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TESTO REFERATE

Introduzione al racconto “ Vor dem Gesetz”:

“Vor dem Gesetz” è un racconto breve, scritto e pubblicato da Franz Kafka, per la prima volta, nell’edizione del
settimanale ebraico “Selbstwehr” nel Capodanno del 1915.
Successivamente venne anche inglobato all’interno della raccolta dei racconti “ Ein Landarzt” (Un medico di
Campagna) pubblicata nel 1919, per poi comparire nel 1925, grazie all’amico Max Brod, nel romanzo “Das
Prozess”. Questa parabola venne collocata già da Kafka stesso all’interno del predetto romanzo, precisamente
nel IX capitolo intitolato “Nel Duomo”, dove vi è il protagonista, Josef K., un uomo che viene, nel giorno del suo
30esimo compleanno, accusato, arrestato e processato per una colpa che lui non riuscirà mai a capire, dinanzi il
Duomo di S. Vito, duomo di Praga, (sebbene alcuni critici abbiano scorto nella descrizione dettagliata della
cattedrale, il Duomo di Milano, che Kafka effettivamente aveva visitato nel 1911 e di cui conservava delle
cartoline —> vedi “Kafka a Milano” di Guido Massimo) in attesa di un cliente italiano, al quale doveva fargli
visitare la città. Questo cliente tuttavia non si farà mai vivo e K. Decide di entrare dentro la Chiesa, dove
incontra il sacerdote, che talaltro è anche il cappellano del tribunale. Nel momento in cui K. Sta per uscire,
viene richiamato dal sacerdote che afferma di conoscerlo e di conoscere la sua causa, e cerca di mostrargliela
tramite la parabola “Davanti alla Legge”.
Una causa che si concluderà con una condanna che si verificherà da lì a poco, alla vigilia del suo 31esimo
compleanno, giorno in cui verrà preso in custodia da 2 uomini, senza che nessuna sentenza sia stata emessa, e
senza opporre resistenza, ormai consapevole della sua fine senza senso, verrà ucciso “come un cane” in un luogo
altrettanto lugubre e isolato.

Trama:

Il racconto inizia con una porta aperta, sorvegliata da un anonimo custode (Türhüter: letteralmente, un
portinaio). Al di là, si dice, si trova la Legge (Gesetz); ma quale “legge”? “La” legge: verità assoluta, somma
giustizia, senso ultimo delle cose? Non si sa. Nessuno lo sa, nemmeno il custode. Ma tutti vogliono conoscere
“la” legge. Anche un uomo, altrettanto anonimo, giunto dalla campagna (vom Lande) chiede al guardiano di
poter entrare, di poter avere accesso alla Legge. Ma quest’ultimo gli risponde che non è possibile, almeno non
ora; forse dopo. L’uomo approfittando di una breve distrazione del guardiano, prova a sbirciare dentro la Legge,
ma accorgendosene il guardiano oltre a mettersi a ridere lo mette in guardia, affermando che anche se lui fosse
passato oltre, avrebbe dovuto incontrare altri guardiani più feroci di lui, di cui addirittura lui stesso non riusciva
a sopportarne la vista.
Dinanzi a questa fermezza del guardiano, l’uomo di campagna prova a convincere il custode, con mezzi leciti e
illeciti (cerca di convincere le pulci del bavero del guardiano a cambiare idea, cerca di corrompere il guardiano
dandogli tutto ciò che ha di prezioso), ma questi è incorruttibile; accetta tutto, ma non lo lascia entrare.
Con il passare del tempo l’uomo, che non faceva altro che fissare il guardiano, comincia anche a dimenticare il
fatto che esistano altri guardiani all’infuori di lui, considerandolo addirittura l’unico ostacolo da dover superare
o raggirare. La porta davanti a lui è sempre aperta.
Con il passare degli anni e con l’affievolirsi del lume nei suoi occhi, l’uomo venuto dalla campagna, alla fine,
muore. Ma prima di morire chiede al guardiano il perché nessun altro all’infuori di lui, ha chiesto accesso, visto
che tutti tendono alla Legge. A questa domanda, il guardiano gli risponde che quell’ingresso era destinato a lui,
e a lui solo. Quando l’uomo muore, la porta viene definitivamente richiusa dal custode.
Spiegazione

Approccio psicologico:

Facendo un’iniziale, ma breve introduzione alla vita di Kafka, possiamo dire che fu il maggiore dei sei figli della
coppia ebraica composta da Hermann Kafka, commerciante di oggettistica e abbigliamento, e Julie Löwy, figlia
di un ricco mercante. Egli nacque il 3 Luglio 1883 nei pressi della Piazza della Città Vecchia di Praga.

Kafka era un ragazzino mingherlino e timido, sottomesso all’autorità di un padre anaffettivo che non riesce a
essere mitigata dalla madre, troppo debole per contrastare il marito. Dell’infanzia e dell’adolescenza dello
scrittore troviamo eco in tutte le sue opere e per questo motivo la sua storia famigliare è particolarmente
importante per comprendere la sua carriera letteraria.
La letteratura è sempre stata per Franz Kafka un modo per sondare abissi dell’animo che altrimenti gli
sarebbero rimasti oscuri.
Costretto dal padre a seguire una carriera lontana dalla pratica umanistica, Kafka si iscrisse nel 1901
all’Università tedesca di Praga, iniziando a studiare chimica, corso che però lasciò 2 settimane dopo volgendo lo
sguardo a Giurisprudenza. Tuttavia, nonostante sia iscritto a giurisprudenza, frequenta un circolo di giovani
autori cechi, “Lese-und Redehalle der Deutschen Studenten" tra cui spicca Max Brod, che diventerà suo caro
amico e lo sarà fino alla sua morte, avvenuta nel 1924 a causa di una tubercolosi.
Analizzando la sua scrittura, o comunque quello che ne è rimasto (visto che la maggior parte delle opere di
Kafka furono bruciate per sua volontà testamentaria dalla sua ultima compagna, ma anche dalla Gestapo che
non vedeva di buon occhio questo scrittore) ritroviamo l’urgenza espressiva di un uomo irrisolto, eternamente
soggiogato da un padre che non ha mai smesso di incutergli timore.
Kafka ripropone nei suoi testi due elementi, che si intrecciano fino a stringere il protagonista in gangli da cui è
impossibile fuggire, se non con la morte. Il primo è la famiglia, non sinonimo di pace e affetti, ma luogo del
confronto frustrato, dell’inadeguatezza, della colpa. L’altro è il dedalo burocratico in cui l’uomo moderno si
trova disperso. C’è un’opera in cui la macchina burocratica assume un ruolo davvero totalizzante: è il romanzo
Il processo, dove la burocrazia è un labirinto da cui il protagonista, su cui grava una colpa indistinta, non riesce
a trovare una spiegazione razionale e ad uscirne. L’unica via d’uscita dinanzi a questo incubo farsesco non
rimane che la morte.
Un altro tassello importante della vita di Kafka sono le donne, ed il suo rapporto con esse. Franz Kafka,
intrappolato nella morsa di una psiche indecifrabile, non riuscirà mai ad avere una situazione sentimentale
definita, non convolerà mai a nozze, nonostante la sua vita venga attraversata da diverse donne. A disagio con il
proprio corpo e con la sua sessualità ( addirittura egli stesso racconta il disgusto per il proprio corpo quando il
padre accompagnandolo in piscina o nel bagno rituale ebraico (mikveh) lo costringeva a denudarsi), non riesce a
dare una direzione ai suoi rapporti sentimentali, anzi il più delle volte scappa.
Ha una serie di rapporti sentimentali tra cui ricordiamo: Felice Bauer, 25 enne che la incontra per la prima volta
a Praga la sera del 13 agosto del 1912.
Dopo quell’incontro, da lì a poco inizierà il loro rapporto, un rapporto molto tormentato, soprattutto per il
timore di Kafka che il matrimonio potesse sottrarre spazio alla sua attività di scrittura. Sin dalle prime lettere
infatti affiora il conflitto tra il Kafka che vorrebbe dedicare tutto il suo tempo a comunicare con la fidanzata e
quello per il quale l’ispirazione letteraria è uno stato di grazia di cui occorre approfittare con urgenza ogni volta
che si materializza. Infatti nella lettera dell’11 novembre del 1912, c’è un primo accenno al “dovere” di
scrivere, che rischia di entrare in conflitto con il piacere della corrispondenza amorosa: “E da ora in poi le
scriverò soltanto lettere brevi […]anche perché devo impegnarmi fino all’ultimo respiro per il mio romanzo “.
Tra L’inverno del 1912 e l’estate del 1914, Kafka ebbe un periodo di completa sterilità letteraria. Egli infatti nel
marzo del 1914, annoterà all’interno del suo diario “Non ho scritto nulla, ed anche per il futuro non potrò
scrivere nulla, io ho e conservo in testa null’altro che questo mio unico pensiero che mi consuma…” Ma di quale
pensiero parla? Ovviamente del futuro, anzi ormai prossimo matrimonio con Felice Bauer.
In oltre 500 lettere egli cerca di convincere la fidanzata che non è assolutamente fatto per il matrimonio, anzi
ciò la renderà infelice. Alla fine del Maggio del 1914 Kafka, si recò a Berlino con tutta la sua famiglia, padre
compreso, per celebrare il fidanzamento con Felice avvenuto nei primi giorni di Giugno. Di ciò abbiamo
testimonianza nel suo diario, dove il 6 Giugno del 1914 scrive: “ Ritornato da Berlino. Venni legato come un
delinquente. Se con catene vere mi avessero messo in un angolo con davanti i gendarmi e mi avessero lasciato
guardare soltanto così, non sarebbe stato peggio. E questo fu il mio fidanzamento”.
Nemmeno due mesi dopo, troppo stanco per scrivere e troppo oppresso da continui stati di angoscia per
l’imminente matrimonio, Kafka capisce che non può sacrificare la fidanzata per un matrimonio che parte già a
priori infelice; così a metà Luglio dello stesso anno si reca a Berlino per giustificare dinanzi ai genitori della
fidanzata i motivi che lo costringono a rompere dopo breve tempo il fidanzamento. L’incontro che avviene in
albergo, viene commentato all’interno dei suoi diari con la frase “ Il tribunale in albergo”, frase che dovrebbe
essere considerata come il nucleo psicologico de “Il Processo”. Sempre nelle stesse pagine afferma “Mi danno
ragione, non è possibile dire nulla o molto contro di me. Diabolico in tutta la mia innocenza…”. Kafka
probabilmente non ha fatto altro che motivare la sua scelta con il suo bisogno di solitudine, con la sua vocazione
di scrittore e con la sua incapacità di vivere una vita normale da borghese. Motivazioni che, pur essendo vere,
però non lo discolpano, né lo assolvono e né possono farlo perché è proprio la sua solitudine, è proprio questo
suo bisogno della solitudine la colpa segreta. Colpa della quale potrà liberarsi solo ed esclusivamente con il
matrimonio. “La solitudine porta solo a castighi.”, scriverà il 31 Luglio del 1914, “Ma scriverò nonostante tutto.
Lo scrivere è la mia lotta per sopravvivere…”.
Quindi la colpa qui non è più di colui che agisce contro la Legge, che commette dei crimini; l’Ognuno kafkiano
non è più quella creatura ricca di tutti i peccati del mondo, bensì l’uomo che non agisce, l’uomo spoglio da ogni
peccato (come l’uomo di campagna che dinanzi all’avvertimento del guardiano rimane impassibile e accetta
passivamente ciò che egli dice). L’eroe kafkiano è colpevole non dei suoi peccati ma dalla sua caparbia volontà
di non peccare.
Basandoci su questa interpretazione, potremmo quindi dire che il racconto “Vor dem Gesetz”, riprende le fila
del fallito fidanzamento di Kafka. Kafka, come l’uomo di campagna ma anche come Joseph K., non è riuscito ad
entrare nella legge della comunità degli uomini attraverso l’accettazione della sua sessualità e del matrimonio,
considerati come una punizione ed umiliazione inconciliabile con l’orgoglio e la purezza della sua ragione. Lo
scapolo, vuoi che sia Joseph K., vuoi che sia rappresentato nell’uomo di campagna, è escluso dalla legge di
coloro che attraverso la donna e nell’amore della donna costituiscono la vera e genuina società di uomini che
sono nel vero. Lo stesso Kafka afferma nei suoi diari che “Avere una donna, significherebbe avere sicurezza da
tutte la parti, significherebbe avere Dio”; e ancora “Anche nel Talmud (uno dei testi sacri dell’ebraismo) sta
scritto: un uomo senza una donna non è un essere umano”. Ricordiamo che K. Non muore come un essere
umano, ma “come un cane”.

Approccio Sociologico
Per l’approccio sociologico, di cui Baioni ha dato alcune delucidazioni all’interno della sua opera,“Kafka:
romanzo e parabola”, possiamo prendere in considerazione, in primis, la patria del romanzo: Praga, sebbene lo
scrittore non abbia mai scritto esplicitamente che il romanzo fosse ambientato lì. Infatti Praga non è mai
nominata, ma è velata e anonima, identificata non con i suoi tesori artistici e monumentali, ma nei suoi aspetti
meno accattivanti, per nulla accoglienti: come le periferie squallide dove ha sede il Tribunale, le vie che Joseph
K. Percorre ogni giorno per recarsi a lavoro, atmosfere cupe, fredde e piovose che vanno di pari passo con lo
squallore che impregna l’intera vicenda del personaggio. Soprattutto capiamo che l’ambientazione è la città di
Praga, in quanto nel IX capitolo la vicenda si svolge in un identificabile “Duomo di S. Vito”, cattedrale di Praga.
Praga, in quel periodo, era dominata da un esigua minoranza di lingua tedesca, composta a sua volta da ebrei
quasi per l’80%. Ma gli ebrei praghesi, si trovavano al centro della grande frattura tra ebraismo occidentale ed
ebraismo orientale, tra emancipazione e ortodossia, tra il mondo moderno e quello medievale e teocratico delle
comunità ebraiche dell’Europa orientale. Un problema quindi religioso. Praga infatti, antichissima metropoli
ebraica, patria di leggendari rabbini, era troppo ricca delle leggende del loro popolo, e troppo evidenti erano
ancora i segni, i monumenti, i ricordi del passato ebraico. “Noi sappiamo, che la Praga ebraica continua a vivere
dentro di noi, benché la comunità ebraica si sia dissolta e sia caduta in letargo” diceva Robert Weltsch. I padri
non vogliono crederlo, ma i figli sanno che una sola cosa è necessaria: ricostruire una nuova comunità, una
nuova antica comunità ebraica.
Dinanzi a questa netta divisione sociale, Kafka, dovendo seguire per causa di forza maggiore le orme del padre
Hermann che si era germanizzato e si era trasformato in un borghese tedesco, imparò fin da piccolo una varietà
di tedesco con influenze yiddish, talvolta definita con il termine dispregiativo “tedesco degli ebrei”. Essendo il
tedesco importante per migliorare la propria condizione sociale, i genitori probabilmente incoraggiarono i figli
ad impararlo correttamente. Kafka quindi appartiene al mondo dell’ebreo praghese di lingua tedesca, che vive
in contumacia con il mondo slavo, che soffre tragicamente la sua alterità, si sente estraneo ai tedeschi sebbene
condivida la loro lingua, ma allo stesso tempo è estraneo ai cechi, della quale comunità Kafka conosceva molto
bene la lingua, in quanto viene considerato da loro un tedesco, un forestiero.
Baioni infatti, parlando di Kafka, formula l’espressione “triplice ghetto”, intendendo come ghetti:
- Il ghetto ebraico, facendo riferimento all’emarginazione di Kafka in quanto facente parte di una
minoranza;
- Il ghetto tedesco; Kafka infatti parlava infatti in tedesco, essendo però circondato da cechi in città;
- Il ghetto borghese. La borghesia era additata dai nobili come classe emergente che voleva sovvertire
l’ordine delle cose.
Gli interessi di Kafka per il mondo ceco sono piuttosto, oltre che una polemica reazione al mondo del padre,
l’inconscia ricerca di una via d’uscita dal mondo tedesco. Lo dimostra implicitamente il fatto che Kafka
frequentasse anche una compagnia di attori Yiddish. Quindi abbiamo un chiaro richiamo alle tradizioni ebraiche,
e il tentativo opposto di uscire dall’irrespirabile atmosfera della Praga tedesca.
Fu la crisi di questo mondo ebraico - tedesco - borghese che lo scoppio della prima guerra mondiale aveva
acuito ed esasperato ancora di più (si ricordi che la composizione del processo coincide asattamente con lo
scoppio della prima guerra mondiale, tant’è che il nome di Joseph K. Comparve per la prima volta nei diari il 29
Novembre 1914, i giorno dopo dello scoppio del conflitto) che nutrì il dramma morale dello scrittore.
Educato quindi alla tedesca, Kafka ebbe un educazione genericamente positivista e borghese, e Il padre gli
parve per tutta la vita il modello esmplare. I commercianti, i viaggiatori di commercio, gli impiegati, i
funzionari, i direttori ed gli avvocati che rappresentano la serie uniforme dei suoi personaggi, sono la
trascrizione poetica della società ebraica praghese, al modo stesso in cui i suoi giudici, i suoi ispettori, il suo
guardiano all’interno della parabola, sono senza alcun dubbio i rappresentanti dell’ortodossia orientale. Mentre
l’organizzazione processuale, dominata dai giudici, è una proiezione dell’ordinamento teocratico delle comunità
ortodosse in cui lo Zaddik era sacerdote e giudice allo stesso tempo.
Il paradosso kafkiano della libertà che è prigione e della prigione che può essere libertà e grazia, altro non era
che il contrasto tra la libertà del mondo borghese e la prigione del ghetto, tra l’agnosticismo del padre e la
supina fedeltà alla legge degli ebrei ortodossi che il padre soleva definire “Cani” e “scarafaggi”.
Ciò significa che il richiamo al mondo ebraico, rappresentava una possibile soluzione, sebbene successivamente,
come ha detto martedì la mia collega, nemmeno il mondo ebraico orientale verrà considerata una soluzione.
Quel che è certo è che con il Processo Kafka distruggeva completamente le basi di quell’educazione borghese
che gli aveva dato il padre, e riapriva la strada ad un mondo che non significava soltanto la sua condanna, ma
anche la condanna del mondo del padre.
Ma questo riferimento al mondo ebraico orientale, all’interno del Processo, ma anche all’interno della parabola,
dove è possibile identificarlo? Lo possiamo ritrovare nella scesa quando vi è K. Che resta perplesso non appena si
avvede che la maggior parte dei presenti alla sua prima udienza è vestita a festa ed indossa delle vesti nere
lunghe e disciolte, e la sua attenzione è presa soprattutto dal alcune figure di vecchi barbuti che
nell’inverosimile baraonda della seduta seguono muti ed immobili le sue dichiarazioni. Figure che rimandano
anche al vecchio guardiano della Legge descritto come un uomo con il suo lungo cappotto di pelliccia, il suo
grosso naso a punta e la lunga barba nera alla tartara. Non è difficile riconoscere in questi personaggi le
immagini dei rabbini e dei chassidim dalla barba rituale che indossano il caffettano degli ortodossi, immagini
che Kafka ha trasportato nel milieu del proletariato ceco, realizzando in un unica immagine la doppia
prospettiva della sua colpa di ebreo occidentale verso gli ebrei orientali e di borghese tedesco verso gli operai
cechi. Quindi, guardando l’interpretazione sociologica dalla prospettiva della parabola, e vedendo nel guardiano
la figura di un chassidim o di un rabbino ortodosso, sembrerebbe che egli stia sbarrando la strada all’uomo di
campagna, alias Kafka, in quanto quest’ultimo pur volendo entrare nel mondo ortodosso, nel mondo ebraico
orientale appartenente alla prima generazione, nella sua Legge, non ci riesce visto e considerato che ha avuto
un’educazione prettamente tedesca ed occidentale ragion per cui viene considerato dal guardiano come una
sorta di estraneo. E’ come se Kafka/uomo di campagna non si sentisse accettato da quel mondo che tanto
guarda con ammirazione e sente l’impossibilità di farne parte.
Approccio Storico
Come detto all’inizio, Il processo è un’opera scritta da Kafka tra il 15 e il 18 ottobre 1914. La datazione
dell’opera tra il 15 e il 18 ottobre non è qualcosa di poca importanza, in quanto come ben tutti sappiamo, il 28
luglio dello stesso anno scoppiò la prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto mondiale aveva fatto anche
da cassa di risonanza per il problema ebraico, acuendolo in maniera drammatica. In particolare, a Praga la
causa della guerra era stata accolta con favore tanto dagli ebrei assimilati, quanto dagli ebrei di seconda
generazione, che vedevano in questo conflitto l’occasione da tempo attesa per liberare gli ebrei orientali
dall’oppressione dello zarismo antisemita. La prima guerra mondiale era dunque stata percepita come una vera
e propria guerra santa. Molti amici di Kafka e molti intellettuali praghesi si arruolano come volontari per la
guerra, ma l’autore, pur sentendo il dovere di andare volontario al fronte sia in quanto ebreo sia in quanto
cittadino dell’impero austro-ungarico, non si presenta per arruolarsi. Baioni, sulla base dei diari e delle lettere
dello scrittore, riconduce questa mancanza al suo amore per la letteratura e alla sua dedizione alla scrittura,
tanto più che l’autore veniva da un periodo (1912-1914) di sterilità letteraria. Kafka però non può fare a meno
di sentirsi in colpa, in quanto come ebreo e come austriaco non si arruola. L’autore reputa la letteratura causa
del suo progressivo isolamento: la letteratura è vista come un castigo, un’agonia, ma nello stesso tempo
l’autore trova nella letteratura l’unica cosa che possa soddisfarlo; come scrive nei suoi diari, essa rappresenta la
tana in cui si sente sicuro e protetto.
Un’altra interpretazione storica prettamente diffusa, è quella che vede nel romanzo, e di riflesso anche nella
parabola, lo specchio di una società asburgica nella fase del suo declino, caratterizzata da una burocrazia molto
lenta, pratiche che subiscono continui rinvii (che potrebbe rimandare al rinvio infinito del guardiano) e assurde
complicazioni e dai cittadini che si sentono colpevoli a priori e che si consumano dietro il dedalo della
burocrazia. Più in generale c’è chi coglie in Kafka lo specchio della società capitalistica, l’alienazione e la
disumanizzazione che le appartengono. La legge, secondo Fischer e Lukaks, altro non sarebbe che la dura e
violenta legge che vige nel mondo borghese -capitalistico, nei suoi ingranaggi che stritola l’uomo.
Altra interpretazione tipica di questo periodo è la situazione del popolo separato nei ghetti, vittima di violenze
senza fine: stiamo parlando ella comunità ebraica praghese vittima di un passato doloroso e con il genocidio alle
porte. Kafka ovviamente vive separato, in una comunità che parla un’altra lingua. Qui la legge può essere vista
come principi insensati e disumani, ma in cui si sono venuti a trovare gli ebrei di Praga durante l’occupazione
nazista. Quella di Kafka sarebbe una sorta di premonizione circa il destino degli ebrei, strappati con inaudita
violenza dalle loro case, mandati senza colpa e senza motivo nei campi di sterminio, e quell’ebreo, quell’uomo
di campagna, nel momento in cui cerca di capire la vera motivazione della sua colpa o cerca di capire gli
ingranaggi della Legge, si vede il cammino sbarrato.
Werkeimmanente Interpretation
L’inserimento della parabola all’interno del romanzo, rappresenta il punto più importante. È una leggenda
importantissima in quanto, per la prima volta, indica il cammino dell’uomo verso la legge. Il romanzo infatti non
deve essere letto in senso esistenziale, ovvero dalla prospettiva dell’arresto, bensì dalla prospettiva della
parabola. Con essa Kafka si presentava veramente alle porte della Legge, creando un moderno maschal
squisitamente ebraico nel tono, nello stile, nella qualità e nella caratterizzazione dei 2 personaggi, in special
modo del guardiano, considerato senza alcun dubbio un ebreo orientale per il suo portamento ma anche per la
sua descrizione.
La figura del guardiano è stata al centro di molte interpretazioni: c’è chi l’ha interpretato come la figura di un
rabbino, c’è chi l’ha considerato come l’ennesima visione dell’immagine paterna e come il rappresentante del
mondo che si pone come ostacolo tra l’uomo e una legge oltremondana. Tutte queste interpretazioni sono vere
ma anche false insieme, in quanto non tengono conto dell’intenzione narrativa dello scrittore. Il guardiano,
infatti, doveva rappresentare nel romanzo la traduzione parabolica del tribunale, e come il tribunale doveva
essere aperto ad ogni significazione. Il lettore, identificandosi nell’uomo di campagna, poteva interpretare la
figura del guardiano secondo la sua situazione morale. Kafka, in sostanza voleva fornire al lettore un modello
didattico che doveva illustrare con la parabola, in che modo ogni singolo uomo si inganni nei confronti del
Tribunale. Kafka sapeva che usando l’immagine del tribunale, essa poteva essere interpretata su piani
diversissimi e l’astrazione della parabola gli permetteva di confutare ogni singola interpretazione
confermandole al contempo tutte insieme.
Identificando quindi il guardiano come il rappresentante dell’ortodossia ebraica, con il padre di Kafka o con il
Tribunale divino, egli rappresenta comunque l’inganno. Ma quale inganno? Il campagnolo si trova dinanzi a quel
limite che ogni creatura conscia della propria finitezza, prova dinanzi al mistero della vita.
Se per i talmudisti tutto ciò ha un valore squisitamente religioso, per Kafka essa rappresenta non soltanto
l’impenetrabilità della Legge, ma quest’ultima rappresenta lo strumento con cui l’uomo si danna. Nel racconto
della parabola l’uomo di campagna esamina la figura del guardiano, e cioè l’aspetto ingannevole della Legge,
senza porsi però la domanda fondamentale se avesse potuto entrare nonostante la minaccia del custode. Tra i
frammenti kafkiani è stato ritrovato un passo che con molta probabilità si fa ricondurre alla parabola stessa :
“Sorpassai di corsa il primo guardiano. In seguito provai spavento e ritornai di corsa dal guardiano e gli dissi:
sono passato di qui mentre eri voltato dall’altra parte. Il guardiano guardava innanzi a sé e taceva. Certo non
avrei dovuto farlo! Il guardiano continuava a tacere”. Con questo frammento è chiaro che il guardiano
rappresenta un ostacolo soltanto perché è la causa della domanda dell’uomo. Egli è la personificazione di una
terrestri che è si la Legge, ma una Legge che può offrirsi e mostrarsi all’uomo soltanto come inganno e minaccia
che sembrano essere creati al solo scopo di sbarrare all’uomo la via verso l’assoluta verità.
Ma qual’è la colpa del campagnolo? In che senso è colpevole? La sua colpa, così come d’altronde è la colpa di
K., sta nella sua domanda, nel non capire che “ora” non ci può essere una conoscenza ma semplicemente una
esperienza della Legge. All’uomo non è concesso di conoscere la verità “ora”, ma l’uomo può vivere già ora
nella verità a patto che la rinunzi a cercare, a patto che viva così accettando la Legge nella sua
contraddittorietà. Il custode che rappresenta l’organizzazione del tribunale, che rappresenta la gerarchia ed il
principio costitutivo della comunità, non ha la verità ma egli è la verità. Quest’ultima è concessa soltanto a chi
avendo rinunciato a conoscerla razionalmente, può verificarla inconsciamente, vivendo nel corpo e secondo la
Legge della comunità. Ma il campagnolo vuole conoscerla adesso, nella misura in cui K. Vuole essere confrontato
con il giudice supremo al di là delle infrastrutture che costituiscono l’organizzazione del tribunale.
L’attesa del campagnolo che trascorre tutta la sua vita ad aspettare e a porre le domande al guardiano, altro
non è che la contemplazione alla vita che gli fa rifiutare l’inganno. Ma è proprio questa sua ricerca del razionale
che lo fa escludere dalla verità, dalla Legge.
Il guardiano appartiene alla legge, e proprio perché appartiene a qualcosa cui l’uomo non può raggiungere, è
sottratto al giudizio dell’uomo. Solo dunque chi rinuncia a giudicare la Legge può partecipare alla Legge stessa
in quanto parte integrante della comunità. Ma proprio chi, come Kafka, voglia essere libero e vuole penetrare
adesso nella “Legge”, deve sentirsi respingere da questo “non ora”, il che significa che soltanto attraverso la
morte è concesso all’uomo di valicare quel limite che lo divide dalla verità assoluta.
Il racconto della parabola, leggendo il capitolo “Nel Duomo” del Processo, viene anticipato dalla presenza della
luce all’interno del Duomo. K. Entrando nel Duomo, dopo un po’ si rende conto che le candele sono state
improvvisamente e misteriosamente accese. Esse sembrano annunciare la cerimonia della parabola. Inoltre nel
momento in cui compare il cappellano, che sceso dal pulpito porge all’imputato la lampada, sembrerebbe che il
cappellano stesso voglia cercare di dare un barlume di speranza all’imputato per far luce sulla sua colpa. La
parabola quindi rappresenta la luce. Ma se da una parte la luce dovrebbe rischiarare il buio e l’oscurità, in
questo caso la luce cresce l’oscurità e la rende anche più inquietante. Questa luce, questa parabola altro non fa
che confonderlo ancora d più, lo smarrisce e lo prepara per la scena finale dell’esecuzione. La parabola esclude,
ma al tempo stesso impone una interpretazione. K., posto dinanzi alla Legge non può sottrarsi
all’interpretazione, ma è proprio questa interpretazione che lo inganna e lo esclude dalla verità. In altre parole,
ciò che la parabola e il cappellano vuole dirci è il fatto che l’uomo, in quanto essere finito, non è in grado di
interpretare razionalmente il mistero. Ed è proprio questa sua limitatezza ad essere la colpa dell’essere umano,
la colpa di K. E dell’uomo di campagna. Colpa dalla quale potrebbe discolparsi rinunciando alla loro ricerca. La
parabola altro non è che la parabola della vita che va amata in tutta umiltà, nelle sue contraddizioni e nei suoi
limiti e nelle sue assurdità.

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