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Berlino 1923.

Una donna rivolge a un uomo innamorato il


rimprovero più doloroso: «il tuo amore è grande ma non è
gioioso» e gli vieta di scriverle d’amore. L’uomo allora comincia
a scriverle lettere non d’amore. Questa finzione è il nucleo di
Zoo, romanzo in lettere del fondatore del formalismo russo. Da
essa si sviluppa un ininterrotto divagare e vagheggiare intorno a
un esilio berlinese – un serraglio di giovani e meno giovani che
non sopportano la lontananza dalla patria russa, una comunità
riunita in un quartiere a ridosso della città tedesca; da queste
due circostanze il titolo: ritratti di artisti, scene di vita, incontri,
cose viste e lette, pagine di critica e teoria della letteratura,
giornate perse; un parlar d’altro fitto di riferimenti e citazioni
nascoste, in uno stile ironico e trepidante, dapprima vago, poi
sempre più preciso, per rendersi conto che quell’amore, di cui
non si deve dire, resta, parlando non d’amore, come un vuoto in
mezzo, i cui contorni sono ritagliati dalle cose non dette intorno
ad esso con una precisazione più bruciante di un racconto
diretto. E ci si aspetta che Alja, la donna, entri da un momento
all’altro dalla porta, irrompa nella stanza a squarciare in un lieto
fine il mistero indicibile dell’amore. Come una seconda finzione
nella finzione: un racconto d’amore celato nella ingiunzione di
non parlarne.

Viktor Borisovič Šklovskij  (1893-1984), nato a


Pietroburgo da padre ebreo e madre di origine tedesca è, sin
dalla sua giovinezza, una delle figure più significative della vita
culturale russa. Membro dell’Opojaz (Società per lo studio della
lingua poetica), amico e collega di Roman Jakobson e padre
della scuola formalista, l’autore nel 1925 pubblica la prima
edizione della sua famosissima Teoria della prosa. Critico,
teorico della letteratura e sceneggiatore cinematografico,
Šklovskij è anche uno scrittore arguto e originalissimo che rivela
la sua vena letteraria in opere prevalentemente autobiografiche
come Viaggio sentimentale (Berlino 1923), Zoo o lettere non
d’amore (Berlino 1923), Terza Fabbrica (Mosca 1926) e Il
punteggio di Amburgo (Leningrado 1928). Negli anni più oscuri
dell’epoca sovietica Šklovskij ritorna ai classici, lavora per il
cinema e, perennemente tormentato dai problemi della
struttura del romanzo, riscrive la Teoria della prosa che pubblica
in una nuova edizione un anno prima della morte (Mosca 1983).
Muore a Mosca nel 1984, lasciando un patrimonio ricchissimo
di opere teoriche e critiche che hanno posto le basi per la
nascita dello strutturalismo. Zoo o lettere non d’amore viene
proposto per la prima volta in Italia nella traduzione
dell’edizione originale berlinese del 1923.
La memoria

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Viktor Borisovič Šklovskij

Zoo o leere non d’amore

A cura di
Maria Zalambani

Note di
Aleksandr Galuškin e Vladimir Nechotin

Sellerio editore
Palermo
2002 © Sellerio editore via Enzo ed Elvira Sellerio 50 Palermo
2021 Quarta edizione
 
 
e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it
 
 
Titolo originale: Zoo ili pis’ma ne o ljubvi
Traduzione di Maria Zalambani
 
 
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
 
 
EAN 9788838942761
Ambiguità di un discorso amoroso
di
Maria Zalambani
Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio
contro l’altro. È come se avessi delle
parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta
delle mie parole. Il mio linguaggio freme di
desiderio.
R. BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso

DISCORSO AMOROSO O FINZIONE LETTERARIA? Viktor Borisovič Šklovskij,


noto ai leori per essere stato il principale fautore del formalismo, si rivela
in questo romanzo un abile costruore di fabulae, nonché un amante
passionale. Passione che l’autore nasconde dietro ad un abile gioco di
rimandi, col quale cerca di celare i suoi sentimenti, per dimostrare che la
donna amata, in realtà, non è mai esistita e che questo scambio epistolare
è solo una finzione leeraria. E l’inganno è così abile, che il leore spesso
cade viima dei suoi trucchi, dei suoi artifizi, e comincia a non discernere
più il vero dal falso, a confondere i limiti della realtà con quelli della
fiction, a interrogarsi ansiosamente sulla biografia dello scriore, per
sapere se, alla fine, Alja sia veramente esistita o se sia puro fruo della
fantasia šklovskiana. Il leore paziente che indagherà la biografia di
Šklovskij scoprirà così che la protagonista femminile aveva un volto e un
nome: Alja Kagan (1893-1970), alias Elsa Triolet (dal cognome del primo
marito), sorella di Lili Brik (moglie del critico formalista Osip Brik ed
ispiratrice di molti poemi di Majakovskij). Il leore particolarmente
curioso potrebbe addiriura scoprire che a Parigi esiste un archivio, presso
il CNR francese, dove si conservano ancora gli originali delle leere di Alja
e Šklovskij. Una storia d’amore vera, dunque, ma negata da una donna ad
un uomo e poi dall’uomo a se stesso. La donna respinge il sentimento
d’amore perché non lo ricambia, l’uomo utilizza il rifiuto per costruire una
finzione leeraria che gli consentirà di nascondere le proprie pene dietro
una geniale forma di antiromanzo formalista, il quale gli lascerà spazio per
incessanti acrobazie leerarie. In seguito, con gli anni, nelle nuove
edizioni sovietiche dell’opera, Šklovskij rinnegherà questo amore,
costreo dalla gelosia della moglie e dal tempo che, ineluabilmente,
cancella tuo. Così, nella prima edizione sovietica, che risale al 1924, per
effeo di questa gelosia, scompariranno tue le leere di Alja. E poi sarà
la vita stessa a spegnere questo fuoco, come sostiene Šklovskij
nell’edizione del 1964:

Ho seant’anni. La mia anima giace innanzi a me.


È tua segnata dalle pieghe del tempo.
el libro, già allora, l’aveva piegata. Io l’ho raddrizzata.
Hanno piegato l’anima la morte degli amici. La guerra. Le dispute. Gli
errori. Le offese. Il cinema. E la vecchiaia, che nonostante tuo, è
sopraggiunta.
Ora, mi è più facile, perché non conosco i luoghi per i quali cammini,
non conosco i tuoi nuovi amici, o i vecchi alberi presso il tuo mulino
(Šklovskij 1964: 123).

All’epoca, però, come ricorda Lidija Ginzburg nelle sue memorie,


Šklovskij «diceva che Zoo, nella sua prima edizione (berlinese), era un
libro così innamorato che non lo si poteva tenere in mano senza scoarsi»
(Ginzburg 1989: 7).
Nel romanzo del 1923 non brucia solo la fiamma del desiderio amoroso,
ma si consuma anche il tormento dell’emigrato, afflio dalla nostalgia
della patria, degli amici, della sua Pietroburgo.
Così in quest’opera si intersecano vari temi; la storia d’amore si incrocia
con le descrizioni nostalgiche della Russia, il romanzo d’emigrazione con i
bozzei critici degli intelleuali russi che vivono a Berlino e infine, dietro
a tui questi, si intravede un altro piano, quello storico-filologico che vede
il romanzo trasformarsi da opera d’emigrazione in romanzo sovietico,
occultando tra le righe una pagina di storia della censura in epoca
sovietica (Zalambani 2001).
La donna alla quale ho scrio non è mai esistita.
Alja è la realizzazione di una metafora.
Zoo, 1923, leera 29
UN ESORCISMO AMOROSO. A Berlino, dove l’autore emigra nel 1922 per
evitare un imminente arresto da parte della polizia segreta (Čeka), si
consuma l’incontro con Elsa Triolet, affascinante giovane donna di origine
russa, oggeo d’aenzione e d’amore anche da parte del famoso linguista
struuralista Roman Jakobson, amico e collega di Šklovskij. La Triolet si
era trasferita a Berlino dopo il fallimento del suo primo matrimonio, in
seguito si trasferirà a Parigi dove, nel 1928, sposerà lo scriore francese
Luis Aragon e diventerà, a sua volta, una nota scririce francese.
A seguito dell’incontro con Šklovskij, inizia lo scambio epistolare fra
Elsa e l’autore, ma le regole del gioco sono deate dalla donna, che
dichiara di non amare il suo adulatore e gli proibisce di scriverle leere
d’amore. I compiti affidati all’autore sono chiari: non parlare d’amore, non
telefonare, non vedere la donna amata, ma il divieto di scrivere non gli
impedisce di lasciare liberi i propri pensieri:

Mi hai assegnato due compiti.


1) Non telefonarti. 2) Non vederti.
Adesso sono un uomo impegnato.
C’è ancora un terzo compito: non pensarti. Ma questo, tu non me l’hai
affidato (Šklovskij 1923: 38).

Ed i pensieri in libertà di uno scriore geniale quale Šklovskij


cominciano a concepire leere apparentemente non d’amore, ma
costantemente struurate su una base metaforica, ovviamente… amorosa.
Tale struura emerge quasi in ogni leera; qualsiasi argomento l’autore
scelga per la sua epistola, esso si trasforma, come per magia, in
un’immagine dei suoi sentimenti. Berlino parla di Alja, persino tecnica e
motori suscitano nell’autore associazioni amorose: «I pensieri rivolti a te,
alla motociclea e all’automobile si confondono nella mia testa. Scriverò
una leera» (Šklovskij 1923: 53).
E il discorso amoroso si fa doppiamente ambiguo quando cerca di
nascondere il proprio oggeo (l’amore) e di nascondersi in quanto tale
(fingendosi altro). Così, da un lato, Šklovskij gioca a mascherare il vero
tema della sua narrazione:

Non parlerò d’amore; parlerò soltanto del tempo.


Il tempo oggi a Berlino è bello (Šklovskij 1923: 22).

E contemporaneamente l’autore rinnega al suo testo lo statuto di


discorso amoroso, aribuendogli una forma «altra» e facendone un
antiromanzo formalista. Cercando di ridurre la sua opera a puro artifizio
leerario, l’autore dichiara che tua la storia d’amore non è altro che una
menzogna; la motivazione amorosa gli era necessaria esclusivamente per
tessere la struura del romanzo: «Ho inventato una donna e un amore per
un libro sull’incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera»
(Šklovskij 1923: 105). E così, inconsapevolmente, sembra prendere ao di
ciò che afferma Barthes:

Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per
scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scriura
non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove tu
non sei: è l’inizio della scriura (Barthes 1979: 185).
Non va da nessuna parte la Berlino russa. Non ha destino.
Nessuna trazione.
Zoo, 1923, leera 17

UN ROMANZO SULL’EMIGRAZIONE. All’interno della scriura Šklovskiana


nascono i vari livelli di leura del romanzo Zoo, che superando i limiti del
discorso amoroso, sconfina in altri ambiti, primo fra questi, quello del
romanzo d’emigrazione (e sull’emigrazione). Scrivendo e pubblicando la
sua opera durante l’esilio berlinese, Šklovskij ne fa automaticamente un
romanzo della cosiddea «leeratura d’emigrazione» (zarubežnaja
literatura), prodoo dell’intelligencija russa rifugiatasi prima a Berlino, poi
a Parigi. esta branca della leeratura russa, negli anni ’20, si sta
dibaendo nel dubbio amletico se esistere come continuatrice della
tradizione russa, o se geare nuove radici nella fertile terra straniera del
cui humus ormai si nutre. Insomma, una richiesta d’identità e di
riconoscimento. Leo da questo punto di vista, Zoo si costituisce
probabilmente come un prolungamento della cultura russa rimasta in
patria, dal momento che nel romanzo l’autore mee in ao tue le taiche
interne alla complessa strategia formalista, di cui era stato fautore in
Russia negli anni precedenti, e di cui tornerà ad essere un insigne
esponente dopo il suo rientro in patria. Forse la domanda diventerebbe più
complessa se prendessimo in esame tue le edizioni sovietiche di Zoo,
giustapponendole all’edizione berlinese. Ne emergerebbe un quadro
complesso, in quanto vedremmo che i mutamenti apportati al testo, di
volta in volta, tendono a trasformare Zoo in romanzo sovietico,
rinnegandolo come opera d’emigrazione. est’opera, prendendo le
distanze dall’amore che l’ha generata, sembra voler rinnegare anche la
terra che ne ha visto i natali.
Zoo non è solo un romanzo della zarubežnaja literatura, ma anche un
romanzo sull’emigrazione, sulla nostalgia, sulla tristezza che aanagliano
l’intelleuale russo emigrato, che si sente a Berlino come in uno zoo-
prigione. L’epigrafe del romanzo, citazione quasi integrale del poema di
Chlebnikov Il serraglio (Chlebnikov [1909]), ci rimanda insistentemente al
«bestiario umano» che vive a Berlino, in particolare agli emigrati russi che
nella cià tedesca abitavano proprio nel quartiere adiacente allo zoo.
Come rinchiusi in gabbia, i russi a Berlino vivono una vita estranea, che
non appartiene loro, cercando di imitare gli europei, ma inutilmente: la
loro andatura è troppo pesante, la voce troppo alta, i pantaloni senza la
piega. È così che lo stesso Šklovskij, in una leera dal chiaro rimando al
poema chlebnikoviano citato in epigrafe, rappresenta se stesso in una
gabbia dello zoo, soo forma di scimmia (leera 6), in preda alla noia e
alla nostalgia.
La vena del romanzo d’emigrazione corre lungo tuo il romanzo, dando
voce alle urla sommesse dell’autore che ora si rivolge agli amici rimasti in
patria con la preghiera di intercedere per il suo rientro (leera 14), ora
emee tra sé e sé un lieve sussurro, un sospiro di rimpianto (leera 6).
Fino allo squarcio del grido finale, lancinante, esasperato, che l’autore
lancerà nell’ultima leera, in cui, soo forma di documento ufficiale,
Šklovskij si rivolge alle autorità sovietiche affinché gli consentano di
rientrare in patria: «È sbagliato che io viva a Berlino. […] Alzo le mani e
mi arrendo. Lasciate tornare in Russia me ed il mio ingenuo bagaglio»
(Šklovskij 1923: 105).
Grazie all’aiuto di Gor’kij tra il seembre e l’oobre del 1923 lo scriore
rientrerà in Unione Sovietica.
Aprì la porta e (lo dirò per il cubismo) il
vento lanciò nel quadrilatero prismi di pioggia
e il seore sferico di un ombrello.
Zoo, 1924, leera 21

UN ANTIROMANZO FORMALISTA. Nel momento in cui Zoo rifiuta lo statuto di


discorso amoroso, si trasforma in un esperimento leerario che vuole
sovvertire le leggi che presiedono alla produzione del romanzo, leggi che
Šklovskij all’epoca stava indagando e che, due anni più tardi, verranno
esaminate nella sua famosa Teoria della prosa.
E così cominciano le provocazioni. Zoo si annuncia come romanzo non
d’amore nell’essenza stessa del suo titolo, ma nella dedica,
immediatamente successiva, si smentisce, rimandando il leore alla
corrispondenza amorosa di Abelardo ed Eloisa, nonché a Julie o la nuova
Eloisa di J.-J. Rousseau: «Dedico “Zoo” a Elsa Triolet e aribuisco al libro il
nome di “Terza Eloisa”» (Šklovskij 1923: 15).
Dopo le preannunciate incertezze sul contenuto, arrivano le sorprese
sulla struura. Una struura complessa, costituita da un forte tessuto
intertestuale (che oscilla dalla Bibbia ai testi dei contemporanei) e che
assume una forma inconsueta. Servendosi della tecnica del montaggio, che
in quegli anni sta facendo la sua comparsa nel nuovo cinema sovietico di
Lev Kulešov, Dziga Vertov e Sergej Ejzenštejn, Šklovskij confeziona il
romanzo combinando generi eterogenei: dall’epistola alla fiaba, dall’opera
teatrale al saggio critico e, infine, al documento ufficiale.
Ma il montaggio più complesso è quello grazie al quale l’autore combina
realtà e finzione, confondendo i confini fra leeratura e vita. Il materiale di
Zoo è il vissuto dell’autore che si intreccia con quello degli emigrati russi a
Berlino: l’intelligencija russa fornisce gli eroi della scena leeraria, sul cui
palcoscenico gioca a recitare la sua parte l’uomo-scriore Šklovskij. Per
lui non esistono confini fra teoria e pratica, fra realtà e fiction: non deve
indossare nessuna maschera per passare dal ruolo di prosatore o di critico
leerario a quello di biografo e per questo la sua opera è in parte
autobiografica, in parte scientifica. In Zoo il pensiero teorico si intreccia
con passaggi narrativi, trasformandolo in un antiromanzo formalista, in
cui lo scriore è contemporaneamente narratore ed eroe del proprio
discorso teorico-artistico.
E le sorprese non terminano qui: facendo capolino tra le righe, Šklovskij
addita gli artifizi leerari che va adoando, servendosi di quel
denudamento del procedimento (obnaženie priëma) che ha appreso
soprauo da L. Sterne e inserendo addiriura una leera cancellata, da
non leggere. La provocazione si accresce nel momento in cui Šklovskij la
descrive come la migliore di tuo il romanzo e contemporaneamente
intima al leore di non infrangere il suo divieto:

Leera diciannovesima. Che non bisogna leggere. È stata scria da Alja


quando era malata; la carta che ha trovato per la leera è a righe, la leera
è la migliore di tuo il libro, ma non bisogna leggerla e per questo è
barrata (Šklovskij 1923: 76).

Divertendo e stupendo, Šklovskij crea un romanzo un po’ dissacrante,


un po’ smitizzante, ma sempre dileevole.
Chlebnikov era simile a un uccello malato,
scontento che lo si guardasse.
Zoo, 1923, leera 4

UN VIAGGIO DA PIETROBURGO A BERLINO. Lungo le strade della capitale


tedesca, Šklovskij, in preda alla nostalgia, va alla ricerca dei volti amici
dell’intelligencija russa emigrata che lì, in Germania, stava ritrovando la
propria identità, riunendosi aorno a club, locali, riviste, case editrici che
rendevano la vita intelleuale di quegli anni molto aiva. In questi luoghi
di ritrovo, un po’ culturali e un po’ mondani, lo scriore incontra molti
intelleuali e scriori fuoriusciti dall’Unione Sovietica, che lui dipinge
nelle pagine di Zoo. Ne escono dei ritrai in parte biografici, in parte
critici, ma sempre curiosi e alleanti. Il ritrao di Boris Pasternak è tuo
giocato sulla famosa similitudine di Marina Cvetaeva secondo la quale
Pasternak somiglia allo stesso tempo a un arabo e al suo cavallo.* Ma
anche quest’uomo forte e possente a Berlino sta perdendo il suo vigore; se
a Mosca

sentiva la trazione della storia […] a Berlino Pasternak è inquieto. È un


uomo di cultura occidentale, quanto meno la capisce, è vissuto anche
precedentemente in Germania; con lui adesso c’è la sua giovane, bella
moglie, tuavia è molto inquieto (Šklovskij 1923: 67-68).

Anche lui sente che la Berlino russa non ha destino, che l’emigrazione
uccide l’animo russo.
A Berlino si trova anche Belyj, il famoso scriore simbolista, uomo dal
«metodo solido», colui che all’inizio del secolo, assieme a Remizov e
Rozanov, aveva inaugurato una nuova prosa «emotiva», spesso orientata
sulla lingua orale, quella prosa ornamentale di cui si stava appassionando
Šklovskij in quegli anni, intravvedendovi la possibilità di uscire dagli
schemi classici di una tradizione ormai obsoleta. Sulla scia del formalismo,
Šklovskij cerca ovunque elementi innovativi, che sconvolgano l’ordine
costituito, che sconfessino la tradizione, per meere alla prova esperimenti
sempre nuovi. Ecco perché i suoi interessi si rivolgono ad un autore come
Chlebnikov (poeta sperimentatore per eccellenza, inventore della lingua
transmentale), o a quei prosatori che perpetuano nel nuovo secolo il filone
della prosa emotiva inaugurato da Gogol’ nel secolo precedente.
Molti degli incontri di Šklovskij con l’intelligencija russa avvengono a
Berlino, altri nel piano dell’irrealtà, in quello della memoria, in un altrove
così lontano e, contemporaneamente, vicino quale la Russia, la sua Russia,
assente, ma sempre presente nei suoi pensieri. È su questo piano che
avviene l’incontro con Chlebnikov, il poeta da lui più amato e ormai
scomparso, la cui presenza aleggia lungo tue le pagine di Zoo. Con un
salto indietro della memoria viene dipinto anche Remizov, intento a fare i
conti con i problemi di tui i giorni in una Pietroburgo aanagliata dal
morso della fame e del freddo nel 1919, e contemporaneamente
menzionato come inventore di quell’ideale Ordine delle Scimmie (una
sorta di società massonica, in odore swiiano, di cui fa parte anche
Šklovskij) che, un po’ sprezzante della banalità umana, si erge al di sopra
di essa per qualità sia morali che intelleuali. Con l’occhio rivolto al
passato, Šklovskij ricorda e rimpiange Roman Jakobson, l’amico, il fratello,
il collega con il quale ha posto le basi del formalismo in patria e che ha
scelto una diversa via d’emigrazione, quella della Cecoslovacchia.
Nonostante le richieste insistenti di Šklovskij, Jakobson non farà più
ritorno in Russia e in esilio fonderà la sua famosa scuola struuralista, il
Circolo linguistico di Praga.
L’unico che, afferma Šklovskij un po’ ironicamente, sembra trovarsi
perfeamente a suo agio a Berlino è Il’ja Erenburg, perché possiede il
passaporto, è fornito di visti, e viaggia tranquillamente fra l’Unione
Sovietica e l’Europa: dono raro, fortuna inconsueta per il popolo degli
emigrati!
Pezzi di vita russa si compongono con quadrei di vita berlinese, i
personaggi vi si confondono, scivolando da uno sfondo all’altro. Scorrendo
questa folta galleria di volti famosi, ci sembra di percorrere un viaggio che
da Pietroburgo e Mosca ci porta a Berlino. E la via del ritorno?
Zoo di Šklovskij è un’opera «al limite».
JU. TYNJANOV, Literaturnoe segodnja, 1924

LO STILE DI ZOO. Lo stile di Šklovskij è assolutamente insolito ed


originale, quale la personalità stessa del suo autore. Uno stile
apparentemente semplice, sostanzialmente molto complesso. Le sue frasi
brevi, lapidarie, si scolpiscono nella mente del leore come i suoi aforismi,
le sue ironie, i suoi doppi sensi, le insistenti ripetizioni; Šklovskij ama
trarre in inganno il suo leore, inviargli un messaggio e immediatamente
dopo smentirlo. Così sono costruiti anche i suoi paragrafi. Spesso la prima
proposizione enuncia un argomento, che non viene sviluppato in quella
successiva, la quale sovente introduce un nuovo pensiero.
La forma stessa della sua prosa, con paragrafi non di rado di un solo
rigo, è stata più volte paragonata alla poesia, al verso libero. Si traa
spesso di un montaggio di proposizioni non conseguenti: il flusso dei suoi
pensieri è talmente rapido che molti passaggi vengono saltati e il non-
deo, che riempie gli spazi bianchi e gli interstizi di ogni testo, stimolando
la collaborazione del leore (Eco [1979]: 51-52), intesse fiamente tuo il
testo di Šklovskij.
Frequentemente ci troviamo di fronte ad un’intera serie di immagini, di
metafore, che rendono il tessuto del romanzo particolarmente denso. È
Šklovskij stesso a denunciare la struura metaforica del suo testo: «Ho
costruito questo libro sulla disputa fra popoli di diverse culture; gli eventi
citati nel testo fungono solo da materiale metaforico» (Šklovskij 1923: 10).
L’altro procedimento al quale Šklovskij ricorre costantemente è la
citazione. Ne è un esempio lampante il rapporto intertestuale esistente tra
Zoo e Il serraglio chlebnikoviano, che intesse la struura interna del
romanzo, così come dall’interrelazione esistente fra Zoo e la
corrispondenza amorosa di Abelardo ed Eloisa o Julie o la nuova Eloisa
scaturisce la struura esterna del testo. Ma se queste sono le citazioni più
macroscopiche, quelle più microscopiche si nascondono dietro ogni pagina
di Zoo, là dove Šklovskij cita i grandi della leeratura, con i quali va
colloquiando mentre percorre le vie di Berlino, oppure là dove cita se
stesso in tue le sue realtà, di scriore, teorico della leeratura e critico. E
questi «colloqui», queste autocitazioni sono continuamente accompagnati
dalla sua ironia, dissacrante, smitizzante e carnevalesca. I rimandi continui
innescano un meccanismo «giocoso» con il leore il cui rapporto con il
«testo nel testo» lo induce a spostarsi continuamente dalla percezione di
un codice testuale ad un altro (Lotman 1992).
Il materiale della sua prosa è alquanto variegato; egli, come Rozanov,
ainge dalle fonti più disparate: vita privata, leere, giornali, cinema,
leeratura, episodi di vita vissuta. Il suo romanzo è, in certi momenti,
«vergognosamente intimo»,* come i quadrei domestici di Rozanov, in
altri particolarmente doo ed erudito, come quando disquisisce sul Don
Chiscioe o sulla prosa di Tolstoj.
Nel 1984, l’anno della sua morte, parlando della sua opera complessiva,
Šklovskij affermava che si traava di una «storia della leeratura nella
leeratura, ma anche della storia di un uomo, vissuto di leeratura»
(Šklovskij 1990: 34). Anche Zoo costituisce una pagina di questa storia
leeraria e, contemporaneamente, una pagina del «testo della vita» di uno
dei grandi artefici della critica leeraria mondiale.

MARIA ZALAMBANI

* Cfr. n. 85 di Zoo.
* È l’epiteto che l’autore utilizza per la prosa di Rozanov (Šklovskij 1925: 163 [Trad. it.: 273]).
Zoo o leere non d’amore
Dedico «Zoo» a Elsa Triolet e
aribuisco al libro il nome di
«Terza Eloisa»1
Prefazione dell’autore

esto libro è stato scrio nel modo seguente. Inizialmente avevo pensato
di fornire una serie di schizzi della Berlino russa, poi mi è parso interessante
collegarli con una sorta di tema comune. Come tema ho preso Il serraglio
(zoo), il titolo del libro era già nato, ma i pezzi non erano collegati. Mi è
venuta l’idea di farne qualcosa di simile a un romanzo in leere.
Per un romanzo in leere è indispensabile una motivazione: per quale
motivo delle persone dovrebbero scriversi? La motivazione solita è data
dall’amore e dalla separazione. Ho preso questa motivazione in un suo caso
particolare: le leere vengono scrie da un uomo innamorato ad una donna
che non ha tempo per lui. A questo punto si rendeva necessario un nuovo
deaglio: dal momento che la maggior parte del materiale del libro non
riguardava l’amore, ho introdoo il divieto di scrivere d’amore. Il risultato è
stato ciò che ho espresso nel sootitolo: Leere non d’amore.
A questo punto il libro ha cominciato a scriversi da solo; richiedeva di
collegare il materiale, esigeva cioè una linea lirico-amorosa e una linea
descriiva. Docile al volere del materiale, ho collegato questi elementi
comparandoli: così tue le descrizioni si sono rivelate metafore amorose.
La donna a cui sono indirizzate le leere ha assunto una fisionomia, la
fisionomia di una persona di diversa cultura, in quanto non c’è motivo di
inviare leere descriive ad una persona della tua cultura. Avrei potuto
introdurre un intreccio, per esempio: alcune descrizioni del destino dell’eroe.
Ma nessuno rende omaggio agli idoli che lui stesso ha creato. Verso un
intreccio di tipo comune ho lo stesso aeggiamento che un dentista ha verso i
denti.
Ho costruito questo libro sulla disputa fra popoli di due diverse culture; gli
eventi citati nel testo hanno solo la funzione di materiale metaforico.
esto è il consueto procedimento delle opere erotiche, in cui si nega la
serie reale e si afferma quella metaforica. Confrontate con le Fiabe russe
proibite.*
V.B.Š.

Berlino, 5 marzo 1923

* Le Zavetnye skazki appartengono ad Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev (1826-1871), considerato


il «Grimm russo». Le Fiabe russe proibite furono censurate in Russia e comparirono per la prima
volta a Ginevra nel 1872. [Trad. it. A. N. Afanas’ev, Fiabe russe proibite, Milano 1990].
Epigrafe
Il serraglio

O Giardino, Giardino!
Dove il ferro è simile a un padre, il quale rammenti ai fratelli che sono
fratelli e interrompa una mischia cruenta.
Dove i tedeschi vanno a bere birra.
E le cocoes a vendere il corpo.
Dove le aquile seggono simili a un’eternità conclusa da un oggi ancor
privo di sera.
Dove il cammello conosce la soluzione del Buddismo e ha celato la
smorfia della Cina.
Dove il cervo è soltanto tremore fiorente come una pietra spaziosa.
Dove i panni degli uomini sono sgargianti. E i tedeschi crepano di
salute.
Dove il nero sguardo del cigno, che è tuo simile a un inverno, ma ha il
becco come un boscheo autunnale, è alquanto cauto per lui stesso.
Dove un turchino ganimede lascia cader giù la coda, simile ad una
Siberia vista dal sasso di Pavda, quando sull’oro del rogo e sul verde del
bosco è geata una rete turchina di nubi, e tuo questo variamente
sfumato dalle disuguaglianze del suolo.
Dove le scimmie variamente si indispeiscono e mostrano le estremità
del torso.
Dove gli elefanti, aggrinzandosi come si aggrinzano durante un
terremoto le montagne, chiedono cibo a un bambino, immeendo un
vetusto significato nella verità: – Da mangiare, houua! Da mangiare! – e si
accovacciano, come se chiedessero l’elemosina.
Dove gli orsi agilmente si arrampicano e guardano in basso, aspeando
gli ordini del guardiano.
Dove i pipistrelli pendono allo stesso modo che il cuore d’un russo
contemporaneo.
Dove il peo del falco rammenta i cirri prima dell’uragano.
Dove un uccello, volando basso, si trae dietro un tramonto con tui i
carboni del suo incendio.
Dove nel volto d’una tigre, incorniciato da bianca barba e con gli occhi
d’un musulmano aempato, onoriamo il primo maomeano e leggiamo
l’essenza dell’Islam.
Dove noi cominciamo a pensare che le fedi siano fioi spegnentisi di
onde, il cui impeto sono le specie.
E che al mondo sono così numerose le bestie, perché in modi diversi
esse sanno vedere Dio…
Dove lo sparo di cannone del mezzogiorno costringe le aquile a
guardare il cielo in aesa dell’uragano.
Dove le aquile cadono dagli alti staggi, come idoli durante il terremoto
dai templi e dai tei degli edifici…
Dove le anatre d’una stessa razza levano un urlo unanime dopo una
breve pioggia, come officiando un Te Deum di ringraziamento a una
divinità – se ha gambe e becco – anatresca.
Dove le faraone argento-cenere hanno l’aspeo delle orfane di Kazan!
Dove nell’orso malese rifiuto di conoscere un conterraneo del Nord e
smaschero un mongolo dissimulato.
Dove i lupi esprimono zelo e devozione.
Dove, entrando nell’eremo afoso dei pappagalli, sono assalito
dall’unanime saluto «grruullo!»
Dove il grasso lucente tricheco scrolla, come una stanca bellezza, la
sdrucciolevole nera gamba ventagliforme e poi salta in acqua, e quando
ritorna a rotolarsi sul palco, sul suo pingue corpo massiccio appare la testa
di Nietzsche coi pungenti capelli a spazzola e la liscia fronte.
Dove la mandibola d’un bianco lama slanciato dagli occhi neri e quella
di un bufalo di piae corna si muovono regolarmente a destra e a sinistra,
come la vita d’un paese con una rappresentanza popolare e un governo
responsabile verso di essa – sospirato eden di tanti!
Dove il rinoceronte porta negli occhi biancorossi l’inestinguibile furia
d’uno zar deposto, e unica fra tue le bestie, non nasconde il proprio
disprezzo per gli uomini, come per una sommossa di schiavi. E in lui s’è
celato Ivan il Terribile.
Dove i gabbiani dal lungo becco e il freddo occhio azzurro, come orlato
da occhiali, hanno l’aspeo di affaristi internazionali, del che troviamo
conferma nell’arte con cui essi afferrano al volo il cibo geato alle foche.
Dove, ricordando che i russi celebravano i loro condoieri sagaci col
nome di falco, e ricordando che è identico l’occhio del cosacco e di questo
uccello, noi cominciamo a sapere chi fossero i maestri dei russi nell’arte
bellica.
Dove gli elefanti hanno obliato i loro urli di tromba ed emeono un
urlo, come se si lagnassero del mal di pancia. Forse, vedendoci troppo
meschini, cominciano a ritenere un indizio di buon gusto l’emeere suoni
meschini? Non so.
Dove nelle bestie periscono splendide possibilità, come un Canto della
schiera di Igor inscrio in un Libro d’Ore.

VELEMIR CHLEBNIKOV

Il Vivaio dei giudici, I, 1909 2


Leera prima

Scria a Berlino, da una donna alla sorella che vive a Mosca.3 La sorella è
molto bella, con gli occhi che brillano. La leera serve da introduzione.
Ascoltate questa voce tranquilla!

Mi sono abituata al nuovo appartamento. Presumo che la mia padrona


sia stata una donna un po’ frivola, di conseguenza è di buon caraere e
non è pedante. i nei dintorni parlano solo tedesco, da qualunque parte
tu venga, bisogna passare soo dodici ponti di ferro. In un posto del
genere, ci capiti solo per necessità. Ai miei conoscenti del
Kurürstendamm4 non capiterà di venirmi a trovare solo perché passavano
di lì!
i da me ci sono sempre i soliti, non abbandonano le postazioni.5 Uno,
il terzo, mi si è leeralmente appiccicato addosso. Lo considero la mia
decorazione più gloriosa, anche se so che è facile agli innamoramenti. Mi
scrive tui i giorni una o due leere, me le recapita lui stesso, mi si siede
accanto docilmente e aspea fino a quando non le leggo.
Il primo continua a inviare fiori, ma diventa sempre più triste. Il
secondo, al quale mi hai imprudentemente affidata, continua ad insistere
che mi ama.6 In cambio, esige che io mi rivolga a lui per qualunque
problema. Furbo, non credi?
La tariffa del taxi adesso è aumentata di 5.000 volte.
Nonostante la vita qui sia tranquilla, ho nostalgia di Londra. Della
solitudine, della vita ordinata, del lavoro da maina a sera, della vasca da
bagno e delle danze con giovani di bell’aspeo. i ne ho perso
l’abitudine. E poi c’è troppo dolore tu’intorno perché lo si possa
dimenticare, anche solo per un minuto.
Scrivimi presto di tuo ciò che fai. Ti bacio, cara, mia bellissima, e
grazie ancora per il tuo amore e il tuo affeo.
ALJA

7 febbraio
Leera seconda

Sull’amore, la gelosia, il telefono e gli stadi dell’amore. Termina con


un’osservazione sull’andatura dei russi.

Cara Alja,
non ti vedo già da due giorni.
Telefono. L’apparecchio geme, come se avessi calpestato qualcuno.
Riesco a trovarti; tu sei impegnata di giorno e di sera.
Scrivo di nuovo. Ti amo molto.
Tu sei la cià nella quale vivo, tu sei il nome del mese e del giorno.
Nuoto, salato e appesantito dalle lacrime, quasi senza emergere
dall’acqua.
Sembra che presto annegherò, ma anche là, so’acqua, dove il telefono
non suona e non giungono le voci, dove è impossibile incontrarti, io ti
amerò.
Io ti amo, Alja, e tu mi costringi a restare appeso sul predellino della tua
vita.
Mi si gelano le mani.
Non sono geloso della gente, sono geloso del tuo tempo. Non posso
stare senza vederti. Ma che ci posso fare, dal momento che nulla può
sostituire l’amore?
Tu non conosci il peso delle cose. Tui gli uomini sono uguali davanti a
te, come davanti a Dio. Ma che ci posso fare? Io ti amo tanto.
All’inizio mi piegavo verso di te come sul vagone, per il sonno, si ripiega
il capo di un passeggero sulla spalla del vicino.
Poi non ho più potuto staccare gli occhi da te.
Conosco la tua bocca, le tue labbra.
Ho avvolto tua la mia vita aorno al pensiero di te. Non credo che tu
sia una persona estranea, dunque, guarda verso di me.
Ti ho spaventata con il mio amore; all’inizio, quando ero ancora allegro,
ti piacevo di più. È colpa della Russia, mia cara. Noi abbiamo un’andatura
pesante. Ma in Russia io ero forte, mentre qui ho cominciato a piangere.

4 febbraio
Leera terza

La seconda di Alja. In essa Alja chiede di non scriverle d’amore. Una


leera stanca.

Mio caro, mio amato. Non scrivermi d’amore. Non devi. Io sono molto
stanca. Io, come tu stesso hai deo, ho la schiena a pezzi. Ciò che ci divide
è la vita quotidiana. Io non ti amo e non ti amerò. Ho paura del tuo amore;
prima o poi mi offenderai, per il fao che adesso mi ami tanto. Non
lamentarti così spaventosamente, tu mi sei comunque caro. Non
spaventarmi. Mi conosci così bene, eppure fai di tuo per spaventarmi, per
allontanarmi da te. Forse il tuo amore è grande, ma non è gioioso.
Tu mi sei necessario, tu sai tirar fuori il mio vero io.
Non scrivermi soltanto del tuo amore. Non farmi scenate tremende al
telefono. Non infuriarti. Tu riesci ad avvelenare le mie giornate. Io ho
bisogno della libertà, non voglio che nessuno osi chiedermi nulla.
E tu esigi da me tuo il mio tempo. Sii leggero, diversamente fallirai in
amore. Ma tu, di giorno in giorno, diventi sempre più triste. Mio caro, devi
prenderti un periodo di riposo.
Scrivo a leo, perché ieri sera ho ballato. Ora vado a fare un bagno.
Forse oggi ci vedremo.

ALJA

5 febbraio
Leera quarta

A proposito del freddo, del tradimento di Pietro, di Velemir Chlebnikov e


della sua morte. Della scria sulla sua croce. Si parla inoltre dell’amore di
Chlebnikov, della crudeltà di coloro che non amano, dei chiodi, del Calice e di
tua la cultura umana, costruita sulla via che conduce all’amore.

Non parlerò d’amore; parlerò soltanto del tempo.


Il tempo oggi a Berlino è bello.
Il cielo è azzurro ed il sole è più alto delle case. Il sole guarda drio alla
pensione Mahrzan,7 nella stanza di Ajchenval’d.8
Io vivo nell’altra parte dell’appartamento.
In strada si sta bene e fa fresco.
est’anno non c’è quasi stata neve a Berlino.
Oggi è il 5 febbraio… Continuo a non parlare d’amore.
Indosso un cappoo autunnale, ma se arrivasse il gelo, bisognerebbe
chiamarlo cappoo invernale.
Non amo il gelo, e neppure il freddo.
A causa del freddo l’apostolo Pietro ha rinnegato Cristo. La noe era
fresca, così lui si avvicinò al fuoco, ma presso il fuoco si teneva il giudizio
pubblico, i servi chiesero a Pietro di Cristo e Pietro lo rinnegò.
Il gallo cantò.9
Il freddo in Palestina non è intenso. Probabilmente, fa più caldo che a
Berlino.
Se quella noe fosse stata tiepida, Pietro sarebbe rimasto nell’oscurità, il
gallo avrebbe cantato invano, come tui i galli, e nel Vangelo non ci
sarebbe stata ironia.
Meno male che Cristo non è stato crocifisso in Russia: il clima, da noi, è
continentale, il gelo è accompagnato dalla tempesta; i discepoli di Gesù
sarebbero venuti a froe presso i fuochi ai crocicchi e avrebbero fao la
fila per rinnegarlo.
Perdonami, Velemir Chlebnikov, per il fao che io mi riscaldo presso il
fuoco di redazioni straniere.10 Per il fao che pubblico un mio, e non un
tuo libro. Il clima, maestro, da noi è continentale.
Le volpi hanno le loro tane, al carcerato si dà una branda, il coltello
pernoa nel fodero, e tu non avevi dove posare la testa.
Nell’utopia che hai scrio per la rivista «Ha preso»,11 tra le tante
fantasie, ce n’è una: ognuno ha dirio ad una stanza in ogni cià.
A dire il vero, nell’utopia si dice che una persona ha dirio ad una
stanza di vetro, ma penso che Velemir avrebbe acconsentito ad averne
anche una semplice.
È morto Chlebnikov e un tale polveroso, sugli «Annali leerari»,12 in
una lingua fiacca, ha deo qualcosa a proposito di un «fallito».
Al cimitero, sulla croce tombale, l’artista Miturič13 ha scrio:

VELEMIR CHLEBNIKOV,
PRESIDENTE DEL GLOBO TERRESTRE.14

E così si è trovato un posto per questo pellegrino, anche se non di vetro.


È poco probabile che tu, Velemir, voglia risorgere, per meerti di nuovo
in pellegrinaggio.
E su un’altra croce era scrio:

GESÙ CRISTO, RE DEI GIUDEI.

Ti è stato difficile vagare per la steppa e fare prima il soldato, poi la


guardia nourna per dei magazzini, ed infine, semiprigioniero, partecipare
a Char’kov ad una rumorosa esibizione degli immaginisti.15
Perdonaci per te e per gli altri che uccideremo.
Per il fao che ci riscaldiamo presso fuochi altrui.
Lo stato non risponde della morte violenta degli uomini; al tempo di
Cristo non capiva l’aramaico e, in genere, non capisce mai la lingua
umana.
I soldati romani, che inchiodavano le mani di Cristo, non sono più
colpevoli dei chiodi.
Eppure, per chi è crocifisso, è molto doloroso.
Un tempo si pensava che Chlebnikov non si rendesse conto di come
viveva, che non vedesse come le maniche della sua camicia fossero
strappate fino alle spalle, che la rete del leo non era coperta dal
materasso, che i manoscrii, con i quali riempiva la federa, andavano
persi. Eppure, prima di morire, si è ricordato dei suoi manoscrii.
È morto in modo orribile. Di seicemia.
Hanno circondato il suo leo di fiori.
Nelle vicinanze non c’era un medico, c’era solo una dooressa, ma da
una donna non si fece avvicinare.
Ricordo il passato.
Accadde a Kuokkala,16 era già autunno, quando le noi sono buie.
In inverno, avevo incontrato Chlebnikov a casa di un architeo.17
Una casa ricca, i mobili di betulla di Carelia, il padrone pallido, con la
barba scura, intelligente. Aveva delle figlie.
i veniva Chlebnikov. Il padrone leggeva i suoi versi e li capiva.
Chlebnikov era simile a un uccello malato, scontento che lo si guardasse.
Simile a tale uccello, stava seduto, con le ali abbassate, in un vecchio
soprabito e osservava la figlia del padrone.
Le portava dei fiori e le leggeva le sue opere.
Le ha ripudiate tue, tranne Il Dio delle Vergini.18
Chiedeva a lei come scrivere.
Accadde a Kuokkala, in autunno.
Chlebnikov viveva lì, accanto a Kul’bin19 e ad Ivan Puni.20 Arrivai laggiù,
cercai Chlebnikov e gli dissi che la ragazza aveva sposato un architeo, un
assistente del padre.
La cosa era così semplice!
In molti incorrono in una disgrazia simile. La vita è sistemata bene,
come un nécessaire, ma non tui riescono a trovarvi il proprio posto al
suo interno. La vita tenta di adaarci gli uni agli altri e ride quando noi
siamo arai da chi non ci ama.
Tuo ciò è molto semplice, come i francobolli.
Anche le onde nel golfo erano semplici, onde di Kuokkala. Sono ancora
così. Le onde erano come una lamiera di ferro ondulato. Le nubi
lanuginose. Chlebnikov mi disse: «Sapete che mi avete ferito?». Lo sapevo.
«Ditemi, che cosa vogliono? Cosa vogliono le donne da noi? Cosa
cercano? Io avrei fao di tuo. Avrei scrio diversamente. Forse, hanno
bisogno di gloria?».
Il mare era semplice. Nelle case la gente dormiva.
Cosa potevo rispondere a questa Preghiera al Getsemani?
Bevete amici, bevete grandi e piccoli, l’amaro calice dell’amore! i
nessuno ha bisogno di nulla. Si entra solo con bigliei di favore. Ed essere
crudeli è facile; è sufficiente non amare. Neppure l’amore capisce
l’aramaico, né il russo. È come i chiodi, con i quali crocifiggono.
Al cervo le corna servono per la loa, l’usignolo non canta invano, ma i
nostri libri non ci torneranno utili. L’offesa è irrimediabile.
A noi restano le pareti gialle delle case, illuminate dal sole, i nostri libri
e tua la cultura umana costruita da noi sul cammino che conduce
all’amore.
E il preceo di essere leggeri.
E se è molto doloroso?
Trasforma tuo su scala cosmica, afferra il cuore coi denti, scrivi un
libro.
Ma dov’è colei che mi ama? Io la vedo in sogno, e la prendo per mano, e
la chiamo col nome di Ljusja,21 capitano della mia vita dagli occhi azzurri,
cado svenuto ai suoi piedi ed esco dal sogno.
O separazione, o corpo spezzato, sangue versato.
Leera quinta

Contenente una descrizione di Aleksej Michajlovič Remizov22 e del suo


metodo di portare l’acqua al quarto piano servendosi di boiglie. i, inoltre,
sono descrii il modo di vita ed i costumi del grande ordine delle scimmie. Ho
inserito sempre qui alcune note teoriche sul ruolo dell’elemento privato come
materiale artistico.

Sai, il re delle scimmie, Asyka23 (Aleksej Remizov), ha di nuovo dei guai:


lo sfraano dal suo appartamento.
Non lo lasciano vivere tranquillamente come vorrebbe.
Nell’inverno del 1919 Remizov viveva a Pietroburgo quando,
all’improvviso, le conduure dell’acqua di casa sua si sono roe.
Chiunque si sarebbe perso d’animo. Ma Remizov ha raccolto boiglie
presso tui i suoi conoscenti, boigliee da farmacia, boiglie da vino e di
qualunque tipo gli capitassero. Le ha disposte in formazione sul tappeto
della sua stanza, poi, prendendole due alla volta, scendeva le scale di corsa
e andava a prendere l’acqua. In tal modo impiegava una seimana a
portare l’acqua per un solo giorno.
Molto scomodo, ma divertente!
La sua vita, Remizov se l’è costruita lui stesso, di sua propria coda,
molto scomoda, ma divertente.
È di piccola statura, i capelli folti, a spazzola, con un grande ciuffo. È
curvo, ma le labbra sono rosse rosse. Il naso è camuso e tuo sembra fao
di proposito.
Il passaporto è tuo pieno di segni scimmieschi. Ancora prima che
saltassero le conduure, Remizov si era allontanato dagli uomini (già da
prima sapeva di che razza fossero) ed era entrato nel grande popolo delle
scimmie.
L’ordine delle scimmie è stato concepito da Remizov sul modello della
massoneria russa. Vi apparteneva Blok; aualmente Kuzmin24 è il
musicista della Grande e Libera Camera delle Scimmie, mentre Gržebin (il
compare delle scimmie) ha il grado ed il titolo di principe provvisorio;
tuo ciò per il periodo bellico e di carestia.
Anch’io sono stato accolto in questa congiura scimmiesca, io stesso mi
sono aribuito il grado: «scimmiea dalla coda corta». La mia coda l’ho
rasata io stesso, prima di andare a Cherson,25 nell’Armata Rossa. Dal
momento che tu sei una straniera in carica temporanea e le tue valigie non
sanno che la loro proprietaria è stata allevata da una siberiana, la rosea
Steša,26 bisogna che ti dica anche che il nostro popolo scimmiesco, un
popolo che diserta la vita, possiede un vero re. Benemerito.
Remizov ha una moglie molto russa, molto bionda, robusta, Serafima
Pavlovna Remizova-Dovgello;27 a Berlino, fa la stessa impressione che
avrebbe fao un negro a Mosca, al tempo di Aleksej Michajlovič, lo zar,28
tanto è bianca e russa.
Lo stesso Remizov si chiama Aleksej Michajlovič. Una volta mi ha deo:
«Non posso più iniziare un romanzo con: “Ivan Ivanovič era a tavola”».
Dal momento che provo stima per te, ti svelerò un segreto.
Così come la mucca mangia l’erba, così si divorano i temi leerari, si
consumano e si esauriscono i procedimenti.
Lo scriore non può essere un agricoltore: egli è un nomade e con la
moglie e il gregge si trasferisce là, dove c’è erba fresca.
Il nostro grande esercito delle scimmie vive come il gao di Kipling29 sui
tei, «da solo».
Voi indossate abiti e i vostri giorni scorrono uguali l’uno dopo l’altro;
nell’assassinio e nell’amore siete tradizionalisti. L’esercito delle scimmie
non pernoa là dove ha pranzato e non beve il tè del maino dove ha
pernoato. È sempre senza casa.
Il nostro compito è la creazione di cose nuove. Remizov, aualmente,
vuole creare un libro senza intreccio, senza che il destino umano sia alla
base della composizione. Ora scrive un libro costituito da frammenti (si
traa di La Russia nei documenti, un libro fao di brani di libri), ora ne
scrive un altro, che si sviluppa dalle leere di Rozanov.30
Non si può scrivere un libro alla vecchia maniera. esto lo sa Belyj,31 lo
sapeva bene Rozanov, lo sa Gor’kij, quando non pensa alle sintesi e a
Steinach,32 e lo so io, scimmiea dalla coda corta.
Noi abbiamo introdoo nel nostro lavoro l’intimità, chiamandola per
nome e cognome, proprio per la necessità di introdurre nuovo materiale
nell’arte. Solomon Kaplun,33 nel nuovo racconto di Remizov, così come
Marija Fëdorovna Andreeva34 nel lamento da lui scrio su Blok,35
esprimono la necessità della forma leeraria.
L’esercito delle scimmie adempie il suo servizio. Ho araversato la tua
vita come il cavallo che, sulla scacchiera, procede in diagonale;36 tu sai
com’è stato e com’è. Ma, Alik,37 tu capiti nel mio libro come Isacco sul
fuoco preparato da Abramo. Ma tu sai, Alik, che la seconda «a» nel nome
di Abramo38 gli è stata data da Dio come gesto d’amore. Un suono
superfluo è sembrato un bel regalo anche a Dio.
Lo sapevi, Alik?
Tra l’altro, tu non sarai la viima sacrificale, sono io la viima
sostitutiva, l’agnello che si è impigliato con le corna nel cespuglio.
La stanza di Remizov è tua piena di bamboline, di diavolei e Remizov
siede e bofonchia: «Piano! La padrona!» e alza il dito. Lui non teme la
padrona; fa finta.
È gravoso il cammino delle libere scimmie per i marciapiedi, una vita
loro estranea. Le donne del mondo umano sono incomprensibili. Il modo
di vita degli umani è orribile, insensato, retrogrado, inflessibile.
In questo mondo ci comportiamo come folli per essere liberi.
Trasformiamo la vita quotidiana in aneddoti.
Costruiamo fra noi ed il mondo dei microcosmi personali – dei serragli.
Noi vogliamo la libertà.
Remizov vive la sua vita secondo i metodi dell’arte.
Smeo di scrivere, devo correre alla pasticceria Mierike a comprare una
torta. Presto verrà qualcuno a trovarmi, poi bisognerà portare la torta, poi
ancora fare un salto da qualcun altro, poi cercare dei soldi, vendere il libro,
parlare con i giovani scriori. Non fa nulla, nell’economia delle scimmie
tuo può servire. La torre di Babele per noi è più comprensibile del
parlamento; abbiamo dove iscrivere le offese, amore e dolore per noi
vanno in coppia, perché fanno rima.
Io non cederò il mio mestiere di scriore, la mia libera strada sui tei
per un vestito europeo, per degli stivali puliti, per della valuta pregiata,
neppure per Alja.
Leera sesta

Sulla nostalgia e la prigionia di un nostro avo. La leera termina con una


incerta proposta di iniziare a pubblicare un giornale per lui.

Gli animali nelle gabbie dello Zoo non hanno un aspeo troppo infelice.
Danno persino alla luce dei piccoli.
Dei cani hanno fao da balia a dei leoncini, ed i leoncini ignoravano la
loro nobile origine.
Giorno e noe, nelle gabbie, le iene correvano da una parte all’altra
come i trafficanti del mercato nero.39
Le quaro zampe della iena sono collocate molto vicino al bacino.
I leoni adulti si annoiavano.
Le tigri si muovevano avanti e indietro, lungo le inferriate della gabbia.
Gli elefanti emeevano un fruscio con la loro pelle.
I lama erano molto belli. Con un abito caldo, di lana ed il capo leggero.
Ti somigliano.
In inverno, è tuo chiuso.
Dal punto di vista degli animali, la differenza non è considerevole.
È rimasto l’acquario.
I pesci nuotano nell’acqua azzurra, illuminata dalla luce elerica e
simile ad una limonata.
Ma, da dietro ai vetri, è davvero orribile. C’è un alberello dai rami
bianchi, che li muove silenziosamente. Che bisogno c’era di creare una tale
noia sulla terra? Non hanno venduto la scimmia antropomorfa, ma
l’hanno collocata al piano superiore dell’acquario. Tu sei molto occupata,
talmente occupata, che io ho a disposizione tuo il mio tempo. Vado
all’acquario.
Non ne ho bisogno. Lo Zoo mi potrebbe servire per dei parallelismi.
La scimmia, Alja, più o meno è della mia statura, ma più larga di spalle,
gobba e ha le braccia lunghe. Non ha l’aria di essere in gabbia.
Nonostante il pelo ed il naso, che sembra roo, mi ricorda un detenuto.
E la gabbia non è una gabbia, ma una prigione.
La gabbia è doppia, ma non ricordo se fra le inferriate passi o meno una
sentinella. L’antropoide (è un maschio) si annoia tuo il giorno. Alle tre
gli portano il cibo. Lui mangia dal piao. Alle volte, dopo mangiato, si
occupa di noiosi affari scimmieschi. È un oltraggio e una vergogna.
Lo trai come una persona e lui è uno svergognato.
Il resto del tempo la scimmia si arrampica per la gabbia guardando il
pubblico di sbieco. Non sono sicuro che abbiamo il dirio di tenere questo
nostro lontano parente in prigione senza giudizio.
E dov’è il suo console?
Probabilmente si annoia, la scimmia, lontano dalla foresta. Gli uomini le
sembrano spiriti maligni. E tuo il giorno prova nostalgia questo povero
straniero nello Zoo interno.
Per lui non pubblicano neppure un giornale.
Leera seima

Sul ritrao di Gržebin,40 su Zinovij Isaevič Gržebin in persona. La leera è


stata scria in un momento di pentimento e per questo vi è apposto il
marchio delle edizioni Gržebin. Ci sono anche alcune rapide osservazioni
sull’ebraismo e sull’aeggiamento degli ebrei nei confronti della Russia.

Di cosa posso scrivere! Tua la mia vita è una leera indirizzata a te.
Gli incontri sono sempre più rari. ante parole semplici ho compreso:
mi struggo, ardo, perisco, ma MI STRUGGO sono le parole che comprendo
meglio.
D’amore non posso scrivere. Scriverò di Zinovij Gržebin, l’editore. Mi
sembra che il tema sia abbastanza estraneo.
Nel ritrao di Jurij Annenkov,41 Zinovij Isaevič Gržebin ha il viso di un
rosa delicato, un colore molto commestibile.
In realtà Gržebin è più pallido.
Nel ritrao il viso ricorda la carne; o piuosto fa venire in mente degli
intestini pieni di cibo. In realtà Gržebin è più sodo, più forte e lo si
potrebbe paragonare ad un aerostato a struura semirigida. ando non
avevo ancora trent’anni e non conoscevo ancora la solitudine, e non
sapevo di quanto la Sprea fosse più strea della Neva, e non stavo alla
pensione Marzahn, la cui proprietaria non mi permee di cantare mentre
lavoro di noe, e non tremavo quando suonava il telefono, quando la vita
non mi aveva ancora chiuso in faccia la porta della Russia, quando
pensavo che la storia si sarebbe spezzata contro il mio ginocchio, quando
mi piaceva correre dietro al tram,

ando a un poema raro


non avrei preferito una palla ben mirata42
(mi sembra che sia così)
Gržebin non mi piaceva affao. Allora avevo 27, 28 e 29 anni.
Pensavo che Gržebin fosse crudele perché si era rimpinzato di
leeratura russa.
Ora che so che la Sprea è più strea della Neva di circa trenta volte, ora
che io stesso ho trent’anni, che aspeo che il telefono suoni (e invece mi
hanno deo che non telefoneranno), che la vita mi ha chiuso la porta in
faccia e la storia si è rivelata così occupata che non può neppure scrivere
una leera, ora che uso i tram e non desidero rovesciarli, ora che i miei
piedi sono rimasti privi di quegli stivali informi di cui erano rivestiti e che
io non so più come lanciare un’offensiva, ora so che Gržebin è merce di
valore. Non voglio rovinare il credito di Gržebin, ma sono profondamente
convinto che il mio libro non sarà leo in nessuna banca.
Per questo affermo che Gržebin non è affao uno speculatore e non è
affao imboito della leeratura russa che ha divorato, e neppure di
dollari.
Già, tu non sai, Alja, chi è Gržebin. Gržebin è un editore, pubblicava la
rivista «La rosa canina», pubblicava «Panteon»43 e, aualmente, sembra
che possieda la più grossa casa editrice di Berlino.
In Russia, fra il 1918 ed il 1920, Gržebin ha acquistato manoscrii in
modo frenetico; era come una malaia, una sorta di ninfomania.
Allora non pubblicava libri. Ed io andavo da lui con i miei stivali informi
ed urlavo con una voce trenta volte più forte di un qualunque berlinese.
Poi, la sera, prendevo il tè da lui.
Non credere che io mi sia ristreo di trenta volte.
Semplicemente, tuo è cambiato.
Ora, lo confermo: Gržebin non è uno speculatore.
Gržebin è un borghese di stampo sovietico, in preda al delirio ed alla
frenesia.
Ora lui pubblica, pubblica, pubblica! Un libro corre dietro l’altro,
vogliono correre in Russia, ma non riescono ad entrarvi.44
Su tui il marchio «Zinovij Gržebin».
200, 300, 400, forse presto saranno 1.000 titoli.45 I libri si accatastano
l’uno sull’altro, formano delle piramidi, dei torrenti, ma in Russia entrano
a gocce.
Ma, ai confini del mondo, a Berlino, il borghese sovietico vaneggia di
dimensioni internazionali e continua a pubblicare sempre nuovi libri.
Libri in quanto tali. I libri per i libri, per affermare il nome della casa
editrice.
esto è il pathos della proprietà, il pathos di raccogliere aorno al
proprio nome la maggior quantità di cose. esto fantastico borghese
sovietico, in risposta alle tessere per le razioni alimentari sovietiche, ai
numeri, ha investito tui i suoi soldi, le sue energie per la creazione di
nugoli di oggei che portano il suo nome.
Non importa se i libri non entrano in Russia; è come uno spasimante
non ricambiato, che spende tui i soldi in fiori e trasforma la stanza della
donna che non lo ama in un negozio di fioraio e si compiace di
quest’assurdità.
Un’assurdità molto bella e convincente. Così, l’amante respinto dalla
Russia, Gržebin, che sente il suo dirio alla vita, pubblica, pubblica,
pubblica senza tregua.
Non stupirti, Alja, noi tui sappiamo delirare. Tui coloro che vivono
seriamente.
Contraa molto Gržebin quando gli vendi un manoscrio, ma più per
decoro che per speculazione.
Vuole dimostrare a se stesso che sia lui che il suo lavoro sono reali.
I contrai di Gržebin sono pseudo-reali e si riferiscono al seore
dell’elerificazione della Russia.46
La Russia non ama gli ebrei.
Intanto gli ebrei del tipo di Gržebin, sono una buona sostanza pirogena.
È bello vedere Gržebin, con la sua brama di creare cose, nell’inea e
miscredente Berlino russa.
Leera oava

Dove si ringrazia per i fiori, inviati con la leera su Gržebin. È la terza


leera di Alja.

Così, ti scrivo una leera. Caro, piccolo tartaro, grazie per i fiori.
La stanza è tua profumata, odorosa; non sono andata a dormire, tanto
mi spiaceva abbandonarli.
In questa assurda stanza con le colonne, le armi, la civea, mi sento a
casa.
Sento miei il tepore, l’odore e il silenzio.
Li porto con me, come il riflesso nello specchio: esci, e svaniscono, torni,
dai un’occhiata ed eccoli lì, di nuovo.
E non riesci a credere che solo grazie a te vivano nello specchio.
Ciò che ora desidero più di ogni cosa è che sia estate, che tuo ciò che è
stato, non sia mai esistito.
Che io sia giovane e forte.
Allora di questo incrocio fra un coccodrillo e un bambino resterebbe
solo il bambino, ed io sarei felice.
Non sono una donna fatale; sono Alja, rosea e paffuta.
Ecco tuo.

ALJA
Ti bacio, dormo
Leera nona

Su tre occupazioni che mi sono state affidate, sulla domanda «mi ami?»,
sul mio capoguardia, su come è fao il Don Chiscioe.47 Poi la leera parla
di un grande scriore russo e termina con un pensiero sulla durata del
servizio.

Mi hai assegnato due compiti.


1) Non telefonarti. 2) Non vederti.
Adesso sono un uomo impegnato.
C’è ancora un terzo compito: non pensarti. Ma questo, tu non me l’hai
affidato.
Tu stessa alle volte mi chiedi: «Mi ami?».
Allora capisco che è in corso un controllo dei posti di guardia. Rispondo
con la diligenza di un geniere che mal conosce il regolamento di
guarnigione:
«Posto di guardia numero tre (non sono sicuro del numero),
dislocazione del posto: vicino al telefono e comprende le vie che vanno
dalla Gedächtniskirche fino ai ponti della Yorckstraße, non oltre.
Consegne: amare, non incontrarsi, non scrivere leere. E ricordare com’è
fao il Don Chiscioe».
Il Don Chiscioe è stato fao in prigione, per errore. L’eroe parodistico
non è stato utilizzato da Cervantes solo per il compimento di imprese
caricaturali, ma anche per pronunciare discorsi saggi. Tu stessa sai, signor
capoguardia, che bisogna inviare le proprie leere da qualche parte. Don
Chiscioe aveva avuto in dono la saggezza, non c’era nessun altro che
potesse essere saggio nel romanzo: dalla combinazione di saggezza e follia
è nato il personaggio di Don Chiscioe.
Potrei raccontare ancora molte cose, ma vedo una schiena un po’
arrotondata e le punte di una piccola stola di zibellino. Tu la indossi in
modo da coprire la gola.
Non posso andarmene, non posso abbandonare il posto di guardia.
Il capoguardia si allontana con passo leggero e rapido, sostando di tanto
in tanto davanti ai negozi.
Araverso il vetro guarda le scarpe a punta, i lunghi guanti per signore,
le camicee di seta nera con l’orlo bianco; lo fa seriamente, bene, come i
bambini guardano araverso la vetrina di un negozio una bambola grande
e bella.
È così che io guardo Alja.
Il sole si alza sempre più alto, come in Cervantes: «Fonderebbe il
cervello del povero hidalgo, se l’avesse».
Il sole è alto sopra la mia testa.
Ma io non ho paura: io so come si fa il Don Chiscioe.
È fao in modo solido.
Riderà colui che è più forte di tui.
Il libro riderà.
E così, intanto che mantengo il mio posto di guardia vicino al telefono,
toccandolo con la mano, come un gao che tocca con la zampa il lae che
scoa, inserirò nel mio Don Chiscioe ancora un saggio discorso.
Per Berlino si aggira un grande uomo. Io lo conosco; qualche volta ci
siamo persino scambiati per errore la sciarpa.
ando parla passa, in modo assolutamente improvviso, da un tono
tranquillo ad un lamento da sciamano.
Una volta portarono uno sciamano a Mosca, al Museo Storico. Avendo
alle proprie spalle una secolare cultura sciamanica, lui non si turbò. Prese
un tamburello, fece i suoi riti davanti a dei professori, vide gli spiriti ed
andò in estasi.
E poi se ne andò in Siberia a far riti, non più in presenza di professori.
L’estasi vive nell’uomo di cui parlo, vi si sente a casa, non in
villeggiatura. E, in un angolo della stanza, riposto in una valigia di pelle,
giace un turbine.
Il suo nome è Andrej Belyj.
Al secolo Boris Nikolaevič Bugaev.
Figlio di un professore universitario.
Wells descrive sempre la vita in modo tale che si vede come le cose
governano l’uomo.
Le cose, e le macchine in particolare, hanno trasformato l’uomo.
Aualmente l’uomo le sa solo meere in moto, poi esse vanno avanti da
sole. Vanno, vanno e schiacciano l’uomo. Per quanto riguarda la scienza, la
situazione è molto seria.
Le necessità della ragione e le necessità della natura hanno imboccato
strade diverse.
Esistevano l’alto ed il basso, esisteva il tempo, esisteva la materia.
Ora non c’è nulla. Nel mondo regna il metodo.
L’uomo ha inventato il metodo.
Il METODO.
Il metodo è uscito di casa e ha intrapreso una sua propria vita.
«Il cibo degli dei»48 è stato trovato, ma noi non lo mangiamo.
Le cose, e proprio le più complesse fra loro, le scienze, vagano per la
terra.
Come costringerle a lavorare per noi?
Ed è necessario?
Non è meglio costruire cose inutili e immense, ma nuove?
Anche nell’arte il metodo procede per conto suo.
Un uomo che scrive una grande opera è come un autista su un’auto da
300 cavalli che pare trascinarlo da sola contro una parete. Gli autisti
dicono di queste auto: «Ti distruggerà».
Ho osservato molte volte Andrej Belyj (Boris Bugaev), pensando che è
quasi timido, un uomo preliminarmente d’accordo su tuo.
Intorno al volto scuro, i capelli brizzolati sembrano canuti. Il corpo ha
un’aria solida. Si vede che le braccia riempiono le maniche.
Gli occhi sono due fessure.
Il metodo di Andrej Belyj è pieno di forza, incomprensibile a lui stesso.
Ha cominciato a scrivere, credo, per scherzo.
Uno scherzo è stata la Sinfonia.49
La parole erano poste le une accanto alle altre, ma l’artista le vedeva in
modo insolito. Finì lo scherzo, nacque il metodo.
Infine, trovò persino un nome per la motivazione.
esto nome era: antroposofia.50
L’antroposofia è una piccola cosa creata per unire gli estremi.
La caedrale di Sant’Isacco fu costruita durante il regno di Caterina, ma
le volte furono portare a termine soo Paolo,51 in maoni, senza tener
conto delle proporzioni.
Solo per non rompersi il capo.
E per finirla.
Al giorno d’oggi, molti amano piegare le linee parallele e ricongiungere
gli estremi.
L’antroposofia è una parola che non si addice ai nostri giorni.
Al momento, le linee magnetiche si intersecano fuori di noi.
L’edificazione di un mondo nuovo, adesso, per noi è quasi più uno
speacolo di cui godere, che un compito da adempiere.
Nelle Memorie di un bislacco, opera faa a gradini, in cui la mente del
poeta-prosatore vaga, si sforza, ma non vede, e in Kotik Letaev,52 opera
mancata, ma significativa, Andrej Belyj crea vari piani. Uno è solido, quasi
reale, gli altri soostanno ad esso ed appaiono come sue ombre. Ma, nello
stesso tempo, ci sono molte fonti di luce, e alle volte sembra che siano gli
altri piani ad essere reali e quello in primo piano ad essere accidentale.
Non c’è una vera anima né nell’uno, né negli altri; c’è il metodo, il modo di
disporre le cose in serie.
Ecco il savio discorso, col quale mi tengo occupato mentre faccio la
guardia.
Sto in piedi, mi annoio come un giovane soldato, conto i passanti.
Mi consolo con parole affeuose:
Sii paziente, pensa a qualcos’altro, ad altre persone importanti e infelici.
Ma in amore non esiste offesa. E forse, domani, tornerà il capoguardia.
Ed il mio turno di guardia quando termina?
Non ha termine; mi è toccato un turno senza fine.
Leera decima

Su un’inondazione berlinese; in sostanza tua la leera rappresenta la


realizzazione di una metafora: in essa l’autore si sforza di essere leggero ed
allegro, ma io so per certo che nella prossima leera perderà il controllo di sé.

Che vento, Alik! Che vento!


Il vento fa oscillare le guglie della Gedächtniskirche.
ando c’è un vento del genere, a Piter l’acqua sale, Alik.
In giorni così, sulla Fortezza di Pietro e Paolo gli orologi baono i
rintocchi ogni quarto d’ora, ma nessuno li ascolta.
La gente conta i colpi di cannone.
I cannoni sparano. Uno. Uno, due. Uno, due, tre… Undici volte.
Un’inondazione.
Il vento tiepido, facendosi strada verso Piter, vi porta acqua lungo la
Neva.
Io sono felice. E l’acqua continua a crescere. E il vento è in strada, Alik,
il mio vento, primaverile, il nostro, di Piter.
L’acqua è in aumento.
Ha inondato tua Berlino ed il treno soerraneo nel tunnel è venuto a
galla, pancia all’aria, come un’anguilla morta.
Ha spazzato via dall’acquario tui i pesci e i coccodrilli. I coccodrilli
nuotano, senza svegliarsi, si lamentano solo che fa freddo, e l’acqua sale
per le scale.
Undici piedi. L’acqua è nella tua camera. Entra nella stanza di Alja
sommessamente: sulle scale non ha posto per fluuare liberamente. Ma
nella stanza la ricevono le scarpe di Alja. ello che segue, è un’opera
teatrale.

LE SCARPETTE. Perché siete venuta? Alja dorme. (Anche loro ti amano).


L’ACQUA. (A voce bassa). Undici piedi, signore scarpe! Tua Berlino
galleggia, pancia all’aria; sulle onde si vedono solo bigliei da mille
marchi. Noi siamo la realizzazione di una metafora. Dite ad Alja che lei è
di nuovo su un’isola: la sua casa è circondata dal Circolo dell’Opojaz.53

LE SCARPETTE. Non scherzate! Alja dorme. Sciocca acqua alta! Alja è


stanca. Alja non ha bisogno di fiori, ma del profumo dei fiori. Alja chiede
all’amore solo il suo profumo, e tenerezza. Di più non si possono
appesantire le sue gentili, tenere spalle.

L’ACQUA. O mie signore, scarpee di Alja. Undici piedi. L’acqua aumenta.


I cannoni sparano. Il vento tiepido si fa strada sin qui e non ci consente di
raggiungere il mare. Vento tiepido del vero amore. Undici piedi! Il vento è
così forte, che gli alberi giacciono a terra.

LE SCARPETTE. Oh, acqua che va al mulino altrui. Non va bene usare la


legge del più forte in amore!
L’ACQUA. Neppure la legge dell’amore più forte?

LE SCARPETTE. No, neppure la legge dell’amore più forte. È così. Non


tormentarla con la forza. Lei non ha bisogno neppure della vita. Lei, la mia
Alik, ama tanto la danza, perché è l’ombra dell’amore. Amate Alja, invece
di amare il vostro amore.

E l’acqua se ne va, trascinando pesantemente per terra una cartella


piena di bozze. ando l’acqua si allontana, le scarpee dicono l’un l’altra:
«Uffa, questi uomini di leere!»
Le scarpee non sono caive, ma sono in coppia, e due donne,
trovandosi così a lungo fianco a fianco, non riescono ad evitare i
peegolezzi.
Ho scrio e riscrio questa leera. Ora, in tuo onore, la riscriverò di
nuovo.
Così Dio iscrisse un arcobaleno, in onore del «Diluvio Universale».54
Leera undicesima

In cui si parla di una donna che sceglie un abito e di oggei dotati di mani.
Vi si annota un equivoco riguardo ai frac. Ma il contenuto principale della
leera consiste nel raccontare come una volta, nel cappello di Pëtr
Bogatyrëv,55 sia comparsa una banconota, come lui riuscisse a non piangere a
Mosca e come sia scoppiato in pianto in un ristorante di Praga.

Così, scrivo di una cultura straniera e di una donna straniera.


La donna forse non è del tuo straniera.
Io non mi lamento di te, Alja. Solo che tu, sei molto donna.
Tu dici: «ando desideri un abito per molto tempo, poi, non vale la
pena di comperarlo; è come se l’avessi portato e logorato a memoria».
È naturale che, in un negozio, una donna flirti con gli oggei; le piace
tuo.
È la psicologia europea.
Di certo è colpa dell’oggeo, se non riesce a farsi amare.
Soprauo degli oggei dotati di mani.
Ma ogni soldato, nel suo zaino porta la sua sconfia.
ando viene ucciso sul campo di baaglia, non fa altro che prendere
conoscenza del suo destino.
Noi non sappiamo essere leggeri.
La moglie del celebre chirurgo Ivan Grekov56 si offese con me e con Miša
Slonimskij,57 perché andammo ad una serata a casa sua, indossando giubbe
militari e stivali di feltro. Gli altri erano in frac.
La spiegazione della nostra sgarberia era semplice: tui avevano un
vecchio frac e un frac non esce di moda e può sopravvivere a una
rivoluzione.
Ma noi non avevamo mai portato un frac. Prima portavamo paltò da
liceali e da universitari, poi cappoi militari e giubbe, ricavate dai
medesimi.
Non conoscevamo altro modo di vita, all’infuori di quello della guerra e
della rivoluzione. Essa ci può offendere, ma non riusciremo a sfuggirle.
La psicologia dei negozi ci è estranea, noi siamo abituati a poche cose,
quelle superflue le diamo via o le vendiamo. Le nostre mogli portavano dei
sacchi e la misura delle scarpe aumentava di un numero.
L’Europa ci distrugge, noi, al suo interno, ci infervoriamo e prendiamo
tuo sul serio. Tu conosci il biondo Pëtr Bogatyrëv. Ha gli occhi azzurri, è
piccolo di statura, i pantaloni sono corti; capita che siano gli uomini con le
gambe corte ad avere pantaloni particolarmente corti. Le scarpe di
Bogatyrëv non sono allacciate.
Per la strada o cammina lentamente in punta di piedi, oppure corre di
sbieco come una lepre; lui non parla, sbraita.
est’uomo eccentrico è nato nella famiglia di un artigiano, nel
villaggio di Pokrovskoe, sulla Volga. Grazie alle sue capacità declamatorie
entrò al liceo. Lo terminò. Andò alla facoltà di leere, dove si occupò di
teoria degli aneddoti.
Bogatyrëv scrive molto, poi perde i manoscrii.
Nella Mosca affamata Bogatyrëv non sapeva di vivere male. Viveva,
scriveva, lavorava per arrotondare, come tui, ma senza caiveria.
Una sera, Bogatyrëv stava andando a casa a piedi dal teatro, passando
per i mucchi di neve di Mosca, quando, stanco, si tolse il cappello e si
asciugò la fronte.
E, all’improvviso, nel cappello comparve una banconota.
Diede un’occhiata intorno, vide un militare58 che si allontanava.
Lo raggiunse. «Compagno, non ne ho bisogno!».
«Non vi dovete vergognare, prendeteli».
Bogatyrëv non li prese, ma non si offese.
Nessuno ci può offendere perché noi lavoriamo.
Nessuno ci può rendere ridicoli, perché noi conosciamo il nostro prezzo.
Ma le donne che non hanno portato assieme a noi il peso della nostra
vita non possono capire il nostro amore, l’amore di persone che non
hanno mai portato il frac.
Bogatyrëv teneva lezioni in vari istituti, raccoglieva il folklore
rivoluzionario, frequentava Roman Jakobson, per me un fratello e un
amico.
ando Roman emigrò a Praga,59 scrisse a Bogatyrëv di raggiungerlo.
Bogatyrëv arrivò, i pantaloni corti, le scarpe slacciate, in valigia solo
manoscrii e carte stracciate e tuo così disordinato, che non si capiva
dove fossero i suoi scrii e dove i pantaloni.
Bogatyrëv comperava lo zucchero, lo teneva nelle tasche e lo mangiava;
in poche parole: cercava di conservare il modo di vita russo.
Ma Roman, con i suoi piedi soili, la testa rossa e gli occhi azzurri, lui
amava l’Europa.
Sembra tuo fratello.
Roman portò Bogatyrëv al ristorante: Pëtr stava seduto fra muri non
graffiati, fra cibi di vario tipo, vini e donne. Scoppiò in lacrime.
Non resse. esto modo di vita ci fa sciogliere.
Non ne abbiamo bisogno. Fra l’altro, per creare dei parallelismi, va bene
tuo.
Bogatyrëv non restò da Roman e cominciò a cercare il clima russo.
Gli trovarono un posto: gli proposero di soggiornare in un campo di
concentramento per russi in aesa di tornare in patria.60
Ci vivono cosacchi e ufficiali; loro non amano affao l’Europa, Alja.
Cantano canzoni popolari e sanno soltanto combaere.
Pëtr visse tranquillamente nel campo, il modo di vita gli era familiare,
scrisse un libro Il teatro ceco delle marionee ed il teatro popolare russo,61
poi venne a Berlino, dove io glielo pubblicai, perché tu sei talmente
occupata che io ho un sacco di tempo libero. Ed anche perché so lavorare.
Bogatyrëv si è fao fare tre vestiti, ma va in giro indossandone un
quarto, chiaramente nazionale, moscovita.
Adesso sopporta anche la Prager Diele.62
E non era scoppiato in lacrime per sentimentalismo, ma così, come
piange un vetro in una stanza che viene riscaldata dopo tanto tempo.
Leera dodicesima

Scria, evidentemente, in risposta ad un’osservazione faa probabilmente


per telefono (dal momento che non si sono conservate sue tracce scrie)
relativamente al modo di mangiare, e contiene anche la negazione del fao
che sia necessario indossare pantaloni con la piega. Tua la leera è ricca di
riferimenti biblici.

Te lo giuro: i pantaloni non devono avere la piega!


I pantaloni si portano per non avere freddo.
Chiedilo ai Serapionidi.63
Protendersi verso il cibo, forse, non è bello davvero.
Tu dici di noi, che non sappiamo mangiare.
Ci pieghiamo troppo sul piao e non portiamo il cibo verso di noi.
Che fare? Ci stupiremo a vicenda.
Ci sono molte cose che mi stupiscono in questo paese, dove i pantaloni
devono avere la piega sul davanti; i più poveri, la noe, meono i
pantaloni soo il materasso.
Nella leeratura russa questo mezzo è noto; nelle opere di Kuprin64
viene utilizzato dai mendicanti di professione che hanno nobili origini.
Mi irrita il modo di vita locale!
Così si irritò Levin, in Anna Karenina, quando vide che in casa
cuocevano la marmellata non al modo dei Levin, ma al modo della
famiglia di Kiy.
ando il giudice Gedeone65 radunò i suoi soldati per combaere contro
i filistei, prima di tuo mandò a casa tui i padri di famiglia.
Poi l’angelo di Dio comandò di accompagnare tui i soldati rimasti al
fiume e di portare in baaglia solo coloro che bevevano l’acqua dal cavo
della mano, senza chinarsi a lapparla come cani.
Ma davvero noi siamo caivi soldati?
Pertanto, pare, quando crolla tuo, crolla in frea, allora saremo noi ad
andarcene a coppie coi fucili sulle spalle, coi proieili nelle tasche dei
pantaloni (senza piega) e, sparando da dietro gli steccati per difenderci
dalla cavalleria, torneremo in Russia, forse negli Urali, dove costruiremo
una nuova Troia.
Ma sui piai è meglio non chinarsi.
È terribile il giudizio del giudice Gedeone! Che cosa accadrà, se non ci
acceerà nel suo esercito?
La Bibbia si ripete in modo curioso.
Una volta gli ebrei sconfissero i filistei. elli correvano, correvano, due
a due, meendosi in salvo araverso il fiume.
Gli ebrei misero delle pauglie presso il guado.
Allora, distinguere un filisteo da un ebreo era difficile: sia gli uni che gli
altri, probabilmente, erano nudi.
La pauglia chiedeva ai fuggiaschi: «Di’ la parola Scibbolet».
Ma i filistei non sapevano pronunciare il suono sc e dicevano «Sibbolet».
Allora li uccidevano.66
Una volta, in Ucraina vidi un ragazzo ebreo. Non riusciva a guardare il
mais senza sentire un fremito.
Mi raccontò:
ando in Ucraina si uccideva, spesso bisognava controllare se colui
che veniva ucciso era ebreo.
Gli dicevano: «Di’ mais».
L’ebreo diceva: «MAISH».
Lo uccidevano.
Leera tredicesima

Scria fra le sei e le dieci del maino. Il tempo a disposizione ha reso la


leera lunga. Consiste di tre parti. Ma in essa è importante solo la menzione
del fao che le donne, nel caè berlinese Nachtlokal, sanno tenere la
forchea.

Le sei del maino.


Fuori, nella Kaiserallee, è ancora buio.
A te si può telefonare alle 10.30.
aro ore e mezzo, e poi ancora venti inutili ore, ed in mezzo la tua
voce.
Mi è odiosa la mia stanza. Non amo la mia scrivania, sulla quale scrivo
leere, solo a te.
Sto seduto qui, innamorato come un telegrafista.
Sarebbe bello procurarsi una chitarra e cantare.

O, parla almeno tu con me,


amica dalle see corde.
L’anima è piena di tanta angoscia
e nella noe c’è tanto chiaro di luna.67

Bisogna che scriva qualcosa per fare un po’ di soldi.68 Un filmato


pubblicitario sulle motociclee.
I pensieri rivolti a te, alla motociclea e all’automobile si confondono
nella mia testa.
Scriverò una leera. Il filmato aspeerà.
Ti scrivo ogni noe, poi strappo tuo e buo nel cestino. Le leere si
ravvivano, si ricompongono, ed io le riscrivo. Tu ricevi tuo quello che
scrivo.
Nella tua cesta dei giocaoli roi, il primo è quello che, congedandosi, ti
regalò dei fiori rossi, tu gli telefonasti per ringraziarlo; e quello che ti
regalò un amuleto di ambra; e quello, dal quale tu acceasti gioiosamente
una piccola borsea da donna, intrecciata di filo d’acciaio.
Il tuo modo di comportarti è sempre uguale: un incontro gioviale, i fiori,
l’amore dell’uomo, che nasce sempre in ritardo, come l’aspirazione di gas
fresco nel cilindro di un’automobile.
Un uomo comincia ad amare un giorno dopo avere deo «ti amo».
Per questo non bisogna pronunciare queste due parole.
L’amore continua ad aumentare, l’uomo si infiamma, ed a te non
interessa già più.
Nella tecnica automobilistica questo si chiama anticipo di scarico.
Solo che io, stracciato come una leera, continuo a sbucare fuori dalla
cesta dei tuoi giocaoli roi. Sopporterò ancora numerose tue
infatuazioni; di giorno mi fai a pezzi, ma la noe mi ravvivo, come le mie
leere.
Ancora non è giorno ed io sono già di guardia.
La finestra sulla strada è aperta.
Anche le automobili si sono svegliate, oppure non si sono ancora
coricate.
Al, Al, El – urlano. Vogliono pronunciare il tuo nome.
Siedo nella stanza della mia malaia, penso a te, alle automobili. Così è
più divertente.
Tu hai girato la mia vita come la vite senza fine fa girare il pignone.
Il pignone, infai, non può far girare lo sterzo. In termini tecnici questo
si chiama: trasmissione irreversibile. Il mio destino è irreversibile.
Solo il tempo, come canta la canzone odessita della malavita inventata
da Livšic,69 mi appartiene: io posso suddividere l’aesa in ore, minuti,
posso contarli. Aspeo, aspeo. Peccato non avere una chitarra. Non
sentirò presto la voce di Alja.
Cosa potrei aspeare? Aspeerò il sole. Il sole si alzerà verso le oo.
Illuminerà la Kaiserallee, e la via somiglierà al corso Kamennoostrovskij.
Sul corso Kamennoostrovskij, a Pietroburgo, si trovava il liceo70 dove ho
studiato.
Era un anno qualunque, forse il 1913. Noi dovevamo licenziarci.
Desideravamo ardentemente terminare il liceo e rotolare in strada,
ruzzolando come un cerchio di legno.
L’aria era densa di desideri che volavano sul Kamennoostrovskij come
piume, come ali. Le nubi erano cirri.
Volevamo afferrare la vita il più velocemente possibile. Ma non
conoscevamo le parole; pensavamo che si potesse prendere una donna per
i manici, come un oggeo.
Andavamo con molte donne, automaticamente, come si piallano le assi.
Con mani brucianti o gelide afferravamo la vita. Volevamo conoscere
l’amore, come se fosse un gioco. Durante le feste al liceo, tagliavamo i fili
della luce, e se ci ammalavamo seriamente, ci tiravamo volentieri un colpo,
come per provare un nuovo gioco. Eravamo abituati a queste morti. Noi
eravamo morituri, che significa: coloro che sono destinati a morire.71
ando stavamo per terminare il liceo, una delle nostre compagnie andò a
fare un giro, prese una prostituta, la spogliò, appoggiò su di lei una
candela e sulla sua schiena giocarono a carte. Poi la pagarono bene e
cercarono di convincerla a non prendersela troppo. I morituri volevano
fare l’ennesimo gioco.
No, è meglio restare in camera, essere svegli alle sei del maino, alle
see andare al mercato a comperare fiori. Meglio trascorrere tua la vita
al suono di una chitarra.
A Berlino si trovano degli strani locali. Sono capitato al Nachtlokal. Una
stanza senza nulla di particolare, sulle pareti delle fotografie. C’è odor di
cucina. Il pianoforte suona in sordina. Il violinista strimpella uno strano
violino con le tavole armoniche completamente aperte. Il pubblico è
silenziosamente ubriaco. Esce una donna nuda che indossa calze nere e
balla, allargando le braccia senza alcuna grazia, poi ne esce un’altra, senza
calze.
A parte noi, non conoscevo nessuno in quella stanza. Il violinista passa
per i tavoli, raccoglie i soldi. Si avvicina ad un uomo tristemente ubriaco,
seduto in un angolo. ello gli dice qualcosa.
Il violinista prende il suo violino senza peo e nell’aria aleggia lieve-
lieve «Dio, proteggi lo zar».72
Da tanto tempo non udivo questo inno.
La donna ha finito la sua danza, ha indossato un abito confezionato,
piuosto elegante, e siede al tavolo accanto, mangia qualcosa.
«Guarda, sa persino tenere il coltello», mi disse Bogatyrëv. ello di
sapere stare a tavola era un argomento di moda fra di noi. Ce ne
andammo. Nell’anticamera mi porse il paltò una donna. Porgendole la
contromarca, ne osservai aentamente il viso. Era lei che ballava poco
prima, con le calze. Tuo organizzato su piccole dimensioni e,
probabilmente, a conduzione familiare. E molto verosimilmente senza
depravazione alcuna. Ci sono persone con parole e senza parole. Le
persone con le parole non spariscono e, credimi, io ho vissuto la mia vita
felicemente.
Senza parole non è possibile recuperare nulla dal fondo.
Si sta facendo giorno, ma io non ho nessun motivo per smeere di
scrivere. Il tempo mi appartiene. Livšic ha ragione. È sconnessa la mia
leera insonne. Prima di buarla via, cercherò di ricomporla.
In una leggenda bogomila,73 Dio vuole prendere della sabbia dal fondo
del mare.
Ma Dio non vuole tuffarsi so’acqua. Manda il diavolo e gli ordina:
«ando la prenderai, di’: “Non sono io che prendo, è Dio che prende”».
Il diavolo si tuò verso il fondo, si contorse fino al fondale, afferrò la
sabbia e disse: «Non è Dio che prende, sono io che prendo».
Un diavolo pieno di amor proprio.
La sabbia non cedee. Il diavolo riemerse, livido.
Dio lo mandò di nuovo in acqua.
Il diavolo raggiunse il fondo nuotando, raschiò la sabbia con le unghie,
disse: «Non è Dio che prende, sono io che prendo».
La sabbia non cedee. Il diavolo riemerse, senza fiato. Per la terza volta
Dio lo mandò in acqua. Nelle fiabe si fa tuo tre volte.
Il diavolo capì che non aveva scampo.
Non volle rovinare l’intreccio. Forse si mise a piangere, ma si tuò.
Nuotò sino al fondo e disse: «Non sono io che prendo, è Dio che prende».
Prese la sabbia e riemerse. E Dio, con la sabbia che il diavolo, per ordine
divino, aveva preso dal fondo, creò l’uomo.
Non ho più voglia di scrivere. Non ho bisogno di leere. Non ho bisogno
di una chitarra. E non me ne importa nulla se il mio amore somiglia o
meno ad una trasmissione irreversibile. Non me ne importa nulla. Lo so:
non meerai la mia leera neppure nella scatola sulla destra del tuo
tavolo.
Leera quaordicesima

È direa in Russia; ne emerge chiaramente che l’autore ha un’ossessione.


Nella leera si dice quanto sia difficile, persino dopo la scoperta di Einstein,
vivere senza occupare né tempo, né spazio. La leera termina con un moo
d’indignazione per l’uso improprio del pronome «noi» a Berlino.

Cari amici, perché mi scrivete così poco?


Davvero mi avete scacciato dal vostro cuore?
Salvatemi dagli uomini-ombra, dagli uomini staccati dalle stanghe,
salvatemi dalla ruggine, da tua la vita che mi dice una sola cosa:
«Vivi, ma non portarmi via né tempo, né spazio». E aggiunge:
«Eccoti il giorno, ed eccoti la noe, ma tu vivi negli intervalli. E non
venire né di maina, né di sera».
Amici miei, fratelli! anto è sbagliato che io sia qui!
Scendete tui in strada, sul corso della Neva, chiedete, esigete che mi
consentano di tornare.
Per evitare fastidi, si può percorrere il corso in tram.
Ma voi, restate aaccati alla terra, amici.
Io sono legato a Berlino, ma se mi dicessero: «Puoi tornare», io, lo giuro
sull’Opojaz, me ne tornerei a casa, senza girarmi, senza prendere i
manoscrii. Senza fare una telefonata.
Mi hanno vietato di telefonare.
Che cosa scrivete adesso?
È stata sistemata la frana nel lastricato della Morskaja, di fronte alla
«Casa delle Arti»?74
Meglio giacere morti in questa buca, rendendo la strada agevole ai
camion russi, piuosto che vivere senza scopo.
E a Pietroburgo ci sono molte automobili?
Voi, come riuscite a pubblicare?
Noi pubblichiamo abbastanza.
Solo che qui «noi» è una parola ridicola.
Una donna mi ha telefonato. Io ero ammalato. Abbiamo chiacchierato.
Ho deo che stavo a casa.
E lei, mentre stava già per appendere la cornea, mi dice:
«Noi oggi andiamo a teatro».
Dal momento che io avevo appena parlato con lei, non capivo: «Noi chi?
Io sono ammalato».
È assurdo! Noi vuol dire io e ancora qualcun altro.
In Russia «noi» è più forte.
Leera quindicesima

Su Ivan Puni e sua moglie, Ksana Boguslavskaja.75 Sul modo in cui un


artista ama e su come bisogna amare un artista, sugli amici di Puni e su
come nascono i libri e i quadri. Il contenuto della leera è didaico.

Mi è difficile persino nelle leere, persino araverso la mezza maschera


nera di carta che ti ho calzato addosso, mi è difficile persino in sogno,
vedere il tuo viso.
Donna senza mestiere, come occupi il tuo tempo? Non si può, Alja,
togliere il pane alla gente per darlo ai cani!
Anche perché i cani sono dei pasticcioni, oltre che dei cani.
Berlino per me è delimitata dal tuo nome.
Non ricevo notizie dal mondo.
E Ksana Boguslavskaja Puni è malata di angina dierica. Povera
ragazza, povera artista e moglie di artista! Io ho osservato aentamente lei
e suo marito, prima di incontrarti.
Pensa che conosco Puni da dieci anni, dal «Tram V» (è il nome di una
mostra).76
Non vede mai nulla aorno a sé, nonostante non sia innamorato;
sembra che non ami nessuno e riesce a non protendersi verso la gente; li
sa accogliere distraamente.
Lui ha un unico amore malinconico, l’amore verso i quadri. Così come
io non ho saputo amarti gioiosamente, così Puni, senza gioia, da sempre,
ama l’arte.
Tu non avrai mai ragione di fronte a me, perché non hai né mestiere, né
amore, e se c’è una morale, non può difendere chi è già tanto forte.
Perché mai deve avere ragione una persona che in ogni momento mi
può dire «Io non ti ho chiesto di amarmi» e può meermi da parte?
Non stupirti del fao che io urli, anche se tu non mi stai facendo male.
Grazie a te ho capito il principio della relatività. Immaginati Gulliver tra
i giganti, un gigante-donna lo tiene in mano: ma lo tiene appena, in realtà
non lo sta tenendo, ha semplicemente dimenticato di lasciarlo andare, ed
ecco che lo lascia ed il povero Gulliver urla con terrore, telefona: «Non
lasciarmi!».
Ivan Puni è innamorato dei suoi quadri; osserva tristemente il destino
dell’arte, per lui nulla è semplice e non è sicuro dell’amore del giorno
seguente.
Una volta, di noe, arrivai da lui assieme a Roman Jakobson, Carl
Einstein,77 Pëtr Bogatyrëv e ancora qualcun altro.
Era l’una, forse le due, non ricordo; Puni stava ancora lavorando nel suo
studio. Per terra, sulle sedie, sul leo c’erano tubei di colore.
Ci accolse senza gioia, senza stupore, come se fossimo stati passeggeri e
la sua stanza il vagone di un treno.
Noi parlammo di tante cose, tue tristi. Mangiammo patate che
toglievamo dalla brace. Puni ci diede del lardo, cucinò le patate, ma non si
accorse di noi. Aento e triste guardava un quadro.
Addiriura, una volta, lo vidi ridere davanti a un suo quadro: lui può
ridere di una costruzione come di un’arguzia.
Ksana Boguslavskaja è moglie di un artista ed artista lei stessa. Non è
male come artista, sebbene un po’ melliflua, anzi è persino brava in quanto
la sua mellifluità è consapevole: è un procedimento, non sono lacrime.
E la cosa più bella in lei è che è innamorata dei quadri del marito. È
gelosa di una variante rispeo ad un’altra, si preoccupa di quel che
succederà poi.
Ma per vivere un artista deve fare lavori commerciali. A causa di questi
lavori, prova dolore fisico alle spalle. Non si riesce a vendere la vera arte o,
più precisamente, prima che la riconoscano, bisogna patire molto. Spesso,
scherzando, chiamavamo la casa di Puni «La Sacra Famiglia» e, altre volte,
Società a Responsabilità Limitata. La famiglia, fra l’altro, è veramente
sacra: se si volesse tradurre il tuo dalla lingua berlinese in quella antica,
ne risulterebbe la fuga in Egio, secondo la quale Ksana sarebbe Giuseppe,
Puni la madre e il quadro il bambino.78
È difficile la vita per chiunque ami una donna o il proprio mestiere.
Da Puni si recano gli amici: il biondo tedesco Fritsch79 con la sua bella
moglie, il leone Karlis Zalit, rumoroso come un cristiano dell’Africa del IV
secolo, Arnold Dzerkal,80 silenzioso, simile a uno svedese, enorme, ben
vestito, forte e per me incomprensibile. A volte capita anche Rudolf
Belling,81 un tedesco di stampo francese, uno scultore, che fisicamente è
fao come un grillo: è secondo i suoi modelli che sono fai i manichini
espressionisti delle vetrine di Berlino.
Tui loro, quando guardano i quadri, sono tranquilli e silenziosi. Mentre
Ksana guarda le tele con occhi innamorati. Non penso che Puni si sia
accorto della rivoluzione e della guerra, lavorava molto a quel tempo.
I quadri lo divorano. Lavorare è così difficile!
E le opere nascono, come i bambini.
Vengono concepite allegramente, con gioia e senza vergogna, portate in
grembo con difficoltà, partorite in modo doloroso ed in seguito vivono con
amarezza.
Leera sedicesima

La quarta di Alja, in cui si afferma che lei non vuole nulla.

Caro, sono seduta sul divano che tu non ami e capisco quanto sia bello
stare al caldo, comodi e senza provare alcun dolore fisico.
Tue le cose hanno l’aspeo silenzioso e reticente delle persone ben
educate.
I fiori dicono apertamente: «Noi sappiamo, ma non parleremo»; ma che
cosa loro sappiano, non si sa!
Una montagna di libri, che potrei leggere e non leggo; il telefono, col
quale potrei telefonare e non telefono; il pianoforte, che potrei suonare e
non suono; le persone, che potrei vedere e non vedo e te, che dovrei amare
e non amo.
Ma senza libri, senza fiori, senza pianoforte, senza te, mio caro, quanto
piangerei.
Mi sono appena acciambellata e, come una vera donna orientale,
medito:
Osservo aentamente il disegno sciocco e ripetitivo della stufa;
assurdamente imito una teiera: un braccio sul fianco, l’altro piegato, come
il becco della teiera, e mi rallegro di questa somiglianza, stringo gli occhi
guardando un arbusto di azalee bianche che, per qualche ragione, sta
tremando.
Non sogno e non penso a nulla.
Caro, io non ti faccio del male, ti prego, non pensare che ti voglia far del
male. Capisco che comincio a sembrarti presuntuosa; no, io so che non
valgo nulla, non vale la pena di insistere su questo.
Gli acquisti giacciono impaccheati sul tavolo.
Non molto tempo fa sarei arrivata a casa e mi sarei svestita per provare
la nuova camicia da noe; adesso, invece, resta lì, avvolta nella carta.
ALJA
Leera diciasseesima

Sviluppa un’osservazione di Alja sui transatlantici, parla delle danze sul


ponte, di automobili, di Boris Pasternak, della «Casa della Stampa»82 di
Mosca e del nostro destino.

Il tuo racconto sul transatlantico era bello. Dopotuo, io sono un


salvadanaio per le tue parole. Tu mi hai raccontato che su una nave del
genere si percepisce sempre la sua forza di trazione. Non il movimento in
sé, ma proprio la trazione, l’andatura e la potenza dell’andatura. Per un
automobilista questo è comprensibile. Tue le automobili hanno una
trazione diversa. Una buona auto fa pressione sulla tua schiena in modo
molto piacevole, come il palmo di una mano, e ti spinge. La maggiore
araiva di una buona auto è la natura della sua trazione, la natura
dell’incremento della forza. È una sensazione simile a quella di una voce
che sale. La voce-trazione della Fiat sale in modo molto piacevole. Premi il
pedale del gas e l’auto ti porta con entusiasmo. Ci sono delle auto che
partono con forza, ma rigidamente, in particolare ne ricordo una così, una
sessanta cavalli Mitchell. Sull’automobile tue le sensazioni sono diverse:
senti trazione e tranquillità, oppure trazione e malinconia. Ma tuo si basa
sulla sensazione del movimento che preme su di te.
Non ho mai visto un transatlantico. Ma mi piace e lo capisco. Deve
essere molto bello danzare su un pavimento che si muove e, quando i
pensieri restano un po’ indietro rispeo al movimento (come fa il cuore su
un ascensore che scende), baciarsi e pensare.
È come pensare a suon di musica, ma è ancora meglio. Ricorda la
conversazione di Dolochov (Guerra e pace) al canto di una canzone
popolare (è il momento in cui lui non riuscì a litigare col compagno).
Nasce un nuovo mondo, nuove sensazioni; pochi se ne sono accorti. Il
nostro globo è trainato a rimorchio, non si sa in quale direzione.
Una volta tua sorella si trovava alla «Casa della Stampa», a Mosca.
Probabilmente faceva freddo; c’erano molti giornalisti. Era seduta accanto
a Pasternak, Boris. Lui parlava come al solito, lanciando fiumi di fie
parole ora in una direzione, ora nell’altra, ma senza dire l’essenziale. La
parola essenziale.
E lo stesso Pasternak era così bello che ora lo descriverò. La sua testa
robusta, forte, sembrava una pietra a forma di uovo, il peo ampio, gli
occhi castani. Marina Cvetaeva dice che Pasternak somiglia
contemporaneamente ad un arabo e al suo cavallo.83 Pasternak si precipita
sempre da qualche parte, ma non in modo isterico, lui avanza come un
cavallo forte e focoso. Lui va al passo, ma vorrebbe andare al galoppo,
lanciando le gambe in avanti, lontano. Dopo molte parole incomprensibili,
Pasternak disse a tua sorella:
«Sapete, è come se fossimo su una nave».
est’uomo grande e felice, in mezzo a persone in paltò che
masticavano panini al bar della «Casa della Stampa» (il che è ridicolo e
anche un po’ triste), sentiva la trazione della storia. Lui sente il
movimento, i suoi versi sono meravigliosi per la loro trazione, le loro righe
si piegano e non riescono a stendersi, come barre d’acciaio, si ammassano
l’una sull’altra, come i vagoni di un treno che ha frenato improvvisamente.
Bei versi. Un uomo felice. Non sarà mai irritato. Deve vivere la sua vita
amato, viziato e grande.
A Berlino Pasternak è inquieto. È un uomo di cultura occidentale,
quanto meno la capisce, è vissuto anche precedentemente in Germania;
con lui adesso c’è la sua giovane, bella moglie,84 tuavia è molto inquieto.
E non per cercare di dare finitezza alla mia leera, dirò che mi sembra che,
in mezzo a noi, lui senta l’assenza di trazione. Noi siamo profughi, no, non
profughi, siamo fuggitivi, ed aualmente siamo in posizione d’aesa.
Per il momento.
Non va da nessuna parte la Berlino russa. Non ha destino.
Nessuna trazione.
Lo percepisco così distintamente! Forse ti airano persone straniere,
inglesi, americani, forse con noi ti annoi, perché anche tu percepisci tuo
ciò. este persone hanno una trazione meccanica, la trazione di un
transatlantico, sul cui ponte è bello ballare lo shimmy.85 Noi perdiamo le
nostre donne. È ora di pensare a noi stessi. Noi uomini siamo motori a
combustione interna, il nostro compito è portare al traino. La trazione
della rivoluzione è passata. Per il ponte non abbiamo scarpe da ballo.
Leera dicioesima

Sull’inevitabilità e prevedibilità dello scioglimento. In sua aesa, il


corrispondente scrive dapprima di Amburgo, poi di Dresda, grigia, a righe, e,
infine, di Berlino, la cià dalle case fae in serie; in seguito si parla
dell’anello araverso il quale passano tui i pensieri dell’autore, del suo
cammino nourno soo i dodici ponti di ferro e di un incontro. Ed ancora del
fao che le parole sono inutili.

Alja, sono assolutamente smarrito! Capisci di che si traa: mentre ti


scrivo queste leere, scrivo anche un libro. E ciò che accade nel libro si è
assolutamente confuso con ciò che accade nella vita. Ricordi, ti ho scrio
di Belyj e del metodo. L’amore ha metodi propri, una propria logica nelle
mosse, stabilita senza di me e senza di noi. Ho pronunciato la parola
amore e ho innescato il meccanismo. La partita è cominciata. Dov’è
l’amore, dov’è il libro, non so più. La partita va avanti. Al terzo o quarto
foglio stampato mi daranno scacco mao. Le prime mosse sono state fae.
Nessuno può cambiare lo scioglimento.
Un romanzo epistolare preannunzia una fine tragica (almeno un cuore
infranto).
Intanto, soltanto per me, parlerò del luogo in cui avviene l’azione.
È difficile descrivere Berlino.
Se si descrive Amburgo, si può parlare dei gabbiani sui canali, dei
negozi, delle case che si chinano sui canali, di tuo ciò che in genere si
dipinge.
ando entri nel libero porto della cià di Amburgo, come un sipario, si
aprono le chiuse. Un effeo teatrale. Un enorme campo inondato, gru che
si inchinano, nere cucchiaie che prendono in bocca il carbone dalle navi.
Le loro ganasce si aprono di colpo in entrambe le direzioni, come quelle
dei coccodrilli. Montacarichi a traliccio di tipo a portale, alti quanto il
colpo di una pistola Nagant.86 Elevatori galleggianti, che possono
succhiare fino a 570 tonnellate di grano al giorno.
Oh, nuotare verso uno di questi succhiatori e dire: «Caro compagno, per
favore, succhia via da me i 570 demoni dell’amore che si sono impossessati
della mia anima».
Oppure pregare la più grande delle gru di sollevarmi per la colloola
per mostrarmi l’Elba costrea dalle chiuse, grandi quantità di ferro, navi,
di fronte alle quali le automobili sono solo pulci. E pregare la gru a vapore
di dirmi: «Cucciolo sentimentale, guarda il ferro che si erge alto. Non è
bello lamentarsi e piangere, e se non riesci a vivere, mei la testa nella
cucchiaia di ferro per il carbone, in modo che te la stacchi».
Giusto!
Si può descrive Amburgo.
Ma, per descrivere Dresda, ci vuole più lavoro. Esiste però una via
d’uscita, alla quale la nuova leeratura russa ricorre spesso.
Prendiamo un qualunque deaglio di Dresda: per esempio il fao che le
sue automobili sono pulite e tappezzate all’interno con un tessuto grigio a
righe.
Dopodiché è tuo molto semplice, come per una gru sollevare una
tonnellata.
Bisogna asserire che tua Dresda è grigia a righe, che l’Elba è una riga
sul grigio, che le case sono grigie e che la Madonna Sistina è grigia a righe.
Difficilmente ciò sarà esao, ma tuavia sarà convincente e di bon ton.
Un grigio a righe.
Ma è difficile descrivere Berlino. Non la si afferra.
Com’è noto, a Berlino, i russi vivono nei pressi dello Zoo.
La notorietà di questo fao è triste.
Durante la guerra si diceva: «Come è noto, in primavera, i tedeschi di
solito aaccano». Come se esistesse un parallelo fra i tedeschi e la
primavera.
A Berlino i russi passeggiano aorno alla Gedächtniskirche,87 come le
mosche volano aorno al lampadario. E così come al lampadario è appesa
una sfera di carta anti-mosche, anche in questa chiesa, una strana noce
pungente è fissata sopra la croce.
Le vie che si vedono dall’alto di questa noce sono ampie. Le case sono
tue uguali, come valigie. Per le strade passeggiano signore in paltò di
lontra e in pesanti soprascarpe di cuoio; ed in mezzo a loro tu, in paltò
color topo, rifinito in lontra marina.
Per le strade passeggiano speculatori del mercato nero in ruvidi paltò e
professori russi che, due a due, portano l’ombrello con le mani incrociate
dietro la schiena. Ci sono molti tramvai, ma servirsene per girare la cià è
inutile, dal momento che è tua uguale. I palazzi provengono da un
negozio di palazzi in serie. I monumenti sono come servizi da tavola. Noi
non andiamo da nessuna parte; viviamo ammassati fra i tedeschi, come un
lago tra due argini.
Non c’è mai un vero inverno. La neve cade, e subito si scioglie.
La Germania di ferro arrugginisce nell’umidità e nella sconfia, e questa
ruggine ci salda gli uni agli altri, e anche noi, che non siamo di ferro,
arrugginiamo assieme a lei.
Nella Kleistraße, di fronte alla casa in cui vive Ivan Puni, si trova la casa
dove vive Elena Ferrari.88
Il suo viso è di porcellana e le ciglia sono così grandi che
appesantiscono le palpebre.
Le può far sbaere come lo sportello di una cassaforte.
Fra queste due case famose, da soo terra, sfreccia la metropolitana che,
con un urlo, sale in superficie.
Il treno, dalla stazione del Wienbergplatz, che somiglia ad una grande
tana di talpa, corre urlando, come un pesante proieile lanciato in alto,
verso la banchina sulla Nollendorfplatz.
Più oltre, il treno sfreccia dietro una chiesa rossa; le chiese a Berlino
sono talmente simili, che noi le distinguiamo solo per le strade nelle quali
si trovano.
Sfreccia il treno dietro la chiesa rossa, araverso la breccia di una casa,
come fosse un arco trionfale.
Più avanti viene il punto di incontro di tui i treni di Berlino, il
Gleisdreieck.89 Per i russi che vivono in mezzo ai tedeschi come fra le rive,
il Gleisdreieck rappresenta la coincidenza.
Da qui il treno corre verso il Leipzigerplatz e verso altre piazze, dove i
mendicanti vendono fiammiferi e i cani che guidano i ciechi giacciono
tranquilli, coperti da gualdrappe.
Singhiozzano gli organei: non suonano né Ach mein lieber Augustin,90
né Deutschland, Deutschland über alles;91 gemono semplicemente. È il
gemito meccanico di Berlino.
Se invece di andare verso le piazze si esce dalle deserte volte della
stazione Gleisdreieck, non si vedono né tedeschi, né professori, né
speculatori del mercato nero.
Tu’intorno, per i tei di lunghi palazzi gialli corrono dei binari, altri
binari corrono in superficie, su alte piaaforme di ferro, araversano altre
piaaforme di ferro e passano araverso nuove piaaforme, ancora più
alte.
Migliaia di fuochi, di fanali, di frecce, palle di ferro su tre gambe,
semafori, tu’intorno semafori.
Mi hanno condoo qui la nostalgia, un amore da emigrato e il tram n.
164, ho vagato a lungo per i ponti che sovrastano le ferrovie, che si
incrociano qui, come si incrociano i fili di uno scialle, fai passare
araverso un anello.
est’anello è Berlino.
est’anello per i miei pensieri è il tuo nome.
Spesso, la noe, tornavo da casa tua e passavo soo i dodici ponti di
ferro.
Cammini, canti. Ti chiedi perché al cuore di ferro della Germania (il
Gleisdreieck) e alle porte di ferro di Amburgo la vita dia soltanto cose fae
in serie: case come valigie, tram, sui quali non sai dove andare. Cammino,
sulla via del ritorno.
Cammino per la strada, soo i dodici ponti di ferro.
La strada è lunga. All’angolo della Potsdamerstraße tue le noi vedo
sempre la stessa prostituta, con un cappello rosso.
Vedendomi, canticchia qualcosa, poi parla in una lingua a me
incomprensibile.
Passo oltre, la mia strada è lunga.
Che fare, compagna dal cappello rosso!
Sulla terra ci sono molte bestie diverse e tue glorificano e
bestemmiano Dio, ognuna a modo suo.
Tu, senza parole, ti tuffi in fondo al mare e porti dal fondo del mare
sabbia fluida come fango.
Io, invece, possiedo molte parole, possiedo la forza, ma colei alla quale
indirizzo tue le mie parole è una straniera.
Introduzione alla leera diciannovesima

Scria da Alja; parla dell’aspirina, dell’aringa con le patate, del telefono,


dell’inerzia amorosa, di un ballerino americano e della balia Steša.
Nell’introduzione si spiega deagliatamente perché non si debba leggere la
leera di Alja.

esta leera di Alja è la migliore di tuo il libro. Ma non leggetela


adesso. Tralasciatela e leggetela dopo aver terminato il libro. Ora vi
spiegherò perché si deve fare così.
Io stesso non l’avevo lea, a suo tempo. La baciai, ne scorsi qualche
brano sparso, ma era scria a matita ed io non la lessi tua.
Ora spiegherò perché. Ascoltate: io sono sordo. Infai, nella vita ho
chiodato caldaie tenendo il riveo con le tenaglie dall’interno. Un fracasso
assordante nelle orecchie. Vedo che le labbra delle persone si muovono,
ma non sento nulla. La vita mi ha reso sordo; i sordi sono persone molto
introverse.
Ho leo la leera di Alja solo di recente, il 10 marzo, dopo aver
terminato il libro. L’ho lea per quaro ore. Innanzi tuo, la leera è
scria molto bene. Parola d’onore, non l’ho scria io. Essa contiene la
pura verità sull’inerzia amorosa ed una verità non scria sull’inerzia
dell’infelicità. All’estero avevo bisogno di spezzarmi, ed ho trovato un
amore che mi spezzasse. E senza neppure guardare la donna, son subito
venuto a lei, sicuro che non mi amasse. Non dico che altrimenti mi
avrebbe amato. Ma tuo era predestinato. esta leera infrange lo
schema delle due culture, perché una donna che parla di Steša in questo
modo, è una di noi.
E per quanto riguarda Steša, io le voglio bene, nonostante lei abbia
risistemato tui i mobili dentro di me.
Dunque, cari amici, non leggete questa leera. Proprio per questo
motivo la cancello in rosso. Così non vi sbagliate.
Ma come interpretare questa leera dal punto di vista compositivo?
Nonostante tuo è stata inserita.
Ma, ditemi, a che diavolo vi serve la composizione? E se proprio vi
serve, consentitemi! Per rendere un’opera ironica è necessaria una duplice
soluzione92 dell’azione; in genere viene data con un abbassamento di stile:
nell’Evgenij Onegin, per esempio, dalla frase «non è lui forse una
parodia?». Nel mio libro fornisco una seconda soluzione (che innalza lo
stile) della donna alla quale ho scrio, ed una seconda soluzione di me
stesso.
Io sono sordo.
Se crederete alla mia spiegazione compositiva, dovrete credere anche al
fao che io abbia scrio la leera di Alja a me indirizzata.
Non vi consiglio di crederlo…
Tra l’altro, voi non ci capirete proprio nulla, dal momento che dalle
bozze è stato cancellato tuo.
Leera ventesima

Scria non si sa quando.

Come un tappeto giacevo ai tuoi piedi, Alja!


Leera ventunesima

La quinta leera di Alja. In questa leera si parla dell’isola di Tahiti,95


dove le cose non vanno affao bene. Lì i vaporei emanano odore di
carburante e anche questo non va bene. est’isola è troppo lontana per
poterla amare. Rimane lontana, anche quando ci vivi. Nella leera si
racconta anche di un cavallo, di nome Tanjuša, e della sua partenza per
l’isola di Moorea. Dista da Tahiti un’ora e mezzo di viaggio.

Caro,
mi piace ricordare Tahiti, ma ne parlo malvolentieri. Mia madre diceva
sempre che io ho un aeggiamento poco intelligente verso gli eventi del
mondo circostante: io non so quanti abitanti ha Tahiti, bianchi o neri,
quanti chilometri ha di circonferenza, non conosco l’altezza delle sue
montagne. Semplicemente sogno di tornare su quell’isola amata, al suo
mare fantastico. L’acqua è azzurra, sembra inchiostro colorato, la barriera
corallina circonda l’isola, le onde si infrangono con un rumore familiare e
la schiuma forma un’enorme ghirlanda bianca, mai avvizzita; un fiore
bianco (il tiare)96 dietro l’orecchio di un viso scuro e sorridente, e la
vaniglia emanano un odore continuo; i granchi vanno su e giù, di traverso,
lungo la riva; il sole tramonta dietro Moorea. Conosco, vedo, sento tuo
ciò.
Tra l’altro, questo non c’entra; io ti volevo raccontare di Tanjuša.
Andrej97 mi aveva regalato una minuscola cavallina. A dispeo
dell’equatore, della temperatura e delle noci di cocco, l’avevo chiamata
Tanjuša. Fui molto felice quando il vecchio, nero Tapu la chiamò
«Tanjusa». Mi occupavo io stessa di lei, la pulivo, le davo da mangiare e da
bere. Anche lei provava simpatia per me. Veniva alla terrazza in cerca di
banane e nitriva delicatamente. ando Tanjuša si mise in carne e divenne
lucida e bella, il suo caraere mutò bruscamente: non voleva che la
montassero e non appena lo facevi, cominciava a rigirarsi da tue le parti,
a indietreggiare, senza fare caso a cosa si trovasse dietro di lei: acqua, uno
steccato pungente o delle persone. Alla fine fuggì nel cuore dell’isola; valla
a trovare! Andrej, per l’appunto, non c’era; andava spesso a visitare le
altre isole e nella mia stanza da leo c’erano cinque porte e una finestra!
Tuo spalancato! Le noi a Tahiti sono così silenziose, intense, così vivide
che persino i neri, di noe, non si allontanano di casa per nessuna ragione.
Ero istupidita dalla paura, fino alle lacrime. Infine, mi venne in mente di
meere Tapu davanti alla porta. Subito dopo la fuga di Tanjuša, piansi
tua la noe. Piangevo spesso a quel tempo. Tapu mi udì e pensò che
avessi paura; mio marito sarebbe tornato e mi avrebbe picchiato perché la
cavalla era scomparsa. Il maino mi dice: «Non piangere, io troverò
Tanjuša e il tuo tane (marito) non ne saprà nulla». Spedì degli allegri
negrei in tue le direzioni e Tanjuša ritornò al suo posto.
ando Andrej tornò e seppe della fuga, la vendee immediatamente.
Lui si comportava con gli animali come con gli uomini e trovava che
l’ingratitudine che lei aveva mostrato fosse così profonda, da non poter
essere tollerata. Caricarono Tanjuša sul vaporeo e la portarono da un
inglese, sull’isola di Moorea. Poverina, come deve essere stata sballoata!
Tu scrivi di me per te stesso; io scrivo di me per te.

ALJA
Leera ventiduesima

Inaspeata e, secondo me, assolutamente inutile. Il contenuto di questa


leera, evidentemente, è uscito da un altro libro del medesimo autore, ma,
forse, questa leera è parsa indispensabile al compilatore di questo libro, per
un po’ di varietà. La leera si è incrociata con quella su Tahiti.

Di recente mi sono ritrovato al teatro «Scala».98 Si trova nella


Lutherstraße. Diversi erano i numeri: un acrobata faceva capriole su
un’asta, collocata sulla spalla di un altro acrobata; due ginnaste
volteggiavano così rapidamente sul trapezio che dal basso sembrava si
trasformassero in vasi verdi, ma le loro ombre, che ricadevano sul sipario,
continuavano ad essere umane. Uno speacolo così grande non lo contieni
in una frase. C’era anche un uomo, un tipo dall’aspeo abominevole, che
dapprima faceva degli esercizi in mezzo all’arena, tenendo tra i denti un
peso di più di trenta chili, e poi sollevava da terra coi denti, tenendole per
lo schienale, tre o quaro pesanti sedie, legate insieme.
A me, persona dai denti molto malandati, questo non è piaciuto.
La cosa più divertente da vedere erano i ciclisti: turbinavano per il
palcoscenico, impennandosi sulla ruota posteriore della biciclea e alla
fine sono spariti dietro le quinte, seduti su una sorta di cerchio; se ne sono
andati senza frea e per di più strombazzando in coro, con delle trombee.
A Tom Sawyer sarebbe piaciuto molto.
Poi hanno suonato i suonatori di balalajka.
Hanno danzato aori russi.
Un artista tracciava all’istante varie caricature. Ha disegnato uno
speculatore del mercato nero e poi lo ha messo dietro le sbarre.
Ciò che mi ha colpito di questo varietà è stata la totale incoerenza del
suo programma.
Ci sono due aeggiamenti nei confronti dell’arte.
Il primo è caraerizzato dal fao che l’opera viene vista come una
finestra sul mondo.
Con le parole e le immagini si cerca di esprimere ciò che si trova al di là
delle parole e delle immagini. Gli artisti di questo tipo meritano il nome di
traduori.
L’altro modo di aeggiarsi nei confronti dell’arte è considerarla come
un mondo di cose che esistono autonomamente.
Le parole, i rapporti fra le parole, i pensieri, l’ironia dei pensieri, la loro
mancata coincidenza, è tuo ciò che costituisce il contenuto dell’arte. Se
l’arte si può paragonare ad una finestra, in questo caso può essere solo una
finestra dipinta.
Opere artistiche complesse, di solito, sono il risultato della
combinazione e dell’interazione di opere preesistenti, più semplici e, in
particolare, di dimensioni minori.
Un romanzo è costituito da pezzi, le novelle.
Un’opera teatrale consiste di parole, di arguzie, di movimenti, di varie
combinazioni di movimenti e parole, di situazioni sceniche. Per
Shakespeare, un’arguzia riuscita dell’aore è fine a se stessa e non è un
mezzo per descrivere un tipo.
Nel romanzo originario, la personalità dell’eroe è un mezzo per unire le
parti. Nel processo di trasformazione delle opere d’arte, l’interesse si
trasferisce agli elementi di collegamento.
La motivazione psicologica, la verosimiglianza nel mutamento di
situazione cominciano ad assumere un interesse superiore a quello della
riuscita dei momenti di collegamento. Fanno la loro comparsa il romanzo
psicologico ed il dramma, nonché la percezione psicologica di vecchi
drammi e romanzi.
esto, probabilmente, si spiega col fao che tali «momenti», i lazzi,99 a
quel punto sono già logori.
In arte, lo stadio successivo è quello del logoramento della motivazione
psicologica.
Diventa necessario cambiarla, «straniarla».
A questo riguardo è curioso il romanzo di Stendhal Il rosso e il nero, in
cui l’eroe agisce, facendosi violenza, quasi come a dispeo di se stesso; in
lui, la motivazione psicologica dell’azione si contrappone all’azione.
L’eroe agisce secondo lo schema romantico-avventuroso, ma pensa a
modo suo.
In Lev Tolstoj gli eroi adaano la loro psicologia alle azioni.
Dostoevskij contrappone la psicologia dei personaggi al loro significato
morale e sociale.
Il romanzo si sviluppa al ritmo di un romanzo poliziesco, mentre la
psicologia è data su scala filosofica.
Alla fine, tue le opposizioni si esauriscono. A quel punto resta una
cosa sola: passare ai «momenti», spezzare i collegamenti, divenuti una
giuntura troppo evidente.
La parte più viva dell’arte contemporanea è data dalle raccolte di articoli
e dal teatro-varietà, che si basa sull’interesse per i singoli momenti e non
per quello di collegamento. alcosa di simile si è osservato nei numeri
estranei all’unità dello speacolo del vaudeville.
Ma nei teatri di questo tipo si nota già un nuovo momento, quello del
collegamento delle parti.
Lì, l’eroe è il presentatore, il cui destino collega le parti isolate
dell’opera. In un teatro ceco, dello stesso tipo leggero della «Scala», mi è
capitato di vedere un altro procedimento ancora, che sembra fosse stato
già da tempo adoato nel circo. Un artista comico, al termine dello
speacolo, mostra tui i numeri, parodiandoli e smascherandoli. Per
esempio, fa vedere i giochi di prestigio, volgendo la schiena al pubblico,
che vede dove va a finire la carta scomparsa.
I teatri tedeschi, da questo punto di vista, si trovano ad un livello di
sviluppo molto basso.
Il caso più interessante è costituito dal libro che sto scrivendo ora. Si
chiama Zoo, leere non d’amore o La Terza Eloisa; qui i singoli momenti
sono uniti; infai tuo è collegato dalla storia dell’amore di un uomo per
una donna. esto libro è un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo
tradizionale.
Scrivo questo libro per te e, scriverlo, mi procura dolore fisico.
Leera ventitreesima

È la risposta alla leera su Tahiti. Inizia con dei ricordi. Ricordi che
riguardano gennaio, in quanto la leera è scria a metà febbraio. Ma i
ricordi sembrano già inaendibili. Un secolo fa l’elericità e lo shimmy
accelerarono il ritmo della vita. La leera termina con un tentativo di
scrivere una dedica; gli ultimi paragrafi della leera, vengono forniti come
un tentativo di stile patetico. Considerateli così.
(La seconda leera nello stesso giorno)

Tu hai scrio di te per me.


Tu puoi sorridere per me, pranzare per me o andare da qualche parte
con qualcuno per me. Io non posso fare nulla per te.
Probabilmente non ricordi le parole che mi avevi scrio su un foglio di
taccuino.
Se fossero vere, anche solo per un istante, se tu non le avessi
dimenticate, anch’io potrei scrivere di me per te o, almeno, di te per te.
Ma il taccuino è andato perduto e le leere non si possono presentare
come cambiali.
Scusa, Alja, se la parola «amore» è uscita di nuovo, nuda, nella mia
leera. Sono stanco di scrivere non d’amore.
Nelle mie leere, come nei nostri incontri, ci sono sempre estranei: tre,
quaro, alle volte un’intera folla.
Concedi la libertà alle mie parole, Alja, fa che possano venire da te come
cani dal proprio padrone, per giacere ai tuoi piedi.
Scarpe misura 37, guanti misura 6.
Permeimi di scrivere d’amore.
Ma non vale la pena di piangere, vedi, io sono allegro e leggero, come
un ombrello estivo.
La tua leera è bella. La tua voce è autentica, non canti in falseo.
Ti invidio quasi un po’.
Tu sei stata a Tahiti, inoltre, ti è più facile scrivere.
Tu non sai – ed è giusto così – che molte parole sono proibite.
Sono proibite le parole sui fiori. È proibita la primavera. In generale,
tue le parole belle hanno perso i sensi.
Mi hanno stancato le cose intelligenti e l’ironia.
La tua leera ha suscitato la mia invidia.
Come vorrei descrivere semplicemente gli oggei, come se la leeratura
non fosse mai esistita, e si potesse ancora scrivere in modo leerario.
Inoltre, sarebbe bello scrivere, con lunghe frasi, qualcosa del tipo:
«Stupendo è il Dnepr quando è bel tempo».100 Anch’io voglio scrivere di
una ghirlanda «imperitura», no, meglio «immortale».
Scriverò delle ghirlande e prenderò spunto dalla tua leera.
Alja, io non posso traenere le parole!
Io ti amo. Con estasi, coi cimbali.
este sono parole.
Tu hai cacciato il mio amore nella cornea telefonica. Sono io che parlo.
E le parole dicono: «Per te, lei è l’unica isola della tua vita. Da lei, non
c’è ritorno. Solo aorno a lei il mare ha colore».
E noi parliamo insieme.
Donna a me inaccessibile, lascia che il mio libro giaccia presso la tua
soglia, come il nero Tapu! Ma il libro è bianco. No, facciamo diversamente.
Senza rimproveri. Amata, lascia che il mio libro cinga il tuo nome, che lo
circondi, con un’enorme ghirlanda bianca immanente, imperitura,
IMMORTALE.101
Leera ventiquaresima

Malinconica, e in questo non si distingue dalle altre leere. Si parla dei


tedeschi, che sanno morire, delle donne che noi perdiamo, di Marc Chagall,
dell’abilità nel tenere la forchea e del significato del provincialismo nella
storia dell’arte.

Tu, ti senti legata al mondo della cultura. A quale, Alja? Ce ne sono


molti.
Ogni paese ha la sua cultura e uno straniero non può impossessarsene.
Il mio cuore duole per Pietroburgo, io penso alle sue strade lastricate; tu,
invece, non puoi tornare in Russia, tu ami la Francia, anche se non
moriresti di nostalgia per lei.
Tu sei una persona di cultura troppo paneuropea.
Se l’automobile non pesasse nulla, non potrebbe andare; il peso dà il
punto di appoggio alle sue ruote.
Io non ti scriverei questo, se non ti amassi.
Non tormentarmi dicendomi che, per te, io non ho alcun peso; il mondo
aorno ad Alja non ha peso.
Una famiglia tedesca, vicina di casa di Bogatyrëv, si è avvelenata col gas.
La madre ha lasciato un biglieo: «Al mondo non c’è posto per un
lavoratore tedesco».
Tedeschi, mi vergogno, ma non posso aiutarvi! Siete un grande popolo
che non dimentica la sua patria. ando morite, morite da tedeschi.
Alja, scusa per il mio amore malinconico, ma dimmi, in quale lingua,
morendo, pronuncerai la tua ultima parola?
Io ti dico diverse formule magiche, ti paragono a tui. Dicono che gli
uomini si rifugino nella psicosi per scelta, come in monastero. È più facile
immaginarsi cani, che vivere da esseri umani.
Ho voglia di fare a pezzi e di spargere per la cià tuo ciò che amo.
Non ci riesco.
Una volta, non molto tempo fa, ci siamo riuniti in uno studio sulla
Kleiststraße.102 Nella stanza c’erano dei pietroburghesi e dei moscoviti.
alcuno parlò di visti. Si racconta che un tempo, fino a un anno o due
fa, i russi parlavano tanto volentieri di visti, quanto una donna sposata
parla del parto.
Chissà come, anche quella volta, si finì nel discorso. La maggior parte
degli uomini era addiriura senza passaporto; vivevano perché assuefai.
Ma le donne!
Le francesi, le svizzere, le albanesi (parola d’onore), le italiane, le ceche e
in genere tue, vivevano sul serio e a lungo.
È un oltraggio per gli uomini sprecare le proprie donne.
Posso immaginare cosa succedeva a Costantinopoli!103
È terribile vedere destini simili. Il nostro amore, i nostri matrimoni, le
nostre fughe sono solo motivazioni.
Perdiamo noi stessi, diventiamo un tessuto conneivo.
Ma nell’arte c’è bisogno di elementi locali, vivi, differenziati (ecco una
parola per una leera!).
Noi perdiamo il talento, così come perdiamo le donne.
Tu ti senti legata alla cultura, sai di avere buon gusto, mentre io amo
cose di gusto diverso. Amo Marc Chagall.
Vidi Marc Chagall a Pietroburgo. Mi sembrava che somigliasse a N.N.
Evreinov;104 era tale quale un barbiere di un piccolo shtetl.
Booni di madreperla in un gilè fantasia. Un tale caivo gusto, da
rasentare il ridicolo.
Traspone sulle tele i colori del suo vestito ed il suo romanticismo
ebraico.
Nei suoi quadri non è europeo, ma di Vitebsk.
Marc Chagall non appartiene al mondo civilizzato.
È nato a Vitebsk, una piccola ciadina di provincia.
Più tardi, durante la rivoluzione, Vitebsk fiorì: vi crebbe una grande
scuola d’arte.105 A quel tempo accadeva spesso che fiorisse ora una cià,
ora un’altra: Kiev, Feodosija, Tiflis, una volta persino un villaggio sulla
Volga – Marksštadt106 – fiorì grazie ad un’accademia filosofica.
E così, i giovani di Vitebsk dipingono tui come Chagall, e per questo,
lui, è degno di lode; è riuscito ad essere vitebskiano sia a Parigi che a
Pietroburgo.
È giusto saper tenere la forchea, sebbene, in Europa, questo lo sappia
fare anche una signorina del Nachtlokal. Ancora meglio sapere quali
scarpe abbinare allo smoking e quali gemelli meere con una camicia di
seta. Per quanto mi riguarda, queste conoscenze mi sono poco utili.
Ma ricordo che in Europa tui sono europei, per dirio di nascita.
Ma nell’arte è necessario un odore particolare e solo un francese emana
odore francese.
In arte, un’idea e una nazione di barbieri non sono peggio di altre idee o
nazioni.
In questo campo non sono di aiuto i pensieri sulla salvezza del mondo.
È utile introdurre il provincialismo, incrociarlo con l’arte tradizionale. I
suonatori di balalajka, «Il Carosello», «L’uccello azzurro»,107 ecc., tuo ciò
è negativo, perché è un’imitazione del provincialismo russo.
esto disorienta la gente. Nuoce al lavoro futuro. Ai quadri, ai
romanzi.
E scrivere bene è difficile: i miei amici me l’hanno sempre deo.
Vivere sul serio fa male.
In questo, tu mi aiuti.
Leera venticinquesima

Sulla primavera, la Prager Diele, Erenburg,108 le pipe, il tempo che scorre, le


labbra che si rinnovano e il cuore che si logora, mentre le labbra altrui
perdono solo colore. Sul mio cuore.

Ci sono già see gradi sopra lo zero. Il paltò autunnale si è trasformato


in primaverile. L’inverno sta passando e, accada quel che accada, non mi
costringeranno a sopportare di nuovo un altro di questi inverni.
Speriamo nel nostro ritorno. La primavera arriva. Tu mi hai deo che in
primavera hai come l’impressione di avere perso o dimenticato qualcosa,
ma non riesci a ricordare cosa.
In primavera, a Pietroburgo ero solito passeggiare per i lungofiumi
indossando una mantella nera. Là, ci sono le noi bianche ed il sole si leva
quando i ponti non sono ancora abbassati. Trovavo molte cose sui
lungofiumi. Invece tu non troverai nulla, tu hai solo saputo notare
cos’avevi perduto. I lungofiumi a Berlino sono diversi, ma sempre belli. È
bello, seguendo la riva dei canali, entrare nei quartieri operai.
Là, in alcuni punti, i canali si allargano, formando tranquille insenature
e le gru stanno sospese sull’acqua. Come alberi.
Là, presso l’Hallesches Tor, oltre il luogo dove abiti tu, si erge la torre
rotonda della fabbrica di gas, come da noi a Pietroburgo sul canale
Obvodnyj. ando avevo dicioo anni, accompagnavo la mia innamorata
a quelle torri ogni giorno. I canali sono molto belli, anche quando lungo la
loro riva corre l’alta piaaforma della sopraelevata.
Comincio a ricordare che cosa ho perduto.
Grazie a Dio, è primavera.
La Prager Diele meerà i tavolini fuori, in strada, e Il’ja Erenburg vedrà
il cielo.
Il’ja Erenburg cammina per le strade di Berlino, come camminava per
quelle di Parigi e di altre cià in cui vivono gli emigranti, piegandosi,
come se cercasse per terra ciò che ha perso.
Tra l’altro, la similitudine non è esaa. Il suo corpo non è piegato in
due, solo la testa è abbassata e la schiena è incurvata. Il paltò grigio, il kepi
di pelle. Una testa assolutamente giovane. Lui ha tre professioni: 1) fumare
la pipa, 2) fare lo sceico, seduto al caè mentre pubblica «L’oggeo»,109
3) scrivere Chulio Churenito.110
Cronologicamente, l’ultimo Chulio Churenito si chiama Trust D.E.111
Erenburg emana dei raggi, questi raggi hanno nomi diversi, il loro segno
di riconoscimento è che fumano la pipa.
esti raggi riempiono la Prager Diele.
In un angolo della Prager Diele siede il maestro stesso, mostrando l’arte
di fumare la pipa, di scrivere romanzi e di prendere il mondo ed il gelato
con sceicismo.
La natura è stata generosa con Erenburg: lui possiede il passaporto.
Con questo passaporto vive all’estero. E ha migliaia di visti.
Non so che scriore sia Il’ja Erenburg.
Le sue prime cose non sono buone.
Su Chulio Churenito devo rifleere. È un’opera molto giornalistica, un
feuilleton con intreccio, con tipi convenzionali di persone ed il vecchio
Erenburg stesso con una preghiera; la vecchia poesia vi è presa come
modello convenzionale.
Il romanzo si sviluppa seguendo il Candide di Voltaire; ma con una
minor varietà d’intreccio.
Nel Candide l’intreccio ad anello è buono: finché cercano Cunegonda, lei
va con tui e invecchia. All’eroe tocca una vecchia, che rimpiange la pelle
vellutata di un bulgaro.
esto intreccio, o più esaamente l’aeggiamento critico verso il fao
che «il tempo passa» e avvengono dei tradimenti, era già stato elaborato
da Boccaccio. Là una donna (la fidanzata) passa di mano in mano ed infine
capita in sorte al marito, assicurandolo della sua verginità.
E, strada facendo, lei non aveva conosciuto solo mani. esta novella
termina con la famosa frase secondo cui le labbra non si rovinano; si
rinnovano semplicemente grazie ai baci.112
Ma non importa, presto ricorderò ciò che ho dimenticato. Erenburg ha
una sua ironia, i suoi racconti e i suoi romanzi non sono per i caraeri di
stampa seecenteschi. In lui c’è di buono il fao che non continua la
tradizione della grande leeratura russa e preferisce scrivere «cose da
poco».
Un tempo serbavo rancore a Erenburg per il fao che, trasformatosi da
caolico o slavofilo ebreo in costruivista europeo, non aveva dimenticato
il passato. Saulo non è diventato Paolo.113 Lui è Paolo, figlio di Saulo114 e
pubblica Calore animale.115
Non è solo un giornalista che sa raccogliere in un romanzo pensieri
altrui, lui è quasi un artista che sente la contraddizione fra la vecchia
cultura umanistica e il mondo nuovo, ormai costruito dalla macchina.
Fra tue queste contraddizioni, quella che mi rarista di più è che,
intanto che le labbra si rinnovano, il cuore si affligge e le cose dimenticate
si logorano con lui, senza essere state svelate.
Leera ventiseiesima

Sulla maschera, sui motori a baeria, sulla lunghezza del cofano del
motore della Hispano-Suiza, sui motori a combustione interna in generale e
sul fao che l’automobile Hispano-Suiza, se fosse un essere umano,
porterebbe anelli alle orecchie. Come automobilista dirò: la leera è piena di
una furia silente e di calunnie.

Oggi mi sono svegliato nel pieno della noe. Mi ha svegliato il fao che
non capivo cosa fosse l’oggeo che tenevo in mano.
L’oggeo si è rivelato essere una maschera nera di carta, ed io ero in
mezzo alla stanza.
È evidente che farei bene a prendere un periodo di riposo per curarmi.
Parlare d’amore mi fa male. Parleremo di automobili.
È triste andare in taxi!
La cosa più triste è viaggiare con un motore elerico. Il suo cuore non
bae, è carico, pieno di pesanti accumulatori, ma se si scaricano le baerie,
lui si ferma. In vita mia, ho messo in moto molte auto; alle volte mi hanno
colpito col contraccolpo; ho chiamato al lavoro molte persone.
Alle volte, anche a Berlino, si ha voglia di meere in moto un motore
sul quale l’autista non riesce ad avere la meglio; un paio di volte l’ho fao,
ma alla terza ho sbagliato nel modo più vergognoso.
Mi ero avvicinato per meerlo in moto, ma il motore era elerico, aveva
il radiatore contraffao e, naturalmente, era senza manovella. Come
meere in moto una macchina che non ha cuore, che non si mee in
moto? Il suo aspeo era falso, come un peino o dei polsini applicati;
davanti è posto il cofano, che sembra essere lì per il motore, e che invece,
magari, contiene degli stracci.
Fingono di essere motori a combustione interna.
Poveri emigranti russi!
Il loro cuore non bae.
A Berlino non si può, è maleducato parlare a voce alta in russo, per
strada. I tedeschi quasi bisbigliano. Vivi pure, ma taci.
Come un’automobile dall’accumulatore scarico, trascinati per la cià,
senza rumore e senza speranza. Sfrua, traenendo il respiro, tuo quello
che hai e, dopo averlo sfruato, muori.
Le nostre baerie sono state caricate in Russia, qui giriamo, giriamo, ma
presto ci fermeremo. Le piastre di piombo degli accumulatori
diventeranno un semplice peso.
L’acido si inacidirà.
I giornali russi di Berlino emanano un’acre pesantezza.
Ho scrio parole acri e pesanti.
Meglio parlare di marche di automobili.
A te piace la Hispano-Suiza?
Sbagli! Non tradirti.
A te piacciono le cose care e in un negozio troveresti ciò che vi è di più
caro, anche se di noe fossero stati mischiati tui i cartellini dei prezzi. La
Hispano-Suiza? Non è una buona macchina.
Auto oneste, generose, con un’andatura sicura, sulle quali l’autista siede
di fianco, fiero della sua impotenza, sono la Mercedes, la Benz, la Fiat, la
Delaunay-Belleville, la Packard, la Renault, la Delage e la costosissima, ma
formidabile Rolls-Royce, che ha un’andatura straordinariamente agile. In
tue queste auto, la faura del telaio estrinseca la struura del motore e
della trasmissione e, inoltre, è concepita per una minore resistenza all’aria.
In genere, le macchine da corsa hanno il muso lungo e sono alte davanti;
questo si spiega col fao che, proprio una tale forma, ad alta velocità,
oppone meno resistenza all’aria. Hai notato, Alja, che un uccello vola
meendo avanti il suo largo peo e non la coda appuntita?
La lunghezza del cofano del motore è data, naturalmente, dalla quantità
dei cilindri del motore (quaro, sei, raramente oo, dodici) e dal loro
diametro. La gente è abituata alle auto col muso lungo. La Hispano-Suiza è
un’auto a corsa lunga, cioè ha un’ampia distanza fra il punto morto
inferiore e quello superiore. esta macchina ha un alto numero di giri, è
forzata, per così dire, è una macchina che annusa cocaina. Il suo motore è
alto e affusolato.
Sono fai suoi.
Comunque, il cofano della macchina è lungo.
In questo modo la Hispano-Suiza si maschera dietro al suo cofano; ci
sono quasi seanta centimetri di distanza fra il radiatore ed il motore.
esti seanta centimetri di menzogna, messi lì per gli snob, violano la
faura e mi mandano su tue le furie.
Se mai ti odierò, se mai potrò cantare:

Scomparite o sentieri,
Per i quali passeggiavo!

allora, invece di mandare la tua memoria al diavolo, la spedirò proprio


in questo vano della Hispano-Suiza.
La tua Hispano-Suiza è cara, ma non vale niente. Spesso, al posto della
portiera, meono delle carrozzerie con sedili ribaltabili di lato. Deve
piacere ai gigolo.
Ha un’inclinazione del volante disdicevole e se fosse un uomo avrebbe
anelli alle orecchie. La tua Hispano-Suiza non ha il radiatore al posto
giusto, porta polsini applicati. Non ti amerà mai. E tuo questo per me è
più interessante del destino dell’emigrazione russa.
D’altronde, la Hispano-Suiza ha il record di lunga percorrenza su
percorsi montuosi.
Leera ventiseesima

Sul principio di relatività e su un tedesco con anelli alle orecchie. Si


racconta anche la fiaba del topolino trasformato in fanciulla.

Davvero può essere esotico un uomo che porta anelli alle orecchie?
Secondo me, solo alle mascherate.
E con pantaloni chic, «ma troppo ampi per un uomo che si rispei». Un
uomo che porta in strada un copricapo di castoro.
E tu hai perso la testa per lui!
Che fare, Alja, da te imparo il principio della relatività.
D’altronde, ecco una fiaba.
Un eremita trasformò un topolino di cui si era innamorato (strano
amore, ma cosa non si farebbe a Berlino per solitudine) in una fanciulla.
La fanciulla non amava l’eremita. Lui era geloso di lei. Lei gli diceva:
«Ma che razza d’amore è il tuo?». La fanciulla diceva anche: «Prima di
tuo, voglio la libertà. È meglio che tu te ne vada».
L’eremita la chiamò al telefono e le disse: «Oggi, è un bel giorno!».
La fanciulla disse: «Non sono ancora vestita».
L’eremita disse: «Aspeerò. Andiamo, ti porterò per negozi».
La fanciulla fece acquisti.
Poi, l’eremita la portò fuori cià, sul Wannsee.116
Il sole era ancora alto.
Tuavia, i negozi erano molti.
Lui disse: «Vuoi essere la moglie del sole?».
In quel mentre una nuvola oscurò il sole.
La fanciulla disse: «La nuvola è più potente».
L’eremita era arrendevole, soprauo con la fanciulla.
Disse: «Se vuoi, la nuvola sarà il tuo sposo!».
In quel momento il vento scacciò la nuvola.
La fanciulla disse: «Il vento è più potente».
L’eremita cominciò ad irritarsi.
Il telefono gli aveva rovinato i nervi.
Urlò: «Ti darò in sposa al vento!».
La fanciulla, offesa, rispose: «Non ho bisogno del vento, fa caldo e non
fa corrente. esta montagna mi ripara dal vento. La montagna è più
forte».
L’eremita capì che le donne nei negozi scelgono sempre a lungo e la
fanciulla credeva di essere al negozio Marbach. Rispose pazientemente,
come un commesso: «E sia la montagna!».
A quel punto il viso della fanciulla si illuminò. Si rallegrò tua.
L’eremita credee quasi di essere felice. Lei puntò il dito verso i piedi
della montagna, e disse: «Guarda!».
L’eremita non vedeva nulla.
«Com’è bello, com’è possente, è più forte della montagna, ecco un
essere come me, e com’è vestito!».
«Ma chi?» chiese l’eremita.
«Il topolino, caro eremita!» disse la fanciulla. «Guarda, ha rosicchiato la
montagna; è già innamorato di me».
«Va bene» disse l’eremita «lui, almeno, lo amerai per davvero, e meno
male che non ti sei innamorata di un uomo uscito da un’operea».
E baciò la fanciulla-topo sulle orecchie rosee e la lasciò andare, dandole
un passaporto sorcino. Fra l’altro, con questo passaporto, si oiene la
residenza in qualunque paese.
Leera ventoesima

L’ultima di Alja. In cui Alja dice come si scrivono le leere d’amore.


esta leera termina con una frase crudele: «Smei di scrivere quanto,
quanto, quanto mi ami, perché al terzo “quanto” comincio a pensare a
qualcos’altro». L’autore del libro augura sinceramente ai suoi leori di non
ricevere mai leere del genere.

Tu non rispei gli accordi.


Mi scrivi due leere al giorno.
Si sono accumulate molte leere.
Ho riempito un casseo della scrivania, ho ricolmato le tasche e la
borsa.
Tu dici di sapere com’è fao il Don Chiscioe, ma non sei capace di
scrivere una leera d’amore.
E diventi sempre più irritabile.
Inoltre, quando scrivi d’amore affoghi nel lirismo ed emei bollicine…
(ti scrivo dal ristorante «Sud», composta, sola, mentre aendo una
cotolea). Di leeratura capisco poco (anche se tu, da adulatore quale sei,
dici che ne capisco quanto te), ma di leere d’amore me ne intendo. Non
per caso dici che quando entro da qualche parte, capisco subito i rapporti
fra le cose e le persone.
Tu parli di te, ma quando parli di me, mi rimproveri. Non si scrivono
leere d’amore per il proprio piacere personale, così come un vero
amante, in amore, non pensa a sé.
Con vari pretesti scrivi sempre di una sola cosa. Smei di scrivere
quanto, quanto, quanto mi ami, perché al terzo «quanto» comincio a
pensare a qualcos’altro.

ALJA
Leera ventinovesima

E ultima. È indirizzata al Comitato Centrale Esecutivo Panrusso. Vi si


parla di nuovo dei dodici ponti di ferro. esta leera contiene una richiesta
di permesso di rientro in Russia. In fondo alla leera si riporta una storia
avvenuta a Erzurum.117

RICHIESTA INDIRIZZATA AL
COMITATO CENTRALE ESECUTIVO PANRUSSO

Non posso vivere a Berlino.


Il mio modo di vita, le mie abitudini mi legano alla Russia di oggi. Posso
lavorare solo per lei.
È sbagliato che io viva a Berlino.
La rivoluzione mi ha rigenerato, senza di lei mi manca l’aria. i si può
solo soffocare.
L’angoscia berlinese è amara come la polvere di carburo. Non stupitevi,
se scrivo questa leera, dopo aver scrio leere ad una donna.
Non sto affao immischiando una storia d’amore in quest’affare. La
donna alla quale ho scrio non è mai esistita. Forse ne è esistita un’altra,
una buona compagna e amica, con la quale non sono riuscito a intendermi.
Alja è la realizzazione di una metafora. Ho inventato una donna e un
amore per un libro sull’incomprensione, su persone estranee, su una terra
straniera. Voglio tornare in Russia.
ello che è stato, è passato: la giovinezza e la disinvoltura mi sono
stati portati via dai dodici ponti di ferro.
Alzo le mani e mi arrendo.
Lasciate tornare in Russia me ed il mio ingenuo bagaglio: sei camicie
(tre a casa e tre in lavanderia), un paio di stivali gialli che, per errore, sono
stati puliti con del lucido nero, dei vecchi pantaloni blu, che ho cercato
invano di stirare con la piega.
E una cravaa, che mi è stata regalata.
Ma i pantaloni che indosso hanno la piega. Si è faa quando mi hanno
schiacciato come una pizza.
Non ripetete la vecchia storia di Erzurum: durante la presa di questa
fortezza, il mio amico Zdanevič118 passava di lì. Su entrambi i lati della
strada giacevano dei soldati turchi uccisi a sciabolate. Tui erano stati
colpiti al braccio destro ed alla testa.
Il mio amico chiese:
«Perché sono stati colpiti tui al braccio e alla testa?».
Gli risposero:
«È molto semplice: i turchi, quando si arrendono, alzano sempre il
braccio destro».
Leere e introduzioni
apparse nelle edizioni successive
Edizione del 1924
Introduzione 119

ante parole sono proibite!


A dire il vero, tue le parole belle hanno perso i sensi.
Sono vietati i fiori, la luna, gli occhi ed intere serie di parole che narrano
di ciò che fa piacere vedere.
Ed io vorrei scrivere come se la leeratura non fosse mai esistita.
Scrivere, per esempio: «Stupendo è il Dnepr quando è bel tempo».120
Non posso, l’ironia divora le parole. L’ironia è necessaria; è il mezzo più
semplice per superare la difficoltà di rappresentare le cose.
Rappresentare il mondo in modo comico è la cosa più semplice.
Ed ecco che adesso una luna enorme, quasi vera, guarda araverso la
mia finestra.
Un’automobile corre via, seguendo la lunga strada tedesca, fra nudi
alberi fioriti, in lontananza.
este cose non sono connesse le une alle altre. La mia casa è lontana.
Permeetemi di essere sentimentale. La vita mi coglie in esilio e fa di me
ciò che vuole.
Non ho il telefono, per telefonare a Boris Ejchenbaum. Non c’è neppure
Tynjanov.121 Roman122 non si occupa più di poetica. Sono solo.
Il soldato ubriaco torna sobrio sul suo cavallo, ma un uomo solo è un
ubriaco senza rimedio.
Ad eccezione di Ivan Puni, non ho amici a Berlino.
Eccovi il progeo del libro.
Un uomo scrive leere ad una donna.
Lei gli vieta di parlare d’amore.
Lui si rassegna a questo divieto e comincia a parlarle di leeratura.
Per lui, questo è un modo per fare la ruota.
Ma ecco che, da dietro le quinte, compaiono dei rivali.
Sono due: 1) un inglese, 2) un tipo con anelli alle orecchie.
Le leere cominciano ad ingiallire di rabbia.
Un uomo dai modi russi in Europa è ridicolo come un cane peloso ai
Tropici.
La donna materializza l’errore.
L’errore si realizza.
La donna infligge un colpo.
Il dolore è reale.
E il libro è più serio della sua introduzione.
Ma io sono loquace nell’introduzione al mio libro, come una donna che
parla tanto, perché non vuole smeere di parlare.
Edizione del 1924
Leera introduiva

È indirizzata assolutamente a tui. Argomento della leera: le cose


trasformano l’uomo.

Se io avessi un secondo vestito, non conoscerei affao il dolore.


Arrivare a casa, cambiarsi, meersi in ordine – è sufficiente per sentirsi
diversi.
Le donne si servono di questo accorgimento diverse volte al giorno.
alunque cosa voi diciate ad una donna, cercate di avere la risposta
subito; diversamente farà un bagno bollente, si cambierà d’abito e
bisognerà ricominciare a dirle tuo dall’inizio.
Dopo essersi cambiate, si scordano persino i gesti.
Vi consiglio caldamente di oenere da una donna una risposta
immediata. Diversamente, vi capiterà spesso di trovarvi smarriti di fronte
ad una nuova parola inaesa.
Nella vita delle donne la sintassi quasi non esiste.
L’uomo, invece, è trasformato dal suo mestiere.
Non solo lo strumento prolunga la mano dell’uomo, ma ne è, a sua volta,
un prolungamento.
Si dice che il cieco localizzi il senso taile nella punta del suo bastone.
Non sono particolarmente affezionato alle mie scarpe e tuavia sono un
mio prolungamento, una parte di me.
Anche il bastone da passeggio cambiava l’aspeo del liceale, per questo
gli era proibito.
La scimmia sul ramo è più naturale, ma anche il ramo influisce sulla sua
psicologia.
La psicologia della mucca che cammina sul ghiaccio scivoloso è
divenuta proverbiale.
Più di tuo, è la macchina che muta l’uomo.
Lev Tolstoj in Guerra e pace racconta come il timido e modesto artigliere
Tušin, durante la baaglia, si sia ritrovato in un mondo nuovo, creato dalla
sua artiglieria.
«In conseguenza di quel tremendo rombo, del frastuono, del bisogno di
vigilare e d’agire, Tušin non provava neanche l’ombra d’uno spiacevole
sentimento di paura… Al contrario, si sentiva crescere dentro, sempre più,
l’allegria… L’assordante rimbombare da tue le parti dei suoi propri
cannoni, il sibilare e il cadere dei proieili nemici, la vista di quegli
artiglieri sudati, affocati, che si affannavano intorno ai cannoni, la vista di
quel sangue d’uomini e di cavalli, la vista di quei fiocchi di fumo nemici
dal versante di fronte (dopo ciascuno dei quali arrivava a volo una granata
che colpiva la terra, un uomo, un pezzo o un cavallo), la vista di tuo
questo complesso di cose che lo aorniavano, aveva finito col formargli
nell’intimo un suo personale mondo fantastico, che in quel momento gli
procurava piacere… anto a se stesso, si figurava di essere un gigantesco,
formidabile uomo, il quale, a due mani, scagliasse granate contro i
francesi».123
Il mitragliere ed il contrabbandiere sono il prolungamento dei loro
strumenti.
La metropolitana, le gru e le automobili sono protesi dell’umanità.
Mi è capitato di dover trascorrere alcuni anni in mezzo agli autisti.
Gli autisti cambiano in rapporto alla potenza dei motori sui quali
viaggiano.
Un motore che superi i quaranta cavalli è già in grado di annientare la
vecchia morale.
La velocità separa l’autista dall’umanità.
Accendi il motore, dai gas e sei già fuori dallo spazio ed è come se il
tempo fosse misurato solo dal tachimetro.
Su strada, un’automobile può fare più di 100 chilometri all’ora.
Ma a che serve questa velocità?
È necessaria solo a uno che scappa o a uno che insegue.
Il motore trascina l’uomo verso ciò che giustamente viene definito reato.
Per fortuna, di solito, l’autista russo è un buon lavoratore.
Viaggia lungo strade che ricordano le onde, ripara l’auto nella steppa,
quando il freddo e la benzina gli gelano le mani.
Eppure l’autista non è un operaio; sull’auto lui è solo.
La sua auto lo inebria, la velocità lo ubriaca, lo separa dalla vita.
Non bisogna dimenticare i meriti dell’automobile dinanzi alla
rivoluzione.
Il reggimento Volynskij non si decise subito ad uscire dalle caserme.124
I reggimenti russi di solito si ammutinavano restando sul posto.
I decabristi125 furono sconfii sul posto.
I membri del Volynskij abbandonarono le caserme, ma erano ancora
indecisi. Venivano loro incontro altre truppe. I reggimenti si radunavano e
si fermavano.
Intanto le porte delle autorimesse venivano prese a sassate e gli operai
sfrecciavano, strombeando, verso la cià, sulle auto di cui si erano
impossessati.
O automobili, avete sparso la rivoluzione sulla cià come una schiuma.
La rivoluzione aveva innestato la marcia ed era partita.
Le molle si piegarono, si piegarono i parafanghi delle auto, le macchine
scorrazzavano per la cià e là, dove ce n’erano due, pareva ce ne fossero
oo.
Amo le automobili.
In quel momento tuo il paese fu colto da un fremito. La rivoluzione
araversò un periodo spumeggiante e se ne andò a piedi al fronte e nelle
campagne.
Ma le auto proseguirono per la loro strada, continuarono la loro vita.
elli che guidavano il paese se ne andavano in giro sulle auto.
Ma anche coloro che guidavano solo le auto, viaggiavano su di esse.
Alle volte, per conto loro.
Alle volte saccheggiavano tuo quello che capitava, dove capitava. Il
boino era esiguo, ma talvolta, la velocità gratifica da sola.
Requisivano l’alcool. Lo facevano in due modi.
O inviavano segretamente un acquirente e quando l’alcool faceva la sua
comparsa, irrompevano con un falso mandato, e facevano la requisizione.
Oppure ricercavano l’acquirente e gli requisivano i soldi, non appena lui
li tirava fuori.
Agivano così coloro, le cui teste non sopportavano la velocità.
L’alcool che vendevano gli autisti era diverso, conteneva benzina e
cretonne,126 era il carburante per le macchine.
E questo perché Baku era isolata.127
A quel tempo in Russia esisteva una sola pena: quella di morte.
Vi eravamo abituati.
Le pistole si chiamavano špalery.
Deriva dal dialeo yiddish špaler, che in yiddish significa uno che sputa.
In un appartamento, in cui vendevano vodka, c’era un cartello sul muro:
«Bevande da consumo e asporto».
E il padrone portava un grembiale di tela rozza.
La pena di morte per lui era la norma; era come una multa per un
tedesco.
Nel fraempo il paese si cristallizzava.
Le marce si soomeevano l’una all’altra.
Comparvero i buoni ed i lasciapassare.
I più forti fra quelli che amavano la velocità erano al fronte.
E la velocità trovò una giustificazione.
Ma nella nera Mosca, nella Mosca nera e rossa, là dove le strade si erano
pietrificate, avvinghiandosi aorno al Cremlino come si arrotola la pasta
aorno al cucchiaio, la gente andava a piedi.
Era una cià pedonale.
Poi comparve una banda. Grandi macchine nere correvano lungo i
marciapiedi, vicine, silenziose.
Sceglievano.
Dopo aver scelto una donna, l’afferravano, la trascinavano nell’auto e la
portavano via alla massima velocità che può raggiungere un’automobile
impazzita.
Portavano le donne fuori cià, e là le violentavano.
Così andò avanti a Mosca per alcuni giorni.
Violentarono una donna. Più tardi, durante l’inchiesta, raccontò: «Sono
ferma, in piedi e tremo, con la pelliccia in mano».
L’autista domanda: «Perché non indossa la pelliccia, signorina?»
Era signorina.
«Così me la porterete via».
«Noi non rubiamo».
Ma coloro che dominavano la velocità, presero la banda.
Li processarono, ammisero tuo e, alla domanda «Perché l’avete fao?»,
risposero «Ci annoiavamo».
Li uccisero.
Non conosco i loro nomi e non li difenderò.
Ma io, da persona che possedeva la velocità, ma che non possedeva
scopo alcuno, vorrei dire alcune parole.
Non è un’orazione funebre.
esti uomini, ciadini, non erano peggiori di altri.
Erano giovani meccanici, che sapevano aggiustare le auto e che
sapevano quanto è freddo il ferro quando gela.
La velocità del motore ed il suono del clacson li avevano portati fuori
strada.
Nella Mosca piena di pedoni, il motore aveva indoo l’autista al reato.
L’arma rende l’uomo più coraggioso.
Il cavallo lo trasforma in cavaliere.
Le cose fanno dell’uomo ciò che lui fa di loro.
La velocità richiede uno scopo.
Le cose si moltiplicano aorno a noi; adesso sono dieci, cento volte più
numerose di duecento anni fa.
L’umanità le domina, l’uomo singolo no.
È necessario che il singolo si impossessi del segreto della macchina, è
necessario un nuovo romanticismo perché le macchine non si sbarazzino
dell’uomo alle svolte della vita.
Io ora mi sento smarrito, perché questo asfalto, reso lucido dai
pneumatici delle auto, queste pubblicità luminose, le donne eleganti, tuo
questo mi trasforma. Io qui non sono quello che ero e ho l’impressione di
essere caivo.
Edizione del 1924
Leera quaordicesima

Costituisce un capitolo indispensabile della Storia dell’intelligencija


russa.128 In questa leera compare la parola esploratore. Tua la leera è
indecente ed io spero che non sia mai stata spedita.

Hai ragione. Ho fao una sciocchezza con quell’inglese.129


Ma io mi osservo da fuori; temo il mio destino.
Il destino leerario. Divento parte di un libro.
La leeratura russa ha una brua tradizione.
La leeratura russa è consacrata alla descrizione degli insuccessi
amorosi.
Nel romanzo francese, l’eroe è il vincitore.
La nostra leeratura, dal punto di vista maschile, è un intero libro di
dolenze.
Povero Onegin. Tat’jana130 viene data ad un altro.
Povero Pečorin, senza Vera.131
Anche in Lev Tolstoj, che non è uno scriore lezioso, c’è dolore. Cosa si
poteva inventare di più affascinante di Andrej Bolkonskij.
Intelligente, coraggioso, ben educato, parla come Tolstoj, disprezza
persino le donne.
Ma per i francesi non sarebbe stato lui l’eroe, bensì Anatol’ Kuragin.
Bello e villano.
Avrebbe avuto Nataša, ed anche Maria.
Andrej Bolkonskij si trova nella stessa stupida posizione di tui i
protagonisti della Storia dell’intelligencija russa.
Chaplin diceva che la situazione più comica per un uomo si verifica
quando questi, trovandosi in una posizione incredibile, finge che non sia
accaduto nulla.
Per esempio, è comico un uomo che, penzolando a testa in giù, cerca di
aggiustarsi la cravaa.
Noi tui viviamo, cercando di aggiustarci la cravaa.
Ma la mia cravaa (quella che mi hai regalato tu), non si è ancora
abituata al mio collo.
Ed io, essendo capitato in una situazione leeraria, non so che fare.
Sembra che sia ammesso scherzare e concedersi qualche licenza verbale.
Dunque.
ando avviene la monta dei cavalli – tuo ciò è davvero indecente, ma
senza di questo i cavalli non ci sarebbero – spesso la giumenta è nervosa,
ha un riflesso di difesa (probabilmente faccio un po’ di confusione) e non
si arrende.
Può anche colpire lo stallone con un calcio.
Lo stallone di razza (Anatol’ Kuragin) non è adao agli insuccessi
d’amore.
Il suo cammino è cosparso di rose e solo il surmenage può porre fine alle
sue avventure galanti.
Si prende allora uno stallone di piccola statura (il suo animo può essere
il più nobile) e lo si fa avvicinare alla giumenta.
I due flirtano tra loro, ma non appena cominciano a meersi d’accordo
(non nel senso leerale del termine), immediatamente il povero stallone
viene trascinato via per la colloola ed alla femmina viene portato il
riproduore.
Il primo stallone è chiamato esploratore.
Nella leeratura russa, l’esploratore alla fine è anche costreo a
pronunciare qualche nobile parola.
Il mestiere dell’esploratore è duro e si dice che costoro, alle volte,
finiscano addiriura pazzi o si suicidino.
Il destino dell’intelligencija russa si regge su questo mestiere.
L’eroe del romanzo russo è un esploratore.
Volevo nominare qualche eroe in particolare.
Ma non posso, suonerebbe come un’offesa.
Nella rivoluzione abbiamo giocato il ruolo degli esploratori.
esto è il destino dei gruppi intermedi.
L’emigrazione russa è un’organizzazione di esploratori politici, privi di
coscienza di classe.
Diversamente non potrebbero andare per strada.
Che tristezza!
Comunque, non parlerò d’amore.
Vedi, scrivo sempre di leeratura.
Edizione del 1924
Leera diciasseesima

Sul giapponese Taracuki e sul suo amore per Maša. Sulla triste somiglianza
degli uomini di tui i colori. Sul Fujiyama. La leera termina con un
rimprovero.

Io sono molto sentimentale, Alja.


esto, perché vivo seriamente.
Forse, tuo il mondo è sentimentale.
el mondo, di cui io conosco l’indirizzo.
ello che non balla il fox-trot.
In Russia, nel 1913, avevo un allievo, un giapponese. Il suo cognome era
Taracuki.
Lavorava come segretario all’ambasciata giapponese.
E nell’appartamento in cui viveva c’era la cameriera Maša, originaria di
Sol’cy.
Tui si innamoravano di Maša: i custodi, gli inquilini, i faorini, i
soldati.
Ma lei non aveva bisogno di nulla. A Sol’cy aveva già una figlia di sei
anni, che chiamava la madre «stupida».
Nella stanza di Taracuki faceva caldo.
Spesso, sedevo accanto a lui e gli leggevo Tolstoj.
Leggevo sempre troppo in frea.
Il viso di Taracuki ed il mio si rifleevano nello specchio, appeso alla
parete.
Il mio viso mutava in continuazione, il suo era immobile, come fosse
coperto da un guscio, invece che dalla pelle.
Mi sembrava che fra noi due ci fosse un solo essere umano. Non
conoscevo l’indirizzo del suo mondo.
Taracuki si innamorò di Maša.
Lei rideva fino alle lacrime, quando ne parlava.
Lui l’accompagnava, quando lei passeggiava col cagnolino bianco.
Taracuki l’amò nel 1914, 1915, 1916, 1917, 1918.
Cinque anni.
Una volta, venne da Maša e le disse: «Ascoltami, Maša!
«Ho una nonna, vive in un giardino, sul grande monte Fujiyama.
«È molto aristocratica e mi vuole bene; inoltre, in quel giardino, corre la
sua adorata scimmia bianca.
«(Non stupitevi dello stile di Taracuki: sono io che gli ho insegnato la
lingua russa).
«Di recente la scimmia bianca è scappata.
«La nonna me lo ha scrio.
«Ed io le ho risposto che amo una donna di nome Maša e che le chiedo
il permesso di sposarmi. Desideravo che tu venissi accolta in famiglia.
«La nonna mi ha risposto che la scimmia è tornata, che lei è molto felice
e acconsente al matrimonio».
Ma a Maša sembrava molto ridicolo che Taracuki avesse una nonna
gialla sul Fujiyama.
Rideva e non voleva nulla.
Poi venne la rivoluzione.
Taracuki cercò Maša e la trovò senza lavoro e cominciò di nuovo a
pregarla.
«Maša, qui non capiscono nulla. Non finirà presto, ci sarà molto sangue.
Andiamo da me in Giappone».
La rivoluzione continuava.
Taracuki convocò Maša in ambasciata.
In ambasciata facevano le valigie.
Maša ci andò.
Li ricevee l’ambasciatore che disse freolosamente:
«Signorina, lei non capisce quello che fa; il suo fidanzato è un uomo
ricco e aristocratico, sua nonna è d’accordo. Ci pensi, non si lasci sfuggire
la felicità».
Maša non rispose nulla.
Ma quando uscirono in strada, così rispose al suo giapponese:
«Non andrò da nessuna parte» e lo baciò sulla testa rapata.
Taracuki si recò da lei ancora una volta.
Era molto triste. Le disse:
«Cara Maša. Se non vieni con me, regalami il cagnolino bianco col quale
vai a passeggio».
Dal momento che c’era la carestia e non c’era nulla di cui nutrire il cane,
Maša glielo regalò.
L’ultima leera di Taracuki arrivava da Vladivostok. Ecco cosa vi era
scrio:
«Ho portato qui il tuo cane e presto proseguirò il viaggio con lui, nel
tuo paese la vita sarà molto dura per te, aspeo una risposta, scrivi, ed io
verrò a prenderti».
Ma la leera fece appena in tempo ad arrivare che la ferrovia saltò in
centinaia di punti.
Ma Maša non avrebbe risposto comunque.
Lei rimase.
Come prima, tui l’amavano.
Non aveva paura della rivoluzione, perché lei non aveva una nonna
gialla e aristocratica.
Adesso lavora in fabbrica.
Una fabbrica di «preparati bellico-sanitari» – mi sembra una cosa del
genere.
ando ricorda il giapponese, le dispiace per lui.
Tui le vogliono bene. È una vera donna, è come l’erba; sembra priva di
nome e amor proprio; lei vive, senza accorgersi di sé.
Anche a me dispiace per il giapponese.
E penso che avevo fao male a guardare lo specchio e avevo sbagliato a
pensare che io ed il giapponese fossimo diversi.
esto giapponese mi somiglia molto.
Non credo che ciò contribuirà al consolidamento della potenza militare
del suo paese.
E tu non sei Maša.
Nel tuo cielo, al posto delle stelle, c’è il tuo indirizzo.
D’altronde, tuo ciò più che bello è triste.
Edizione del 1924
Leera ventunesima

In cui ci si lamenta perché la sofferenza è troppo breve. Lui è troppo


esigente. Di dolore ne ha abbastanza per un fazzoleo intero. Inoltre, nella
leera, viene data una nuova variante di una famosa fiaba.

Te lo giuro… presto finirò il mio romanzo.


Donna che non mi risponde!
Hai ricacciato il mio amore nella cornea del telefono.
Il mio dolore viene da me e si siede al mio stesso tavolo.
Io discorro con lui.
Tuavia il doore dice che la mia pressione sanguigna va bene e che la
mia allucinazione è solo un fao leerario.
Il dolore viene da me. Parlo con lui, e mentalmente conto i fogli.
Sembrano solo tre.
Che dolore breve.
Bisognerebbe acquisirne un altro, di dimensioni internazionali.
Tuavia, poteva andare diversamente.
Non ne sono stato capace.
Sono riuscito solo, come tu mi hai ordinato, a procurarmi sei camicie.
«Tre a casa, e tre in lavanderia».
Avevo bisogno di spezzarmi e mi sono trovato un amore che mi
spezzasse.
Un uomo affilava il coltello sulla pietra. Non aveva bisogno della pietra,
anche se vi stava piegato sopra.
Preso da Tolstoj.132
Dove è scrio meglio e in modo più prolisso.
Nel mio destino era tuo predeterminato.
Ma poteva anche andare diversamente.
Darò al romanzo un secondo scioglimento.
Sarà preso da Andersen.133
Rappresenta ciò che poteva accadere.
Viveva un principe.
Aveva due preziosi gioielli: una rosa, cresciuta sulla tomba della madre,
e un usignolo che cantava così dolcemente da farti perdere l’anima.
Si innamorò della principessa di un regno vicino e le inviò:
1) La rosa.
2) L’usignolo.
La principessa regalò la rosa all’istruore di painaggio e l’usignolo
morì tre giorni dopo: non riuscì a sopportare l’odore di profumo e di
cipria.
Da questo momento in poi il racconto di Andersen è tuo sbagliato.
Il principe non si travestì affao da guardiano di porci.
Prese a prestito dei soldi, acquistò calze di seta e scarpe a punta.
In un giorno imparò a sorridere, in due a tacere, in tre mesi si abituò
all’odore della cipria.
Regalò alla principessa:
1) Una raganella, al cui suono si poteva danzare lo shimmy.
2) Uno strano giocaolo, che speegolava: probabilmente un libreo
con dedica.
La principessa gli diede un vero bacio.
La noe in cui la principessa andò dal principe era assolutamente nera,
piovosa.
La principessa, sicura, bussò.
Il principe scivolò giù lungo lo scorrimano: gli sembrava che bussassero
tue le noi ed aveva imparato a scivolare sullo scorrimano a meraviglia.
Aprì la porta e (lo dirò per il cubismo) il vento lanciò nel quadrilatero
prismi di pioggia e il seore sferico di un ombrello.
Il principe riconobbe immediatamente l’ombrello.
Si inchinò più in basso dei suoi piedi (stava sulla soglia) e disse:
«Entrate, principessa, nella vostra casa».
Lei entrò: pioveva.
Era così stanca che salì le scale senza neppure chiudere l’ombrello.
Il principe la fece accomodare davanti al camino, accese il fuoco,
apparecchiò la tavola; dopodiché voleva andar via. Voleva regalarle:
1) La rosa.
2) L’usignolo.
Il principe era distrao.
Fu in quel momento che un pesce frio si mise a ridere.
Il pesce frio ride nelle fiabe orientali. I deagli li fornirò in altri miei
scrii.
Nella leeratura europea, per quanto ne sappia, ha riso per la prima
volta grazie a me.
Ride quando vede che qualcuno, invece della raganella, ha regalato il
proprio cuore.
E questa volta rideva a crepapelle, dimenava la coda e faceva schizzare
la salsa.
«Principe» disse «perché rovini le fiabe altrui?».
«Andersen mi ha calunniato» rispose il principe.
«La mia casa ed il mio cuore appartengono alla principessa».
«Colui che è amato, non è mai colpevole. E tu stai tranquillo e non far
schizzare la salsa, perché ora la principessa ti mangerà».
«Tu stesso sei mangiato, o principe arrosto» disse il pesce.
Così disse e morì per la seconda volta, di noia: non amava la
principessa.
Ed ecco un secondo possibile scioglimento per il romanzo.
La principessa vive nella stessa casa del principe, in quanto in cià ci
sono pochissimi appartamenti liberi.
Il principe è diventato un costruore di giocaoli: accomoda
grammofoni e fa raganelle, al cui suono si può danzare lo shimmy.
La principessa dorme nella sua casa.
Ma balla e dorme con altri.
Risulta che fra un punto ed una rea si possono tracciare diverse
perpendicolari.
Tuo ciò si può capire se si conosce bene la geometria non euclidea,
oppure se si è arrivati al punto in cui un gioco di parole fa ridere, tanto
quanto un’ulcera gastrica.
Tuo questo sul «quanto».
Tue le mie leere parlano di «quanto» io ti amo.
Edizione del 1929
Seconda introduzione alla terza edizione 134

Mio caro passato, sei sfiorito.


Sono sfioriti i marciapiedi mautini delle strade berlinesi.
I mercati, cosparsi di bianchi petali di meli in fiore.
I rami dei meli, nei secchi, si ergevano sui lunghi banchi del mercato.
Più avanti, in estate, c’erano rose dal gambo lungo, probabilmente erano
rose rampicanti.
Le orchidee si trovavano nel negozio di fiori della Unter den Linden,135
ma io non le ho mai comperate.
Camminavo per le strade di Berlino, innamorato, come una vela al
vento. Con un po’ di buona volontà ci si può raccapezzare in questa frase.
Poi ho rifao questo libro, quando faceva ancora male. Ma ormai, da
tempo, quel pezzeo di cuore tagliato è stato portato via. Mi dispiace
soltanto per quel passato: per l’uomo che è stato.
Ho un eroe, perché il libro ormai non è più scrio su di me. L’ho
lasciato (il mio vecchio io) in questo libro, così come nei vecchi romanzi si
lasciava su un’isola deserta il marinaio colpevole.
Vivi, caro, qui ci sono calore e sentimento. Vivi, caro, io non ti
modificherò. Siedi, osserva il tramonto. Le leere che non figuravano nella
prima edizione, furono veramente scrie da te, ma tu, allora, non le
spedisti.

27 luglio 1928

P.S.Mi rigiro fra le introduzioni di questo libro, come un uomo che non
riesce a dormire.
Edizione del 1929
Leera ventunesima, breve

Anche se tu scrivi alle altre le tue leere azzurre, io ti amo.

ALJA136
Edizione del 1964
Prefazione 137

Un uomo, solo, cammina sul ghiaccio,138 avvolto nella nebbia. Gli sembra
di camminare dirio. Il vento porta via la nebbia: l’uomo vede la sua meta,
le sue tracce.
Risulta che il blocco di ghiaccio, galleggiando, ha cambiato direzione: la
traccia si è aggrovigliata in un nodo; l’uomo si è perso.
Volevo vivere e decidere onestamente, senza schivare le difficoltà, ma ho
perduto la strada. Sbagliando e smarrendomi mi sono ritrovato emigrato, a
Berlino.
esta storia è narrata da me nel libro Viaggio sentimentale, che è già
stato pubblicato qui da noi due volte; non lo pubblicherò di nuovo ora.
Tuo questo è accaduto nel 1922. All’estero provavo nostalgia; dopo un
anno, grazie all’impegno di Gor’kij e di Majakovskij sono riuscito a
tornare in patria.
Il libro che ora leggerete è stato scrio a Berlino; viene pubblicato in
patria per la terza volta.

1963
Edizione del 1964
Terza introduzione

Ho seant’anni. La mia anima giace innanzi a me.


È tua segnata dalle pieghe del tempo.
el libro, già allora, l’aveva piegata. Io l’ho raddrizzata.
Hanno piegato l’anima la morte degli amici. La guerra. Le dispute.
Gli errori. Le offese. Il cinema. E la vecchiaia, che nonostante tuo, è
sopraggiunta.
Ora, mi è più facile, perché non conosco i luoghi per i quali cammini,
non conosco i tuoi nuovi amici, o i vecchi alberi presso il tuo mulino.139
La memoria si è allontanata in cerchi concentrici. I cerchi sono giunti
sino alla spiaggia scogliosa. Il passato non esiste più.
I cerchi, gli anelli dell’amore se ne sono andati sulla spiaggia.
Non resterò seduto vicino al mare, non aspeerò il bel tempo, non
chiamerò il mio pesciolino dalle efelidi dorate.140
Non resterò seduto, di noe, vicino al mare, non aingerò acqua col mio
vecchio cappello di feltro marrone.
Non dirò: «Mare, rendimi gli anelli».
Ho persino fao noe ad aspeare. Sono sparite dal cielo le stelle
imperscrutabili.
La sola Venere, stella principale della sera e del maino, è riapparsa in
cielo. Fedele all’amore, amo un’altra.
Il maino, nell’ora in cui si può già distinguere un filo bianco da uno
azzurro, pronuncio la parola: Amore.
Il sole si è riversato nel cielo.
Il maino della canzone non può aver fine, solo noi ce ne andiamo.
Vediamo araverso il libro, così come sull’acqua, quanti valichi ha
araversato il cuore, quanto sangue e quanto orgoglio (elementi del
cosiddeo lirismo) sono sopravvissuti al passato.
Mosca, 1963

P.S.Già da alcuni decenni Alja è una scririce francese, celebrata dalla


sua prosa e dai versi a lei dedicati.
Note*

1
Il sootitolo, che si basa su un calembour anagrammatico, rimanda allo scambio epistolare fra
il filosofo e scriore medievale Pierre Abélard e la donna da lui amata, Eloisa (1132-35), nonché al
romanzo in leere di Jean-Jacques Rousseau Giulia, o La nuova Eloisa (1761).
2
Citazione quasi integrale dal poema del poeta futurista Velemir Chlebnikov (1855-1922)
Zverinec (Il serraglio), comparso nella raccolta Sadok sudej (Il vivaio dei giudici). Šklovskij commee
un’imprecisione, in quanto la raccolta uscì nell’aprile del 1910. [La traduzione qui riportata è di
A.M. Ripellino].
3
La sorella è Lili Brik (1891-1978), la donna amata dal poeta V. Majakovskij.
4
Una delle strade più alla moda di Berlino, nei pressi della quale si trova anche la Kleistraße
dove, al n. 11, visse Šklovskij appena arrivato a Berlino.
5
A quel tempo, fra i corteggiatori di Elsa Triolet (oltre a Šklovskij) si annoverava Roman
Jakobson (1896-1982). Linguista e critico russo-americano, fu amico di Elsa Triolet e di Šklovskij.
6
Roman Jakobson.
7
In questa pensione, al n. 207 della Kaiserallee, visse per qualche tempo Šklovskij.
8
Julij Isaevič Ajchenval’d (1872-1928), critico. Nel 1922 fu espulso dall’URSS.
9
[Maeo 26, 69-75; Marco 14, 66-72; Luca 22, 54-62; Giovanni 18, 15-18, 25-27].
10
Šklovskij allude qui alla rivista «Beseda» (Colloquio) (Berlino 1923-25), fondata per iniziativa
di M. Gor’kij e che in seguito divenne causa di contrasto fra i due scriori.
11
Le Proposte (Predloženija) di Chlebnikov apparvero sulla rivista pietroburghese «Vzjal» nel
1915.
12
Il critico è Arkadij Gornfel’d (1867-1941) che pubblicò un necrologio di Chlebnikov sulla
rivista pietroburghese «Literaturnye zapiski» (Annali leerari), 1922, n. 3.
13
Pëtr Miturič (1887-1956), artista avanguardista, marito della sorella di Chlebnikov.
14
L’utopica Società dei presidenti del Globo Terrestre fu fondata da Chlebnikov negli anni Dieci;
suoi membri divennero alcuni artisti e leerati futuristi e molti filosofi e uomini politici stranieri
furono invitati ad aderirvi.
15
Chlebnikov, sofferta la fame e da poco riavutosi dal tifo, il 19 aprile del 1920 a Char’kov, ad
una solenne serata leeraria di poeti immaginisti, per iniziativa di Sergej Esenin, fu nominato
«Presidente del Globo Terrestre».
16
Kuokkala (oggi Repino) è una località di villeggiatura nei dintorni di San Pietroburgo;
all’epoca era luogo di ritrovo di famosi uomini di cultura.
17
Si allude ad Aleksandr Lišnevskij (1868-1942), della cui figlia Nadežda era innamorato
Chlebnikov.
18
Devij Bog opera teatrale di Chlebnikov, apparsa nella raccolta Poščëčina obščestvennomu vkusu
(Schiaffo al gusto del pubblico) (Mosca 1912).
19
Nikolaj Kul’bin (1866-1917), medico e artista dell’avanguardia, organizzò molte mostre
futuriste.
20
Ivan Puni (1894-1956), artista avanguardista russo-francese.
21
Soprannome della prima moglie di Šklovskij, Vasilisa Kordi-Šklovskij (1890-1977). ando
Šklovskij fuggì dalla Russia per evitare l’arresto, lei fu costrea a restare a Pietrogrado.
22
Aleksej Remizov (1877-1957), scriore affine al simbolismo emigrò nel 1921. All’epoca viveva a
Berlino.
23
Soprannome di Remizov, creato per lo scherzoso Grande e libero Palazzo delle scimmie
(Obezvelvolpal) da lui inventato.
24
Michail Kuzmin (1872-1936), scriore, critico e musicista.
25
Nell’estate del 1920 Šklovskij fu richiamato nell’Armata Rossa per combaere le truppe del
generale P. Vrangel’.
26
[Diminutivo di Stepanida].
27
(1876- 1943), tradurice e paleografa.
28
Lo zar Aleksej Michajlovič Romanov (1629-76) regnò dal 1645 al 1676.
29
Immagine estrapolata da una fiaba di Rudyard Kipling, e cat that walked by himself del 1902
[in Just so stories, Moskow 1968, pp. 179-200].
30
Rossija v pis’menach, opera di Remizov nella quale rientravano epistole private risalenti ai
secc. XVII–XVIII (integralmente fu pubblicata nel 1922 a Berlino). Le leere del filosofo e critico
Vasilij Rozanov (1856-1919) rientrarono nel libro di Remizov Kukcha. Rozanovy pis’ma (Kukcha.
Leere di Rozanov), pubblicato a Berlino nel 1923.
31
Andrej Belyj (pseudonimo di Boris Bugaev, 1880-1934), scriore simbolista.
32
E. Steinach (1861-1944), fisiologo austriaco che studiava le mutazioni di sesso e il
«ringiovanimento» umano. Di queste teorie si interessava Gor’kij negli anni Venti.
33
Solomon Kaplun (Sumskij; 1891-1940), operava nell’editoria; è introdoo da Remizov nel suo
libro Achru.Povest’ peterburgskaja (Achru. Racconto pietroburghese) (Berlino-Pietroburgo-Mosca
1922).
34
Marija Andreeva (1868-1953), arice e donna amata da Gor’kij prima della rivoluzione; viene
citata nel necrologio di Blok scrio da Remizov dal titolo Iz ognennoj Rossii (Dall’ardente Russia) nel
1921 (incluso nel libro omonimo).
35
Aleksandr Blok (1880-1921), scriore simbolista.
36
L’espressione russa qui usata, chodom konja, riecheggia l’opera omonima di Šklovskij Chod
konja, Berlin 1923 [Trad. it. La mossa del cavallo: libro di articoli, Bari 1967] nella cui introduzione si
spiega: «Il cavallo procede di traverso… il motivo risiede nel fao che il cavallo non è libero;
procede in diagonale perché la via diria gli è preclusa».
37
Vezzeggiativo di Alja.
38
«Non ti chiamerai più Abram/ma ti chiamerai Abraham/perché padre di una moltitudine/di
popoli ti renderò» (Genesi 17, 5).
39
Il termine impiegato da Šklovskij, Šiber’, deriva da un’espressione colloquiale tedesca, Schieber,
speculatore.
40
Zinovij Gržebin (1877-1929), editore e caricaturista.
41
Jurij Annenkov (1889-1976), artista e memorialista russo-francese.
42
Citazione, non del tuo esaa, dalle bozze della prima strofa del cap. VIII dell’Evgenij Onegin di
Puškin. Invece di «quando» (kogda) nelle bozze leggiamo: «in quei giorni in cui» (V te dni, kak).
43
Nel 1907-16 a San Pietroburgo uscirono 26 numeri della rivista «Šipovnik» (Rosa canina).
«Panteon» fu la casa editrice che Gržebin diresse a Pietroburgo fra il 1907 e il 1912.
44
ando Gržebin trasferì la sua casa editrice da Pietrogrado a Berlino stipulò un accordo con lo
stato sovietico, in base al quale i libri pubblicati dovevano essere distribuiti anche in Russia, ma i
sovietici non rispearono l’accordo e Gržebin fallì.
45
Complessivamente Gržebin pubblicò 218 titoli.
46
Allusione al radicale piano di ricostruzione dell’economia russa, basato sull’elerificazione del
paese, promosso da Lenin nel 1920.
47
Kak sdelan ‘Don Kichot’ (Com’è fao il «Don Chiscioe»), articolo di Šklovskij del 1921; rientrò
in O teorii prozy, 1925 [Trad. it. Teoria della prosa, Torino 1976, pp. 101-141].
48
Riferimento all’opera omonima di H. Wells e food of the gods, 1904 [Trad. it. L’alimento degli
Dei, Torino 1949].
49
Si traa della prima opera pubblicata da Belyj: Simfonija (2-ja, dramatičeskaja) [Sinfonia (II,
drammatica)] del 1902.
50
Dorina filosofico-religiosa, elaborata da Rudolf Steiner, di cui fu fervente seguace Belyj fra il
1921 e il 1922.
51
La costruzione del terzo edificio della caedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo fu iniziata ai
tempi dell’imperatrice Caterina la Grande e continuata soo l’imperatore Paolo I (fu a quel tempo
che il progeo venne semplificato ed il marmo fu sostituito da semplici maoni); più tardi al suo
posto fu costruita una nuova caedrale, conservatasi fino al giorno d’oggi.
52
Sia Zapiski čudaka (Memorie di un bislacco) che Kotik Letaev [Trad. it. Kotik Letaev, Milano
1973] sono romanzi autobiografici di Belyj, accomunati dal tema del «divenire dell’anima
autocosciente».
53
Opojaz, Obščestvo izučenija (teorii) poetičeskogo jazyka (Società per lo studio (della teoria) della
lingua poetica). Si traava di un’organizzazione pietroburghese, costituita da critici formalisti, a
capo della quale negli anni ’10 si trovava Šklovskij.
54
[Genesi 9, 8-16].
55
Pëtr Bogatyrëv (1893-1971), studioso di folklore e di teatro, teorico della leeratura. Fra il 1921
e il 1940 operò in Cecoslovacchia.
56
Elena Grekova (1875-1937), scririce. Ivan Grekov (1867-1934), chirurgo.
57
Michail Slonimskij (1897-1972), scriore.
58
Voenspec, voennyj specialist (militare specialista), ex militare dell’esercito zarista, entrato a far
parte dell’Armata Rossa.
59
Roman Jakobson nel 1921, recatosi in Cecoslovacchia in qualità di interprete del
rappresentante della Repubblica Federale Socialista Sovietica Russa, non rientrò in patria.
Bogatyrëv lo raggiunse nel dicembre 1921.
60
esti lager sorsero al termine della prima guerra mondiale per i prigionieri di guerra russi.
61
Češskij kukol’nyj i ruskij narodnyj teatr, Berlin 1923 [Trad. it. Il teatro ceco delle marionee ed il
teatro popolare russo in Id., Il teatro delle marionee, Brescia 1980, pp. 43-92].
62
Ristorante berlinese, luogo di ritrovo del «Club degli scriori» russo.
63
Allusione al gruppo leerario «I fratelli di Serapione», sorto a Pietrogrado nel febbraio 1921.
Membri del gruppo erano Michail Zoščenko, Il’ja Gruzdev, Elizaveta Polonskaja, Veniamin Kaverin,
Nikolaj Tichonov, Konstantin Fedin, Vsevolod Ivanov, Lev Lunc, Nikolaj Nikitin.
64
Aleksandr Kuprin (1870-1938), scriore.
65
Giudici 7, 5-7.
66
Giudici 12, 6. La parola shibbolet significa spiga di frumento.
67
Citazione non del tuo esaa di una poesia del poeta e critico Apollon Grigor’ev [Cfr.
traduzione con testo originale a fronte in W. Giusti (a cura di), Il secolo d’oro della poesia russa,
Napoli 1961, pp. 175-176]. Fu in seguito messa in musica e divenne una famosissima romanza
gitana.
68
Nel 1923 Šklovskij lavorò nell’ufficio berlinese della «Russtorgfil’m», dove sceglieva i film da
esportare sul mercato russo e faceva filmati pubblicitari.
69
Molto probabilmente, Šklovskij allude a Benedikt Livšic (1886-1938), poeta che negli anni ’10
era vicino ai futuristi. Non conosciamo la canzone malavitosa odessita di cui parla Šklovskij,
tuavia bisogna tener conto del fao che in Russia, la tradizione orale ascrive a Livšic testi non
apparsi col suo nome (come la versione parodica non censurata del poema puškiniano Evgenij
Onegin).
70
Šklovskij terminò il liceo privato «N. Šepoval’nikov» che si trovava al n. 24 del corso
Kamennoostrovskij.
71
«Ave, Imperator, morituri te salutant» (Salve, Imperatore, ti salutano quelli che vanno a
morire), era il saluto che i gladiatori rivolgevano all’imperatore (Svetonio, Claudio, 21, 6).
72
Inno ufficiale della Russia prima della rivoluzione del 1917.
73
I bogomili erano un movimento ereticale (in seguito, una sea) diffusosi nei Balcani.
74
Il «Dom iskusstv» (Casa delle Arti) era un’organizzazione pietroburghese di uomini di cultura
(1919-22). La vita e l’atmosfera di questo luogo sono descrii in una copiosa leeratura
memorialistica ed anche in numerosi romanzi. La «Casa delle Arti» si trovava nella cosiddea
«Casa di Čičerin» (Corso della Neva, 15).
75
Ksana Boguslavskaja Puni (1892-1972), artista avanguardista russo-francese.
76
«Tram V», mostra futurista che ebbe luogo a Pietrogrado nel marzo 1915.
77
Carl Einstein (1885-1940), scriore e drammaturgo tedesco, storico dell’arte, vicino
all’espressionismo e al dadaismo.
78
Maeo 2, 13-15.
79
Ernst Fritsch (1892-1962) (Šklovskij lo trascrive erroneamente «Frig» anziché «Frič»), artista
espressionista tedesco.
80
Karlis Zalit (Zale; 1888-1942) e Arnold Dzerkal (1896-?), artisti leoni.
81
Rudolf Belling (1886-1972), scultore tedesco.
82
Il «Dom pečati» (Casa della Stampa) fu organizzato nel marzo del 1920 e durante gli anni ’20
accolse numerose serate leerarie.
83
esta dichiarazione di Marina Cvetaeva fu faa a Šklovskij durante un loro colloquio e solo
in seguito fu riportata nell’articolo Epos i lirika sovremennoj Rossii, 1932 [Trad. it. L’epos e la lirica
della Russia contemporanea, in Id., Il poeta e il tempo, Milano, Adelphi 1984, pp. 117-150].
84
Evgenija Pasternak (1898-1965), artista, prima moglie di Boris Pasternak.
85
Shimmy, ballo simile al fox-trot, in voga negli anni ’20.
86
[Revolver che prendeva il nome dal belga Nagant, suo inventore. Fu in uso presso le truppe
russe fino alla seconda guerra mondiale. La giata era di circa 100 metri].
87
La Gedächtniskirche (alla leera «chiesa commemorativa») fu costruita nel Kurürstendamm
nel 1891-95 in memoria del primo kaiser tedesco Guglielmo I e rimase a lungo l’edificio più alto
della cià. Distrua dai bombardamenti nell’autunno del 1943, fu restaurata dopo la guerra e
divenne il simbolo di Berlino ovest (nota come «e Blue Church»). Non lontano, nella
Budapesterstrasse, si trova l’ingresso allo zoo di Berlino.
88
Elena Ferrari (Ol’ga Golubeva; 1899-1939), leerata.
89
Nodo ferroviario non lontano dalla Kleiststraße, dove si intersecavano le linee della
metropolitana e della ferrovia; rappresentata nella poesia di Pasternak Gleisdreieck (1923).
90
Canzone popolare tedesca.
91
Parole dell’inno nazionale tedesco.
92
[Sulla soluzione (razgadka) cfr. V. Šklovskij, Teorija prozy, Moskva-Leningrad 1925, pp. 104
sgg.; p. 115; pp. 130 sgg.; p. 141. Trad. it., Teoria della prosa, cit., pp. 154, 168, 176-177, 197, 211].
93
Wertheim, grande negozio berlinese.
94
Il Vospitatel’nyj dom, nella Russia pre-rivoluzionaria era un’istituzione che raccoglieva
trovatelli e figli illegiimi.
95
Elsa Triolet visse a Tahiti dal 1919 al 1920. La leera della Triolet dedicata a Tahiti, ancora
prima di essere pubblicata in Zoo, fu lea da Gor’kij che ne rilevò le qualità artistiche. Gor’kij, e
qualche tempo dopo anche Šklovskij, convinsero Elsa Triolet a cimentarsi in leeratura. Il suo
primo libro Na Taiti (A Tahiti) (in lingua russa) fu pubblicato a Mosca nel 1925.
96
[È il termine francese che, a Tahiti, indica tui i tipi di gardenie bianche profumate].
97
André Triolet (1889-1969), primo marito di Elsa Triolet. Si conobbero nel 1918, quando Triolet,
in qualità di ufficiale dell’esercito francese, si trovava in missione a Mosca.
98
Il teatro berlinese «Scala», dove spesso avevano luogo manifestazioni culturali russe, si
trovava al n. 21 della Lutherstraße.
99
In italiano nel testo.
100
Citazione del racconto di N. Gogol’, La tremenda vendea, in Id., Le veglie alla faoria di
Dikanka, Torino 1978, p. 203.
101
Con questo gioco di parole Šklovskij richiama il nome di una popolare icona russa
«Neuvjadaemyj cvet» (Il fiore imperituro).
102
Lo studio di I. Puni si trovava al n. 11.
103
Costantinopoli (oggi Istanbul) al termine della guerra civile russa divenne, per qualche tempo,
uno dei principali centri dell’emigrazione russa.
104
Nikolaj Evreinov (1879-1953), regista, aore, esperto di teatro; fu continuo oggeo di critiche
da parte di Šklovskij negli anni 1920-21.
105
Nel 1919 a Vitebsk, oltre a Chagall lavoravano altri famosi artisti quali Mstislav Dobužinskij,
Ivan Puni, El’ Lisickij e Kazimir Malevič.
106
La ciadina di Marksštadt, ex Ekaterinenštadt, ora Marx, è situata sulla parte centrale della
Volga.
107
Teatri dell’emigrazione russa a Berlino.
108
Il’ja Erenburg (1891-1967), scriore e pubblicista.
109
La rivista «Vešč» (La cosa) fu pubblicata a Berlino nel 1922 da Erenburg e Lisickij e
propugnava le idee del costruivismo.
110
Neobyčajnye pochoždenija Chulio Churenito i ego učenikov, romanzo di I. Erenburg apparso a
Berlino nel 1922 [Trad. it. Le staordinarie avventure di Julio Jurenito, Torino 1968].
111
Trest D.E. Istorija gibeli Evropy (Trust D.E. Storia della fine dell’Europa), romanzo di I. Erenburg
pubblicato a Berlino nel 1923.
112
Si traa della VII novella del II giorno del Decamerone. [«Bocca baciata non perde ventura, anzi
rinnuova come fa la luna» (Boccaccio, Decameron, Torino 1991, p. 257)].
113
[In seguito ad una crisi religiosa Erenburg, ebreo di origine, stava per convertirsi al
caolicesimo, da cui però in seguito si allontanò. Da qui il riferimento biblico; cfr. Ai 13, 9. Sulla
conversione di Saulo cfr. Ai 9, 1-30].
114
Lo stesso Erenburg nelle sue tarde memorie spiegò così questo paragone: «In ogni libro mi
‘dissociavo’ da me stesso. Fu proprio allora che Šklovskij mi chiamò Pavel Savlovič (cioè Paolo
figlio di Saulo). Sulle sue labbra non poteva suonare offensivo. Durante la sua vita lui fece quello
che facevano i suoi coetanei, cioè non cambiò mai parere, né punto di vista; lo faceva senza
amarezza, persino con un certo entusiasmo».
115
Zverinoe teplo (Calore animale), libro di versi di Erenburg, pubblicato a Berlino nel 1923.
116
Nome di un lago e di una località vicino a Potsdam, a sud-ovest di Berlino.
117
Il più grande centro dell’Armenia turca, fu conquistato dalle truppe russe nel gennaio 1916.
118
Il’ja Zdanevič (1894- 1975), artista e leerato russo-francese. Lavorò a lungo in Georgia.
119
[V. Šklovskij, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, Leningrad, Atenej 1924].
120
Cfr. nota 100.
121
I formalisti Boris Ejchenbaum (1886-1959) e Jurij Tynjanov (1894-1943) erano amici di
Šklovskij e avevano lavorato con lui all’Opojaz.
122
Roman Jakobson.
123
[L. Tolstoj, Guerra e pace, Firenze 1970, pp. 293-294].
124
Nel febbraio 1917 a Pietrogrado il distaccamento della guardia imperiale del reggimento
Volynskij fu il primo a insorgere.
125
Ufficiali della guardia imperiale russa che nel dicembre 1825 insorsero contro il regime zarista.
126
[Svista di Šklovskij che forse intendeva parlare di creosoto, al tempo usato anche come
lubrificante].
127
Baku, capitale dell’Azerbajdžan, era all’epoca la maggior regione fornitrice di petrolio della
Russia. Dall’agosto 1918 era occupata dalle truppe inglesi.
128
Šklovskij allude alla monografia del critico liberale D. Ovsjaniko-Kulikovskij Istorija russkoj
intelligencii: Itogi russkoj chudožestvennoj literatury XIX veka (Storia dell’intelligencija russa:
conclusioni sulla leeratura russa del XIX secolo) (1903-07).
129
Si allude ad una rissa realmente accaduta, ad opera di Šklovskij, in un caè di Berlino.
130
Protagonisti del poema di A. Puškin Evgenij Onegin (1823-31) [Trad. it. Evgenij Onegin,
Venezia, Marsilio 1996].
131
Protagonisti del romanzo di M. Lermontov Geroj našego vremeni (1840) [Trad. it. Un eroe del
nostro tempo, Milano 1992].
132
Rimando ad un aneddoto citato nel XII capitolo del saggio di L. Tolstoj Tak čto že nam delat’
(1886) [Trad. it. Che fare?, Milano 1979].
133
Cfr. Il guardiano di porci di Andersen.
134
[V. Šklovskij, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, Leningrad, Izdatel’stvo pisatelej v Leningrade 1929].
135
Una delle principali strade di Berlino.
136
[Nell’edizione del 1964 il testo cambia significativamente, in quanto è l’autore che scrive:
«Anche se tu scrivi le tue leere azzurre ad altri, io ti amo, Alja!» (Zoo, 1964, p. 181)]. La menzione
deriva dal fao che alcune leere della Triolet (in particolare quelle diree a Šklovskij) erano scrie
su carta di questo colore.
137
[V. Šklovskij, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, in Id., Žili-byli, Moskva 1964, pp. 120-208].
138
Šklovskij chiaramente allude alla sua fuga dall’URSS, araverso i ghiacci del golfo di Finlandia,
nel marzo 1922.
139
Šklovskij si riferisce alla casa fuori cià della Triolet e di Luis Aragon, costruita nell’edificio di
un vecchio mulino.
140
i e oltre si richiamano motivi di alcune fiabe russe.

* Gli interventi fra parentesi quadre sono della curatrice.


Scheda biografica

Viktor Borisovič Šklovskij (1893-1984) nacque a Pietroburgo da padre


ebreo, Boris Vladimirovič, insegnante di matematica, e da Varvara
Karlovna Bundel’, figlia del giardiniere dello Smol’nyj, il prestigioso
collegio per fanciulle nobili. Terminati gli studi presso la facoltà di leere
di Pietroburgo, i suoi primi esordi leerari risalgono al 1914, anno in cui
pubblica La resurrezione della parola (Voskrešenie slova, SPb 1914), preludio
del nascente formalismo.
I suoi primi studi teorici sulla leeratura si rivolgono principalmente al
futurismo; studia V. Chlebnikov, V. Majakovskij e A. Kručënych. Da qui
sorge il suo interesse per la parola «autoritorta» e «rinnovata», per un
nuovo, specifico linguaggio poetico e diviene membro dell’OPOJAZ
(Obščestvo izučenija poetičeskogo jazyka, Società per lo studio della lingua
poetica), all’interno del quale diventa uno dei fautori e dei teorici del
formalismo russo. L’OPOJAZ, nato in Russia dopo il 1915 come scuola di
teoria della leeratura, radunava al suo interno noti esponenti formalisti
quali Ju. Tynjanov, B. Ejchenbaum, O. Brik, L. Jakubinskij ed il futuro
linguista struuralista R. Jakobson.
Nel 1917 Šklovskij scrive il saggio L’arte come procedimento (Iskusstvo
kak priëm in Sborniki po teorii poetičeskogo jazyka, SPb. 1917, II, pp. 3-14),
vero e proprio manifesto programmatico della nuova scuola, in cui
l’autore analizza l’opera leeraria nella sua natura immanente, come mera
somma di procedimenti artistici.
Dal 1919 Šklovskij comincia ad occuparsi di teoria della prosa e nel 1925
raccoglie tui gli articoli scrii su questo tema in un volume che esce con
il titolo La teoria della prosa (Teorija prozy, M.-L. 1925).
Allo scoppio della rivoluzione di febbraio, vi partecipa aivamente e
viene nominato dal Governo provvisorio commissario sul fronte di Galizia.
Successivamente entra in contao con i socialisti rivoluzionari e, nel
marzo del 1922, mentre il governo sovietico si accingeva ad organizzare un
processo contro eminenti esponenti di questo partito, Šklovskij elude un
agguato dei čekisti, la polizia politica segreta. Fuggendo, si rifugia
dapprima in Finlandia e poi a Berlino, il centro dell’emigrazione russa
durante gli anni Venti, dove incontra Alja Kagan, alias Elsa Triolet.
esti eventi, descrii con vena autobiografica in Viaggio sentimentale
(Sentimental’noe putešestvie, Berlino 1923), mostrano come Šklovskij, che
aveva partecipato aivamente alla rivoluzione di Febbraio, sia invece stato
estraneo a quella di Oobre, e questo non solo perché al suo scoppio si
trovava in Iran, ma soprauo per una mancata affinità politica con i
bolscevichi. Sarà la nostalgia per la madre-Russia, quella nostalgia che
aanagliava tui i russi rinchiusi nello zoo-prigione di Berlino, a
costringerlo a tornare in patria, dove lo aspeava la moglie che non aveva
potuto seguirlo al momento dell’espatrio.
Ma il ritorno esigeva il riconoscimento dello stato sovietico, ed è così
che Šklovskij, che aveva creduto fermamente nel Governo provvisorio, ma
non aveva mai acceato le idee bolsceviche, dovee farle proprie o,
quanto meno, accearle. Ecco con quali parole Šklovskij esprime la sua
acceazione del potere sovietico: «Riconosceremo questo stramaledeo
potere sovietico! Come al giudizio di Salomone, non richiederemo che il
bambino sia tagliato a metà, lo cederemo ad estranei, purché viva!»
(Šklovskij [1923]: 174).
Dopo il rientro, Gor’kij gli offre di collaborare alla Vsemirnaja literatura,
la casa editrice che pubblicava tui i classici del mondo in lingua russa.
Negli anni Venti, l’aività critico-leeraria di Šklovskij è legata
dapprima ai Fratelli di Serapione, un gruppo leerario nato a Pietrogrado
nel 1921, molti membri del quale partecipavano ai seminari di teoria della
leeratura e della prosa artistica di Šklovskij. Il teorico principale di
questo movimento, che perseguiva lo scopo di reperire nuove forme
leerarie ispirate ai modelli occidentali, Lev Lunc, era allievo di Šklovskij.
In seguito, Šklovskij comincia a frequentare aivamente il LEF,
un’organizzazione artistico-leeraria che nasce a Mosca alla fine del 1922,
a capo della quale si trovava V. Majakovskij e che pubblicava le riviste
«LEF» (1923-1925) e «Novyj LEF» (1927-1928). Al suo interno, verso la fine
degli anni Venti, le ricerche leerarie dell’autore approdano allo studio e
alla formulazione teorica di un nuovo tipo di leeratura, la literatura fakta
(leeratura del fao o faografia).
Dopo gli aacchi rivolti, verso la fine degli anni Venti, dal potere
sovietico al metodo formalista, Šklovskij è costreo a fare ammenda nello
scrio Monumento all’errore scientifico (Pamjatnik naučnoj ošibke,
«Literaturnaja Gazeta», 1930, 27 janvarja), in cui ricusa le precedenti
posizioni formaliste.
A partire dal 1926 comincia a lavorare aivamente per il cinema. Negli
anni successivi si dedica soprauo allo studio della narrativa e dei
classici. Nel 1937 pubblica Note sulla prosa di Puškin (Zametki o proze
Puškina, M. 1937) a cui segue, nel 1940, Majakovskij (O Majakovskom, M.
1940) e, nel 1957, uno studio su Dostoevskij (Za i protiv. Zametki o
Dostoevskom, M. 1957). Nel 1963 termina la fondamentale biografia su Lev
Tolstoj (Lev Tolstoj, M. 1963).
Muore a Mosca nel 1984.

M.Z.
Riferimenti bibliografici

Barthes R., Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi 1979.


Chlebnikov V., Zverinec [1909], in Poezija russkogo futurizma, Sankt-
Peterburg, Akademičeskij proekt 1999, pp. 71-74 [Trad. it. Il serraglio, in
A.M. Ripellino, Poesie di Chlebnikov. Saggio, antologia, commento, Torino
1968, pp. 5-8].
Eco U., [1979] Lector in fabula, Milano, Bompiani 1998.
Ginzburg L., Čelovek za pis’mennym stolom, Leningrad, Sovetskij pisatel’
1989.
Lotman Ju., Tekst v tekste, in Izbrannye stat’i v trech tomach, Tallin,
Aleksandra 1992, vol. 1, pp. 148-160.
Šklovskij V., Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, Berlin, Gelikon 1923.
Idem, Sentimental’noe putešestvie [1923], Moskva, Novosti 1990.
Idem, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, Leningrad, Atenej 1924.
Idem, Teorija prozy, Moskva-Leningrad, Krug 1925 [Trad. it. La teoria
della prosa, Torino, Einaudi 1976]. Una 2a edizione ampliata esce nel 1929 e
una successiva è pubblicata nel 1982, sostanzialmente diversa dalle
precedenti. La traduzione italiana si riferisce all’edizione del 1929.
Idem, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, Leningrad, Izdatel’stvo pisatelej v
Leningrade 1929.
Idem, Zoo ili pis’ma ne o ljubvi, in Žili-byli, Moskva 1964.
Idem, Gamburgskij sčët. Stat’i, vospominanija, esse, Moskva, Sovetskij
pisatel’ 1990.
Zalambani M., Un esempio di autocensura sovietica: Zoo o leere non
d’amore di V. Šklovskij, in Censura e censure, Liguori, Napoli 2002.

M.Z.
Indice

Ambiguità di un discorso amoroso di Maria Zalambani

Zoo o leere non d’amore

Dedica

Prefazione dell’autore
Epigrafe. Il serraglio
Leera prima
Leera seconda
Leera terza
Leera quarta
Leera quinta
Leera sesta
Leera seima
Leera oava
Leera nona
Leera decima
Leera undicesima
Leera dodicesima
Leera tredicesima
Leera quaordicesima
Leera quindicesima
Leera sedicesima
Leera diciasseesima
Leera dicioesima
Introduzione alla leera diciannovesima
Leera diciannovesima
Leera ventesima
Leera ventunesima
Leera ventiduesima
Leera ventitreesima
Leera ventiquaresima
Leera venticinquesima
Leera ventiseiesima
Leera ventiseesima
Leera ventoesima
Leera ventinovesima

Leere e introduzioni apparse nelle edizioni successive

Edizione del 1924. Introduzione


Edizione del 1924. Leera introduiva
Edizione del 1924. Leera quaordicesima
Edizione del 1924. Leera diciasseesima
Edizione del 1924. Leera ventunesima
Edizione del 1929. Seconda introduzione alla terza edizione
Edizione del 1929. Leera ventunesima, breve
Edizione del 1964. Prefazione
Edizione del 1964. Terza introduzione

Note
Scheda biografica
Riferimenti bibliografici

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