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Luigi Pirandello

Nasce nel 1867 a Girgenti da una famiglia agiata. Cresce in una tenuta nella
località di Caos ( nome su cui scherzerà spesso). Rimarrà sempre fortemente
legato alla sua terra di origine. Nel 1887 si trasferisce alla facoltà di lettere di Roma.
Si scontra con il suo insegnante di latino e si trasferisce all’uni di Bonn e si laurea
nel 1891. Si specializza in filologia. Nel 1892 torna a Roma e si stabilisce lì. Pochi
anni dopo si sposa con un matrimonio combinato con la figlia di un socio in affari
del padre che gestiva con lui delle miniere di zolfo (non era solo un proprietario di
una tenuta agricola modesta), molto importanti in Sicilia. Con questa donna avrà 3
figli. Nel 1903 la solfara di famiglia portata in dote dalla moglie viene chiusa e ciò
porta il crollo finanziario della famiglia. La moglie di Pirandello, già psichicamente
fragile, viene colpita da paresi a causa di questo shock e rimane paralizzata per
molto tempo, e anche negli anni successivi rimarrà vittima di malattie mentali.
Pirandello meditò anche il suicidio ma andò avanti per i suoi figli ancora in tenera
età. Si dà da fare anche a livello economico: impartisce lezione private e continua
la sua attività di collaboratore con le riviste ( le riviste letterarie erano un buon
trampolino di lancio per chi si volesse far conoscere, infatti PIRANDELLO mandò
dei suoi scritti che vennero pubblicati e cominciarono a circolare ). Nel 1919
l’attività di Pirandello si concentra sul teatro e le sue opere vengono rappresentate
in tutta Europa, e diventa uno dei più grandi letterati italiani. Nel 1924 si iscrive al
partito fascista, che in epoca successiva è stata oggetto di critiche e discussioni
non ancora sopite. Tuttavia noi non possiamo giudicare un’azione politica in un
contesto che non conosciamo, tuttavia ciò rappresenta una macchia nella vita di
Pirandello. Lui si era probabilmente iscritto perché doveva farlo per continuare a
insegnare e forse perché mirava agli aiuti finanziari necessari per continuare la sua
attività di letterato in pace, nonostante a lui la politica interessasse politica. Nel
1925 assume la direzione del teatro d’arte di Roma, dove stringe una relazione con
Marta Abba, la prima attrice. Il teatro era stato fondato da giovani artisti tra cui il
figlio Stefano, e Pirandello vi attua la sua rivoluzione teatrale accostabile a quella
che in Russia fu attuata da Stanislavsky.
Marta Abba era un’attrice che fu scritturata da Pirandello e divenne così la prima
donna della sua compagnia e le fece guadagnare un estremo successo. Nel
decennio successivo Marta Abba divenne la sua compagna ( era ancora sposato,
ma la mogli era stata anche internata in manicomio). Nel 1939 riceverà il premio
nobel per la letterature ( gli scrittori italiani che ottennero questo premio furono
Giosuè Carducci nel 1906 , Grazia Deledda nel 1926, Pirandello, Salvatore
Quasimodo nel 1959, Eugenio Montale nel 1975 e Dario Fò nel 1997).

Umorismo e ironia
1908 pubblicazione del saggio intitolato “L’umorismo” :
è diviso in due parti, Nella prima Pirandello rintraccia l’origine lontana
dell’umorismo nella teoria classica degli umori, i quattro fluidi responsabili del
temperamento dell’individuo e della sua salute. Poi collega il termine al francese
esprit e all’inglese humor tratteggia la storia della letteratura umoristica italiana e
straniera di tutti i tempi.
Nella seconda parte delinea cosa si debba intendere per umorismo. Fa una
distinzione tra risata avvertita dall’avvertimento del contrario ( mi metto a ridere
perché vedo il contrario di ciò che una cosa dovrebbe essere normalmente), ma se
interviene la riflessione si giunge alla generazione del sentimento del contrario
(capisco perché le cose sono così e non come dovrebbero essere) e ciò genera
l’umorismo, un riso amaro.
Questo brano è tratto da un saggio che Pirandello scrisse per partecipare a un
concorso universitario, avrebbe dovuto usare termini tecnici, usa una struttura
saggistica ben poco tradizionale, usa al posto della teoria una figura da commedia
che assomiglia alla Signorina Caporale de Il Fu Mattia Pascal. La descrizione
rafforza le idee, è questa una della caratteristiche moderne e anticonvenzionale dei
saggi di Pirandello. La riflessione è centrale nell’umorismo, permette di passare
alla comprensione emotiva ed empatica. La letteratura, secondo Pirandello, non
deve abbandonare l’elemento filosofico (a differenza di Benedetto Croce, massimo
critico letterario italiano del tempo), il lettore deve arrivare alla comprensione di
quello che legge tramite le emozioni. (p.620)

Il treno ha fischiato p.647


E’ tratta dalla raccolta “Novelle per un anno”. Fa parte del quarto volume chiamato
“…”.
E’ un racconto d’investigazione (quest, investigazione, ricerca). Accade qualcosa
che viene svelato tramite il testimone che racconta tramite un flashback a ritroso
come in un racconto giallo. Scopriamo durante il racconto che a parlare è il vicino
di casa che è informato dei fatti, che subito rifiuta l’interpretazione corrente della
sua pazzia. Il vicino informato sulla sua vita terribile cerca un’altra soluzione che
non sia la pazzia.
E’ diviso in più parti:
1. PARTE 1 “ IMPROVVISA FOLLIA DI BELLUCA” 1-74
2. PARTE 2 “LA VOCE NARRANTE NON è SORPRESA” Il vicino la interpreta
come una conseguenza scontata della vita che Belluca conduceva a casa e
sul lavoro (menzionata nella sequenza successiva)
3. PARTE 3 “ SPIEGAZIONE DELLA FOLLIA”: la voce narrante è convinta che
sia una conseguenza logica
4. PARTE 4 “RIEVOCAZIONE DELLA VITA DI BELLUCA”. La moglie, la suocera
e la sorella della suocera erano cieche. Aveva riaccolto le figlie vedove una
con 4 bambini l’altra con 3. Lavorava anche di notte perché con il suo
modesto stipendio non poteva dar da mangiare a tutte quelle bocche.
5. PARTE 5 “ RISOLUZIONE DEL MISTERO”: Belluca ha sentito nel sonno il
fischio di un treno che gli ricorda che un altra vita esiste e ciò lo fa inveire
verso i soprusi del capo. (correggi dal libro a p 653)
Si fronteggiano due opinioni: la prima della gente comune, cioè i medici e i
colleghi che pensano che sia pazzia, alla seconda del vicino, che crede che sia
una conseguenza, ciò è un esempio di relatività della verità.
Questo è uno dei tipici personaggi alienati dal lavoro di Pirandello. E’ stato murato
dal suo lavoro come le parenti sono murate dalla cecità ( guarda interpretazione
p.653)

Uno, nessuno e centomila


Uno, nessuno e centomila fu scritto in molto tempo. E’ un romanzo come il fu
Mattia Pascal, e anche questo è una narrazione retrospettiva, come un lungo
flashback (i fatti raccontati sono già accaduti). Anche questo romanzo è narrato da
una prima persona sia voce narrante che protagonista. Vitangelo Moscarda ha
molti punti in comune con mattia Pascal. Entrambi sono degli scioperati e non si
riconoscono nel loro corpo, ma nel secondo romanzo a causa di un naso
importante e irregolare. Si sono entrambi sposati per volontà altrui e attuano una
ribellione alle imposizioni della società. La ribellione è più tortuosa in Pascal ( esso
si finge morto approfittando di un equivoco: è stato trovato un cadavere nel suo
paese che è stato identificato con Mattia Pascal. Il protagonista fugge con
l’intenzione di ricostruirsi una nuova vita e cambia nome). Mentre ne Il fu Mattia
Pascal il protagonista cerca la sua identità e liberazione in modo passivo e quasi
inconsapevole, nel secondo romanzo il protagonista diventa attivo e consapevole
della propria libertà. Vitangelo Moscarda si ribella alle opinioni che gli altri hanno di
lui, dissolvendo la sua figura di figlio scioperato di un banchiere usuraio: ( leggi p
626)

Il furto
Il protagonista cerca di liberare la casa occupata dal misero artista marco di dio
che non paga la pigione. Però il padre, prima della propria morte aveva concesso
la casa all’artista in modo gratuito a titolo di usufrutto. Quando il protagonista
entra in possesso degli incartamenti vuole sfruttare l’artista. Il protagonista entra
nell’ufficio del padre per rovistare tra i suoi incartamenti. Si sente turbato da ciò
perché gli sembra di commetter un furto e perché gli sembra di dì violare la
disposizione precisa del padre , e cioè che degli affari della banca se ne occupi
solo l’amministratore designato Quantorzo, in quanto il figlio si era sempre
disinteressato degli affari paterni.
ANALISI – La tecnica della zoommata: il protagonista crede di compiere un furto a
se stesso ma in realtà lo compie al padre (o meglio Quantorzo → tema
dell’antagonismo nella figura sostitutiva del padre, tema popolare in questo
periodo). Ha un senso di colpa così forte da far nascere un desiderio di
autodistruzione. L’ansia crea l’allucinazione delle mani del padre staccate dal
corpo, non gli appare il ricordo di tutto il padre. Siccome queste mani sono
staccate, gli appaiono come una visione inquietante o “perturbante” ( con il
termine perturbante si traduce in ita da una parola tedesca che significa non
famigliare” → un oggetto, un animale che quando si presentano in circostanze
diverse dalle solite ci danno un senso di paura e angoscia). Le immagini
perturbanti del testo sono le mani del padre (simboleggiano il potere del padre) e lo
scarafaggio (simboleggia lo schifo che la sua professione di usuraio incute nel
figlio). Proprio questa simbologia dà l’imperturbabilità ai termini. Spesso anche nel
cinema si inquadra un particolare alienato dal contesto: questa tecnica si chiama
zoommata.
INTERPRETAZIONE – Alle mani del padre, con un montaggio alternato, la
zoommata è un po’ sulle mani del padre e un po’ su quelle di Vitangelo. Una
memoria involontaria distrae il protagonista: gli viene in mente il chiocchiolare di
una gallina in una campagna in cui era stato nell’infanzia. Questo episodio è
apparentemente distaccato dall’episodio del furto, ma in realtà ha con esso un
rapporto puramente associativo dell’inconscio: riconduce Vitangelo allo scenario
originario della nevrosi che si era originata nell’infanzia e al rapporto del epidico
con il padre che allora si è rivelato.

La vita non conclude p. 640


Siamo in un’aula di tribunale. Vitangelo, dopo il furto, si prefigge di liquidare la
propria eredità, vuole vendere la banca, perché è stata aperta dal padre con i
guadagni dell’usura. Sia i colleghi della banca si la mogli elo vogluiono far …, per
fargli perdere la possibilità di scelta e l’eredità. Con l’aiuto di Annarosa riescono a
utilizzare l’eredità per costruire un ospizio (?). Vitangelo, tenta con un gesto busco
di baciare Annarosa che gli spara ( Pirandello non spiga dettagliatamente la
sequenza). Al processo per tentato omicidio, Vitangelo la scagiona dicendo che
era avvenuto tutto per caso, e che non era stato intenzionale. Si presenta con la
veste dei mendicanti dell’ospizio costruito con i proventi dell’eredità.

ANALISI – L’estratto è divisibile in tre sequenze:


1. NEGAZIONE DELLA PROPRIA IDENTITÀ’ (1-9): Vitangelo sta rinunciando al
proprio nome, un concetto che lo fissa in una forma immodificabile. Vuole
entrare nel continuo fluire della natura.
2. LIBERAZIONE DALLE COSTRIZIONI SOCIALI (10-23): C’è la descrizione
della casa di riposo dove si è rinchiuso: E’ uno scenario piacevole e lui si
sente libero dalle costrizioni dell’esistenza.
3. IMMERSIONE NEL FLUIRE DELLA NATURA(24-30): Mentre il fu mattia
pascal si arrestava alla pars destruens, e si limitava a distruggere l’identità
senza proporre un’alternativa, qui invece, il protagonista accetta di
sprofondare nel fluire mutevole della vita, proprio per questo arriva a negare
anche il proprio nome. Invece di ritagliarsi un posto all’interno della società,
Moscarda sceglie la fusione con la natura. Il critico Renato Barili ha parlato di
misticismo laico-mondano: sembra che Pirandello crei un’identificazione
profonda tra uomo e natura. A quale altro autore ci fa penare questa fusione
con la natura? Per certi aspetti, questa fusione può far pensare al panismo
d’annunziano di Alcyone, ma con una differenza: la fusione panica per
D’Annunzio è un esperienza eccezio0nale, può essere propria solo del
superuomo, mentre per Pirandello questa esperienza è democratica ed è
proposta come modello per ogni uomo che riesce a romper il meccanismo
delle convenzioni sociali e riesce ad estraniarsi da esse. Inoltre la teoria del
superuomo di d'annunzio è finalizzata al dominio autoritario di un'élite sul
corpo sociale, mentre l’irrazionalismo di Pirandello è del tutto anarchico, cioè
conduce ad una critica distruttiva di ogni compagine sociale.

In genere Pirandello è molto parco di aggettivi qualificativi, che però abbondano in


questo testo, numerose sono le metafore. C’è la e iterata all’inizio del periodo.
Questo è un genere che solitamente Pirandello non usa.

Sei personaggi in cerca d’autore e “il teatro nel teatro” [sul libro p.774]

Irruzione dei personaggi sul palco scenico [sul libro p.677]

La conclusione di Enrico IV p.693


Siamo in una villa umbra trasformata in una reggia, ed è il teatro della messa in
scena della finta pazzia di colui che dice di essere Enrico IV. Enrico IV in realtà è un
nobile che durante un ballo in maschera in cui impersonava Enrico IV era caduto
da cavallo, aveva battuto la testa ed era impazzito ed era stato fuori di senno per
tanti anni finché era rinsavito ed aveva compreso che quella caduta da cavallo era
stata provocata dal suo rivale, e quindi aveva finto di essere pazzo per guardare la
realtà attorno a se senza essere giudicato. Il suo rivale lo aveva fatto cadere da
cavallo per rubarle al sua amata, Matilde. Durante la pazzia di Enrico IV Belcredi e
Matilde si sposano e hanno una figlia di nome Frida. Non è un caso che Pirandello
scelga questi nomi: Enrico IV era il famoso imperatore che nel 1077 si era dovuto
umiliare a Canossa davanti al Papa nell’incontro organizzato da Matilde di Canossa
(ecco perché l’amata si chiama così).
Nella scena letta Enrico fa finta di essere ancora pazzo e su consiglio di uno
psichiatra si ricostruisce il giorno in cui è caduto da cavallo e la stessa scena che
ha provocato il trauma (secondo i dettami della psicanalisi se un paziente rivive lo
shock può guarire). Vanno nella villa dell’avvenimento, Frida insieme ai genitori e il
medico. Frida, identica alla propria madre interpreterà la madre da giovane
(essendo passati molti anni). È una scena finale perché alla fine troviamo scritto
TELA. L’autore svolge i suoi temi più importanti: tema del teatro nel teatro,
perché noi stiamo assistendo a una finta interpretazione per assecondare la pazzia
del personaggio. Abbiamo il tema della follia e il tema della menzogna. Questi
tre temi nell’atto finale si mescolano insieme, perché il confine tra verità e
menzogna, ma anche il confine tra pazzia è salute viene a cadere e niente è quello
che sembra, infatti nella parte finale. L’ultimo atto si conclude con Enrico IV che
colpisce il suo rivale Belcredi. La spada con cui colpisce l’uomo doveva essere un
attrezzo di scena, una spada finta, ma l’arma è vera e ferisce davvero il rivale.
Produce quindi una ferita vera, vera come torna ad essere la pazzia del
protagonista.
Perché Enrico IV colpisce l’uomo? Ci viene subito in mente che lo colpisca per
gelosia, però questo vale soltanto come spiegazione parziale, perché da quello che
abbiamo letto Enrico IV colpisce Belcredi soltanto quando quest’ultimo gli rinfaccia
di non essere veramente pazzo. Quindi possiamo dire che Enrico lo farcisce
perché teme di perdere la sua identità, che anche se posticcia è sempre
un’identità. Alla fine dell’atto Enrico sembra bloccato in questa maschera che
prima aveva scelto consapevolmente e in maniera spontanea, ora però non è più
una scelta ma è diventata una prigione, infatti sceglie di ferire il rivale e facendo
così sceglie di perpetrare la propria follia: accetta in questo modo, come una
condanna, la condizione di finzione (se non lo facesse verrebbe accusato per aver
ferito un uomo).

Concetto di maschera
C’è uno studioso, di nome Pizzorno, che pubblica un Saggio sulla maschera. La
sua tesi dice che l’identità di ognuno di noi non è un sentimento individuale, ma è
un’attribuzione da parte degli altri, un’operazione di riconoscimento: io faccio
coincidere la mia identità con l’immagine sociale che ho, con l’idea che gli altri si
sono fatti di me. Secondo Pirandello questa è solo una maschera che sono
costretto ad indossare in modo che quello che pensano gli altri coinciderà con
l’identità. Quindi la mia identità non è altro che una maschera che gli altri mi hanno
costruito.

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