura può
interferire col normale sviluppo del cervello.
Cito da Wikipedia:
Se il mancinismo viene contrastato nelle prime fasi dello sviluppo possono venir arrecati danni,
anche gravi, alla strutturazione dell’attività motoria e possono manifestarsi interferenze con
l’organizzazione psicologica complessiva. Un prerequisito generale dell’attività motoria è infatti
la corretta lateralizzazione, ossia l’uso prevalente di uno dei due lati del corpo (occhio, braccio e
mano, gamba e piede) per attivare il movimento, in corrispondenza con la dominanza emisferica
cerebrale. Ciò potrebbe spiegare il ritardo delle funzioni motorie in un’elevata percentuale di
bambini ambidestri.

Lasciateci scrivere con la cavolo di mano che preferiamo, maledizione!


15
“Doppio lavoro in metà del tempo!”
La cazzata del multitasking

La senti nell’aria? Questa brezza che soffia e si infiltra nelle crepe


dell’intonaco del tuo appartamento, privo di cappotto e ancora in attesa di
ristrutturazione col “bonus 110”? È un vento gelido che soffia dalle affollate
metropoli nordamericane ma anche dal più remoto Oriente, una bora
minacciosa che, imperterrita, cerca di abbattere il nostro stile di vita latino,
la nostra celebre “dolce vita”.
È quello che i giovani chiamano “grindset”, che le grandi multinazionali
chiamano “efficienza”, che i nostalgici dei regimi novecenteschi chiamano
“stakanovismo”, che il datore di lavoro medio chiama “Raga, questa
settimana venti ore di straordinario a testa! Purtroppo, l’azienda è in
difficoltà e dobbiamo tutti stringere i denti. Ci vediamo domani, io ora vado
che ho la partita a padel”.
Ora, in Italia, tradizionalmente, non si sacrifica tutto sull’altare della
produttività, lo sappiamo, non credo che corriamo il rischio di trasformarci
nel Giappone della gente che collassa per strada per il troppo lavoro (e per
fortuna). Ma pian piano alcuni falsi miti e alcune declinazioni perniciose di
questo modo di intendere la realtà si stanno facendo strada anche da noi. Io
stesso sono un appassionato del tema produttività: ne parlo, ne scrivo, cerco
di scoprire nuove app, nuove abitudini, nuove strategie per rendere di più in
tutto ciò che faccio.
Mi sono accorto che l’idea di ottenere di più, sempre di più, in sempre
meno tempo, anche a discapito di qualità e sostenibilità è un trend in
costante crescita, anche tra gli studenti. Ecco, allora, che prendono vigore
boiate classiche del tipo che il sonno è per i deboli e che se vuoi aver
successo nella vita devi alzarti alle quattro e mezza di mattina e ascoltare
almeno due ore di video motivazionali di “The Rock” che solleva ghisa
grugnendo in palestra. Tutte cose che conosciamo fin troppo bene. Ma ce
n’è una, in particolare, di cazzata “produttiva”, nello studio e sul lavoro,
che va combattuta a ogni costo e che ha direttamente a che fare con il nostro
cervello e con il modo in cui funziona (e non funziona): il multitasking.
Multitasking viene dall’inglese e si traduce molto semplicemente in: fare
più cose allo stesso tempo. Il multitasking è l’orrore del nostro secolo, una
trappola mortale per il nostro cervello, la fine per chi studia o lavora, e io
non posso fare a meno di scagliarmici contro ogni volta che scrivo qualcosa
o che tengo una conferenza. E, infatti, ne ho già parlato (anche se in breve),
anche in Vince chi impara, pubblicato sempre per Feltrinelli. Non voglio
dilungarmi troppo e neanche ripetermi, quindi ho pensato a un approccio
originale per parlartene qui e dimostrarti quanto male possa fare… Anzi, ho
rubato un approccio originale, a dirla tutta. Perché i buoni artisti copiano,
ma i grandi artisti rubano, come diceva qualcuno.

Multisperimentiamo

Tu e io adesso faremo un gioco: trasformeremo per qualche minuto la


lettura di questo libro in un esperimento multisensoriale. Idea geniale,
questa, che infatti non è mia. La rubo di peso e senza dignità da un
seminario che ho tenuto insieme ad Alessandro Zocchi, docente
universitario e neuroscienziato, oltre che divulgatore brillante e autore di un
bellissimo libro che ti consiglio, Imparare ad imparare, vero tesoro per chi
deve studiare.
Il professor Zocchi e io, quel giorno, parlavamo proprio di neuro-miti e,
per dimostrare l’assurdità del multitasking e la sua incompatibilità con la
struttura della nostra memoria di lavoro, ha chiamato un volontario dal
pubblico e lo ha sottoposto a un test in vari step, che ora ti ripropongo in
versione cartacea.
Osserva l’elenco qui sotto: sono i numeri da 0 a 9. Pronunciali a voce
alta più rapidamente che puoi, senza leggere. Fallo sul serio, parlando ad
alta voce, a mente non vale.

0-1-2-3-4-5-6-7-8-9

Non è difficile, si fa in scioltezza e anche con una discreta rapidità.


Bene: ora prova con le prime dieci lettere dell’alfabeto, dalla A fino alla
L. Fai la stessa cosa: pronunciale a voce alta senza leggere, più velocemente
che puoi:

A-B-C-D-E-F-G-H-I-L

Anche qui, non dovresti aver avuto nessun problema. Niente errori e
ottima velocità.
Ora, invece, prova a pronunciare a voce alta i due elenchi uno dopo
l’altro, senza leggere, andando più velocemente che puoi. Prima tutti i
numeri e poi tutte le lettere, di fila, senza fermarti.
Fatto?
La velocità dovrebbe essersi mantenuta e la facilità anche, magari c’è
stato un millisecondo di incertezza nel passaggio tra un elenco e l’altro,
quando dopo il 9 hai dovuto cominciare con la lettera A, ma tutto sommato
te la sei cavata alla grande.
Adesso viene il bello.
Ora prova a mescolare i due elenchi. Sempre ad alta voce, sempre senza
leggere: prova a pronunciare più velocemente possibile le due liste
alternando un elemento di una e un elemento dell’altra. Vai con 0 - A - 1 - B
e così via. Prova, vai più veloce che puoi.
Come dici? Più o meno a metà cominci a incasinarti? La velocità
diminuisce? Hai commesso errori? Senti molta più fatica cognitiva? Più che
normale: stai saturando la tua memoria di lavoro, che per motivi biologici
ha poco spazio, non può gestire più di pochi elementi in contemporanea,
come ti ho spiegato nel capitolo sulla lettura veloce.
Con l’esercizio delle liste alternate del professor Zocchi la stai
costringendo a mantenere e manipolare in parallelo troppi elementi diversi
tra loro: il cervello comincia a faticare, a rallentare, a sbagliare con sempre
maggiore frequenza. Il multitasking sta mostrando il suo vero volto.
Ti ho convinto? Forse sì, ma sento che non è abbastanza, lo so che sei
una testa dura.
Facciamo un passo in avanti verso il sadismo e aggiungiamo
all’esperimento del professor Zocchi un elemento in più di pura malvagità:
prova a rifare la stessa cosa, ovvero a ripetere le due liste alternate ad alta
voce più velocemente possibile, ma questa volta mentre ti allacci le scarpe.
He he he… Prova, fallo sul serio, e vedi che cosa succede…
Succede un disastro, ecco cosa, perché la tua memoria di lavoro a questo
punto è completamente satura, il tuo sistema esecutivo centrale non sa più
che pesci pigliare e ha rassegnato le dimissioni: ci sono elementi visivi,
procedurali, tattili, uditivi, fonologici che intasano ogni anfratto del tuo
magazzino di lavoro. L’intero sistema è in tilt e Alan Baddeley, l’esimio
scienziato già citato nel sesto capitolo, quello che per primo ha descritto il
funzionamento e la struttura della memoria di lavoro, ti sta cercando con in
mano una katana giapponese.
Ma… pensaci un secondo: stai mandando in pappa il tuo cervello con
che cosa? Con le prime dieci lettere, le prime dieci cifre e una banale
operazione che fai ogni santo giorno in meno di dieci secondi. Immagina
che cosa può accadere se provi a fare multitasking per davvero mentre
studi, con libroni universitari, dispense, articoli, esercizi; o sul luogo di
lavoro, tra mail, procedure, compiti da portare a termine, problemi da
risolvere.
Il vero multitasking è limitatissimo e riguarda solo operazioni
completamente automatiche che non entrano in conflitto fra loro.
Camminare e parlare, ascoltare la musica canticchiando e lavando i piatti,
ascoltare una lezione mentre scarabocchi un foglio (ne riparliamo fra poco),
questo sì che può succedere. Mi dispiace, ma mai, mai e poi mai sarai in
grado di studiare, ragionare, sviluppare creatività e problem-solving mentre
stai eseguendo altri compiti complessi.
E… no, la situazione non cambia per le donne, mi spiace. Gli studi
dimostrano che non esistono sostanziali differenze tra uomo e donna quanto
a multitasking, checché ne dicano i miti e le chiacchiere da bar. Ti lascio in
bibliografia alcuni studi anche su questo, se ancora non ti fidi.
Le uniche eccezioni (forse) riguardano una percentuale minuscola della
popolazione, che mostrerebbe una maggiore tolleranza al multitasking, ma
ancora non ne sappiamo abbastanza. E, comunque, statisticamente, non
riguarda te che leggi in questo momento.
Basta, mi rifiuto di andare oltre. A questo punto avrò spiegato questa
cosa settemila volte con settemila esempi diversi, è “ora di basta”! Accetta
questa verità come Mosè ha accettato le Tavole della Legge: “Undicesimo
comandamento: non commettere atti di multitasking quando studi e lavori”.

Ottimizzare le risorse
Va bene, hai sperimentato, capito e preso atto del fatto che svolgere più
compiti complessi allo stesso tempo è un’eresia che peggiorerà la tua
produttività e ti allontanerà dai tuoi risultati. Ora sei consapevole del fatto
che lo scopo cui tendere è fare una sola cosa per volta e dedicarle tutta la
tua potenza mentale.
Ma che cosa succede quando, indipendentemente dalla nostra volontà,
dobbiamo per forza giocolare con troppe palline? Possiamo sfruttare alcuni
principi e alcune strategie che ci permettano di ottimizzare le nostre risorse
cognitive e massimizzare i nostri risultati, minimizzando al tempo stesso
rischi e problemi. Te ne propongo tre (più uno).

1. Cerca di raggiungere il monotasking, ma mantieni la consapevolezza che


a volte bisogna cercare dei compromessi per ridurre lo stress sulla
memoria di lavoro. Comincia ad abituarti a notare tutte le volte in cui la
tua attenzione mentre studi o lavori è divisa su più cose e a domandarti
attivamente se quella divisione sia assolutamente necessaria o se invece
possa essere ripensata, riorganizzata. Procedi prima con un’analisi, poi
con la strutturazione di una strategia ottimale.
Facciamo qualche esempio: una guardia del corpo che deve proteggere il
suo cliente non può, per la natura stessa del suo lavoro, fare a meno di
cercare di tenere sotto controllo tutto ciò che ha intorno,
contemporaneamente. Deve, per forza di cose, forzare la sua attenzione e
la sua memoria di lavoro, non può contare sul monotasking vero e
proprio. Quello che può fare, però, è trovare una strategia efficace ed
efficiente: spostare il suo focus sui vari elementi chiave dell’ambiente,
anziché provare inutilmente a osservare tutto allo stesso tempo,
perdendone i dettagli. Condurrà prima un’analisi del luogo in cui si trova,
escluderà ogni elemento superfluo e poi alternerà brevi momenti di focus
su ciascun elemento fondamentale, in una sequenza prestabilita. In questo
modo ridurrà la possibilità di errore e porterà al minimo possibile il
rischio di perdersi qualcosa.
Chi studia avendo più fonti di fronte a sé, invece, non ha nessun obbligo
di gestirle tutte insieme, non deve per forza saltellare da una all’altra.
Potrà, prima di iniziare a studiare, analizzare le fonti e stabilire quale di
esse sia la principale, la più completa e chiara, e concentrarsi unicamente
su quella. Poi, al termine di un argomento, potrà consultare le altre, per
aggiungere dettagli. Ma gestirà sempre e solo una fonte per volta.
Chi lavora, sotto una pioggia incessante di mail, comunicazioni,
telefonate e cose da fare, si troverà spesso a dover cambiare compito in
corso d’opera o a finire un compito per iniziarne un altro.
Ancora una volta, il monotasking rimarrà un’utopia. Alcuni elementi,
però, possono essere controllati e organizzati: si possono accorpare tra
loro task simili, da svolgere in momenti prestabiliti della giornata
(l’ultimo quarto d’ora di ogni ora dedicato al controllo delle mail), si
possono implementare strategie per liberare dagli impegni la propria
scaletta giornaliera, come la famosa regola dei due minuti (se un compito
prende meno di due minuti, portalo a termine immediatamente appena lo
ricevi).
Il mondo reale è ben diverso dal paradiso cognitivo che vorrei, ma
ognuno di noi ha il potere (e il dovere) di fare almeno un passo in avanti
verso il monotasking, e chi studia ancora più degli altri. Più controllo
abbiamo sulle nostre giornate (e chi studia spesso ha il controllo
assoluto), più energie dovremmo dedicare a organizzare le nostre attività
in modo sequenziale invece che parallelo, a rimuovere tutto ciò che
intasa il nostro sistema. E, a proposito di questo, …
2. Un classico intramontabile: controlla l’ambiente in cui ti trovi. Meno
cose ci sono intorno a te e meglio è, la regola base applicabile a qualsiasi
oggetto o stimolo è la seguente: puoi farne a meno per svolgere il
compito che devi portare a termine? Se la risposta è sì, fallo sparire,
qualunque cosa sia.
3. Quando ti capita di dover studiare o ragionare per forza su più argomenti
nello stesso momento, quando proprio non riesci a staccare il cervello
(che è un bastardo, e ti ricorda che dovresti portare avanti anche
quell’altra attività), prova a sfruttare il principio di interleaving: la
constatazione neuroscientifica secondo la quale alternare argomenti e
problemi diversi, ma affini, può aiutare la memoria e la comprensione.
Quando studi qualcosa di complesso non sbattere la testa troppo a lungo
sullo stesso argomento, ogni due o tre ore passa a un altro argomento, ma
sforzati di trovare punti in comune, somiglianze e parallelismi. Questo è
particolarmente utile per la risoluzione di problemi in materie tecniche
complicate, come la matematica o la fisica.
Anche quando lavori, oltre a dare vantaggi in termini di creatività e
apprendimento, l’interleaving può aiutarti a tenere sotto controllo l’ansia
che ti prende quando sai di avere tante cose da fare e temi che, dedicando
troppo tempo a una sola di esse, rimarrai indietro con tutto il resto.
4. Consiglio bonus, che non aumenta la produttività ma che può sfruttare
quello di cui abbiamo parlato in questo capitolo a tuo vantaggio:
scarabocchia, quando senti che la tua concentrazione se ne sta andando.
Già, strano ma vero: scarabocchiare mentre ragioni o ascolti una lezione
può essere un’ottima idea. I motivi sono diversi, quello più interessante,
visto l’argomento di questo capitolo, è il fatto che, occupando una
piccola parte della nostra memoria di lavoro in questa attività, rendiamo
più difficile che altri pensieri e compiti vi ci si inseriscano e ci portino
inavvertitamente più vicini al multitasking. L’attività poco impegnativa
dello scarabocchiare resta in background, mentre il nostro focus rimane
indisturbato sul compito principale.

Ci sono poi altri motivi: sembra che scarabocchiare in modo ripetitivo,


automatico, quasi ritmico, riduca i livelli di cortisolo, permettendo di gestire
meglio lo stress dei compiti fortemente cognitivi. Scarabocchiare
migliorerebbe anche il ricordo, contrasterebbe la noia e la distrazione,
stimolerebbe la nostra partecipazione attiva a ciò che stiamo facendo.
Insomma, è un’ottima cosa… per alcune persone. L’unico problema è
che non funziona sempre: le persone troppo artistiche potrebbero finire per
disegnare sul serio, trasformando lo scarabocchio in un’operazione
complessa; chi ha la memoria di lavoro un po’ meno sviluppata potrebbe
non riuscire a gestire insieme lo scarabocchio e il focus sull’attività
principale… Insomma, questa strategia non è efficace per tutti.
In conclusione: morte al multitasking, lunga vita al monotasking e a tutte
le strategie, le tecniche, i trucchi che possano ridurre lo stress sulla nostra
attenzione e sulla nostra povera memoria di lavoro.
Chiunque dica il contrario, mente, sapendo di mentire.
16
“Questo è un lavoro da uomini”
La cazzata delle differenze intellettive uomo-donna

Pressappoco duecento anni fa, quando le prime ferrovie cominciavano a


innervare il suolo degli Stati Uniti d’America, un serpeggiante terrore
cominciò a diffondersi tra ingegneri e medici. Una domanda, un dubbio
potenzialmente dirompente: “Oddio! Ma non è che poi questi treni
rischiano di superare gli 80 km/h di velocità? Sarebbe un disastro!”. Tu
dirai: “E perché mai dovrebbe essere un problema se le locomotive
superassero gli 80 km/h?”. Ma è ovvio: perché il corpo delle donne non è
fatto per resistere a tali velocità, e se una donna dovesse salire su un mezzo
tanto rapido, alla prima accelerazione brusca l’utero le schizzerebbe fuori
dal corpo! Ti sembra una cazzata? Certo che lo è, eppure all’epoca era presa
maledettamente sul serio (anche se a dirla tutta pensavano anche che ci
fosse il rischio che pure il corpo maschile collassasse a velocità troppo alte),
come racconta l’antropologa culturale Genevieve Bell.
Ma queste perle di saggezza non sono cominciate duecento anni fa,
perfino Democrito nei primi trattati di medicina risalenti al V secolo a.C.
tacciava le donne di imperfezione, impurità e stregoneria. Così, perché gli
andava. Nella Historia Naturalis di Plinio Il Vecchio leggiamo che “il
contatto con una donna mestruata trasforma il vino in aceto, uccide le
sementi, devasta i giardini, rende opachi gli specchi, fa arrugginire il ferro e
il rame, fa morire le api, abortire le cavalle” e così via. Lontana dai miei
specchi, donna, che me li opacizzi tutti e poi mi tocca pulirli! Anzi, no, poi
tocca pulire a te, perché sei una donna!
Nel 1677, quando Elena Lucrezia Cornaro Piscopia chiede (tramite suo
padre, ovviamente) di potersi laureare in Teologia, l’esimio arcivescovo di
Padova, cardinale Gregorio Barbarigo, risponde: “È uno sproposito dottorar
una donna, ci renderebbe ridicoli a tutto il mondo”. Che vecchietto
simpatico. Alla fine, poi, Elena Lucrezia riesce a laurearsi, un anno dopo,
una delle prime se non la prima donna nella storia. Ma le danno la laurea in
Filosofia, ci mancherebbe, che la Teologia è materia troppo alta e divina per
una donna, non scherziamo. Questi simpaticoni, inoltre, non le assegnano
una cattedra per insegnare all’università. Sia mai, è una donna, non ha il
temperamento per insegnare, non sarebbe in grado, la vivrebbe male, è per
il bene suo e degli studenti (tutti maschi, ovviamente).
Ti sto raccontando questi fatti bizzarri (e ce ne sarebbero a migliaia) per
dire che di stereotipi di genere ridicoli nel corso dei secoli se ne sono visti
infiniti. Io ci scherzo, perché mi piace scherzare su qualsiasi cosa, ma non è
che sia stata proprio una festa, guardandosi indietro.
Oggi la situazione è migliorata, ma non allo stesso modo in ogni parte
del mondo e, soprattutto, non in via definitiva. Gli stereotipi sono ancora
ovunque, e infestano la nostra vita. Certo, magari si sono fatti meno
espliciti, meno sfacciati, meno oppressivi (ma ancora piuttosto
discriminatori); le leggi sono avanzate, la società è cresciuta e si è evoluta,
almeno dalle nostre parti, ma non è ancora finita: siamo ben lontani da un
mondo in cui gli individui vengono considerati in quanto tali e il genere di
appartenenza (oltre che il sesso e l’orientamento sessuale) non sono presi in
considerazione come variabili rilevanti.
Tra l’altro, a ben guardare, gli stereotipi di genere sono una piaga con
più facce: a ogni stereotipo di genere femminile ne corrisponde solitamente
uno opposto maschile (spesso molto meno impattante, ma comunque con
risvolti negativi). E allora ecco che se le donne sono deboli, fragili e
incostanti l’uomo deve sempre e comunque essere forte, freddo, infallibile.
Guai a piangere, non sei mica una donna! Se da un lato la donna è troppo
stupida e volubile per far carriera, l’uomo, invece, deve pensare solo alla
carriera e a fare soldi…
E se poi in questo quadro inseriamo altri elementi, come la fluidità di
genere, la non-binarietà, la transizione di genere, si apre il vaso di Pandora.
Oggi sembra impossibile trattare queste tematiche senza finire incagliati in
controversie politiche, battaglie ideologiche, conservatorismo tossico e
ipersemplificazioni. È un casino e un discorso troppo grande e complesso
perché io possa pensare di risolverlo da solo. Anche perché non ne so
praticamente niente, finirei per fare ridicolo mansplaining, preferirei
evitare.
Una cosa, però, non posso evitarla: affrontare i neuro-miti che hanno a
che fare con le donne, le credenze pseudoscientifiche, false o riportate in
modo scorretto nel discorso pubblico che riguardano il cervello femminile,
il ragionamento femminile, lo studio femminile. Eh sì, questo è terreno mio,
nessuno mi può fermare. Questo capitolo, quindi, è una carrellata di
stereotipi e dicerie su questi temi: li affrontiamo uno per uno e vediamo di
capire se c’è qualcosa di vero o sono tutte, ancora una volta, come sempre,
delle cazzate.

Le donne sono più stupide degli uomini

Che cosa ci dicono gli studi scientifici? Uomini e donne sono intelligenti
uguali? Sono più intelligenti le donne? Sono più intelligenti gli uomini? Ai
fini pratici quotidiani potremmo iper-semplificare e dire che, di fatto, sono
intelligenti uguali, ma faremmo un dispetto a chi queste cose le studia per
davvero. Non è così semplice, non lo è mai.
Quello che possiamo osservare, il punto di partenza fondamentale, è che
la distribuzione media di intelligenza tra uomini e donne è praticamente la
stessa, vale a dire che l’uomo medio e la donna media hanno lo stesso
livello di QI. Le due curve di distribuzione sono in larga parte sovrapposte.
Anzi, rubo di peso da un bellissimo libro chiamato Into the know, di Russell
T Warne la figura che rappresenta la curva di distribuzione.

Figura 16.1. La distribuzione del QI: in grigio la distribuzione maschile, in


nero quella femminile.

E… fermati un secondo, che lo so cosa ti è saltato in mente: se ti stai


domandando se il famoso QI, quoziente d’intelligenza, abbia senso e sia
utile, rappresenti davvero l’intelligenza e tutto il resto, porta pazienza che
ne parliamo nel prossimo capitolo, l’ultimo. Resisti.
Dicevamo: stessa distribuzione media di intelligenza. Che vuol dire?
Vuol dire che se prendi cento uomini e cento donne a caso troverai
pressappoco le stesse variazioni di intelligenza e gli stessi valori medi.
Oltretutto, la variazione di intelligenza intra-gruppo (cioè tra maschi e
maschi e tra femmine e femmine) è molto più elevata, ma tanto di più, di
quella tra i gruppi. Ciò vuol dire che non puoi fare in nessun caso previsioni
di intelligenza basandoti sul sesso di appartenenza. Insomma, dire che gli
uomini sono più intelligenti è falso, non ha senso statistico e non ci sono
riscontri nella realtà.
Ma possiamo fare un passo in più, perché uomini e donne non sono
identici e ci sono in particolare due differenze di intelligenza interessanti da
notare e descrivere, due variazioni: una nella distribuzione dell’intelligenza
e una nelle componenti dell’intelligenza.
Le ricerche hanno evidenziato che a entrambi gli estremi della curva
statistica di distribuzione del QI (la gaussiana, per chi vuole fare il figo), gli
uomini sono più rappresentati (anche se non è una differenza così enorme).
Che cosa vuol dire, in pratica? Vuol dire che, tra coloro che hanno il QI più
basso in assoluto, la maggioranza sono uomini, e tra coloro che hanno il QI
più alto in assoluto, anche lì, la maggioranza sono uomini. Di conseguenza,
la distribuzione di intelligenza delle donne pare essere meno accentuata,
meno sbilanciata, quella maschile oscilla di più.
Attenzione però: la sovrapposizione delle due curve che ti ho mostrato
prima rende comunque evidente la presenza sia di uomini sia di donne a
tutti i livelli di abilità, non è che ci siano solo uomini cervelloni e donne
mediocri, tutt’altro. Si tratta solo di differenze percentuali agli estremi, che
tra l’altro non sappiamo ancora con certezza da che cosa siano determinate.
Potrebbero essere fattori biologici, ambientali, culturali, sociali, educativi o,
molto probabilmente, tutte queste cose messe insieme.
La seconda differenza che le ricerche hanno mostrato è nella
distribuzione delle componenti del QI. Come ti ho detto, ne parleremo
meglio nel prossimo capitolo, ma intanto fatti bastare questa sinossi: il QI
misurato in modo scientifico è composto dalle misurazioni di diverse
abilità, di più componenti dell’intelligenza, non si appiattisce solo sulla
logica, o sulla matematica o sulla capacità visuo-spaziale e analizza un
sacco di diverse componenti.
Ecco, se è vero che la media del QI è praticamente identica tra uomini e
donne, queste componenti, invece, presentano differenze di distribuzione.
Nei maschi sarebbero leggermente più prevalenti, in media, l’abilità
spaziale e di calcolo; nelle femmine le abilità verbali e di ragionamento.
Anche qui, però, attenzione: le differenze sono molto meno marcate di
quello che certi stereotipi vorrebbero farci credere e molto meno
determinanti. Per esempio, non possiamo in nessun modo concludere da
questi dati che le donne siano meno brave in matematica, non è così che
funziona.
Per concludere, parliamo di… dimensioni. Non ci facciamo mancare
niente, c’è pure gente che va in giro a dire che le donne sono meno
intelligenti perché hanno un cervello più piccolo degli uomini. Beh, una
cosa non si può negare: le dimensioni del cervello femminile sono
leggermente più contenute, questo è vero. Ma basta pensarci più di dieci
secondi per rendersi conto che questo è banalmente dovuto al fatto che, in
media, le donne, sono più piccole degli uomini. In media sono meno alte. In
media pesano meno. Dire che questo abbia qualcosa a che fare con
l’intelligenza o con la predisposizione verso materie scientifiche è
assolutamente insensato. Argomentazioni di questo tipo non hanno proprio
alcun fondamento. Pensaci: se fosse vero che a cervello più piccolo
corrisponde minore intelligenza, allora un maschio di bassa statura sarebbe
per forza meno intelligente di un gigante e una donna più grande sarebbe
più intelligente di una più piccola. O una donna altissima e grandissima
sarebbe per forza più intelligente di… Tom Cruise. Aspetta, in questo caso
potrebbe anche essere vero, mi è uscito male l’esempio.
Comunque, nonostante il sistema nervoso di uomini e donne sia diverso,
i neurobiologi concordano sul fatto che si giunga ai medesimi risultati e alle
stesse abilità, e che le differenze dimensionali non abbiano alcun impatto.
Insomma, la statistica è una cosa complicata, la biologia è una cosa
complicata, le semplificazioni rischiano sempre di mandare fuori strada e in
argomenti come questi il rischio è anche che persone con pochissimi
scrupoli strumentalizzino dati che non capiscono. Quindi, mi raccomando,
togliti dalla testa tutta la stupida propaganda su queste tematiche e sforzati
di contrastare gli stereotipi assurdi che hai assorbito crescendo.
Le donne sono più intelligenti degli uomini

Per quanto decisamente meno diffuso, anche lo stereotipo contrario, che


vuole le donne molto più intelligenti degli uomini, talvolta trova spazio nel
discorso pubblico, a volte anche solo come frase buttata lì a caso. Ma a noi
le frasi buttate lì a caso non piacciono, quindi le distruggiamo.
Ovviamente, questa visione è altrettanto falsa: potrei copiare e incollare
le frasi del paragrafo precedente, perché le argomentazioni sono identiche.
Ma non lo farò, altrimenti poi parti col preconcetto che gli uomini siano
pigri (e, nel mio caso, avresti assolutamente ragione).

Le donne non sono portate per le materie scientifiche

Vabbè, negare le differenze biologiche tra il cervello maschile e quello


femminile non avrebbe alcun senso. Le differenze ci sono, senza dubbio,
ma prendere quelle differenze e spostarle sul piano del “chi è migliore di
chi a fare che cosa” è un atteggiamento antiscientifico: non porta a nessun
risultato concreto, perché non è vero.
Quindi no, le donne non sono meno portate per le materie scientifiche, le
differenze di distribuzione nelle componenti dell’intelligenza che ti ho
spiegato prima non giustificano questa conclusione. Ma allora perché si
dice che le donne non sono brave in matematica? Da dove hanno origine
queste ipotesi? C’è un fondo di verità?
Stranamente sì, il fondo di verità c’è, ma non ha nulla a che fare con le
capacità intellettive delle donne, ma con il modo in cui cresciamo e
educhiamo, con i modelli cui esponiamo e con le scelte verso le quali
spingiamo. È un argomento piuttosto interessante, perché va ad
approfondire da un lato la questione degli interessi e dall’altro l’impatto che
l’assetto culturale ha sulla vita delle persone. Sugli interessi intellettuali e le
loro differenze di genere troverai un paragrafo a parte, il prossimo. Ora
focalizziamoci sull’influsso educativo, culturale, sociale.
Il comportamento dei genitori e i messaggi che arrivano dall’ambiente
possono influenzare in modo massiccio l’atteggiamento di una persona, in
questo caso di una bambina e poi di una donna, verso una specifica
situazione o materia, in questo caso le scienze. Una delle conseguenze di
questo influsso può tranquillamente essere la minor probabilità, per le
donne, di scegliere una carriera in ambito scientifico. O il minore sviluppo
delle abilità cognitive relative a quelle materie, pur avendo tutte le
caratteristiche di partenza per competere alla pari con chiunque. Per dirla
semplice, se prendi una bambina di sette anni e la bombardi di messaggi
secondo i quali non è portata per la scienza e deve solo giocare a cucinare e
pulire per terra, mentre i compagni maschi si preparano a progettare il
prossimo missile che porterà la razza umana su Marte, questo avrà un
impatto a lungo termine. Un impatto enorme.
Va benissimo assecondare le naturali preferenze di ognuno. Se a una
bambina piacciono le bambole va benissimo regalargliele, così come
regalare un pupazzetto di Batman a un bambino che ne è appassionato. Ma i
Lego, quelli sì, andrebbero comprati a entrambi. Capisci che cosa intendo?
Questa cosa è solo all’apparenza superficiale. Non lo è. Ingigantita su scala
sociale porta a insicurezze e differenze che diversamente o non ci sarebbero
state o sarebbero state molto più sfumate.
Oltre all’influsso dei genitori e a quello della società, si può sommare
pure l’effetto della scuola. E questa è una cosa tosta. Hai mai sentito parlare
di “effetto pigmalione”? Effetto pigmalione, Rosenthal, “profezia che si
autoavvera”, nomi differenti per indicare la stessa cosa: se gli insegnanti
credono che un bambino o una bambina sia meno capace, si comporteranno
di conseguenza. Questo potrebbe instaurare un circolo vizioso per cui, a
lungo andare, l’alunno o l’alunna si comporterà proprio in modo da
confermare l’idea dell’insegnante. Funzionerebbe anche al contrario: se gli
insegnanti si convincono che il bambino o la bambina sia più intelligente o
più capace, si comporteranno di conseguenza, e influenzeranno lo sviluppo
e i risultati stessi. Per chiarezza devo dirti che sono state sollevate critiche
non indifferenti alla scientificità degli studi sull’effetto pigmalione; quindi,
non me la sento di mettere la mano sul fuoco su quanto sia determinante in
assoluto questo fattore.
Una cosa è innegabile: il potere che abbiamo, specie quando ci
occupiamo dell’educazione nell’età dello sviluppo, sulla valorizzazione
delle capacità cognitive individuali di chi sta crescendo è sconcertante. Una
responsabilità enorme, un ruolo cruciale: le convinzioni che si creano nei
primi anni di vita e nell’adolescenza sono difficili da smontare nella vita
adulta. Bisogna lavorare insieme, a livello di sistema, per abbattere certi
muri. E non importa quanto tempo ci vorrà.
Anche perché, al di là dell’aspetto etico-morale e del discorso sulla
parità di genere, non possiamo permetterci di perdere cervelli talentuosi
sull’altare di stronzate insensate e superate.

Le donne hanno interessi intellettuali diversi dagli


uomini

Un punto al mondo dello stereotipo dobbiamo, purtroppo, concederlo: ci


sono effettivamente differenze misurabili a livello percentuale nelle
preferenze sulle materie scolastiche, nei gusti, negli interessi, intellettuali e
non. Queste differenze si riscontrano in tutte le fasce di età. Anche la nostra
esperienza quotidiana conferma queste osservazioni: nessuno si sognerebbe
di affermare che ragazzini e ragazzine parlano e si interessano alle stesse
cose, in media. Semplicemente, non è così. MA (ed è un “ma” grande come
una casa), bisogna puntualizzare una cosa che cambia parecchio le carte in
tavola: noi non sappiamo perché ci siano queste differenze nella nostra
società, né quanto contribuiscano i vari fattori di cui abbiamo appena
parlato.
È logico e credibile ipotizzare che esistano differenze biologiche,
sarebbe strano che l’evoluzione non abbia messo lo zampino anche in questi
aspetti, che si possono osservare anche nel mondo animale. Con grande
probabilità, però, quelle differenze biologiche giustificherebbero scarti di
interesse molto minori di quelli che osserviamo ogni giorno. Il resto è
influsso culturale, rinforzo, educazione, pressione sociale e pressione di
gruppo.
È improbabile che possa esistere un mondo in cui le differenze di
interessi siano ripartite in percentuali identiche tra uomini e donne, in cui ci
siano il 50% di iscrizioni maschili e femminili in ogni facoltà universitaria.
Possiamo assolutamente immaginare (e aspirare a) un mondo in cui le
differenze siano 60-40, ma non 90-10. Un mondo in cui non è per niente
strano vedere una ragazza che si iscrive a Ingegneria meccanica e non è
strano per un ragazzo iscriversi a Scienze della formazione primaria.
Quindi sì, ci sono differenze reali, ed è giusto studiarle, riconoscerle,
considerarle, perfino valorizzarle. Dobbiamo essere consapevoli, però, che
queste differenze non giustificano la discriminazione, la differenza di
opportunità e il divario di genere nelle professioni e nelle scelte di studio
che vediamo: l’influsso culturale è enorme e l’educazione fa la differenza,
sono questi i fattori che mettono il turbo alla disparità.

Le donne sono più brave a scuola

Sembra paradossale, ma per quanto da un lato sia diffusa l’idea che le


donne non siano portate per la matematica, le donne non siano portate per le
scienze, le donne siano meno intelligenti, dall’altro si dice anche che,
comunque, le ragazze sono più brave dei ragazzi a scuola.
E questo è deleterio per i ragazzi, che possono convincersi sempre di più
di non essere portati per lo studio, arrivando a un maggior abbandono
scolastico rispetto alla controparte femminile. Ma le conseguenze negative
ci sono anche per le ragazze che, oltre a dover affrontare lo stress scolastico
intrinseco alla scuola, si ritrovano a fare i conti con la pressione e le
aspettative che gravano su di loro.
Un’insufficienza al ragazzino ribelle si supera con una scrollata di
spalle, ma un’insufficienza a una ragazzina no: quella è un dramma
esistenziale e una colpa da espiare. Non è sempre così, ovvio, sto
esagerando, ma capita, e parecchio.
Se proprio volessimo sforzarci di trovare un senso a questo stereotipo
potremmo ricercarlo nelle differenze a livello di tratti di personalità, altro
campo estremamente controverso e difficilissimo da gestire a livello
scientifico. Il paradigma più accreditato a oggi nella descrizione della
personalità umana è quello dei cosiddetti “Big Five”, i cinque tratti di
personalità. Ognuno di questi tratti è suddiviso in due componenti, che
possono essere misurate con dei test psicologici particolari. L’interazione
tra questi tratti di personalità e queste componenti, il loro mix,
rappresenterebbe le nostre tendenze caratteriali e descriverebbe in modo
piuttosto accurato il nostro comportamento (Figura 16.2).
Non è un modello perfetto (e le critiche si sprecano), ma a oggi è quello
più solido a livello di evidenze empiriche sperimentali.
Perché ho divagato su questa cosa? Non parlavamo delle origini del mito
che le donne vadano meglio a scuola? Sì, dammi un paio di righe e te lo
spiego, non andare di fretta.
Figura 16.2. Il modello dei “Big Five”: i cinque grandi tratti di personalità.

Le donne sono più brave nelle lingue

Un aspetto su cui si può aprire una parentesi incerta è la questione


dell’apprendimento linguistico. Se fai un giro per i licei linguistici o le
facoltà di lingue, non sarà difficile riscontrare che la percentuale di donne
tende a superare (a volte con ampio margine) quella degli uomini. Qualcuno
potrebbe giungere alla conclusione che, di conseguenza, le donne siano più
portate per le lingue, e questo stereotipo, infatti, seppure meno diffuso degli
altri, esiste… Ma è davvero così?
Avventurarsi nella letteratura scientifica a riguardo non è affatto
semplice, la mia aspettativa quando ho cominciato a cercare era quella di
riconfermare che, nonostante le innegabili differenze strutturali e
biologiche, la ragione fosse comunque da ricercare negli aspetti
socioculturali. E, nella maggior parte dei casi, non sembrano esserci
differenze degne di nota. Ma non volendo farmi influenzare dal mio bias di
conferma, sono andato ancora più a fondo e ho trovato due studi molto
interessanti, che lascio nella Bibliografia del capitolo, i quali sembrano
quantomeno suggerire che ci siano caratteristiche diverse nel modo in cui
maschi e femmine apprendono le lingue. Non è chiaro, però, come funzioni
davvero tutto questo.
Quindi, al momento, sospendo il giudizio e ammetto candidamente di
non sapermi esprimere con sufficiente certezza.

Le donne sono incostanti nelle attività intellettuali

Che ti devo dire… qualcuno ancora la pensa così. Spesso tutti questi
stereotipi legati all’incostanza e alla volubilità sono legati al ciclo
mestruale. Bene, all’Università di Zurigo si sono presi la briga di dimostrare
come non ci sia alcuna correlazione significativa tra l’andamento del ciclo
mestruale e la performance cognitiva delle donne, giusto per stroncare
definitivamente tutti coloro che si permettono di definire le donne “non
adatte alle attività intellettuali”.
Così possiamo finalmente metterci il cuore in pace anche su questo.
E qui mi fermo. Ci sarebbero mille altre cose interessanti da analizzare,
ma rischierei di allontanarmi troppo dalla mia area di competenza. Spero
comunque che questo capitolo possa averti fatto ragionare un po’ su questi
temi, che mi stanno davvero a cuore. Sono convinto che nel mondo dello
studio, della cultura, dell’intelletto, la vera parità di genere e la vera
uguaglianza di opportunità non sia soltanto giusta, doverosa, etica, ma
soprattutto necessaria per lo sviluppo della nostra specie.
E gli stereotipi che ti ho raccontato non sono niente rispetto a quello che
accade a qualche migliaio di chilometri di distanza da noi. Viviamo ancora
in un mondo in cui milioni di donne non hanno accesso all’istruzione o non
possono esprimere al meglio le loro facoltà cognitive per colpa di leggi
repressive, dettami religiosi, tradizioni vetuste e inaccettabili. Non
possiamo permetterlo e non possiamo perdonarlo.
E parlare di queste cose anche in un contesto del tutto diverso, come il
nostro, che sembra ad anni luce di distanza da quella realtà, ci allena a non
dimenticarci di questa battaglia.
17
“Chiunque è un genio, a modo suo”
La cazzata delle intelligenze multiple

Oh, mamma! Siamo quasi arrivati alla fine del libro. Mi tocca tirare
fuori il singolo argomento che può far imbestialire di più chi mi legge, e mi
tocca farlo con un capitolo bello lungo. Mi tocca parlare di intelligenza,
anzi, di intelligenze, al plurale. Questo argomento l’ho lasciato per ultimo
apposta, sperando che tu ti stufassi di leggere prima, perché so bene quanto
possa essere divisivo: è un tema che tocca corde intime della nostra
persona, gioca con convinzioni e credenze profonde, con il nostro ego, con
il modo in cui percepiamo (e immaginiamo) la realtà.
Invece di occupare questo spazio iniziale del capitolo per un rant
sarcastico, quindi, stavolta lo userò per mettere le mani avanti e per
scusarmi in anticipo: mi scuso perché quello che stai per leggere, forse, ti
darà fastidio. Ogni volta che ne parlo online succede il finimondo: ho
imparato che le persone arrivano a starci proprio male e non è qualcosa che
da insegnante e divulgatore mi faccia piacere.
Però.
Però siamo partiti dal presupposto che l’unico modo per imparare
qualcosa su di noi, sul nostro modo di pensare, studiare e imparare è seguire
ciò che dice la scienza. Per onestà intellettuale, quindi, dobbiamo mantenere
questo approccio sempre, anche quando non ci piace, anche quando
distrugge le nostre speranze e le nostre aspettative.
Se ci siamo permessi di ridere insieme di fronte a chi spera di imparare
ascoltando delle voci nel sonno, se abbiamo bacchettato chi scrocca gli
appunti, se abbiamo sfottuto chi crede di manipolare la realtà con la
visualizzazione, allora dobbiamo quantomeno accettare il fatto che
sull’intelligenza, le sue componenti, il suo funzionamento, ci sono realtà
accertate da decenni. Realtà che non sono perfette: la scienza non procede
per Verità assolute, ma per approssimazioni e verità relative, valide fino a
prova contraria. Ci sono sempre errori da correggere, problemi da risolvere,
aree ancora oscure da esplorare.
Ma quello che ti presenterò qui è rappresentativo di ciò che sappiamo
oggi, di ciò che è accettato e applicato da chi studia scientificamente il
fenomeno dell’intelligenza. E, infatti, come sempre, troverai una ricca
bibliografia in cui immergerti, se ti andrà.
Allora… facciamo così: io cerco di essere meno pungente del solito, per
rispetto di un tema che, per la maggioranza delle persone, è delicato. Tu, dal
canto tuo, mi segui fino alla fine e mi dai il beneficio del dubbio.
Partirò dalle intelligenze multiple di Gardner, arriverò al tema del QI
(quoziente d’intelligenza), toccherò pure l’intelligenza emotiva. Farò del
mio meglio per essere chiaro e completo.
Per preparare l’atmosfera, ti dedico una versione da me rivisitata di una
delle frasi motivazionali più condivise sui social network dall’alba dei
tempi. Ovviamente è attribuita ad Einstein, che, altrettanto ovviamente, non
l’ha mai pronunciata:
Se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita a credersi
stupido.
Noi però siamo tutti scimmie e se non riusciamo ad arrampicarci sugli alberi, beh,
tanto intelligenti non siamo.

Gardner illumina la via

Partiamo dalle basi: che cos’è la teoria delle intelligenze multiple? Si


tratta dell’idea secondo la quale esistono molti tipi di intelligenze differenti,
che si manifestano in modo differente in aree differenti della nostra vita.
Ognuno di noi le avrebbe tutte, ma alcune sarebbero più sviluppate di altre.
Comprendere le proprie intelligenze più sviluppate (o la propria intelligenza
più sviluppata) ci aiuterebbe a capire meglio chi siamo, come funzioniamo,
quali sono i nostri talenti, come condurre la nostra vita.
Questa teoria è stata proposta per la prima volta negli anni Ottanta dallo
psicologo statunitense Howard Gardner. Gardner è partito criticando la
misurazione dell’intelligenza generale adottata fino ad allora (e ancora in
uso oggi, poi ne parliamo). La sua idea si muove dall’assunto che
l’intelligenza non possa essere un fattore unitario misurabile attraverso il
“quoziente d’intelligenza”. Il QI, per Gardner, non ha senso, perché non
esiste una sola intelligenza da misurare, ne esistono tante.
Devo dirti la verità: personalmente io ho un’enorme simpatia per
l’intento di questo lavoro, che vuole rendere giustizia all’enorme varietà di
modi di pensare, sentire e agire che caratterizzano gli esseri umani. Tutto
quello che sono mi porta a tifare per Gardner. La realtà, però, non è
d’accordo.
Ma facciamo un passo indietro: prima di capire quali critiche smontino
questa teoria, descriviamo una carrellata delle intelligenze descritte da
Gardner. Inizialmente erano sette, ma si sono poi espanse a nove con lavori
successivi e integrazioni varie.

● Intelligenza logico-matematica: l’abilità nel riconoscere modelli astratti,


discernere relazioni e connessioni tra vari argomenti. La capacità di
svolgere calcoli complessi, applicare il metodo scientifico, il
ragionamento logico-deduttivo.
● Intelligenza linguistico-verbale: l’efficacia nell’utilizzo delle parole, nella
lingua parlata e in quella scritta. La capacità di manipolare la sintassi,
scegliere le parole, padroneggiare la struttura linguistica e tutte le sue
implicazioni semantiche.
● Intelligenza cinestetica: la naturalezza e l’efficacia con cui si usa il
proprio corpo, la coordinazione, la flessibilità e le abilità fisiche in
generale.
● Intelligenza visivo-spaziale: la capacità di visualizzazione mentale, la
memoria visiva, il senso di orientamento, tutto ciò che ha a che fare con
la percezione visiva e la rappresentazione visiva di oggetti, concetti e
dello spazio circostante.
● Intelligenza musicale: la facilità nel distinguere con precisione l’altezza
dei suoni, timbri e ritmi, l’abilità di discriminare, trasformare ed
esprimere le forme musicali, di immaginare e creare musica.
● Intelligenza intrapersonale: la capacità di riconoscere i propri sentimenti
e saper agire in maniera coerente con essi. La consapevolezza di
guardarsi dentro, capirsi, sapere che cosa ci muove e ci spinge ad agire,
avere un ottimo rapporto con la propria interiorità.
● Intelligenza interpersonale: l’interpretazione degli stati d’animo,
motivazioni e intenzioni altrui. La capacità di relazionarsi con gli altri e
di cooperare in modo efficace.
● Intelligenza naturalistica: la propensione a comprendere e apprezzare gli
elementi naturali. La capacità di gestire gli esseri viventi e interagire con
essi in modo proficuo.
● Intelligenza filosofico-esistenziale: l’abilità e la tendenza a occuparsi di
questioni intellettuali complesse e astratte, l’attrazione per discorsi
filosofici sulla vita e il suo senso. La capacità di porsi grandi domande e
cercare grandi risposte.

Queste sarebbero le varie intelligenze, presenti in misura diversa dentro


di noi. Ci sarebbero individui nettamente sbilanciati a favore di una o due
intelligenze e individui più bilanciati su varie dimensioni.
Sarebbe bello, se fosse anche vero.

Come (non) funziona

Ma la realtà ci si rovescia addosso come un secchio di acqua gelata. Ci


sono tre grandi motivi per cui la teoria delle intelligenze multiple non
regge: uno scientifico-metodologico, uno storico-descrittivo e uno
filosofico.
Partiamo con quello filosofico: questa teoria (che in realtà andrebbe
definita “ipotesi”, per essere pignoli), parte da fondamenta decisamente
deboli, perché attribuisce al termine “intelligenza” un valore così ampio,
così generale e così fumoso da rendere quasi impossibile la sua definizione.
Nel mondo di Gardner si definisce intelligenza una qualsiasi manifestazione
umana positiva in un qualche campo. Praticamente qualunque cosa faccia
bene un essere umano è un’intelligenza.
Questa interpretazione è piaciuta tantissimo, perché solletica la nostra
voglia di unicità e la nostra speranza che ognuno di noi, a modo suo, sia
geniale in qualcosa: tutti abbiamo un nostro talento da valorizzare. Invece
di procedere, come sempre si fa nella scienza, cercando di restringere il
campo, definirlo al meglio e poi poterlo misurare e manipolare, abbiamo
cominciato a chiamare “intelligenza” qualunque caratteristica o
manifestazione dell’agire umano che valutiamo come preziosa ed efficace.
Ma questo è un errore metodologico grosso come una casa: se allarghi
troppo una definizione, quella smette di avere un significato, non è più
utilizzabile, non si può più sfruttare per nessuno scopo utile. Pensaci:
secondo questo paradigma potremmo sostituire la parola “intelligenza” con
“qualità positiva” e il significato sarebbe esattamente lo stesso. Purtroppo.
Passiamo alla questione storico-descrittiva, riguardante cioè il lavoro di
Gardner stesso. Lo scienziato non è stato per niente chiaro nell’illustrare le
modalità di valutazione e individuazione di tutte queste intelligenze che ha
definito, complicando la vita ai poveri ricercatori che si sono ingegnati per
capire le sue proposte nella maniera più precisa e scrupolosa possibile. Tra
l’altro, nonostante Gardner avesse reso pubblica la sua teoria già nel 1983, i
primi studi empirici per sottoporla a test sono stati fatti soltanto ventitré
anni dopo, nel 2006, da Visser e il suo team, e i risultati non furono “molto
promettenti”, per dirla in modo garbato.
In altre parole, il modo di lavorare di Gardner era incompatibile con
ogni standard accettabile in un laboratorio psicologico ed era molto più
simile all’approccio che usavano i filosofi di una volta: partiva da un’idea
che trovava interessante, ci rifletteva su e cercava di trovare il modo di farle
avere senso, ma non aveva un gran rispetto del metodo sperimentale, non
metteva alla prova le sue idee, non cercava di falsificarle. Per farti capire
meglio il suo atteggiamento, ti lascio una citazione proprio di Gardner, che
ho ripreso e tradotto dal libro Into the know, di Russell T. Warne, che ti ho
già citato anche nello scorso capitolo:
[…] e se anche poi alla fine venisse fuori che i cattivi [cioè chi parla dell’intelligenza generale,
N.d.A.] sono più precisi scientificamente di quanto non lo sia io, beh, la vita è breve, dobbiamo
scegliere come spendiamo il nostro tempo, ed è qui che penso che il modo di pensare delle
intelligenze multiple continuerà a essere utile, anche se l’evidenza scientifica non lo supportasse.

Parole sue. Cioè: a Gardner non gliene importava nulla di dimostrare le


sue idee, a lui bastava fossero belle e utili, non per forza vere. E tutti gli
altri sono i cattivi.
È qui che arriviamo alla terza problematica, quella che conta davvero,
che poi tutto il resto sono chiacchiere: non solo non ci sono prove
sperimentali, empiriche, validate, che le intelligenze multiple esistano, ma
tutte le prove che abbiamo vanno in direzione opposta. Secondo chi studia
davvero queste cose e non si ferma agli articoli carini su Internet, la teoria
proposta da Gardner è incoerente, instabile, incapace di essere predittiva.
Oltretutto, l’evidenza empirica che le diverse abilità cognitive non siano
indipendenti l’una dall’altra è soverchiante: la stragrande maggioranza degli
studi ha riscontrato una fortissima inter-correlazione tra le varie
manifestazioni di intelligenza, a dimostrare come sia praticamente
impossibile considerarle appartenenti ad aree specifiche e slegate tra loro.
Insomma, anche se le intelligenze multiple esistessero (e nessuno è riuscito
a provarlo), non sarebbe vero che abbiamo più sviluppate una o più di
quelle intelligenze, perché risultano essere tutte collegate fra loro.
Le varie forme di competenza intellettuale degli esseri umani si
influenzano costantemente l’una con l’altra, e questo è dovuto anche dalla
struttura stessa del cervello, le cui varie parti sono in perenne
comunicazione. Non esiste un’area che, da sola, si occupi di funzioni
cognitive complesse come la produzione linguistica o l’interazione sociale:
tantissimi gruppi di neuroni collaborano e si condizionano a vicenda, in un
intricatissimo flusso di impulsi elettrici.
Attenzione, però: questo discorso non ha lo scopo di negare l’esistenza
di qualità personali come la tenacia, il senso di responsabilità, le capacità
atletiche o le abilità sociali. Ma si tratta, appunto, di “abilità”, in inglese
skills. Spingendoci un po’ oltre possiamo definirli “talenti”,
“predisposizioni”, “tendenze”: queste sono le parole che usiamo per
descrivere quanto una persona sia in grado di applicare le proprie capacità e
conoscenze in un’area specifica della propria vita. Ma non sono termini
scientifici e non hanno pretesa di descrivere la realtà del cervello.
Quello che non si può fare è considerare ogni singolo talento o qualità
come un’intelligenza distinta e separata da tutto il resto. Il problema sta
nella definizione: non si può abusare della parola intelligenza e chiamarla in
causa ogniqualvolta si ritiene che una data caratteristica sia più speciale
delle altre, si rischia soltanto di creare più confusione di quanto non ci sia
già intorno a questo tema.
Questo ci porta al punto successivo: ma è possibile misurare in modo
accurato l’intelligenza? C’è qualcosa che funziona meglio di questa teoria,
che ha prove reali a supporto? Sì, a entrambe le domande. È ora di parlare
di QI.

Ma il QI ha senso?

La prima, primissima critica che si solleva quando si comincia a parlare


di misurazione dell’intelligenza con il QI è di solito sulla falsa riga di: “Eh,
ma il QI misura solo le abilità logiche”, “Eh, ma il QI non tiene conto delle
diverse intelligenze di ognuno”, “Eh, ma il QI è limitato”, … Queste frasi
fatte si basano su una mancanza di conoscenze su come funzioni davvero la
misurazione del quoziente d’intelligenza. Lascia che mi spieghi.
Coloro che occupano di psicologia e psicometria sanno, da tempo, che
l’intelligenza è un fenomeno complesso, globale, che mette insieme miriadi
di fattori, e hanno quindi piena consapevolezza del fatto che non si possa
appiattirla in un unico parametro. Infatti, al contrario di quanto pensa chi
commenta da dietro una tastiera, il QI misurato dai test scientifici non è
affatto un parametro univoco, che misura un solo tipo o una sola
manifestazione di intelligenza; al contrario, è un parametro medio che mette
insieme e correla abilità e funzioni cognitive differenti. Il QI si riferisce,
infatti, al concetto di “intelligenza generale”: un valore descrittivo del
funzionamento intellettivo composto da vari elementi specifici messi
insieme.
Che cosa si fa, nel concreto? Si analizzano e misurano le varie
componenti dell’intelligenza, le varie abilità cognitive che contribuiscono
all’intelligenza stessa e poi si fa una media, mettendo insieme tutti questi
parametri e queste abilità, cercando le correlazioni positive. Il risultato è
quello che viene chiamato “fattore G”.
Il test più famoso e utilizzato in campo medico e psicologico è il test
WAIS (Weschler Adult Intelligence Scale, arrivato alla quarta edizione), che
analizza nello specifico quattro diverse dimensioni, quattro componenti
principali dell’intelligenza:

● comprensione verbale;
● ragionamento visuo-percettivo;
● memoria di lavoro;
● velocità di elaborazione.

Tra l’altro, le cose sono ben più approfondite: ognuna di quelle quattro
dimensioni ha una serie di sottoinsiemi che vengono indagati con test
distinti. Taglio corto, altrimenti non finiamo più.
Credo che già da ora puoi renderti conto della profonda differenza con il
sistema di Gardner. Le intelligenze multiple cercavano di riferirsi ai risultati
finali dell’intelligenza, alle loro manifestazioni nell’attività umana. La
misurazione del QI si riferisce, invece, al funzionamento del cervello, alle
capacità che stanno alla base di qualunque attività umana, in qualunque
campo. Che tu debba curare gardenie, lavorare in un ufficio, risolvere un
problema di matematica, suonare uno strumento musicale, sostenere un
esame universitario, discutere di filosofia o giocare a pallacanestro, avrai
sempre e comunque bisogno di impegnare la tua memoria di lavoro per
elaborare informazioni. E più memoria di lavoro hai e meglio è. Avrai
sempre bisogno di comprendere il tuo contesto e il linguaggio degli altri
esseri umani; avrai sempre bisogno di compiere ragionamenti, percepire e
visualizzare l’ambiente intorno a te e avrai sempre bisogno di rapidità di
pensiero. Più questi elementi saranno sviluppati e migliori risultati otterrai,
in qualunque campo. Più questi elementi saranno sviluppati e… più
intelligente sarai.
Il risultato che emerge dal test del QI, che rappresenta la media tra questi
elementi, è quindi un dato aggregato, non singolo e unidimensionale.
Questo dato può essere espresso con un numero, che, di fatto, indica la
capacità generale del tuo cervello (e del mio e di quello di chiunque) di
risolvere problemi, in qualunque ambito. Ecco, quel numero è il QI, la
misura dell’intelligenza generale. In questi test si cerca di sfruttare prove
che siano il meno possibile legate ad aspetti culturali (anche se vedremo che
questo rimane un problema) e sulle quali sia complicatissimo (se non
impossibile) allenarsi, in modo da rappresentare con quanta più precisione
possibile le capacità di base dell’individuo.
Lo strumento del QI è in uso da decenni e ha tutto quello che alla teoria
di Gardner manca:

● una definizione chiara, accurata e comprensibile;


● capacità predittiva (c’è una correlazione nettissima tra il possesso di un
QI elevato e il successo nel mondo del lavoro, il raggiungimento di un
alto reddito e mille altri contesti e parametri);
● solide prove empiriche;
● infiniti esperimenti ripetuti nel tempo e verificati in modo indipendente
da migliaia di team di ricerca;
● utilizzi concreti in campo medico e psicologico (è sulla base di questi test
che si diagnosticano problemi di ritardo cognitivo e si prendono decisioni
su terapie farmacologiche).

È roba seria, insomma, non quiz su Facebook e oroscopi.


A parità di QI, comunque, ci sarà chi è più o meno abile in specifiche
situazioni o tipologie di problema. Il QI non vuole appiattire l’intelligenza,
standardizzarla, quanto piuttosto creare un punto di partenza da cui poi
esplorare le diverse componenti. Ogni persona è diversa dall’altra, non
esiste un’unica scala che renda conto di tutto ciò che significa appartenere
alla specie umana e il QI stesso non è l’unica cosa che conta: la personalità,
per esempio, gioca un ruolo quasi altrettanto importante. Ma questo è un
tema per un altro libro.
Per quanto riguarda lo sviluppo dell’intelligenza generale, di certo
sappiamo che in buona parte il nostro QI dipende dalla genetica, dalla
biologia, ma altrettanto importante è l’ambiente in cui cresciamo e gli
stimoli che ci vengono dati durante l’infanzia. L’educazione,
l’alimentazione, il gioco, la cultura, il benessere psicologico hanno impatti
notevoli sullo sviluppo della nostra intelligenza. Non approfondisco oltre,
perché già così sto andando lunghissimo.
In ogni caso, la nozione di misurazione dell’intelligenza generale è
antipatica, scomoda, fastidiosa, ed è facile capire perché: perché se esiste un
parametro generale, allora significa che ci sono persone che hanno quel
parametro più alto di noi (così come persone che ce l’hanno più basso) e
che esistono differenze oggettive. C’è chi è più intelligente e chi lo è meno
e, per quanto questa realtà scientifica sia anche confermata dalla nostra
esperienza quotidiana, purtroppo questa ci sembra un’enorme ingiustizia,
che stride con la nostra umanità. A quasi nessuno di noi dà fastidio
ammettere che esistano persone più o meno alte, perché, nonostante
l’altezza sia un fattore importante in alcune attività, non è qualcosa con cui
ci identifichiamo e non fa poi davvero differenza nella vita. In più, è
qualcosa che non si può ignorare, perché lo vediamo coi nostri occhi e che
possiamo misurare in modo intuitivo.
Per l’intelligenza è diverso: l’intelligenza ci definisce, sta alla base di ciò
che siamo e di ciò che facciamo, ed è veramente orrendo il fatto che,
semplicemente, ci sia chi ne ha di più e chi di meno. Per di più, è invisibile
e molto difficile da misurare, dunque più facile da ignorare, aggirare o
mettere in discussione.
Io te l’ho detto che questo capitolo sarebbe stato spiacevole: penso
davvero che un mondo in cui la teoria di Gardner fosse reale sarebbe più
giusto, più equo, più bello e più felice. Ho cercato in tutti i modi di
convincermi che Gardner avesse ragione, ma la scienza è vera, che tu ci
creda o no, come dice il mitico Neil DeGrasse Tyson, e, arrivati a questo
punto, con tutte le evidenze che abbiamo, sarebbe folle rifiutarsi di vedere
le cose come stanno.

I problemi del QI

Ah, non vorrei che poi passasse un messaggio errato: il QI misurato con
il test WAIS-IV è senza alcun dubbio il miglior strumento mai creato per
descrivere e misurare l’intelligenza, ma questo non significa che sia
perfetto. Problemi e limiti ci sono, eccome, te ne elenco alcuni.

● Per estrarre il famoso “fattore G” si prendono in considerazione solo


quelle quattro dimensioni. Potrebbero essercene anche altre e su questo
non ci si può esprimere. La misurazione è precisa, ma potrebbe essere
comunque troppo restrittiva. Questo però è un argomento per continuare
a migliorare i test e a studiare più a fondo l’intelligenza, non è una critica
reale all’impostazione del concetto di QI.
● Il valore del test, in sé, può dare problemi. È stato dimostrato che può
essere influenzato da fattori esterni, come la motivazione allo
svolgimento, il generale benessere psicofisico al momento della prova, la
familiarità con situazioni e test analoghi, la tolleranza allo stress della
performance… Questo è il motivo per cui questi test non possono essere
fatti a caso, ma devono essere somministrati da psicologi addestrati, in
ambienti controllati e tenendo conto di tutto il profilo psicofisico del
soggetto. Ma anche gli psicologi possono sbagliare, dunque l’errore
umano in queste misurazioni non è eliminabile (al momento).
● Il fattore culturale, per quanto minimizzato dal tipo di prove, come
dicevamo, risulta ancora determinante. Come si può fare un test di
discriminazione semantica a chi non sa leggere e scrivere, per esempio?
Eppure, potrebbe essere una persona intelligentissima. Abbiamo la
certezza che la capacità di indicare il numero successivo in una serie
numerica non sia anche influenzata dalla familiarità con la matematica?
Insomma, hai capito.
● Infine, ultima controversia da chiarire, quella relativa al che cosa indichi
davvero il QI: parliamo di potenza del cervello, di capacità generale di
base, non di effettivo uso di quella potenza. Misurazioni del genere ci
dicono quanto è potente il motore della macchina in contesti specifici,
non dicono nulla però di chi pilota (che poi è la personalità).

Per cui si può essere incredibilmente intelligenti ma comportarsi da


stupidi. O si può dimostrare una profonda intelligenza, ma solo in un
determinato campo. Di esempi di intelligenza (e stupidità) settoriale è pieno
il mondo.
Bisogna imparare ad accettare la complessità: il concetto di QI non è
perfetto e dovrà essere migliorato, integrato, modificato nel tempo, con
l’evoluzione scientifica e l’avanzamento della ricerca. Ma il fatto che non
sia perfetto non vuol dire che sia inutile, che non sia valido, che non
funzioni o che valga quanto tante teorie campate in aria e non dimostrate.

E l’intelligenza emotiva?

Avrei potuto chiudere il capitolo col paragrafo precedente, ma poi


sarebbe mancato qualcosa. C’è un’ultima nozione che si innesta in questo
enorme ragionamento che abbiamo portato avanti: l’intelligenza emotiva.
Nonostante il termine “intelligenza emotiva” sia stato reso popolare dallo
psicologo Daniel Goleman nel 1995, che ha pubblicato un libro diventato
best seller internazionale proprio con questo titolo, il concetto è stato in
realtà introdotto per la prima volta nel 1990 da altri due psicologi di cui non
si occupa mai nessuno: Salovey e Mayer. Sono state proposte varie teorie e
modelli, ma sento che stai per usare questo libro come alternativa ai pellet
nella stufa, ho esaurito la tua pazienza; quindi, riassumo in modo indegno e
taglio corto.
Che cosa sarebbe l’intelligenza emotiva? Sarebbe la capacità di
percepire, gestire, influenzare e comprendere a fondo le emozioni proprie e
altrui, adattarsi a esse e sfruttarle a beneficio proprio o di chi ci circonda.
Capire e usare le emozioni per informare e migliorare il proprio modo di
pensare e agire. Unirebbe i concetti di autocoscienza, autogestione, capacità
relazionale, motivazione intrinseca, empatia. In sostanza, è un po’ l’unione
delle intelligenze intrapersonale e interpersonale che proponeva Gardner.
Rispetto alle intelligenze multiple, sul concetto di intelligenza emotiva ci
sono ricerche scientifiche più solide, ci sono studi che effettivamente
correlano l’intelligenza emotiva con il successo lavorativo o in varie attività
di vita…
Tuttavia, sembrerebbe che la validità di questi studi possa essere messa
in discussione, che non esistano conferme di questi lavori, che non siano
stati replicati, che spesso non siano neanche stati pubblicati su riviste
autorevoli. Insomma, il punto è che non è stata dimostrata ancora in modo
scientifico l’efficacia del concetto di intelligenza emotiva, né la sua capacità
di fare previsioni su contesti reali.
E poi l’altro fastidioso, grosso, brutto, sporco elefante nella stanza: pare
(anche se qui entriamo in territori controversi e dibattuti in ambito
accademico, con argomenti a favore e contro) che il “fattore G”,
l’intelligenza generale, quella espressa sotto forma di punteggio QI, renda
conto anche della capacità di comprendere e sfruttare le emozioni. In altre
parole, le persone molto intelligenti spesso dimostrano di esserlo a tutto
tondo, anche nel percepire e gestire le emozioni. Secondo una metanalisi di
diciassette studi scientifici fatti tra il 2003 e il 2020 (in varie parti del
mondo: Italia, Cina, Israele, Canada, Spagna… dodici Paesi in tutto), il QI e
il QE (quoziente emotivo, viene chiamata così la misura dell’intelligenza
emotiva) vanno di pari passo. Caratteristiche come il senso di autocontrollo
e la capacità di espressione a livello verbale sono trasversali. È chiaro che,
se riesco a definire meglio le mie emozioni, sarò anche migliore nel
comprenderle, per esempio.
Quindi, purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, l’idea
diffusa che l’intelligenza generale e quella emotiva siano contrapposte è
smentita ampiamente dai fatti: non funziona così. Non sono la stessa cosa,
ma pare che siano correlate strettamente. Dove c’è l’una, nella maggior
parte dei casi, c’è anche l’altra, sebbene esistano ovvie eccezioni.
In ogni caso, il concetto di intelligenza emotiva non è da buttare, non è
stato demolito dalla ricerca, non siamo dalle parti di Gardner. È soltanto in
una fase embrionale, ancora non formalizzata. Rimane un campo da
esplorare, non è ancora pronto per affiancarsi al fratello maggiore QI, ma è
probabile che riesca a farlo in futuro e sta già dimostrando un’utilità
notevole nel sottolineare la centralità delle emozioni nella vita delle
persone. È promettente, insomma.
E questo è tutto, per ora. Si potrebbero scrivere libri interi su questi
argomenti e c’è chi lo fa, quindi se sono almeno riuscito ad appassionarti so
che potrai proseguire e troverai tantissimo per soddisfare la tua curiosità.
Solo con la bibliografia indicata in questo libro avrai ore di letture
interessanti.
Io con questo capitolo mi fermo, passo ai saluti, alle conclusioni e ai
ringraziamenti.
RINGRAZIAMENTI

Grazie, sempre e per sempre

I ringraziamenti di rito vanno a tutte le persone che mi stanno vicino da


sempre, che credono e hanno creduto in me e che mi hanno dato la forza di
portare a termine ogni mio progetto: la mia compagna Alessia; la mia
famiglia; Francesca, la mia editor; i miei amici; la mia Prof. di italiano del
liceo; mia mamma che mi ha insegnato che le parolacce non si dicono…
Grazie a Marzia, per aver riletto questo libro più volte di me, per aver
corretto i miei infiniti refusi e per avermi aiutato a eliminare (quasi) del
tutto il maschile sovraesteso.
Grazie ad Alessia, che si è lasciata impietosire (errore fatale), ha preso la
massa informe di articoli, link e libri che le ho passato e l’ha trasformata in
una bibliografia leggibile e ben organizzata.
Grazie a tutte le straordinarie persone che ogni giorno si occupano, in
modo etico e professionale, di divulgazione e di informazione scientifica, di
pensiero e di razionalità.
E poi grazie a chi, come te, mi legge, mi segue sui miei canali social, ha
scelto di dare fiducia ai miei videocorsi, ha imparato qualcosa da me.
Se oggi posso dire di fare la vita e il lavoro dei miei sogni è anche (forse
soprattutto) grazie a voi.

Ci rileggiamo presto.
Alessandro
GLOSSARIO

Un piccolo supporto nel caso in cui dovessi perderti con tutti questi
paroloni complicati (spesso pure in inglese) sull’apprendimento, il metodo
di studio e il cervello. Rigorosamente in ordine alfabetico.

Big five: il paradigma di indagine della personalità umana più rispettato


e solido a livello empirico (ad oggi). Introdotto da Robert R. McCrae e Paul
T. Costa, si basa su cinque grandi tratti di personalità, ovvero estroversione,
gradevolezza o amicalità, coscienziosità, nevroticismo, apertura mentale.
Ognuna di queste cinque dimensioni è costituita da due sottodimensioni.
Pur avendo chiari limiti, come ogni teoria della personalità finora prodotta,
la teoria dei Big Five è spesso adoperata per la valutazione della personalità
in contesti organizzativi, per l’attendibilità offerta da questa tipologia di
test.

Cramming: l’opposto dello spacing è la pratica di accumulare lo studio


in sessioni full-immersion a ridosso della scadenza, che sia un esame, una
verifica, un’interrogazione, un concorso. Ha dei piccoli vantaggi a breve
termine sulla performance ma è difficile da pianificare in modo accurato,
non permette il consolidamento a lungo termine, è rischioso e porta a un
accumulo di stress enorme, che poi sono i motivi per cui gli esami non si
preparano in quattro giorni. O cinque. O sei. O sette.

Chunking: letteralmente significa spezzettamento, è l’idea di dividere e


raggruppare una serie di informazioni che vogliamo apprendere o utilizzare
per permettere alla memoria di lavoro di gestirle meglio e alla memoria a
lungo termine di consolidarle più facilmente. È il motivo per cui il numero
della carta di credito è diviso in blocchi di 4 e non scritto tutto in fila, o per
cui, quando si detta un numero di telefono, si va a coppie o triplette e non
tutto insieme. Funziona a tutti i livelli nello studio e nell’apprendimento di
qualsiasi cosa.

Desirable difficulty: difficoltà desiderabile, il concetto che lo studio


deve metterci di fronte a delle sfide e deve costringerci a uno sforzo, non
troppo eccessivo né troppo blando. Un giusto livello di difficoltà, di sfida,
che ci permette di tirare fuori il meglio di noi e di sfruttare appieno il nostro
potenziale cognitivo, aiutandoci nel ragionamento e nella memorizzazione,
senza aumentare eccessivamente il livello di affaticamento e stress.
L’assenza di difficoltà desiderabile impedisce lo sviluppo di conoscenze e
competenze reali, così come l’assenza di sforzo muscolare impedisce di
farsi i muscoli in palestra. Ecco perché sbobine, appunti presi dai compagni,
metodi troppo immediati e automatici, non funzionano e c’è bisogno che
anzi il metodo di studio ci ponga di fronte problemi e ci porti leggermente
fuori dalla nostra zona di comfort.

Dual-coding: termine complesso e sfaccettato nelle scienze cognitive,


nel caso del metodo di studio si riferisce alla constatazione che
informazioni codificate e presentate con diverse modalità sensoriali e
percettive vengono comprese e ricordate più facilmente e più a lungo. È uno
dei principi alla base dell’uso del colore e della grafica e della costruzione
di schemi.

Flashcards: uno degli strumenti pratici per applicare testing e active


recall. Non sono altro che bigliettini, virtuali o cartacei, contenenti una
domanda o un esercizio da risolvere. Nei metodi di studio più semplici, sul
retro del biglietto è presente anche la risposta alla domanda, nei metodi più
avanzati, possono esserci riferimenti al libro o, meglio ancora, agli schemi
realizzati.

Flow: anche chiamato dagli psicologi “flusso”, “trance agonistica” o


“esperienza ottimale”, è uno stato di coscienza caratterizzato da
focalizzazione totale e immersione nell’attività che stiamo svolgendo. In
questa condizione si riesce a raggiungere il massimo livello di produttività e
concentrazione sentendo al tempo stesso maggiore soddisfazione. Si
minimizzano le distrazioni e si perde consapevolezza di ciò che ci sta
intorno (tempo, rumori, persone, esigenze fisiologiche). Nello studio o
nell’apprendimento in genere, lo stato di flow può essere raggiunto solo in
alcune fasi specifiche, perché non si sposa bene con l’”attrito” provato
quando si cerca di comprendere qualcosa per la prima volta. Il concetto di
flow fu introdotto nel 1975 dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi.

Forgetting curve: la curva dell’oblio, scoperta alla fine dell’800 dallo


scienziato tedesco Ermann Hebbinghaus, è la progressione negativa della
memoria, la curva che segue il suo decadimento. Proprio studiando questa
curva, Hebbinghaus ha scoperto il principio dello spacing e posto le basi per
il concetto di spaced repetitions. Ne ho parlato in dettaglio in Vince chi
Impara.

Kwl: un semplice paradigma per migliorare attenzione e ricordo in


lettura e in ascolto, creato dalla psicologa americana Donna M. Ogle nel
1986 all’interno del paradigma dell’apprendimento e insegnamento
costruttivista. Consiste nel creare e compilare (o far compilare, se si lavora
con bambini) una tabella contenente tre domande/osservazioni: Che cosa so
già? (what I already know – K); che cosa voglio conoscere? (what I want to
know – W); che cosa ho imparato? (what I Learned). Le prime due caselle
della tabella vanno compilate prima della lettura o dell’ascolto della
lezione, l’ultima subito dopo. Questo sistema produce risultati eccellenti e
funziona praticamente in ogni contesto.

Illusion of competence/ Illusion of learning: un meccanismo di auto-


inganno mentale che ci porta a credere di sapere o di aver imparato più di
quanto non abbiamo fatto davvero. Spesso questo meccanismo spontaneo
viene rafforzato da pratiche di studio scorrette, che ci convincono di aver
studiato bene quando, in realtà, la resa a livello di apprendimento è stata
minima.

Learning styles: Stili di apprendimento, qua c’è una controversia da


chiarire. Con questo termine si indicano talvolta cose ben diverse. Da un
lato gli stili di apprendimento “sensoriali”, che ho descritto a inizio libro
come fufferia suprema. Dall’altro, gli stili di cognitivi di elaborazione
dell’informazione, spesso espressi sotto forma di coppie antitetiche:
globale/analitico, sistematico/intuitivo, impulsivo/riflessivo. Consiglio di
approfondire il tema coi lavori di Cornoldi e del gruppo MT, oltre che di
Mario Polito. Ecco, se gli stili cognitivi di elaborazione dell’informazione
sono una cosa seria e fanno parte dello studio psicologico e pedagogico, gli
stili di apprendimento sensoriali sono una cazzata pseudoscientifica.

Loop articolatorio: chiamato anche loop fonologico o ciclo fonologico,


è uno dei due sistemi sussidiari (definiti “buffer”) della memoria di lavoro
proposti nel modello di Alan Baddeley. Si occupa di elaborare e
immagazzinare informazioni sonore e fonologiche. Si compone di due parti:
il magazzino fonologico a breve termine e il processo di controllo
articolatorio. La subvocalizzazione è parte del processo di controllo
articolatorio.

Masterplan: il piano supremo, una pianificazione settimanale che


dettaglia, ora per ora o mezz’ora per mezz’ora tutte le nostre giornate e le
attività che le occupano. È uno strumento eccezionale per la produttività e
l’organizzazione nello studio, pilastro della P di P.A.C.R.A.R. e del Sistema
ADC.

Metodo Cornell: il più noto ed efficace Sistema di creazione di appunti,


che prende il nome dall’università americana Cornell, in cui si è diffuso ed
è nato. Consiste nella suddivisione del foglio di appunti in due colonne
verticali e uno spazio orizzontale a fondo pagina: la colonna di sinistra più
stretta, quella di destra più larga. La colonna di destra accoglierà gli appunti
veri e propri, meglio se espressi sotto forma schematica, la colonna di
sinistra conterrà annotazioni, ragionamenti, spunti e domande che guidino
la rilettura o il processo di testing. Lo spazio orizzontale a fondo pagina
conterrà un brevissimo sommario del contenuto della lezione, compilato al
termine della stessa (con un meccanismo simile alla L del KWL).

Microrest/Gap effect: tecnica di recente scoperta che prevede


l’inserimento di micropause di una decina di secondi a intervalli irregolari e
randomici ogni 2-3 minuti di studi, apprendimento o esercitazione pratica.
Queste micropause migliorerebbero l’efficacia dell’apprendimento,
specialmente in attività pratiche.

Multitasking: l’atto di svolgere più attività contemporaneamente. È


accettabile solo quando si tratta di attività altamente interiorizzate e
automatiche, come guidare e parlare allo stesso tempo, ma più le attività si
fanno intense a livello di ragionamento e sforzo cognitivo e più il
multitasking diventa pericoloso, ammazzando la concentrazione,
aumentando gli errori, rallentando il ragionamento, danneggiando il ricordo.
È sconsigliatissimo nello studio.

P.A.C.R.A.R.: acronimo che identifica la successione completa del


processo di apprendimento e, di conseguenza, il perfetto metodo di studio.
P sta per pianificazione, A per acquisizione, C per comprensione, R per
rielaborazione, A per applicazione, R per ricordo. Questo acronimo, nel
tempo, è diventato sinonimo del metodo di studio che insegno nei miei
video, nei miei libri e nei miei videocorsi (in particolare in Sistema ADC).

Positive thinking: il pensiero positivo, una corrente “filosofica” e di


auto-aiuto originatasi nel mondo anglosassone e diffusasi in tutto il mondo,
che prevede di avere un atteggiamento mentale positivo, appunto,
propositivo e aperto nei confronti della vita e delle sfide che propone.
Sebbene nelle sue versioni più moderate e di buon senso possa risultare un
approccio utile, viene spesso estremizzato da chi se ne fa portatore, finendo
per assolutizzarsi e diventando una parodia di sé stesso, che scade nella
negazione delle sfortune e delle difficoltà oggettive e in eccessi di
motivazione ridicoli che portano a effetti devastanti a livello psicologico.

QE: quoziente d’intelligenza emotiva (in inglese scritto come EQ): il


parametro medio misurato da test specifici che rappresenta l’intelligenza
emotiva di un individuo.

QI: quoziente d’intelligenza (in inglese scritto come IQ): il parametro


medio misurato da test come il WAIS che rappresenta l’intelligenza
generale di un individuo.

Retrieval practice / Active recall: Uno dei pilastri dell’apprendimento


efficace e del metodo di studio “evidence based”, nonché il principio
cognitivo su cui si basa l’efficacia del testing. Traducibile con “richiamo
attivo” o “recupero attivo” è l’atto di frugare nella memoria a lungo termine
e ripescare l’informazione che cerchiamo, per poi riutilizzarla. Questo
processo consolida il ricordo più di qualunque
rilettura/riscrittura/ripetizione. Lo mettiamo in pratica quando siamo
sottoposti a una domanda o ci troviamo di fronte a un problema da risolvere
che richiede l’applicazione di un’informazione precisa imparata in
precedenza. Lo sforzo dell’active recall è ciò che rende efficace l’uso del
testing.

Reward: letteralmente “ricompensa”, un piccolo premio che possiamo


concederci al raggiungimento di un risultato nello studio o in qualsiasi altra
attività produttiva per dare spazio alla soddisfazione e rinforzare i
comportamenti positivi che abbiamo messo in atto. Si contrappone al
“punishment” (letteralmente “punizione”).

Scanning: simile allo skimming e alternativo ad esso, consiste nello


scorrere rapidamente il testo alla ricerca di risposte a domande specifiche,
formulate in una fase precedente. E’ di solito più semplice da usare per i
principianti della lettura esplorativa, ma leggermente più lento in quanto
costringe a più passate sul testo.
Sia lo skimming che lo scanning sono spiegati alla perfezione nel mio
manuale gratuito di lettura efficace “leggere per sapere”

Sistema ADC: questa espressione si riferisce, in primis, all’insieme di


insegnamenti, tecniche, approcci di metodo di studio che hanno
caratterizzato la mia attività negli ultimi sette anni (da quando ho iniziato la
mia divulgazione online). In secondo luogo, Sistema ADC è il nome del
mio videocorso principale di metodo di studio, oggi esistente in quattro
versioni (studenti universitari, studenti lavoratori, studenti di scuola,
studenti per concorsi). In terza battuta, l’espressione Sistema ADC si
sovrappone spesso a P.A.C.R.A.R. nell’identificare il metodo di studio che
propongo nei miei lavori.

Skimming: l’atto dello scorrere rapidamente un testo, cercando parole o


espressioni da cogliere al volo senza leggere davvero, per farsi un’idea
generale del contenuto e della struttura. È una delle fasi della cosiddetta
“lettura esplorativa”, serie di attività preliminari alla lettura vera e propria,
ma viene spesso spacciata da guru inetti per “lettura veloce”.

Spacing: è il principio per il quale l’apprendimento o lo studio risulta


più efficace quando è distribuito nel tempo. Concretamente, significa 2
cose: 1. che studiare mezz’ora ogni giorno è più efficace a lungo termine
che studiare 3 ore e mezza di fila una volta alla settimana; 2. che ripassare
di frequente, a intervalli di tempo precisi, invece che tutto in una volta alla
fine dello studio, permette di ricordare meglio e più a lungo.

Spaced repetitions: vengono spesso tradotte in italiano con ripetizioni


programmate, ripetizioni dilazionate, ripetizioni spaziate, ripassi
programmati non sono altro che l’applicazione concreta del principio dello
spacing alla fase di ripasso. Si ripassa a intervalli di tempo crescenti a
partire da poche ore dopo aver studiato qualcosa, secondo una progressione
che, semplificata, funziona più o meno così: la prima ripetizione dopo
qualche ora, poi dopo 24 ore, poi dopo qualche giorno, poi dopo una
settimana, poi dopo un mese, poi dopo 3 mesi e così via.

Speed-reading / Photo-reading: La maledetta lettura veloce, pratica


pseudoscientifica che promette di aumentare a livelli impressionanti la
velocità di lettura senza perdere comprensione e ricordo. Non funziona, non
è altro che skimming spacciato per lettura.

Spritzing: dal software “spritz”, è l’atto di sfruttare programmi come


spritz, per l’appunto, per la lettura veloce. Questi software presentano le
parole da leggere in sequenza rapida una dopo l’altra nella stessa posizione
sullo schermo, rendendo superfluo il processo saccade-fissazione tipico
della lettura normale. Purtroppo, questo sistema non si sposa bene con la
comprensione e la memorizzazione. In altre parole, è inutile.

Subvocalizzazione: una sorta di “discorso silenzioso” o borbottio che si


verifica quando stiamo leggendo in silenzio e sentiamo nella nostra testa la
nostra voce. È un processo spontaneo, naturale e utile, perché facilità
comprensione e ritenzione delle informazioni, oltre che ridurre il carico
cognitivo. Questa attività è una delle componenti del loop fonologico
proposto da Alan Baddeley e Graham Hitch nel loro modello di
funzionamento della memoria di lavoro. Spesso, i guru della lettura veloce
consigliano di cercare di eliminarla. È una pessima idea.

Taccuino visuo-spaziale: l’altro sistema sussidiario (“buffer”) della


memoria di lavoro. Si occupa di elaborazione e immagazzinamento di
informazioni visive e spaziali, progettando i movimenti nello spazio. È
composto da due parti: la componente visiva (elaborazione delle
caratteristiche degli oggetti) e la componente spaziale (elaborazione delle
posizioni e dei movimenti nello spazio).

Testing: che poi è l’abbreviazione di “testing effect”, effetto testing


(talvolta chiamato anche “re-testing”), la constatazione che il modo più
efficace ed efficiente di ricordare qualcosa a lungo non è quello di rileggere,
ripetere, riascoltare o riscrivere ma piuttosto di mettersi alla prova con
esercizi pratici, quiz, domande e risposte. Sta alla base delle fasi di
applicazione e di ripasso in tutti i metodi di studio avanzati e poggia le sue
fondamenta cognitive nel concetto di retrieval practice o active recall.

WAIS: acronimo di Weschler Adult Intelligence Scale, il paradigma di


misurazione dell’intelligenza più studiato e solido a livello sperimentale. Ne
esistono molteplici versioni e applicazioni. La WAIS è stata pubblicata per
la prima volta da David Wechsler, psicologo clinico, intorno alla metà dello
scorso secolo, che era insoddisfatto del test maggiormente utilizzato
all’epoca, la scala Stanford-Binet. Ad oggi il test WAIS è arrivato alla
quarta edizione, con modifiche e integrazioni successive che lo hanno reso
uno strumento sempre più preciso, tanto da essere applicato comunemente
in ambito psicologico e medico come strumento diagnostico.
BIBLIOGRAFIA

Introduzione

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Parte 1
Capitolo 1

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Capitolo 5

Oltre a lasciarti le solite fonti bibliografiche e sitografiche e riferimenti


vari in ordine alfabetico da approfondire, volevo mettere in risalto, separato
dal resto, il lavoro della ricercatrice americana Elizabeth R. Schotter, che è
il più completo, preciso, chiaro e accurato io abbia mai letto. Non penso che
nessuno al mondo abbia approfondito il tema della lettura veloce e dei suoi
limiti quanto lei. Il suo articolo, intitolato ironicamente So much to read, so
little time (“Così tanto da leggere, così poco tempo”, 2016), è la principale
fonte di ispirazione per tutta la divulgazione che io abbia mai fatto, in video
o per iscritto, su questa tematica.
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Capitolo 9

Individuare una bibliografia specifica per questo argomento è quasi


impossibile: troppi libri da cui estrapolare singole informazioni. Ma puoi
mettere insieme le fonti di tutti gli altri capitoli e, soprattutto, i libri che ho
già citato nella Bibliografia dell’Introduzione! Buon divertimento!

Parte 2
Capitolo 10

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Indice

Introduzione. Un giorno di ordinaria follia


Lo scopo
La struttura
Chi sono e che cosa faccio
Un percorso sensato (questo leggilo, che è importante)
Le fasi del metodo di studio
0. Perché crediamo alle cazzate
Stupidità
Ignoranza
Bias di conferma
Pressione sociale
Volontà
Furbizia
Parzialità
Esaltazione
Il re è nudo
Parte prima. Lo studio non è una cazzata
1. “Scopri il tuo stile e studia meglio!”. La cazzata degli stili di
apprendimento sensoriali
Una questione di stile
Come (non) funzionano gli stili sensoriali
E gli altri stili?
Non si rinuncia allo stile
2. “Prepara Anatomia in soli sei giorni!”. La cazzata dello studio
all’ultimo momento
Come (non) funziona lo studio all’ultimo minuto
Quel gran bastardo
L’oracolo delle domande
A tempo fisso
Che cosa si può fare
3. “Perché prendere appunti, quando puoi scroccarli?”. La cazzata
della “pappa pronta”
Lo scrocco come stile di vita
Come (non) funziona scroccare
Un’ancora di salvezza
4. “Studia facile, studia senza fatica!”. La cazzata dello studio
automatico
Come (non) funziona lo studio automatico
Mettiamocela via
Arruolare la fatica
Affogare nel flusso
5. “Leggi duecento libri all’anno!”. La cazzata della lettura veloce
Come nasce la lettura veloce?
Che promesse fa?
Che cosa succede, quando leggiamo?
Come (non) funziona la lettura veloce?
E quindi?
Ma si può aumentare la velocità in modo serio?
6. “Memorizza tutto il Codice civile in un pomeriggio!”. La cazzata
del memorizzare tutto
La memoria millenaria
Come (non) funziona memorizzare tutto
Quando la memoria ci aiuta
(Soc)corsi di memoria
7. “Il miglior schema del mondo”. La cazzata delle mappe mentali
Breve storia buzaniana
Come funzionano le mappe mentali
Come (non) funzionano le mappe mentali
La mappa del tesoro
8. “Studia mentre dormi!”. La cazzata dell’imparare nel sonno
La storia dell’ipnopedia
Come (non) funziona l’ipnopedia
Che cosa c’è di vero
Come gestire sonno e studio
Sonni multipli
9. “Fila in camera tua a rileggere a voce alta!”. La cazzata dei metodi
classici
Non esiste il metodo di studio
Come (non) funziona la sottolineatura
Come (non) funziona il “leggi e ripeti”
Come (non) funziona il discorsetto
Come (non) funziona il riassunto
Come (non) funziona la forza di volontà
Come (non) funziona lo stakanovismo
Parte seconda. Il cervello non è una cazzata. Non potevo fermarmi qui
10. “Raddoppia il tuo Qi in 22 giorni!”. La cazzata dell’aumento
dell’intelligenza
Come (non) si diventa geni
Dual n-back
Diciamo le cose come stanno
Allenarsi, sempre e comunque
11. “Sblocca il potere nascosto della tua mente!”. La cazzata del fatto
che useremmo solo il 10% del cervello
Esistono storie che non esistono
ESP… erienze ridicole
La pillola magica
12. “Se ci credi abbastanza, l’universo lo farà succedere!”. La cazzata
della legge dell’attrazione
Una storia… segreta
Come (non) funziona la legge dell’attrazione
Una manna dal cielo
13. “Riprogramma la tua vita!”. La cazzata della PNL
La storia della PNL
Come (non) funziona la PNL
Non è la fine del mondo
14. “Scopri se il tuo cervello è logico o creativo!”. La cazzata dei due
emisferi
Un doppio mito
Un bel casino
Cervelli splittati
I mancini hanno una marcia in più
15. “Doppio lavoro in metà del tempo!”. La cazzata del multitasking
Multisperimentiamo
Ottimizzare le risorse
16. “Questo è un lavoro da uomini”. La cazzata delle differenze
intellettive uomo-donna
Le donne sono più stupide degli uomini
Le donne sono più intelligenti degli uomini
Le donne non sono portate per le materie scientifiche
Le donne hanno interessi intellettuali diversi dagli uomini
Le donne sono più brave a scuola
Le donne sono più brave nelle lingue
Le donne sono incostanti nelle attività intellettuali
17. “Chiunque è un genio, a modo suo”. La cazzata delle intelligenze
multiple
Gardner illumina la via
Come (non) funziona
Ma il QI ha senso?
I problemi del QI
E l’intelligenza emotiva?
Ringraziamenti
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