Non si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo. Chi lo fa, obbedisce in
generale a tabù politici o a timori atavici: in effetti, un testo scritto, comunque esso sia scritto,
è meno pericoloso di quanto comunemente si pensi; il famoso giudizio su Le mie prigioni di
Silvio Pellico, che avrebbe nuociuto all'Austria "più di una battaglia perduta", è iperbolico. Si
constata sperimentalmente che un libro o un racconto, buone o cattive che siano le loro
intenzioni, sono oggetti essenzialmente inerti ed innocui; anche nelle loro incarnazioni più
ignobili (ad esempio, gli ibridi sessonazismo o patologia-pornografia) non possono provocare
che danni scarsi, certo inferiori a quelli prodotti dall'alcool o dal fumo o dallo stress aziendale.
Alla loro debolezza intrinseca concorre il fatto che oggi ogni scritto è soffocato in pochi mesi
dalla calca degli altri scritti che gli urgono dietro. Inoltre, le regole e i limiti, essendo
storicamente determinati, tendono a mutare sovente: la storia di tutte le letterature è piena di
episodi in cui opere ricche e valide sono state combattute in nome di principi dimostratisi poi
ben più caduchi delle opere stesse; se ne può dedurre che molti libri preziosi devono essere
spariti senza lasciare traccia, essendo stati sconfitti nella contesa mai finita fra chi scrive e chi
prescrive come si deve scrivere. Dall'alto della nostra epoca permissiva, i processi (veri
processi, in tribunale) contro Flaubert, Baudelaire, D.H. Lawrence, appaiono grotteschi ed
ironici come quello di Galileo, tanto grande appare oggi il dislivello fra i giudicati e i giudicanti:
questi vincolati al loro tempo, quelli vivi per ogni prevedibile futuro. Insomma, dar legge al
narratore è almeno utile.
Detto questo, e rinunciando quindi enfaticamente a qualsiasi pretesa normativa, proibitiva o
punitiva, vorrei aggiungere che a mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché
uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio
viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche.
E' evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone uno scrivente totalmente
consapevole, il che non corrisponde alla realtà. Siamo fatti di Io e di Es, di spirito e di carne,
ed inoltre di acidi nucleici, di tradizioni, di ormoni, di esperienze e traumi remoti e prossimi;
perciò siamo condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelganger, un
fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni, quindi anche delle
nostre pagine. Come è noto, nessun autore capisce a fondo quello che ha scritto, e tutti gli
scrittori hanno avuto modo di studiare delle cose belle e brutte che i critici hanno trovato nelle
loro opere che loro non sapevano di averci messe; molti libri contengono plagi, concettuali o
verbali, di cui gli autori si dichiarano in buona fede inconsapevoli. E' un fatto contro cui non si
può combattere: questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga
deve essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi nel suo (necessariamente oscuro)
linguaggio, ma non tenuta per ottima od unica fonte di espressione.
Non è vero che il solo scrivere autentico è quello che viene dal "cuore", e che in effetti viene da
tutti gli ingredienti distinti dalla conoscenza che sono citati sopra. Questa opinione, del resto
onorata dal tempo, si fonda sul presupposto che il cuore che "ditta dentro" sia un organo
diverso da quello della ragione e più nobile di esso, e che il linguaggio del cuore sia uguale per
tutti, il che non è. Lungi dall'essere universale nel tempo e nello spazio, il linguaggio del cuore
è capriccioso, adulterato e instabile come la moda, di cui in effetti fa parte: neppure si può
sostenere che esso sia uguale a se stesso limitatamente ad un paese e ad un'epoca. Altrimenti
detto, non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un'invenzione
individuale.
Perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è
lecito domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che questa sia un postulato
ampiamente accettabile) la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o
sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo, e da tempo a tempo, e chi non viene capito
da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. Quando questo avviene il lettore di buona
volontà deve essere rassicurato: se non intende un testo, la colpa è dell'autore, non sua. Sta
allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio
pubblico, e il lettore volenteroso non deve andare deluso.
Questo lettore, che ho la curiosa impressione di avere accanto quando scrivo, ammetto di
averlo leggermente idealizzato. E' simile ai gas perfetti dei termodinamici, perfetti solo in
quanto il loro comportamento è perfettamente prevedibile in base a leggi più semplici, mentre i
gas reali sono più complicati. Il mio lettore "perfetto" non è un dotto ma neppure uno
sprovveduto; legge non per obbligo né per passatempo né per fare bella figura in società, ma
perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra esse, e non vuole delegare questa scelta a
nessuno; conosce i limiti della sua competenza e preparazione , ed orienta le sue scelte di
conseguenza; nella fattispecie, ha volenterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio o
dolore se non capisse riga per riga quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti scrivo per lui
, non per i critici né per i potenti della Terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si
sentirebbe ingiustamente umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale.
Qui occorre far fronte a un'obiezione: talvolta si scrive (o si parla) non per comunicare, ma per
scaricare una propria tensione, o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, si
geme, ride, canta, urla.
Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci vuole comprensione: il pianto e il lutto,
siano essi contenuti o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore.Urla Giacobbe sul
mantello insanguinato di Giuseppe; in molte città il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l'urlo
è un ricorso estremo, utile per l'individuo come le lacrime, inetto e rozzo se inteso come
linguaggio, poiché tale, per definizione, non è: l'inarticolato non è articolato, il rumore non è
suono. Per questo motivo, mi sento sazio delle lodo tributate a testi che (cito a caso) "suonano
al limite dell'ineffabile, del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi impasti
magmatici", di "rifiuti semantici" e di innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è
meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto dire che è nudo.
Personalmente sono stanco anche delle lodi elargite in vita e in morte a Ezra Pound, che forse
è pure stato un grande poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva a
volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del
superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all'autoemarginazione: l'una e l'altro
germinavano dal suo disprezzo per il lettore. Forse il tribunale americano che giudicò Pound
mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore,
e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri: ora, chi
non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra
Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la
Germania di Hitler: ma non deve essere lodato né indicato ad esempio, perché è meglio essere
sani che insani.
L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i
due poeti tedeschi meno decifrabili Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di
due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all'oscurità della loro poetica come ad un
pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata
coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro " mugolio animale" era terribilmente motivato:
per Trakl, dal naufragio dell'impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande
Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo
sradicamento, e dall'angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan
soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e
responsabile.
Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa
disperata non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è
disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è
veramente un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando
sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda
lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa
tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna con il
rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma
insieme ci defreuda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e
ci allontana. Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che
imitato. Se il suo è un messaggio , esso va perduto nel "rumore di fondo": non è una
comunicazione , non è un linguaggio , o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto
quello di colui che sta per morire , ed è solo , come tutti lo saremo in punto di morte. Ma
poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una
responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e
far sì che ogni parola vada a segno.
Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere malvezzo di
alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio
repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli
imperi coloniali. E' un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice
"Omnia munda mundis" in latino e fra Fazio che il latino non lo sa, a quest'ultimo, "al sentir
quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente… parve che in quelle
dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: 'Basta! Lei ne sa più di
me'".
Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale si possa esprimere quell'altra oscurità di
cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per
dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos
ultimo a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro. Finché viviamo, e
qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più
utili (e graditi) agli altri ed a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore
sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un
codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male
deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori
alla fatica, all'angoscia o alla noia.
Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e
volgari, ma questi sono altri discorsi. Se non si è chiari non c'è messaggio affatto. Il mugolio
animali è accettabile da parte degli animali, dei moribondi dei folli e dei disperati: l'uomo sano
ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, e si condanna a non avere lettori. Il
discorso fra uomini, in lingua d'uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché
debba essere meno poetico di questo.
Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme.
Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno
scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto
non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo.