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IL PROCESSO – APPROCCIO PSICOLOGICO

Il 3 luglio del 1883 la città di Praga diede i natali a Franz Kafka.


Il contesto in cui Kafka nasce e cresce è alquanto importante poiché è motivo «della solitudine di
Kafka nella sua terra natía. Dell’ebreo praghese di lingua tedesca, che vive come in contumacia in
un mondo slavo, che soffre tragicamente la sua alterità, estraneo in egual misura ai tedeschi, di cui
pur condivide il linguaggio, e ai cechi, dai quali è considerato un tedesco, un forestiero» scrive
Ripellino nel suo libro “Praga Magica” secondo il quale Kafka diviene universale proprio a partire
dalle condizioni e dall’ambiente in cui visse; collocarlo fuori dalla contingenza sarebbe un rischio.
I racconti di Kafka, perfino quelli incompiuti, sono una testimonianza eloquente del dissidio esiziale
tra le sue vite, reale e letteraria, benché questa lotta sia evidente anche all’interno dei romanzi.

Prima di analizzare la psiche ed i significati dietro personaggi e istituzioni all’interno de Il processo,


è il caso di riassumere velocemente la trama.
Un tribunale condanna l’impiegato di banca Josef K. il giorno del suo 30esimo compleanno, senza
che egli venga messo al corrente della colpa commessa. Pensando a uno spiacevole ma
risolvibile malinteso, K. cerca di affrontare la vicenda con razionalità, come è abituato a fare. Ben
presto, però, scoprirà che la macchina processuale si muove per vie completamente irrazionali e si
trova a fronteggiare un muro di gomma.
A volte sembra che tutto il congegno sia per sgretolarsi e cadere in pezzi, come fosse fatto di carta,
e che K. sia a un passo dal venire fuori dall’incubo in cui è piombato. Ma non è che un’illusione.
Anche l’avvocato ingaggiato in sua difesa sembra muoversi con la stessa opacità e contraddittorietà
del tribunale.
Così, dopo aver licenziato l’avvocato e decidendo di difendersi da sé, K. viene condannato e
giustiziato.

Josef K è un uomo comune, non abituato a riflettere sulla propria condizione e sulla vita. Eroe senza
volto – in quanto non viene descritto nelle sue fattezze – il cui nome ci permette di identificarlo
come persona, ma non ha un cognome, non ci verrà mai detto, solo l’iniziale. In questo modo il
protagonista ha una corporeità, ma non una vera identità. Pur restando un soggetto individuale
diventa simbolo dell’umanità intera, quel che succede a lui potrebbe succedere a chiunque altro,
diventa simbolo di una condizione e di un sistema oppressivo e iniquo.

La colpa: La colpa è il grande tema kafkiano al centro del romanzo; non una colpa psicologica o
uno sbaglio nel comportamento o una colpa metafisica, ma qualcosa di insito nella stessa esistenza:
la nausea della vita, la sua assenza di significato.
Il rapporto tra innocenza e colpevolezza è stabilito fin dalla prima frase:

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché senza che avesse fatto nulla di
male, una bella mattina fu arrestato”

Ma in Kafka i due termini non sono antitetici: si può essere colpevoli ed aver agito innocentemente,
cioè in obbedienza alla propria natura (“diabolico in tutta innocenza” si era definito l’autore in
Diari).
“La giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa cosa non si
escludono.”
L’importante non è che a Josef non venga notificata la sua reale o presunta colpa, ma che egli si
senta veramente colpevole. Josef K. si batte fino allo stremo delle forze in un paradossale dualismo:
«la volontà di credersi innocente ed una più profonda, quasi repressa [per usare il lessico freudiano]
consapevolezza di essere colpevole».

«Le nostre autorità […] non cercano la colpa nella gente, ma, come è detto nella
legge, vengono attirate dalla colpa e devono inviare noi guardie. Questa è la legge».

«Questa legge non la conosco» obiettò K.

« Hai visto, Willem? Ammette di non conoscere la legge, e insieme dice che è
innocente»

Kafka e i suoi personaggi si oppongono all’invisibilità di tali potenze superiori anche se vengono
mortificati da una Legge irraggiungibile.
L’errore di Josef K. consiste in ciò, che egli persiste nella sua ragione umana invece di sottomettersi
incondizionatamente. Persiste nella sua caparbietà, compone incessantemente la sua petizione, nella
quale, giorno dopo giorno vuole provare inequivocabilmente il suo alibi umano.
La sua colpa è questo atteggiamento intellettualistico, che è mancanza di umiltà, un tenersi in
disparte; non partecipazione, disimpegno, omissione. Josef K. sconta la colpa di surrogare il
semplice vivere col voler sapere, l’interrogare senza tregua, sedimentati per Kafka nella scrittura
Leni, ricordiamo, non a caso rimprovera Josef K.: il suo “errore”, dice, è di non essere “abbastanza
arrendevole”. E lo esorta:

“Non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna
confessare. Faccia la sua confessione, appena può. Solo dopo se la potrà cavare,
solo dopo.”

La vera colpa di Josef non è di aver commesso qualche cosa di illecito ma di aver continuato a far
domande, a interrogare seguendo la razionalità, ed è proprio ciò che lo porta alla condanna a morte.

“Tu fraintendi i fatti “, disse il sacerdote, “la sentenza non arriva all’improvviso: il
processo si trasforma a poco a poco nella sentenza “.

La colpa, dunque, è astratta e non può essere espiata.


Riflettendo su tale concetto, e riflettendo in primis sul motivo per il quale Kafka viva questo
perenne senso di colpa, quale sia effettivamente la colpa in gioco resta un problema aperto: la colpa
indotta da situazioni storiche precostituite alla nascita? La colpa di esser nati in una minoranza
("triplice dimensione dell'esistenza ebraica di Praga: l’ebreo praghese di lingua tedesca, che vive
come in contumacia in un mondo slavo. il suo protagonista, Josef K. è (simbolicamente) arrestato
da un tedesco (Rabensteiner), da un ceco (Kullich) e da un ebreo (Kaminer) )? O la colpa di tare
ereditarie, malattie congenite, o comunque di cui non si porta responsabilità alcuna? Un senso di
colpa atavico?

Vivere significa essere condannati per il fatto di vivere. È questa la dinamica metafisica ma anche
personale del Processo che attesta tacitamente la presenza di leggi disperanti disposte da una
patologia psichica.
Barilli sostiene a più riprese la genesi intenzionale del processo perché il procuratore avrebbe potuto
uscirne, qualora avesse voluto.
“Il tribunale non vuole niente da te. Esso ti accoglie quando vieni e ti lascia andare
quando te ne vai. “

Per corroborare questa tesi sarà sufficiente ricordare come egli, inizialmente, riuscisse a relegare il
tempo del processo ai giorni in cui l’esonero dal lavoro glielo permetteva, o ancora basterà ricordare
le allusioni dei personaggi secondari, i quali lasciano intendere al protagonista che potrebbe pensare
ad altro «ciò non deve impedirle di attendere alla sua professione. Non deve sentirsi ostacolato nel
suo abituale modo di vivere» All’inizio del settimo capitolo (Avvocato. Industriale. Pittore) si legge
che «K. stava nel suo ufficio, già stanchissimo benché fosse ancora presto […] Ma invece di
lavorare si rigirava nella poltrona […] Il pensiero del processo non lo lasciava più».

Il tribunale: molti critici hanno cercato di identificare, di volta in volta, il Tribunale. Tribunale è
stato identificato con un Dio indifferente e implacabile, con uno specchio realistico della società
capitalistica, con l’alienazione e la disumanizzazione che le sono proprie, la società asburgica nella
fase del suo declino, con la sua burocrazia lenta, elefantiaca, o emanazione di un potere
imperscrutabile da individuare nella figura del padre di Kafka. L’interpretazione oggi più a portata
di mano è quella che vede nella legge i principi assurdi e disumani della psiche, incomprensibili alla
ragione e indecifrabili.
L’incubo psicologico di un Tribunale perennemente attivo, dentro e fuori di noi, sempre pronto a
giudicarci e a condannarci, mai disposto al perdono; giudice inflessibile, e che fa vivere come eterni
accusati che si devono giustificare, che devono confessare.
Ma alla base di questi giudizi interpretativi recenti ci sta la fondamentale opera di Walter Benjamin
(BENIAMIN), che nel libro Il dramma del barocco, scritto tra il 1923 e il 1925 ha parlato per le
opere di Kafka di Allegoria Vuota. L’allegoria vuota è un tipo particolare di allegoria che si
distingue dalla Allegoria tradizionale. “Infatti l’allegoria vuota è di tipo particolare: non comunica
un significato positivo o una tesi precisa e razionale, come faceva l’allegoria tradizionale, ma
esprime un bisogno di significato che resta senza risposta. Per questo la critica del novecento ha
coniato la formula di “Allegoria vuota”. Come ogni autore allegorico, Kafka rappresenta una
vicenda per dire altro; ma questo altro resta indecifrabile e dunque indicibile.

Le donne: Il processo è pieno di donne, il cui beneficio Josef K non smette di elogiare, “mani di
donna sbrigano molto in silenzio”. Nell’incontro con loro, Josef sperimenta nuovi stadi di coscienza
che influenzano e accompagnano la sua storia. Non è un caso che, dopo l’annuncio del suo fermo, le
prime persone con cui si confronta siano due donne: la signora Grubach, la sua locatrice, con cui si
delinea un rapporto più materno, mentre con la signorina Burstner il tipo di “rapporto” è molto
diverso: Josef le spiegherà il motivo per il quale la sua stanza fosse stata messa a soqquadro per poi
avvicinarsi alla ragazza più fisicamente. K quindi si accanisce nel motivo del soqquadro ma la
presenza femminile lo rimanda ad un piano diverso, che lo pone in bilico verso se stesso. Nel
tentativo di avvicinarla fisicamente, con un conseguente rifiuto della ragazza, K dichiara di aver
agito per necessità, una necessità che ella gentilmente repica valere solo per lui. Il processo la donna
è sempre simbolo di seduzione. Agli occhi di Kafka le donne corrispondono ad una misteriosa
apparizione che non si riesce mai a ridurre a una tipologia, ad un carattere o ad una personalità.
Sono creature imprendibili, ne rimane sempre ammaliato e vi si avvicina con la stessa sollecitudine.
Le segue e le rincorre non per collezionarle, bensì per un risveglio di coscienza: nelle effusioni che
egli condivide con loro vi è una ricerca di amore e di consapevolezza del mondo. Quando ad
esempio, accompagnato dallo zio, si recherà da un avvocato, K. preferisce la compagnia
dell’infermiera Leni, con cui ha uno scambio di baci e tenerezze, alla riunione da cui forse sarebbe
dipeso il suo destino. Ciò sembra suggerire della superficialità ma sembra che la femminilità gli
suggerisca lo zenit della vita umana, per cui viene prima di ogni impegno e affare. Tale spiegazione
e motivazione è individuabile in una lettera a Oskar Pollak, in cui scrive “Ho la sensazione che le
ragazze ci tengano molto in alto, perchè sono leggere, per questo dobbiamo amarle e per questo è
consigliabile loro ci amino”.
Nel quarto capitolo, Kafka dedica diverse pagine all’amicizia tra due donne che prevale sul rapporto
che Josef tenta di stabilire con una di loro, la signorina Burstner.
Dopo il bacio passionale, non richiesto né desiderato dalla ragazza, la Burstner cerca di evitare
Josef. Egli le scrive una lettera alla quale la ragazza non risponde ma invia una amica, la signorina
Montag, a riferire direttamente con Josef.

“Vorrei dirle due parole per incarico della mia amica. Avrebbe voluto venire lei
stessa ma oggi non si sente tanto bene; lei vorrà scusarla e dare invece ascolto a me
del resto, non avrebbe potuto dirle altro se non quello che sto per dirle io”.

In ciò è individuabile due avvenimenti della vita di Kafka: la richiesta di Felice Bauer all’amica
Grete Bloch di fare da intermediaria per ricucire il rapporto tra lei e Kafka, ed i contatti con Stasa,
l’amica di Milena Jesenka, attraverso cui chiede notizie di Milena stessa.

La domanda sorge spontanea: se K., e quindi il suo autore, tiene in così alta considerazione le
donne, perchè non si è sposato? Giuditta Lo Russo, in un suo saggio Uomini e Padri: l’oscura
questione maschile, potremmo concludere che in effetti il rifiuto del matrimonio non fosse dovuto o
ricollegabile alle donne e alla sessualità, quanto al senso di inadeguatezza che Kafka viveva
costantemente con se stesso (la scarsa stima di sè derivante dall’atteggiamento del padre). Ciò lo
portava a pensare di non essere all’altezza nemmeno del matrimonio stesso.

L’esecuzione e la vergogna: Avviene proprio l’esecuzione, o non si tratta invece di una fantasia
del personaggio?», si domanda lo studioso, quasi retoricamente; «in fondo, così come ci sono le
fantasie erotiche», spiega al termine del discorso, «ci possono essere anche quelle di morte: eros e
thanatos coniugati polarmente, come insegna il manuale freudiano»

“Josef, Josef caro, pensa a te, ai tuoi parenti, al nostro buon nome! Sei stato finora il
nostro orgoglio, non puoi diventare la nostra vergogna. Il tuo atteggiamento», ed
osservò K. con il capo inclinato da parte, «non mi piace, non si comporta così un
imputato innocente che abbia ancora le sue energie.”

Anche dopo la brutale esecuzione, la vergogna del protagonista gli sopravvive, come ad affermare
una colpevolezza primigenia.

“ "Come un cane!" e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere.”

Ci sono varie interpretazioni sui motivi della vergogna ma quella che personalmente prendo in
considerazione è quella secondo cui Josef K. prova vergogna per aver cercato di combattere la
macchina processuale e, lo sappia o meno, è giusta causa della sua condanna. Vergogna per un
peccato commesso, tacita ammissione di un torto, sintomo fragrante di colpa, autodenuncia dunque.
La vergogna è un tema ricollegabile anche al rapporto con il padre, testimoniato in Lettera al padre:

“Io vivevo comunque e sempre nella vergogna, provavo vergogna se mi attenevo ai


tuoi ordini, dato che valevano solo per me; provavo vergogna se mi mostravo
recalcitrante, perché lo ero nei tuoi confronti, oppure non ero in grado di adeguarmi”
Volendo interpretare il Tribunale come riflesso della figura paterna, forse il senso di
vergogna di Josef è dovuto al fatto di essersi mostrato “recalcitrante” verso il Tribunale e
non aver accettato passivamente il processo.

Tuttavia è presente una forma di sforzo finale all’interno dell’opera. Lo sforzo di Josef K. sarebbe
“quello di salvare la sua vergogna, non certo la sua innocenza. Si consegna rassegnato ai carnefici
perché “si rende conto che la vergogna gli può sopravvivere”. In questo estremo gesto d’abbandono,
che non è di resa, ma ricerca della propria intimità sulla soglia della morte, e oltre, si compendia il
senso stesso della vergogna: con la sopravvivenza della vergogna Josef K. ha conservato la sua
stessa umanità. Nonostante questo conservazione, la possibilità di una redenzione rimane
potenziale. Nelle ultime pagine del Processo, la condanna non genera nessuna luce o
trasfigurazione: Josef K. non conosce [neanche] la felicità del castigo» a differenza di Gregor
Samsa il quale si mostra sollevato per la morte imminente. La «mancanza di colpa», esclude a priori
sia il pentimento che la redenzione.

La necessità di scrivere: Josef K. ritornò nello studio dell’avvocato Huld, il quale gli spiegò come
funzionano gli uffici del Tribunale e come andava avanti anche il suo processo. L’avvocato gli disse
che il Tribunale tollera soltanto gli avvocati difensori e non rende pubblico il processo:

“Per questa ragione anche i documenti del Tribunale, soprattutto l’atto d’accusa, non
sono accessibili all’imputato e alla sua difesa, quindi generalmente non si sa, o
perlomeno non si sa bene, contro che cosa si debba indirizzare la propria memoria,
perciò può darsi che solo accidentalmente contenga elementi importanti per la
causa”.

Ciò ci ricollega ad una affermazione del pittore Titorelli in un dialogo con Josef K.:

“Bisogna tener conto di tutte le sottigliezze, nelle quali il Tribunale si perde. Ma alla
fine tira fuori da qualche parte, dove in origine non c’era niente, una grave colpa”.

Secondo alcuni studiosi come Debenedetti, la stesura del memoriale per l’assoluzione
corrisponderebbe alla più generale esperienza dello scrivere, relegata alle ore notturne, durante le
quali Kafka scriveva a dispetto del lavoro di impiegato e dei relativi impegni giornalieri. In una
lettera risalente al 5 luglio del 1922 Kafka scrive a Brod:

«Che dire dello scrivere stesso? Lo scrivere è una dolce meravigliosa ricompensa, ma
di che cosa? Durante la notte con l’evidenza dell’insegnamento dimostrativo ai
bambini mi apparve chiaro che è la ricompensa per un servizio del diavolo»

Poco oltre egli si erige a «capro espiatorio dell’umanità», perché scrivendo assorbe la colpa degli
altri uomini e consente loro di liberarsene. Egli si trova di fronte a percorsi antitetici, rappresentati
dalla rassegnazione degli altri imputati.

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